A cura di Carlo Alberto Correale

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A cura di Carlo Alberto Correale
A cura di: Carlo Alberto Correale – II A
A.S. 2012-2013
CLASSE IIA
RELATORI: Veronica Munarin, Ilaria Bragadin, Carlo Alberto Correale, Elena Biagetti, Luca Panighel, Anna Scaramellini, Linda Massarotto
Professoressa Roberta Frare
Veronica Munarin
Contesto politico e rituale
Pagine 3 e seguenti
Ilaria Bragadin
Struttura del teatro greco
Pagine 12 e seguenti
Carlo Alberto Correale
I protagonisti dello spettacolo
Pagine 25 e seguenti
Elena Biagetti
La struttura della tragedia
Pagine 39 e seguenti
Luca Panighel
Origini della tragedia
Pagine 52 e seguenti
Anna Scaramellini
Il fenomeno tragico e il rapporto con l’epica
Pagine 59 e seguenti
Linda Massarotto
Il dramma satiresco (“Ciclope” di Euripide)
Pagine 66 e seguenti
A cura di: Carlo Alberto Correale – II A
ELABORATO DA: VERONICA MUNARIN – CLASSE II A classico
CONTESTO POLITICO
L’espressione più originale della civiltà greca è rappresentata dal teatro, che raggiunse il suo apice nel corso del V secolo ad Atene.
Gli spettacoli teatrali erano un evento politico che coinvolgeva l’intera popolazione ateniese; ai principali organi statali toccava l’organizzazione, la
selezione e, in parte, anche il finanziamento degli agoni drammatici, l’arconte eponimo invece con due assistenti sceglieva i tragediografi e
commediografi che a loro volta chiedevano il coro.
Inoltre alla politica spettava anche il compito di formare la giuria, composta di dieci giudici (uno per ciascuna delle tribù ateniesi) scelti con un
metodo molto severo: i nomi dei possibili giudici erano inseriti in dieci urne, sigillate da chi presiedeva il consiglio e dai coreghi e custodite
nell’acropoli; all’inizio della gara l’arconte estraeva un nome da ciascuna urna portata in teatro.
La polis inoltre pagava gli attori e versava un contributo di due oboli per i cittadini meno abbienti come retribuzione per le giornate di lavoro
perse.
Al finanziamento privato, da parte cioè dei cittadini nobili e più facoltosi, era affidata la “coregia”, cioè una liturgia, con la quale si allestiva il coro,
si pagavano i musicisti, i costumi, le maschere e le scene. Questo contributo era molto gravoso perciò chi veniva designato poteva respingere
l’incarico indicando però un cittadino più abbiente che poteva a sua volta rifiutare ma soltanto barattando i suoi beni con quelli del cittadino che
lo aveva indicato. L’abbinamento fra corego e poeta avveniva per sorteggio poiché la minore o maggiore disponibilità di beni poteva essere
decisivo per la vittoria. Prima degli spettacoli aveva luogo il proagone durante il quale poeti, coreghi, cori e attori, presentavano al pubblico i
drammi che stavano per rappresentare. Il miglior poeta, il miglior corego e il miglior protagonista venivano premiati a fine gara con una corona
d’edera e un premio in denaro, messo in palio dallo stato.
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CONTESTO RITUALE
Le manifestazioni teatrali erano inoltre manifestazioni a carattere religioso che avevano luogo durante le feste in onore di Dioniso:
•
Grandi Dionisie: istituite da Pisistrato, che nel 535 vi introdusse gli agoni tragici, erano le feste più importanti per la città dopo le Panatenee
e duravano cinque giorni. Si svolgevano in primavera (mese di Elafebolione) perché le condizioni di navigazione del Mar Egeo erano ottimali e ciò
permetteva l’affluenza di un gran numero di stranieri. Gli spettacoli prevedevano agoni tragici, in cui i tragediografi presentavano una
tetralogia(tre tragedie e un dramma satiresco) e agoni comici in cui cinque commediografi presentavano una commedia ciascuno.
•
Piccole Dionisie: si svolgevano nei demi periferici della città di Atene, vi venivano rappresentati rifacimenti completi o parziali di opere
precedentemente messe in scena.
•
Lenee: in onore di Dionisio Leneo, appellativo probabilmente connesso al vino
•
Antesterie: in onore di Dioniso dio della vita e della crescita; vi si svolgevano agoni comici
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ELABORATO DA: ILARIA BRAGADIN – CLASSE II A classico
Il teatro nella Grecia Antica si evolve da semplice spiazzo (di forma circolare o a trapezoidale) delimitato da panche di legno ad opera
architettonica vera e propria nel V secolo a. C. / IV secolo a. C. , rimanendo sempre una costruzione a cielo aperto.
Il teatro greco antico si divide tre parti essenziali:
1.
Cavea
Il nome, di origine latina, sta ad indicare quella parte destinata al pubblico che i greci chiamano Θέατρον, dal verbo θέαομαι “guardare”. Di forma
semicircolare, la cavea è costituita di gradoni semiconcentrici in marmo, appoggiati al pendio della collina su cui è costruito il teatro. Da ogni
postazione si ha una perfetta visibilità e una perfetta acustica della rappresentazione. La cavea viene divisa orizzontalmente da corridoi chiamati
διαζώματα (lett. cinture) e verticalmente da scalinate, κλίναμες, che vanno a formare dei settori a forma di cuneo, κερκίδες. I cittadini si siedono
in questi ultimi spazi, disposti a seconda della tribù di appartenenza (ad Atene). Le prime file (προεδρία) vengono riservate ai funzionari civili e
militari e agli orfani dei caduti in guerra. Il seggio (ίκρια) al centro della προεδρία viene riservato al sacerdote di Dioniso.
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2.
Orchestra
Gli studiosi ritengono che sia l'elemento architettonico più antico: sembra infatti che il coro (per il quale era destinata questa parte) avesse
costituito il primitivo nucleo della tragedia. Destinata all'esecuzione della danza del coro, l'orchestra deve a questo il suo nome: il verbo ορχέομαι
significa infatti “danzare”. Era tuttavia accessibile anche agli attori, come emerge dai testi di Eschilo e Sofocle. Tuttavia già in Euripide, con il
progressivo ridimensionamento del ruolo del coro, anche l'orchestra perde di importanza. Vi si accedeva attraverso dei corridoi, πάροδοι, ed era
attraversata da canali di scolo, εύριπος, utilizzati per far defluire l'acqua piovana della cavea. Al centro vi è collocato l'altare θυμέλης in onore al
dio Dioniso, che tuttavia (già dai testi di Eschilo) emerge essere utilizzato come spazio sopraelevato per l'apparato musicale.
3.
Scena
Il termine scena significa letteralmente “tenda”: originariamente infatti il la scena era costituita semplicemente da una tenda sorretta da una
struttura, dietro alla quale gli attori si cambiavano. Successivamente essa divenne più elaborata, costituita da un edificio a pianta rettangolare.
Quest'ultimo aveva la funzione di sostenere un tessuto o una grande pelle nei quali veniva disegnata l'ambientazione (grotta, palazzo, città...). Dal
IV secolo a.C. Fu costruita una pedana (προσκήνιον) avanzata rispetto all'apparato scenografico sulla quale recitavano gli attori.
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ELABORATO DA: CARLO ALBERTO CORREALE – CLASSE II A classico
I PROTAGONISTI DELLO SPETTACOLO
NELLA TRAGEDIA GRECA
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L’ATTORE
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L’attore era chiamato hypokrités, termine connesso con il verbo upokrìnomai (“rispondere” ma anche “interpretare”), ed era colui che propriamente
“rispondeva” ed interagiva con il coro (il nostro “ipocrita”, ovvero colui che finge di essere ciò che non è, deriva da questo termine).
Il termine era usato solo per connotare gli attori di teatro che si distinguevano, anche per la loro estrazione sociale, dai giullari e dagli
improvvisatori. Inizialmente sulla scena c’era un solo attore che spesso era incarnato dallo stesso tragediografo; poi, con Eschilo, fu introdotto un
secondo attore (il nostro deuteragonista) e, con Sofocle, anche un terzo (il “tritagonistés”). Alle volte in scena poteva esserci anche un quarto attore
che però pronunciava brevi battute in scene di scarso valore.
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Dapprima furono i poeti a scegliersi gli attori; ma dopo il 449 fu l’arconte a scegliere i protagonisti, assegnandoli ai poeti. Gli attori erano
esclusivamente di sesso maschile e ricoprivano anche ruoli femminili.
Anche allora (come oggi) c’erano famosi attori come Callippide (che tra le altre cose riportò anche cinque trionfi alle Lenee nel 427), Minnisco
(acerrimo rivale del primo) e Nicostrato che era specializzato nel ruolo di messaggero: questo gli valse anche un modo di dire (“alla maniera di
Nicostrato” all’epoca significava “in modo chiaro e diretto”, caratteristiche indispensabili per un messaggero).
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La possibilità di rivestire ruoli diversi nell’ambito della stessa rappresentazione era consentita dall’uso della maschera (pròsopon). La sopravvivenza
della maschera nel tempo è legata al fatto che permetteva di identificare immediatamente il personaggio e di amplificare la voce dell’attore. La
maschera, tuttavia, diminuiva l’espressività del volto e per questo motivo l’attore doveva essere molto prestante, espressivo e bravo a parlare (cfr.
“Ecclesiazuse” di Aristofane in cui compare un termine lungo dieci versi).
Sui copioni gli attori si permettevano aggiustamenti e modifiche.
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Gli attori, inoltre, indossavano abiti e costumi molto sontuosi e colorati: il chitone per i maschi (veste avente maniche lunghe, usato verosimilmente
per impedire che una bella fanciulla rivelasse braccia da lottatore, dato che gli attori erano uomini) e il peplo per le donne. I calzari erano chiamati
“coturni” ed erano dotati di una suola rialzata che serviva per conferire all’attore maestosità.
IL CORO
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Il coro, che si esprimeva cantando e danzando, era inizialmente composto da dodici coreuti, che diventano successivamente (con Sofocle) quindici.
Esso era retto da un corifeo (corufaìos = cima, vetta).
Talvolta il coro si poteva dividere in due cori chiamati parastàtes a loro volta retti da un capo-coro.
Il momento dell’entrata del coro è chiamata “parodo” e prende il nome dai due corridoi laterali al teatro chiamati “parodoi”. A questo punto il coro,
entrato in scena, si disponeva nell’orchestra su cinque file di tre coreuti ciascuna e rimaneva sulla scena fino all’esodo, interagendo variamente con
gli attori.
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In alcuni casi, nel corso della rappresentazione, il coro usciva di scena (metàstasis  cambiamento di luogo) e poi vi rientrava attraverso
l’epipàrodos.
Infine, spesso il gruppo rappresentato dal coro coincideva con la comunità del luogo in cui era ambientata la vicenda (ad esempio: i dignitari della
corte persiana nei Persiani eschilei e un gruppo di tebani per l’Edipo Re).
IL PUBBLICO
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Anche se può sembrare strano, uno dei protagonisti della rappresentazione teatrale della tragedia in Grecia era proprio il pubblico. Gli spettatori
intervenivano spesso, manifestando apertamente i propri sentimenti e partecipando con una forte carica emotiva; durante le rappresentazioni il
pubblico poteva συρίττειν (fischiare), κλώζειν (strepitare), κροτέιν (battere le mani), πτερνοκοπέιν (battere i piedi), chiedere il bis o addirittura
lanciare oggetti.
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Umberto Albini, in un passo del suo libro intitolato “Nel Nome di Dioniso”, descrive egregiamente come il pubblico fosse molto più attivo rispetto a
quello dei giorni nostri:
“Il più scatenato e cattivo dei nostri loggioni si potrebbe definire pacifico in confronto alle platee ateniesi del V e del IV secolo. […] La gente
esprimeva la sua antipatia anche contro chi entrava in teatro e non era gradito. In segno di disapprovazione si masticavano rumorosamente […] i
cibi, si tiravano proiettili d’ogni genere, fichi, olive, verdure (non pomodori…i Greci non li avevano!), sassi. [...] Ci si alzava in piedi a protestare, a
chiedere spiegazioni.”
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Si è discusso molto sulla presenza a teatro di donne e bambini: secondo alcuni, considerata la condizione di segregazione domestica delle donne
greche, è improbabile che esse potessero recarsi a teatro coi loro rispettivi uomini. Ma altri, come per esempio Ateneo o un’ “Antica vita di
Eschilo”, ci riferiscono l’esatto opposto: il primo riferisce che Alcibiade, quand’era corego, si vestiva di rosso porpora, sbalordendo gli uomini e le
donne; la seconda, invece, ci dice che durante la rappresentazione delle “Eumenidi” eschilee, il coro, formato dalle mostruose Erinni, avesse causato
degli aborti naturali nelle donne in dolce attesa presenti a teatro.
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A teatro erano presenti anche i bambini che, se non erano accompagnati dalle loro stesse madri, venivano “scortati” dagli schiavi.
Il teatro, infine, veniva vissuto in modo molto diverso dal nostro. Mentre ora come ora si va a teatro solo la sera, nell’antica Grecia vi si rimaneva
per intere giornate: ecco spiegato l’impellente bisogno da parte dei greci di portare con sé cuscini, vettovaglie, bevande e forse anche dadi.
Per quanto riguarda le toilettes, poiché non sono stati rinvenuti servizi igienici durante gli scavi, si è ipotizzato si risolvesse il problema con una
salubre «passeggiatina» all’aria aperta…
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ELABORATO DA: ELENA BIAGETTI – CLASSE II A classico
LA STRUTTURA DELLA TRAGEDIA
La tragedia è un opera poetica destinata alla rappresentazione, costituita da un numero variabile di versi (sempre superiore a mille). Essa è
composta da:
•
Parti recitate in trimetro giambico;
•
Parti declamate (recitate) con l'accompagnamento dell'aulòs in giambi e anapesti (parakataloghè);
•
Parti interamente cantate in metri lirici vari.
STRUTTURA
PROLOGO:
Aristotele, nella ''Poetica'' diceva di questa parte della tragedia: ''è l'intero elemento di una tragedia, che precede l'ingresso del coro'';
In Eschilo e in Sofocle, entrambi tragediografi greci, in genere avvia la vicenda narrata
In Euripide, anch'esso tragediografo greco, serve solo ad esporre l'antefatto, ed è talvolta recitato da un personaggio, che non interviene più sulla
scena; in alcune tragedie invece manca completamente.
PARODO:
Sempre Aristotele, nella ''Poetica'' dice di questa parte della tragedia: ''è la prima esibizione dell'intero coro''; i coreuti (i componenti del coro)
entravano dai due corridoi laterali del teatro (πάροδοι), cantando e danzando a ritmo di marcia per sistemarsi nell'orchestra.
EPISODI:
Il termine, che significa letteralmente ''dopo l'ingresso'' , indica le parti recitate, in cui è articolata la vicenda; essi sono di numero variabile (vanno
da tre a sette) e si sviluppano in forme diverse:
1.
Ῥήσις (discorso)
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É un lungo brano recitato da un personaggio; è tipica dei messaggeri, i quali raccontano eventi che non possono essere rappresentati in scena (per
esempio episodi cruenti, tipo l'uccisione di Agamennone da parte di Clitennestra, ripresa da Eschilo nell' ''Agamennone'')
2.
Ἀγών (gara)
Quando si fronteggiano i diversi punti di vista dei personaggi;
3.
Discorso verso per verso
Quando due personaggi, in un dialogo concitato pronunciano un verso ciascuno;
4.
Ripresa:
Quando un singolo verso è diviso fra due personaggi; la creazione dell 'antilabè è attribuibile a Sofocle.
5.
Gli episodi erano recitati in trimetri giambici, anche se nei momenti di massima tensione potevano essere inserite parti liriche, come:
6.
Monvdia (''monodia'') : un brano cantato da un solo attore
7.
Amoibaioς (''canto a risposta''): è un duetto fra un attore e il coro; quando il dialogo ha parti cantate e parti recitate si chiama: epirrhma;
8.
Kommoς: è una forma di amebeo caratterizzato dal lamento; un duetto tra coro e attore;
STASIMI
Sono i canti lirici del coro, che i alternano agli episodi e sono formati da una strofe, un'antistrofe (coincidenti sul piano ritmico-metrico) e un
epodo (strofe libera conclusiva). Interrompendo l'azione, lo stasimo consentiva agli attori di cambiarsi l'abito e la maschera. Inizialmente gli
stasimi servivano al coro per commentare, analizzare, illustrare la vicenda messa in scena; col tempo però, quando la tragedia si con centrò sulla
trama facendo decadere l'importanza del coro, gli stasimi assunsero il valore di veri e propri intermezzi musicali indipendenti dai fatti
rappresentati.
ESODO
Ancora Aristotele, nella ''Poetica'', di questa parte della tragedia afferma: ''è l'intera parte della tragedia, dopo cui non c'è canto del coro'', infatti è
il momento in cui quest'ultimo esce dall'orchestra; probabilmente in origine era il canto finale del coro, ma in seguito designa l'ultima parte della
tragedia, in cui si scioglie la vicenda; soprattutto in Euripide coincide con la comparsa del deus ex machina, che interviene per risolvere una
situazione senza via d'uscita (o per prospettare un ''lieto fine'' consolatorio, spesso solo apparente).
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ELABORATO DA: LUCA PANIGHEL – CLASSE II A classico
Tragedia
Etimologia
Il termine greco trago(i)día τραγῳδία deriverebbe dall'unione delle radici di "capro" (τράγος / trágos) e "cantare" (ᾄδω / á(i)dô) e significherebbe
dunque «canto dei capri», in riferimento al coro dei satiri, o "canto per il capro". Nella prima accezione del termine dunque i capri sarebbero gli
attori mascherati da capri, mentre nella seconda l'animale (sia esso capretto o agnello) sarebbe da intendersi come primizia da offrire, come bene
del quale l'uomo si priva in un momento sacro (sia che esso venga offerto al dio stesso come vittima sacrificale, e si ricord i che il capretto è
animale sacro a Dioniso, sia che esso sia premio consegnato al vincitore dell'agone tragico che si svolgeva durante le feste in onore di Dioniso).
Una teoria più recente (J. Winkler) fa derivare "tragedia" dal vocabolo raro traghìzein (τραγὶζειν), che significa "cambiare voce, assumere una voce
belante come i capretti", in riferimento agli attori. A meno che, suggerisce D'Amico, tragoidía non significhi più semplicemente «canto dei capri»,
dai personaggi satireschi che componevano il coro delle prime azioni sacre dionisiache. Altre ipotesi sono state tentate, in passato, tra cui una
etimologia che definirebbe la tragedia come un'ode alla birra.
Quello che è possibile affermare con certezza è che la radice trag- (τραγ-), anche prima di riferirsi al dramma tragico, fu utilizzata per significare
l'essere "simile ad un capro", ma anche la selvatichezza, la libidine, il piacere del cibo, in una serie di parole derivate che gravitano intorno alla
«zona» linguistica del rito dionisiaco.
Origine della tragedia
«Il problema dell'origine della tragedia non appartiene alla storia della letteratura greca: per essa, la tragedia comincia soltanto con Eschilo, tutt'al
più con Frinico, poiché per essa non esiste una tragedia prima della tragedia, e il problema dell'origine è un problema di preistoria. »
(Gennaro Perrotta, Storia della letteratura greca[8])
Ipotesi aristotelica
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L'origine della tragedia greca è uno dei tradizionali problemi irrisolti della filologia classica. La fonte primaria di questo dibattito è la Poetica di
Aristotele. L'autore poté raccogliere una documentazione di prima mano, a noi oggi inaccessibile, sulle fasi più antiche del teatro in Attica, la sua
opera è dunque contributo inestimabile per lo studio della tragedia antica, anche se la sua testimonianza non è esente da dubbi[9].
Secondo Aristotele, la tragedia sarebbe un'evoluzione del ditirambo satiresco, un particolare tipo di ditirambo eseguito da satiri e introdotto da
Arione di Metimna; il genere sarebbe sorto nel Peloponneso[9] e si sarebbe sviluppato dal dramma satiresco[10].
Questa origine satiresca della tragedia sarebbe avvalorata non solo da tre passi di drammi satireschi (Eschilo, Prometeo satiresco, fr. 207; Sofocle,
I segugi, 358; Euripide, Ciclope, 80), che proverebbero l'identificazione dei satiri con i τράγοι, ma anche dal fatto che negli agoni drammatici le
tragedie erano sempre accompagnate da un dramma satiresco[11].
Ipotesi alessandrine
I grammatici alessandrini intesero il termine τραγῳδία come «canto per il sacrificio del capro» o «canto per il capro», ritenendo l'animale premio
di una gara, come attestato anche dall'Ars poetica di Orazio.
Significato Culturale della Tragedia
La tragedia rappresentava per i Greci allo stesso tempo un rito, un agone, e un momento di educazione collettiva. Le rappresentazioni avvenivano
durante le Grandi Dionisie (per quanto concerne le tragedie) o le Lenee (per quanto riguarda le commedie). Esse erano dunque un rito collettivo
che la città di Atene tributava a questa divinità, connessa probabilmente con l’origine stessa del genere.. Aristotele nella Poetica individuava
infatti la nascita della tragedia nel canto in onore di Dioniso (il “ditirambo”) intonato da un coro.
La tragedia era allo stesso tempo una gara tra poeti (selezionati dall’ arconte eponimo) che si sfidano per ottenere una corona di edera e un ricco
premio in denaro. Ogni poeta portava in scena una tetralogia (tre tragedie) e un dramma satiresco. Al termine dei tre giorni di festa, una giuria
decretava il poeta vincitore.
Il teatro in Grecia era un fenomeno di massa: vi assisteva tutta la popolazione, compresi poveri, donne e schiavi. Pertanto lo spettatore rifletteva
sui problemi fondamentali del destino dell’uomo: la sofferenza, la morte, il rapporto con le divinità… Secondo Aristotele il fine della tragedia era la
catarsi, ovvero la purificazione dello spettatore da quelle stesse passioni.
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ELABORATO DA: ANNA SCARAMELLINI – CLASSE II A classico
Il fenomeno tragico
Come visto in precedenza, la rappresentazione tragica costituiva un evento di massa a cui prendeva parte l’intera cittadinanza della πόλις, ed il
coinvolgimento emotivo e psicologico era tale da dare origine ad un vero e proprio “fenomeno tragico”.
Il primo ad analizzare tale fenomeno fu Aristotele, che nella Poetica scrive “Tragedia è opera imitativa (…) adatta a suscitare pietà e terrore,
producendo di tali sentimenti la purificazione che i patimenti rappresentati comportano.” (Aristotele, Poetica, 1149 b).
Aristotele scrive della rappresentazione di patimenti: il tema centrale delle tragedie era, infatti, il dolore, che nasce da un conflitto inconciliabile
nel momento in cui l’eroe tragico si ritrova ad affrontare le prove della vita, simbolo del destino umano. La sofferenza viene trattata da diversi
punti di vista dai tre più grandi tragediografi greci: Eschilo la presenta come un mezzo per raggiungere la conoscenza, tanto che uno dei concetti
fondamentali delle sue opere è il “πάθει μάθος”, “soffrire imparando”. Sofocle, al contrario, considera il dolore come frutto di un disegno divino
insondabile, che all’uomo non è dato conoscere, fino a giungere alla concezione di Euripide secondo cui il dolore non solo non ha alcun valore
positivo, ma rappresenta una realtà crudele e ingiustificabile.
Come mise in luce per primo il critico letterario anglosassone George Steiner, proprio nel modo in cui è trattato il tema del dolore la tragedia si
configura come un prodotto pienamente greco: non poteva che nascere da una concezione laica come quella greca, estranea all’idea di
redenzione o di un sistema di premi e punizioni, com’è invece nella visione giudaico-cristiana. La mentalità laica greca non trova alcuna
spiegazione al dolore (πάθος), e per questo motivo non ha alcun interesse nel mettere in scena la lotta fra il bene e il male o nel far
necessariamente prevalere il primo sul secondo; bensì il dolore viene accettato come componente inevitabile della vita umana, sia che giunga
come conseguenza di una colpa dell’eroe o del γένος maledetto a cui appartiene, sia che non abbia alcuna spiegazione come si legge in Euripide.
Nel precedente passo tratto dalla Poetica, Aristotele sostiene che la rappresentazione tragica compie una “purificazione” dei sentimenti: il
termine greco è κἁθαρσις, il quale era utilizzato sia in ambito magico-rituale (come cancellazione di una contaminazione), sia in ambito medico
(eliminazione degli umori che inquinano un corpo), o ancora con valore psicologico, come in questo caso. Il fenomeno della catarsi in ambito
teatrale, infatti, ha inizio con l’instaurazione di una profonda empatia fra il pubblico e l’azione tragica; gli spettatori si identificano con le passioni
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che vengono rappresentate, i cui estremi sono “pietà” e “terrore”, e realizzandosi una sorta di “transfert” psicologico ne vengono liberati,
appunto “purificati”. In tal senso Gorgia affermava “La tragedia è un inganno, per il quale chi inganna è più giusto di chi n on inganna, e chi si lascia
ingannare è più saggio di chi non si lascia ingannare.” (Gorgia, fr. 82 B 23 Diels-Kranz)
Il rapporto con l’epica
Il legame tra la poesia epica e la tragedia si mostra fin da subito indissolubile, tanto che Platone indicò Omero come “il più grande e il primo fra i
tragediografi” (Repubblica 607a), ed Eschilo stesso avrebbe definito i suoi drammi “briciole dei grandi banchetti di Omero” (Ateneo VIII 347e).
Il più evidente punto di contatto fra le due forme letterarie greche è il contenuto: entrambe, infatti, traggono il proprio materiale dal repertorio
mitologico. Dell’epica, inoltre, la tragedia riprende diversi mezzi espressivi, epiteti, stilemi e similitudini.
La differenza fondamentale, però, ci viene già indicata dall’etimologia dei due termini: mentre epica deriva da ἕπος, “parola”, dramma deriva da
“δρᾶμα”, “azione”; i poemi epici, infatti, venivano narrati da un aedo, mentre la tragedia costituisce un vero e proprio spettacolo, fatto di canti,
balli, musica e un complesso apparato scenico.
Nel passaggio dalla narrazione alla rappresentazione teatrale, perciò, è necessario selezionare il contenuto, riducendolo ad un solo episodio mitico
da collocare in un tempo e uno spazio rappresentabili sulla scena, rispettando cioè le unità di azione, spazio e tempo che proprio Aristotele
codifica; gli oggettivi limiti tecnici di una rappresentazione teatrale, infatti, non potevano permettere il susseguirsi di azioni e la varietà di
situazioni che vediamo nei poemi omerici.
D’altra parte, l’episodio mitico prescelto viene riformulato e problematizzato in termini soggettivi: i vari personaggi non sono più introdotti da un
narratore esterno ma si presentano allo spettatore attraverso le loro azioni, diventando veri e propri individui dotati di maggiore profondità. Le
figure del mito assumono in questo modo un nuovo spessore psicologico, ne vengono analizzate le passioni contrastanti, le pene, le emozioni che
così colpiscono più da vicino il pubblico, “scongelando” il mito trasmesso di generazione in generazione.
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ELABORATO DA: LINDA MASSAROTTO – CLASSE II A classico
IL DRAMMA SATIRESCO
 Collegato al culto del dio Dioniso (parte di un rituale).
 L’INVENTOR del dramma satiresco è Pratina di Fliunte, il quale lo introdusse nei concorsi drammatici nel 500 a.C.
 Il dramma satiresco era un genere teatrale leggero e comico, in cui il coro era formato da un gruppo di satiri, che venivano presentati nelle
più disparate situazioni, spesso ricavate dal mito in chiave parodistica (nel Ciclope essi sono un gruppo di servitori di Polifemo).
 I drammi satireschi erano in genere rappresentati alla fine di una trilogia di tragedie, per risollevare l’animo degli spettatori, incupito dagli
eventi tragici. Non sappiamo però a quali tragedie fosse collegato Il ciclope. Esso è peraltro l'unico dramma satiresco che conosciamo
integralmente. Ne esiste un altro, I cercatori di tracce di Sofocle, di cui ci è rimasta circa la metà del testo.
LE CARATTERISTICHE DEL DRAMMA SATIRESCO
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Stessa struttura della tragedia: prologo, parodo ed episodi intervallati da canti corali.
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Linguaggio colloquiale; tono leggero e giocoso.
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Il coro era formato da cantori travestiti da SATIRI, con pancia e fallo evidenti, ed alternavano la recitazione teatrale alla danza (σικιννις) e al
canto.
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I satiri si comportavano da spacconi, ingordi, vigliacchi, finendo nei guai.
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Assai frequente era il tema della schiavitù dei satiri, che si concludeva solitamente con la loro liberazione.
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Spesso era presente un capo coro denominato Sileno che guidava i satiri oppure era in comico contrasto con essi.
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Le vicende presentavano a volte delle parodie mitologiche comiche e mostravano i satiri in situazioni buffe e lascive.
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Ambientazione agreste, al di fuori della polis, definita τα εσκατα.
A cura di: Carlo Alberto Correale – II A
IL SATIRO NELLA MITOLOGIA
 Il satiro (σάτυρος) è una figura mitica maschile, compagna di Pan e Dioniso, che abita boschi e montagne. È una divinità minore,
personificazione della fertilità e della forza vitale della natura, connessa con il culto dionisiaco.
 I satiri sono generalmente raffigurati come esseri umani barbuti con corna, coda e zampe di capra. Vengono rappresentati come esseri
lascivi, spesso dediti al vino, a danzare con le ninfe ed a suonare il flauto.
 Il loro principale esponente era Sileno, una divinità minore associata alla fertilità.
 Nella Mitologia greca si narra che i satiri fossero grandi suonatori di flauto che incantavano con la loro musica. Questo strumento fu
invenzione della dea Atena, la quale lo gettò, indispettita dal modo in cui le deformava le guance mentre lo suonava. Il satiro Marsia lo
raccolse e cominciò a suonarlo con incredibile maestria, tanto che, sfidò Apollo il quale gli promise di farlo salire con sé sull'Olimpo se la
sua musica fosse stata migliore della propria, mentre in caso contrario il satiro sarebbe stato punito. Le Muse avrebbero decretato il
vincitore. Il flauto del satiro, però, non riuscì a reggere la sfida.
IL CICLOPE DI EURIPIDE
 Il ciclope ( Κύκλωψ ) è un dramma satiresco del drammaturgo greco Euripide. È una parodia dell'episodio del ciclope Polifemo, narrato
nell'Odissea (libro IX). Non se ne conosce l’anno di prima rappresentazione.
 Il ciclope presentato nell’opera è diverso dal terribile Polifemo del canto dell’Odissea. Quest’ultimo è infatti un essere mostruoso,
primitivo, privo di qualsiasi scrupolo morale e a cui è ignota qualsiasi forma di progresso. Persino la sua dieta è composta esclusivamente di
latte e formaggio (a meno che non gli capiti di divorare qualche umano), ed ignora cibi più elaborati come pane e vino.
 Il ciclope di Euripide è invece più civilizzato, e pur vivendo ai margini della società non ha nulla di bestiale. Vuole che i satiri gli puliscano
bene la grotta, e mentre le sue greggi pascolano nei campi, lui se ne va a caccia, non per procurarsi il cibo, ma solo per divertimento.
Mangia carne umana, ma desidera che sia cotta a puntino. Insomma non rappresenta più la selvaggia bestialità del ciclope dell’Odissea, ma
una sua forma più moderna e più cittadina, al punto che i satiri restano, in quest’opera, le uniche creature veramente legate alla natura.
A cura di: Carlo Alberto Correale – II A
A cura di: Carlo Alberto Correale – II A
A cura di: Carlo Alberto Correale – II A
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