ANTROPOLOGIA, ovvero «de homine» / 01 «Dicotomia o Tricotomia?» Tema dialogato: Domenica 18 ottobre 2015 Base d’ascolto per una conversazione: non diversamente utilizzabile «Grande miracolo, o Asclepio, è l’uomo!» (Pico della Mirandola (1463-1494), noto umanista ed autore di una Orazione sulla dignità dell’essere umano (1486). L’ «antropologia» (dal greco ἄνθρωπος/àntropos/uomo e λόγος/logos/parola,discorso) è un’area disciplinare di carattere scientifico che cerca di cogliere il senso di tale «miracolo». Si occupa di una ricerca comparata della specie umana: della sua prima apparizione, del suo sviluppo e di quello attuale. A seconda dell’angolatura dei suoi interessi o aspetti specifici assume la denominazione relativa. Ne menziono solo alcune, quali, l’antropologia culturale (studia la natura dei fenomeni umani nel loro concreto manifestarsi nelle varie società), l’antropologia fisica (si occupa dell’uomo in quanto organismo biologico), l’antropologia funzionale (analizza i tratti culturali per il mantenimento di un sistema socioculturale; è molto vicina a quella ‘culturale’), l’antropologia linguistica (studia la natura e la struttura dei linguaggi). Ai fini del nostro percorso menziono l’antropologia filosofica e l’antropologia teologica. L’antropologia filosofica ci interessa molto da vicino; ad essa ricorreremo a volte, anche se (purtroppo) non potremo su essa soffermarci molto data la natura dei nostri incontri. L’antropologia teologica è una novità. Per alcuni pensatori e teologi non esiste una tale antropologia, ciò solo perchè la sua storia, come disciplina scientifica settoriale, coincide con il consumarsi della “crisi” che sta attraversando tutt’una manualistica i cui temi, quali ‘grazia’ (De gratia), ‘peccato originale’, etc. vengono rilanciati in orizzonti escatologici. Non mancano, però, proposte che mirano ad una trattazione teologica del tema «uomo» (de homine) a partire dall’interrogativo dal quale muovono le nostre conversazioni di quest’anno. Sarà questo, infatti, l’àmbito entro il quale muoveremo con coraggio i nostri passi in una ricerca libera e innovativa. Una quaestio che per prima si affaccia è relativa alla complessa costituzione dell’uomo quale unità di corpo e di anima (formula dicotomica, da δίχα/dicha, in due parti) o unità di corpo, di anima e di spirito (formula tricotomia, da τρίχα/tricha, in tre parti). Il problema nasce dall’uso di detti termini da parte di vari autori biblici, termini che vengono diversamente tra loro accostati. Risulta particolarmente interessante la parola di Paolo che troviamo in 1 Tessalonicesi 5:23 che recita: «l’Iddio della pace vi santifichi egli stesso completamente; e l’intero essere vostro, lo spirito, l’anima e il corpo, sia conservato irreprensibile …» (Versione Nuova Riveduta). La versione TILC, (Interconfessionale Ed. 2014) rende «tutta la vostra persona – spirito, anima e corpo - …». Così anche la Bibbia CEI, Ed. 2007). Tenendo presente che è generalmente accettata la formula dicotomica (anima e corpo), il problema si propone ugualmente. Se da una parte il commentatore F.F. Bruce scrive: «Non è certo che lo spirito, l’anima e il corpo debbano essere interpretati come se insegnassero una formale dottrina tripartita della natura umana, lo spirito essendone l’aspetto consapevole di Dio e l’anima l’aspetto autocosciente della vita interiore» (Commentario biblico, VdB, 1976, p. 494), dall’altra Albrecht Oepke, con onesto candore afferma :«Certo rimangono alcuni problemi che non siamo in grado di risolvere, ma li dobbiamo affidare alla sapienza di Dio secondo la parola: “Ora vediamo attraverso uno specchio, in modo oscuro, dopo invece a faccia a faccia”» (Nuovo Testamento, Paideia, 1980, p. 332). Di certo non saremo noi a risolvere i problemi ai quali accenna l’Oepke, possiamo però, nella libertà che lo Spirito ci concede e senza alcuna supponenza, proseguire nella nostra indagine. Ci permettiamo di accogliere, anche se provvisoriamente, il tratto ‘tricotomico’ dell’ «uomo» e pensare (a) al corpo come o quale parte fisica orientata, come già si sa, alla percezione fisico/sensoriale della realtà entro la quale si svolge la nostra vicenda storica; (b) all’anima (ψυχὴ/psychè) che già con Aristotele aveva il duplice significato di «principio vitale» e di «principio pensante»; (c) infine, allo spirito che risulta estraneo al linguaggio della psicologia scientifica, mentre la filosofia lo riferisce alle più alte attività mentali e in teologia alla possibilità di entrare in relazione con Dio che è Spirito! V’è da credere che «la stessa possibilità per il pensiero teologico di ragionare in termini di dicotomia o tricotomia in relazione all’essere umano sia stata legittimata dal pensiero scientifico e psicologico, che per primi hanno posto queste divisioni alla base del proprio sapere» (mb). Mentre attendiamo di passare in rassegna i tre aspetti antropologici testè menzionati, il pensiero va, e non per caso, ad un passo nevralgico della rivelazione biblica. Mi riferisco al nodale episodio, cosiddetto della «caduta», che leggiamo nel capitolo 3 della Genesi. È il capitolo che, unico, costituisce il tentativo per spiegare l’origine del male e del peccato e dove è del tutto inesatto ravvisarvi la fonte del “peccato originale” come invece Agostino d’Ippona intendeva affermare contro il pelagianesimo e la Chiesa Romana contro il protestantesimo del xvi secolo. Inesatto è anche pensare alla “morte minacciata” (Gn 2:16c) come morte biologica o perdita di presunta “immortalità”. Essa si rivela quale gap relazionale tra l’uomo e Dio. L’uomo è lasciato ‘libero’ nella sua libertà, libero ma “senza Dio” anche se Questi si rivela costantemente propenso ad aiutarlo intervenendo nelle sue storie con forme diverse di tentate mediazioni che trovano la loro più straordinaria forma nell’opera mediatoriale del Cristo. Va osservato con Gerard Von Rad che i capitoli 2 e 3 della Genesi «all’interno dell’A.T. … stanno in uno strano isolamento. Più nessuno, né un profeta né un salmista né un narratore, farà una minima allusione riconoscibile alla storia della caduta. (…). Un lettore sente che la cosa non è finita; necessariamente interroga sul ‘dopo’ (ove) sta la rivelazione di Jahvé, Dio d’Israele». . .