I FENICI X SECOLO - 550 A.C. I Fenici che i greci chiamavano “Phoinikes” per la loro abilità nel colorare i tessuti (Poinix = rosso porpora) erano un popolo semita, come gli ebrei, originario del sud dell’Arabia. Si stanziarono anticamente nella terra chiamata allora “Canaan” che più o meno coincide con l’odierno Libano, stretta tra il deserto e il Mediterraneo, passaggio obbligato verso nord e la Siria e a Sud verso l’Egitto. La cartina dei viaggi che i fenici effettuarono nel Mediterraneo La terra di Canaan era allora famosa per i maestosi pini e cedri necessari per le costruzioni navali di cui i fenici diventarono abilissimi, consentendogli di pellegrinare per mare alla ricerca di nuovi mercati per le loro mercanzie e affermandosi come esperti navigatori, unici tra i popoli semiti. I fenici, che definivano se stessi “cananei”, non costituirono mai uno stato unitario ma erano divisi in tante città Stato, non di rado in guerra tra loro. Biblo, Sidone, Berito, Tiro e Arwad erano le città più importanti, strette tra il Regno Assiro, Hittita ed Egiziano, non ebbero nessuna possibilità di affermarsi verso l’interno costrette perciò a cercare i mercati lungo il Mediterraneo occidentale e orientale. Nel 1200 a.C. il Mediterraneo fu invaso dai “Popoli del Mare” ed anche i fenici ne subirono le conseguenze con la distruzione delle loro città. Passato quel pericolo le città risorsero e dopo una prima supremazia di Sidone tra il 1100 ed il 1000 a.C., tanto che nel Vecchio Testamento l’intero popolo è chiamato sidoneo, Tiro prese il sopravvento raggiungendo grande prosperità con i traffici marittimi. La minaccia espansionistica assira diede l’impulso decisivo alla ricerca di nuovi mercati in occidente. Fondarono Gadir (Cadice) e Utica arrivando fino a Tarsisk (Tartesso) oltre le colonne d’Ercole dove esistevano grandi giacimenti metalliferi. Fu così che toccarono le coste sarde creando i primi rudimentali scali. C’è da chiedersi se ebbero il consenso dei nuragici, considerando che Sulki per esempio era circondata da 20 nuraghi ed un villaggio, Tharros fu edificata nel luogo dove sorgeva un villaggio e alcuni nuraghi, così Bithia e Nora dove si nota ancora un pozzo sacro. Una concessione degli autoctoni con relativo pagamento di un “Canone”? Oppure gli scali occuparono dei territori già abbandonati dai nuragici che, dato i pericoli 42 provenienti dal mare, preferirono stabilirsi nell’interno? Interrogativi che purtroppo non avranno mai risposta. Ricostruzione di una nave fenicia Le navi fenice partendo dalle città della terra di Canaan, caricavano prodotti di poco peso e volume ma di grande valore: artigianato in vetro, oro, argento, stoffe e prodotti del legno. Le navi, normalmente non troppo grandi per limitare il rischio dei predoni, si muovevano a vela alla velocità di 6/8 Km l’ora e regolarmente non contenevano rematori che avrebbero aumentato notevolmente i costi armatoriali. Navigavano dall’alba al tramonto, 10 ore circa, lambendo le coste e accostando per ripararsi la notte o in caso di burrasca. A terra avevano quindi bisogno di scali attrezzati per il ricovero e le risorse alimentari. Possiamo immaginare le peripezie di quei viaggi, ritardati per giorni o per mesi dalla mancanza di vento favorevole o dal mare agitato; si è calcolato che il viaggio di andata e ritorno si compisse in un anno. La religione fenicia si basava sul Dio Baal, chiamato anche El (il Dio per antonomasia) e nonostante la numerosa schiera di Dei del Pantheon, questi venivano considerati come emanazioni dello stesso Dio che quindi assumeva fisionomie diverse. Una epigrafe decifrata recita: “Baal e Tanit, ha udito”. L’uso del singolare chiarisce la concezione chiamata enoteistica o submonoteistica la quale si fonda su un Dio che si presenta con aspetti diversi. Il credo fenicio consentì di mutuare dei venerati da diversi popoli come l’egizio Bes, il greco Pigmalione, che diventò Pumay, il cipriota Sasm e tanti altri. 43 Per semplificare le operazioni commerciali i fenici utilizzarono il sistema di scrittura in uso nella città siriana di Ugarit, composto da 30 suoni, portandolo a 22 consonanti che risultarono più versatili e meno complicate. Con il loro pellegrinare questo sistema fu diffuso nel bacino del Mediterraneo e adottato dai greci che lo chiamarono alfabeto dalle loro prime due lettere (alfa e beta). Già nel IX secolo a.C. raggiunsero la Sardegna ed ebbero probabilmente i primi contatti con le popolazioni autoctone. Nel corso dei due secoli successivi, le sporadiche frequentazioni della Sardegna divennero rotte stabili con la conseguente costruzione di sicuri approdi lungo le coste. Caralis, Nora, Bithia, Sulci e Tharros furono i primi approdi che diventarono vere città, in un primo tempo sotto la giurisdizione ed il governo fenicio. I popoli nuragici forse prevalentemente stanziati all’interno dell’isola, non videro subito questi stranieri come dei nemici, ma li considerarono, così come gli etruschi più tardi, utili per ottenere mercanzie e manufatti in cambio di minerali e prodotti della terra che fino ad allora avevano avuto poco valore. Con l’espansione dei traffici fenici nel Mediterraneo, le città sarde diventarono indispensabili per i rifornimenti alle navi che sostavano per poi proseguire verso la Spagna e la Francia o verso la terra di Canaan. I fenici per proteggere i propri scali, occuparono una fascia di sicurezza nell’entroterra per una profondità di circa 20 Km, mentre i nuragici divisi in tanti staterelli e probabilmente distratti da guerre intestine, non affrontarono subito la situazione e permisero ai semiti di rafforzare l’occupazione dell’entroterra con la costruzione di acropoli come Monte Sirai, Pani Loriga (Santadi) a protezione delle città di Solki, Bithia e Nora, la fortificazione di Tharros con possenti mura ed un probabile presidio armato nella zona di S. Sperate-Monastir e Settimo S. Pietro. A questo punto gli ex approdi improvvisati diventarono vere e proprie città Stato, con Cartina delle città fenice in Sardegna e della zona di espansione in una forte presenza Sardegna militare di occupazione. I primi fenici, abili commercianti, lasciarono il posto ai fenici dominatori e militarmente organizzati pronti forse a incrementare i propri possedimenti con ulteriore penetrazione verso l’interno. 44 Intorno al 600 a.C. le popolazioni nuragiche reagirono, forse con la forza della disperazione, cercando di battere il nemico e cacciarlo dall’isola. Nonostante le divisioni e l’improvvisazione, i nuragici riuscirono a infliggere notevoli sconfitte ai fenici probabilmente con una antesignana tattica di guerriglia, evitando scontri decisivi ma attaccando e dileguandosi rapidamente. Sta di fatto che i fenici chiesero aiuto a Cartagine, colonia da loro fondata nel 814 a.C. circa e che rapidamente assunse un ruolo determinante nel Mediterraneo ed i cartaginesi “interessati” accolsero di buon grado l’invito. Urne nel tophet di Sant’Antioco (Carbonia-Iglesias) In tanti anni i fenici non riuscirono, nonostante il loro alfabeto consonantico, i loro tessuti porpurei e la loro cultura, a civilizzare le popolazioni isolane che chiuse in se stesse e arroccate sui monti non assimilarono mai facilmente usi e costumi d’altri. Fu forse per questo che la Sardegna nei 350 anni circa di influenza fenicia dal 900 al 550 a.C., tenne la propria organizzazione pastorale non aprendosi e non modernizzandosi, rimanendo così indietro rispetto ai tempi e avviandosi inesorabilmente verso un buio futuro di colonia e di schiavitù da parte di popoli che trassero la propria forza dall’unità. Due importanti reperti ritrovati dagli archeologi, databili al X-XI secolo, hanno dato la certezza della frequentazione fenicia: la stele ed il frammento di Nora. Nella stele di Nora è individuabile la parola “Sardegna”, ed è la più antica iscrizione dove appare questo nome. Ma la prova inconfutabile della permanenza fenicia in Sardegna ci è data dal Tophet di Sulci (S. Antioco), che dimostra l’esistenza intorno all’VIII sec. a.C. di una comunità stabile. I fenici furono abili artigiani ed è probabile che l’arte dei bronzetti sia stata diffusa in Sardegna proprio da questo popolo. Col passare dei decenni le comunità, ormai inserite nel territorio si consolidarono, costruendo le acropoli di M. Sirai e Pani Loriga, le quali avevano il compito di difendere le città costiere di Sulci - Bithia - Nora. I nuragici intanto stavano a guardare, non minacciati direttamente nelle loro residenze nell’interno dell’isola. Gli indubbi scambi commerciali tra i due popoli da sporadici diventarono continuativi ma senza un inserimento reale e reciproco che fonde le genti diverse. Ognuno occupava il proprio territorio guardando l’altro da lontano ed i nuragici in un primo tempo non avendo propensioni marittime, non si sentivano minacciati né militarmente né politicamente. Le città fenice diventarono col tempo sempre più floride, lucrando sulle coste dalle navi in transito che portavano mercanzie dalla Spagna e dal sud della Francia barattate con materie prime locali. 45 Le comunità fenice nell’isola dopo tre secoli persero ogni legame con la loro terra d’origine e sentendosi legate al territorio, anche per l’incremento demografico, furono costrette a penetrare verso l’interno per creare altri spazi vitali. Un cippo funerario del tophet di Sant’Antioco (CI) Nel VI secolo a.C. si insediarono nella zona di S. Sperate-Monastir per consolidare il territorio di Caralis; a Bosa e a S. Caterina di Pittinurri per rafforzare quello di Tharros. Fondarono forse altre colonie a Olbia e Sarcopos (Muravera) ma non se ne ha la certezza; fatto sta che il consolidamento in atto preoccupò i nuragici che ora vedevano in pericolo le loro terre ed i loro villaggi. La reazione fu forse, frammentaria non essendoci un unico esercito nuragico, ma ugualmente efficace. Oggetto di probabili attacchi di sorpresa, i Fenici si trovarono in difficoltà e rimasero, forse, trincerati nelle loro città e fortezze non potendo rifornirsi di cibo e altri generi di prima necessità. Questa situazione durò senz’altro parecchi decenni e le notizie furono riportate, dalle navi in transito a Cartagine, che intanto era diventata una vera potenza. Situazione ghiotta per una città che aveva delle mire espansionistiche e che non perse l’occasione. I cartaginesi arrivarono nell’isola per appropriarsene e non è da escludere che combatterono anche contro i fenici. Alcune fonti escludono che genti di stirpe fenicia combattessero contro altri fenici, ma ciò pare non logico in quanto le generazioni sarde erano ormai da considerarsi autoctone, neanche il ricordo degli antenati forse rimaneva in quelle genti stanziate nell’isola da almeno 400 anni. Quindi una vera invasione, quella dei cartaginesi tesa a colonizzare l’isola sottomettendo sia i fenici che i nuragici. 46 Le principali città fenicio puniche. Le città fenicio puniche che la storia ci ha tramandato e che gli scavi ancora in corso stanno faticosamente riportando alla luce, hanno evidenziato la sovrapposizione romana, con costruzioni civili, terme, teatri, mentre degli edifici fenici-punici riemergono poche e insignificanti tracce. Nora. La città di Nora, il cui sito fu scavato con una certa regolarità negli anni cinquanta, sorgeva in una lingua di terra divisa in due tronconi che si protraeva sul mare, il promontorio a sud viene chiamato “Sa punta e su Koloru” (il capo del serpente), quello a est “punta di Coltellazzo”. La dislocazione delle terme romane attualmente emerse si discostano dal sito fenicio poiché la linea costiera è arretrata nel tempo di circa 90 metri, per cui rimangono sommerse tutte le antiche strutture portuali. È impossibile identificare, allo stato attuale, le tracce del primo insediamento fenicio di cui sono stati ritrovati solo frammenti ceramici, mentre di quello punico si è localizzato il tophet, circa 30 metri a nord dalla chiesetta di S. Efisio; la necropoli, invece, si trova nei pressi dell’ingresso attuale agli scavi. La città fenicia e poi punica doveva essere più piccola di quella romana e, da quanto rilevato, il sito era prima abitato dai nuragici, ne è segno evidente un pozzo sacro nei pressi delle terme a mare e un nuraghe su un dolce rilievo; pietre nuragiche sono poi state riutilizzate per la costruzione di alcuni edifici. Non è appurato se i fenici si insediarono sul sito già abbandonato o se scacciarono con la forza gli indigeni. Il nome Nora deriverebbe da una radice prefenicia “Nor o Nur” e la città sarebbe stata fondata da genti provenienti dalla penisola Iberica guidate da Norace. Due epigrafi ritrovate, la stele di Nora ed il frammento di Nora, non fugano i dubbi sulla data dell’insediamento, nonostante nella prima figuri la parola “Sardegna” in alfabeto semitico, mentre la traduzione del testo restante è ancora controversa. Di età punica sarebbero le fondazioni del tempio di Tanit, l’edificio chiamato “fonderia” e i resti di fortificazioni sulla punta di Coltellazzo e alcuni muri costruiti con la tecnica “a Telaio”. Nora punica doveva essere la città più importante della Sardegna e la più opulenta con il porto frequentato da numerose navi mercantili che commerciavano con la città. I resti che ora il visitatore può ammirare sono romani e rivelano tutta l’importanza della città sotto i latini, con ville signorili, teatro, anfiteatro, terme e acquedotto; da Nora si dipartiva infine la strada più importante del meridione. L’apice dello sviluppo e della dimensione edilizia di Nora è databile al II secolo d.C., mentre la sua decadenza iniziò con il dominio del mare da parte dei Vandali nel 456 circa; la città fu completamente abbandonata intorno al 750, subito dopo le prime incursioni musulmane. Tharros. Il nome Tharros sarebbe da ricondurre alla radice “Tarr” di origine mediterranea e il sito rappresenta una stazione importante della strada Caralis-Turris Libissonis all’altezza “dell’innesto” che conduceva a Forum Traiani (Fordongianus), baluardo di confine sotto i cartaginesi.Le rovine di Tharros sono ubicate su Capo S. Marco, promontorio all’estremità della penisola del Sinis, dove si ergono due collinette, su Muru Mannu e della torre di S. Giovanni. Il sito appare frequentato da genti nuragiche di cui rimangono le rovine di un villaggio e del nuraghe Baboe Cabizza sulla punta estrema del capo. Il luogo era particolarmente felice anche per i protosardi che sfruttavano le risorse ittiche dello stagno, non senza pensare ad eventuali nemici provenienti dal mare che dal nuraghe dovevano essere avvistati. 47 Gli scavi non hanno rivelato nessuna distruzione delle opere nuragiche per cui si deve pensare ad un abbandono del luogo prima dell’arrivo dei fenici, databile alla fine dell’VIII secolo a.C. Tharros (Or): le terme a mare Il Tophet fu edificato sui resti del villaggio nuragico, nella collina de “Su Muru Mannu” mentre la necropoli riemerge nei pressi della Torre vecchia; con l’arrivo cartaginese l’insediamento assunse l’aspetto urbano con possenti mura e la costruzione del tempio monolitico e di quello di Capo S. Marco. Anche Tharros si arricchì grazie alle merci provenienti dalla penisola Iberica, dall’Africa e dall’Etruria che crearono le basi per una vita opulenta della popolazione. Panorama di Tharros (Or) Con la conquista romana nel 238 a.C., Tharros fu uno dei centri che appoggiò la resistenza di Ampsicora per poi cadere nelle mani latine che la forgiarono a loro immagine facendone una città importante, incrementandone la vocazione mercantile e rinnovandola sotto il punto di vista edilizio. Si edificarono terme, si lastricarono le strade, si costruì l’acquedotto ed il “Castellum Acque” che dimostrano l’importanza urbana raggiunta dalla città. Anche Tharros subì una crisi economica con il dominio marittimo dei vandali che dal 456 imperversarono sul mare impedendo qualunque attività mercantile. 48 Con le incursioni musulmane la città ebbe altre conseguenze negative ma resistette, pur nella incipiente crisi economica; fu capitale del giudicato di Arborea fino a quando gli “Uffici Statali” furono trasferiti ad Oristano alla fine dell’XI secolo. Tharros fu pian piano abbandonata coi suoi ruderi usati come cava poi, inevitabilmente, la sabbia la ricoprì completamente nascondendola agli occhi dei viandanti. Tra il 1838 e 1842 il re Carlo Alberto finanziò degli scavi e inviò a Torino tutto ciò che fu ritrovato nelle tombe puniche e romane portate alla luce. Nel 1851 un nobile inglese, lord Vernon, “visitò” decine di tombe puniche alleggerendole del loro contenuto che inviò in tutta Europa e specialmente al British Museum. Nel 1852 bande di cercatori di tesori depredarono decine di reperti vendendoli in tutta l’Europa. Le autorità intanto stavano a guardare. Sulci. La città di Sulci fu edificata nel lato orientale dell’isola di S. Antioco, sulle rive della laguna, con il porto protetto dai venti nord occidentali e meridionali e doveva costituire un rifugio sicuro per le imbarcazioni. La città fenicio punica e romana giace sotto l’odierno abitato e sarà difficile riportarla alla luce. Ricostruzione ideale dell’acropoli di Monte Sirai nata per proteggere Sulci L’insediamento semitico risale, forse, alla metà dell’VIII secolo a.C., di ciò se ne ha la prova dopo il ritrovamento, nel tophet, di un vaso proveniente da Pithecusa (Ischia), facilmente databile che ci dà la certezza che intorno al 730 a.C. Sulci fosse un centro vitale. 49 Il tophet con le sue urne funerarie ci rivela l’importanza della città confermata dall’edificazione di un’acropoli, situata a Nord del castello Sabaudo e dalle possenti mura di cinta inserite nel baluardo roccioso naturale. Nell’isola di S. Antioco sono presenti ruderi di nuraghi, tombe dei giganti e di un villaggio e sembra confermato, anche in questo caso, l’abbandono prima dell’arrivo dei fenici. Con i romani la città subì un adattamento edilizio e l’acropoli fu trasformata in luogo sacro con annesso tempio. Importante appare la necropoli ipogeica di età punica situata sul colle ove si erge il castello sabaudo; la necropoli fu usata anche dai romani che deponevano dentro le cavità urne contenenti le ceneri dei cremati. Il monumento romano più importante di Sulci è “Sa Presonedda”, un piccolo sepolcro con sembianze di mausoleo con struttura piramidale che ricopre la camera sepolcrale. A Sulci sono presenti catacombe cristiane che furono costruite adattando ipogei punici a camera e che risultano perciò irrazionali nella loro pianta. Negli anni ‘80 è stato individuato un anfiteatro romano a sud-est dell’acropoli di cui rimane il muro che recingeva la piattaforma di base, essendo scomparse le sovrastrutture in materiale deperibile, probabilmente lignee. Anche Sulci subì la sorte delle altre città fenicio-puniche, fu infatti abbandonata progressivamente dal 456 in poi, a causa delle scorrerie dei vandali prima e dei musulmani più tardi. Bithia. Edificata nella Baia di Kia sul promontorio ove sorge la torre, con estensione verso ovest, ai margini di una baia che dava rifugio alle imbarcazioni dal mare aperto e tumultuoso. Nel 1933 una violenta mareggiata liberò dalle sabbie la necropoli fenicio punica, rendendo evidenti le sovrapposizioni romane oltre un edificio monumentale. Gli scavi eseguiti hanno riportato alla luce un grande tempio punico ed una iscrizione con la menzione del nome della città: Bitan. La città si estendeva seguendo l’andamento della costa e si insediava marginalmente all’interno; per questo il mare l’ha pian piano erosa e coperta di sabbia. Il tophet fu rinvenuto sopra l’attuale isoletta de “su cardulinu” che d’estate è collegata alla costa da una lingua di sabbia. La frequentazione romana è ampiamente attestata con il ritrovamento di monete e ristrutturazioni edilizie. Caralis. Il primo probabile scalo fenicio è da localizzare nello stagno di S. Gilla ben protetto dai venti e dalla strettoia di “la Scaffa”. Il tophet è stato individuato nella zona di S. Paolo; ma la linea costiera della laguna modificatasi nel tempo, nasconde forse il vero centro urbano probabilmente ubicato sotto l’attuale stazione ferroviaria, con la piazza del mercato adiacente alla zona di piazza del Carmine. La data della sua presunta fondazione è incerta poiché, non di fondazione si tratta ma di evoluzione, del primitivo scalo in centro urbano. L’aspetto di città Calari lo raggiunse con i cartaginesi che costruirono lungo la costa, tralasciando le zone collinose, dandole un aspetto “esteso in lunghezza” – Tenditur in longum – come scrisse il poeta romano Claudiano. La città quindi era composita, formata cioè da più “frazioni”, S. Elia, S. Avendrace, Bonaria per fare alcuni nomi. La collina di Castello fu forse utilizzata dai punici per la costruzione di una acropoli mentre la necropoli principale dominava la città dal colle di Tuvixeddu. 50 L’arrivo dei romani consacrò Caralis vera città con foro, templi, acquedotto, terme, porto, magazzini, anfiteatro. Il tessuto urbano conquistò le colline dove vennero edificate ville signorili con giardini e pareti riccamente dipinte, mentre il popolo viveva nella suburra, ubicata alle spalle del porto. Il colle di Castello rimaneva probabilmente un’acropoli così come nel periodo punico. Dopo il periodo vandalico e bizantino, le prime incursioni musulmane del 705 d.C. e la crisi economica causata dal mancato arrivo di navi con mercanzie, Caralis fu lentamente abbandonata a favore di S. Igia, che edificata in una zona sopraelevata circondata dallo stagno di S. Gilla, dava ottime garanzie di difesa. Il nome Caralis, trasformato per metatesi medioevale in Calari, rimase al giudicato ma la città scomparve completamente e per sempre. 51 CARTAGINE: PRIMA VERA DOMINAZIONE SARDEGNA 509 - 238 A.C. DELLA I Fenici, forse assediati nelle loro città sarde dai nuragici, chiesero aiuto ai Cartaginesi, che in breve tempo inviarono nell’isola un esercito. Correva il 560 a.C. ed i sardi con la loro tattica di guerriglia riuscirono a respingere i punici comandati da Malco (= re). La città di Cartagine era stata fondata dai fenici nel 814 a.C., non lontano dalla odierna Tunisi, ed in breve tempo diventò una potenza egemone nel Mediterraneo. Dopo il primo tentativo infruttuoso di conquistare l’isola, i punici riuscirono ad impadronirsene nel 535, sebbene parzialmente e vi rimasero circa 270 anni. Al contrario dei fenici, questi cercarono di assoggettare tutto il territorio, trovando come baluardo insormontabile le montagne e le bande nuragiche. Vista l’impossibilità di conquistare il centro dell’isola, impervio e tutto sommato improduttivo, i cartaginesi si attestarono ai confini della futura “Barbagia” creando avamposti nella linea Laconi-Isili-Goni-Sedilo-Neoneli-Zerfaliu-Orotelli-Lei-BororeBonorva-Monte Leone Rocca Doria. 52 Nelle zone sotto il loro controllo instaurarono un sistema amministrativo giudiziario in stretta dipendenza dalla madrepatria. Mentre i fenici gestirono autonomamente le città sarde, definite città Stato, i cartaginesi dominarono la Sardegna con funzionari inviati da Cartagine, l’isola diventò quindi una vera e propria colonia. Fulcro del dominio punico rimasero le città già fenice: Caralis, Nora, Bithia, Sulci, Tharros, Othoca, Cornus, che vennero fortificate e punicizzate, con l’imposizione di una cultura estranea e per questo male assimilata, almeno in un primo tempo. Le città erano amministrate da due Plenipotenziari chiamati Sufeti, che governavano in nome e per conto di Cartagine, politicamente, amministrativamente e militarmente. L’economia dell’isola fu indirizzata coattivamente verso l’agricoltura e migliaia di ettari furono disboscati per lasciar posto alla coltura del grano e dei cereali. L’esercito cartaginese formato da mercenari si serviva anche di indigeni per ingrossare le proprie fila. I sardi autoctoni, arroccati nelle montagne centrali, continuarono ad erigere nuraghi e tombe dei giganti e a seguire le credenze religiose degli avi ed indubbiamente la cultura nuragica si evolse in modo autonomo, racchiusa in valli inaccessibili e in siti montani inespugnabili; si potrebbe così teorizzare una “Sardegna libera”, con una nazione unita, almeno per combattere l’invasore. In quel lontano periodo iniziò la dicotomia decisiva che differenziò il Campidano e la pianura ad economia agricola e le zone montagnose ad economia pastorale. Gli scambi fra le due comunità non furono certo notevoli, ma il semplice contatto portò di sicuro alla reciproca conoscenza dei relativi usi e costumi. Il fiero popolo nuragico, iniziò così il cammino verso l’isolazionismo economico, culturale, religioso, che lo portò nei secoli futuri a diventare un’isola nell’isola, l’emarginazione, purtroppo, costò tanto in termini di emancipazione. 53 Da allora ogni conquista del genere umano arrivò sempre tardi agli autoctoni barbaricini, che si trovarono svantaggiati in tutti campi rispetto agli invasori. I punici, forse per facilitare l’integrazione, trasferirono nell’isola popolazioni iberiche a Interno di una tomba punica della necropoli di Tuvixeddu (Cagliari) loro soggette. Arrivarono anche nobili dalla madrepatria che soprintendevano a delle vere e proprie fattorie, volte essenzialmente alla produzione di cereali. Come è immaginabile, dalla seconda generazione, i sardi, volenti o nolenti, diventarono punici, perdendo la cultura originaria e considerando i “barbaricini” banditi e sottosviluppati. La religione punica, era incentrata sulla divinità primaria chiamata BAAL (lo Zeus Greco). A Baal si affiancò una Dea, di concezione cartaginese, TANIT, che rappresentava la manifestazione femminile di Baal e non una divinità diversa. I fenici ed i cartaginesi, credevano che il loro Dio avesse bisogno di essere ringraziato e rinvigorito col sangue sacrificale, per poter meglio provvedere a dispensare la gioia e la salute agli uomini. Da questa credenza si fa derivare l’uso del sacrificio di adolescenti di età non superiore ai 6 mesi, i quali venivano uccisi e poi cremati e le ceneri conservate in urne e raccolte in un luogo sacro chiamato Tophet. I Tephatim (Plurale di Tophet) furono ritrovati nelle città fenicio-puniche di Nora, Bithia, Sulci, Tharros etc. Questo sacrificio veniva chiamato Molk e pare vi venissero immolati i figli dei nobili come a significare l’alto onore del gesto. 54 Nei Tephatim sardi sono state ritrovate centinaia di urne contenenti ceneri che ci hanno fatto immaginare scenari drammatici di orrendi olocausti. Pur non conoscendo il modo esatto in cui questa credenza veniva praticata, si possono fare alcune considerazioni: le 5000 urne trovate a Tharros, coprono un periodo di 500 anni circa, il che ci porta ad una media di 10 all’anno. Se consideriamo l’alta mortalità naturale degli adolescenti e il fatto che in parecchie urne le ceneri contenute fossero di animali, si può affermare come questa usanza fosse, in termini quantitativi, irrilevante e insignificante. I cartaginesi, oltre alla semplice deposizione in urna contenente le ceneri, presero l’abitudine di porvi accanto delle stele, per ricordare probabilmente il defunto invocando la divinità a protezione. I punici usavano anche delle tombe ipogeiche con Dromos (corridoio) di accesso o a pozzo verticale. In periodo tardo i cartaginesi abbandonarono la pratica dell’incenerazione ed iniziarono a deporre il defunto su un giaciglio funebre accompagnato da scarabei con chiaro intento apotropaico, (oggetti che scacciano i cattivi spiriti). Nonostante la dominazione assoluta punica, si ebbero contatti commerciali con greci ed etruschi attirati dalle materie prime che le miniere offrivano; i rapporti furono senza dubbio frequenti, come i ritrovamenti di manufatti stanno pian piano dimostrando. Oltre ai pochi scambi con i popoli anzi accennati, la Sardegna rimase saldamente legata alla potenza dominatrice, che tendeva a cancellare ogni tradizione passata. A quel periodo risalgono, forse, le più grandi distruzioni del patrimonio archeologico esistente, specialmente nel Campidano. Opere megalitiche, tombe dei giganti, nuraghi, vennero sistematicamente distrutti, per poter sfruttare le pietre che li componevano e costruire fortificazioni e altre opere militari. In molti luoghi, i cartaginesi preferirono insediarsi per convenienza, su costruzioni esistenti, così alcuni siti sono stati salvati per puro caso e ci sono giunti con sovrapposizione al Neolitico/Nuragico preesistente. Con i cartaginesi iniziò anche un urbanesimo antesignano, crescendo le città a dismisura a scapito delle campagne dove regnava il lavoro coatto e, da dove, liberi cittadini scappavano per cercare gli agi urbani. In due secoli e mezzo abbondanti, i punici riuscirono a cancellare una nazione, a distruggere una economia, sebbene primitiva, a spogliare l’isola del patrimonio boschivo e a oscurare lingua e tradizioni millenarie. Si può affermare che iniziò nel 535 a.C., con la venuta dei punici, il fenomeno di impoverimento intellettuale-culturale e autoctono e si interruppe il processo in corso dal Neolitico, di unità etnica e di comune cultura che favorirono la nascita delle culture di Bonu Ighinu, S. Michele, Abealzu Filigosa, M. Claro, Bonnannaro e nuragica, nate con l’apporto di elementi esterni che però contribuirono a consolidarle. Un riconoscimento è dovuto a quelle genti che indomite e fiere, continuarono a vivere libere tra i monti conservando le antiche tradizioni culturali e religiose e che per secoli saranno costrette a vivere emarginate e perseguitate da tutti i dominatori del momento. Niente da rimproverare quindi, se tutt’oggi, a 135 anni dall’unità d’Italia, vengono additate ancora come chiuse in se stesse e senza fiducia nelle istituzioni; pagano il pedaggio per aver voluto vivere libere per difendere la loro “Sardità” e stanno pagando anche per noi che abbiamo chinato il capo e ci siamo sottomessi a questo e a quel padrone diventando stranieri nella nostra terra. I sardi dei territori in mano ai cartaginesi erano costretti a pagare esose tasse o a lavorare, forse in modo coatto, nelle miniere pubbliche od in terreni demaniali per produrre ricchezza da portare a Cartagine. Nei casi più fortunati il loro lavoro era dovuto ai proprietari terrieri, rigorosamente punici, in cambio di pochi soldi e di qualche libagione. 55 Fu così che nel 368 a.C. il popolo si ribellò, subendo dure repressioni e punizioni esemplari che fiaccarono ogni desiderio di protesta. Nel 348 i cartaginesi controllavano la situazione così saldamente che intimarono ai romani di commerciare con la Sardegna solo in presenza di Araldi e Scribi punici. I sardi liberi, abbandonati, i fortilizi di Barumini, Orrobiu, Genna Maria, rivelatisi insufficienti a fermare gli eserciti mercenari punici, si trincerarono oltre le terre controllate dai cartaginesi costruendo fortificazioni rozze ma adatte allo scopo. Una di queste fortificazioni è ancora visibile nell’altopiano di Campeda contrapposta ad una più rifinita costruzione di confine punica. Quando i cartaginesi conquistavano la Sardegna nel 509, a Roma si passava alla repubblica dopo aver scacciato l’ultimo re, Tarquino il superbo. I romani tentarono di espandere il loro territorio nell’Italia meridionale ed entrarono in contatto con le città della Magna Grecia che gli avevano chiesto aiuto per difendersi dalla minaccia dei sanniti e degli altri popoli appenninici già nemici dei romani. Cartagine e Roma non avevano avuto fino ad allora motivi di contrasto, anzi i rapporti potevano definirsi ottimi non essendoci interessi contrapposti economici o politici. Con i nuovi territori meridionali ed il controllo delle città marinare di Napoli e Taranto, Roma iniziò a guardare verso il mare per sviluppare la propria economia. L’intesa tra le due potenze si andò così deteriorando, anche perché i punici non vedevano di buon occhio la protezione romana dei loro nemici tradizionali greci. Nel 264 a.C. i mamertini, mercenari campani al servizio del tiranno di Siracusa Gerone che intendeva riunificare i greci di Sicilia, si ribellarono e occuparono la città di Messina da dove imponevano dazi di passaggio alle navi in transito nello stretto e temendo l’attacco di Gerone chiesero aiuto ai cartaginesi che però subito dopo, per varie ragioni, furono costretti a lasciare la città. Temendo un ritorno dei punici, i mamertini chiesero ai romani di intervenire e Gerone stesso si mise al loro servizio temendo di perdere il potere. Scoppiò una lunga guerra romano/punica che si combatté per terra e per mare dove i romani, grazie ai consigli degli esperti marinai greci, dotando le navi di rostri e ponti mobili per l’abbordaggio chiamati corvi, ottennero lusinghieri successi. La guerra interessò anche la Sardegna ed i latini sconfissero i punici in una battaglia navale nei pressi di Olbia, sbarcando anche a Sulci occupandola. Dopo la nota sconfitta di Attilio Regolo i romani batterono la flotta punica nella battaglia delle Egadi nel 241 a.C., la Sicilia diventò così la prima provincia romana. Nel 240, i mercenari cartaginesi di stanza in Sardegna si ribellarono per ottenere emolumenti arretrati e imperversarono nel territorio compiendo ogni sorta di misfatto; la reazione della popolazione sardo-punica li costrinse, nel 238 a.C., a chiedere aiuto ai romani che con il console Tiberio Sempronio Gracco occuparono l’isola senza incontrare resistenza alcuna. Il colle e la necropoli di Tuvixeddu. La sua posizione prospiciente lo stagno di Santa Gilla e a lato dell’insediamento punico poi romano con centro in piazza del Carmine, lo fece preferire quale luogo sacro dove poter conservare i corpi dei defunti. Assunse così la dignità di necropoli, venerato quanto le stesse tombe che custodiva, terreno sacro che aveva l’alto compito di conservare i resti umani e prepararci alla seconda vita ultraterrena. Già con i Fenici il colle doveva ricoprire una qualche funzione religiosa, ma risalente a quel periodo IX sec. - VI sec. a.C. nulla è emerso; furono quindi i Cartaginesi a dare la destinazione funeraria che poi i Romani continuarono. Le tombe che oggi attirano l’occhio dell’occasionale visitatore, furono scavate con cura artigianale e presentano l’andamento orizzontale, quelle ricavate sui costoni rocciosi e, 56 l’andamento verticale, quelle in pianura, l’ingresso preceduto da un breve corridoio portava alla cella vera e propria dove veniva deposto il defunto con i corredi rituali. Nelle tombe verticali un profondo porro a pianta quadrata e rettangolare precedeva la camera sepolcrale il cui ingresso, come nel tipo precedente veniva chiuso da una lastra di pietra, per agevolare il lavoro dei necropoli su due lati del porro venivano ricavati Panoramica della necropoli di Tuvixeddu (Cagliari) degli incavi chiamati “pedarole“ che consentivano l’appiglio ai piedi con le gambe divaricate e la discesa senza uso di scale. I Punici usavano in un primo tempo, il rito della incinerazione che veniva effettuato direttamente nella tomba, nella quale veniva acceso il fuoco dopo aver deposto il defunto, e in questo caso viene chiamata “busta“; se la cremazione avveniva in altro luogo le ossa venivano normalmente conservate in urne e poi deposte nella tomba. In epoca più tarda i Cartaginesi abbandonarono la pratica dell’incinerazione e usarono la deposizione primaria, con il corpo deposto integro. La tomba più importante della necropoli, quella dell’Ureo oggi sigillata del tipo verticale, ci ha restituito degli affreschi parietali tra i quali il mitico serpente alato egizio che dà il nome alla tomba, maschere gorgoniche (donne che pietrificavano tutti coloro che osavano guardarle), e magnifiche palmette stilizzate. Nel luglio 1997, per un caso fortuito, mentre venivano rimossi dei detriti e delle sterpaglie sul crinale guardante via Sant'Avendrace sono venuti alla luce dei reperti posti evidentemente in posizione superficiale, dopo un più attento esame del sito sono state scoperte ben 32 tombe molte delle quali sovrapposte ad altre, che vanno dal quinto secolo al primo secolo a.C. Le tombe puniche hanno restituito un grande numero di reperti, oltre a diversi tipi di deposizione, quella detta busta, in urna in anfora; nei primi due casi si tratta di corpi incinerati il loco (busta) o fuori sito ed i resti raccolti in urne. 57 In alcuni casi, per lo più defunti in giovane età, una capiente anfora serviva a contenerne il corpo che poi veniva deposto in una fossa (Enchytrismos). Sullo stesso sito sono emerse anche delle tombe a fossa romane risalenti al II - I secolo a.C., sovrapposte o affiancate a quelle puniche di cui forse se ne ignorava la presenza, al momento dello scavo, ma che veniva riconosciuta solamente la sacralità del luogo. Con i Punici iniziò lo sfruttamento del colle anche come miniera di materiale da costruzione e come riserva idrica con l’uso di numerose cavità presenti o con la costruzione di nuove. Nel periodo romano le pendici del colle furono sede di tombe (Atilla Pomptilla) monumentali o di colombari (camere funerarie scavate nella roccia con nicchie sulle pareti alte a contenere urne con ceneri dei defunti), mentre la zona pianeggiante sulla sommità più usato per le sepolture in tombe a fossa. Anche i Romani usarono la collina per le loro esigenze idriche e oltre a sfruttare le cavità costruirono scavandolo nella roccia, un canale oggi ancora evidente, che aveva il compito di rifornire l’acqua, proveniente da Villamassargia, alla città tramite stazioni di decantazione, dislocate lungo il percorso e grandi cavità per la conservazione e l’uso del colle fu abbandonato gradualmente e i tombaroli iniziarono, la loro scellerata opera distruttrice fin quando le tombe più accessibili furono completamente depredate. Intanto con l’arrivo dei Vandali e dei Bizantini la città di Caralis perse il ricordo di quel luogo, poiché altri sistemi in tumulazione entrarono in uso, ma con l’abbandono della città, a causa delle incursioni musulmane a partire dal IX sec. d.C. e la costruzione della città di Santa Igia il colle divenne di nuovo importante in quanto ai suoi piedi si sviluppò il borgo di Sant'Avendrace abitato da pescatori e da lavoratori che non potevano risiedere entro le mura della città giudicale. Nel 1258 Santa Igia fu distrutta ed il colle, impotente, fu costretto ad assistere alla tragedia dei cittadini che cercavano scampo con la fuga. A metà Ottocento, l’uomo con la sua cecità, prescindendo dagli interessi storici e artistici che ne fanno il primo del regno animale disinteressato dal valore della necropoli e del suo immenso patrimonio, decise di “demolirla” poiché le pietre ed il cemento avevano in quel momento un valore talmente alto che il sacrificio di quei ruderi era una posta, forse anche di poco conto, rispetto al lucro che si sarebbe ricavato. Il colle fu così perforato e smembrato e le cavità furono fatte saltare, le sue viscere traforate da immense gallerie; l’aspetto originale fu così per sempre cancellato con la creazione di valli artificiali e profonde voragini dalle quali le migliaia di metri cubi di pietrame asportato andavano ad ingrossare le riserve di materie di materie prime pronte ad essere trasformate in cemento ed in tintinnanti soldoni. La Via Sant'Avendrace che intanto diventava un quartiere e le case ai piedi del colle incorporarono le antiche tombe romane che diventarono magazzini, cantine, depositi per attrezzi. Nel 1822 Alberto Della Marmora salvò per caso la Grotta Della Vipera, ormai minata e pronta a saltare per fare posto alla costruenda Carlo Felice, tra gli sguardi atonici degli ingegneri e delle maestranze che si chiedevano che importanza potesse avere quella insignificante cavità dove i soliti buontemponi avevano scolpito delle frasi in latino e greco. 58 Necropoli di Tuvixeddu (Ca): Plastico che ricostruisce la tomba dell’Ureo 59