11-Zaca (56-72) - Giornale Italiano di Cardiologia

POSITION PAPER
La gestione della terapia antitrombotica nel paziente
candidato a impianto o sostituzione di dispositivi
elettronici impiantabili cardiaci
Valerio Zacà1, Rossella Marcucci2, Guido Parodi3, Ugo Limbruno4, Pasquale Notarstefano5,
Paolo Pieragnoli6, Andrea Di Cori7, Maria Grazia Bongiorni7, Giancarlo Casolo8,
a nome dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO) della Regione Toscana
e dell’Associazione Italiana di Aritmologia e Cardiostimolazione (AIAC) della Regione Toscana
1
U.O.C. Cardiologia Ospedaliera, Dipartimento Cardio-Toraco-Vascolare, Azienda Ospedaliera Universitaria, Siena
2
Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica, Università degli Studi, Firenze
3
Cardiologia Invasiva, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi, Firenze
4
U.O. Cardiologia, Ospedale Misericordia, Grosseto
5
Dipartimento Cardiovascolare e Neurologico, Ospedale San Donato, Arezzo
6
Dipartimento del Cuore e dei Vasi, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi, Firenze
7
U.O. Malattie Cardiovascolari 2, Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, Pisa
8
S.C. Cardiologia, Ospedale Versilia, Lido di Camaiore (LU)
In Italy tens of thousands of patients undergo implantation or replacement of cardiac implantable electronic
devices (CIEDs) annually, and up to 50% of these subjects receive antiplatelet agents or oral anticoagulants.
The rate of CIED-related complications, mainly infective, has also significantly increased, so that transvenous
lead extraction procedures are often required. CIED surgery is peculiar and portends specific intrinsic risks of
developing life-threatening hemorrhagic complications; on the other hand periprocedural discontinuation of
antithrombotic therapy in patients at high thromboembolic risk may have catastrophic consequences. Accordingly, the management of candidates to CIED surgery who receive concomitant antithrombotic therapy
is of great clinical relevance, though controversial and only partially, if not at all, adequately addressed in current evidence-based guidelines. Although for many procedures the administration of aspirin alone or continuation of anticoagulant therapy seems reasonably safe, with use of bridging therapy with parenteral heparins
restricted to selected cases, there are multiple variables that may make therapeutic choices challenging.
The aim of the present position paper is to provide practical recommendations for the management of antithrombotic therapy in patients undergoing CIED surgery by defining indications for a systematic approach
integrating general technical considerations with patient-specific elements based on a careful evaluation of
the balance between hemorrhagic and thromboembolic risk. The decision-making process applied in this document relies on the stratification of the procedural hemorrhagic risk and of the risk deriving from discontinuation of antiplatelet or anticoagulant therapy combined to produce different clinical scenarios with specific
indications for optimal management of periprocedural antithrombotic therapy.
Key words. Anticoagulation therapy; Antiplatelet therapy; Coronary stents; Hemorrhage; Implantable cardioverter-defibrillators; Pacemakers.
G Ital Cardiol 2014;15(1):56-72
INTRODUZIONE
Negli ultimi 60 anni abbiamo assistito ad una continua ed entusiasmante evoluzione tecnologica e ad un’esponenziale crescita del numero di impianti di dispositivi elettronici impianta-
© 2014 Il Pensiero Scientifico Editore
Ricevuto 29.07.2013; nuova stesura 09.12.2013; accettato 12.12.2013.
Gli autori dichiarano nessun conflitto di interessi.
Per la corrispondenza:
Dr. Valerio Zacà U.O.C. Cardiologia Ospedaliera, Dipartimento
Cardio-Toraco-Vascolare, Azienda Ospedaliera Universitaria,
Viale Bracci 16, 53100 Siena
e-mail: [email protected]
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bili cardiaci (CIED)1. A partire da un impiego limitato a poche
indicazioni cliniche, attualmente sono disponibili CIED per il
trattamento di molteplici disturbi del ritmo cardiaco e per la
prevenzione e terapia di numerose patologie cardiache1. In una
survey mondiale relativa all’anno 2009, con una copertura
dell’80% delle procedure complessive eseguite su scala globale, sono stati riportati 737 840 impianti di pacemaker (PM)
e 222 407 impianti di cardioverter-defibrillatori (ICD), mentre
264 824 e 105 620 sono state le sostituzioni di PM e ICD, rispettivamente2. Dati rappresentativi della realtà della popolazione europea indicano un numero complessivo di 471 284
impianti di PM e di 74 151 impianti di ICD nell’anno 20093.
Nell’ambito del “Progetto Aritmie” dell’Area Scompenso Car-
TERAPIA ANTITROMBOTICA E DISPOSITIVI IMPIANTABILI
diaco dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO) sono state riportate 11 229 procedure per anno (biennio di riferimento 2008-2009) di impianto di soli ICD,
soli dispositivi per resincronizzazione cardiaca (CRT-P), e di CRT
e ICD (CRT-D) in 220 centri italiani4. I più recenti dati del Registro Italiano Pacemaker e Defibrillatori dell’Associazione Italiana di Aritmologia e Cardiostimolazione (AIAC) relativi all’anno
2012 riportano 25 611 impianti di PM e 16 606 impianti di
ICD rappresentativi, rispettivamente, del 58% e 85-90% dell’attività impiantistica dei laboratori italiani5. Con l’aumento
del numero di impianti e sostituzioni è aumentato anche il tasso di complicanze, soprattutto infettive, legate ai CIED e, conseguentemente, il numero di procedure di rimozione transvenosa di elettrocateteri, gold standard nel trattamento delle
complicanze infettive e spesso necessarie nella gestione dei
malfunzionamenti6.
In parallelo è aumentata anche la complessità dei pazienti
candidati a impianto di CIED sia in termini di comorbilità cardiache e non cardiache che di terapia concomitante7-9. In particolare è stato e continua ad essere in significativo aumento
il numero di pazienti che ricevono terapia antitrombotica. L’aumentato utilizzo di terapia anticoagulante orale (TAO) o terapia antiaggregante singola e duplice è da attribuire all’invecchiamento della popolazione, responsabile in parte anche dell’aumentata incidenza di fibrillazione atriale (FA)10, e alla crescita del numero di portatori di protesi cardiache ed endovascolari secondario alla grande diffusione delle procedure di interventistica coronarica e periferica11,12. Dati relativi a popolazioni contemporanee da studi clinici o survey indicano un tasso di utilizzo di terapia anticoagulante che varia dal 15% in
pazienti sottoposti ad impianto di PM7 al 35% in pazienti sottoposti ad impianto di ICD8, fino a quasi al 50% in pazienti
sottoposti ad impianto di CRT9. L’utilizzo di terapia antiaggregante singola o in associazione si attesta intorno al 50% dei
pazienti in oggetto7-9.
La procedura di impianto è il primo e cruciale passo per il
successo terapeutico nei pazienti che devono essere trattati con
un CIED. Primario obiettivo della procedura è la sicurezza del
paziente idealmente senza sviluppo di complicanze. Il secondo
obiettivo è la qualità della terapia erogata attraverso il conseguimento di un affidabile ed efficiente funzionamento a lungo
termine del CIED che è subordinato ad un’ottimale gestione di
vari fattori, inclusi gli accessi venosi, la posizione ed i parametri
elettronici degli elettrocateteri. Lo sviluppo di una complicanza
emorragica può compromettere ogni fase di questo delicato
processo con conseguenze clinicamente significative per i pazienti. La gestione del paziente candidato a impianto o sostituzione di CIED in concomitante terapia antitrombotica rappresenta pertanto un argomento di grande attualità clinica che interessa potenzialmente centinaia di migliaia di pazienti ogni anno, ma tuttora controverso e solo marginalmente oggetto di
raccomandazioni basate sull’evidenza nelle attuali linee guida13.
Recenti dati relativi alla pratica clinica europea ci restituiscono,
infatti, un continente quasi equamente diviso tra operatori che
effettuano le procedure senza interruzione dell’anticoagulante
e operatori che interrompono il farmaco sostituendolo con eparine parenterali con approcci che variano anche all’interno dello stesso centro14. Ancora più controversa, per la limitata disponibilità di dati, appare la gestione della terapia antitrombotica in
caso di procedure di rimozione transvenosa di elettrocateteri.
Su questi presupposti si fonda la necessità che ha ispirato questo documento di fornire indicazioni per un approccio sistema-
tico al problema che integrasse considerazioni tecniche generali con elementi paziente-specifici basati su un’attenta valutazione del profilo di rischio emorragico/tromboembolico. Scopo del
presente documento, nelle intenzioni degli estensori, è pertanto quello di formulare raccomandazioni pratiche alla gestione
della terapia antitrombotica nei pazienti candidati a chirurgia
dei CIED generate da un’estensiva analisi dei dati disponibili in
letteratura. I risultati di tale analisi sono stati utilizzati per creare un algoritmo/schema di trattamento frutto di un continuo
confronto tra cardiologi clinici e cardiologi interventisti rappresentanti di ANMCO e AIAC della Regione Toscana. Gli aspetti relativi alla gestione antitrombotica periprocedurale nel paziente
candidato a rimozione transvenosa di elettrocateteri sono analizzati in una sezione dedicata.
RISCHIO EMORRAGICO CONNESSO ALL’IMPIANTO
Considerazioni generali e definizione del rischio
emorragico
In generale, l’impianto di PM o ICD è equiparato a procedure
chirurgiche minori non associate ad aumentato rischio intrinseco di sanguinamento, rischio che viene viceversa riconosciuto in caso di somministrazione periprocedurale di antitrombotici15. In realtà l’impianto di CIED ha delle peculiarità tecniche
che possono predisporre allo sviluppo di specifiche complicanze emorragiche generalmente da lievi fino a potenzialmente
minacciose per la vita. La dissezione e scollamento di piani fasciali infra-clavicolari e la mancanza di resintesi della soluzione
di continuo creata per alloggiare il dispositivo possono favorire
la formazione di un ematoma della tasca16. Inoltre la caratteristica principale degli impianti di PM o ICD è la necessità di ottenere degli accessi vascolari venosi che consentano l’introduzione, manipolazione e posizionamento di elettrocateteri all’interno delle camere cardiache destre e del sistema venoso
coronarico in caso di impianto di CRT-P/CRT-D. Queste procedure espongono ad un aumentato rischio di traumatismo delle strutture vascolari9,17 e potenzialmente di perforazione cardiaca con conseguente emopericardio fino al tamponamento
cardiaco18.
La complicanza emorragica più comunemente riportata è
lo sviluppo di ematoma della tasca. Sebbene variabilmente definito in letteratura, è da considerarsi severo/clinicamente significativo un ematoma che si associ a intenso dolore locale e
discomfort del paziente, ospedalizzazione prolungata, necessità di ripetute visite di follow-up, di revisione chirurgica dell’impianto con evacuazione della raccolta ematica, o necessità di
eventuali trasfusioni16,19,20. Storicamente l’incidenza di ematoma della tasca riportata in letteratura era fino al 5% delle procedure con tassi più alti in caso di impianto di ICD16. In casistiche più recenti sono stati osservati ematomi della tasca in circa
il 2.5% degli impianti di ICD17, superiori al 3% in caso di impianto di CRT-P/CRT-D, e fino al 4.2% in caso di up-grading di
precedente impianto a CRT-P/CRT-D9. In caso di revisione chirurgica dell’impianto con riposizionamento per dislocazione o
posizionamento di nuovo elettrocatetere, il rischio riportato di
ematoma della tasca è del 4.3%21. Lo sviluppo di ematoma della tasca può avere conseguenze gravi per il paziente, compreso un paradossale aumento del rischio tromboembolico dovuto alla sospensione prolungata dell’assunzione di terapia antitrombotica. Questa complicanza emorragica è stata inoltre associata ad un potenziale aumento del rischio di infezione del
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CIED22, alla necessità di reintervento fino al 44% dei casi16, ed
infine ad un prolungamento dell’ospedalizzazione di 3.1 giorni con un costo aggiuntivo calcolato di 6995$ in una casistica
nordamericana17. La tempistica di sviluppo dell’ematoma può
essere insidiosa, sebbene la maggior parte degli studi riporti come virtualmente nella totalità dei casi avvenga nella prima settimana postprocedurale16 con tempi medi dai 3.5 ai 5.1 giorni
successivi all’impianto23,24. Questa cornice temporale dovrebbe
essere considerata soprattutto in caso di pazienti ad elevato rischio emorragico meritevoli di un follow-up anticipato rispetto
alle convenzionali 4-6 settimane dalla dimissione per il primo
controllo, piuttosto che di un prolungato periodo di osservazione in regime di degenza.
Una certa quota di rischio di sviluppare ematomi della tasca
è descritta anche in casi di procedure di sostituzione del generatore. Dati dal registro REPLACE indicano un rischio complessivo del 3.5% su una popolazione di 1750 pazienti e di ematomi severi dello 0.7%21. Anche in questo caso lo sviluppo di
ematoma predispone ad un aumentato rischio infettivo del
CIED (22.7 vs 0.98%, p=0.002)25.
Anche l’emorragia intraprocedurale diffusa da strutture muscolari, fasciali o vascolari è una complicanza, riportata nello
0.5-1.0% degli interventi, che può prolungare il tempo chirurgico ed essere pertanto associata ad un aumentato rischio infettivo9,16. Aneddotico è il riscontro di emotorace dovuto a danno vascolare su vena e arteria succlavia26 o a contemporanea
perforazione pericardica e pleurica27; anche se molto rara tale
complicanza è però da considerarsi maggiore e potenzialmente minacciosa per la vita.
La perforazione cardiaca è una complicanza fortunatamente non comune nelle procedure di impianto di PM e ICD e sembra verificarsi più frequentemente con elettrocateteri da defibrillazione28. Nonostante l’incidenza riportata di perforazioni clinicamente manifeste sia compresa tra 0.1% e 0.8% in caso di
elettrocateteri da stimolazione e tra 0.6% e 5.2% in caso di
elettrocateteri da defibrillazione28, studi di tomografia computerizzata hanno osservato un’evidenza radiologica di perforazione cardiaca asintomatica nel 15% di pazienti trattati con impianto di PM e ICD, prevalentemente da elettrocateteri atriali,
senza differenze nei parametri elettronici degli elettrocateteri29.
Sebbene le conseguenze, o le tempistiche di realizzazione, di
tali perforazioni asintomatiche non siano note, in caso di perforazione acuta è stata riportata la necessità di drenaggio percutaneo mediante pericardiocentesi nel 70% dei casi18. In caso
di posizionamento di elettrodi ventricolari sinistri via sistema venoso coronarico sono riportati tassi di tamponamento cardiaco
dello 0.3-0.5% con tassi di dissezione del seno coronarico tra
1.0% e 1.7%9, complicanza quest’ultima in genere non associata a conseguenze cliniche avverse, ad eccezione della potenziale necessità di differire la procedura, ma potenzialmente importante e a rischio in caso di terapia anticoagulante in corso13.
In caso di procedure di impianto di ICD o CRT-D complicate da
emopericardio/tamponamento, è stata osservata una degenza
prolungata di 1.9 giorni con un costo aggiuntivo di 8249$ derivato, prevalentemente, dall’elevato costo delle prestazioni erogate in conseguenza della complicanza stessa17. Nell’ambito dell’impiantistica l’unica procedura virtualmente priva di rischi è
l’impianto di registratori di eventi sottocutanei (ILR) per il quale
non sono riportate in letteratura complicanze emorragiche di
nessuna natura30. Di contro gli interventi di estrazione transvenosa di elettrocateteri possono essere considerati come le procedure potenzialmente a maggior rischio, compreso quello
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emorragico (emopericardio e tamponamento da perforazione,
emotorace da lacerazione venosa succlavia, ematoma della tasca), anche se il tasso riportato di complicanze è, fortunatamente, piuttosto contenuto31. Date le peculiarità tecniche della
procedura di estrazione e la sua diffusione limitata a centri altamente specializzati, la gestione della terapia antitrombotica in
tale scenario è oggetto di trattazione in una sezione dedicata
del documento alla quale si rimanda.
Non c’è uniformità nelle diverse specialità interventistiche e
chirurgiche nella definizione della severità delle complicanze
emorragiche che sono variamente categorizzate in basso o alto rischio secondo frequenza di sviluppo di sanguinamenti (aumentato rischio con incidenza >1.5% indipendentemente dal
tipo di complicanza e dall’entità – quantità e qualità – del sanguinamento stesso)32,33 e possibilità di insorgenza di sanguinamenti non controllabili o all’interno di aree anatomicamente
critiche (es. intracraniche o pericardiche)34 in pazienti non trattati con terapia antitrombotica. Applicando questi criteri alla
chirurgia per impianto e sostituzione di CIED, tutte le procedure, ad eccezione di sostituzioni del generatore e impianto di
ILR, sarebbero da considerarsi ad alto rischio. Nell’opinione degli autori del presente documento, una corretta stratificazione
del rischio emorragico procedurale dovrebbe basarsi sullo sviluppo di un parametro valutativo che combini incidenza e significato clinico del sanguinamento, consentendo di evitare
una sovrastima del rischio per eventi frequenti ma senza implicazioni clinico-prognostiche e per eventi potenzialmente mortali ma rari. In accordo con questo principio, la definizione del
rischio emorragico procedurale utilizzata nel documento è riportata nella Tabella 1. Le raccomandazioni contenute nel documento sono di carattere generale, fermo restando che un rischio emorragico alto può essere assegnato in maniera casospecifica in base al giudizio clinico dell’operatore e a condizioni concomitanti.
Fattori associati ad aumentato rischio di complicanze
emorragiche
Indipendentemente dall’uso di terapia antitrombotica, che resta il principale predittore35,36, sono numerose le variabili demografiche, cliniche e tecniche potenzialmente associate ad un aumentato rischio di sviluppare complicanze emorragiche delle
procedure di impianto di CIED. L’adeguata conoscenza e rico-
Tabella 1. Stratificazione del rischio emorragico procedurale.
Rischio
Procedura
Basso
Impianto di ILR
Sostituzione di dispositivo
Intermedio Revisione impianto e riposizionamento elettrocatetere
Up-grading di dispositivo
Impianto di PM, ICD, CRT
Alto
Rimozione transvenosa di elettrocateteri
A giudizio dell’operatore casi selezionati a rischio
intermedio aumentato da situazioni concomitanti
(es. emergenza/urgenza, pacing temporaneo
transvenoso, reimpianto dopo estrazione,
cardiopatia congenita)
CRT, terapia di resincronizzazione cardiaca; ICD, cardioverter-defibrillatore impiantabile; ILR, registratore impiantabile di eventi sottocutaneo;
PM, pacemaker.
TERAPIA ANTITROMBOTICA E DISPOSITIVI IMPIANTABILI
noscimento di tali fattori potrebbe consentire una precoce identificazione di pazienti potenzialmente ad alto rischio nei quali
mettere in atto misure preventive o aggiuntive volte a limitare
l’eccesso di rischio stesso. Nell’intento di delineare il profilo del
paziente a più alto rischio dobbiamo però riconoscere un importante limite metodologico dovuto alla natura dei dati prevalentemente basati su convinzione generale e, in minor parte, su
poche evidenze. Abbiamo pertanto scelto, con l’obiettivo di superare tale limite, di estrapolare dati e informazioni solo da studi su campioni sufficientemente numerosi escludendo, in questa porzione del documento, lavori che investigassero diverse
strategie terapeutiche antitrombotiche peri-procedurali.
L’età avanzata (>65-70 anni) conferisce un seppur modesto,
aumentato rischio di complicanze periprocedurali all’impianto
di PM e ICD, incluse quelle emorragiche, in parte secondarie
alla presenza di comorbilità. In uno studio retrospettivo su
115 683 ultrasettantenni sottoposti ad impianto di PM, si è osservata una frequenza paragonabile di ematomi della tasca
(1.18 vs 1.29 vs 1.29%, p=0.22) ma un’aumentata incidenza di
perforazione e tamponamento cardiaco all’aumentare dell’età
nei terzili 70-79, 80-89 e ≥90 anni (0.45 vs 0.5 vs 0.61%, rispettivamente, p=0.03)37. Dati da un ampio registro americano
su 150 264 pazienti (di cui 91 863 ≥65 anni) sottoposti ad impianto di ICD in prevenzione primaria indicano un consistente
aumento del rischio, sebbene globalmente modesto, di ematoma della tasca con necessità di reintervento o trasfusione,
perforazione e tamponamento in soggetti ≥75 anni38.
Il sesso femminile è risultato associato ad un aumentato rischio di ematoma della tasca in uno studio tedesco su impianti di PM39. Tale associazione non è stata confermata in un ampio registro americano su 161 470 pazienti sottoposti ad impianto di ICD, in cui si è però osservato un significativo aumento dell’incidenza di perforazione cardiaca e tamponamento in soggetti di sesso femminile rispetto a soggetti di sesso
maschile (0.18 vs 0.05%, p<0.001 e 0.19 vs 0.06%, p<0.001,
rispettivamente)40.
Vari studi hanno invece riportato un effetto protettivo del
sovrappeso corporeo e dell’obesità41; di contro la presenza di
comorbilità, come storia di insufficienza cardiaca, insufficienza
renale cronica, o diatesi emorragica individuale, è associata ad
un aumentato rischio di formazione di ematoma della tasca41,42.
Variabili tecniche legate alla procedura possono predisporre a complicanze emorragiche anche se apparentemente in
contrasto con quanto comunemente percepito dagli operatori. In genere c’è un aumentato rischio di formazione di ematoma della tasca in caso di procedure non elettive43, cui si aggiunge una maggior incidenza di perforazione se precedute da
posizionamento in regime di emergenza di pacing transvenoso
temporaneo18. Non sembra invece esserci differenza in base al
tipo di dispositivo e al numero e alle caratteristiche degli elettrocateteri impiantati rispetto all’occorrenza di ematoma19. Al
contrario è stato suggerito un maggior rischio di perforazione
cardiaca clinicamente manifesta con l’utilizzo di elettrocateteri
da defibrillazione o a fissazione attiva18,28, e di perforazione silente, con diagnosi incidentale, per impianti di elettrocateteri
atriali, soprattutto a fissazione passiva, quasi triplo rispetto ai
ventricolari, più frequente in questi ultimi in caso di elettrocateteri da defibrillazione29. Rimane controverso il ruolo dell’accesso vascolare, con dati non conclusivi nel dimostrare l’ipotetico vantaggio di un accesso open via vena cefalica rispetto alla puntura e cannulazione venosa succlavia o ascellare nel ridurre il rischio di sanguinamenti. Di fatto entrambi gli approc-
ci si associano a tassi comparabili di emorragie intraprocedurali e formazione di ematoma della tasca16,19.
Una variabile che senza dubbio influenza il rischio emorragico è il cosiddetto fattore umano responsabile di un tasso di
complicanze globali, comprese quelle emorragiche, maggiore
osservato in operatori in fase di formazione o di centri a basso
volume rispetto ad operatori esperti di centri ad alto volume44.
In un recente studio scandinavo è stata riportata un’incidenza
di sviluppo di ematoma della tasca del 5.0% in impianti eseguiti
da medici in formazione (che avessero eseguito già almeno 10
impianti come primo operatore) sotto supervisione, quasi 3 volte superiore all’1.8% osservato in impianti eseguiti da operatori
con esperienza di 5-10 anni (p=0.037)45.
Accorgimenti tecnici per la riduzione del rischio di
sviluppo di complicanze emorragiche
La tecnica di impianto di CIED non differisce in soggetti ad alto rischio emorragico rispetto a pazienti a basso rischio, anche
se nei primi possono essere utilizzati degli accorgimenti ulteriori. Di fatto durante tutta la procedura è fondamentale mantenere un’ancor più meticolosa attenzione all’emostasi con una
precoce identificazione e controllo di fonti di sanguinamento
attivo che potrebbero essere causa di complicanza emorragica
postprocedurale. In generale sarebbe raccomandabile: 1) indirizzare i casi a maggior rischio ad operatori esperti meglio se
presso centri ad alto volume; 2) compatibilmente con le rispettive indicazioni, laddove possibile far precedere l’impianto del
CIED all’esecuzione di procedure di interventistica percutanea
elettiva o differibile; e 3) metter in atto altre misure aggiuntive
per il controllo del sanguinamento, per lo più empiriche e non
validate in studi controllati, in pazienti a più alto rischio in base alla preferenza e/o esperienza personale dell’operatore. Di
seguito sono discussi alcuni degli accorgimenti tecnici più frequentemente riportati.
Alcuni operatori preferiscono preparare la tasca del CIED
prima di procedere all’accessistica vascolare ed al posizionamento degli elettrocateteri con il teorico vantaggio di controllare meglio i siti di sanguinamento intra-tasca anche solo mediante compressione meccanica con garze introdotte al suo interno46. La posizione della tasca stessa può influenzare il rischio
emorragico con un possibile effetto protettivo della localizzazione sotto-fasciale pre-pettorale che comporta un minor traumatismo per i tessuti muscolari rispetto alla sotto-pettorale16.
L’utilizzo di un accesso chirurgico cefalico esclude il rischio
legato alla puntura della vena succlavia (pneumotorace, puntura arteriosa, emotorace), ma non ci sono, invece, dati che favoriscano tale approccio rispetto all’accesso succlavio o ascellare nel ridurre la complicanza di formazione di ematoma della tasca. Ciononostante, accorgimenti tecnici specifici, quali venografia della succlavia o ascellare, che consentano la visualizzazione diretta della struttura venosa da incannulare, o la tecnica nella micropuntura, che prevede l’utilizzo di aghi di piccolo calibro per minimizzare il potenziale sanguinamento da puntura accidentale arteriosa, possono ridurre anche i rischi emorragici derivanti dalla puntura19. In caso di posizionamento di
più elettrocateteri per via succlavia, l’utilizzo di una singola puntura potrebbe ridurre i rischi di complicanze anche da sanguinamento ma di contro si associa ad una ridotta manovrabilità
(con conseguente incremento del tempo di procedura) e a potenziali microtraumi dell’isolante degli elettrocateteri stessi.
Sebbene largamente riportato in letteratura19 e diffuso nella pratica clinica come presidio per migliorare l’emostasi inG ITAL CARDIOL | VOL 15 | GENNAIO 2014
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traoperatoria, l’utilizzo dell’elettrobisturi non sembra associato
a una riduzione del rischio di formazione di ematoma della tasca35.
Mutuando da altri tipi di chirurgia, è stato proposto, in pazienti in concomitante terapia anticoagulante o doppia antiaggregazione, l’utilizzo di collanti a base di fibrina, trombina o
collagene iniettati nella tasca per favorire una migliore emostasi locale47,48. Le evidenze disponibili sono contrastanti, e solo in parte confrontabili, dato l’utilizzo di agenti diversi in popolazioni di pazienti eterogenee. In un primo studio condotto
su 82 pazienti trattati con dicumarolici o eparina sodica in bridging, l’iniezione di un collante a base di fibrina nella tasca prima della connessione degli elettrocateteri al generatore ed il
posizionamento dello stesso ha prevenuto lo sviluppo di ematoma in tutti i 41 pazienti trattati mentre la complicanza è comparsa nel 24.4% dei controlli (p<0.05)47. Più recentemente, in
uno studio prospettico caso-controllo su 163 pazienti trattati
con anticoagulante orale o doppia antiaggregazione, l’iniezione all’interno della tasca di una soluzione di trombina e collagene è stata associata ad un’aumentata incidenza dell’endpoint
primario composito di ematoma con necessità di evacuazione
e infezione della tasca (14.6 vs 3.7% nei controlli, p=0.03)48.
Dati questi ultimi, in linea con altre osservazioni, consistenti con
una non efficacia nella prevenzione di complicanze emorragiche locali e di un potenzialmente aumentato rischio infettivo,
cui si aggiunge quello di potenziali reazioni di sensibilizzazione/allergiche anche gravi e di discutibile costo-efficacia.
Il posizionamento di un drenaggio chirurgico della ferita (a
caduta o in aspirazione) è, di fatto, da riservarsi a casi selezionati di eccessivo sanguinamento intraoperatorio16, anche se in
letteratura sono riportati buoni risultati anche in caso di utilizzo meno restrittivo49, pur conferendo in generale un aumentato rischio di contaminazione e infezione della tasca. Infine, è
pratica comune applicare una medicazione sterile compressiva
sulla ferita, anche se la reale efficacia e l’ottimale tempo di applicazione non sono noti. Virtualmente universale è l’applicazione di ghiaccio sulla ferita rinnovata anche nelle ore successive alla procedura a scopo antalgico anche se questo utilizzo
nel controllo del dolore postchirurgico non è supportato da evidenze scientifiche. Il ghiaccio potrebbe potenzialmente essere
in grado anche di limitare l’entità di eventuali sanguinamenti
per effetto dell’indotta vasocostrizione.
RISCHIO CONNESSO ALLA SOSPENSIONE DELLA
TERAPIA ANTIAGGREGANTE
Il rischio connesso alla sospensione della terapia antiaggregante nel paziente con cardiopatia ischemica è influenzato da numerosi fattori tra cui:
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quadro acuto o stabile della cardiopatia ischemica;
tempo intercorso dall’evento indice (sindrome coronarica
acuta e/o impianto di stent);
precedente impianto di stent (tipologia, numero, tecnica di
impianto);
motivo della sospensione (programmata oppure indotta da
eventi avversi);
sospensione di uno oppure di entrambi i farmaci antiaggreganti;
durata della sospensione del trattamento antiaggregante;
potenzialità pro-trombotica dell’eventuale intervento chirurgico.
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La quantificazione nel singolo paziente del rischio connesso alla sospensione della terapia antiaggregante è quindi un
esercizio prognostico reso estremamente complesso dalla numerosità e dalle reciproche interazioni dei fattori coinvolti nonché dalla scarsità di trial randomizzati sull’argomento, essendo
l’evidenza disponibile quasi esclusivamente basata su studi osservazionali, registri o analisi post-hoc di studi randomizzati per
altro fine.
Rischio connesso alla sospensione della terapia
antiaggregante nel paziente con cardiopatia ischemica
senza precedente impianto di stent
In una metanalisi condotta su oltre 50 000 pazienti con cardiopatia ischemica arruolati in 6 studi clinici, Biondi-Zoccai et
al.50 hanno evidenziato che il rischio di eventi cardiaci avversi
maggiori (MACE) triplica con la sospensione dell’aspirina. Tale
effetto era più evidente nei pazienti sottoposti a precedente
impianto di stent medicato (DES) [rischio relativo (RR) 89.78,
p<0.0001] ma rimaneva significativo anche nei pazienti con
diagnosi di cardiopatia ischemica indipendentemente dalla presenza di stent (RR 1.82, p<0.0001) e nei pazienti candidati a bypass aortocoronarico (BPAC) (RR 2.4, p<0.002). Il rischio specificamente connesso alla sospensione dell’aspirina in pazienti
candidati a chirurgia elettiva è stato valutato in un trial randomizzato51. Lo studio, decisamente sottodimensionato rispetto
all’endpoint clinico (220 pazienti), ha comunque evidenziato
un’incidenza significativamente più elevata di eventi cardiaci
maggiori (infarto, aritmie severe, arresto cardiaco, morte cardiovascolare) nei primi 30 giorni dopo l’intervento chirurgico
nel gruppo placebo rispetto al gruppo trattato con aspirina (9.0
vs 1.8%, p=0.02). La sospensione del trattamento con aspirina
in prevenzione secondaria di pazienti vasculopatici è stata anche associata ad un aumentato rischio di ictus ischemico nelle
4 settimane successive alla sospensione52. È possibile che l’aumento di eventi avversi osservato dopo sospensione di aspirina
sia, almeno in parte, riconducibile ad un effetto “rebound” della sospensione del farmaco (aumento dell’attività del trombossano A2, inibizione dei sistemi fibrinolitici)53.
Il rischio connesso alla sospensione di clopidogrel nel paziente con sindrome coronarica acuta trattato conservativamente è stato valutato in uno studio retrospettivo su 1568 pazienti arruolati nel Department of Veterans Affairs Veterans Health Administration Cardiac Care Follow-up Clinical Study54. Gli
autori hanno osservato un aumentato rischio di morte e infarto dopo la sospensione del farmaco con un clustering degli
eventi nei primi 90 giorni dopo la sospensione (60.8%, 21.3%
e 9.7% degli eventi nell’intervallo 0-90, 91-180 e 181-270 giorni dalla sospensione). Tale aumentato rischio era presente anche nei pazienti che sospendevano il clopidogrel oltre 9 mesi
dal ricovero per sindrome coronarica acuta.
Rischio connesso alla sospensione della terapia
antiaggregante nel paziente portatore di stent
Nel paziente portatore di stent la sospensione della terapia antiaggregante implica un rischio aggiuntivo rispetto alla situazione precedentemente descritta: la trombosi dello stent. Tale
aspetto ha acquisito particolare rilevanza negli ultimi anni con
l’avvento e la successiva sempre maggiore diffusione dei DES.
In effetti, i primi studi sui predittori di trombosi di DES dimostravano una stretta relazione tra sospensione della doppia antiaggregazione e trombosi dello stent ad 1 anno ed oltre dall’impianto55-57. Tuttavia la maggior parte dei dati sull’impatto
TERAPIA ANTITROMBOTICA E DISPOSITIVI IMPIANTABILI
prognostico della sospensione della doppia antiaggregazione
sulla trombosi di stent derivano da studi di tipo osservazionale
o retrospettivo, nei quali la larga maggioranza delle sospensioni era non programmata e causata in oltre il 70% dei casi da
eventi emorragici o dalla necessità di eseguire interventi chirurgici, spesso per neoplasia55,58,59. In questi casi è difficile distinguere tra un’effettiva relazione causa-effetto e una semplice associazione statistica in cui la sospensione della doppia antiaggregazione è solo l’epifenomeno associato ad una serie di
fattori pro-trombotici (emorragie, trasfusioni, intervento chirurgico, neoplasie) reale causa della trombosi di stent. Al contrario, negli studi in cui la sospensione della doppia antiaggregazione è stata programmata per protocollo 3 o 6 mesi dopo
impianto di stent a rilascio di sirolimus o paclitaxel anziché indotta da un evento intercorrente l’incidenza di trombosi tardiva di stent è risultata dello 0.3-0.4%/anno59, ovvero circa 10
volte più bassa rispetto agli studi osservazionali che hanno valutato l’impatto della sospensione non programmata60-63. Inoltre questi stessi studi osservazionali indicano che il rischio trombotico è massimo quando la sospensione del trattamento antiaggregante avviene nei primi 30 giorni dall’impianto dello
stent (sia esso metallico che a rilascio di farmaco) con una prevalenza che in alcune casistiche raggiunge anche il 10% dei
casi60,62 e con un aumento del RR rispetto alla non sospensione di oltre 4 volte [hazard ratio (HR) 4.5, intervallo di confidenza (IC) 2.0-10.4, p<0.001]60. Nel caso di DES di prima generazione (a rilascio di sirolimus o paclitaxel) il rischio di trombosi di stent legato alla sospensione della doppia terapia antiaggregante è ancora significativamente aumentato tra 30 e
180 giorni60-64 ma la sospensione di solo clopidogrel sembra
correlata con la trombosi di stent solo in alcuni studi (HR 2.4,
IC 1.2-4.9, p=0.01)60 mentre in altri il rischio sembra limitato ai
casi in cui la sospensione riguardi entrambi gli antiaggreganti63,64. Nella casistica di Eisenberg et al.64, l’intervallo temporale mediano tra sospensione del solo clopidogrel ed evento
trombotico è risultato superiore a 90 giorni: un intervallo temporale di scarso interesse nel caso di sospensione temporanea
di clopidogrel per impianto di PM. Al contrario, nel caso di sospensione simultanea di entrambi gli antiaggreganti l’intervallo mediano tra sospensione ed evento avverso è risultato di soli 10 giorni con il 30% degli eventi entro 5 giorni. Oltre i 180
giorni dall’impianto di DES la sospensione di solo clopidogrel
non sembra incrementare significativamente il rischio di eventi avversi (HR 1.7, IC 0.9-3.1, p=NS)60, ad eccezione forse dello stent a rilascio di paclitaxel65.
Probabilmente la rilevanza della sospensione della terapia
antiaggregante dopo i primi 30 giorni dall’impianto di stent si
è ridotta ulteriormente con l’utilizzo di DES di nuova generazione all’everolimus o allo zotarolimus che mostrano una minore tendenza alla trombosi tardiva66-68. In un recente studio
osservazionale su 1622 pazienti in cui era stato impiantato uno
DES di seconda generazione nel 55% dei casi, la sospensione
della doppia antiaggregazione dopo i primi 30 giorni dall’impianto, soprattutto se limitata al solo clopidogrel, non aumentava significativamente il rischio di eventi avversi (HR 1.29, IC
0.31-5.34, p=0.725)69. La rivisitazione retrospettiva dei principali trial XIENCE, includenti oltre 13 000 pazienti, non ha evidenziato un significativo incremento del rischio trombotico nei
pazienti che interrompevano la doppia antiaggregazione dopo
i primi 3 mesi dall’impianto di uno stent a rilascio di everolimus70. Stessi risultati per una simile metanalisi su oltre 10 000
pazienti degli studi XIENCE e SPIRIT71. Analogamente, una
pooled patient-level analisi su oltre 5000 pazienti arruolati in
studi randomizzati e osservazionali sottoposti ad impianto di
stent a rilascio di zotarolimus non ha mostrato un significativo incremento di trombosi di stent nei pazienti che sospendevano la doppia antiaggregazione dopo un solo mese dall’impianto72. Sulla base di questi dati gli stent a rilascio di everolimus e zotarolimus hanno ottenuto una revisione del marchio
CE per la sospensione della doppia antiaggregazione dopo rispettivamente 3 mesi ed 1 mese dall’impianto. Gli autori del
presente documento ritengono tuttavia che i dati alla base di
tali approvazioni CE siano ancora non conclusivi perché di tipo esclusivamente osservazionale e perché ottenuti in gruppi
di pazienti il cui range di tempo intercorrente tra impianto e
sospensione era molto ampio e con mediana molto tardiva rispetto al limite temporale stabilito: nel caso della metanalisi
XIENCE-SPIRIT 277 giorni e nel caso dello stent a rilascio di zotarolimus 266 giorni (in entrambi i casi circa 9 mesi dall’impianto!).
Riassumendo, il rischio di eventi avversi ischemici correlati
alla sospensione della terapia antiaggregante è molto elevato
nei pazienti sottoposti a impianto di stent da meno di 30 giorni e, oltre questo intervallo temporale, nei casi in cui vengano
sospesi entrambi i farmaci antiaggreganti. La sospensione del
solo inibitore P2Y12 tra 30 e 180 giorni comporta un rischio elevato nei pazienti portatori di DES, soprattutto se di prima generazione. Dopo 180 giorni dall’impianto di stent la sospensione dell’inibitore P2Y12 non comporta rischi significativi ad eccezione, verosimilmente, di particolari situazioni anatomiche
(es. DES multipli, in overlapping, su biforcazioni o piccoli vasi)
o di stent a rilascio di paclitaxel. Elevato, anche se in genere
sottostimato, il rischio legato alla sospensione della terapia antiaggregante entro l’anno da un episodio di sindrome coronarica acuta trattata conservativamente.
La classificazione qui riportata del rischio trombotico può
sembrare in apparente contrasto con quella riportata dal documento di consenso ANMCO-Società Italiana di Cardiologia
Invasiva (GISE) sulla gestione della terapia antiaggregante nel
paziente portatore di stent candidato a chirurgia73, la quale assegna un basso livello di rischio trombotico solo in caso di impianto di DES da più di 12 mesi (6 mesi nel caso di stent metallico). Occorre però tener conto del fatto che tale classificazione prendeva necessariamente in considerazione anche il potenziale pro-trombotico dell’intervento chirurgico e delle eventuali patologie correlate (neoplasie, emorragie, eventuali trasfusioni) mentre è verosimile ipotizzare che, nel caso in oggetto di paziente candidato a impianto di PM, tale contesto protrombotico sia più limitato e che pertanto il rischio della sospensione della terapia antiaggregante sia assimilabile a quello di una sospensione programmata di breve durata.
EVIDENZE DI GESTIONE DELLA TERAPIA
ANTIAGGREGANTE
La maggior parte dei pazienti che vanno incontro ad un impianto di PM o ICD presentano una precedente indicazione all’esecuzione di una terapia antitrombotica e spesso quest’ultima è rappresentata da una duplice terapia antiaggregante per
la prevenzione secondaria della cardiopatia ischemica, specialmente dopo un impianto di stent coronarico. La terapia antiaggregante rappresenta un ben noto fattore di rischio per lo
sviluppo di ematomi della tasca del PM74 e questi ultimi possoG ITAL CARDIOL | VOL 15 | GENNAIO 2014
61
V ZACÀ ET AL
no avere serie conseguenze per i pazienti come descritto nella
sezione del documento dedicata al rischio emorragico19,20. Premesso che una terapia antiaggregante non può essere sostituita da una terapia anticoagulante e che l’eparina [sottocute
(s.c.) o endovenosa (e.v.)] eseguita come terapia ponte durante gli impianti di CIED si associa ad un significativo rischio emorragico19,20,74 ed al tempo stesso risulta meno efficace nel prevenire gli eventi ischemici rispetto all’indicata terapia antiaggregante, la gestione di questi pazienti comporta spesso scelte complesse. La semplice sospensione sistematica della terapia
antiaggregante può esporre i pazienti ad eventi trombotici,
mentre continuare routinariamente i farmaci antiaggreganti
può esporre i pazienti ad un rischio emorragico non necessario.
Nell’ambito di un inevitabile bilancio dei rischi trombotici della
cardiopatia di base e di quelli emorragici connessi all’impianto
del CIED, appare intuitivamente opportuno valutare accuratamente l’effettiva indicazione alla duplice terapia antiaggregante nel momento in cui viene programmata la procedura di impianto. Considerato che con l’eccezione di neurochirurgia intracranica e prostatectomia transuretrale, in cui sono riportati
sanguinamenti fatali associati all’assunzione di aspirina, basse
dosi di aspirina durante qualsiasi tipo di chirurgia sembrano aumentare solo quantitativamente i sanguinamenti, e non sempre
in modo significativo, senza modificarli nella tipologia, e, pertanto, senza renderli a più alto rischio, possono assolutamente
essere tollerati in caso di impianti di CIED73. Quello che invece
deve essere ponderato maggiormente è l’esecuzione dell’impianto con un secondo antiaggregante in associazione all’aspirina. Nello studio PRODIGY 2013 pazienti che hanno ricevuto
DES o stent metallici, nel 74% dei casi affetti da sindrome coronarica acuta, sono stati randomizzati a ricevere una terapia
con clopidogrel per 6 o 12 mesi in associazione all’aspirina. I risultati dello studio hanno dimostrato come in generale prolungare la duplice terapia antiaggregante oltre i 6 mesi non si associ ad una riduzione di morte, infarto, trombosi intrastent ed
ictus, ma sia gravata da un eccesso di sanguinamenti75. Gli autori del presente documento concordano che indicazioni non
sindacabili alla duplice terapia antiaggregante che non ne permettono una sua sospensione poiché il rischio trombotico della patologia di base giustifica l’incremento del rischio emorragico connesso all’esecuzione dell’impianto con la duplice terapia antiaggregante in atto sono rappresentate dalle seguenti
condizioni cliniche:
1. entro 6 mesi da una sindrome coronarica acuta indipendentemente dal trattamento eseguito;
2. entro 6 mesi dall’impianto coronarico di un DES, inclusi gli
stent bioriassorbibili;
3. entro 1 mese dall’impianto coronarico di uno stent metallico o da un’angioplastica con solo pallone, inclusi i palloni
a rilascio di farmaco;
4. entro 1 mese dall’impianto di uno stent a livello carotideo,
renale, periferico o una procedura di impianto transcatetere di valvola aortica, chiusura percutanea dell’auricola sinistra, di forame ovale pervio o altro difetto del setto interatriale, impianto di endoprotesi aortica o interventi percutanei similari con impianto endovascolare di dispositivi metallici.
Fuori dalle elencate condizioni, la duplice terapia antiaggregante può essere sospesa con un accettabile rischio di ricorrenza di eventi ischemici al fine di ridurre le complicanze
emorragiche connesse all’impianto. Il clopidogrel dovrà in que-
62
G ITAL CARDIOL | VOL 15 | GENNAIO 2014
sti casi essere sospeso 5 giorni prima dell’impianto, mentre
l’aspirina continuata indefinitamente. Potrà essere considerato l’utilizzo di test di funzionalità piastrinica al fine di accorciare l’attesa all’impianto33. La duplice terapia antiaggregante
potrà essere ripresa 48h dopo l’impianto, controllando l’avvenuta emostasi e salvo complicanze. Nel caso di impianto di
CIED in corso di duplice terapia antiaggregante dovrà essere
prestata particolare attenzione all’emostasi al fine di prevenire l’ematoma della tasca utilizzando le strategie descritte in
precedenza. Le raccomandazioni relative alla gestione della terapia antiaggregante in pazienti candidati a impianto o sostituzione di CIED sono sintetizzate nella Tabella 2.
Terapia ponte con farmaci antiaggreganti endovenosi
Il protocollo di bridging therapy con inibitori dei recettori piastrinici glicoproteici IIb/IIIa con breve emivita per via endovenosa è riservato a pazienti ad alto rischio di trombosi dello
stent, per i quali l’operatore richieda la sospensione della duplice terapia antiaggregante a causa di un inaccettabile rischio
emorragico. Savonitto et al.76 hanno realizzato uno studio prospettico di fattibilità basato su 60 pazienti portatori di DES, ritenuti ad alto rischio di trombosi di stent e candidati ad interventi di chirurgia maggiore o chirurgia oftalmologica. I pazienti
sono stati sottoposti al protocollo che prevedeva la somministrazione di tirofiban fino a 4h prima dell’intervento e ripresa
2h dopo l’intervento. La terapia ponte non è stata associata
ad alcun evento avverso, definito come morte, infarto, trombosi di stent e reintervento legato a sanguinamento. Sanguinamenti maggiori secondo la classificazione TIMI si sono verificati in 2 pazienti, mentre 3 hanno presentato un sanguinamento minore. Dobbiamo ammettere che non esistono molti
dati in letteratura a supporto di questo protocollo ed i pochi a
disposizione riguardano interventi di chirurgia maggiore o oftalmologica, e non l’ambito di trattazione di questo documento come l’impianto di CIED. Per questi motivi la terapia
bridging con tirofiban non dovrebbe essere considerata in pazienti che vanno incontro a impianti di PM e ICD salvo rare eccezioni.
Un ulteriore scenario possibile potrà forse realizzarsi quando sarà a disposizione un nuovo e potente antiaggregante ad
uso intravenoso, che inibisce in modo competitivo il recettore
piastrinico P2Y12: il cangrelor. Questo farmaco viene somministrato per via parenterale, ha un’emivita di 5-9 min e consente
un completo recupero della funzione piastrinica dopo circa 1h
dalla sospensione dell’infusione. Lo studio BRIDGE ha valutato
la somministrazione endovenosa di cangrelor, come terapia
ponte, in pazienti candidati ad intervento di BPAC77. L’endpoint
primario di efficacia dello studio era rappresentato dalla reattività piastrinica valutata con VerifyNow. L’endpoint di sicurezza
era costituito dai sanguinamenti maggiori correlati all’intervento cardiochirurgico. Lo studio, condotto su 210 pazienti in
terapia con tienopiridine, ha dimostrato che i pazienti trattati
con cangrelor presentavano valori di reattività piastrinica significativamente più bassi rispetto ai pazienti trattati con placebo
[P2Y12 reaction units (PRU) <240: 98.8 vs 19.0%, RR 5.2, IC
95% 3.3-8.1, p<0.0001]. Non si è osservato aumento dei sanguinamenti maggiori nel gruppo trattato con cangrelor rispetto al placebo, mentre è stato osservato un aumento dei sanguinamenti minori nel gruppo cangrelor. Sulla base di tali dati,
seppur derivati da uno studio di piccole dimensioni con endpoint surrogato e limitato ai pazienti sottoposti ad intervento
di BPAC, si potrebbe ipotizzare un impiego di questo farmaco
TERAPIA ANTITROMBOTICA E DISPOSITIVI IMPIANTABILI
Tabella 2. Gestione della terapia antiaggregante.
Rischio
emorragico
Rischio trombotico
Basso
Intermedio
Alto
– BMS >1 mese
– DES >12 mesi
– SCA >12 mesi
– SCA 6-12 mesi
– DES 6-12 mesi
– SCA <6 mesi
– DES <6 mesi
– BMS <1 mese
Basso
ASA: proseguire
Inibitori recettore P2Y12:
sospendere 5 giorni primaa
ASA: proseguire
Inibitori recettore P2Y12: proseguire
ASA: proseguire
Inibitori recettore P2Y12: proseguire
Intermedio
ASA: proseguire
Inibitori recettore P2Y12:
sospendere 5 giorni primaa
ASA: proseguire
Inibitori recettore P2Y12:
sospendere 5 giorni primaa.
Riprendere 24-48h dopo con dose di caricob
ASA: proseguire
Inibitori recettore P2Y12: proseguire
Bridging therapy con piccole molecole?
Alto
ASA: sospendere
Inibitori recettore P2Y12:
sospendere 5 giorni primaa
ASA: sospendere
Inibitori recettore P2Y12:
sospendere 5 giorni primaa
Rinviare procedura se possibile
In alternativa:
ASA: proseguire
Inibitori recettore P2Y12:
sospendere 5 giorni prima
Bridging therapy con piccole molecole o
cangrelor?c
ASA, aspirina; BMS, stent metallico; DES, stent medicato; SCA, sindrome coronarica acuta.
a
7 giorni prima per prasugrel.
b
la dose di carico è in generale da raccomandarsi qualora persista l’indicazione a duplice terapia antiaggregante se dopo 24-48h è accertata l’emostasi.
c
da considerarsi solo in casi selezionati.
come terapia bridging anche in altri contesti, come per esempio i pazienti con indicazione alla duplice terapia antiaggregante candidati a procedure di impianto di CIED a rischio emorragico non trascurabile. Studi clinici ad hoc saranno necessari
per supportare tale ipotesi.
NUOVI ANTIAGGREGANTI ORALI
Negli ultimi anni sono entrati nell’armamentario clinico per il
trattamento dei pazienti con sindrome coronarica acuta due
nuovi farmaci antiaggreganti orali: il prasugrel e il ticagrelor.
Prasugrel è una nuova tienopiridina che determina un’inibizione piastrinica più rapida e più intensa rispetto a clopidogrel
legando in modo irreversibile il solito recettore P2Y12 piastrinico tramite un metabolita attivo simile a quello del clopidogrel
ma più favorevolmente biodisponibile78. Lo studio TRITON-TIMI
38 ha dimostrato che la somministrazione di prasugrel in pazienti con sindrome coronarica acuta a rischio moderato-elevato e candidati a procedura coronarica percutanea si associa
a una riduzione significativa dell’endpoint primario di morte
cardiovascolare, infarto non fatale o ictus al prezzo di un significativo aumento dei sanguinamenti maggiori (TIMI) non
correlati all’intervento di BPAC (2.4 vs 1.8%, HR 1.32, IC 95%
1.03-1.68, p=0.03)79. Nel sottogruppo di pazienti che veniva
sottoposto a rivascolarizzazione chirurgica entro 7 giorni dalla sospensione della tienopiridina, l’incidenza dei sanguinamenti maggiori correlati all’intervento di BPAC risultava essere di 4 volte superiore nei pazienti trattati con prasugrel. Ciò
nonostante, questi pazienti presentavano una mortalità totale inferiore (3.7 vs 9.0%)79.
Ticagrelor appartiene ad una nuova classe di farmaci antiaggreganti, che inibisce, attraverso un legame reversibile, il
recettore P2Y12 piastrinico ed ha un’emivita plasmatica di cir-
ca 6-8h. Come prasugrel, ha un’attività antiaggregante maggiore e ad esordio più rapido rispetto a clopidogrel80. Nello studio PLATO, che ha incluso pazienti con sindrome coronarica
acuta indipendentemente dalla strategia di tipo interventistico,
la terapia con ticagrelor ha determinato una riduzione significativa dell’endpoint combinato di morte, infarto non fatale o
ictus rispetto alla terapia con clopidogrel (9.8 vs 11.7%, HR
0.84; IC 95% 0.77-0.92, p<0.001)81. È stata osservata, inoltre,
una riduzione significativa (dal 5.1% al 4.0%, p=0.001) della
mortalità cardiovascolare nei pazienti trattati con ticagrelor, le
cui modalità sono attualmente oggetto di studio, ma potrebbero, almeno in parte, dipendere anche da effetti pleiotropici
del farmaco. La terapia con ticagrelor, come atteso dall’utilizzo di un farmaco antiaggregante più potente del clopidogrel,
è stata associata ad un aumento significativo dei sanguinamenti non correlati all’intervento di BPAC. Come nello studio
TRITON-TIMI 38, anche nello studio PLATO i pazienti che venivano sottoposti a BPAC entro 7 giorni dalla sospensione della
terapia antiaggregante, presentavano una riduzione significativa di mortalità totale (da 9.7% a 4.7%, HR 0.49, p<0.01) e
cardiovascolare (da 7.9% a 4.1%, HR 0.52, p<0.01) nel gruppo trattato con ticagrelor rispetto al gruppo trattato con clopidogrel. Tale effetto protettivo non era legato ad una diversa
incidenza di sanguinamenti, che risultavano simili nei due
gruppi, mentre erano ridotte le sepsi polmonari nel gruppo
trattato con ticagrelor82.
Nel complesso, i dati emersi dai due studi indicano che
un’efficace antiaggregazione piastrinica nel perioperatorio di
una chirurgia coronarica potrebbe associarsi ad un effetto protettivo in termini di mortalità indipendentemente dal rischio
emorragico. Tuttavia, al momento attuale la tendenza è di sospendere questi farmaci considerando prevalentemente il rischio emorragico e trascurando i potenziali benefici che un’efG ITAL CARDIOL | VOL 15 | GENNAIO 2014
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V ZACÀ ET AL
ficace terapia antiaggregante può fornire nella prevenzione degli eventi ischemici. Quindi, nel caso si rendesse necessaria la
sospensione di tali farmaci in previsione di un intervento chirurgico a rischio di sanguinamento non basso, le attuali linee
guida della Società Europea di Cardiologia consigliano di sospendere ticagrelor almeno 5 giorni prima dell’intervento chirurgico (come il clopidogrel), mentre è consigliata una sospensione di almeno 7 giorni nel caso di terapia con prasugrel83. Per
quanto riguarda l’impianto di CIED, che possiamo considerare
una chirurgia con rischio di sanguinamento inferiore rispetto al
BPAC, una strategia di prosecuzione della duplice terapia antiaggregante sembrerebbe avere un razionale anche se mai testata in studi clinici, specialmente con prasugrel e ticagrelor. In
particolare, durante lo studio TRITON-TIMI 38 solo 40 pazienti
sono andati incontro ad impianto di un PM e 28 di un ICD. Il
protocollo dello studio prevedeva la sospensione del farmaco 5
giorni prima di qualsiasi chirurgia elettiva senza distinzione riguardo al rischio emorragico da questa conferito. Dei 68 pazienti che sono andati incontro ad impianto di CIED, un solo
paziente ha presentato un sanguinamento minore ed apparteneva al braccio clopidogrel. Non si sono verificati sanguinamenti maggiori in questi pazienti o eventi ischemici di rilievo
clinico79.
Sebbene l’utilizzo di ticagrelor sia stato associato all’insorgenza di bradiaritmie e di pause ventricolari, nello studio PLATO la frequenza di impianto di PM è stata identica nel braccio
ticagrelor e nel braccio clopidogrel (0.9 vs 0.9%, p=0.87); 84 su
9235 pazienti arruolati nel braccio ticagrelor hanno ricevuto
l’impianto di un CIED rispetto a 79 pazienti su 9186 arruolati
nel braccio clopidogrel. Per protocollo il farmaco in studio è stato sospeso e non siamo a conoscenza degli eventi successivi a
questo iter terapeutico81.
Prasugrel e ticagrelor sono attualmente i farmaci antiaggreganti raccomandati nella maggior parte dei pazienti con
sindrome coronarica acuta in associazione all’aspirina e tale
terapia dovrebbe essere proseguita per 12 mesi. Al momento
non sono disponibili dati riguardo all’impianto di PM in pazienti trattati con i nuovi farmaci antiaggreganti. Poiché l’impianto di un CIED è tutt’altro che un’eventualità remota nei
primi 12 mesi da una sindrome coronarica acuta, sono necessari ulteriori dati al fine di poter procedere alla formulazione di
raccomandazioni gestionali per i pazienti in terapia con prasugrel e ticagrelor che devono sottoporsi ad un impianto di
CIED. Nel frattempo dovremo seguire fedelmente le disposizioni delle schede tecniche che ci indicano, quando possibile,
di sospendere i farmaci prima dell’impianto (5 giorni prima per
ticagrelor e 7 giorni prima per prasugrel). Gli autori di questo
documento non ritengono giustificata una terapia ponte con
tirofiban o cangrelor in tutti i pazienti con recente sindrome
coronarica acuta in trattamento con prasugrel o ticagrelor che
devono andare incontro ad impianto di PM o ICD, mentre la
terapia ponte con eparina (s.c. o e.v.) non soddisfa completamente le esigenze di pazienti ad elevato rischio con indicazione a trattamento antiaggregante. Inoltre l’eparina stimola l’attività delle piastrine rendendola non adatta per una terapia sostitutiva di quella antiaggregante. Pertanto, a giudizio degli
autori, è da considerarsi inadeguato e non corretto l’atteggiamento molto diffuso di sostituire la terapia antiaggregante con
eparina a basso peso molecolare. I pazienti ed i medici referenti
dovranno preventivamente informare gli operatori dell’impianto di tutte le terapie in atto al fine di pianificare nel modo
migliore la procedura.
64
G ITAL CARDIOL | VOL 15 | GENNAIO 2014
RISCHIO CONNESSO ALLA SOSPENSIONE DELLA
TERAPIA ANTICOAGULANTE ORALE
La gestione periprocedurale dei pazienti che stanno assumendo una TAO si basa su:
1. valutazione del rischio tromboembolico;
2. valutazione del rischio di sanguinamento periprocedurale.
La risposta a queste domande consente di decidere se la terapia può/deve essere interrotta nel periodo periprocedurale e
se una terapia ponte a sostituzione è indicata o meno. Attualmente, non esistono schemi di stratificazione del rischio, validati da studi ad hoc, per separare i pazienti in trattamento con
antagonisti della vitamina K in strati di rischio per il tromboembolismo ed il sanguinamento. Di conseguenza, molte indicazioni sono basate su evidenze indirette ed indicazioni di consenso tra esperti.
Rischio tromboembolico
Le tre principali indicazioni cliniche per l’assunzione degli antagonisti della vitamina K sono: a) protesi valvolari cardiache; b)
FA; c) tromboembolismo venoso. Il rischio di complicanza tromboembolica legata alla sospensione della terapia è molto diverso in un paziente con protesi valvolare meccanica mitralica
(magari complicata da FA), rispetto ad un paziente con una pregressa trombosi venosa verificatasi più di 6 mesi prima. Ancora, diverso è il rischio del paziente fibrillante con un profilo
CHADS2 elevato (es. perché diabetico e con storia di pregresso
ictus) rispetto ad un paziente con un profilo CHADS2 1-2 (che
non comprenda una storia di pregresso ictus). Una proposta di
classificazione sulla base del rischio – mutuata dalle linee guida sulla terapia antitrombotica 2012 dell’American College of
Chest Physicians15 – distingue tre classi di rischio: alto (rischio
annuale di evento tromboembolico >10%); moderato (5-10%
rischio annuale di tromboembolismo); basso (rischio annuale di
evento tromboembolico <5%) (Tabella 3). Un limite di questo
schema – come di tutti i tentativi di semplificazione – è il fatto
che alcuni elementi peculiari al singolo paziente non siano inclusi e possano far percepire al clinico il rischio trombotico diverso rispetto a questo schema. Ad esempio, un profilo
CHADS2 legato ad una storia di pregresso ictus oppure una storia di tromboembolismo venoso non recente ma grave (es. embolia polmonare massiva).
Rischio emorragico
Per i dettagli sulla valutazione del rischio emorragico, si rimanda allo specifico paragrafo di questo stesso articolo.
EVIDENZE DI GESTIONE DELLA TERAPIA
ANTICOAGULANTE ORALE
Un punto essenziale nella gestione di questi pazienti è che deve essere programmata una gestione integrata tra il paziente,
un clinico esperto nella gestione delle terapie antitrombotiche
e il medico che esegue la procedura. Il paziente dovrebbe essere informato e condividere la scelta e ricevere un programma
dettagliato sulle modalità di interruzione della terapia ed (eventualmente) di sostituzione con altre terapie84,85.
In generale, la questione principale riguarda la decisione,
in un paziente in TAO, di applicare o meno la cosiddetta “terapia ponte”, per minimizzare il rischio tromboembolico nei pazienti ad alto rischio ed il rischio emorragico dopo procedure ad
TERAPIA ANTITROMBOTICA E DISPOSITIVI IMPIANTABILI
Tabella 3. Stratificazione del rischio tromboembolico in pazienti in terapia anticoagulante orale.
Rischio
tromboembolico
Indicazione alla terapia con antagonisti della vitamina K
Protesi valvolare meccanica
FA
TEV
Alto
(>10% annuale)
– Tutte le protesi valvolari mitraliche
– Presenza di due o più valvole
meccaniche
– Protesi aortiche a palla o monodisco
– TIA/ictus ischemico nei precedenti
6 mesi
– CHADS2 score 5 o 6
– TIA/ictus negli ultimi 3 mesi
– Patologia valvolare cardiaca
reumatica
– TEV negli ultimi 3 mesi
– Trombofilia grave (deficit AT, proteina C
o S; doppia eterozigosi fattore V Leiden
e polimorfismo protrombina; omozigosi
fattore V Leiden o polimorfismo
protrombina; anticorpi antifosfolipidi)
Moderato
(5-10% annuale)
– Protesi valvolari aortiche bidisco in
presenza di: FA; pregresso TIA/ictus;
ipertensione; diabete; età >75 anni
– CHADS2 score 3 o 4
– TEV negli ultimi 3-12 mesi
– Trombofilia non grave (es. eterozigosi
fattore V Leiden o polimorfismo
protrombina)
– TEV recidivante
– Neoplasia in fase attiva
Basso
(<5% annuale)
– Protesi valvolari aortiche bidisco
senza FA
– CHADS2 score da 0 a 2 (ma
senza storia di TIA/ictus)
– TEV >12 mesi in assenza di neoplasia o
trombofilia
AT, antitrombina; FA, fibrillazione atriale; TEV, tromboembolismo venoso; TIA, attacco ischemico transitorio.
alto rischio di sanguinamento. Il primo punto da ricordare è
che, nonostante l’uso di una terapia sostitutiva dell’anticoagulazione nelle procedure ad alto rischio sia considerato un trattamento standard, si tratta di una procedura valutata in due
soli trial randomizzati controllati e rimane quindi oggetto di
controversia20,86-88. Essa si basa sull’interruzione dell’antagonista della vitamina K e sulla sua sostituzione con eparina a basso peso molecolare, sospesa prima della procedura (12-24h) e
reintrodotta successivamente (24-48h).
Interruzione della terapia con antagonisti della
vitamina K
L’interruzione degli antagonisti della vitamina K allo scopo di
ottenere un’emostasi normale o pressoché normale al momento della procedura è basata sugli effetti farmacodinamici
del farmaco e sul tempo associato richiesto per la rigenerazione dei fattori della coagulazione vitamina K-dipendenti. Questo
tempo può essere stimato sulla base del tempo di dimezzamento degli antagonisti della vitamina K89-92: da 8 a 11h per
l’acenocumarolo e da 36 a 42h per il warfarin.
Sulla base di questi dati, l’interruzione dell’anticoagulante
orale dovrebbe avvenire 5 (se il paziente sta assumendo warfarin) o 3 (se il paziente sta assumendo acenocumarolo) giorni
prima della procedura: nella quasi totalità degli studi a disposizione, tuttavia, tutti gli antagonisti della vitamina K sono stati
interrotti 5 giorni prima (anche se i dati riguardano nella quasi
totalità dei casi warfarin e solo in una minoranza acenocumarolo). Nessun trial randomizzato ha confrontato direttamente
gli effetti sul sanguinamento di una sospensione degli anticoagulanti orali precoce (5-6 giorni) rispetto ad una più tardiva (<5
giorni). Gli unici dati derivano da un piccolo studio retrospettivo su 21 pazienti93 che hanno interrotto il warfarin 36h prima
di una polipectomia e che al momento della procedura avevano un international normalized ratio (INR) medio di 2.3: nessuno di loro ha sviluppato complicanze emorragiche maggiori,
ma in tutti è stata eseguita la procedura con l’applicazione di
clip endoscopiche per ridurre il rischio emorragico. In uno studio prospettico su 224 pazienti in cui il warfarin è stato sospeso 5 giorni prima di una chirurgia, solo il 15% dei pazienti aveva un INR >1.5 al momento dell’intervento94. Un altro studio
retrospettivo che ha applicato una sospensione tardiva (2-3
giorni) del warfarin ha verificato che questa non era sufficiente al raggiungimento di un INR <1.5 (la media di INR al momento della chirurgia era 1.8)95. Infine, un trial randomizzato ha
confrontato una strategia di sospensione di 5 giorni prima di
chirurgia vs 1 giorno prima con la concomitante somministrazione di vitamina K: l’INR medio al momento della chirurgia era
1.24 nel primo gruppo e 1.61 nel secondo96.
Ripresa della terapia con antagonisti della vitamina K
Per la maggior parte delle procedure – e quindi anche in seguito ad impianto di CIED – la ripresa degli antagonisti della vitamina K è possibile la sera del giorno successivo. Uno studio
prospettico su 650 pazienti ha dimostrato che il tempo medio
per riottenere un INR in range dopo ripresa del warfarin è di
5.1 ± 1.1 giorni85. Uno studio ha verificato la strategia di reintroduzione del warfarin con un dosaggio raddoppiato nei primi 2 giorni di ripresa della terapia, con un tempo medio per
riottenere un INR >2.0 di 4.6 giorni85,94.
Terapia ponte
Oltre alla decisione se applicare o meno la bridging therapy,
una questione rilevante è valutare il tipo di bridging therapy da
applicare. Infatti, sono stati studiati tre regimi diversi: 1) bridging therapy ad alto dosaggio (equivalente al dosaggio impiegato nella terapia del tromboembolismo venoso): inserimento
di eparina a basso peso molecolare a dosaggio anticoagulante,
ad esempio enoxaparina 1 mg/kg x 2/die; dalteparina 100 UI/kg
x 2/die; 2) bridging therapy a basso dosaggio (equivalente al
dosaggio impiegato nella profilassi del tromboembolismo venoso), ad esempio enoxaparina 40 mg/die; dalteparina 5000
UI/die; 3) bridging therapy a dosaggio intermedio (pari a 70
unità anti-FXa/kg x 2/die). Quest’ultima modalità – bridging
therapy a dosaggio intermedio – è stata validata in uno studio
italiano su 1262 pazienti97, in cui ne è stata dimostrata la fattibilità, sicurezza ed efficacia: i dati non sono, tuttavia, conclusivi per i pazienti ad alto rischio tromboembolico con protesi valvolari meccaniche, poco rappresentati nello studio (15%).
Come applicare queste indicazioni nei pazienti che devono
eseguire impianto di CIED? Una metanalisi del 201298 ha per la
G ITAL CARDIOL | VOL 15 | GENNAIO 2014
65
V ZACÀ ET AL
prima volta confrontato i dati presenti in letteratura su sicurezza ed efficacia di un trattamento basato sulla prosecuzione dell’anticoagulante orale o sull’applicazione di una bridging therapy. Sono stati inclusi i 6 trial46,99-103 che hanno confrontato
una strategia basata sulla bridging therapy rispetto alla continuazione della TAO nei pazienti ad alto rischio tromboembolico candidati a procedure di impianto CIED. Considerati tutti insieme, gli studi hanno arruolato 629 pazienti nel braccio di prosecuzione della TAO, rispetto a 403 nel braccio bridging therapy; 4 studi hanno impiegato warfarin99,101,102, 2 acenocumarolo46,100; 2 studi hanno impiegato la bridging therapy con eparina a basso peso molecolare99,103, 4 eparina non frazionata con
l’obiettivo del raggiungimento di un tempo di tromboplastina
parziale attivato (aPTT) tra 55 e 90 s100-102. Il rischio di ematoma
della tasca è risultato ridotto in maniera significativa nel braccio di prosecuzione della TAO rispetto alla bridging therapy (OR
0.29, IC 95% 0.17-0.49); risultato analogo considerando
l’ematoma della tasca che ha richiesto revisione/drenaggio (OR
0.15, IC 95% 0.04-0.54). Nessuna differenza nell’incidenza di
eventi tromboembolici, incidenza globalmente bassa (3 pazienti
con evento tromboembolico, senza differenza tra i due gruppi)
(OR 0.48, IC 95% 0.07-3.54, p=0.48). Le limitazioni dei risultati di questa metanalisi sono legate al fatto che: 5 su 6 trial
inclusi non sono studi randomizzati; il numero di pazienti inclusi nei singoli studi è ridotto e da solo nessun studio raggiunge risultati definitivi; il braccio bridging therapy comprende modalità diverse di impiego di diversi tipi di eparina. Questo
dato è molto importante da sottolineare: lo studio di Marquie
et al.104, nel 2006, aveva dimostrato, infatti, che la somministrazione di eparina postimpianto era associata – nei pazienti
con protesi valvolari e con FA – ad un aumento del rischio di
complicanze emorragiche di circa 14 volte. In questo studio,
tuttavia, è stata impiegata eparina non frazionata e.v., introdotta in media 3h dopo la procedura. Non possiamo considerare uguali tutti i tipi di bridging therapy: ovviamente un inizio
di eparina così precoce e l’uso di eparina e.v. per ottenere un
aPTT di 60 s non può essere considerato uguale all’impiego di
eparina a basso peso molecolare, iniziata 24h dopo l’impianto
e ad un dosaggio intermedio. Questo ragionamento è utile per
valutare i risultati della metanalisi di Feng et al.98 in cui i 6 trial
inclusi hanno adottato differenti tipi di eparine, iniziate a tempi diversi e con dosaggi diversi. Inoltre, il tipo di dispositivo cardiaco impiantato è rappresentato diversamente nei 6 studi e
questo può rappresentare un bias per il differente rischio emorragico legato ai diversi dispositivi. Infine, un punto cruciale è la
considerazione del tipo di pazienti arruolati: l’INR medio che i
pazienti avevano al momento della procedura era compreso tra
2.0 e 2.55. L’analisi della casistica dei differenti studi mostra come in tutti – ad eccezione dello studio di Tolosana et al.100 (in
cui la percentuale di pazienti con protesi valvolari meccaniche
era del 39% con 20 pazienti) – la percentuale di pazienti con
protesi valvolari meccaniche mitraliche (per i quali è indicato il
mantenimento di un range terapeutico di INR tra 2.5 e 3.5) è
circa il 20% (con 4 studi con percentuali ≤10%). Questo dato
è importante perché suggerisce prudenza nell’estrapolazione
dei risultati a questa categoria di pazienti.
Nel 2012 Ghanbari et al.105 hanno pubblicato i risultati di
una nuova metanalisi che ha incluso 8 studi (5 studi di coorte99,101-103 e 3 studi randomizzati46,100,106) di confronto tra strategia di prosecuzione della TAO e bridging therapy in corso di
impianto di CIED per un totale di 2321 pazienti. La prosecuzione della TAO si è confermata associata ad un rischio signifi-
66
G ITAL CARDIOL | VOL 15 | GENNAIO 2014
cativamente più basso di sanguinamento (OR 0.30, IC 95%
0.18-0.50), senza differenze nel rischio di eventi tromboembolici (OR 0.65, IC 95% 0.14-3.0).
Solo le due metanalisi presentate – mettendo insieme i risultati dei diversi studi, a piccola dimensione e con disegno diverso – hanno potuto ottenere questo risultato. Singolarmente, nessun trial randomizzato era adeguatamente dimensionato per dare risposte significative fino al disegno ed alla realizzazione del BRUISE CONTROL, i cui risultati sono stati pubblicati
a maggio 201320. Sono stati arruolati 668 pazienti a rischio
tromboembolico intermedio-alto (rischio di eventi >5% annuale). Nel braccio di prosecuzione della TAO, l’obiettivo era
avere un INR ≤3.0, ad eccezione dei pazienti con una o più valvole meccaniche per i quali era consentito un INR di 3.5. Nel
braccio bridging therapy veniva somministrata eparina a basso
peso molecolare o non frazionata ad alto dosaggio (dosaggio
anticoagulante pieno) dopo 5 giorni di sospensione dell’anticoagulante orale, con interruzione 24h prima della procedura
(4h se eparina non frazionata e.v.) e ripresa 24h dopo. L’INR
medio al momento della procedura nel braccio di prosecuzione della TAO era di 2.3. Circa il 16% dei pazienti arruolati era
portatore di valvola mitralica meccanica. In caso di uso concomitante di aspirina, questa veniva proseguita; in caso di uso
concomitante di clopidogrel, questo era sospeso 5 giorni prima
ad eccezione dei pazienti in cui era stato impiantato uno stent
da meno di 1 anno. L’endpoint primario – ematoma della tasca
che ha richiesto revisione, prolungamento dell’ospedalizzazione od interruzione della TAO – si è verificato nel 3.5% dei pazienti nel gruppo prosecuzione della TAO e nel 16% dei pazienti nel braccio eparina. Tre sono risultati i fattori di rischio
associati in modo indipendente allo sviluppo di ematoma della
tasca: prosecuzione della TAO e diabete associati ad un significativo minor rischio (RR 0.16, IC 95% 0.08-0.32, p<0.001 e RR
0.48, IC 95% 0.26-0.86, p=0.01) ed uso di aspirina associato
ad un incremento del rischio (RR 2.04, IC 95% 1.19-3.48,
p=0.01)20.
Secondo la visione attuale, la possibile spiegazione di questo risultato risiede nel fatto che, se il paziente si sottopone alla procedura in corso di TAO, ogni eccessivo sanguinamento è
visibile e trattabile durante l’intervento20,98-103. Nell’altro caso,
invece, il sanguinamento può divenire apparente solo quando
la terapia con anticoagulazione piena viene ripristinata e la ferita è già chiusa. I risultati di questo trial hanno dimostrato la
maggior sicurezza di una strategia che prosegua la TAO (INR
medio al momento della procedura di 2.3) rispetto alla bridging therapy nei pazienti a rischio intermedio-alto che si sottopongono a procedura di impianto di CIED. Una logica conseguenza di questi risultati è quella di ipotizzare che nei pazienti
a basso rischio tromboembolico (<5%) potrebbe essere applicata una sospensione della TAO senza alcuna bridging therapy;
tuttavia abbiamo bisogno di trial randomizzati disegnati allo
scopo di rispondere a questa domanda (Tabella 4) prima di assumere questa indicazione come basata sull’evidenza.
A parere degli autori, non sono ancora conclusivi i dati che
riguardano la categoria dei pazienti ad altissimo rischio tromboembolico: protesi valvolari mitraliche con FA e/o pregresso
ictus; protesi valvolari multiple con FA e/o pregresso ictus. Queste categorie, per le quali il range terapeutico di INR è tra 2.5 e
3.5 (e tra 3.0 e 4.0 per le “vecchie” protesi valvolari a palla o
monodisco) sono risultate sottorappresentate in tutti gli studi e
quindi prudenza deve essere posta nell’applicazione di questi risultati. La proposta degli autori è quella di valutare con atten-
TERAPIA ANTITROMBOTICA E DISPOSITIVI IMPIANTABILI
Tabella 4. Gestione della terapia anticoagulante orale.
Rischio
emorragico
Rischio tromboembolico
Basso
(vedi Tabella 3)
Moderato
(vedi Tabella 3)
Alto
(vedi Tabella 3)
Altissimo
(protesi valvolari mitraliche con FA
e/o pregresso ictus; protesi valvolari
multiple con FA e/o pregresso ictus)
Basso
Proseguire TAO (INR target al
momento della procedura ≤2.0)
– Valutare sospensione TAO
senza bridging therapy
Proseguire TAO (INR
target al momento
della procedura ≤2.0)
Proseguire TAO (INR
target al momento
della procedura ≤2.5)
Proseguire TAO (INR target al
momento della procedura ≤3.0)
– Valutare bridging therapy a
dosaggio intermedio
Intermedio
Proseguire TAO (INR target al
momento della procedura ≤2.0)
– Valutare sospensione TAO
senza bridging therapy
Proseguire TAO (INR
target al momento
della procedura ≤2.0)
Proseguire TAO (INR
target al momento
della procedura ≤2.5)
Proseguire TAO (INR target al
momento della procedura ≤3.0)
– Valutare bridging therapy a
dosaggio intermedio
Alto
Sospendere TAO senza
bridging therapy
Sospendere TAO
– Valutare bridging
therapy a dosaggio
basso
Sospendere TAO
– Valutare bridging
therapy a dosaggio
basso
Sospendere TAO
– Valutare bridging therapy a
dosaggio intermedio
FA, fibrillazione atriale; INR, international normalized ratio; TAO, terapia anticoagulante orale.
zione il profilo rischio/beneficio di questi pazienti e, dopo valutazione, informazione e condivisione con il paziente, decidere
se applicare una bridging therapy a dosaggio intermedio da
reintrodurre 24-48h dopo la procedura (Tabella 4).
Terapia anticoagulante orale associata a terapia
antiaggregante piastrinica
In assenza di dati basati sull’evidenza, il suggerimento degli autori è quello di attenersi alle indicazioni date per la TAO e per
la terapia antiaggregante separatamente. Sottolineiamo, tuttavia, come l’aspirina si sia dimostrata associata in modo significativo ad un aumento del rischio di sanguinamento nel BRUISE
CONTROL20: pertanto, se in corso di TAO, ed in assenza di
eventi aterotrombotici negli ultimi 12 mesi, il parere degli autori è quello di sospenderne l’assunzione 5 giorni prima la procedura.
NUOVI ANTICOAGULANTI ORALI
Tre nuovi agenti anticoagulanti orali – dabigatran, rivaroxaban
ed apixaban – si sono dimostrati efficaci per la prevenzione degli eventi tromboembolici nei pazienti con FA107-109. Questi
agenti hanno brevi emivite, con effetti anticoagulanti massimi
osservabili subito dopo l’assunzione (circa 4h) e riduzione di
questi effetti altrettanto rapidamente dopo la sospensione. Nello studio RE-LY – che ha valutato efficacia e sicurezza di dabigatran 150 mg o 110 mg x 2/die rispetto al trattamento standard con antagonisti della vitamina K (INR target: 2.0-3.0) –,
4591 pazienti [24.7% (n=1487) del braccio dabigatran 110
mg; 25.4% (n=1546) del braccio dabigatran 150 mg; 25.9%
(n=1558) assegnati a warfarin] hanno interrotto il trattamento
anticoagulante almeno una volta per essere sottoposti a chirurgia o trattamenti invasivi110. Le procedure più comuni
(10.3%) sono state rappresentate dall’impianto di PM o ICD.
Sono stati pubblicati i dati relativi a 25 pazienti111 che, in corso
di assunzione di dabigatran (23 pazienti al dosaggio di 150 mg
e 2 al dosaggio di 75 mg) sono stati sottoposti ad impianto di
PM. L’ultima dose di dabigatran è stata somministrata 16 ± 15h
prima dell’impianto (range: 1-48h) e la prima dose di riassunzione è stata 17 ± 16h dopo la procedura (range: 2-48h). In 11
pazienti il dabigatran è stato continuato senza omettere alcuna dose. L’intervallo tra l’ultima assunzione di dabigatran e la
procedura è stato di 26 ± 16h nei pazienti che hanno interrotto l’assunzione e 5 ± 3h nei pazienti che non hanno interrotto
l’assunzione. Non si sono verificati eventi emorragici o trombotici. Un paziente ha sviluppato ematoma della tasca: stava
assumendo una doppia antiaggregazione con aspirina e clopidogrel insieme ad un dosaggio di dabigatran pieno (150 mg x
2/die) senza interruzione del farmaco, per la presenza di un
CHADS2 di 6. Il dabigatran ha un’emivita di 12-14h nei pazienti
con funzione renale normale. Per questo, è generalmente raccomandato di sospenderlo 1-3 giorni prima di chirurgia elettiva e fino a 6 giorni prima nei pazienti con disfunzione renale. I
risultati di questo studio – assolutamente preliminari perché su
25 pazienti – suggeriscono un aumento del rischio di sanguinamento in caso di concomitante uso di altre terapie antitrombotiche e la possibilità anche di proseguire l’assunzione
del farmaco senza complicanze emorragiche e/o trombotiche.
GESTIONE PERIPROCEDURALE DELLA TERAPIA
ANTITROMBOTICA NEL PAZIENTE CANDIDATO A
RIMOZIONE TRANSVENOSA DI ELETTROCATETERI
La gestione periprocedurale della terapia antitrombotica dei pazienti candidati a rimozione transvenosa di elettrocateteri merita una trattazione a parte. L’estrazione di elettrocateteri, infatti, si differenzia significativamente dalle altre procedure di
elettrostimolazione. Nonostante gli sviluppi tecnologici delle
protesi, il CIED continua invariabilmente ad associarsi allo sviluppo in cronico di tenaci aderenze fibrotiche intravascolari112,113. L’approccio estrattivo transvenoso prevede l’utilizzo di
materiali, tecniche e approcci venosi multipli per ottenere la dissezione di tali aderenze e la rimozione degli elettrocateteri. La
natura invariabilmente traumatogena di tali approcci può, perG ITAL CARDIOL | VOL 15 | GENNAIO 2014
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V ZACÀ ET AL
tanto, associarsi a complicanze maggiori e minori, di tipo prevalentemente emorragico, e talvolta tromboembolico114.
Pur in presenza di elevate percentuali di successo clinico e
procedurale (>95%), l’analisi dei dati provenienti da registri e
studi randomizzati, documenta un tasso cumulativo di complicanze maggiore del 10%. In particolare, le complicanze maggiori (es. morte, disabilità permanente, evento minaccioso per
la vita o richiedente intervento chirurgico), per quanto contenute (2%), possono rivelarsi fatali nello 0.3-0.7% dei casi115-118.
Esse comprendono soprattutto eventi di natura emorragica
conseguenti al trauma diretto e/o indiretto sulla parete vascolare e cardiaca, quali la lacerazione venosa, la perforazione cardiaca, il tamponamento, l’emotorace119. Le complicanze minori invece, 7.2% nella nostra esperienza, oltre ad essere rappresentate da eventi emorragici minori quali gli ematomi della tasca, possono includere tromboembolie polmonari a basso rischio (soprattutto nei pazienti affetti da endocardite su elettrocateteri) e trombosi venose profonde post-estrattive del sito
di ingresso venoso31.
L’impatto clinico di tali complicanze risulta tanto più significativo se inquadrato nell’ambito della gestione clinica complessiva del paziente sottoposto ad estrazione, il quale spesso
non è semplicemente da trattare con la procedura estrattiva,
ma piuttosto partecipa ad un percorso terapeutico che prevede nei due terzi dei casi il reimpianto di una nuova protesi6,31.
Sfortunatamente, non esistono ad oggi dati clinici controllati
relativi alla gestione della terapia antitrombotica in ambito
estrattivo. Tuttavia, il potenziale rischio di traumatismo delle
strutture cardiovascolari con le complicanze fatali o disabilitanti conseguenti, e l’eventuale necessità di interventi percutanei
o chirurgici d’urgenza, suggerisce ragionevolmente di considerare tali interventi come procedure ad elevato rischio emorragico114 (Tabella 1). Non meno complessa e peculiare rimane,
inoltre, la stessa stratificazione del rischio trombotico/tromboembolico. Accanto ai predittori clinici tradizionali (protesi valvolari meccaniche, FA, trombosi venosa profonda) potrebbero,
infatti, avere un ruolo non trascurabile, conferendo un rischio
intrinseco trombotico/tromboembolico addizionale, alcuni predittori non convenzionali, quali l’indicazione (infezione locale
vs infezione sistemica), la presenza di vegetazioni (infezione sistemica con o senza endocardite)120 e la relativa dimensione
(>2 o <2 cm)114 (Tabella 5). Tali fattori sono in grado di condizionare non solo il rischio emboligeno procedurale ma anche
quello postprocedurale, invariabilmente legato, come per le chirurgie tradizionali, alla traumaticità dell’intervento, alla durata
dell’allettamento e ai tempi di degenza. In mancanza pertanto
di dati controllati121, l’approccio verosimilmente più ragionevole rimane quello di inquadrare la gestione della terapia anti-
Tabella 5. Stratificazione del rischio trombotico/tromboembolico
intrinseco in portatori di pacemaker/defibrillatore impiantabile da
sottoporre a rimozione transvenosa di elettrocateteri.
Rischio
Predittori
Basso
Infezione locale
Malfunzionamento di elettrocatetere
Intermedio Endocardite su elettrocateteri con vegetazione <2 cm
Infezione sistemica senza vegetazioni (sepsi occulta)
Alto
68
Endocardite su elettrocateteri con vegetazione >2 cm
G ITAL CARDIOL | VOL 15 | GENNAIO 2014
trombotica in un contesto più generale: in tale ottica, la raccomandazione principale diventa quella di prevenire il rischio più
consistente (e potenzialmente disabilitante/fatale), cioè quello
emorragico, minimizzando la terapia antitrombotica in atto,
contestualmente ad una serie di misure cautelative periprocedurali.
A tal proposito, ricordiamo che la procedura estrattiva rappresenta un intervento di natura elettiva. Pertanto, in presenza
di terapia antiaggregante/anticoagulante pro tempore, rimane
tassativa la raccomandazione di posticipare la procedura sì da
consentire, laddove possibile, la sospensione parziale o completa della terapia antitrombotica. Inoltre:
1. per il controllo del rischio emorragico:
a. sospensione della terapia antiaggregante:
• in toto (basso e medio rischio trombotico),
• mantenere aspirina e sospendere inibitori del recettore P2Y12 (alto rischio trombotico);
b. sospensione della TAO:
• senza embricazione con eparina a basso peso molecolare (nei pazienti a basso rischio tromboembolico),
• con embricazione con eparina a basso peso molecolare (nei pazienti a rischio tromboembolico medio-alto e nei pazienti ad alto rischio intrinseco – vegetazioni >2 cm) a dosaggio basso o intermedio;
c. controllo della coagulazione preprocedurale (INR <2);
d. disponibilità di emazie concentrate omogruppo;
e. posizionamento di drenaggio postprocedurale in sede
di tasca;
2. per la prevenzione del rischio tromboembolico:
a. posizionamento di PM provvisorio al termine della procedura dalla vena succlavia ipsilaterale (sede di estrazione) nei casi in cui l’impianto non sia contestuale;
b. utilizzo di cateteri a fissazione attiva in modalità “temporanea”, per favorire la mobilizzazione precoce nei pazienti per i quali sono previsti tempi di allettamento e
degenza prolungata;
c. mobilizzazione precoce (24h postprocedura).
In conclusione, più della reale incidenza delle complicanze
di per sé, è la natura delle stesse, contestualmente alla complessità gestionale della procedura, a rendere difficoltosa la definizione di una sicura politica di gestione della terapia anticoagulante in ambito estrattivo. In attesa di dati più consistenti122, le raccomandazioni fornite pertanto, pur provenendo da
un’esperienza ventennale di un centro di riferimento nazionale ad elevato volume31,119, rimangono sostanzialmente di natura empirica. Tale aspetto, in combinazione con l’estrema eterogeneità dello scenario clinico-procedurale del paziente candidato ad estrazione, suggerisce, di volta in volta, la valutazione e verifica delle stesse caso per caso.
CONCLUSIONI
A differenza di altre chirurgie, l’impianto o sostituzione di CIED
e la rimozione transvenosa di elettrocateteri sono generalmente procedure elettive e ciò conferisce il vantaggio teorico, spesso non sfruttato, di poter pianificare l’intervento in ogni sua fase ottimizzando la gestione della terapia antitrombotica periprocedurale secondo un approccio condiviso dai vari attori sanitari coinvolti nel processo e che sia il più appropriato possibile per il paziente che bilanci rischio emorragico e tromboem-
TERAPIA ANTITROMBOTICA E DISPOSITIVI IMPIANTABILI
bolico. È importante stabilire una comunicazione efficace tra
elettrofisiologo, cardiologo clinico, medico curante e paziente
che si traduca operativamente in un percorso articolato nelle
seguenti fasi:
–
–
–
fase preprocedurale: stratificazione del rischio tromboembolico, stratificazione del rischio emorragico, pianificazione della terapia antitrombotica (proseguire, interrompere,
potenzialmente ottimizzare il dosaggio o verificare l’effetto
terapeutico, bridging) con adeguata comunicazione della
tempistica di eventuale sospensione (e ripresa);
fase procedurale (intraoperatoria): meticolosa attenzione
all’emostasi con messa in atto di accorgimenti tecnici per limitare i sanguinamenti;
fase postprocedurale: chiara indicazione (in caso di sospensione) su modalità e tempistica di ripresa della terapia
antitrombotica, utilizzo di presidi non farmacologici per la
riduzione dei sanguinamenti.
RIASSUNTO
Decine di migliaia di pazienti in Italia sono annualmente sottoposti a impianto o sostituzione di dispositivi elettronici impiantabili
cardiaci (CIED), e fino al 50% di questi pazienti assumono terapia
antiaggregante piastrinica o anticoagulante orale. Anche il numero
di complicanze legate ai CIED, soprattutto infettive, è significativamente aumentato e con esso la necessità di procedure di rimozione transvenosa di elettrocateteri. La chirurgia dei CIED presenta
delle peculiarità e dei rischi intrinseci specifici con possibilità di
complicanze emorragiche anche fatali; di contro la sospensione
della terapia antitrombotica periprocedurale in pazienti con condizioni cardiache ad alto rischio tromboembolico può avere conseguenze catastrofiche. La gestione del paziente candidato a chirurgia dei CIED in concomitante terapia antitrombotica rappresenta
pertanto un argomento di grande attualità clinica ma tuttora controverso e solo marginalmente oggetto di raccomandazioni basate
sull’evidenza nelle attuali linee guida. Sebbene in molte procedure
appaia ragionevolmente sicuro proseguire con la sola aspirina o
senza interruzione dell’anticoagulante orale, limitando a casi selezionati il ricorso a terapie ponte con eparine parenterali, ci sono
numerose variabili che possono rendere le scelte terapeutiche più
difficili.
Lo scopo del presente documento è formulare raccomandazioni
pratiche per la gestione della terapia antitrombotica nei pazienti
candidati a chirurgia dei CIED fornendo indicazioni per un approccio sistematico al problema che integri considerazioni tecniche generali con elementi paziente-specifici basati su un’attenta valutazione del profilo di rischio emorragico/tromboembolico. Il processo decisionale applicato nel documento è basato sullo sviluppo di
una stratificazione del rischio emorragico procedurale e del rischio
derivante dalla sospensione della terapia antiaggregante o anticoagulante combinati per generare differenti scenari clinici con specifiche indicazioni per un’ottimale gestione della terapia antitrombotica periprocedurale.
Parole chiave. Defibrillatore impiantabile cardiaco; Emorragia; Pacemaker; Stent coronarico; Terapia antiaggregante; Terapia anticoagulante.
BIBLIOGRAFIA
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The EHRA White Book. Europace 2012;14:
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