Manifesto per una formazione umanistica
Una nuova iniziativa della Casa della Cultura: un manifesto,
sottoscritto da 12 autorevoli studiosi, relativo alla formazione
degli adulti.
CONTRIBUTO DI RIVA MARIA GRAZIA
“Manifesto per una formazione umanistica”
1.
Quale senso ha oggi la formazione degli adulti? Che compiti le possono essere affidati?
La domanda relativa alla ‘formazione degli adulti oggi’ suscita sensazioni di spaesamento e di ansia, dato il
particolare momento storico, sociale, economico, politico ed ecologico che stiamo vivendo. In questo
periodo sono in gioco innumerevoli questioni, centrali sia per l’individuo che per la società nel suo
complesso, le une strettamente intersecate alle altre, che portano quasi a pensare all’alternativa radicale:
tutto va orientato verso il far sperimentare percorsi di formazione oppure, al contrario, tutto è così
drammatico che la formazione è completamente soverchiata dalla turbolenza della vita e dunque è inutile.
Penso che percorsi di formazione mirata e intenzionale siano non solo opportuni ma anche necessari, sia
per ritagliare aree particolari da sviluppare nel percorso di crescita personale dei soggetti, sia per
permettere ai soggetti stessi di riflettere e risignificare la propria esperienza esistenziale, sia per aiutare le
persone a illuminare i significati formativi impliciti sempre presenti nelle storie di vita. Ancora, una
questione cruciale per il benessere individuale e lo sviluppo sociale riguarda il delicatissimo rapporto tra
individuo, organizzazioni, istituzioni. I singoli individui sono sempre più costitutivamente interconnessi
all’evoluzione globale della società, proprio per i fenomeni socialmente affermatisi della globalizzazione,
della comunicazione estesa al pianeta in modo simultaneo - grazie alle cosiddette ITC, cioè alle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione -, della interconnessione macro e micro sistemica di tutti gli aspetti
economici, politici, culturali. Ne consegue che il singolo soggetto si è ritrovato all’interno di un universo
estremamente ampliato e ridefinito rispetto alle interconnessioni del passato, a tutti i livelli della vita
associata, sia nel mondo virtuale che in quello reale. Se, pertanto, l’opportunità di aiutare il singolo a
rapportarsi alle organizzazioni e alle istituzioni, e viceversa, prima era considerata desiderabile, ora sempre
più si impone come necessità. Penso che la formazione del soggetto e quella della società, tramite le sue
espressioni concrete, come sono appunto le organizzazioni – professionali, lavorative, aziendali, politiche,
sindacali – e le istituzioni – la scuola, la famiglia, lo stato, le amministrazioni e gli Enti locali e del territorio -,
vadano coltivate insieme.
Nessuno può chiamarsi fuori, in questo periodo storico in cui stiamo drammaticamente assistendo ai giochi
di tiri incrociati sopra le nostre teste degli speculatori finanziari, delle agenzie di rating, dei governanti degli
stati europei e internazionali, dei gruppi di terroristi armati, delle fazioni religiose estremiste. Occorre una
formazione consapevole, lungimirante e intelligente, che aiuti i soggetti, a tutte le età e in tutte le posizioni
sociali, non solo a trovare nicchie di consolazione e di conforto rispetto al ‘mondo ostile là fuori’ quanto a
costruirsi un grado significativo di capacità di auto-orientamento. In tal modo si impara a saper leggere i
contesti, le situazioni, le avvisaglie degli eventi in arrivo, a interpretare i movimenti spesso scomposti,
isterici o nevrotici, dei membri delle organizzazioni di cui si è parte, a decostruire i molteplici livelli in gioco
nei sistemi organizzativi in cui siamo inseriti (la cultura dell’organizzazione, le strategie e le politiche più o
meno nascoste che vengono portate avanti, i movimenti oscillatori dei diversi sottosistemi, le ragioni
apparenti o meno delle linee di sviluppo ufficiali dell’organizzazione stessa). Nello stesso tempo occorre
compiere, tramite una formazione realmente innovativa, multidisciplinare e di ampio respiro culturale,
pedagogico, psicologico, un lavoro urgente e importante sulla leadership per un verso e sull’organizzazione
nel suo insieme per l’altro verso. La leadership attuale necessità assolutamente di essere aiutata a
ripensarsi, dopo le spallate indispensabili degli anni ’70 del Novecento per abbattere la resistenza di modelli
autoritari consolidatisi da secoli e secoli. Gli anni del cosiddetto riflusso, successivi alla rivoluzione giovanile
del sessantotto, hanno segnato in modo negativo, a mio parere, una stagione che poteva invece essere
foriera di un grande balzo in avanti nel ripensamento complessivo dell’uomo occidentale su di sé, la propria
storia e la propria psicologia nella storia. Infatti, quei giovani ribelli si sono ‘depressi’, diventando adulti,
perché quel miracolo rivoluzionario, in base al quale sembrava che tutto sarebbe cambiato di punto in
bianco con la spallata, non si era compiuto. Anzi, essi constatavano che molti aspetti tornavano a essere
com’erano stati precedentemente. In quel momento, a mio parere, si è generato un fenomeno di
negazione imponente, che ha impedito una seria rielaborazione dei cosiddetti e presunti crolli di modelli e
certezze precedenti. Se non si attraversa una elaborazione dei cocci e dei detriti della caduta dei ‘muri’ (di
tutti i muri), di fatto quel che si pensa di avere espulso dalla ‘porta rientra dalla finestra’. In molti casi, poi,
quei giovani contestatori sono diventati capi e leader, nelle aziende, nello stato, nella politica, spesso
ritrovandosi ad assumere atteggiamenti e comportamenti identici a quelli tanto criticati.
Ritengo quindi che uno dei compiti storici attuali della formazione sia proprio quello di aiutare i leader di
oggi, e quelli in formazione, a rileggere la dimensione storica ampia dentro cui si inserisce la loro attività, a
non considerarla solo un fatto di ambizione personale – che, in sé, non ha nulla di negativo se non viene
gestita con arroganza e protervia, come avviene invece molto frequentemente -. La questione in gioco
riguarda la necessità di ‘tenere insieme’ individuo e organizzazione, società e storia, senza cavalcare
separatamente singoli spezzoni, o troppo individuali o troppo solo collettivi.
2. Alcuni di noi ritengono importante che alla formazione degli adulti debbano essere affidati compiti di
sviluppo complessivo della persona in senso umanistico e non solo funzioni strumentali. Condividi
questa impostazione?
Condivido assolutamente l’affermazione in base a cui la formazione degli adulti deve rivolgersi allo sviluppo
complessivo e globale della persona. La questione, a mio parere, ha a che fare con la necessità di sostenere
il soggetto nella espressività e nell’implementazione di tutte le proprie potenzialità, sia quelle esistenziali,
spirituali, sociali e relazionali, etiche, sia però anche quelle strumentali e tecniche. Queste non vanno
demonizzate, quanto piuttosto collocate dentro a uno sfondo integratore, che le connetta a uno scenario
più ampio e significativo. Le persone vanno sostenute anche nello sviluppo di competenze e nella
padronanza di tecniche specifiche, quali ad esempio sicuramente quelle connesse alle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione, alla conoscenza delle lingue straniere, nonché quelle relative a
specifici interessi lavorativi. Tuttavia le persone hanno bisogno più che mai, nello scenario sopra descritto,
di trovare luoghi e tempi opportuni per potersi ri-pensare, in verticale nel proprio percorso di vita e in
orizzontale, nel modo in cui stanno in relazione con gli altri, nelle organizzazioni e nelle istituzioni. E’
fondamentale che ci sia qualcuno che prenda in carico, in modo attivo, l’azione di stimolare a un continuo
bilancio delle proprie capacità, interessi, intuizioni, creatività, sensibilità, riscoprendo talenti nascosti che
possono guidare verso nuove tappe di vita. Non si tratta qui tanto di utilizzare tecniche e procedure
codificate o intoccabili, perché originariamente sorte in un certo modello di pensiero, quanto di cogliere
quel potenziale umano profondo che c’è in ogni tecnica; consentendogli così di percorrere quel passaggio
destrutturante, necessario per riportarla alla sua dimensione di aiuto per l’esistenza delle persone e delle
società. Non vanno rifiutate le tecniche, gli strumenti, i metodi, arroccandosi su posizioni apocalittiche –
come si proclamava un tempo, contrapponendole a quelle integrate – del tutto fuori dal tempo e dalla
storia. Vale piuttosto la pena interrogarsi sul senso profondo della tecnica, sulle ragioni nascoste che hanno
spianato la via a quel certo meccanismo e a quelle procedure. Spesso, al fondo delle tecniche e delle
procedure, si possono cogliere bisogni sociali negletti, rifiutati, negati, che, perciò, riemergono altrove.
Pensando a una formazione complessiva e complessa per le persone, non ha molta efficacia utilizzare criteri
moralistici, svalutando a priori formazioni più settoriali; meglio piuttosto interrogarsi laicamente sui bisogni
sociali cui risponde quella certa funzione tecnica e strumentale della formazione.
Ad esempio, la famosa passata triade di I – Internet, Inglese, Impresa – che, presa a se stante e idolatrata
come fosse la panacea di tutti i mali, generava in molti una critica importante di eccessiva centratura
sull’economicismo e di importazione di criteri aziendalistici in ambiti sociali ed educativi - che dovevano
rimanere invece aperti all’esperienza globale degli studenti e degli insegnanti -, nascondeva in sé tuttavia
alcune spunti da tenere in considerazione. Se superiamo le chiusure a priori – postura mai facile da
assumere né a destra né a sinistra – possiamo trovarvi, ad esempio, un incitamento importante a
confrontarsi con la necessità di uscire da vecchi schemi e vecchie impostazioni ereditate dai decenni
precedenti, bloccate su attese di cambiamento generate dallo Stato mamma e papà, e dunque destinate a
non prodursi mai realmente. Come in tutte le situazioni ormai passate dalla fase istituente a quella
istituita, risulta veramente difficile produrre cambiamenti per buona volontà dei singoli o in base a
generiche perorazioni. Naturalmente, la questione in gioco è che il bisogno di cambiamento, di spinta a
fuoriuscire dall’immobilismo, di svecchiare abitudini, mentalità, arroccamenti, non può passare
dall’ingiustizia sociale, dalla dimenticanza di ampi strati della popolazione, da un mito del progresso e
dell’economicismo come soli risolutori di tutti i problemi. Anche questo tipo di cultura economicistica,
come quella basata sull’immobilismo di chi ha paura di smuovere privilegi consolidati, in alto o in basso che
siano, non vede o nega delle parti importanti connesse alla dimensione esistenziale della persona, alla sua
spiritualità, alla psicologia della società e della storia, alle condizioni necessarie per la sopravvivenza del
pianeta. La formazione complessiva della persona in senso umanistico deve, a mio parere, ‘tenere insieme’
invece di continuare a scindere, il soggetto e ciò che lo rende tale, cioè il suo contesto, il suo ambiente di
vita e di lavoro. Umanistico vuol dire considerare l’uomo e ciò che lo soggettiva, attraverso le sue pratiche
di soggettivazione e di assoggettamento, che non necessariamente vanno solo intese in senso negativo. Se
con assoggettamento intendiamo la dimensione di attenzione ai vincoli del contesto, al fatto che l’essere
umano si struttura in base a processi di interiorizzazione dell’ambiente, possiamo intendere
l’assoggettamento come quella condizione in cui l’uomo è tenuto a fare i conti con i propri limiti, sia sul
piano sociale sia su quello del grandioso narcisismo individuale. Come sappiamo, il narcisismo è divenuto
talmente una patologia, o comunque una caratteristica della psicologia dell’uomo contemporaneo, da
spingere i redattori del nuovo DSM V (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) a volerlo
eliminare come patologia, proprio in quanto è divenuto estremamente diffuso e per così dire
‘naturalizzato’.
3. Se la risposta è affermativa, quali metodologie e quali tecniche possono essere utilizzate in coerenza
con tale obiettivo?
Ritengo che una formazione umanistica debba, appunto, costruire spazi e contesti formativi che
consentano di decostruire i dispositivi, le pratiche e i modelli attraverso cui i soggetti hanno acquisito le
loro forme singolari, sociali, culturali, e dunque, di fatto, educative. Per questo obiettivo, penso a
metodologie legate all’approccio autobiografico e a quello della ‘Clinica della formazione’, alle teorie e alle
pratiche narrative, alle metodologie e alle relative tecniche immaginative.
Inoltre deve essere una formazione che ‘tenga insieme’ il soggetto, il gruppo, l’organizzazione,
permettendo che queste diverse istanze dialoghino fra esse. Mi richiamo, per esempio, all’importante
opera di sensibilizzazione svolta dal gruppo di lavoro che da decenni ruota attorno all’Istituto Tavistock di
Londra (con le sue varie ristrutturazioni istituzionali). In questo caso, si è generato un significativo intreccio
fra modello sistemico e modello psicoanalitico, così da poter contemporaneamente analizzare quel che
avviene nel sistema nel suo complesso e quel che si muove, a livello più profondo, nell’individuo e nella
‘mente dell’organizzazione’. Si lavora cercando di acquisire sensibilità e consapevolezza di ciò che avviene
‘below the surface’ (sotto la superficie) del comportamento organizzativo, che impedisce ai gruppi di lavoro
o comunque alle collettività sociali di costruire relazioni collaborative e realmente efficaci. Occorre lavorare
sulla relazione e sulla comunicazione – e dunque sui modelli pedagogici e gli stili educativi, attraverso cui
quelle si esprimono nella realtà - , su ciò che risulta disordinato, confuso e difficile da pensare, per poter
aiutare le persone ad abitare i propri ruoli in modo buono, per sé, per i collaboratori e per l’organizzazione
nel suo insieme. Lavorare su queste dimensioni confuse e nascoste, difficili da afferrare, connesse a
emozioni forti, difficili da accettare, significa decidere di stare veramente dentro al modo in cui le persone
lavorano insieme, che non riguarda, appunto, solo la razionalità, l’intenzionalità o la volontà.
Infine vi è tutta la dimensione etica da coltivare intenzionalmente, per favorire percorsi di riflessività
individuali e collettivi sul senso di ciò che facciamo, sulle sorgenti che danno forma a tale senso, e che
orientano il ‘valore’ che attribuiamo a esso. Penso a percorsi formativi intenzionali che, in modo laico e
realmente aperto, si pongano il problema di de-idealizzare l’etica, di ragionare sulle ‘etiche’ più che
sull’Etica, a partire dal loro radicamento nelle culture e nelle pratiche educative e formative locali. La
questione della formazione alla dimensione etica è centrale in tutti gli aspetti della vita personale e
comunitaria, ma certamente acquista un suo peso specifico particolare quando la si considera nel rapporto
con le istituzioni, con lo stato e con la politica. Continuamente, si proclama la necessità di educare alla
dimensione civica e al senso critico i bambini e gli adolescenti, gli extracomunitari o i soggetti devianti o da
riabilitare. Sarebbe molto efficace una formazione umanistica, complessiva e complessa, non banale e non
riduttiva, non retorica e non impregnata di vani proclami esortativi a un cambiamento di comportamenti e
di atteggiamenti; cosa che non può avvenire solo con la forza di volontà o con paternali ispirate a vari tipi di
morali e di mentalità. Ritengo che, per consentire percorsi di decostruzione e di riflessività sulle proprie
etiche, occorrerebbe una formazione che, per un verso, parta, in modo verticale, dai soggetti in formazione,
dalle loro storie e dai loro modelli, dalle loro emozioni e dai loro blocchi, dai loro pregiudizi e dalle loro
identificazioni con i modelli di provenienza sociali, culturali, familiari. Si tratta di evidenziare quali sono le
diverse ‘etiche singolari e locali’, per aiutare man mano a decostruirle e a ricostruirle con una nuova
risignificazione. Per altro verso, sarebbe auspicabile una formazione che si sviluppi in orizzontale,
permettendo ai formandi di sperimentare nel ‘qui e ora’ nuove modalità di gestione delle relazioni tra
formandi e con il formatore, ad esempio più democratiche, partecipative, realmente rispettose dei diversi
punti di vista e delle diverse motivazioni. Vi è, infatti, una forza straordinaria e dirompente
nell’apprendimento basato sull’azione (learning by doing), perché la possibilità di sperimentare
concretamente su di sé modalità radicalmente diverse lascia delle tracce importanti nella memoria psicocorporea. L’azione concreta vissuta consente la fuoriuscita dal senso di impotenza e di depressione,
all’insegna del ‘tanto va sempre tutto nello stesso modo, non cambia mai niente’. E’ davvero molto
formativo sperimentare situazioni diverse da quelle, frequenti, in cui accade che, a voce, si proclama un
modo diverso di gestire le relazioni formative, lavorative, tra le generazioni, e poi, contemporaneamente,
nelle concrete modalità di organizzazione dell’intervento formativo, si mette in atto esattamente l’opposto.
Penso che il primo passo di una formazione ‘etica’ consista nel prendere piena consapevolezza e, di
conseguenza, nell’assumersi il carico del significato di questi cosiddetti ‘doppi legami’ così frequenti nella
vita sociale, professionale, istituzionale e di relazione, fonte di forti conflitti e di sofferenze. E una
formazione ‘etica’ costituisce il primo basilare passo per una autentica ‘formazione umanistica’.