da scoto e suarez a rosmini i pericoli della falsa

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DA SCOTO E SUAREZ A ROSMINI
I PERICOLI DELLA FALSA METAFISICA
“Parvus error in principio est magnus in fine”
(parte prima) - (parte seconda) - (parte terza)
L’ontologismo o l’immanentismo moderno, che vanno da Cartesio a Malebranche sino a
Rosmini e Gioberti, mascherati da “spiritualismo cristiano”, sono una variante del
soggettivismo cartesiano e del criticismo kantiano, i quali vengono presentati soprattutto oggi - come la “nuova” filosofia “perenne”, che avrebbe rimpiazzato la
“vecchia” metafisica classica platonico-aristotelica e tomistica nella parte di ‘ancilla
theologiae’. Ebbene questa è un’assurdità, evidente per quanto riguarda Cartesio e
Kant, più subdolamente nascosta per Malebranche e soprattutto Rosmini. Tuttavia non
si sarebbe arrivati al rosminianesimo se non vi fosse stata l’involuzione della metafisica
dell’essere tomistica con Scoto e Suarez, i quali aprono la via all’immanentismo e
soggettivismo della modernità, pur non essendo in sé immanentisti e soggettivisti in
maniera esplicita. Questo breve saggio vuole far capire il pericolo che si corre quando
ci si allontana dalla metafisica dell’essere tomistica e ci si abbevera a fonti non ancora
avvelenate, ma senza dubbio inquinate e torbide quali sono lo scotismo e il
suarezismo, che possono condurre all’avvelenamento.
*
1
I Parte
Introduzione allo scotismo
*
La vita
Personalmente Duns Scoto (+ 1308)
fu un uomo di Dio, un vero mistico,
un gran mariologo, specialmente per
quanto riguarda la ‘Immacolata
Concezione’ di Maria, la sua
‘Corredenzione’
secondaria
e
subordinata a quella di Cristo e la di
lei ‘Mediazione universale’ di ogni
grazia.
La dottrina scotista
Tuttavia, dal punto di vista
strettamente
filosofico
e
più
specificatamente metafisico, la
dottrina scotista è “alternativa a
quella di S. Tommaso, […] più
oscura, […] meno ordinata e
sistematica”. Le sue opere più
famose sono i tre Commentari al
Libro delle Sentenze di Pietro
Lombardo. Di questi tre commenti il
più importante è il primo o Opus
oxoniense. Purtroppo nel 1277 il
vescovo di Parigi Stefano Tempier
condannò 219 proposizioni che,
secondo lui, avrebbero riassunto la
dottrina di S. Tommaso d’Aquino, confusa dal Tempier con il razionalismo di Sigieri di
Brabante (+ 1284). La censura metteva in netta contrapposizione filosofia e teologia,
ragione e fede e condannava come cattive la filosofia e la ragione naturale per affermare
la validità della sola Rivelazione soprannaturale e della teologia. Una sorta di fideismo o
“tradizionalismo francese” ante litteram. Assieme a Sigieri di Brabante (una regione divisa
attualmente in due parti di cui una appartenente al Belgio e l’altra ai Paesi Bassi) veniva
condannato il razionalismo di Avicenna (+ 1037) ed Averroè (+ 1198) e si confondeva
l’aristotelismo interpretato in maniera razionalista da questi due pensatori arabi con la
metafisica aristotelica e soprattutto tomistica. Il pensiero di S. Tommaso fu frainteso da
Stefano Tempier ed accomunato, ingiustamente, a quello di Averroè ed Avicenna.
2
Partecipazione, causalità e analogia
L’Angelico distingue nell’ente finito o creato l’essenza che ha o riceve l’essere. Mentre
l’Ente infinito o increato, che è Dio, è un Essenza che è il suo stesso Essere. Ogni ente
creato riceve o partecipa l’essere da Dio.
Da questa prima distinzione reale di essenza ed essere negli enti creati, l’Aquinate arriva
alla nozione di causalità (Dio è incausato e Causa prima di ogni ente finito) e al concetto di
partecipazione: Dio è partecipato da tutti gli enti, i quali sono partecipanti o effetti di Dio.
L’ente finito o causato riceve, ha o partecipa in maniera limitata l’essere da Dio che è
incausato. Come ogni effetto anche l’ente creato partecipa alla Causa che è Dio, ossia
possiede, ha o riceve solo un effetto dell’Essere infinito (“partem-capere, ricevere una
parte”), che è la Causa prima incausata.
Partecipazione, causalità e analogia si richiamano a vicenda. Infatti l’analogia entis dice
somiglianza relativa e dissomiglianza sostanziale tra causa ed effetto, partecipato e
partecipante, Creatore e creature. L’analogia tomistica riprende la distinzione tra analogia
di proporzionalità, che è di derivazione aristotelica, ed è piuttosto orizzontale in quanto
mostra la composizione nella struttura dell’ente, l’ente è composto in ens ab alio ed Ens a
se, ossia l’ente la cui essenza è distinta dall’essere e l’Ente la cui Essenza è l’Essere
stesso. Il concetto analogo di essere è predicato degli analogati simili solo relativamente al
fatto di esistere, ma essenzialmente diversi nella loro sostanza. Per esempio Dio, l’angelo,
l’uomo, la bestia, la pianta e il minerale sono simili quanto al fatto di essere/esistere ma
la loro sostanza è totalmente diversa. Questa è la composizione nella struttura orizzontale
dell’ente. Il Dottore Comune riprende anche il concetto di analogia di attribuzione che è
tipicamente platonico ed è piuttosto verticale, in quanto mostra la dipendenza dell’ente
dall’essere. In senso stretto l’analogia di attribuzione riguarda un concetto analogo (per
esempio la salute) che è predicato di un analogato principale (per es. l’uomo)
intrinsecamente e formalmente. Ossia l’uomo è formalmente e in se stesso sano
(attribuzione intrinseca). Mentre il concetto analogo è attribuito agli analogati secondari
(colorito, passeggiata, clima, bistecca, urina) solo estrinsecamente, cioè la bistecca… non
sono sani in se stessi e formalmente, ma la salute è predicata di loro in quanto sono
effetto, segno, causa, mantenimento, analisi di essa (attribuzione estrinseca). Tuttavia per
quanto riguarda l’essere l’analogia di attribuzione è chiamata anche analogia mista, ossia
l’essere è formalmente in Dio, che lo causa nelle creature, le quali hanno l’essere in
maniera limitata e finita, ma intrinsecamente e formalmente (l’angelo, l’uomo, la bestia,
l’albero e il minerale) sono enti o hanno l’essere in maniera finita, ma realmente,
formalmente, intrinsecamente e non solo per attribuzione estrinseca. Perciò il concetto
analogo di essere si trova nell’analogato principale (Dio) formalmente, intrinsecamente ed
eminentemente (Dio è l’Essere sommo o a se), mentre esso si trova negli analogati
secondari (enti creati) per partecipazione e in maniera limitata o ab alio. Gli enti creati
hanno, ricevono o partecipano l’essere in maniera finita, ma reale, intrinseca e formale,
però non eminentemente.
L’oblio della distinzione reale di essenza ed essere nelle creature (v. Scoto e Suarez) porta
a dimenticare l’essere come atto ultimo e perfezione di ogni essenza, per focalizzare solo
l’essenza dell’ente finito, che senza l’essere partecipato ab alio, ha fatto giungere la
speculazione filosofica sino alla modernità (essenza umana scissa da Dio, il “panteismo
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immanentistico”) e al nichilismo della post-modernità (ente umano contro Dio, la “morte
di Dio”). Invece l’essere come atto ultimo di ogni essenza e perfezione ci aiuta a cogliere e
a parlare sulla verità oggettiva e reale di Dio, l’Essere stesso per sua essenza, il quale si è
definito “Io sono colui che è ” (Ex., III, 14).
Fede e ragione secondo Scoto
Siccome Scoto aveva iniziato a studiare alla Sorbona di Parigi verso il 1280, quasi quando
uscì la condanna del Tempier (1277), ne fu influenzato enormemente e si formò in uno
spirito eccessivamente anti-filosofico, come se la ragione e la filosofia fossero cattive in sé
e non solo imperfette e perfezionabili dalla teologia e dalla Rivelazione. Perciò il sistema
scotista fu un’antifilosofia, una ‘sola theologia’, una reductio philosophiae in theologiam
ed un anti-tomismo radicale, avendo frainteso la vera dottrina tomistica. Quindi, mentre la
metafisica tomistica è opera della ragione naturale, come deve essere la filosofia, ma
conforme alla Fede, poiché non esiste una “doppia verità”: una di ragione e una di Fede,
contrarie ma entrambe vere, la dottrina filosofica di Scoto, invece, è assorbita dalla
Rivelazione quanto alla sostanza, anche se quanto al modo è rigorosamente ‘logica
formalmente’, facendo una certa commistione e confusione tra ragione e Fede, filosofia e
teologia, le quali invece sono distinte ma non contraddittorie.
La ragione quasi distrutta dal peccato originale
La ragione per il Dottor Sottile dopo il peccato originale è talmente guasta, che può
filosofare correttamente solo se sottomessa alla Rivelazione. Invece la dottrina comune
cattolica insegna che il peccato adamitico ha ferito l’uomo, ma non ha distrutto le sue
facoltà naturali. Quindi la ragione può riuscire da sé a conoscere la realtà e cogliere la
verità naturalmente accessibile, senza dover necessariamente essere aiutata
intrinsecamente dalla Rivelazione, la quale gioca un ruolo ausiliario estrinseco alla
filosofia, come il paracarro di una via aiuta l’automobile a non uscire fuori strada, o come
la soluzione riportata alla fine del problema di matematica aiuta lo studente a vedere se
nello svolgere il suo compito ha errato o ha colto la verità. Se il professore suggerisse ogni
passo del problema allo studente, questi non imparerebbe mai la scienza matematica (al
massimo la “crederebbe”) e la sua intelligenza si atrofizzerebbe, e se la guida dell’auto
fosse lasciata dall’autista al paracarro, l’automobile non si sposterebbe di un passo.
Certamente le circostanze storiche della condanna di S. Tommaso da parte del Tempier
hanno influito sullo scotismo, portandolo ad un eccessiva svalutazione della ragione e della
filosofia, ad un’erronea comprensione del tomismo, alla confusione di quest’ultimo col
razionalismo di Sigieri, Avicenna ed Averroè e quindi ad una falsa lettura dell’aristotelismo
concepito in totale contraddizione metafisica colla Fede e del quale si salva solo la ‘logica
formale’ o le regole di ragionare correttamente.
Per S. Tommaso la metafisica e la ragione umana non possono conoscere tutta la realtà e
verità, poiché esiste una realtà soprannaturale e una verità che supera la capacità della
ragione naturale. Quindi la filosofia da sola non basta a conoscere tutto, però può
conoscere realmente le sostanze della realtà naturale. La teologia è scienza di Dio: Dio
rivelante e rivelato è il suo oggetto. La filosofia ha per oggetto l’esse ut actus omnium
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formarum, ossia l’ente, che è un’essenza finita habens esse per participationem, e come
termine arriva all’Essere stesso sussistente, risalendo dagli effetti alla Causa. Ma il Dio
della filosofia è solo l’Autore della natura e non è il Dio rivelante e rivelato o Deus sub
ratione Deitatis, ossia conosciuto nei suoi Misteri o nella sua Natura intima (Trinità…). Per
Scoto, invece, la filosofia non può nulla e tutto si risolve in teologia: «Scoto pensa che il
filosofo, […] giungerà fatalmente a risultati intrinsecamente inaccettabili». Per questo
scrive il padre francescano Efrem Bettoni: «Duns Scoto diffida di una filosofia pura o
separata [dalla teologia] ed è sempre attento a denunciarne non solo i limiti, ma anche gli
inevitabili errori». Secondo padre Bettoni, Scoto ritiene che «ogni filosofia, la quale si
fonda sulle risorse della ragione umana [ha] dei limiti insuperabili […], nella concreta
situazione in cui è venuta a trovarsi in conseguenza del peccato originale». Etienne Gilson
dal canto suo ammette che «Scoto prepara l’affacciarsi delle filosofie moderne e la sua
dottrina è una spiegazione della loro esistenza».
L’oggetto della metafisica scotistica
Qual è l’oggetto proprio dell’intelletto umano? Per S. Tommaso è l’ente e quindi anche
“l’essenza intelligibile della cosa sensibile”, poiché l’uomo è composto di anima e corpo e
nihil est in intellectu nisi prius non fuerit in sensu; niente si trova nell’intelletto se prima
non sia passato attraverso i sensi. Ossia l’intelletto agente astrae una specie intelligibile
dall’immagine sensibile presente nella nostra fantasia e proveniente da un’immagine
impressa nei sensi esterni da un oggetto reale ed extramentale. Scoto, invece, rigetta la
dottrina tomistica sulla conoscenza umana ed insegna che l’oggetto proprio e primario
dell’intelletto umano è l’essere in genere o universale, l’essere nella sua totalità . Mentre
per S. Tommaso l’uomo conosce anche mediante l’astrazione di idee razionali da immagini
sensibili perché è naturalmente composto di anima e corpo. La dottrina del Dottor Sottile,
perciò, può portare all’errore (che Scoto non ha esplicitato) secondo cui anche Dio e
l’Angelo, siccome sono enti, possono essere conosciuti naturalmente per sé e direttamente
dall’intelletto umano (ontologismo), senza un sillogismo o dimostrazione che risale
dall’effetto alla Causa per quanto riguarda Dio o con un argomento di pura convenienza
per quanto riguarda gli Angeli (conviene che tra Dio ‘Atto puro’ e l’uomo, composto di
materia e forma o ‘atto misto’, vi sia una forma senza materia, ma non pura da ogni
potenza, bensì composta di atto e potenza, che è l’Angelo). Padre Efrem Bettoni riconosce
che se l’oggetto proprio dell’intelletto umano è l’essere nella sua totalità «l’intelligibilità
coincide con la realtà e nessun essere, sia pure l’Essere immateriale per eccellenza,
l’Essere divino, è, in linea di diritto, escluso dall’orizzonte intellettuale dell’uomo».
È per questo motivo che padre Efrem Bettoni scrive: «Questa è la ragione per cui molti
storici del pensiero del medioevo si sentirono autorizzati a vedere in Duns Scoto il primo
responsabile della decadenza della scolastica». Mentre S. Tommaso nella sua metafisica si
basa sul concetto forte e intensivo di essere (esse ut actus) come atto ultimo di ogni
essenza e perfezione di ogni perfezione, Scoto si basa sul concetto debole di essere (esse
commune seu in genere; l’essere comune o generale).
Debolezza della ‘teologia naturale’ scotista
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Da tutto ciò segue la debolezza della “teologia naturale” o teodicea scotista, che non
riesce, come invece S. Tommaso (S. Th., I, q. 2, a. 3), a provare positivamente l’esistenza
e la conoscenza di qualche attributo di Dio mediante l’analogia dell’essere; anzi Scoto
mette eccessivamente in rilievo la Trascendenza di Dio così da renderlo assolutamente
inaccessibile alla ragione umana. Ora il Concilio Vaticano I (sess. III, can, 2) ha definito di
Fede divina e cattolica che “la ragione umana può dimostrare con certezza l’esistenza di
Dio mediante un ragionamento, che risale dalle creature o effetti al Creatore o Causa”. In
breve la Chiesa ha canonizzato le “cinque vie” di S. Tommaso, che provano l’esistenza di
Dio, come si trova anche rivelato nella Sapienza, cap. XIII, e in San Paolo, Rom., cap. I.
Volontarismo scotista
D’altro canto «Scoto ritiene che l’uomo non può vedere naturalmente l’essenza di Dio a
causa di un decreto della Volontà divina. Infatti per Scoto Dio avrebbe potuto volere che
l’intelligenza umana potesse vederlo naturalmente e che il Lumen gloriae e la Visio
beatifica fossero una proprietà della nostra natura, ma di fatto Dio non l’ha voluto. Così la
distinzione tra l’ordine naturale e quello soprannaturale sarebbe contingente e si
fonderebbe sopra un libero decreto di Dio (cfr. D. Scotus, In Ium Sent., dist. 3, q. 3, nn.
24-25)». Anche il francescano padre Efrem Bettoni ammette: «La dimostrazione [scotista
su Dio] farà capo, invece che all’esistenza, alla possibilità dell’Essere in-causabile. […]
Scoto lascia S. Tommaso per proseguire in compagnia di S. Anselmo: se un Essere incausabile è possibile […], dobbiamo concludere che esiste di fatto». Inoltre per la
concezione volontaristica di Scoto «la volontà dell’uomo non è necessitata da nessun
oggetto, neppure dalla Beatitudine, che è un bene senza difetti». Sempre
volontaristicamente Scoto scrive che “è bene ciò che Dio vuole e comanda”.
Desiderio naturale di Dio secondo Scoto
Infine, secondo Scoto, «c’è nell’anima nostra un appetito innato e naturale della Visione
beatifica (cfr. D. Scotus, Prologus Sent., q. 1, In IVum Sent., dist. 49, q. 10). Un residuo di
questa dottrina scotista peggiorata si trova nella potenza obbedienziale attiva di Suarez
(cfr. F. Suarez, De gratia, Lib. VI, cap. 5)». La dottrina tomista, insegna, invece, che
l’appetito naturale della Visione beatifica è inefficace da parte dell’uomo e condizionato
da parte di Dio, ossia se Dio vuole liberamente chiamare l’uomo alla Grazia santificante e
alla Gloria del Cielo tramite la Visione beatifica, allora l’uomo può giungervi non con le sue
forze naturali, infinitamente sproporzionate all’ordine soprannaturale, ma solamente
aiutato dalla mozione soprannaturale di Dio. Questa dottrina è stata ripresa dal Magistero
ecclesiastico già nella condanna (1567) da parte di San Pio V di Michele Bajo, che parlava
di esigenza naturale della Grazia, la quale sarebbe dovuta e non gratuita (DB, 1001-1080),
poi nella condanna del modernismo (S. Pio X, Pascendi, 1907) e infine del neo-modernismo
(Pio XII, Humani generis, 1950) e specialmente del libro Le surnaturel di padre Henry de
Lubac del 1946 (v. sì sì no no, 30 novembre 2009, pp. 1-4), che riprendeva la tesi scotista e
suareziana sulla potenza obbedienziale non passiva, ma in atto imperfetto. Inoltre il
concetto scotista di desiderio naturale della Visione beatifica e il concetto suareziano di
potenza obbedienziale attiva sono contraddittori nei termini. Infatti essi sarebbero nello
stesso tempo essenzialmente naturali e soprannaturali. Quod repugnat, per il principio di
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non-contraddizione. Quindi la potenza obbedienziale è puramente passiva e giunge all’atto
solo se mossa da Dio (“ens in potentia non reducitur ad actum nisi per ens in actu; l’ente in
potenza passa all’atto solo per mezzo di un ente già in atto”; “omne quod movetur ab alio
movetur; tutto ciò che si muove è mosso da un altro”). Da tale errore filosofico, oltre
Bajo, i modernisti e i neo-modernisti, anche Antonio Rosmini (v. sì sì no no, 15 ottobre
2009, pp. 1-5 e 15 giugno 2011, pp. 1-6) ha tratto delle conclusioni dogmaticamente
erronee. Per esempio Rosmini pensava che l’uomo con la ragione naturale può dimostrare
positivamente la possibilità della SS. Trinità (e non solo la sua non-ripugnanza o nonimpossibilità). Invece il Magistero ha definito che ciò che è essenzialmente soprannaturale
non può essere dimostrato naturalmente. Infatti i Misteri soprannaturali quanto alla
sostanza superano infinitamente la capacità dei princìpi della ragione naturale (DB, 1816 e
1795).
L’univocità dell’ente secondo Scoto
«Scoto si discosta nettamente dall’intera tradizione metafisica sia classica che scolastica
quando sostiene che quello di ente non è un concetto analogo ma univoco». Padre Bettoni
scrive: «I concetti univoci sono lo strumento logico, che mette l’intelletto umano in
condizioni di […] conoscere l’essere nella sua totalità».
“Il principio da cui Scoto prese le mosse per negare la distinzione reale tra essenza ed
essere è l’univocità dell’essere”. Scoto intende l’essere come essere comune o generale e
indeterminato, che sta alla base di ogni ulteriore determinazione; esso è predicabile di
tutto ciò che è, quindi di Dio come di tutte le creature, dall’Angelo alla pietra. Esso è
anche univoco: “esse est unius rationis, l’essere ha un solo significato” ed “è predicato allo
stesso modo di ogni cosa; ens dicitur per unam rationem de omnibus de quibus
praedicatur”. Scoto «tende ad ammettere, anzi ammette un certa univocità fra Dio e le
creature (Opus oxoniense, I, dist., 3, q. 2, n. 5 ss; dist. 5, q. 1; dist. 8, q. 3)», mentre S.
Tommaso ha come oggetto della sua metafisica l’esse ut actus omnium formarum, inteso
come perfezione massima, determinata e determinante, specifica. L’Esse ha un primato
ontologico sull’ente, che è un’essenza la quale ha l’esse ut actus, cioè che l’attua e la
rende ente realmente esistente. S. Tommaso studia l’ente, ma sempre in rapporto alla sua
perfezione, l’essere: quindi studia l’esse intensivo e non comune o indeterminato, ossia
come atto ultimo dell’essenza. L’essere tomistico supera e perfeziona originariamente e
ultimamente l’essenza. In ciò l’Aquinate supera lo Stagirita. Certamente il primo concetto
che ci formiamo è l’essere comune o universale dell’ente. Ma l’Angelico ha capito subito
che quest’essere comune e universale è un concetto vago e indeterminato, che abbraccia
tutti gli enti e non dà loro la perfezione ultima. Quindi l’Aquinate scruta a fondo l’esse
dell’ens e vede che vi è l’esse come atto ultimo, il quale, a differenza dell’esse commune,
ha un valore intensivo e una perfezione, che supera tutte le altre perfezioni, forme,
essenze, sostanze ed enti. L’esse ut actus è l’actualitas omnium actuum, è la più perfetta
di tutte le cose ; l’essere come atto, e non quello comune, è veramente la perfezione
ultima e la radice di ogni altra perfezione. Scoto, invece, mette al centro del suo pensiero
l’esse commune seu in genere, ossia una perfezione minima, indeterminata, universale e
generale o comune a tutte le cose. Ora l’essere comune è condiviso da tutti gli enti, da Dio
sino al minerale, e quindi l’errore filosofico scotista può aprire le porte al monismo
panteista, mentre la metafisica tomistica dell’essere come atto ultimo di ogni perfezione
le sbarra inequivocabilmente.
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Dimostrazione scotista dell’esistenza di Dio
Scoto definisce Dio come Ente infinito in atto. Ma, «pur cercando di costruire una prova
rigorosamente razionale, il contesto in cui Scoto si colloca è quello religioso: Dio è già
pienamente riconosciuto in tutta la sua grandezza […] sul piano della Fede. Così l’esordio
del De principio di Scoto presenta molte analogie con quello del Proslogion di S. Anselmo».
La prova scotista è o vuol essere una rielaborazione scientifica o strettamente filosofica
della conferenza di spiritualità di S. Anselmo ai suoi monaci contenuta nel Proslogion e
chiamata “prova ontologica”, poiché dall’idea dell’Essere perfettissimo, cui nulla può
mancare (neppure l’essere), si risale alla Sua esistenza reale. I filosofi e S. Tommaso in
primis hanno obiettato che non è valido il passaggio dall’idea alla realtà (passaggio su cui
si fonda la filosofia di Rosmini dell’idea di essere) e che inoltre l’uomo, il quale ha idee e
concetti finiti e limitati, non può avere come punto di partenza un’idea (la quale coglie
l’essenza della res) di Dio che è Ente infinito. Quindi si può arrivare all’esistenza di Dio e
alla conoscenza di qualche sua proprietà, e non della sua Essenza, solo per un
ragionamento che risale dagli effetti alla Causa. Scoto, però contrappone filosofia e
teologia, ragione e Fede. Ora la ragione umana possiede dell’in-finito solo un concetto
negativo (come di ciò che è ‘non-limitato’) e perciò non può dire nulla di positivo
sull’esistenza di Dio e sui suoi attributi o qualità, ma solo che Egli è in-finito o nonlimitato.
Apofatismo scotista
La prova dell’esistenza di Dio in Scoto, quindi, rischia di far scivolare verso l’apofatismo
maimonideo o il nichilismo teologico (v. sì sì no no, 31 gennaio 2010, pp. 1-4): nulla si sa su
Dio, tranne che Egli è l’In-finito. Per sapere qualcosa di positivamente più consistente su
Dio, occorre la Rivelazione e la Fede. Inoltre Scoto nega la possibilità di provare
razionalmente l’immortalità dell’anima. Infine Scoto, come poi Francisco Suarez (v. sì sì no
no, 15 febbraio 2011, pp. 1-5), «si rifiuta di ammettere la distinzione reale tra essenza ed
esistenza, tranne che in Dio». Scoto riprende da Avicenna la concezione della nondistinzione reale tra essenza ed essere nelle creature e con tale teoria prelude a Suarez e
alle involuzioni antimetafisiche della modernità. Secondo Gilson - che è stato uno dei più
grandi studiosi dal punto di vista storico/filosofico della filosofia medievale e di Scoto - lo
scotismo è il diffusore di una metafisica dell’essenza, che segna un ritorno ad Aristotele ed
un’involuzione rispetto alla metafisica dell’esse ut actus di S. Tommaso, la quale dà il
primato all’essere; una metafisica “agli antipodi di quella del primato dell’esse come era
quella di S. Tommaso d’Aquino”. Gilson ha colto bene l’essenzialismo o il ritorno alla
metafisica della sostanza o dell’essenza di Aristotele da parte di Scoto e l’abbandono
dell’ascesa tomistica alle vette della metafisica come filosofia dell’esse quale “perfezione
suprema di ogni perfezione, atto ultimo di ogni atto, essere ultimo di ogni essenza e
forma”. Tutto ciò a partire dalla negazione scotista della distinzione reale tra essenza ed
essere nelle creature, dichiarata da S. Tommaso, come insegna anche la XXIII Tesi del
tomismo: “L’Essenza di Dio è identica al Suo Essere, cioè Dio è lo stesso Essere per Sé
Sussistente”.
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Beatificazione di Scoto ma non dello scotismo
Per quanto riguarda la beatificazione di Scoto, avvenuta nel 1991, Gilson nel 1953, dopo
aver concluso la sua opera di oltre ottocento pagine su Scoto, scriveva: “Si riuscirà a far
beatificare Scoto, nella misura in cui non vorranno cercar di far canonizzare anche lo
scotismo o la dottrina dell’uomo Duns Scoto”. Infatti già nel 1920 la ‘Congregazione dei
Riti’ aveva respinto la Positio super scriptis presentata dal Postulatore generale della causa
di beatificazione di Duns Scoto. Scoto come uomo è stato un vero cristiano ed ha
sviluppato la vita della Grazia pienamente, ma come filosofo ha partorito una dottrina
lontana dalla realtà e dalla verità, anche se come teologo non ha errato esplicitamente
nella Fede. Gilson concludeva: “Giacché devo scegliere tra l’ens ut ens senza l’esse e l’ens
come essentia habens esse, scelgo quest’ultimo. Lo scotismo è una posizione dottrinale in
opposizione alla vera metafisica dell’essere di S. Tommaso. Resto contrario alla metafisica
scotistica dell’essere universale. […]. Sentiendum est de theologia Scoti, sicut sentit
Romana Ecclesia”. Ora la Chiesa, come vedremo oltre, ha approvato ufficialmente e
magisterialmente le ‘XXIV Tesi del Tomismo’.
Considerazioni conclusive su Scoto
Scoto con il suo volontarismo, il suo criticismo, il suo fideismo, «si trova a cavallo tra la
grande scolastica e quella decadente, spalanca le porte alla ‘via moderna’». Secondo Van
Steenberghen Scoto apre le porte sia al nominalismo di Occam (+ 1350) sia al falso
misticismo apofatico di Eckhart (+ 1327). Il padre francescano Efrem Bettoni valuta
criticamente e severamente lo scotismo: «Scoto [ha] l’onore di essere considerato il
Dottore più rappresentativo della scuola francescana. In cambio però i punti deboli e i
compromessi del suo sistema […], oggi rendono molti studiosi assai perplessi sull’intrinseca
coerenza e solidità del suo pensiero. Scoto più che insegnare, incita a pensare».
Perciò se vogliamo veramente e non solo verbalmente sentire cum Ecclesia dobbiamo ire
ad Thomam, non a Scoto e Suarez, e volgere le spalle a Rosmini. «Molti teologi quando
giungeranno all’altro mondo, si renderanno conto di aver disconosciuto il valore della
grazia fatta da Dio alla sua Chiesa dandole il Doctor Communis».
d. CURZIO NITOGLIA
4 ottobre 2011
http://www.doncurzionitoglia.com/scoto_suarez_rosmini_1.htm
9
II Parte
SUAREZ ESPLICITA GLI ERRORI METAFISICI DI SCOTO
Introduzione al suarezismo
*
Il principale equivoco della filosofia di Francisco Suarez (+ 1617) consiste nella
negazione
della
distinzione
reale
nell’ente
creato
di
materia/forma;
accidente/sostanza; potenza/atto; essenza/essere. Tale distinzione, al contrario, è
l’essenza della filosofia tomistica, che facendo dell’essere l’atto ultimo di ogni essenza
sorpassa persino Aristotele, il quale si era fermato alla distinzione reale tra potenza e
atto e alla metafisica della sostanza.
Da tali errori filosofici, che in Suarez non hanno avuto conclusioni teologicamente
eterodosse, si può passare all’errore nella fede, come è successo con i Beguardi, il
panteismo, l’apofatismo, l’ontologismo, il monismo spiritualista, il razionalismo, il
fideismo e il modernismo, condannati nel 1311 dal Concilio di Vienne (DB 475); da
Benedetto XI nel 1336 (DB 530); dal Concilio di Firenze nel 1438-1445 (DB 693) e dal
Vaticano I nel 1869 (DB 1806); da S. Pio X nel 1907 (Pascendi) e 1910 (giuramento
antimodernista, DB 2145) e da Pio XII nel 1950 (Humani generis, DS 3891).
10
Materia e forma secondo Suarez
Secondo Suarez la ‘materia prima’ possiede una certa sua attualità (Disputationes
Metaphysicae, dist. 13, sez. 5) onde la ‘materia prima’ non è realmente distinta dalla
‘forma sostanziale’, mentre per S. Tommaso (De spiritualibus creaturis, a. 1; S. Th., I,
q. 45, a. 4; De Potentia, q. 3) la ‘materia prima’ è pura potenza senza alcun atto, che
riceve l’attualità solo tramite la ‘forma sostanziale’, per cui materia e forma sono
realmente distinte (In Physic., lc. 9, n. 60; De spiritualibus creaturis, a. 1).
Quindi nella metafisica di Suarez manca la nozione vera e precisa di potenza (Disp.
Meth., dist. 30, sez. 13) come termine medio tra atto e nulla (“medium inter purum
non-ens et ens in actu”, In I Physicorum, lc. 9, n. 60) la quale fu elaborata da Aristotele
per sorpassare l’antinomia di Parmenide (solo essere senza alcun divenire) e di Eraclito
(solo divenire senza alcun essere stabile).
Conseguenze teologiche della metafisica suareziana
Se da un punto di vista puramente filosofico tale errore può portare o al monismo
fissista e spiritualista parmenideo o al divenire perpetuo e materialistico eracliteo, due
facce (una statica e l’altra dinamica) dello stesso panteismo. Da un punto di vista
teologico essa pre-contiene l’errore modernistico della esigenza dell’ordine
soprannaturale da parte di quello naturale, in quanto la potenza obbedienziale secondo
Suarez (De Gratia, lib. 6, c. 5) non è più solo pura potenza senza alcun atto, ma una
potenza che contiene in sé un atto anche se imperfetto. Così la natura pre-contiene in
sé la grazia anche se imperfettamente.
La potenza obbedienziale da Suarez a de Lubac
Il teologo neo-modernista che ha studiato e approfondito più di tutti gli altri, sino a
farne il suo cavallo di battaglia, il problema del rapporto tra natura e grazia o ordine
naturale e ordine soprannaturale è Henry de Lubac. Già San Pio X aveva condannato
l’errore modernista che confonde i due ordini ed afferma che la natura esige la grazia o
l’ordine naturale quello soprannaturale «trattasi […] del vecchio errore, che concedeva
alla natura quasi un diritto all’ordine soprannaturale» (Pascendi, 8 settembre 1907).
Ancor prima di papa Sarto il Concilio Vaticano I nel 1869 aveva definito infallibilmente e
irreformabilmente: «Se qualcuno osa dire che l’uomo non ha bisogno di essere elevato
da Dio ad un ordine che supera la natura, ma che può e deve da se stesso giungere al
possesso del Sommo Vero e Bene, sia anatema» (De Revelatione, can. III, DB 1806, è un
dogma formale, divinamente rivelato e infallibilmente proposto a credere dalla Chiesa,
chi lo nega è eretico). Invece De Lubac ha ripreso tale eresia e ne ha fatto il cuore del
suo sistema teologico. Il card. Pietro Parente ha scritto: «in questi ultimi tempi si rivela
la tendenza di alcuni teologi a fare del soprannaturale uno sviluppo necessario della
natura, eliminando così la distinzione entitativa tra i due ordini (cfr. de Lubac,
Surnaturel, Parigi, Aubier, 1946). Pio XII nell’enciclica Humani generis (12 agosto 1950)
11
individua e deplora tale tendenza». Nel 1893 Maurice Blondel (condannato nel 1924 dal
S. Uffizio) aveva avanzato la pretesa della esigenza del soprannaturale da parte della
natura umana, quando nel 1946 de Lubac riprese tale errore fu sospeso
dall’insegnamento e condannato dalla Humani generis. De Lubac affermava nel suo libro
che l’ordine naturale è necessariamente implicato in quello naturale, non è gratuito, è
dovuto alla natura, esclude così la gratuità della grazia santificante. Ma come poteva
dimostrare tale asserto? Grazie alla nozione suareziana di potenza, che ha in sé un certo
atto, anche se imperfetto. A partire da questa erronea definizione filosofica di potenza
che è solo pura capacità di ricevere l’atto, ma non contiene nessun atto in sé neppure
imperfettamente (s. Tommaso), de Lubac dava una definizione teologicamente erronea
della potenza obbedienziale, che per la dottrina cattolica è pura capacità o potenza
passiva a ricevere la grazia, invece per de Lubac la potenza obbedienziale è attiva,
poiché la potenza - secondo Suarez - dice atto in se stessa. Onde da una iniziale falsa
concezione filosofica suareziana, de Lubac ne tira un’eretica conclusione teologica
finale: l’uomo una volta creato ha da se stesso il diritto o l’esigenza o la capacità attiva
alla grazia, senza bisogno di riceverla gratuitamente da Dio. Pio XII rinnovò la condanna
di tale eresia (già espressa dal Concilio Vaticano I e da san Pio X) nella Humani generis
scrivendo: «alcuni deformano la vera nozione della gratuità dell’ordine soprannaturale,
quando pretendono che Dio non può creare esseri intelligenti senza dotarli
necessariamente della grazia ed ordinarli alla visione beatifica» (DS 3891). Secondo la
fede cattolica rivelata e definita l’uomo può dimostrare con certezza l’esistenza di Dio a
partire dalle creature (Concilio Vaticano I, DB 1806). Inoltre ha un “desiderio naturale”
di vedere l’essenza o la faccia di Dio. Ma non ha la capacità di giungervi con le sue forze
naturali (tale dottrina è stata definita come dogma divinamente rivelato e proposto a
credere dal Concilio di Vienne, DB 475; Benedetto XI costituzione dogmatica “Benedictus
Deus” DB 530; Concilio di Firenze, DB 693, chi la nega è eretico). Questo desiderio che
segue la conoscenza dell’esistenza di Dio è condizionale, ossia vi si può arrivare solo e
soltanto a condizione che Dio con un dono gratuito elevi l’uomo all’ordine
soprannaturale dando alla potenza obbedienziale umana che è puramente passiva la
grazia santificante e poi il lumen gloriae. Invece per de Lubac e la “nouvelle théologie”
tale desiderio è assoluto o incondizionato (non dipendeva nessuna condizione posta da
Dio) ed efficace da parte dell’uomo. È una necessità che l’uomo da sé abbia la capacità
attiva di partecipare alla natura divina e poi di vedere la faccia di Dio, senza alcun dono
gratuito di Dio e senza alcuna condizione che Dio gli dia la grazia santificante e il Lumen
gloriae. Come abbiamo visto sopra S. Tommaso filosoficamente distingue realmente
potenza passiva da atto al contrario di Suarez ed inoltre teologicamente distingue il fine
ultimo soprannaturale dal fine naturale (S. Th., I, q. 23, a. 1; ivi, q. 12, a. 2, ad 4; ivi,
q. 5, a. 5; De Veritate, q. 14, a. 2) al contrario di de Lubac. Padre Reginaldo GarrigouLagrange ha scritto giustamente: «Padre de Lubac non sembra mantenere la vera
nozione di natura umana; essa non sembra avere per lui alcun limite determinato. […].
Non si può vedere ove finisca per lui il naturale e cominci il soprannaturale, dove finisca
la natura e cominci la grazia» (L’immutabilité des formules dogmatiques, in
“Angelicum”, n. 24, 1947). Lo stesso p. Garrigou-Lagrange si domandava: «Dove va la
nouvelle théologie? Essa ritorna la modernismo» (La nouvelle théologie ou va-t-elle?, in
“Angelicum, n. 23, 1946, p. 144) e porta alla «apostasia completa» (Verité et
immutabilité du dogme, in “Angelicum”, n. 24, 1947, p. 137) che è il panteismo
teilhardiano, maestro di de Lubac e padre della nouvelle théologie. “Parvus error in
principio magnus est in fine”.
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Potenza e atto in Suarez
Oltre alla confusione filosofica tra materia e forma, che porta all’errore della nongratuità della grazia, Suarez confonde filosoficamente potenza e atto onde asserisce che
l’ente è semplicissimo ed è ente in atto (Disp. Meth., dist. 15, sez. 9). Questa
confusione filosofica può sfociare in un vero e proprio panteismo teologico, poiché tende
a fare di ogni ente un Atto puro sine ulla potentia, ma l’Atto puro è solo Dio e se ogni
ente è Atto puro, allora Dio coincide col creato e viceversa. Invece S. Tommaso
distingue realmente la potenza dall’atto, di modo che ogni ente creato è composto di
potenza e atto, mentre solo l’Increato o Dio è Atto puro da ogni potenza (S. Th., I, q.
77, a. 1; In VII Metaph., lc. 1; In IX Metaph., lc. 1 e lc. 9). In tutte le sue opere
l’Angelico non si stanca di ripetere “solus Deus est suum esse, non solum habet esse, sed
est suum esse. In solo Deo essentia et esse sunt idem” (S. Th. I, q. 3, a. 4; ivi, q. 7, a. 1
ad 3).
Essenza ed essere
Inoltre Suarez nega la creatura sia composta di essenza ed essere (Disp. Meth., dist. 31,
sez. 4, 6 e 13), invece S. Tommaso tocca il culmine della metafisica, sorpassando lo
stesso Aristotele che si era fermato all’essenza, giungendo al concetto di essere come
“atto ultimo e perfezione di ogni essenza” (Contra Gent., l. I, cc., 38, 52-54; S. Th., I,
q. 50, aa. 2-3; De ente et essentia, c. 5) e in tal modo distingue ogni ente creato anche
di natura angelica, composta di essenza ed essere, da Dio che è il suo stesso Essere per
essenza (S. Th., I, q. 50-51, 54), Suarez nega esplicitamente la composizione di essenza
ed essere negli Angeli (Disp. Meth., dist. 31, sez. 13).
L’analogia dell’ente suareziana
Suarez nega l’analogia, poiché il concetto di essere - secondo lui - non è univoco,
equivoco e analogo, ma assolutamente uno (Disp. Meth., dist. 2, sez. 2-3). Al contrario
san Tommaso grazie all’analogia riesce a poter discorrere su Dio il quale è analogo alle
creature, ossia sostanzialmente diverso poiché infinito, ma relativamente simile quanto
al fatto di esistere. Negando l’analogia si tende al nichilismo teologico o apofatismo,
che ritiene del tutto impossibile all’uomo dire qualcosa su Dio o conoscere qualche suo
attributo divino (Contra Gent., l. I, cc. 32-34; S. Th., I, q. 4, a. 3 ad 3; ivi, q. 13, a. 5).
L’anima umana è di per sé operativa?
Lo scolastico spagnolo nega anche la distinzione reale tra l’anima e le sue facoltà
(intelletto e volontà), onde per lui l’anima è direttamente operativa (Disp. Meth., dist.
13
14, sez. 5). Ora se l’anima che è una sostanza sempre in atto fosse direttamente e per
se stessa operativa l’uomo agirebbe (conoscendo razionalmente e volendo) sempre in
atto, ma solo Dio è Conoscenza e Volontà sempre in atto, l’uomo invece secondo san
Tommaso agisce con le facoltà soggettate nell’anima come gli accidenti (azione e
passione) nella sostanza e le facoltà non agiscono sempre in atto, ma sono capacità
attive di azione e per agire debbono passare dalla potenza all’atto (S. Th., qq. 77-79;
Contra Gent., l. II, c. 72; De Anima, aa. 12 ss.).
*
Conclusione riguardo al suarezismo
Non desta meraviglia la frase di p. Cornelio Fabro: “[Suarez] col suo vuoto metafisico,
ha una parte di responsabilità nell’aver stimolato - sia pure a distanza - il soggettivismo
moderno”. Ciò da un punto di vista filosofico. Teologicamente i suoi allievi si son serviti
della sua autorità, poiché Suarez è stato molto qualificato e stimato per la filosofia
morale sociale, il diritto naturale-divino e per la santità di vita e profondità di
spiritualità ignaziana e controriformistica, per poter far passare i loro errori nella fede o
addirittura eresie, sposando il soggettivismo filosofico al dogma cattolico ed erodendo
quest’ultimo dall’interno, modernisticamente. Tutto ciò deve farci capire come da una
falsa metafisica ne consegua necessariamente anche se non immediatamente una falsa
teologia. L’antidoto è il ritorno al tomismo genuino e alla Tradizione apostolica della
Chiesa, che soli ci fanno distinguere il grano dal loglio. S. Pio X dopo aver condannato il
modernismo nel 1907, poco tempo prima di morire «della gravità della situazione e
prescrisse il 29 giugno del 1914 che si insegnassero i principia et pronuntiata majora
della dottrina di S. Tommaso. […]. Alcuni tomisti [p. Guido Mattiussi] proposero allora
alla S. Congregazione degli Studi XXIV Tesi fondamentali. La S. Congregazione le
esaminò, le sottopose al S. Padre e rispose che quelle Tesi contenevano i princìpi e le
grandi affermazioni della dottrina del S. Dottore. […]. Poi nel febbraio del 1916, la S.
Congregazione degli Studi decise che […] le XXIV Tesi dovessero essere proposte come
regole sicure di direzione intellettuale». La distinzione reale tra potenza/atto,
materia/forma, essenza/essere non è una pura opinione ma «una verità necessaria ed
evidente […] fondamento di tutte le altre Tesi». Essa tocca il suo culmine nella
affermazione secondo cui «l’essenza finita non è il suo essere, ed è realmente distinta
dalla medesima. Dio solo, quale Atto puro, è il suo Essere, Egli è l’ipsum Esse subsistens,
irreceptum et irreceptivum: “Ego sum qui sum”». Sempre Garrigou-Lagrange cita S. Pio
X il quale, riprendendo l’assioma tomistico, asseriva “parvus error in principio magnus
est in fine” e commenta: «se si rigetta la distinzione potenza/atto, tutte le altre Tesi
perdono il loro valore. […]. Per il discredito in cui si riteneva la metafisica tomistica, un
relativismo estremamente virulento si era introdotto, quasi senza essere notato,
nell’insegnamento. […]. Per arrestare e correggere sì funesto errore S. Pio X fece un
gesto brusco e definitivo. Oggi si può vedere dallo spettacolo del neo-modernismo a
quali spaventevoli distruzioni avrebbe rischiato di condurci il relativismo dottrinale, se
non fosse intervenuta la S. Sede. [….]. Il Papa segnalando e sintetizzando l’errore
modernista, costrinse la teologia ad esaminare le nozioni fondamentali della religione,
molto abilmente pervertite dai modernisti. L’ossatura filosofica appariva sempre più
indispensabile a tutto l’organismo della teologia. S. Pio X aveva ammonito i professori a
14
non abbandonare la dottrina tomistica, specialmente nella metafisica, sotto pena di
correre un grave pericolo e detrimento». Ecco spiegata l’importanza della sana filosofia
tomistica per la purezza della Fede e il pericolo che la falsa filosofia suareziana fa
correre indirettamente ma implicitamente alla Fede. Parvus error in principio fit magnus
in termino: dalla filosofia suareziana si può facilmente giungere al modernismo, avendo
negato la distinzione reale tra materia/forma, potenza/atto, essenza/essere. Infatti «
l’errore fondamentale condannato dalla Humani generis è il relativismo filosofico, il
quale conduce al relativismo dogmatico». Se vogliamo uscire dalla crisi in cui versa
l’ambiente cattolico, dobbiamo ritornare alle fonti pure e cristalline della metafisica
genuinamente tomistica, che è il baluardo inespugnabile per combattere ogni forma di
soggettivismo filosofico e di immanentismo teologico modernistico. “Tolle Thomam et
dissipabo Ecclesiam”!
d. CURZIO NITOGLIA
5 ottobre 2011
http://www.doncurzionitoglia.com/scoto_suarez_rosmini_2.htm
III Parte
15
Il sistema filosofico di Rosmini
Antonio Rosmini (+ 1885) ha voluto rinnovare la filosofia perenne, in crisi dopo
l’epoca illuministica, non approfondendola e servendosi di essa per confutare la
novità della modernità, ma tentando di dialogare e non di combattere, con la
filosofia moderna, cartesiano-kantiana essenzialmente soggettivistica. Egli voleva
ammodernare e aggiornare o adattare la tradizione cattolica in maniera eterogenea,
tenendo conto delle nuove esigenze culturali (Cartesio e Kant) e desiderava non uno
scontro con la modernità, ma un incontro tra cristianesimo e mondo moderno,
contravvenendo all’ultima proposizione del Sillabo di Pio IX secondo cui “il Papa non
può e non deve venire a patti col liberalismo, col progresso[ismo] e con il mondo
moderno [o filosofia della modernità]”. Invece, la sua filosofia si avvale del ‘metodo
sintetico’ kantiano, ossia opera una ‘sintesi’ tra l’essere reale e l’essere ideale
(“l’idea di essere”) kantiano-idealista ed in ciò è un vero precursore del modernismo
classico, condannato da S. Pio X, come spurio connubio di kantismo e dogma
cattolico (Pascendi, 1907). Onde nel suo sistema filosofico il primato spetta cartesianamente - all’idea o alla teoria della conoscenza (gnoseologia) e non alla
realtà o metafisica dell’essere. Infatti, anche per il Roveretano viene,
cartesianamente, prima il cogito e poi l’essere o il reale. L’essere rosminiano è
chiamato più giustamente “idea di essere”, poiché egli applica all’essere dei concetti
soggettivi o ‘a priori’. Come scrive padre Battista Mondin, Rosmini tentò «un
difficilissimo
dialogo
con
il
pensiero
post-cartesiano,
intrinsecamente
immanentistico. […], un incontro tra cristianesimo e mondo moderno. […]
Diversamente da Aristotele e S. Tommaso […], Rosmini ricorre al metodo sintetico,
[…] come sintesi tra l’essere ideale e l’essere reale». Inoltre «Rosmini ritorna alla
tesi classica [dell’essere, nda], ma la ripropone in un nuovo contesto che è quello di
Kant. […] Rosmini è d’accordo sulla necessità che nella conoscenza ci sia un
elemento ‘a priori’, che egli riduce alla sola idea di essere». In breve il
rosminianesimo è un miscuglio di realismo e idealismo, antesignano del tomismo
“trascendentale” o kantiano, di Joseph Maréchal e Karl Rahner, che di tomistico non
ha più nulla, tranne il nome. Tuttavia, mentre Kant forniva alla conoscenza
intellettiva un certo numero (dodici per l’esattezza) di categorie soggettive o ‘a
priori’, l’idea di essere rosminiana è unica, innata nell’uomo e intuita da lui.
Inoltre il Roveretano confonde ente ed essere, come fossero sinonimi
interscambiabili, onde capovolge la metafisica tomistica. Nega il valore delle cinque
vie tomistiche (riprese e definite dogmaticamente dal Concilio Vaticano I, e perciò
stesso infallibilmente, come capacità reale dell’intelletto umano di risalire - con
certezza - dagli effetti creati alla Causa Increata e Creatrice, DB 1806) quanto alla
dimostrazione dell’esistenza di Dio, per seguire l’argomento ontologico, che per S.
Anselmo d’Aosta aveva solo un significato spirituale-apologetico, mentre lui ne fa un
argomento filosofico in senso stretto e probante, passando dal concetto di Dio alla
sua esistenza, ossia dall’ideale al reale. Per quanto riguarda gli attributi o i Nomi
divini, segue la via apofatica o il nichilismo teologico maimonideo o di Dionigi (I Nomi
di Dio) malamente interpretato, per il quale Dio è totalmente inconoscibile; mentre
la filosofia perenne e il Dogma definito dal Vaticano I insegnano che la ragione
umana, oltre l’esistenza di Dio, può conoscere non tutti, ma alcuni suoi attributi,
16
perfezioni o ‘Nomi’ (Essere, Verità, Bontà, Bellezza).
Rosmini e il S. Uffizio
Nel 1848 (sotto Pio IX) due opere in cui Rosmini propugnava un “aggiornamento”
politico della Chiesa (Costituzione secondo la giustizia sociale e Le cinque piaghe
della Chiesa), furono mese all’Indice, soprattutto ma non esclusivamente per motivi
storico-politici, legati alle vicende del Risorgimento, che stava sviluppandosi proprio
allora. Sofia Vanni Rovighi scrive che Rosmini «era fautore di un moderato
liberalismo. […] Nel 1848 ebbe una missione diplomatica dal governo piemontese per
indurre Pio IX ad appoggiare una confederazione di Stati italiani. […] La
confederazione doveva avere carattere di aiuto al Piemonte contro l’Austria, e
questo non poteva non creare difficoltà al Papa, capo religioso di tutti i cattolici».
Gianfranco Radice specifica che: «Queste differenziazioni spiegano, anche, il giudizio
pesante, formulato da Rosmini, subito dopo il suo ritorno a Stresa dalla infelice
missione romana, sulla personalità di Pio IX [come] “poco coerente, di poca
istruzione…”» (“Archivio Rosminiano di Stresa”: A. Rosmini, Missione diplomatica,
manoscritto, f. 73, in data 27 febbraio 1850, cit. in “Studi Piani”. Pio IX e Antonio
Rosmini, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1974, p. 11). Il Malusa dice
che «papa Mastai Ferretti […] nell’esilio di Gaeta, subì [quasi fosse un minus habens,
nda] la condanna degli scritti rosminiani». Invece qualsiasi persona non prevenuta
riesce a capire che Pio IX non poteva ammettere la conciliazione rosminiana tra
cattolicesimo e liberalismo, essendo il Papa della condanna assoluta di ogni cattoliberalismo. Nel 1854 (sempre sotto Pio IX) un esame delle sue opere filosoficoteologiche si terminò con un Dimittantur, ovvero senza condanna ecclesiastica. «Il
senso del decreto Dimittantur non era quello di una garanzia illimitata di ortodossia
sugli scritti di Rosmini, ma di una semplice sospensione di giudizio sulla possibile
eterodossia di dottrine in essi contenute». Invece nel 1887 (sotto Leone XIII, in
questo tema più fermo di Pio IX, onde crolla la storiella di Leone XIII Papa liberale,
tanto cara ai discepoli di Charles Maurras), il decreto Post obitum condannò 40
proposizioni estratte da opere, anche postume, del Roveretano, come eterodosse Nel
1° luglio del 2001 una Nota sul valore dei Decreti dottrinali concernenti il pensiero e
le opere del Reverendo Sacerdote Antonio Rosmini Serbati, della Congregazione per
la dottrina della fede, apportava delle precisazioni sulla condanna, delle quaranta
proposizioni rosminiane, del 1888, da parte del S. Uffizio e voluta fortemente da
Leone XIII. La Nota del 2001 spiegava che la condanna del 1887, più che una vera e
propria condanna delle proposizioni in se stesse, era piuttosto un’espressione di
cautela su un possibile uso eterodosso delle dottrine rosminiane, soprattutto quelle
postume, che a prima vista potevano sembrare erronee, ma nel contesto complessivo
- come si dice oggi, “storicizzate” - erano libere da contenuti ereticali. Il decreto
della Congregazione per la dottrina della fede, presieduta dall’allora card. Joseph
Ratzinger, del 2001 «in nulla sconfessava la condanna emanata il 14 dicembre 1887
[e pubblicata nel 1888], ma attribuiva [ossia, limitava e restringeva, nda] il suo scopo
al motivo prudenziale di non fare incorrere gli studiosi ed i lettori di Rosmini in
equivoci. La condanna non era riformata, cosa impossibile […], ma solo spiegata»,
17
onde la filosofia e teologia rosminiana resta condannata anche se re-interpretata alla
luce della “ermeneutica della continuità”, che soggettivamente interpreta ogni cosa,
anche contraddittoria (‘idea’ rosminiana ed ‘essere’ tomistico) con la dottrina
cattolica, come potenzialmente ‘conforme’ ad essa, poiché il contesto storicoermeneutico, unisce tutto, anche i contrari (capre e cavoli), nello ieri, oggi e domani
che formano un continuum o tutt’uno (cf. Schleiermacher, Dilthey e Gadamer).
Luciano Malusa, dell’Università di Genova, nel libro citato, spiega come la condanna,
differita da Pio IX fu voluta da Leone XIII. Papa Pecci (autore della enciclica Aeterni
Patris, 1879), secondo il Malusa, era un tomista “stretto” (ossia non accettava il
“tomismo trascendentale” che voleva coniugare S. Tommaso col kantismo, come
invece Rosmini cercò di fare) e non tollerava dottrine che si allontanassero dal più
sano e genuino tomismo, per imbastardirlo mediante lo spurio connubio con la
modernità, che è la natura del modernismo condannato da S. Pio X nell’enciclica
Pascendi Dominici gregis (1907), in quanto cerca di sposare il dogma cattolico con la
filosofia moderna e soggettivista, specialmente kantiana, la quale relativizza il
significato delle formule dogmatiche e le erode dal di dentro. Leone XIII, come
Gregorio XVI e Pio IX, condannò il liberalismo (Libertas praestantissimum, 1888), la
massoneria (Humanum genus, 1884), il laicismo (Diuturnum, 1881; Immortale Dei,
1885; Sapientiae christianae, 1890) inoltre - filosoficamente - papa Pecci fu
coadiuvato da vari teologi domenicani e gesuiti nella sua idea della rinascita del
tomismo o ‘terza scolastica’ che fu portata a termine da S. Pio X con l’encicliche
Acerbo nimis, 1905; Il fermo proposito, 1905; Pieni l’animo, 1906, Pascendi e il
Decreto Lamentabili, 1907 per finire con Le XXIV Tesi della filosofia tomista e da Pio
XI con l’enciclica Studiorum ducem, 1923. Tale irreconciliabilità è stata riaffermata
ultimamente da p. Cornelio Fabro (L’enigma Rosmini, 1988). Ebbene tutti costoro
scorsero nelle opere anche postume di Rosmini le tracce dell’ontologismo e del
panteismo. Ora, come giustamente si domanda il Malusa «che senso ha oggi occuparsi
da un punto di vista storico del decreto Post obitum? […]. Un mutamento di rotta da
parte dell’autorità della Chiesa cattolica si ebbe dopo il Concilio Vaticano II, con la
fine, fra l’altro, dell’egemonia, in ambito filosofico, del tomismo intransigente». Ma
dov’è allora (se si parla di “mutamento di rotta”) la tanto “conclamata e non
provata” “continuità”?.
*
Conclusione sul Rosminianesimo
Il rosminianesimo - oggettivamente parlando - è “l’anti-tomismo” radicale e
ribaltato. Vale a dire, Rosmini prende la propria ‘idea di essere’ per la realtà, onde
la sua “filosofia” è una chimera o un ircocervo di idealismo-realista o una ‘sintesi’
kantiana di ideale e reale. Dal punto di vista teologico, idealizzando le formule
dogmatiche, le trasforma e ne rende il significato non più oggettivo e reale, ma lo
svuota sostanzialmente dall’interno, lo soggettivizza e ne cambia il senso in maniera
modernizzante, lasciando intatte le apparenze o la forma accidentale estrinseca di
esse.
Quindi, il sistema rosminiano - oggettivamente e sostanzialmente - è realmente un
18
‘enigma’ apparente, ma un errore reale dei più pericolosi, dacché altamente
ingannatore, in quanto si cela sotto sembianze di “spiritualismo cristiano”, essendo
invece un errore ontologista e panteista ben nascosto e camuffato, poiché espresso
‘quoad modum’ in maniera meno radicale e chiara del malebranchismo e
giobertismo.
Come ha scritto uno dei maggiori teologi del XX secolo: «Rosmini […], non ha saputo
seguire S. Tommaso; troppo autodidatta, non ha veduto la profondità, l’esattezza, il
vigore, né l’altezza del pensiero del Maestro e poi egli forse amava un po’ toppo la
libertà della mente per essere il discepolo docile d’un grande pensatore. Un filosofo
mi ha scritto recentemente: “[…] voi Domenicani per ritrovare la libertà avete
dovuto aspettare Campanella”.- Questo stravagante di Campanella sarebbe dunque
un’intelligenza superiore ai maggiori commentatori di S. Tommaso? […]. Ma questa
riflessione dimostra quanto molti filosofi tengano alla libertà dell’intelligenza [più
che alla verità e alla buona volontà, nda], e non sono facilmente discepoli di S.
Tommaso. La potenza intellettuale di lui, invece di attrarli, impedisce loro di
avanzare. Han paura di legarsi e perdere la loro libertà. Tuttavia non bisogna
preferire la libertà alla verità [dacché “La verità rifarà liberi”, dice il Vangelo, nda]»
(R. Garrigou-Lagrange, La Sintesi Tomistica, Brescia, Queriniana, tr. it., 1953, p.
493).
*
Parvus error in principio fit magnus in fine
Da qualche fiocco di neve nasce una valanga, da qualche goccia un fiume, da un
piccolo errore iniziale una grave deviazione finale. Tale assioma vale per Scoto e
Suarez inizialmente, mentre in Rosmini lo si trova attuato allo stato terminale.
Vediamo, riassumendo il tutto, perché.
*
a) Duns Scoto (+ 1308)
1°) Separa e quasi contrappone ragione e Fede. La teologia assorbe la filosofia. La
ragione è svalutata eccessivamente, sino ad aprire le porte al fideismo.
2°) L’oggetto della metafisica è l’essere generale o comune, in tutta la sua
estensione. Quindi l’uomo potrebbe conoscere con la sua capacità naturale e senza
l’aiuto della Grazia e del Lumen gloriae anche Dio, che è un Ente o un Essere. Scoto,
perciò, passa da un difetto di svalutazione della ragione umana ad un eccesso, che
potrebbe rendere Dio sub ratione Deitatis oggetto dell’intelletto naturale.
3°) Rifiuta, tuttavia, la prova dell’esistenza di Dio a partire dalle creature o effetti
risalendo al Creatore o alla Causa prima. L’uomo, che potrebbe vedere Dio nella sua
19
essenza non è capace di dimostrare la sua semplice esistenza e non può conoscere
nessuno dei suoi attributi o Nomi divini, tornando implicitamente al nichilismo
teologico di Mosè Maimonide.
4°) Il desiderio di vedere Dio faccia a faccia si trova naturalmente nell’uomo, esso
potrebbe essere efficace e assoluto. Tuttavia Scoto non tira tutte le conclusioni da
questa premessa. Esse saranno esplicitate da Suarez circa 300 anni dopo.
5°) Il concetto di essere è univoco e non analogo. Quindi l’uomo potrebbe conoscere
naturalmente tutti gli enti nella loro natura, anche Dio, che è univoco alle creature.
6°) Riprende e rende strettamente filosofico l’argomento ontologico di S. Anselmo.
Quindi prepara il passaggio dall’ideale al reale, che sarà il cavallo di battaglia di
Rosmini (l’idea di essere prima dell’essere stesso), circa 600 anni dopo.
*
b) Francisco Suarez (+ 1617)
1°) Nega la distinzione reale tra materia e forma, potenza e atto, essenza ed essere.
Da questo errore metafisico ne tira la conseguenza teologica secondo cui l’uomo
avrebbe un potere di conoscere naturalmente la Natura stessa di Dio (ontologismo).
Siccome la materia o potenza contiene una certa forma o atto imperfetto, il
desiderio umano di vedere l’Essenza di Dio sarebbe naturalmente efficace ed
assoluto.
3°) Poiché la potenza contiene l’atto anche se imperfettamente, l’uomo che è atto
misto a potenza potrebbe coincidere con l’Atto puro da ogni potenzialità e si
potrebbe scivolare verso il panteismo.
4°) Il concetto di essere è univoco, con tutte le conseguenze già aperte da Scoto.
*
c) Antonio Rosmini (+ 1885)
1°) Cerca il dialogo, l’aggiornamento e l’adattamento della filosofia classica
(Platone/Aristotele) e patristico-scolastica (S. Agostino/san Tommaso) con quella
moderna (Cartesio/Kant). La conseguenza di tale adattamento è il cattolicesimoliberale e modernismo o “spurio connubio di cristianesimo e kantismo” (san Pio X).
2°) Il pensiero l’idea, il “cogito” vengono prima dell’essere, dell’oggetto e della
realtà. La sua è la filosofia dell’idea di essere e non è la metafisica tomistica
dell’essere reale.
3°) Cerca un metodo filosofico “sintetico” tra ente ideale e reale, precorrendo
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l’idealismo e il “tomismo” trascendentale di Joseph Maréchal e Karl Rahner.
4°) Lo “spiritualismo cristiano” cui ha dato nascita il rosminianesimo non è il
realismo aristotelico-tomistico, non riconosce l’ilemorfismo (l’uomo è composto di
anima e corpo, forma e materia), fa dell’uomo un angelo o una pura sostanza
spirituale separata, come aveva fatto Cartesio. Confonde la filosofia (o la ragione
naturale) con la teologia (la Rivelazione approfondita con l’intellezione).
5°) La condanna delle 40 proposizioni rosminiane del 1888 da parte di Leone XIII non
è stata annullata dal card. Joseph Ratzinger nel 2001, ma l’ex prefetto della
‘Congregazione per la dottrina della Fede’ ha soltanto messo in guardia dal fare
attenzione ad un possibile uso eterodosso delle teorie rosminiane, annacquando la
condanna di papa Pecci senza averla abrogata. Infatti la 40 proposizioni di Rosmini
sono oggettivamente erronee filosoficamente e teologicamente in sé e non solo
virtualmente. Soggettivamente solo Dio sa se Rosmini era cosciente del disordine che
avrebbe provocato con la sua falsa filosofia dell’idea di essere.
●Ecco come da piccoli errori iniziali in campo puramente filosofico (Scoto e Suarez)
si è giunti oggettivamente a gravi deviazioni teoretiche e dogmatiche terminali
(Rosmini), anche se si spera soggettivamente in buona fede. Cosa che solo Dio sa e
sulla quale non possiamo né dobbiamo pronunciarci.
●“O Signore, che illumini la Tua Chiesa con l’ammirabile dottrina del Beato Tommaso
[…], concedici di comprendere i suoi insegnamenti e di imitarne la vita” (Colletta
della Messa di S. Tommaso d’Aquino, al 7 di marzo).
d. CURZIO NITOGLIA
6 ottobre 2011
http://www.doncurzionitoglia.com/scoto_suarez_rosmini_3.htm
NOTE
[1] Cfr. R. Zavalloni – E. Mariani, La dottrina mariologica di G. Duns Scoto, Roma, 1987; cfr. sì sì no no, 30 settembre 2011, pp. 1‐8. [2] B. Mondin, Storia della metafisica, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 1998, II vol., p. 664. [4] S. Tommaso d’Aquino, C. G., I, 3 e 7; S. Th., I‐II, q. 2, a. 4; De Ver., q. 14, a. 10. Contro cui, Duns Scotus, Opus ox., Prol., q. 3, a. 8, n. 25. [5] Per il concetto di “causalità” in San Tommaso d’Aquino v. S. Th., I, q. 14, a. 8; ivi, q. 19, a. 4; q. 44; q. 65, a. 3; II‐II, q. 9, a. 2; ivi, q. 45, a. 1; q. 46, a. 2; III, q. 7, a. 1; II Phys., lect. X, n. 240; I Sent., d. 18, q. 1, a. 5; IV Sent., d. 3, q. 1, a. 1, sol. 1; De Pot., q. 5, a. 1. 21
[6] Per la nozione di “partecipazione” in San Tommaso v. In Johann., Prol., n. 5. [7] Per l’analogia di proporzionalità in san Tommaso v. S. Th., I, q. 13, a. 5 e 10. [8] Per l’analogia di attribuzione in s. Tommaso v. S. Th., I, q. 5, a. 6; ivi, I‐II, q. 61, a. 1; q. 88, a.1. [9] Cfr. S. Th., I, q. 13, a. 10, ad 4. [10] Cfr. S. Th, I, q. 13, a. 6, ad 3. [11] S. Th., I, q. 1, a. 1, ad 2um. [12] S. Tommaso d’Aquino, I Sent., d. 37, q. 1, a. 1, sol.; S. Th., I, q. 4, a. 2, ad 3; I, q. 5, a. 1, ad 1; I, q. 29, a. 2; C. Gent., II, 15. [13] B. Mondin, cit., p. 672. [14] E. Bettoni, Duns Scoto filosofo, Milano, Vita e Pensiero, 1966, p. 35. [15] E. Bettoni, voce ‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario Enciclopedico di Filosofia” del ‘Centro di Studi Filosofici di Gallarate’, II ed., Roma, Lucarini, 1982, VII vol., col. 526. [16] E. Gilson, La filosofia medievale (1922), tr. it., Firenze, La Nuova Italia, 1947; Id., Lo spirito della filosofia medievale (1932), tr. it., Brescia, Morcelliana, 1947. [17] S. Tommaso d’Aquino, De Pot., q. 7, a. 2, ad 9; C. G., I, 26; [18] S. Th., I, q. 84, a. 7. [19] D. Scotus, Ordinatio oxoniensis, Prol. q. I, art. 1., ibidem, I, d. 3, p. 1, n. 113; In Ium Sent., dist. 3, q. 5. [20] D. Scotus, Ordinatio, I, d. 3, p. 1, n. 126, 137 e 186. [21] S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 80, 82‐83; De Malo, qq. 3 e 6; De Ver., q. 22. [22] S. Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 85, a. 1; De Anima, 4; Quodl., VIII, q. 2, a. 2. Al contrario, D. Scotus, Opus ox., I, d. 3, q. 6, n. 2, 5, 8, 9‐14. [23] D. Scotus, Opus ox., I, d. 3, q. 3, a. 1, n. 2, 4 e 7. [24] S. Tommaso d’Aquino, De spirit. creat., S. Th., I, qq. 54‐64, 98‐103; Comp. Theologiae, cap. 73‐78. [25] E. Bettoni, voce ‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario Enciclopedico di Filosofia”, cit., col. 526. [26] E. Bettoni, cit., p. 44. [27] D. Scotus, Opus oxoniense, II, d. 3, q. 1, n. 8‐9. [28] Cfr. T. Tyn, Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia entis, Bologna, ESD, 1991; rist., Verona, Fede & Cultura, 2009; S. Tommaso d’Aquino, S. Th. .I, q. 3, a. 1, ad 3; I. Sent., d. 19, q. 5, a. 2, ad 22
1; ivi, d. 8, a. 1, ad 4. [29] R. Garrigou‐Lagrange, La sintesi tomistica (1950), tr. it., Brescia, Queriniana, 1953, p. 89. [30] E. Bettoni, voce ‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario Enciclopedico di Filosofia”, cit., col. 529. Cfr. D. Scotus, Op. ox., I, d. 2, q. 2, n. 11 e 16. [31] P. De Töth, Errori e pericoli dello scotismo, Firenze, Mealli & Stianti, 1932, p. 41. [32] D. Scotus, Reportatio parisiensia, IV, dist. 28 (“Voluntas divina est causa boni et ideo eo ipso quod Deus vult aliquod, ipsum est bonum”); cfr. Opus oxoniense, 3, dist., 37. [33] R. Garrigou‐Lagrange, La sintesi tomistica (1950), tr. it., Brescia, Queriniana, 1953, pp. 92‐93. [34] S. Th., I, q. 12, a. 1. [35] S. Tommaso d’Aquino, C. Gent, III, 26; S. Th., I‐II, q. 62, a. 1; III Sent., d. 27, q. 2, a. 2, ivi, d. 33, q. 1, a. 2, sol.; De Ver., q. 28, a. 8, ad 2. [36] Cfr. R. Garrigou‐Lagrange, cit., pp. 91‐94; Id., L’appetit naturel et la puissance obédientielle, in “Revue thomiste”, n. 35, 1928, pp. 474‐478; P. Parente, voce ‘Desiderio di Dio’, in “Dizionario di teologia dommatica”, Roma, Studium, 1947. [37] B. Mondin, cit., p. 676. Cfr. D. Scotus, Ordinatio oxoniensis, I, d. 3, p. 1, n. 26; ib., I, d. 3, q. 2, n. 5‐6, 8, 10; ib., I, d. 3, q. 3, n. 6, 8‐9, 12; ib., I, dist., 8, q., 3. [38] E. Bettoni, voce ‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario Enciclopedico di Filosofia”, cit., col. 527. Cfr. D. Scotus, Op. ox., I, d. 3, q. 7, n. 20 e 26; Id., Quaestiones in Metaph., l. VII, q. 18, n. 11 [39] S. Tommaso d’Aquino, I Sent., d. 19, q. 2, a. 2; De Ver., q. 27, a. 1, ad 8. [40] P. De Töth, Errori e pericoli dello scotismo, cit., pp. 64‐65. [41] R. Garrigou‐Lagrange, La sintesi tomistica (1950), tr. it., Brescia, Queriniana, 1953, p. 94. [42] S. Tommaso d’Aquino, III Sent., d. 6, a. 2; C. Gent., I, 12; S. Th., I, q. 3, a. 4, ad 2. Invece, D. Scotus, Opus ox., I, d. 3, q. 7; Op. ox., d. 3, q. 4, ibidem, I, d. 39, q. unica, n. 13, ib, IV, d. 43, q. 2, n. 10. [43] De ente et essentia, cap. VI. [44] De pot., VII, 2, ad 9; De ente et essentia, cap. VI; De pot., II, 2, ad 9; In I Sent., XVII, 1, 2, ad 3; C. G., III, 56; In I Sent., XIX, 2, 2; C. G, I, 36; S. Th., I, q. 7, a. 1; Quodl., XII, 5, 1; S. Th., I, q. 4, a. 1, ad 3. Invece, D. Scotus, Op. ox., d. 3, q. 2, n. 24; ib., I, d. 3q. 3, n. 8, 12, 24. [45] D. Scotus, Op. ox., I, d. 3, q. 6, n. 17; Quaest. in Metaph., Prologo, n. 5 e 9; Q. in Metaph., lib. II, q. 3, n. 22; ibid., lib. IV, q. 1, n. 5. [46] S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 2, a. 3. [47] d. Scotus, Op. ox., I, d. 3, q. 2, n. 5; ib., I, d. 3, q. 2, n. 6‐17; ib., I, d. 2, n. 43, 53, 57‐58, 71‐73, 118, 23
130‐133, 136, 147. [48] D. Scotus, De primo principio, I, 1; III, 42; IV, 80; IV, 155. [49] B. Mondin, cit., p. 682. [50] S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 7, aa 1‐2. [51] S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 1; I Sent., Prol, aa. 1‐5; De Trin., q. 2, aa. 1‐3; C. G., I, 3‐8; Quodl., IV, q. 9, a. 3; De Pot., q. 9, a. 5. [52] Contro cui cfr. S. Tommaso d’Aquino, In De Trin., q. 1, a. 2, ad 1; De Pot., q. 7, a. 5, ad 13 e 14; I Sent., d. 8, q. 1, a. 1, ad 4. [53] D. Scotus, Ordinatio oxoniensis, I, d. 2, p. 1, q. 1; q. 2, n. 43; ivi, nn. 111‐113 e 125; ivi, nn. 130‐131 e 137; De primo principio, IV, nn. 134‐135. [54] D. Scotus, Opera omnia, Ed. Vivès, vol. XIII, p. 66; vol. XIII, p. 79; vol. XX, p. 26; vol. XXIV, p. 499; Opus ox., II, d. 17, q. 1, n. 3. Cfr. M. Cordovani, Il Salvatore, Roma, Studium, II ed., 1946, p. 399. S. Tommaso invece la prova nel suo De anima, XIV, ad 16 e ad 18; C. G, II, 55 e 79; S. Th., I, , q. 75, a. 6; ivi, q. 104, a. 4. [55] R. Garrigou‐Lagrange, La sintesi tomistica (1950), tr. it., Brescia, Queriniana, 1953, p. 88. [56] Cfr. E. Gilson, L’essere e l’essenza (1948), tr. it., Milano, Massimo, 1988, pp. 119‐131. [57] E. Gilson, La filosofia medievale (1922), tr. it., Firenze, La Nuova Italia, 1947; Id., Lo spirito della filosofia medievale (1932), tr. it., Brescia, Morcelliana, 1947. Cfr. il magistrale articolo di padre G. Perini, Thomae doctrinam Ecclesia suam fecit, in Aa. Vv., L’Enciclica “Aeterni Patris” nell’arco di un secolo, vol. I degli “Atti dell’VIII Congresso Tomistico internazionale”, Città del Vaticano, 1981, pp., 89‐121. [58] E. Gilson, L’essere e l’essenza (1948), tr. it., Milano, Massimo, 1988, p. 122. [59] Cfr. E. Gilson, Giovanni Duns Scoto (1952), tr. it., Milano, Jaca Book, 2008, pp. 222‐227. [60] L. K. Shook, Etienne Gilson (1984), Milano, Jaca Book, 1991, p. 143. [61] Cfr. P. De Töth, Errori e pericoli dello scotismo, cit., p. 80. [62] Cfr. L. K. Shook, Etienne Gilson (1984), Milano, Jaca Book, 1991, p. 451. [63] B. Mondin, cit., p. 698. [64] Cfr. C. Giacon, Occam, Brescia, La Scuola, 1945. [65] F. Van Steenberghen – A. Forest – M. De Gandillac, Il movimento dottrinale nei secoli IX‐XIV, in Storia della Chiesa, a cura di A. Fliche – V. Martin, Milano, Siaie, vol. XIII, p. 496. [66] E. Bettoni, voce ‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario Enciclopedico di Filosofia”, cit., col. 531. 24
[67] R. Garrigou‐Lagrange, La sintesi tomistica, cit., p. 410. Chi volesse approfondire il tema dello scotismo può consultare: C. Balic, “La scolastica post‐tomistica: Giovanni Duns Scoto”, in Grande Antologia filosofica, Milano, Marzorati, 1989, vol. IV, p. 1349; Id., voce “Scotismo”, in “Enciclopedia Cattolica”, Città del Vaticano, 1953, vol. XI, coll. 151‐162; G. Lauriola, Introduzione a Duns Scoto, ‘Antologia’, Alberobello, 1996; G. Zavalloni, Giovanni Duns Scoto, maestro di vita e pensiero, Bologna, 1992; D. Scaramuzzi, D. Scoto. Summula scelta di scritti coordinati in dottrina, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1932; O. Todisco, Lo spirito cristiano della filosofia di Giovanni Duns Scoto, Roma, 1975; Id., La nozione metafisica di essere nell’ascesa a Dio del beato Giovanni Duns Scoto, Napoli, 1966; M. Damiata, I e II tavola. L’etica di G. Duns Scoto, Firenze‐Pistoia, 1973; B. Bonansea, L’uomo e Dio nel pensiero di Duns Scoto, Milano, 1991; P. Stella, L’ilemorfismo di Duns Scoto, Torino, 1955; Antonio Coccia, Attualità di Duns Scoto: conoscere per amare, in “Ideali politici e problemi religiosi in alcuni grandi Filosofi”, Roma, Miscellanea Francescana, 1977; Id., L’uomo di fronte all’Infinito, Palermo‐Roma, Mori, 1969; Id., Contributi scotistici. Storia, dottrina, spiritualità, Roma, “Miscellanea Francescana”, 1966; L. Jammarrone, Il problema della creazione nel pensiero di Giovanni Duns Scoto, Roma, “Miscellanea Francescana”, 1966; Id., Contingenza e creazione nel pensiero di Duns Scoto, Roma, “Miscellanea Francescana”, 1966; Id., Giovanni Duns Scoto metafisico e teologo, Roma, “Miscellanea Francescana”, 1999; S. Vanni‐Rovighi, La Filosofia Patristica e Medievale, Giovanni Duns Scoto, in “Storia della Filosofia”, diretta da C. Fabro, I vol., Roma, Coletti, 1954, pp. 242‐247; S. Vanni‐Rovighi, L’immortalità dell’anima nel pensiero di Giovanni Duns Scoto, in “Rivista di Filosofia neoscolastica”, Milano, 1931, pp. 78‐104; G. Pini, Scoto e l’analogia, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2002; P. De Töth, Errori e pericoli dello scotismo, Firenze, Mealli & Stianti, 1932; N. Petruzzellis, Studi sull’etica di Scoto, in “Archives de Philosophie”, Parigi, 1940, pp. 68‐87; Andrea Dalledonne, Duns Scoto, in “Grande Antologia Filosofica”, Milano, Marzorati, Aggiornamento bibliografico*, vol. XXXII, 1984, pp. 675‐682. Il più acuto confutatore dello scotismo è Johoannes Capreolus (+ 1444), chiamato princeps thomistarum, che nelle sue Defensiones theologiae Divi Thomae Aquinatis (ultima edizione Tours, 1900‐1908) accosta al ‘Commento alle Sentenze’ di Pietro Lombardo’ fatto da S. Tommaso i testi della ‘Somma Teologica’ e delle ‘Questioni disputate’ dell’Angelico, difendendoli contro gli scotisti e i nominalisti, tanto che gli scolastici hanno creato il motto scherzoso: “si Scotus non sonasset, Capreolus non saltasset; se Scoto non avesse suonato, Capreolo non avrebbe danzato”; cfr. R. Garrigou‐Lagrange, De Revalatione, Roma, Ferrari, 1918: sull’univocità dell’ente secondo Scoto, vol. I, pp. 303, 363; sul Desiderio naturale efficace di veder Dio, vol. I, p. 390; sulla confusione tra ordine naturale e soprannaturale, vol. I, p. 340, 365, 482. [68] Se generalmente i gesuiti seguono la dottrina di Suarez non sono mancati tra loro quelli che si son distinti per la fedeltà e penetrazione del tomismo, specialmente con la terza scolastica e il neotomismo rilanciato dall’enciclica Aeterni Patris di Leone XIII (1879): il card. Giuseppe Pecci, fratello di Leone XIII, p. Luigi Taparelli D’Azeglio, p. Serafino Sordi, p. Matteo Liberatore, p. Giuseppe Kleutgen, p. Giovanni Cornoldi, p. Vincenzo Remer, p. Guido Mattiussi, p. Carlo Giacon, p. Paolo Dezza. [69] Dizionario di teologia dommatica, Roma, Studium, 4a ed., 1957, voce “Soprannaturale”. [70] Cfr. B. Mondin, I grandi teologi del ventesimo secolo, Torino, Borla, 1969, 1° vol. I teologi cattolici; H. Urs von Balthasar, Il padre Henry de Lubac. La Tradizione fonte di rinnovamento, Milano, Jaca Book, 25
1978; A. Russo, Henry de Lubac: teologia e dogma nella storia. L’influsso di Blondel, Roma, Studium, 1990. [71] Cfr. G. Siri, Getsemani, Roma, Fraternità della SS. Vergine Maria, 1980, p. 54. [72] Introduzione a San Tommaso, Milano, Ares, 1983, p. 321. [73] R. Garrigou‐Lagrange, Sintesi tomistica, Brescia, Queriniana, 1953, p. 400. [74] Ibidem, p. 403. [75] Ibid., p. 405. [76] Ibid., p. 409. [77] Ibid., p. 541. [78] Cfr. B. Mondin, Storia della Metafisica, Bologna, ESD, 1998, 3° vol., pp. 426‐427. [79] Ibidem, pp. 426‐427. [80] Ibidem, p. 429. [81] Ibidem, pp. 430‐432. [82] Storia della filosofia contemporanea, dall’Ottocento ai giorni nostri, Brescia, La Scuola, 3a ed., 1° vol., 1990, p. 34. [83] L. Malusa, (a cura di), Antonio Rosmini e la Congregazione del Santo Uffizio, Milano, Franco Angeli, 2008, p. 33. [84] L. Malusa, cit., p. 35. [85] Cfr. L. Malusa, (a cura di), Antonio Rosmini e la Congregazione del Santo Uffizio, Milano, Franco Angeli, 2008. [86] Ibidem, pp. 13‐14. [87] È quello che si cerca di fare anche col Vaticano II, non condannare o rettificare le novitates in esso contenute, ma re‐interpretarle alla luce della “ermeneutica della continuità”, che tutto concilia, storicizzando e relativizzando ogni cosa. Se l’idea di essere rosminiana è compatibile con l’essere intensivo tomistico, allora anche il Vaticano II è in continuità “ermeneutica‐soggettiva”, ma non “reale‐
oggettiva” con la “Traditio Ecclesiae”. [88] Cfr. G. Mattiussi, Il veleno kantiano, Monza, 1907. Id., Le XXIV tesi della filosofia di San Tommaso, Roma, 1917. «S. Pio X, nell’enciclica Pascendi, aveva notato come la causa principale degli errori modernisti era stato l’abbandono dei princìpi fondamentali della filosofia tomista; perciò incaricò il Mattiussi di raccoglierli 26
in brevi proposizioni. Egli allora redasse appunto le 24 tesi: individuò, con acume penetrante, i primi princìpi della metafisica tomistica e li formulò, con ferrea logica, nel modo più sistematico e preciso» (AA. VV., Dizionario dei filosofi, Firenze, Sansoni, 1976, p. 801). [89] Tra le proposizioni condannate nel 1897 si legge: «Nella sfera del creato si manifesta immediatamente all’intelletto umano qualcosa di divino in se stesso, ossia che appartiene alla Natura divina. […] Quando parlo di divino nella natura, non uso questo termine ‘divino’ per significare un effetto creato ‘non‐divino’ di una Causa divina e neppure ‘divino per partecipazione’ [ma per essenza, ossia Dio in Sé, nda]. […] L’Essere che l’uomo intuisce, deve essere necessariamente qualcosa di necessario ed eterno: e questo è Dio». Come si vede queste frasi che sono estratte dalle opere di Rosmini. (Ciò è un “fatto dogmatico”, ossia quando la Chiesa decide circa il senso ortodosso o meno di alcune tesi, formule o libri, dogmaticamente rilevanti. Il Magistero in tali casi può prendere decisioni vincolanti ed obbliganti, ossia infallibili. Alessandro VII nel 1656 ‐ riguardo al libro Augustinus di Giansenio ‐ dichiarò solennemente che le proposizioni condannate dalla Chiesa sono esattamente quelle che si trovano nel libro condannato nello stesso senso o significato e non in un altro significato, cfr. Denz. 1092‐1098 e 1350; così le 40 proposizioni di Rosmini condannate nel 1887, si trovano infallibilmente sia nelle opere di Rosmini stesso e sia nello stesso significato per il quale sono state condannate), non sono solamente suscettibili di interpretazioni erronee, ma sono panteiste e ontologiste in se stesse. Onde “il rosminianesimo riassunto nelle 40 proposizioni” è e resta infallibilmente condannato da Leone XIII e il card. J. Ratzinger nel 2001 ha solo cercato di mettere in guardia da ulteriori, estrinseche, interpretazioni eterodosse di Rosmini, senza poter cassare la condanna intrinseca del Roveretano, che è un fatto dogmatico e quindi irreformabile. Il card. Pietro Parente scrive: «Non si può negare che l’oscuro sistema rosminiano (almeno nella sua oggettiva espressione) presti il fianco all’accusa di Ontologismo, quando asserisce che l’intelletto umano intuisce l’essere indeterminato […]. La Chiesa ha condannato esplicitamente l’Ontologismo riassunto in 7 proposizioni (Decreto del S. Uffizio del 1861, DB 1659 ss.) e in altre 40 proposizioni (Decreto del S. Uffizio del 1887, DB 1891 ss.) ha rigettato il pensiero rosminiano, […] Filosoficamente l’Ontologismo confondendo l’essere in generale o comune con l’Essere divino, porta al Panteismo» (Dizionario di Teologia Dommatica, Roma, Studium, 4a ed., 1957, p. 292). . [90] L. Malusa, cit., p. 58. Altri autori seri, profondi e ben preparati, ma ‘limitati’ da un certo filo rosminianismo, sono soprattutto il geniale Michele Federico Sciacca ed anche Pier Paolo Ottonello, Adelaide Raschini e molti altri specialmente dell’Università di Genova ove ha insegnato per lungo tempo lo Sciacca che può essere considerato il caposcuola dello ‘spiritualismo cristiano’. Anche Augusto Del Noce, grande e lucido critico della modernità e postmodernità, dà un’interpretazione positivamente riabilitatrice ma scarsamente convincente di Rosmini, cercando di riconquistare Cartesio alla sana filosofia e leggendolo in linea di paternità spirituale‐filosofica con Malebranche e Rosmini, in funzione spiritualista e antimaterialista. ●Purtroppo anche Romano Amerio, che apprezzo molto per quanto riguarda il suo “Iota unum”, non è immune dall’influsso rosminiano, anche se temperato da una profonda conoscenza del Dottor Comune, cfr. E.M. Radaelli, Romano Amerio. Della verità e dell’amore, Lungro di Cosenza, Marco Editore, 2005, p. XIX e p. 238. Quanto alle obiezioni che l’Editore di Amerio è stato il laicista esoterico e in odore di 27
massoneria Raffaele Mattioli suocero di Enrico Cuccia (cfr. G. Galli, Il banchiere eretico. La singolare vita di Raffaele Mattioli, Rusconi, Milano, 1998; Id, Il Padrone dei Padroni. Enrico Cuccia, il potere di Mediobanca e il capitalismo italiano, Garzanti, Milano, 1995; S. Gerbi, Raffaele Mattioli e il filosofo domato, Milano, Rizzoli, 2002), con la casa editrice Riccardo Ricciardi, rispondo che non si può identificare l’Editore con l’Autore. Se vi sia stata amicizia tra i due, occorre distinguere un’amicizia privata (transeat) da un’amicizia o comunanza dottrinale, la quale per quel che ne so è tutta da provare e solo allora sarebbe significativa. Se qualcuno ha le prove di quest’ultima le fornisca oggettivamente e se ne parlerà serenamente, sine ira et studio. Infine quanto al fatto che l’Editrice Lindau di Torino, la quale tra l’altro stampa i testi dei teo e neo conservatori ebraico‐americanisti, stia ripubblicando l’opera omnia di Amerio, vale lo stesso discorso di sopra, con l’aggiunta che Amerio non c’è più e dunque non gli può essere imputato. [91] Cfr. B. Gherardini, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento, 2009. [92] Cfr. F. Marìn Sola, L’évolution homogène du dogme catholique, Friburgo, 1924. [93] Per quanto riguarda il Campanella cfr. Opere di Giordano Bruno e Tommaso Campanella, a cura di Augusto Guzzo e Romano Amerio, Milano‐Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1966. Id. Il sistema teologico di Tommaso Campanella, Milano‐Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1972. 28
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