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INTRODUZIONE
CAPITOLO 1
SOCIETÀ E DIRITTO
SOMMARIO: 1. Società e regole di condotta. – 2. Regole sociali e regole giuridiche. – 3.
Nozione di norma giuridica. – 4. Pluralità degli ordinamenti giuridici. – 5. Diritto e
giustizia. Il diritto naturale. – 6. Storicismo, positivismo e dottrina pura del diritto. – 7.
Neogiusnaturalismo e problemi di giustificazione del diritto. – 8. Consenso, giustizia e
forza.
1. Società e regole di condotta.
La vita associata presuppone delle regole che disciplinino il comportamento dei singoli e, così, stabiliscano che cosa è permesso fare e che cosa è
vietato, quale sia l’ambito di libertà di ciascuno e quali i comportamenti
che i consociati debbono obbligatoriamente tenere. In mancanza di regole
di tal genere viene meno la stessa possibilità di instaurare rapporti fra gli
uomini, anche di semplice contatto, e tanto più, dunque, la possibilità di
creare una qualsiasi organizzazione sociale.
La vita associata, d’altra parte, si presenta come esigenza e dimensione
irrinunciabile per l’individuo, che già alla nascita sperimenta la realtà del
bisogno e, così, la necessità di un rapporto con altri – e in primo luogo con
i genitori – senza il quale l’individuo stesso non sopravvivrebbe. Del resto
pur l’individuo adulto che, in ipotesi, fosse in grado di provvedere autonomamente ai propri bisogni, constata che una più completa soddisfazione
di essi si realizza tramite la collaborazione con altri esseri umani, sì che
l’uomo si trova, anche per questo, naturalmente inclinato alla vita associata. Carattere coessenziale all’uomo è perciò la sua relazionalità, l’essere in
(necessario) rapporto con altri esseri umani, sì che l’esigenza di una rego-
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lamentazione di tali rapporti è connaturale all’uomo, costituendo necessaria premessa di qualsiasi piano o progetto che voglia ‘rimediare’ a quella
finitezza.
Si pone, pertanto, l’esigenza di regole di organizzazione della società e di
regole di condotta nei rapporti fra gli uomini: è questo, in termini molto
semplificati, il fenomeno del «diritto», che si presenta dunque come
l’insieme delle regole di condotta e di organizzazione di una collettività
umana. È del resto osservazione corrente quella relativa al nesso strettissimo e necessario tra società e diritto, nel senso che non si dà società, per
quanto rudimentale o primitiva, senza regole sulla sua organizzazione e sui
rapporti reciproci fra i suoi membri (ubi societas, ibi ius), e, per converso,
una regolamentazione dei rapporti tra gli esseri umani, per quanto elementare, dà luogo a una forma sia pur minima di società (ubi ius, ibi societas).
Con riferimento alle società odierne, è agevole constatare la presenza di
numerosissime regole: esse predeterminano la condotta umana e rendono
perciò possibile una ordinata convivenza basata (anche) sulla previsione o
attesa di determinati comportamenti altrui con cui coordinare la propria
attività.
Si rende possibile così, anzitutto, prevenire i conflitti (ad es., circa
l’appropriazione di un bene della vita) delimitando le sfere di ciò che a ciascuno è garantito. Ciò comporta, di riflesso, la determinazione di ciò che
agli altri non è consentito – in quanto spettante ai primi – e consente altresì di qualificare come deviante il comportamento di chi non si adegua alla
norma di condotta e di prevedere poi conseguenze negative per tale violazione.
2. Regole sociali e regole giuridiche.
Non tutte le regole che rendono possibile una ordinata convivenza sociale sono anche norme ‘giuridiche’; vi sono numerose regole che, pur disciplinando i comportamenti umani, sono estranee alla sfera del diritto
appartenendo ad ambiti diversi: la religione, la morale, il costume.
Così, soccorrere i bisognosi è regola religiosa e morale, non anche giuridica; salutare i conoscenti e cedere il posto agli anziani sono regole di
cortesia, non anche norme che la società organizzata assume come proprie,
garantendone l’osservanza. Altre regole invece sono al contempo precetti
morali (o religiosi) e giuridici: tenere fede alla parola data, non rubare, pagare i debiti, e così via.
Non v’è tuttavia, al riguardo, un rapporto costante e univoco: sinteti-
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camente, può dirsi che costituiscono (oggetto di) regole giuridiche soltanto
i comportamenti che ciascuna società, in modo variabile nel tempo e nello
spazio, ritiene essenziali, o almeno importanti, per il perseguimento dei
propri fini. In concreto perciò si prospetta un diverso, possibile atteggiarsi
dei rapporti fra le norme giuridiche e le altre regole di convivenza. Può
aversi infatti coincidenza di valutazioni: ad es., non uccidere è precetto insieme religioso, morale e giuridico; può darsi poi indifferenza reciproca tra
le due sfere: le regole di cortesia, i rapporti di amicizia e sentimentali, pur
di grande rilievo nella vita umana, sono di norma irrilevanti per il diritto.
Ma può aversi, ancora, un conflitto fra quanto prescritto da una norma etica o religiosa e l’ordinamento della società politica: si pensi ad es. ai casi di
rifiuto di trasfusioni di sangue per motivi religiosi.
Non v’è, dunque, coincidenza necessaria tra le prescrizioni giuridiche e
le altre prescrizioni morali o sociali e il nostro è uno degli ordinamenti nei
quali è più nettamente marcata la distinzione tra i due tipi di regole. Sarebbe tuttavia erroneo ritenere che la distinzione significhi anche separatezza o indifferenza reciproca: per un verso è indubbio che, di regola, il rispetto delle norme giuridiche costituisce anche puntuale precetto morale;
per l’altro, le regole etiche innervano tutto l’ordinamento giuridico e più in
generale l’intera organizzazione sociale, che semplicemente non potrebbe
sopravvivere senza di esse: sarebbe come un corpo senz’anima e senza vita.
Regole morali e regole giuridiche comunque non si identificano le une
con le altre e si pone allora l’esigenza di distinguere le norme giuridiche dalle altre regole e, in particolare, di accertare se le norme giuridiche si caratterizzano per un loro specifico contenuto o carattere intrinseco.
3. Nozione di norma giuridica.
L’impostazione più diffusa ritiene che il carattere distintivo delle norme
giuridiche vada individuato nella presenza di una sanzione, cioè di una
conseguenza negativa prevista per il caso di violazione delle norme stesse:
ad es., la restituzione delle cose rubate o il risarcimento dei danni, il pagamento di una multa o la reclusione, e così via.
A questo proposito obiettano alcuni che tutte le regole di condotta, giuridiche e non, sono caratterizzate da una conseguenza sfavorevole, o sanzione, per il caso della loro inosservanza. E quindi tale estremo non sarebbe sufficiente a differenziare le une dalle altre.
In realtà, è agevole rilevare che non vi è omogeneità nel tipo di sanzioni
previste per le varie regole: altro è la riprovazione sociale per chi spettegola
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sul conto altrui, altro è la condanna penale per diffamazione e la condanna
civile al risarcimento dei danni. E ancora, mentre la riprovazione sociale è
spontanea e può essere più o meno intensa (in relazione alle circostanze e
alla sensibilità del gruppo cui il soggetto appartiene) fino a poter mancare
del tutto, la sanzione giuridica – ricorrendo le relative condizioni – deve
essere irrogata e ne viene poi garantita, da appositi organi, l’esecuzione
coattiva. In altre parole, mentre la prima conseguenza è soltanto possibile,
indeterminata nella sua ‘portata’ e affidata alla spontanea reazione dei
membri del gruppo, la sanzione giuridica è anzitutto predeterminata nel
contenuto e verrà poi necessariamente irrogata, in quanto affidata ad appositi organi che hanno istituzionalmente il compito di far rispettare le regole
giuridiche.
Appare corretta pertanto la definizione delle norme giuridiche – o diritto in senso oggettivo – come l’insieme delle regole di condotta garantite da
una organizzazione sociale. «Diritto», in tale accezione, è il complesso delle
norme e prescrizioni che formano l’«ordinamento giuridico» di un “gruppo sociale organizzato”, sia esso la società politica generale (lo Stato), sia
esso un gruppo più ristretto (e v. § seguente).
In tal modo si coglie la differenza essenziale tra norme giuridiche e norme (soltanto)
sociali; differenza, che va ricondotta essenzialmente al diverso grado di coesione e di organizzazione del gruppo di cui la regola è espressione. Può dirsi anzi che, ove manchi un
minimo di organizzazione nel gruppo, non si oltrepassa la soglia del pregiuridico, del meramente sociale e la regola non può qualificarsi come giuridica in senso proprio. A tal fine
occorrerà che il gruppo si strutturi organizzativamente in una istituzione o, come anche
avviene, che la regola, originatasi nel corpo sociale diffuso o in un ambito più ristretto,
venga recepita come propria da un “ordinamento giuridico”. Così, le regole di correttezza
diffuse in un certo ambito (ad es., tra i commercianti) possono venire recepite nelle norme deontologiche (o “ordinamento giuridico”) della relativa associazione professionale –
divenendo vincolanti per tutti gli aderenti – o nell’ordinamento giuridico statuale, divenendo in tal caso obbligatorie per tutti i cittadini. Con qualche approssimazione allora
può dirsi che si è in presenza di un ordinamento giuridico quando, con riferimento a un
determinato gruppo sociale:
1) sussiste un minimo di norme fra loro coerenti e coordinate;
2) sono previste specifiche sanzioni per la loro violazione;
3) esistono degli organi che hanno il compito di applicare tali sanzioni e di introdurre
o modificare le regole di condotta per gli appartenenti al gruppo.
Le norme giuridiche, in conclusione, sono espressione di un gruppo sociale organizzato e disciplinano la vita stessa del gruppo.
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4. Pluralità degli ordinamenti giuridici.
Se dunque la “giuridicità” delle norme si collega all’esistenza di un
gruppo sociale organizzato, deve riconoscersi che non esiste un solo ordinamento, bensì una pluralità di ordinamenti giuridici: tanti quanti sono i
gruppi organizzati che abbiano le caratteristiche di cui s’è detto.
Nell’esperienza storica contemporanea le società dotate del maggior grado di coesione e di organizzazione sono quelle organizzate in Stati nazionali,
e il diritto statuale anzi, come si vedrà, si pone in via di fatto in posizione di
preminenza rispetto agli altri. Ma costituiscono inoltre ordinamenti giuridici
sicuramente sovrani, e cioè indipendenti, il diritto internazionale – come ordinamento che rivolge le proprie norme direttamente agli Stati – e il diritto
canonico, di cui sono destinatari i fedeli della Chiesa cattolica.
Meno pacifico, o addirittura contestato, è che costituisca un vero e
proprio ordinamento giuridico l’ordinamento dei gruppi minori o infrastatuali, e in particolare quello delle associazioni, dei partiti politici, dei sindacati. Tuttavia, ove si abbia riguardo alla concreta strutturazione e alla
vita di tali gruppi, sembra difficile negare tale caratteristica: si pensi, ad
es., al complesso regolamento della Federazione calcistica, alle regole imposte alle squadre e ai singoli giocatori, agli organi di giustizia sportiva, alle sanzioni – a volte patrimonialmente rilevantissime – previste per la violazione delle norme.
Vero è piuttosto che la pluralità degli ordinamenti prospetta in termini
più ampi – di rapporti e/o conflitti fra gruppi sociali – quel problema dei
rapporti e delle interferenze reciproche che già si pone in via generale per
le regole di condotta di diversa origine. L’esperienza contemporanea è caratterizzata dalla preminenza dell’apparato e dell’ordinamento dello Stato.
Esso infatti si presenta come il gruppo meglio organizzato e di maggiore
complessità sia quanto a normazione giuridica, sia quanto alla detenzione
del potere, cioè della forza, per realizzare la coattiva osservanza delle regole (ciò che manca ad es. al diritto internazionale, per la riluttanza degli Stati a sottomettersi ad una superiore autorità, e al diritto canonico, anche per
la peculiarità dei suoi fini). Si aggiunga che lo Stato si presenta oggi come
una società politica a fini generali, con fini cioè non predeterminati o circoscritti, e tende anzi ad estendere la sua azione fino ad accompagnare
l’individuo, come è stato detto, «dalla culla alla tomba».
In un modo o nell’altro, pertanto, i vari ordinamenti giuridici devono
fare i conti con l’ordinamento statuale e, sinteticamente, può dirsi che la
preminenza di cui s’è detto si traduce nella subordinazione degli altri ordinamenti al diritto dello Stato. Le loro prescrizioni infatti in tanto potranno
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trovare applicazione in quanto non confliggano con esso. In altre parole,
l’ordinamento statuale consente l’attuazione delle norme di altri ordinamenti soltanto se esse risultano compatibili con le sue prescrizioni: in caso
diverso, i comportamenti – e le stesse regole ‘estranee’ – saranno qualificati come illeciti e soggetti alle relative ‘sanzioni’.
Di tale regola costituiva espressione esemplare l’art. 31 disp. prel. al
c.c., a tenore del quale «le leggi e gli atti di uno stato estero, gli ordinamenti e gli atti di qualunque istituzione o ente ... [non] possono avere effetto nel territorio dello stato, quando siano contrari all’ordine pubblico o
al buon costume», e cioè a principi e regole ritenuti fondamentali dallo
Stato italiano (v. § 35.6). Tale norma è stata di recente formalmente soppressa – nel quadro del riordino complessivo della specifica materia in cui
si inseriva –, ma il relativo principio deve ritenersi tuttora vigente, emergendo da una interpretazione sistematica.
Si prospetta allora un problema di rapporti (nonché di potenziale conflitto) fra i diversi sistemi giuridici la cui ‘definizione’, nel quadro della ricordata preminenza del diritto statuale, può essere così sintetizzata.
Può darsi anzitutto una reciproca irrilevanza: così è, ad es., per i precetti soltanto religiosi, la cui violazione o adempimento non rileva in linea di
principio per l’ordinamento dello Stato. Può darsi poi riconoscimento, nel
senso che le norme estranee vengono “fatte proprie” dal diritto statuale,
che può prestare assistenza alla loro attuazione (ad es., per le norme di stati esteri, alcune norme del diritto canonico, gli statuti di associazioni, etc.:
v. § 3.7). Può darsi infine incompatibilità (ad es., con le leggi straniere che
ammettono la bigamia), con conseguente disapplicazione di tali previsioni
ed eventuale reazione volta a ripristinare l’ordine pubblico turbato. Di alcune questioni specifiche, relative ai rapporti tra diversi ordinamenti giuridici, diremo brevemente nel prosieguo (§ 3.7).
5. Diritto e giustizia. Il diritto naturale.
Il diritto, dunque, è espressione di un gruppo sociale e tende ad assicurare l’ordinata convivenza dei suoi membri e l’appagamento dei bisogni
umani in vista dei quali è costituito il gruppo stesso. È ovvio d’altra parte
che non qualsiasi disciplina, se pure assicura l’ordine, garantisce la migliore soddisfazione di quei bisogni, ma soltanto quella che dia «a ciascuno il
suo», in quanto attua una equa, e cioè ottimale, ripartizione delle risorse e
una giusta articolazione dei rapporti umani. Una norma, ad es., che semplicemente ammettesse la libera appropriazione dei beni – senza neppure
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il limite ‘minimo’ del rispetto di precedenti appropriazioni – sarebbe in
contraddizione con se stessa, perché equivarrebbe a dire che non v’è altra
regola se non quella della forza; sarebbe perciò una non-regola, la negazione del concetto stesso di norma per l’azione e perciò della fondamentale relazionalità dell’uomo (oltre che, naturalmente, fonte di negazione e di
dissoluzione del gruppo sociale).
Ora, se l’esigenza di giustizia nelle norme è in sé evidente, in quanto
connaturata all’idea stessa di regola, non è affatto semplice dire in cosa
consista in concreto la giustizia, cosa sia il ‘suo’ che spetta a ciascuno.
Nondimeno, l’aspirazione alla giustizia del diritto ha accompagnato costantemente la riflessione filosofica e politica sul tema che, accanto al diritto positivo (o ius in civitate positum, secondo la formula latina), ha sistematicamente fatto riferimento al diritto naturale, come ordinamento o insieme
di principi non arbitrari, legato alla natura e alla ragione umana di là dalle
contingenze storiche e dal volere dei prìncipi, nella aspirazione a fondare
una convivenza umana basata sulla forza della ragione, piuttosto che sulle
ragioni della forza.
Storicamente, l’espressione diritto naturale si deve ad Aristotele (IV sec. a.C.), il quale
non esitò a riconoscere l’esistenza di un diritto universale, come diritto non scritto di cui
tutti gli uomini hanno intuizione, in quanto legato alla natura razionale e sociale dell’uomo, e perciò idoneo a prevalere sul diritto storicamente vigente nelle diverse società.
L’esigenza e l’aspirazione a una superiore giustizia, oltre i limiti del diritto positivo, operò profondamente anche nella cultura giuridica romana, finendo col trasformare incisivamente l’intero sistema giuridico. Conformemente peraltro allo spirito essenzialmente pratico della civiltà romana, non ci si prospettò in termini teorici il problema del fondamento di
tale superiore giustizia. Fu piuttosto l’opera della magistratura che venne lentamente integrando il diritto positivo, man mano che l’espansione romana rendeva più frequenti i contatti con altri popoli. In particolare, il praetor temperò l’originario rigore formalistico del ius
civile col cd. ius gentium, e cioè con principi e regole fondati sulla ragione e sulla buona fede che, in quanto tali, sono condivise da tutte le genti e patrimonio comune dell’umanità.
Tappa fra le più significative della riflessione sul diritto naturale è quella segnata da
san Tommaso d’Aquino (XIII sec.) che inquadrò il problema, nella visione teocentrica tipica della filosofia scolastica, nel rapporto con la legge divina da un lato e la legge umana
(o diritto positivo) dall’altro. La legge divina è rivelata direttamente da Dio tramite le
Scritture; la legge naturale è la legge eterna scritta da Dio nell’ordine della natura ma scoperta dall’uomo con il retto uso della ragione; la legge umana è posta dagli uomini, in maniera storicamente variabile, e vincola in coscienza ove sia giusta: ove non violi cioè né la
legge divina né quella naturale (e per quel tanto di essa che la ragione umana, in modo
variabile nel tempo e nello spazio, è in grado di percepire).
Al giusnaturalismo (XVII sec.) si deve l’elaborazione più complessa, e di maggiore
‘successo’ storico, dell’idea di diritto naturale. Anche in esso la legge di natura è legata
alla ragione, ma con un essenziale mutamento di prospettiva rispetto alla filosofia scolastica.
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La prospettiva antropocentrica, emersa dall’umanesimo e dal rinascimento, indusse a vedere
nella ragione non un semplice strumento (per scoprire ciò che è già oggettivamente insito
nella natura delle cose), bensì lo stesso fondamento di una legge che è universale e immutabile in quanto legata a un dato costante nel variare delle civiltà e dei tempi: la natura razionale e sociale dell’uomo. Il diritto naturale, come insieme di principi eterni e immutabili,
viene a costituire così non più soltanto un limite esterno da non travalicare (come nell’impostazione di san Tommaso), bensì un modello per la legge positiva, prospettando l’esigenza
di un sistematico adeguamento delle leggi al modello del diritto naturale.
Tale compito, in effetti, fu affrontato dal movimento di pensiero che va sotto il nome
di illuminismo (XVIII sec.) e culminò da un lato nella «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», proclamata dalla assemblea rivoluzionaria francese, e dall’altro nell’imponente opera di codificazione, e cioè di ‘riscrittura’ e razionalizzazione di tutta la legislazione in testi normativi unitari e sistematici (appunto, i «codici»), che impegnò praticamente tutti gli Stati europei continentali nel corso dell’800.
6. Storicismo, positivismo e dottrina pura del diritto.
Il romanticismo segnò la temperie culturale del XIX secolo nel segno di
una decisa reazione al “freddo razionalismo” del «secolo dei lumi». Più
specificamente, lo storicismo, nel quadro di una esaltazione della tradizione storica e dello ‘specifico’ culturale e sociale di ciascun popolo, respinse
decisamente l’idea di una legge universale ed eterna. Il diritto, si osservò,
muta storicamente in connessione con le diverse civiltà che si succedono
nel tempo e nello spazio: è pertanto prodotto dalla cultura dei diversi popoli, si evolve con essa e ne è condizionato totalmente.
La critica dei fondamenti teorici del giusnaturalismo fu condotta a termine dal positivismo giuridico, espressione di un più ampio movimento filosofico – appunto, il positivismo – che fu il vero denominatore culturale
del secolo XIX: le scoperte sempre più esaltanti della scienza e le sorprendenti realizzazioni della tecnologia determinarono una cieca fiducia nel
progresso, come processo inarrestabile e in costante ascesa che avrebbe determinato un progressivo, sicuro miglioramento di quelle che furono definite «le magnifiche sorti, e progressive» dell’umanità. È alla scienza che
spetta dunque il ruolo di guida della società e la scienza giuridica, se scientifica vuole essere, può occuparsi solo di indagare la realtà ‘oggettiva’ delle
norme positive, per come esse sono in un dato momento storico, non può
affrontare questioni ‘soggettive’ e opinabili come i valori etici e la giustizia.
Compito della scienza giuridica sarà pertanto lo studio e l’interpretazione
del diritto (positivo) come è, non come si vorrebbe che fosse.
Infine, la cd. dottrina pura del diritto (elaborata in particolare nel secolo
XX) portò alle estreme conseguenze tale impostazione, escludendo radi-
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calmente il problema della giustizia dalle questioni in senso proprio giuridiche: le norme, si affermò, sono giuridiche se ed in quanto formalmente poste
dagli organi ai quali, nei diversi ordinamenti, spetta tale compito. Verificata
la loro regolarità formale, il diritto resta valido e vincolante pur se ingiusto,
né, comunque, è compito del giurista occuparsi di tali problemi.
7. Neogiusnaturalismo e problemi di giustificazione del diritto.
Il positivismo giuridico e la dottrina pura del diritto, nel respingere come non pertinente il problema della giustizia, muovono da avvertite esigenze di rigore e da scrupoli di oggettività che, in effetti, sono essi stessi
coerenti ai bisogni che fondano l’esigenza di regolamentazione dei comportamenti, posto che la certezza del diritto favorisce indubbiamente l’ordine e costituisce essa stessa centrale istanza di giustizia.
Al contempo, però, tali impostazioni trascurano l’esigenza fondamentale
per cui l’esperienza sociale pone le regole giuridiche: l’esigenza non è quella
di assicurare un qualsiasi ordine, bensì un ordine che sia anche giusto. Inoltre,
tali impostazioni muovono in realtà da un presupposto implicito e nient’affatto scientifico: la convinzione o valutazione circa la ‘giustizia’ complessiva
del sistema che si sforzano di chiarire e interpretare scientificamente.
Non a caso, d’altra parte, la seconda metà del ’900 ha conosciuto un rifiorire degli studi sul diritto naturale (cd. neogiusnaturalismo): invero, le impostazioni positivistiche hanno fornito uno dei supporti teorici per legittimare le barbarie di cui il secolo scorso si è reso responsabile, discriminando
ed eliminando fisicamente milioni di persone, appartenenti a “razze inferiori” o a “classi ostili”. Se invero si ritiene regola di diritto quella (e solo quella) che è formalmente posta come tale, né sono configurabili limiti intrinseci
o interni alle prescrizioni della legge, nessun rimprovero dovrebbe potersi
muovere a chi ha emanato ad es. le norme sull’eugenetica razziale né a chi si
è materialmente prestato alla loro attuazione. E se tale conclusione ci ripugna invincibilmente, è segno che, per quanto gravi siano le difficoltà a precisare che cosa è giusto e che cosa non lo è, non si può puramente e semplicemente espellere il problema della giustizia dalla nozione di diritto.
8. Consenso, giustizia e forza.
La gran parte degli ordinamenti attuali, basati su sistemi di democrazia
rappresentativa, fondano essenzialmente la loro legittimazione sul consenso popolare, mentre la dialettica di partiti e ideologie, collegata alle libertà
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di associazione e di manifestazione del pensiero, assicurano la partecipazione di tutti alle decisioni di comune interesse. Pertanto, almeno gli aspetti di maggiore importanza dell’organizzazione sociale tengono conto, sia
pure con vari compromessi, delle esigenze di tutti, assicurando indirettamente (quella che riteniamo) una accettabile ripartizione delle risorse ed
una complessiva giustizia del sistema, almeno nel senso che dà un minimo
di garanzie a tutti.
E se il sistema democratico è comunemente giudicato il migliore finora
escogitato per assicurare più diffusa giustizia sociale, eguaglianza e partecipazione di tutti alle scelte di interesse generale – anzi, se vogliamo, ci appare talmente ‘giusto’ che ci è difficile immaginarne uno ad esso preferibile –, occorre però abbandonare l’idea che il consenso popolare garantisca,
di per sé, la giustizia del sistema. Non ci si può illudere che i regimi dittatoriali si reggano soltanto sulla forza. Nessuna forza sarebbe bastevole se
non vi fosse un consenso di fondo almeno sulle strutture globali e sulle
scelte politiche complessive del sistema.
A tale riguardo anzi taluno paventa il rischio che la democrazia, proprio perché si affida alla regola del consenso, possa degradare a una “dittatura della maggioranza” che, in
ipotesi, potrebbe conculcare i diritti delle minoranze o, al limite, comprimere o negare i
diritti fondamentali dei singoli. Va considerato tuttavia che il sistema democratico non
consiste nel mero rispetto formale delle regole, e in particolare della regola che conta il
“numero dei voti”: al contrario, già per il fatto di attribuire uguale valore al “voto” di ciascuno pone a proprio fondamento l’uguale dignità e valore di ogni essere umano – che
perciò non potrebbero essere negati senza inficiare in radice la stessa base fondativa del
sistema – e come fine ultimo (e criterio regolativo della sua azione) la tutela della persona
e il perseguimento del bene comune (come sintesi e somma riassuntiva del bene dei singoli). La questione richiederebbe più ampio discorso. Qui può essere sufficiente rammentare che l’eguale libertà delle persone implica anzitutto la pari rilevanza – in termini di
rispetto, tutela, garanzia – di ogni essere umano «senza distinzioni di sesso, di razza, di
lingua, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (art. 2 Cost.), tra le quali
«condizioni», in particolare, vanno annoverate le capacità, le attitudini, lo stato di salute,
l’età, l’eventuale debolezza economica o psichica (cfr. art. 21 Carta europea dei dir. fondamentali; ma sul principio di uguaglianza v. § 4.2).
D’altra parte, come dimostra l’esperienza quotidiana, pur i sistemi democratici non possono fare a meno della forza per garantire l’osservanza
delle norme. Le ricorrenti utopie sull’avvento di un’era in cui il diritto diverrà inutile – perché la completa giustizia del sistema ne garantirà il rispetto spontaneo e totale – sono state puntualmente smentite dalla storia
e, a ben vedere, traggono origine da uno stesso orgoglio di fondo che,
quando non è totalmente scettico sulla possibilità di conoscere che cosa sia
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giusto, si mostra per contro insofferente di una giustizia limitata e parziale,
quale soltanto, invece, è consentita alla finitezza umana.
Infine, pur se problematica sul piano teoretico, la questione della giustizia si riaffaccia prepotentemente nell’applicazione quotidiana del diritto:
trova spazio nella interpretazione delle leggi e nel margine che essa lascia
all’interprete (§ 3.2), ma è sottesa altresì già alle leggi formali, ad es. là dove
si parla di «riconoscimento» dei «diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» (art. 2 Cost.).
Grande impulso comunque va acquistando la dottrina del diritto naturale dal crescente sviluppo del diritto sovrastatuale (comunitario e internazionale: § 2.5): in esso invero emerge una generale tendenza a vagliare il
rispetto dei diritti inviolabili della persona da parte delle legislazioni nazionali fondandosi sui «principi e le tradizioni comuni» ai diversi paesi. In
particolare, le corti europee di giustizia hanno più volte giudicato illegittime talune restrizioni ai diritti fondamentali, pur previste da norme di diritto positivo, in quanto contrastanti col canone della «ragionevolezza». Di
per sé, la ragionevolezza è la veste, dimessa e pragmatica, sotto la quale
soltanto oggi ardisce presentarsi in pubblico la «ragione» di cui s’è detto,
raggelata dalle tante correnti relativiste del nostro tempo; in concreto, essa
finisce col porre alla base delle decisioni la regola del bilanciamento tra tutti gli interessi in conflitto: criterio, in sé non “irragionevole”, ma certo di
non assoluta coerenza con l’idea della salvaguardia dei diritti inviolabili di
ciascuno.
E se il dibattito sui fondamenti teoretici del «diritto naturale» rimane
aperto, non è meno vero che attualmente sussiste un generale riconoscimento che individua nella dignità e nel valore della persona umana non solo il fondamento «inviolabile» dei diritti della persona, e perciò un argine
esterno all’arbitrio del legislatore, ma anche una positiva indicazione di
principio che orienti la legge a una sua sempre maggiore tutela e promozione, configurando così l’istanza di giustizia (almeno) come irrinunciabile
esigenza di ogni umano diritto.
CAPITOLO 2
FONTI DEL DIRITTO POSITIVO
SOMMARIO: 1. Il diritto positivo. Caratteri della norma giuridica. – 2. Fonti di produzione e fonti di cognizione del diritto. – 3. Gerarchia delle fonti. – 4. La Costituzione. –
5. I regolamenti comunitari. – 6. Le leggi ordinarie. Il codice civile. – 7. Le leggi regionali. – 8. I regolamenti. – 9. Le fonti non scritte. Gli usi. – 10. La giurisprudenza. – 11.
L’equità.– 12. Gli atti di autonomia privata.
1. Il diritto positivo. Caratteri della norma giuridica.
Il diritto positivo, dunque, è l’insieme delle norme che compongono l’ordinamento giuridico di una data collettività in un certo momento storico: si
dice positivo in quanto formalmente posto (cd. ius in civitate positum) dagli
organi competenti in base alle regole specificamente dettate in proposito
(§ 2.3).
Rispetto all’insieme del «diritto» o «ordinamento giuridico», allora, la
norma costituisce uno dei suoi elementi-base, una delle tante regole da cui
l’ordinamento stesso è composto (ad es., «nell’adempiere l’obbligazione il
debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia»: art. 1176; ovvero: «le costruzioni su fondi confinanti devono essere tenute a distanza
non inferiore a tre metri»: art. 873 c.c., e così via). Ad essa dedicheremo
brevemente attenzione prima di iniziare il discorso relativo alle fonti del
diritto positivo.
Caratteri tipici della norma giuridica sono la generalità, l’astrattezza,
l’imperatività.
La norma è generale in quanto indirizza il suo precetto non specificamente a un singolo individuo, bensì a tutti, alla generalità dei consociati, o
almeno agli appartenenti ad una determinata categoria (gli studenti universitari, i commercianti, etc.).
La norma è astratta in quanto detta una regola destinata a disciplinare
non questo o quel rapporto concreto, bensì tutti i rapporti e le situazioni
suscettibili di rientrare nello schema o modello prefigurato (tutti i contratti che rientrano nello schema della compravendita, della locazione, e
così via).
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La norma è inoltre imperativa, non si limita a dare un consiglio: impone
piuttosto di attenersi a un certo comportamento, pena l’irrogazione di una
sanzione, e cioè di una conseguenza sfavorevole per l’inosservanza del precetto (pagare una multa, risarcire il danno, non conseguire la proprietà del
bene, e così via). Ad es., l’art. 1218 c.c. dispone: «il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno».
Dunque, chiunque si trovi ad essere debitore (carattere della ‘generalità’)
di una qualsiasi prestazione (dare denaro, effettuare un trasporto, etc.: carattere della ‘astrattezza’), ove non adempia, subirà la conseguenza di dover risarcire il danno (‘imperatività’ o sanzione).
Tali caratteri sono tipici, in quanto si riscontrano nella stragrande maggioranza delle norme e sono perciò elementi caratterizzanti delle norme
stesse; essi inoltre appaiono di particolare rilievo in relazione alla funzione
ordinante del sistema, consentendo di disciplinare in maniera uniforme e
stabile l’assetto complessivo dei rapporti sociali.
Detti caratteri peraltro non sono anche inderogabilmente necessari, potendo darsi norme che ne sono privi.
Il punto richiede qualche precisazione.
1) Quanto alla generalità, essa anzitutto va intesa appropriatamente. Per un verso essa
si riscontra sia nei precetti riferiti indistintamente a tutti (norme generali in senso stretto),
sia in quelli specificamente dettati per alcune categorie di persone (cdd. norme speciali: ad
es., minori d’età, consumatori, imprenditori): anche in quest’ultimo caso il carattere della
generalità non manca, perché la norma si riferisce a tutti coloro i quali rivestono la qualità
indicata; manca invece nelle norme eccezionali, che costituiscono cioè deroga a una regola
più generale (ad es., le norme che attribuiscono un diritto potestativo, e cioè il potere di
incidere sulla sfera giuridica altrui) e nelle norme particolari, dettate per uno specifico
soggetto (ad es., la legge che crea un determinato ente pubblico).
2) Quanto alla astrattezza, essa consiste nel fatto che la norma non detta una regola
destinata a disciplinare specificamente questo o quel rapporto concreto, bensì tutti i rapporti e le situazioni suscettibili di rientrare nello schema o modello prefigurato (ad es.,
tutte le obbligazioni pecuniarie). Essa, d’altra parte, non va confusa con la tecnica di redazione del testo normativo: vi sono infatti norme analitiche, che descrivono in modo dettagliato la fattispecie regolata, specificando requisiti e condizioni per la sua applicazione
(v. ad es. art. 1447) fino a giungere talvolta alla tassatività delle ipotesi che debbono ricondursi alla regola in questione (ad es., art. 13412) e ciò, se soddisfa l’esigenza di certezza del diritto, al contempo “ingessa” la previsione e rischia di lasciare prive di disciplina
altre fattispecie (ma v. infra, § 3.4). Ma vi sono anche regole dettate tramite clausole generali, e cioè tramite norme formulate in modo elastico: il loro contenuto deve essere precisato dall’interprete tenendo conto del modo in cui l’ambiente sociale intende determinati
criteri di condotta in un certo momento storico: ad es., buona fede, buon costume, normale tollerabilità. Si riduce in tal modo il tasso di certezza del diritto, ma il sistema si apre
14
INTRODUZIONE
[CAP. 2]
ai mutamenti sociali e se ne assicura un costante adeguamento alle esigenze e agli interessi
via via emergenti nella collettività. L’astrattezza invece viene meno quando una norma
provvede per singoli fatti o accadimenti: ad es., dispone speciali provvidenze per le popolazioni colpite da uno specifico disastro naturale.
3) Infine, va precisato fin da ora che nell’ambito del diritto privato l’imperatività assume un significato del tutto peculiare, essendo frequentemente consentito agli interessati
derogare alla disciplina legale (v. § 4.3).
***
Generalità, astrattezza e imperatività, dunque, non sono caratteri sempre necessari; e tuttavia essi costituiscono una importante garanzia sia in
ordine alla certezza del diritto, sia in relazione alle esigenze di giustizia. Un
sistema giuridico ricco di norme ‘particolari’, valevoli solo per alcuni e non
per tutti, rende incerto e difficoltoso l’accertamento del diritto vigente e
intralcia la rapidità del traffico giuridico e delle operazioni economiche.
Ad es., gli affittuari e i coltivatori diretti confinanti hanno diritto di prelazione (cioè di preferenza) in caso di vendita di un fondo rustico: pertanto,
se voglio acquistare o vendere dovrò accertare chi sono i confinanti, se
hanno la qualifica di «coltivatori diretti», se sono interessati all’acquisto,
etc., rallentando così la compravendita dei terreni.
Quanto alle esigenze di giustizia, non è difficile rendersi conto che una
legge ‘particolare’ rischia di creare situazioni di «privilegio» (che deriva dal
latino lex in privos lata) a favore di alcuni e di discriminazione a carico di
altri. L’opera di codificazione del diritto, intrapresa nel secolo XIX, aveva
fra l’altro proprio lo scopo di uniformare la disciplina, eliminando alcune
delle situazioni di privilegio accumulatesi nel corso dei secoli. Oggi,
l’avvertita esigenza di una eguaglianza sostanziale (§ 4.1) ha condotto a una
serie di norme speciali, in favore di determinate categorie di persone (ad
es., lavoratori subordinati, consumatori, affittuari), riproponendo non pochi problemi legati al “particolarismo giuridico”.
2. Fonti di produzione e fonti di cognizione del diritto.
Se il diritto positivo è il diritto vigente in una determinata collettività,
da che cosa nascono, da che cosa traggono origine le norme che lo compongono? Ebbene, si dice correntemente che il diritto scaturisce da alcune
«fonti», cioè da alcuni fatti che lo producono.
Fonti del diritto sono allora i fatti dai quali traggono origine le norme giuridiche e ogni ordinamento ha regole apposite che disciplinano tali “fatti”:
stabiliscono cioè a quali eventi e a quali organi compete la potestà normati-
[CAP. 2]
FONTI DEL DIRITTO POSITIVO
15
va, il potere di introdurre, modificare, abrogare le norme giuridiche.
Nel nostro ordinamento le regole al riguardo sono dettate nelle cd. «disposizioni sulla legge in generale» (o disposizioni preliminari al codice civile, dette in breve preleggi) che sono premesse al testo del codice civile con
una numerazione distinta dei relativi articoli.
A tenore di tali disposizioni, costituiscono fonti del diritto alcuni atti e
fatti, rigorosamente individuati, che si prestano ad essere distinti in fonti
scritte (le leggi e i regolamenti) e fonti non scritte (gli usi; ma v. anche § 2.9).
Su piano diverso opera la distinzione tra fonti di produzione e fonti di cognizione del
diritto. È fonte di produzione ad es. la legge, in quanto considerata quale atto emanato
dall’autorità competente (il Parlamento), dal quale promana la regola giuridica, il comando in essa contenuto. A tale nozione di fonte si riferiscono gli art. 1 ss. delle «disposizioni
sulla legge in generale».
È fonte di cognizione, invece, l’enunciato linguistico o ‘comunicativo’ – per lo più un
testo scritto – nel quale è formulata la regola giuridica: ad esso occorrerà fare riferimento
per conoscere il “contenuto sostanziale” della norma, e cioè il comportamento comandato o vietato.
Si tratta, in definitiva, della distinzione fra contenente e contenuto, fra segni (formali o
esteriori) di linguaggio e contenuto (sostanziale) della comunicazione. Ogni specie di comunicazione infatti viene sì esternata (e con ciò stesso comunicata ad altri) tramite dei
mezzi o «segni», ma non si identifica con essi, come è dimostrato dal fatto che uno stesso
messaggio può essere espresso tramite segni diversi. Ad es., posso salutare un conoscente
o comunicare la mia volontà con uno scritto, con parole, con un gesto: è attraverso
l’interpretazione di tali segni, e dunque la comprensione del loro significato, che il destinatario percepirà il messaggio.
Analogamente, è possibile distinguere il gesto del vigile che ordina di svoltare a destra
dal dovere di comportamento che ne deriva, così come restano distinti il segnale stradale di
divieto di sosta e il comportamento vietato. Anche qui, dalla interpretazione (e perciò
comprensione) dei segni linguistici (che sono la “fonte di cognizione”) si ricaverà il contenuto sostanziale, la regola di condotta contenuta nel testo normativo. E tutto ciò si
esprime, sul piano lessicale, anche distinguendo la “disposizione” dalla “norma”: disposizione è l’enunciato linguistico formulato dal legislatore; norma è la regola sostanziale (di
condotta o di organizzazione) che da essa si ricava tramite l’interpretazione. Di tali problemi ci occuperemo nel cap. 3.
3. Gerarchia delle fonti.
Con riguardo allora alle fonti di produzione del diritto, esse si caratterizzano per la diversa efficacia o forza normativa, nel senso che alcune di esse
hanno prevalenza sulle altre: in caso di contrasto fra le relative previsioni,
prevarranno le norme (promananti da fonti) di grado superiore. Il principio su cui si basa tale regola è semplice da comprendere sol che si conside-
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INTRODUZIONE
[CAP. 2]
ri il caso in cui a un incrocio stradale il semaforo segni rosso e il vigile ordini tuttavia di passare: qui ci sono due comandi contrastanti, ma tutti
sappiamo che in tal caso prevale il comando imposto dal vigile, che, nella
specie, ha “efficacia normativa” superiore. Fatte le debite differenze – e
ricordato che la ‘prevalenza’ del vigile deriva pur sempre dalla stessa legge
che ordina di rispettare il semaforo – il meccanismo risulta concettualmente semplice: alcune fonti normative prevalgono sulle altre.
È questo il principio della gerarchia delle fonti, in virtù del quale le
norme di ciascuna fonte devono ‘cedere’ di fronte a tutte quelle di grado
sovraordinato: pertanto, ove abbiano contenuto incompatibile con quelle
superiori, dovranno ‘soccombere’ e saranno perciò disapplicate (ovvero, in
alcuni casi, cancellate dall’ordinamento). Ad es., se la legge pone come requisito per la partecipazione a un concorso il diploma di maturità mentre
il regolamento ministeriale di esecuzione richiede la laurea, sarà la prima a
prevalere (secondo l’«ordine» delle fonti) e il secondo sarà disapplicato o,
in alcuni casi, annullato, secondo meccanismi che verranno brevemente illustrati nelle pagine seguenti. Il principio di gerarchia dunque risolve le
antinomie tra fonti di grado diverso e corollario di tale principio è la regola per cui le norme promananti da una certa fonte possono essere abrogate
o modificate solo da una fonte di pari grado o superiore.
Ma un contrasto tra discipline ben può emergere anche da fonti pariordinate (ad es., due leggi ordinarie): la composizione di tale contrasto,
come meglio si dirà, è affidata al criterio cronologico e al criterio di specialità (§ 3.4-5).
L’ordine delle fonti è indicato dall’art. 1 delle «disposizioni sulla legge
in generale», ma tale indicazione risulta oggi incompleta per effetto dei
mutamenti istituzionali intervenuti successivamente all’emanazione del
codice civile. In particolare, l’abrogazione dell’ordinamento corporativo,
l’introduzione della Costituzione repubblicana, l’adesione all’Unione europea e l’attuazione dell’ordinamento regionale hanno profondamente inciso sull’originaria configurazione del sistema.
Sono oggi fonti del diritto, nell’ordine: 1) la Costituzione e le altre leggi
costituzionali; 2) i regolamenti comunitari; 3) le leggi ordinarie e gli atti
aventi forza di legge; 4) le leggi regionali; 5) i regolamenti governativi; 6)
gli usi. Ad esse dedicheremo soltanto i cenni indispensabili per l’inquadramento complessivo del discorso sulla nozione di “diritto”, trattandosi
di materia complessa per la quale occorre rinviare alle trattazioni di diritto
pubblico.
[CAP. 2]
FONTI DEL DIRITTO POSITIVO
17
4. La Costituzione.
Dal punto di vista formale la Costituzione è una legge (ossia un «atto
normativo generale»: § 2.6), approvata da un organo legislativo apposito
(l’Assemblea costituente) ed entrata in vigore il 1.1.1948, che contiene le
regole fondamentali sull’assetto politico e istituzionale dello Stato italiano.
In particolare, essa contiene le principali norme organizzative dei pubblici
poteri – Parlamento, Governo, Magistratura – e i principi fondamentali di
riconoscimento e garanzia dei diritti inviolabili della persona: libertà di religione, di pensiero, di associazione; eguaglianza formale e sostanziale; diritto al lavoro; tutela della famiglia; libertà di iniziativa economica, etc.
Essa è dunque la Magna Charta delle libertà civili e, storicamente, è il
frutto dei rivolgimenti politici e istituzionali succeduti al secondo conflitto
mondiale. È chiara perciò la sua rilevanza centrale nell’intero sistema giuridico che, sul piano formale, si esprime anzitutto nel principio di rigidità:
essa, al pari delle altre leggi di rango costituzionale, può essere abrogata o
modificata solo da un’altra «legge costituzionale», e cioè una legge approvata con un particolare procedimento, più rigoroso e fornito di maggiori
garanzie rispetto alle leggi ordinarie (cfr. art. 138 Cost.).
Certo, non è difficile rendersi conto che si tratta di una garanzia solo
formale e che la stessa rigidità della Costituzione, vista nell’ottica delle fonti del diritto, è comune agli altri atti normativi, che possono essere abrogati
o modificati solo da fonti di pari grado o sovraordinate. In buona sostanza,
pertanto, la “immodificabilità” delle scelte istituzionali contenute nella
Costituzione resta affidata al potere politico, ma la stessa necessità di ricorrere a un procedimento aggravato costituisce una indubbia garanzia
contro revisioni avventate della Carta fondamentale.
La posizione di preminenza delle leggi costituzionali si esprime poi nel
principio per cui tutte le disposizioni di fonte diversa – e in particolare le
leggi ordinarie – devono rispettarne le previsioni e le scelte sostanziali: in
caso contrario, esse risulteranno costituzionalmente illegittime. Il compito
di giudicare della legittimità costituzionale delle leggi è affidato alla Corte
costituzionale, che ne giudica a seguito di apposito procedimento di rinvio.
Le norme dichiarate illegittime perdono efficacia dal giorno successivo alla
pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta Ufficiale (artt. 134 s. Cost.;
legge Cost. n. 87/1953).
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INTRODUZIONE
[CAP. 2]
5. I regolamenti comunitari.
I regolamenti comunitari sono atti normativi dell’«Unione europea» che
hanno diretta efficacia nel territorio dei Paesi membri e vincolano pertanto
i cittadini dei singoli Stati al pari delle norme di fonte statuale.
Col nome di «Unione europea» si designano collettivamente alcuni enti
e istituzioni sovranazionali, costituiti in ambito europeo al fine di una progressiva integrazione economica dei paesi membri ed in vista di una futura,
globale integrazione politica.
Il «Consiglio», composto da rappresentanti degli Stati membri, è il principale organo legislativo della Comunità e i suoi regolamenti comunitari costituiscono veri e propri atti normativi di portata generale paragonabili alle
«leggi». La loro posizione all’interno del sistema delle fonti è questione complessa che non può essere affrontata in questa sede: qui basti dire che l’efficacia dei regolamenti è subordinata solo al rispetto dei principi fondamentali
sanciti dalla Costituzione e prevale sulle leggi ordinarie (cfr. art. 1171 Cost.).
Le direttive e le raccomandazioni comunitarie, viceversa, non hanno di
norma efficacia normativa diretta e immediata, svolgendo piuttosto la funzione di orientare l’attività dei singoli Stati al fine di realizzare una progressiva armonizzazione delle legislazioni nazionali. Particolare importanza, tuttavia, rivestono le direttive, che obbligano i singoli Stati ad adeguare
la loro normativa interna, dando vita così a un diritto comunitario uniforme (e vedremo che sempre più numerosi sono gli atti normativi emanati in
esecuzione di tali direttive).
6. Le leggi ordinarie. Il codice civile
Le leggi ordinarie dello Stato sono le fonti di diritto più numerose e di
contenuto più ampio. Sono atti normativi emanati dal Parlamento secondo
le regole dettate per la loro formazione (art. 70 ss. Cost.) e ad esse sono
equiparati i decreti legge e i decreti legislativi.
I decreti legge sono atti aventi forza di legge emanati dal Governo in «casi
straordinari di necessità e urgenza» (art. 76 Cost.): essi devono essere «convertiti in legge» dal Parlamento entro 60 giorni, pena la loro decadenza.
I decreti legislativi, o leggi delegate, sono invece emanati dal Governo in
forza di una apposita legge-delega delle Camere, che gli conferisce il potere legislativo su materie determinate, specificando i principi e i criteri direttivi cui esso dovrà attenersi. Si ricorre a tale strumento quando si tratti
di testi lunghi e complessi e nei quali è di particolare importanza il coordi-
[CAP. 2]
FONTI DEL DIRITTO POSITIVO
19
namento tecnico e la sistematicità dell’impianto (così, ad es., per i «testi
unici» e i «codici»).
Il codice civile, formalmente, è un «atto avente forza di legge», al pari dei
codici di procedura civile, penale, di procedura penale, della navigazione.
La loro importanza, pertanto, non sta nel loro valore formale, equiparato a
quello delle altre leggi ordinarie, bensì nel rilievo pratico delle materie da
essi disciplinate e nella organicità e sistematicità di impianto. Il che, per altro verso, conferisce ad essi un ruolo centrale, nel quadro della ricordata
unitarietà dell’ordinamento giuridico, definendo istituti, categorie e concetti
destinati ad operare anche oltre l’ambito di riferimento dei singoli codici.
Tuttavia, la crescita nel numero e nella importanza delle leggi «speciali» –
che al di fuori del sistema del codice hanno disciplinato materie privatistiche
(ad es., il diritto del lavoro, il diritto agrario, le locazioni urbane, nonché le
stesse leggi sul fallimento e sui titoli di credito) –, e altresì l’introduzione
della Costituzione, con le sue scelte di fondo sui «rapporti civili, etico-sociali
ed economici», hanno eroso il ruolo ‘costituzionale’ – e cioè di fonte dei
principi fondamentali dell’ordinamento – tradizionalmente attribuito al codice civile, tanto che si è parlato della nostra epoca come di una età della decodificazione. Sul punto si tornerà nel quadro dell’interpretazione delle leggi; intanto basterà sottolineare che l’istanza razionalizzatrice e sistematica,
che si ritrova nella disciplina codicistica dei singoli istituti e alla base della
stessa idea di codificazione, conserva comunque ai codici, e al codice civile in
particolare, una posizione centrale nel sistema normativo.
7. Le leggi regionali.
Le leggi regionali sono atti normativi emanati dalle Regioni nell’ambito
della potestà legislativa ad esse attribuita a tenore degli art. 117 ss. Cost.,
distinta in relazione al tipo di competenza – esclusiva o concorrente – che
viene di volta in volta in considerazione. È esclusa la competenza delle regioni ad emanare norme di diritto privato, salvo che vi sia stretta connessione con materie di competenza regionale (cfr. art. 1172, lett. l), Cost.).
Caratteristica di tali leggi, oltre alla ovvia limitazione territoriale regionale, è la loro subordinazione ai «principi fondamentali» fissati dalle leggi
statali nelle materie di legislazione concorrente (art. 1173 Cost.). Esorbitando da tali limiti ne resta pregiudicata la validità. Competente a giudicare sulla loro illegittimità è la Corte costituzionale, che ne giudica a seguito
di un apposito procedimento (il conflitto di attribuzioni) sollevato dal
«Commissario regionale».
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INTRODUZIONE
[CAP. 2]
8. I regolamenti.
I regolamenti sono atti normativi emanati da autorità amministrative per
disciplinare la pratica applicazione delle leggi ovvero, in casi determinati,
per dettare senz’altro la disciplina di singole materie. Si osservi che in tal
caso la potestà normativa non compete all’organo dotato del potere legislativo generale (e cioè al Parlamento) bensì al potere esecutivo (al Governo e
ad altre autorità amministrative), sia pure nei limiti stabiliti dalla legge.
Questa fonte normativa è stata disciplinata ex novo dalla legge n.
400/1988, la quale, in sintesi, prevede i seguenti tipi di regolamento:
a) regolamenti esecutivi: essi disciplinano la pratica applicazione della legge,
determinandone le modalità di esecuzione e i concreti adempimenti. Tale potere regolamentare compete al Governo e ai singoli ministri in via generale,
senza bisogno perciò di una apposita autorizzazione nelle singole leggi;
b) regolamenti integrativi (o di attuazione): essi non sono meramente esecutivi della legge, ma sono diretti a integrarla, cioè a completarla, dettando
una vera e propria disciplina sostanziale della materia, eventualmente anche
abrogando precedenti disposizioni legislative. Occorre peraltro che essi siano autorizzati da una apposita legge che ne fissi i limiti e l’ambito operativo;
c) regolamenti indipendenti: essi sono emanati in materie non disciplinate dalla legge ovvero disciplinate da una legge che viene appositamente
abrogata per consentire una nuova disciplina tramite, appunto, tali regolamenti. È la legge dunque che in tal caso rinuncia a disciplinare una certa
materia e autorizza il Governo a dettare una regolamentazione al riguardo
(e per tale ragione si parla da taluno di regolamenti delegati);
d) regolamenti organizzativi: sono emanati da autorità diverse «nei limiti
delle rispettive competenze» e «in conformità delle leggi particolari» che li
riguardano, per disciplinare l’organizzazione e il funzionamento degli uffici
e l’esercizio delle relative funzioni (art. 32 disp. prel.). Tale potere regolamentare spetta ad es. ai prefetti, ai consigli comunali e provinciali, etc.
Questi regolamenti, peraltro, hanno natura non omogenea e solo impropriamente possono essere annoverati tra le fonti normative vere e proprie.
Un importante potere regolamentare, altresì, compete oggi ad altre istituzioni (come le cdd. Autorità indipendenti, la Consob, la Banca d’Italia)
negli specifici ambiti di competenza ad esse assegnati dalla legge.
Quanto all’inquadramento nella gerarchia delle fonti, resta fermo che i
regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni di
legge (cfr. anche l’art. 41 disp. prel.), fatte salve peraltro le deroghe introdotte con la legge n. 400/1988 e sopra brevemente richiamate.
[CAP. 2]
FONTI DEL DIRITTO POSITIVO
21
9. Le fonti non scritte. Gli usi.
L’uso normativo, o consuetudine, è quella norma o regola non scritta
che nasce spontaneamente nel corpo sociale per effetto della costante osservanza, protratta nel tempo, di una certa condotta.
Si dice comunemente che, perché si abbia un uso normativo, occorrono
due requisiti. Il primo requisito, oggettivo, è l’uniforme, ripetuta osservanza di
un determinato comportamento in un certo ambito economico o territoriale.
Occorre poi il requisito cd. soggettivo o psicologico, cioè la convinzione della
obbligatorietà di quel comportamento in quanto conforme a una regola giuridica (cd. opinio iuris seu necessitatis). Mancando tale convinzione si avrà
soltanto un uso di fatto, qualunque sia la diffusione della pratica (così, ad es.,
per la mancia, che costituisce solo un uso sociale e non anche giuridico).
La rilevanza delle consuetudini come fonti normative è limitata e tende
sempre più a ridursi: non soltanto esse occupano l’ultimo posto nella gerarchia delle fonti (art. 1 disp. prel.), ma altresì, nelle materie disciplinate
dalle leggi e dai regolamenti, possono operare solo in quanto espressamente richiamate (art. 8 disp. prel.; cfr. ad es., l’art. 1496 per la vendita di animali e l’art. 896 per i frutti caduti sul suolo del vicino).
Il limitato rilievo degli usi ha ragioni diverse: anzitutto, di una norma non
scritta non è sempre agevole accertare l’esistenza e il contenuto, tanto che,
in deroga al principio per cui le norme sono conosciute dal giudice (tramandato nel classico brocardo: iura novit curia), è colui che invoca un uso a
doverne provare l’esistenza. La legge tuttavia agevola tale prova disponendo
che gli usi pubblicati nelle raccolte ufficiali delle Camere di commercio si
presumono esistenti fino a prova contraria (art. 9 disp. prel.).
Un’altra ragione del disfavore verso gli usi è data dal fatto che la loro
stessa formazione contrasta con la tendenza dello Stato moderno, nel quadro della segnalata ‘statualizzazione’ del diritto, ad avocare a sé la disciplina di ogni aspetto della vita sociale, perseguendo finalità di dirigismo economico e di tutela dei soggetti deboli del rapporto, non di rado sfavoriti
dal costume tradizionale e dalle relative ‘consuetudini’.
Va segnalato peraltro come nuovo spazio e ampio rilievo va acquistando oggi un particolare tipo di diritto consuetudinario: la cd. lex mercatoria.
In breve, essa consiste in una serie di regole, nate dalla prassi del commercio internazionale e costantemente osservate sia nella redazione e nell’esecuzione dei contratti trans-nazionali, sia nelle decisioni delle relative controversie emanate dalle camere arbitrali internazionali (e v. infra, § 12). Tale complesso regolamentare, in quanto uniformemente osservato e applicato, costituisce perciò un vero e proprio uso normativo.
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INTRODUZIONE
[CAP. 2]
Dagli usi normativi, di cui finora s’è parlato, vanno tenuti distinti gli usi
negoziali, o «clausole d’uso», che, fondandosi sulla (presunta) volontà delle parti, hanno natura negoziale: conseguentemente, e come si vedrà a suo
tempo (§ 36.6), esse possono derogare a norme dispositive di legge. In
concreto tuttavia risulta difficile distinguere se un certo uso abbia natura
negoziale o normativa.
10. La giurisprudenza.
Per giurisprudenza s’intende comunemente l’attività di interpretazione e
applicazione delle norme giuridiche svolta istituzionalmente dai giudici. Si
designa invece propriamente come dottrina l’attività di interpretazione e
chiarimento del sistema svolta dagli studiosi. Entrambe tali attività tuttavia, prescindendo dallo scopo immediato di ciascuna di esse, concorrono
al medesimo risultato di chiarire il contenuto delle norme e le si designa
perciò globalmente come giurisprudenza (specificata, a volte, in dottrinale
e forense), in quanto attività del iuris peritus. Per giurisprudenza s’intende
altresì il “risultato” di tale attività, come complesso di regole, principi,
orientamenti interpretativi che costituiscono il diritto effettivamente vigente (v. infra, nel testo).
La giurisprudenza non si trova compresa fra le fonti del diritto elencate
dall’art. 1 disp. prel., né nel nostro ordinamento vige il principio della vincolatività dei precedenti giurisprudenziali (il cd. stare decisis, che si ritrova
negli ordinamenti di common law). L’indirizzo giurisprudenziale su una
certa materia peraltro, soprattutto se consolidato, non è senza rilievo: esso
opera come vincolo di fatto, facendo prevedere future decisioni conformi
dei giudici e inducendo perciò gli interpreti e i destinatari a conformarvisi
(v. inoltre, per le decisioni della Cassazione, l’art. 384 c.p.c.).
Si aggiunga che la giurisprudenza è un importante fattore non solo di
conoscenza e di interpretazione delle norme, ma anche di creazione del diritto: questo infatti, visto nel suo momento dinamico di concreta regolazione dei rapporti, non ha (sol)tanto come contenuto quello emergente dal
‘testo’ delle norme, bensì quello che in concreto gli conferisce l’applicazione costante dei giudici e il comune modo di intenderne il significato.
S’è visto, ad es., come la nozione corrente di consuetudine richieda il
requisito (cd. soggettivo) della convinzione circa la vincolatività di una
pratica. Ebbene, tale requisito non si trova sancito in alcuna norma. Ciò
non toglie che soltanto la consuetudine che presenti tale elemento costituirà in concreto un «uso normativo»: a tale criterio cioè occorrerà fare rife-
[CAP. 2]
FONTI DEL DIRITTO POSITIVO
23
rimento per individuare la regola concretamente operante sul punto, e perciò il diritto effettivamente vigente (cd. principio di effettività).
Se mai, in uno Stato di diritto che voglia mantenere la funzione garantista assicurata dal principio di divisione dei poteri – e la connessa certezza
del diritto assicurata dalle leggi formali – il problema sarà quello della legittimità di siffatto stato di cose. Ma questo è problema diverso, attinente
al “dover essere” del sistema piuttosto che al dato di fatto delle fonti concretamente produttrici di diritto: ad esso si dedicherà qualche attenzione
trattando dell’interpretazione della legge.
Minore incidenza, almeno nell’immediato, ha invece la giurisprudenza
dottrinale, o dottrina, la cui interpretazione avrà seguito solo in funzione
della sua coerenza e della sua autorevolezza, della sua capacità cioè di
‘convincere’ gli operatori del diritto sul piano argomentativo. Nel lungo
periodo, tuttavia, è l’opera della dottrina che prepara e indirizza i mutamenti e l’evoluzione interpretativa di più largo respiro.
11. L’equità.
Tra le fonti del diritto non è annoverata l’«equità», tradizionalmente intesa come giustizia del caso concreto. Non è prevista cioè una regola generale che attribuisca rilevanza decisiva alle specificità del singolo caso e
all’esigenza di realizzare un’effettiva giustizia, un equilibrato contemperamento degli interessi. Il giudice, pertanto, è tenuto a risolvere le controversie con l’applicazione del diritto positivo, anche se, in alcuni casi, esso possa dar luogo a conseguenze ‘inique’, che stridono cioè col comune senso di
giustizia. L’esigenza fondamentale cui risponde tale principio di legalità è
quella della certezza del diritto: se il giudice potesse di volta in volta disapplicare la legge e decidere secondo un proprio – e magari peregrino –
concetto di giustizia, ne soffrirebbe la sicurezza delle relazioni e la speditezza del traffico giuridico.
L’equità, pertanto, non costituisce una generale fonte di diritto, cui il
giudice possa liberamente attingere. La legge prevede piuttosto che essa
operi, ma solo in ipotesi predeterminate, quale criterio di valutazione e
quale criterio di decisione delle controversie.
Come criterio di valutazione, l’equità opera quando il giudice è chiamato a esprimere un giudizio sul contenuto di un contratto – in particolare,
in ordine all’equilibrio tra le condizioni pattuite – ovvero è chiamato a
supplire alla mancanza di specifici elementi. Ad es., quando si tratti di
quantificare un danno di incerto ammontare (art. 1226), di valutare la
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INTRODUZIONE
[CAP. 2]
«iniquità delle condizioni» di un contratto e le «modificazioni … sufficienti
a ricondurlo ad equità» (artt. 1447, 1450), di integrare il contenuto di un
contratto che manchi di specifiche determinazioni (ad es., artt. 1374, 1733).
Come criterio di decisione delle controversie, la legge prevede che in alcuni casi il giudice debba, o possa, decidere secondo equità: a) quando si
tratti di controversie di competenza del giudice di pace di valore non superiore a 1.100 euro; b) quando, trattandosi di diritti disponibili, le parti
ne facciano concorde richiesta (artt. 1132, 114, 822 c.p.c.). Resta fermo
comunque che il giudizio deve svolgersi pur sempre entro le coordinate
del sistema: ad es., se una persona facoltosa ha un credito verso un disoccupato di modeste condizioni economiche, l’equità potrà spingersi al più
fino a stabilire come termine di pagamento “quando avrà trovato un lavoro”, ma non potrà giungere a esonerare il debitore dall’adempimento.
Si conferma allora che l’equità non è una generale fonte di diritto ma
solo criterio di valutazione e di decisione – chiamato ad operare al fine di
realizzare la giustizia del caso concreto nelle ipotesi determinate dalla legge – pur se va rilevata la crescente importanza di tale parametro nei moderni sistemi giuridici, caratterizzati da moltiplicazione e frammentazione
delle fonti e da una crescente attenzione verso le esigenze di tutela sostanziale della persona (si v. sul punto § 36.6).
12. Gli atti di autonomia privata.
Un cenno, infine, è opportuno dedicare in questa sede agli atti di autonomia privata, e cioè agli atti con cui ciascuno dispone dei propri interessi
nella vita di relazione: ad es., mi iscrivo a una associazione o a una scuola,
assumo un lavoro, compro o vendo un automezzo, mi faccio prestare del
denaro, etc. In tutti questi casi, per raggiungere il mio scopo compio una
serie di atti (per lo più: stipulo un contratto) con i quali mi assicuro certi
diritti (frequentare la scuola, disporre della moto o di una somma di denaro) e assumo certi obblighi (pagare la retta o il prezzo, restituire il denaro,
etc.). Dunque, d’accordo con un altro soggetto, ho stabilito delle regole
che entrambi saremo tenuti a rispettare. È ovvio che tali regole vincolano
soltanto coloro tra i quali è intervenuto l’accordo, ma, in tali limiti, sono
state pur sempre stabilite delle regole giuridiche (cfr. art. 1372).
Pertanto, e salvo quanto si dirà in seguito, il contratto e in genere gli
«atti di autonomia privata» (ad es., un contratto di locazione, la rinuncia a
un diritto, l’emissione di una cambiale), costituiscono un mezzo di produzione di regole giuridiche. Non si tratta certo di una generale fonte di dirit-
[CAP. 2]
FONTI DEL DIRITTO POSITIVO
25
to, poiché essa vincola solo coloro che hanno posto in essere tali atti: in tali
limiti, tuttavia, essa serve a stabilire regole ‘legali’, a introdurre nel mondo
del diritto una regola di comportamento giuridicamente vincolante. Come
vedremo, è ampiamente riconosciuta ai privati la facoltà di pattuire regole
specifiche, anche difformi da quanto previsto dalla legge, ma a condizione
che esse rispettino i limiti stabiliti al fine di conciliare i peculiari interessi
individuali con gli interessi generali della collettività.
Piuttosto, è il caso di sottolineare che il moltiplicarsi degli scambi commerciali, la progressiva integrazione delle economie e la globalizzazione
dei mercati hanno fatto emergere per un verso la tendenza, per l’altro la
stessa esigenza di una regolamentazione uniforme: utilizzando cioè gli spazi
consentiti all’autonomia dei privati nella regolazione dei loro rapporti
d’affari, si è progressivamente estesa l’adozione di modelli standardizzati e
uniformi di disciplina dei rapporti contrattuali anche tra imprese operanti
in sistemi giuridici diversi (è la cd. lex mercatoria di cui s’è detto). Emerge
così un complesso sistema di regolazione, di origine convenzionale, che sia
pure in via di fatto tende a divenire “generale fonte di diritto”, anche in ragione dell’adozione di formulari contrattuali standardizzati da parte delle
associazioni di categoria e in ragione dell’adozione di codici di condotta
uniformi, che tendono a imporsi anche al di là della cerchia degli associati
attraverso il meccanismo degli usi (§§ 2.9 e 36.6).
***
Solo un cenno infine può dedicarsi alla tendenza, sempre più accentuata, alla creazione di un «diritto uniforme», di un diritto comune transnazionale (e in particolare, diritto comune europeo), in vista della crescente
mobilità di persone, merci e capitali tra i diversi paesi: tendenza, che si attua per un verso a iniziativa degli Stati, con la stipulazione di convenzioni
internazionali e con la formazione di un diritto comunitario nell’ambito
dell’UE (supra, § 5), per l’altro a iniziativa degli studiosi che elaborano
principi e regole in vista della possibile unificazione di alcuni rami del diritto privato (ne sono esempi gli studi elaborati dalla cd. Commissione
Lando e i Principi Unidroit).
CAPITOLO 3
APPLICAZIONE DELLA LEGGE
SOMMARIO: 1. Applicazione della legge in generale. – 2. Interpretazione della legge. Il
criterio letterale. – 3. Il criterio funzionale. – 4. L’analogia. – 5. Applicazione della legge nel tempo. – 6. Successione di leggi. – 7. Applicazione della legge nello spazio.
1. Applicazione della legge in generale.
Il capo II delle disposizioni preliminari al codice civile (art. 10 ss.) è intitolato alla «applicazione» della legge. Tale procedimento consiste nell’attività con cui si individua e assegna a un caso concreto la disciplina che gli
compete. In particolare, si tratta di ‘tradurre’ la previsione generale e
astratta in una regola concreta riferita a un caso singolo.
È dunque una attività con scopi essenzialmente pratici – determinare il
comportamento di volta in volta dovuto – che svolge già ciascuno di noi
nella vita quotidiana: se voglio parcheggiare la macchina devo tener presenti, fra le altre, le regole sul divieto di sosta in curva e, in genere, dove
intralci la circolazione. Dovrò pertanto, in concreto, determinare se una
deviazione nel rettilineo della strada costituisca «curva» oppure no; se, in
relazione alle condizioni del traffico, ostacoli la circolazione e così via. Ma
il compito istituzionale di applicare e far rispettare la legge, dettando la regola concreta per i singoli casi, è affidato a un organo specifico – la magistratura – la cui attività riveste particolare importanza poiché ad essa, in
definitiva, è affidata la soluzione delle controversie e perciò la “garanzia
sociale” che è propria delle norme giuridiche.
L’applicazione della legge consta essenzialmente di due momenti: l’individuazione della norma pertinente, fra le tante che compongono l’ordinamento, e la precisazione del suo significato (cioè del suo contenuto specifico) tramite l’interpretazione. I due momenti vanno certo distinti logicamente, ma sono compenetrati l’uno con l’altro e si integrano a vicenda.
In concreto, l’operazione avviene per gradi o approssimazioni successive, provvedendosi anzitutto, sulla base di una preliminare e astratta classificazione delle ipotesi normative, a un primo inquadramento del caso singolo (ad es., un accordo tra due parti si lascia inquadrare anzitutto nella
[CAP. 3]
APPLICAZIONE DELLA LEGGE
27
categoria generale del negozio: v. § 30.6). Successivamente, si selezionano
nell’ambito del fatto concreto i profili qualificanti e specifici (ad es.,
l’accordo ha contenuto patrimoniale: si entra allora nell’ambito del contratto), e via via si individua la previsione normativa più consona all’ipotesi
specifica (ad es., locazione piuttosto che usufrutto).
Tale procedura si descrive anche dicendo che l’applicazione della legge
consiste nella sussunzione di un caso concreto (il fatto: ad es., un sinistro
stradale) in una fattispecie astratta (la norma di legge), dove per fattispecie
si intende propriamente l’immagine del fatto (facti species; appunto: specchio, immagine del fatto). La fattispecie normativa, cioè, deve essere il
modello o tipo astratto più appropriato a inquadrare il caso concreto in relazione ai tratti o elementi caratteristici di esso.
Da tale punto di vista l’applicazione della legge si presenta come un sillogismo, un procedimento logico in cui, poste certe premesse, si ricava una determinata conseguenza: ad es., i quadrupedi sono animali (premessa maggiore
o astratta); il cavallo è un quadrupede (premessa minore o fattispecie concreta); pertanto, il cavallo è un animale (conseguenza o giudizio conclusivo).
Deve subito avvertirsi però che il richiamo al sillogismo, e al meccanismo
logico che lo guida da una premessa a una necessaria conseguenza, è soltanto un accostamento, utile ma non rigoroso, poiché nell’applicazione della
legge entrano in gioco fattori non misurabili in maniera precisa e sempre costante, come i giudizi di valore. Inoltre, i fatti presentano caratteristiche, peculiarità e sbavature rispetto al tipo astratto prefigurato dalla legge, mentre
poi raramente si danno due casi identici in tutti i loro elementi, sì che risulti
necessario, e perciò giusto, applicare ad essi l’identica regola. L’applicazione
della legge, cioè, si caratterizza piuttosto per essere un giudizio, una valutazione o pesatura, e se il giudizio non può essere irrazionale né arbitrario,
non si esaurisce neppure in una semplice, asettica operazione logica.
D’altra parte, la stessa interpretazione della legge non è libera, poiché
non si tratta di conseguire una mera conoscenza di un dato di fatto, come
avviene per le scienze naturali: è essa stessa una attività vincolata ai criteri
fissati dalla legge (art. 12 ss. disp. prel.): v. § seguente.
Quanto ai soggetti che compiono l’interpretazione, si distingue correntemente l’interpretazione giurisprudenziale da quella dottrinale, che peraltro, e come s’è veduto, non sono per sé vincolanti (§ 2.10).
Vincolante è invece la cd. «interpretazione autentica»: essa non promana dalla giurisprudenza, bensì dal legislatore ed è contenuta in una apposita norma di legge, detta interpretativa. Essa pertanto vincola in funzione
della sua provenienza da un atto normativo e ha questo di caratteristico:
28
INTRODUZIONE
[CAP. 3]
ha efficacia retroattiva. Ciò si spiega in base alla natura di tale norma, che
vuole semplicemente chiarire un significato che si pretende già insito, fin
dall’inizio, nella disposizione interpretata. Di fatto, tuttavia, spesso si ricorre a tale formula per estendere ad altri casi, con effetto retroattivo, una
certa disposizione normativa.
2. Interpretazione della legge. Il criterio letterale.
Il primo passo per l’applicazione della legge è dunque l’interpretazione,
che può definirsi come l’attività volta a chiarire il significato delle disposizioni normative. La maggior parte di queste, come s’è veduto, derivano da
fonti scritte e pertanto l’interpretazione consisterà essenzialmente nel chiarire, alla stregua dei criteri legali, il senso delle parole scritte, dei segni linguistici attraverso i quali è formulata la regola sostanziale.
Si tratta di una attività che, in concreto, può essere più o meno complessa, ma che in ogni caso si presenta come necessaria sol che si rifletta
che le parole, con cui sono espresse le regole, sono dei segni linguistici,
cioè simboli astratti cui attribuiamo un significato convenzionale: è perciò
necessario intendere tale significato, il “contenuto sostanziale” espresso
dal “contenente formale” (e v. §. 2.2) dell’enunciato normativo. Non ha
cittadinanza perciò il brocardo in claris non fit interpretatio che, al più,
può significare che di un testo linguistico è agevole la comprensione, non
che esso non debba essere interpretato, e cioè compreso.
All’interpretazione sono affidati tre compiti fondamentali: sciogliere le
ambiguità del testo linguistico (v. infra, § seguente), colmare le lacune del
sistema (§ 3.4), rimediare all’invecchiamento delle disposizioni (in particolare, con un appropriato intendimento delle regole cdd. elastiche e delle
clausole generali (v. ad es. §§ 2.1 e 15.6).
Già s’è detto come tale attività sia vincolata a specifici criteri legali di interpretazione: un vincolo che parte della dottrina critica, sia perché si ritiene improprio vincolare un’attività conoscitiva, sia perché non si saprebbe
comunque con quali criteri interpretare le stesse norme sull’interpretazione. Come che sia di siffatta questione, si tratta di regole comunemente
ritenute appropriate e che mettono capo a un processo unitario: non esistono interpretazioni diverse (letterale, logica, sistematica, etc.), bensì soltanto plurimi strumenti di analisi del testo linguistico.
1) L’art. 121 disp. prel. sancisce anzitutto il criterio letterale, disponendo
che alla legge «non si può attribuire altro senso che quello fatto palese dal si-
[CAP. 3]
APPLICAZIONE DELLA LEGGE
29
gnificato proprio delle parole». Esso vale perciò a richiamare l’interprete alla
fedeltà al testo normativo, secondo il significato che le parole hanno nel linguaggio comune o, eventualmente, in quello tecnico. Così, là dove la legge
parla di «isole» (art. 945) l’espressione va intesa nel significato corrente di
“terre emerse circondate dalle acque”. Per sapere che cosa sia un «muro
maestro» (che l’art. 1117 dichiara comune ai proprietari dei diversi piani di
un edificio) si farà riferimento alle cognizioni della tecnica edilizia, e così via.
2) L’interpretazione inoltre deve essere globale, dovendosi intendere le
parole non isolatamente, bensì «secondo la connessione di esse»: e dunque,
connessione grammaticale e sintattica, ma anche ‘contestuale’, di modo
che il loro insieme abbia un significato compiuto e razionale nel contesto in
cui si inserisce. Più precisamente, occorrerà riferirsi al significato che
emerge dal contesto normativo in cui è usata l’espressione: ad es., la parola
«uso» è utilizzata in significati radicalmente diversi negli artt. 1 e 8 disp.
prel., 7 e 8442, 1021 e 11533 c.c., e solo la sua lettura nel contesto complessivo della disposizione può chiarirne il senso.
3) L’interpretazione, ancora, deve essere sistematica, poiché nessuna
norma vive da sola, ma si inserisce in un complesso sistema col quale occorre coordinarla, dovendosi preferire, nel dubbio, il significato che la renda
coerente alle altre. Ciò vale, in particolare, per il raccordo con le norme della Costituzione che, oltre a integrare un “limite esterno” alla legittimità delle
leggi (v. § 2.4), ne costituiscono inoltre un “limite interno”, orientando il lavoro dell’interprete. In particolare, fra le diverse, possibili interpretazioni
deve preferirsi quella che sia compatibile con la Costituzione e i valori da essa tutelati. Ad es., la previsione costituzionale sulla funzione sociale della
proprietà (art. 422 Cost.) non può non incidere sull’interpretazione delle
norme civilistiche, formalmente immutate, relative al diritto di proprietà.
Analogamente, l’art. 2043 parla di (risarcimento dei) danni ingiusti, senza
ulteriori specificazioni. Ebbene, la tutela della salute come «fondamentale
diritto dell’individuo», sancito dall’art. 32 Cost., può senz’altro orientare
l’interprete nel senso di ritenere compresi in tale previsione anche i danni
non patrimoniali alla persona, respingendo così la tradizionale, contraria ricostruzione della disciplina emergente dagli artt. 2043 e 2059 (v. § 41.4).
3. Il criterio funzionale.
4) Ancora, l’art. 121 disp. prel. vincola l’interprete alla «intenzione del
legislatore». Tale richiamo va rettamente inteso: non vale come riferimento
alla persona fisica, o all’organo, che ha emanato la disposizione, bensì co-
30
INTRODUZIONE
[CAP. 3]
me rinvio alla ratio o scopo della norma (cd. interpretazione funzionale o
teleologica). Occorre cioè avere riguardo agli interessi che la norma intende tutelare e, su tale base, determinarne l’estensione e il significato. Ad es.,
il cartello «chiudere la porta» impone di chiudere l’uscio a chiunque entri;
tuttavia, se si ha riguardo allo scopo della norma, se ne deduce che ove
due o più persone entrino una dopo l’altra sarà sufficiente che sia l’ultimo
a chiudere, e non sarà certo necessario che ciascuno richiuda l’uscio dopo
essere entrato.
Va considerato inoltre che il contenuto precettivo di una disposizione,
pur rimanendo immutato il testo di legge, può modificarsi nel tempo sia per
il sopravvenire di nuove disposizioni – alla cui luce va intesa ogni singola
previsione: interpretazione sistematica –, sia perché variano storicamente gli
interessi ritenuti meritevoli di tutela. Ad es., l’emersione dell’interesse alla
tutela dell’ambiente ha consentito di utilizzare a tale scopo una norma, l’art.
844, originariamente dettata a protezione di interessi soltanto privati.
Le disposizioni, dunque, mutano di significato al sopravvenire di altri
dati normativi e col variare delle condizioni culturali ed economiche della
società e si distaccano perciò dal «legislatore» che le ha create. Diceva bene quel giurista che osservava come il rapporto tra il legislatore e le norme
è un po’ come il rapporto fra padri e figli: come questi si distaccano dai
primi e vanno per la loro strada, così anche le norme vivono di vita propria; e, come i figli, talora deludono le aspettative di chi le ha generate, talaltra le sopravanzano, dimostrando vitalità e versatilità insospettate al
momento in cui furono introdotte nell’ordinamento (si v., ad es., il riferimento appena fatto all’art. 844).
L’interpretazione, pertanto, si palesa di per sé come naturalmente evolutiva, nel senso che tende per forza propria a evolvere, a modificare nel
tempo il significato e la portata delle disposizioni, conformemente al mutare delle condizioni complessive della società e dei suoi valori.
In tale quadro si comprende come il significato di una disposizione
possa legittimamente risultare diverso nel tempo e altresì come il risultato
dell’interpretazione possa essere estensivo oppure restrittivo rispetto al suo
senso letterale. Si parla così, per metonimia, di interpretazione estensiva
quando si fanno rientrare nella norma ipotesi non previste ma sicuramente
coerenti alla sua ratio (lex minus dixit quam voluit): così, ad es., quando si
ricomprendono le radiazioni ionizzanti tra le «propagazioni» cui ha riguardo l’art. 844. Si ha interpretazione restrittiva quando si escludono ipotesi che a rigor di termini rientrerebbero nella previsione, ma che in realtà
esulano dalla ‘intenzione’ della norma stessa (lex plus dixit quam voluit).
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