539 aC - Stelle cadenti Dalle tenebre di remoti

539 a.C. - Stelle cadenti
Dalle tenebre di remoti abissi spaziali, una piccola stella bianca cominciò il suo viaggio. Entrò
nel sistema solare, sfrecciò accanto a Urano illuminando i suoi ghiacci d'ammoniaca. Superò
Nettuno, dove venti gelidi soffiavano fino a duemila chilometri orari; da laggiù il Sole pareva poco
più di una candela. Sulla superficie di Saturno balenavano giganteschi fulmini, mentre milioni di
piccoli oggetti si rincorrevano a straordinaria velocità formando la corona dei suoi anelli; ebbero un
sussulto quando la stella li sfiorò. Intanto, dentro la macchia rossa di Giove, imperversava una
millenaria tempesta, nubi di gas infernali roteavano succhiando calore dal nucleo liquefatto per
l'immane pressione. La stella sfuggì alla potente gravità del gigante gassoso e attraversò la fascia di
asteroidi provocando scompiglio tra quelle rocce che orbitavano senza pace da milioni di anni.
Quando passò rapidamente accanto a Marte, dal pianeta rosso si sollevarono turbini di polvere
ferrosa che sfumarono nella sua sottile atmosfera dorata.
Nel frattempo, sulla Terra, Babilonia scintillava nella luce di un tramonto d'ottobre, bella e
silenziosa come un gioiello perduto nel deserto. Il cielo arrossato colorava di sangue le sue mura e
le otto colossali porte che si innalzavano imponenti e splendide per indurre chiunque vi si trovasse
davanti a sentirsi indegno di varcarle. Decorate con draghi e tori smaltati, conducevano in un regno
di ricchezze provenienti dai bottini di guerra e dalle carovane di mercanti che giungevano da ogni
angolo del mondo conosciuto. Era una città leggendaria colma di meraviglie e di sapienza,
profumata di spezie e magia, culla di invenzioni e scoperte, arti e scienze, capace di affascinare dei
e uomini.
Morente.
Quella sera gli abitanti di Babilonia sentivano il nemico scalpitare oltre le mura: l'impero
stava crollando. I Persiani avevano ormai sottomesso tutti i territori della Mesopotamia, le città
erano cadute una dopo l'altra come foglie di un albero in fiamme. Il tempo del benessere, del
dominio e delle conquiste era ormai finito. La sconfitta dell'Egitto e la distruzione di Gerusalemme
erano ricordi che si confondevano in leggende; i templi elevati per celebrare le vittorie, le ziggurat,
le statue e gli osservatori astronomici che legavano la capitale alle divinità del cielo erano
monumenti a una grandezza ormai perduta. Restavano immobili, muti e fieri, mentre la gente si
muoveva tremando, si nascondeva sussurrando, correva piangendo tra le ombre che si allungavano
nelle strade. Babilonia la Grande contemplava la fine della sua gloria, mentre il tramonto si
spegneva lasciando il posto a una notte d'agonia.
Attraverso le finestre illuminate dai focolari, si scorgevano i movimenti di anime inquiete in
attesa dell'attacco; nei loro occhi l'ansia di chi è condannato e spera solo che il dolore passi
rapidamente.
A nord della città, il portale di un tempio si aprì sotto le prime stelle della sera e un'esile figura
si affacciò sul vicolo facendo correre lo sguardo in ogni direzione. La via era libera e i piedi nudi di
Amjla, giovane sacerdotessa, affondarono nella sabbia depositata dall'ultimo vento del deserto.
lasciò impronte leggere mentre si allontanava verso il fiume. I suoi lunghi capelli neri erano stretti
in mille trecce sottili chiuse da minuscole spille dorate che danzavano come farfalle ad ogni suo
passo.
L'Eufrate scorreva lento come una lacrima sul viso della città più bella del mondo che
s'inchinava al cospetto del feroce esercito invasore. La ragazza oltrepassò le mura non vista, quando
la luce lunare cominciò a bagnare i giardini e, colando dagli angoli dei palazzi come latte, riempì le
strade dove si sarebbe presto mescolata al sangue della battaglia.
Calò il buio e calarono le armi dei Persiani sulle mura babilonesi. Amjla si affrettò verso il
deserto e la parve di udire alle sue spalle il grido della città ferita. Non stava fuggendo dai
conquistatori, non aveva abbandonato la sua famiglia e la sua dimora per via dell'invasione, stava
invece rispondendo al richiamo del suo destino ed era solo un caso che la notte in cui doveva
compiersi coincidesse con la caduta dell'impero. Le trame del fato, lo sapeva bene, s'intrecciavano a
milioni nel tessuto dell'universo legando e separando le piccole storie degli uomini, stringendo e
sciogliendo nodi lungo il percorso infinito del tempo.
Ciro, re di Persia, alzò lo sguardo. Davanti a lui le famose inattaccabili mura di Babilonia
trionfalmente espugnate dai suoi uomini, ma i suoi occhi andarono oltre le torri e i palazzi, oltre le
urla e il fragore degli scontri. Stava osservando qualcosa molto più in alto. Il cielo notturno era
pieno di colori e forme, sciami di stelle e pianeti, la luna lucida come uno specchio, nubi di polvere
cosmica che brillavano per i gas incendiati, ma in quello spettacolo celeste un particolare aveva
attirato la sua attenzione: una scia candida e brillante tagliava il cielo come un colpo di falce e si
allungava a gran velocità verso nord.
La sacerdotessa si fermò a osservare quella stessa scia che, descrivendo un arco lucente, le
indicava il punto del deserto dove l'attendevano un incontro e un addio.
2014 – La fioritura del bambù
Missouri, Stati Uniti.
'Coz it's so hard to meet the eyes that I see
When I try to open up my heart
There's something inside me and I know it's good
But understanding, it's misunderstood
At the end of a smile, there's a laugh and a half
D-A-D “Laugh and a half”
Oliver alzò gli occhi su quel cielo invernale. Era uno scuro scrigno di nuvole e al centro c'era
un sole, bianco e pallido come una perla. L'aria gelida gli accarezzò il collo mentre varcava il
cancello del cimitero. Il viale di ghiaia scendeva seguendo il terreno in una valle di lapidi allineate
tra file di cipressi, scuri e altissimi, e querce giganti. Mancava la pioggia, pensò, a completare il
quadro di un lugubre pomeriggio e ne avvertì il profumo nell'aria.
Camminò sull'erba ghiacciata fino a un muretto di pietra e lì si sedette a osservare il funerale
di Cody, giù in fondo al prato. La notizia della sua morte gli era arrivata come una martellata in
testa e ancora si sentiva disorientato dal trauma, non riusciva a credere che il suo amico fosse dentro
quella bara lucida circondata da sconosciuti. Oliver non conosceva nessuno della sua famiglia
adottiva né dei suoi nuovi amici. Era lì per dirgli addio da un'altra vita, da un'estate lontana dieci
anni, quando erano ancora tutti insieme all'orfanotrofio Leonardo Da Vinci.
Chiuse gli occhi per un istante e ripensò al Cody adolescente che viveva nei suoi ricordi. Lo
rivide mentre suonava una delle sue canzoni, le dita che domavano le note danzando sulle corde
della chitarra, i capelli color rame che gli scendevano sugli occhi e lui li ricacciava via con un
soffio. Era stato proprio Cody a dire che un giorno sarebbero stati tutti Exò: ex orfanotrofio. Fu una
di quelle notti in cui i ragazzi si nascondevano in soffitta a bere birra, «Siamo avanzi.» aveva detto
«Non ci ha voluti chi ci ha messo al mondo, figuriamoci gli altri. Non avremo mai una vera
possibilità e anche quando ce ne andremo di qui saremo sempre Exò.»
Forse aveva bevuto troppo, forse aveva ragione.
Il vento s'insinuò di nuovo nel colletto del giubbotto svegliando Oliver dai ricordi. Mentre
tentava di sistemarsi la sciarpa, vide qualcun altro che seguiva il funerale da lontano, una ragazza.
Stava accanto a un albero e da sotto il suo cappello di lana verde spuntavano ciocche disordinate di
capelli color della luna. Ally, pensò Oliver con un sorriso.
Lei non aveva aspettato di essere adottata, aveva appena compiuto quindici anni quando baciò
Cody all'improvviso e scomparve il giorno successivo. Era la più giovane del gruppo, ma stava in
orfanotrofio da sempre. Non le piacevano le persone che volevano incontrarla per l'adozione e
faceva in modo di farle scappare, diceva di loro: «La domenica vengono a fare un giro allo zoo,
fanno una donazione e tornano a casa orgogliosi della loro buona azione. Non li sopporto.»
Già, pensò Oliver, Ally era un animale selvatico che non amava stare rinchiuso. Era agile,
fiera e dispettosa, aveva un sorriso a metà tra il dolce e il malizioso, aveva le dita macchiate dei suoi
colori per dipingere e portava sempre una piccola macchina fotografica appesa al polso con un
laccio. Una gatta selvatica, certo, ma le piaceva anche fare le fusa agli amici, Cody soprattutto.
Fuggì una mattina senza salutare, lasciando solo un biglietto sul suo cuscino: Vi amo, Exò, ma
voglio vedere il mondo oltre il cortile. Non dimenticate il patto.
Appoggiata all'albero, quasi ad abbracciarlo, Ally aveva lo sguardo puntato sul cimitero, ma
davanti ai suoi occhi scorrevano immagini del tempo trascorso con i suoi cinque amici
all'orfanotrofio. Il patto era semplice: in qualsiasi momento uno di loro avesse avuto bisogno
d'aiuto, gli altri sarebbero accorsi. L'amicizia nata condividendo quegli anni sarebbe stata comunque
sufficiente, ma il patto li fece sentire più sicuri quando cominciarono ad accadere le cose, ognuno di
loro aveva quattro angeli custodi che vegliavano sulle sue ore più buie. Nessuno credeva, allora, che
le loro strade si sarebbero separate e allontanate così tanto.
Oliver incrociò le braccia, folate di vento e di nostalgia passarono sotto le foglie cadute e tra i
suoi capelli scuri.
«Ti sembra Ally quella sotto l'albero?» chiese una voce alle sue spalle.
Era arrivato anche Kit. Per tutti era sempre stato il fratello maggiore, non tanto per i pochi
mesi che aveva più di loro, ma perché ne aveva l'aspetto e l'atteggiamento: alto, forte, con le spalle
larghe e la risata contagiosa. Li aveva messi nei guai e salvati tante volte, li aveva rimproverati e
difesi, incoraggiati e consolati. Quel giorno aveva lo sguardo cupo e le guance arrossate dal freddo.
«Sono in ritardo?» chiese.
«Appena cominciato.»
I due ragazzi non avevano mai smesso di frequentarsi, Kit giocava a rugby e Oliver non si era
perso una sola partita dell'amico né una sola birra del dopo partita.
Kit aveva trascorso cinque anni in orfanotrofio. Era arrivato che ne aveva undici quando sua
madre se n'era andata investita da un automobilista ubriaco. Non aveva un padre e l'unico parente
rimasto era il fratello della madre che però stava scontando alcuni anni di carcere per tentata rapina.
I servizi sociali avevano quindi affidato Kit a quello che, ufficialmente, si chiamava istituto per
ragazzi disagiati. Suo zio non era una cattiva persona, ma aveva commesso l'errore d'illudersi che la
rapina fosse una facile via per cambiare vita, per salvare sua sorella da un'esistenza fatta di turni di
lavoro mai sufficienti a saldare i debiti e garantire al suo nipotino un futuro agiato. Non era un
granché come criminale, quello fu il suo primo e ultimo colpo. Quando uscì di prigione portò il
nipote a casa sua, aprì un'officina meccanica e la fortuna aiutò i suoi affari e la sua piccola famiglia.
Kit era stato il secondo ad andarsene dopo Ally, ma rimanendo in città aveva continuato a far
visita agli amici. Trascorreva con loro i pomeriggi in cui non si allenava, ma poi aveva una casa
vera dove tornare la sera. Sognava ancora una carriera nel rugby, ma lo zio l'aveva convinto a non
lasciare gli studi e dopo il diploma si era iscritto all'università: ingegneria aerospaziale. «Una
passeggiata» aveva commentato Oliver sorpreso di una scelta tanto ardita per un Exò, ma comunque
fiero del suo amico e pronto ad appoggiarlo. D'altra parte avevano sempre detto che crescere in un
istituto intitolato a Leonardo Da Vinci li avrebbe resi tutti dei geni.
Kit percorse con lo sguardo il gruppo di persone riunite intorno alla bara. Giusto il tempo per
concludere che la vera famiglia di Cody erano i due tizi seduti sul muretto, la ragazza sotto l'albero
e...
«Credi che Grace verrà?»
Oliver alzò le spalle. Non lo sapeva, non sapeva più nulla di lei da quando era stata adottata
da una famiglia troppo ricca perché continuasse a frequentare gli Exò. Persa da anni e ancora gli
faceva male pensarci.
L'amore vero dura un'ora e quell'ora ti capita quando hai sedici anni, quando “per sempre”
e “mai” hanno senso, quando di tutto il resto non sai ancora nulla. È durato un'ora e passi la vita
a cercare di replicarla, ma non torna più allo stesso modo... diceva una canzone di Cody che stava
tra quelle mai terminate. L'aveva scritta per quel bacio inaspettato e piacevole come la maggior
parte delle cose che Ally regalava. Dopo che lei se n'era andata, aveva composto di getto la melodia
per riviverne il ricordo, per fantasticare su come sarebbe andata se fosse riuscito a trattenerla; solo
anni dopo aveva aggiunto il testo.
«Forse è meglio così, forse è più bello perché resta unico.» aveva detto Oliver quando Cody
gli aveva confidato i suoi pensieri.
«Non dire cazzate» gli aveva risposto «Facile per te fare il poeta: tu ce l'hai qui Grace.»
Sì, l'aveva avuta per qualche tempo, abbastanza per perdere la testa, troppo per superare il
distacco. All'orfanotrofio la vita scorreva diversamente da fuori, ogni cosa sembrava più intensa;
vivere lì amplificava gli eventi, nel bene e nel male, tutto diventava importante, perfino i finti regali
di Natale spediti da sconosciuti che facevano beneficenza sotto le feste per sentirsi più buoni.
«Stai bene?» chiese Kit dalla realtà.
Con lo sguardo fisso davanti a sé su qualcosa di invisibile, Oliver rispose senza tono: «Non
starò mai bene.»
«Ma falla finita.» sbuffò Kit colpendolo alla nuca «Fai ancora il “bello e dannato”? Forse
piacerà alle ragazze, ma a me hai sfracellato le palle, te lo dico da amico.»
Oliver chiuse gli occhi. Sapevano entrambi che il problema non era il cuore spezzato per
Grace. Non era facile essere lì, al funerale di Cody, con tutti i pensieri che si portava dietro.
Non era solo morto un amico che aveva appena venticinque anni, era morto in quel modo.
Morto di terrore nel sonno, con le labbra aperte in un grido muto e gli occhi spalancati, così come
altri ragazzi dell'orfanotrofio. Gli Exò erano sopravvissuti e non ci avevano più pensato per anni,
ma improvvisamente sembrava che l'incubo fosse tornato.