I FENICI
X SECOLO - 550 A.C.
I Fenici che i greci chiamavano “Phoinikes” per la loro abilità nel colorare i tessuti
(Poinix = rosso porpora) erano un popolo semita, come gli ebrei, originario del sud
dell’Arabia.
Si stanziarono anticamente nella terra chiamata allora “Canaan” che più o meno
coincide con l’odierno Libano, stretta tra il deserto e il Mediterraneo, passaggio
obbligato verso nord e la Siria e a Sud verso l’Egitto.
La cartina dei viaggi che i fenici effettuarono nel Mediterraneo
La terra di Canaan era allora famosa per i maestosi pini e cedri necessari per le
costruzioni navali di cui i fenici diventarono abilissimi, consentendogli di pellegrinare
per mare alla ricerca di nuovi mercati per le loro mercanzie e affermandosi come
esperti navigatori, unici tra i popoli semiti.
I fenici, che definivano se stessi “cananei”, non costituirono mai uno stato unitario ma
erano divisi in tante città Stato, non di rado in guerra tra loro.
Biblo, Sidone, Berito, Tiro e Arwad erano le città più importanti, strette tra il Regno
Assiro, Hittita ed Egiziano, non ebbero nessuna possibilità di affermarsi verso l’interno
costrette perciò a cercare i mercati lungo il Mediterraneo occidentale e orientale.
Nel 1200 a.C. il Mediterraneo fu invaso dai “Popoli del Mare” ed anche i fenici ne
subirono le conseguenze con la distruzione delle loro città.
Passato quel pericolo le città risorsero e dopo una prima supremazia di Sidone tra il
1100 ed il 1000 a.C., tanto che nel Vecchio Testamento l’intero popolo è chiamato
sidoneo, Tiro prese il sopravvento raggiungendo grande prosperità con i traffici
marittimi.
La minaccia espansionistica assira diede l’impulso decisivo alla ricerca di nuovi mercati
in occidente. Fondarono Gadir (Cadice) e Utica arrivando fino a Tarsisk (Tartesso)
oltre le colonne d’Ercole dove esistevano grandi giacimenti metalliferi.
Fu così che toccarono le coste sarde creando i primi rudimentali scali.
C’è da chiedersi se ebbero il consenso dei nuragici, considerando che Sulki per esempio
era circondata da 20 nuraghi ed un villaggio, Tharros fu edificata nel luogo dove
sorgeva un villaggio e alcuni nuraghi, così Bithia e Nora dove si nota ancora un pozzo
sacro.
Una concessione degli autoctoni con relativo pagamento di un “Canone”? Oppure gli
scali occuparono dei territori già abbandonati dai nuragici che, dato i pericoli
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provenienti dal mare, preferirono stabilirsi nell’interno? Interrogativi che purtroppo
non avranno mai risposta.
Ricostruzione di una nave
fenicia
Le navi fenice partendo dalle città della terra di Canaan, caricavano prodotti di poco
peso e volume ma di grande valore: artigianato in vetro, oro, argento, stoffe e prodotti
del legno. Le navi, normalmente non troppo grandi per limitare il rischio dei predoni,
si muovevano a vela alla velocità di 6/8 Km l’ora e regolarmente non contenevano
rematori che avrebbero aumentato notevolmente i costi armatoriali.
Navigavano dall’alba al tramonto, 10 ore circa, lambendo le coste e accostando per
ripararsi la notte o in caso di burrasca. A terra avevano quindi bisogno di scali
attrezzati per il ricovero e le risorse alimentari.
Possiamo immaginare le peripezie di quei viaggi, ritardati per giorni o per mesi dalla
mancanza di vento favorevole o dal mare agitato; si è calcolato che il viaggio di andata e
ritorno si compisse in un anno.
La religione fenicia
si basava sul Dio
Baal,
chiamato
anche El (il Dio per
antonomasia)
e
nonostante
la
numerosa schiera di
Dei del Pantheon,
questi
venivano
considerati
come
emanazioni
dello
stesso
Dio
che
quindi
assumeva
fisionomie diverse.
Una
epigrafe
decifrata
recita:
“Baal e Tanit, ha
udito”. L’uso del
singolare chiarisce
la concezione chiamata enoteistica o submonoteistica la quale si fonda su un Dio che si
presenta con aspetti diversi.
Il credo fenicio consentì di mutuare dei venerati da diversi popoli come l’egizio Bes, il
greco Pigmalione, che diventò Pumay, il cipriota Sasm e tanti altri.
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Per semplificare le operazioni commerciali i fenici utilizzarono il sistema di scrittura in
uso nella città siriana di Ugarit, composto da 30 suoni, portandolo a 22 consonanti che
risultarono più versatili e meno complicate. Con il loro pellegrinare questo sistema fu
diffuso nel bacino del Mediterraneo e adottato dai greci che lo chiamarono alfabeto
dalle loro prime due lettere (alfa e beta).
Già nel IX secolo a.C. raggiunsero la Sardegna ed ebbero probabilmente i primi contatti
con le popolazioni autoctone.
Nel corso dei due secoli successivi, le sporadiche frequentazioni della Sardegna
divennero rotte stabili con la conseguente costruzione di sicuri approdi lungo le coste.
Caralis, Nora, Bithia, Sulci e Tharros furono i primi approdi che diventarono vere città,
in un primo tempo sotto la giurisdizione ed il governo fenicio.
I popoli nuragici forse prevalentemente stanziati all’interno dell’isola, non videro
subito questi stranieri come dei nemici, ma li considerarono, così come gli etruschi più
tardi, utili per ottenere mercanzie e manufatti in cambio di minerali e prodotti della
terra che fino ad allora avevano avuto poco valore.
Con l’espansione dei traffici fenici nel Mediterraneo, le città sarde diventarono
indispensabili per i rifornimenti alle navi che sostavano per poi proseguire verso la
Spagna e la Francia o verso la terra di Canaan.
I fenici per proteggere i
propri scali, occuparono
una fascia di sicurezza
nell’entroterra per una
profondità di circa 20
Km, mentre i nuragici
divisi in tanti staterelli e
probabilmente distratti
da guerre intestine, non
affrontarono subito la
situazione e permisero ai
semiti
di
rafforzare
l’occupazione
dell’entroterra con la
costruzione di acropoli
come Monte Sirai, Pani
Loriga
(Santadi)
a
protezione delle città di
Solki, Bithia e Nora, la
fortificazione di Tharros
con possenti mura ed un
probabile
presidio
armato nella zona di S.
Sperate-Monastir
e
Settimo S. Pietro.
A questo punto gli ex
approdi
improvvisati
diventarono
vere
e
proprie città Stato, con
Cartina delle città fenice in Sardegna e della zona di espansione in
una
forte
presenza
Sardegna
militare di occupazione.
I primi fenici, abili commercianti, lasciarono il posto ai fenici dominatori e
militarmente organizzati pronti forse a incrementare i propri possedimenti con
ulteriore penetrazione verso l’interno.
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Intorno al 600 a.C. le popolazioni nuragiche reagirono, forse con la forza della
disperazione, cercando di battere il nemico e cacciarlo dall’isola.
Nonostante le divisioni e l’improvvisazione, i nuragici riuscirono a infliggere notevoli
sconfitte ai fenici probabilmente con una antesignana tattica di guerriglia, evitando
scontri decisivi ma attaccando e dileguandosi rapidamente.
Sta di fatto che i fenici chiesero aiuto a Cartagine, colonia da loro fondata nel 814 a.C.
circa e che rapidamente assunse un ruolo determinante nel Mediterraneo ed i
cartaginesi “interessati” accolsero di buon grado l’invito.
Urne nel tophet di
Sant’Antioco
(Carbonia-Iglesias)
In tanti anni i fenici non riuscirono, nonostante il loro alfabeto consonantico, i loro
tessuti porpurei e la loro cultura, a civilizzare le popolazioni isolane che chiuse in se
stesse e arroccate sui monti non assimilarono mai facilmente usi e costumi d’altri.
Fu forse per questo che la Sardegna nei 350 anni circa di influenza fenicia dal 900 al
550 a.C., tenne la propria organizzazione pastorale non aprendosi e non
modernizzandosi, rimanendo così indietro rispetto ai tempi e avviandosi
inesorabilmente verso un buio futuro di colonia e di schiavitù da parte di popoli che
trassero la propria forza dall’unità.
Due importanti reperti ritrovati dagli archeologi, databili al X-XI secolo, hanno dato la
certezza della frequentazione fenicia: la stele ed il frammento di Nora.
Nella stele di Nora è individuabile la parola “Sardegna”, ed è la più antica iscrizione
dove appare questo nome.
Ma la prova inconfutabile della permanenza fenicia in Sardegna ci è data dal Tophet di
Sulci (S. Antioco), che dimostra l’esistenza intorno all’VIII sec. a.C. di una comunità
stabile.
I fenici furono abili artigiani ed è probabile che l’arte dei bronzetti sia stata diffusa in
Sardegna proprio da questo popolo. Col passare dei decenni le comunità, ormai inserite
nel territorio si consolidarono, costruendo le acropoli di M. Sirai e Pani Loriga, le quali
avevano il compito di difendere le città costiere di Sulci - Bithia - Nora.
I nuragici intanto stavano a guardare, non minacciati direttamente nelle loro residenze
nell’interno dell’isola.
Gli indubbi scambi commerciali tra i due popoli da sporadici diventarono continuativi
ma senza un inserimento reale e reciproco che fonde le genti diverse.
Ognuno occupava il proprio territorio guardando l’altro da lontano ed i nuragici in un
primo tempo non avendo propensioni marittime, non si sentivano minacciati né
militarmente né politicamente. Le città fenice diventarono col tempo sempre più
floride, lucrando sulle coste dalle navi in transito che portavano mercanzie dalla
Spagna e dal sud della Francia barattate con materie prime locali.
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Le comunità fenice nell’isola dopo tre secoli persero ogni legame con la loro terra
d’origine e sentendosi legate al territorio, anche per l’incremento demografico, furono
costrette a penetrare verso l’interno per creare altri spazi vitali.
Un cippo
funerario del
tophet di
Sant’Antioco
(CI)
Nel VI secolo a.C. si insediarono nella zona di S. Sperate-Monastir per consolidare il
territorio di Caralis; a Bosa e a S. Caterina di Pittinurri per rafforzare quello di Tharros.
Fondarono forse altre colonie a Olbia e Sarcopos (Muravera) ma non se ne ha la
certezza; fatto sta che il consolidamento in atto preoccupò i nuragici che ora vedevano
in pericolo le loro terre ed i loro villaggi. La reazione fu forse, frammentaria non
essendoci un unico esercito nuragico, ma ugualmente efficace.
Oggetto di probabili attacchi di sorpresa, i Fenici si trovarono in difficoltà e rimasero,
forse, trincerati nelle loro città e fortezze non potendo rifornirsi di cibo e altri generi di
prima necessità.
Questa situazione durò senz’altro parecchi decenni e le notizie furono riportate, dalle
navi in transito a Cartagine, che intanto era diventata una vera potenza.
Situazione ghiotta per una città che aveva delle mire espansionistiche e che non perse
l’occasione.
I cartaginesi arrivarono nell’isola per appropriarsene e non è da escludere che
combatterono anche contro i fenici.
Alcune fonti escludono che genti di stirpe fenicia combattessero contro altri fenici, ma
ciò pare non logico in quanto le generazioni sarde erano ormai da considerarsi
autoctone, neanche il ricordo degli antenati forse rimaneva in quelle genti stanziate
nell’isola da almeno 400 anni.
Quindi una vera invasione, quella dei cartaginesi tesa a colonizzare l’isola
sottomettendo sia i fenici che i nuragici.
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Le principali città fenicio puniche.
Le città fenicio puniche che la storia ci ha tramandato e che gli scavi ancora in corso
stanno faticosamente riportando alla luce, hanno evidenziato la sovrapposizione
romana, con costruzioni civili, terme, teatri, mentre degli edifici fenici-punici
riemergono poche e insignificanti tracce.
Nora.
La città di Nora, il cui sito fu scavato con una certa regolarità negli anni cinquanta,
sorgeva in una lingua di terra divisa in due tronconi che si protraeva sul mare, il
promontorio a sud viene chiamato “Sa punta e su Koloru” (il capo del serpente), quello
a est “punta di Coltellazzo”.
La dislocazione delle terme romane attualmente emerse si discostano dal sito fenicio
poiché la linea costiera è arretrata nel tempo di circa 90 metri, per cui rimangono
sommerse tutte le antiche strutture portuali.
È impossibile identificare, allo stato attuale, le tracce del primo insediamento fenicio di
cui sono stati ritrovati solo frammenti ceramici, mentre di quello punico si è localizzato
il tophet, circa 30 metri a nord dalla chiesetta di S. Efisio; la necropoli, invece, si trova
nei pressi dell’ingresso attuale agli scavi. La città fenicia e poi punica doveva essere più
piccola di quella romana e, da quanto rilevato, il sito era prima abitato dai nuragici, ne
è segno evidente un pozzo sacro nei pressi delle terme a mare e un nuraghe su un dolce
rilievo; pietre nuragiche sono poi state riutilizzate per la costruzione di alcuni edifici.
Non è appurato se i fenici si insediarono sul sito già abbandonato o se scacciarono con
la forza gli indigeni.
Il nome Nora deriverebbe da una radice prefenicia “Nor o Nur” e la città sarebbe stata
fondata da genti provenienti dalla penisola Iberica guidate da Norace.
Due epigrafi ritrovate, la stele di Nora ed il frammento di Nora, non fugano i dubbi
sulla data dell’insediamento, nonostante nella prima figuri la parola “Sardegna” in
alfabeto semitico, mentre la traduzione del testo restante è ancora controversa.
Di età punica sarebbero le fondazioni del tempio di Tanit, l’edificio chiamato “fonderia”
e i resti di fortificazioni sulla punta di Coltellazzo e alcuni muri costruiti con la tecnica
“a Telaio”.
Nora punica doveva essere la città più importante della Sardegna e la più opulenta con
il porto frequentato da numerose navi mercantili che commerciavano con la città.
I resti che ora il visitatore può ammirare sono romani e rivelano tutta l’importanza
della città sotto i latini, con ville signorili, teatro, anfiteatro, terme e acquedotto; da
Nora si dipartiva infine la strada più importante del meridione.
L’apice dello sviluppo e della dimensione edilizia di Nora è databile al II secolo d.C.,
mentre la sua decadenza iniziò con il dominio del mare da parte dei Vandali nel 456
circa; la città fu completamente abbandonata intorno al 750, subito dopo le prime
incursioni musulmane.
Tharros.
Il nome Tharros sarebbe da ricondurre alla radice “Tarr” di origine mediterranea e il
sito rappresenta una stazione importante della strada Caralis-Turris Libissonis
all’altezza “dell’innesto” che conduceva a Forum Traiani (Fordongianus), baluardo di
confine sotto i cartaginesi.Le rovine di Tharros sono ubicate su Capo S. Marco,
promontorio all’estremità della penisola del Sinis, dove si ergono due collinette, su
Muru Mannu e della torre di S. Giovanni.
Il sito appare frequentato da genti nuragiche di cui rimangono le rovine di un villaggio
e del nuraghe Baboe Cabizza sulla punta estrema del capo. Il luogo era particolarmente
felice anche per i protosardi che sfruttavano le risorse ittiche dello stagno, non senza
pensare ad eventuali nemici provenienti dal mare che dal nuraghe dovevano essere
avvistati.
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Gli scavi non hanno rivelato nessuna distruzione delle opere nuragiche per cui si deve
pensare ad un abbandono del luogo prima dell’arrivo dei fenici, databile alla fine
dell’VIII secolo a.C.
Tharros (Or): le terme a
mare
Il Tophet fu edificato sui resti del villaggio nuragico, nella collina de “Su Muru Mannu”
mentre la necropoli riemerge nei pressi della Torre vecchia; con l’arrivo cartaginese
l’insediamento assunse l’aspetto urbano con possenti mura e la costruzione del tempio
monolitico e di quello di Capo S. Marco.
Anche Tharros si arricchì grazie alle merci provenienti dalla penisola Iberica,
dall’Africa e dall’Etruria che crearono le basi per una vita opulenta della popolazione.
Panorama di Tharros
(Or)
Con la conquista romana nel 238 a.C., Tharros fu uno dei centri che appoggiò la
resistenza di Ampsicora per poi cadere nelle mani latine che la forgiarono a loro
immagine facendone una città importante, incrementandone la vocazione mercantile e
rinnovandola sotto il punto di vista edilizio.
Si edificarono terme, si lastricarono le strade, si costruì l’acquedotto ed il “Castellum
Acque” che dimostrano l’importanza urbana raggiunta dalla città.
Anche Tharros subì una crisi economica con il dominio marittimo dei vandali che dal
456 imperversarono sul mare impedendo qualunque attività mercantile.
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Con le incursioni musulmane la città ebbe altre conseguenze negative ma resistette, pur
nella incipiente crisi economica; fu capitale del giudicato di Arborea fino a quando gli
“Uffici Statali” furono trasferiti ad Oristano alla fine dell’XI secolo.
Tharros fu pian piano abbandonata coi suoi ruderi usati come cava poi,
inevitabilmente, la sabbia la ricoprì completamente nascondendola agli occhi dei
viandanti.
Tra il 1838 e 1842 il re Carlo Alberto finanziò degli scavi e inviò a Torino tutto ciò che
fu ritrovato nelle tombe puniche e romane portate alla luce.
Nel 1851 un nobile inglese, lord Vernon, “visitò” decine di tombe puniche
alleggerendole del loro contenuto che inviò in tutta Europa e specialmente al British
Museum.
Nel 1852 bande di cercatori di tesori depredarono decine di reperti vendendoli in tutta
l’Europa.
Le autorità intanto stavano a guardare.
Sulci.
La città di Sulci fu edificata nel lato orientale dell’isola di S. Antioco, sulle rive della
laguna, con il porto protetto dai venti nord occidentali e meridionali e doveva costituire
un rifugio sicuro per le imbarcazioni.
La città fenicio punica e romana giace sotto l’odierno abitato e sarà difficile riportarla
alla luce.
Ricostruzione ideale dell’acropoli di Monte Sirai nata per proteggere Sulci
L’insediamento semitico risale, forse, alla metà dell’VIII secolo a.C., di ciò se ne ha la
prova dopo il ritrovamento, nel tophet, di un vaso proveniente da Pithecusa (Ischia),
facilmente databile che ci dà la certezza che intorno al 730 a.C. Sulci fosse un centro
vitale.
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Il tophet con le sue urne funerarie ci rivela l’importanza della città confermata
dall’edificazione di un’acropoli, situata a Nord del castello Sabaudo e dalle possenti
mura di cinta inserite nel baluardo roccioso naturale.
Nell’isola di S. Antioco sono presenti ruderi di nuraghi, tombe dei giganti e di un
villaggio e sembra confermato, anche in questo caso, l’abbandono prima dell’arrivo dei
fenici.
Con i romani la città subì un adattamento edilizio e l’acropoli fu trasformata in luogo
sacro con annesso tempio.
Importante appare la necropoli ipogeica di età punica situata sul colle ove si erge il
castello sabaudo; la necropoli fu usata anche dai romani che deponevano dentro le
cavità urne contenenti le ceneri dei cremati.
Il monumento romano più importante di Sulci è “Sa Presonedda”, un piccolo sepolcro
con sembianze di mausoleo con struttura piramidale che ricopre la camera sepolcrale.
A Sulci sono presenti catacombe cristiane che furono costruite adattando ipogei punici
a camera e che risultano perciò irrazionali nella loro pianta.
Negli anni ‘80 è stato individuato un anfiteatro romano a sud-est dell’acropoli di cui
rimane il muro che recingeva la piattaforma di base, essendo scomparse le
sovrastrutture in materiale deperibile, probabilmente lignee.
Anche Sulci subì la sorte delle altre città fenicio-puniche, fu infatti abbandonata
progressivamente dal 456 in poi, a causa delle scorrerie dei vandali prima e dei
musulmani più tardi.
Bithia.
Edificata nella Baia di Kia sul promontorio ove sorge la torre, con estensione verso
ovest, ai margini di una baia che dava rifugio alle imbarcazioni dal mare aperto e
tumultuoso.
Nel 1933 una violenta mareggiata liberò dalle sabbie la necropoli fenicio punica,
rendendo evidenti le sovrapposizioni romane oltre un edificio monumentale.
Gli scavi eseguiti hanno riportato alla luce un grande tempio punico ed una iscrizione
con la menzione del nome della città: Bitan.
La città si estendeva seguendo l’andamento della costa e si insediava marginalmente
all’interno; per questo il mare l’ha pian piano erosa e coperta di sabbia.
Il tophet fu rinvenuto sopra l’attuale isoletta de “su cardulinu” che d’estate è collegata
alla costa da una lingua di sabbia.
La frequentazione romana è ampiamente attestata con il ritrovamento di monete e
ristrutturazioni edilizie.
Caralis.
Il primo probabile scalo fenicio è da localizzare nello stagno di S. Gilla ben protetto dai
venti e dalla strettoia di “la Scaffa”.
Il tophet è stato individuato nella zona di S. Paolo; ma la linea costiera della laguna
modificatasi nel tempo, nasconde forse il vero centro urbano probabilmente ubicato
sotto l’attuale stazione ferroviaria, con la piazza del mercato adiacente alla zona di
piazza del Carmine.
La data della sua presunta fondazione è incerta poiché, non di fondazione si tratta ma
di evoluzione, del primitivo scalo in centro urbano.
L’aspetto di città Calari lo raggiunse con i cartaginesi che costruirono lungo la costa,
tralasciando le zone collinose, dandole un aspetto “esteso in lunghezza” – Tenditur in
longum – come scrisse il poeta romano Claudiano.
La città quindi era composita, formata cioè da più “frazioni”, S. Elia, S. Avendrace,
Bonaria per fare alcuni nomi.
La collina di Castello fu forse utilizzata dai punici per la costruzione di una acropoli
mentre la necropoli principale dominava la città dal colle di Tuvixeddu.
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L’arrivo dei romani consacrò Caralis vera città con foro, templi, acquedotto, terme,
porto, magazzini, anfiteatro.
Il tessuto urbano conquistò le colline dove vennero edificate ville signorili con giardini
e pareti riccamente dipinte, mentre il popolo viveva nella suburra, ubicata alle spalle
del porto.
Il colle di Castello rimaneva probabilmente un’acropoli così come nel periodo punico.
Dopo il periodo vandalico e bizantino, le prime incursioni musulmane del 705 d.C. e la
crisi economica causata dal mancato arrivo di navi con mercanzie, Caralis fu
lentamente abbandonata a favore di S. Igia, che edificata in una zona sopraelevata
circondata dallo stagno di S. Gilla, dava ottime garanzie di difesa.
Il nome Caralis, trasformato per metatesi medioevale in Calari, rimase al giudicato ma
la città scomparve completamente e per sempre.
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CARTAGINE:
PRIMA VERA DOMINAZIONE
SARDEGNA
509 - 238 A.C.
DELLA
I Fenici, forse assediati nelle loro città sarde dai nuragici, chiesero aiuto ai Cartaginesi,
che in breve tempo inviarono nell’isola un esercito. Correva il 560 a.C. ed i sardi con la
loro tattica di guerriglia riuscirono a respingere i punici comandati da Malco (= re).
La città di Cartagine era stata fondata dai fenici nel 814 a.C., non lontano dalla odierna
Tunisi, ed in breve tempo diventò una potenza egemone nel Mediterraneo.
Dopo il primo tentativo infruttuoso di conquistare l’isola, i punici riuscirono ad
impadronirsene nel 535, sebbene parzialmente e vi rimasero circa 270 anni.
Al contrario dei fenici, questi cercarono di assoggettare tutto il territorio, trovando
come baluardo insormontabile le montagne e le bande nuragiche.
Vista l’impossibilità di conquistare il centro dell’isola, impervio e tutto sommato
improduttivo, i cartaginesi si attestarono ai confini della futura “Barbagia” creando
avamposti nella linea Laconi-Isili-Goni-Sedilo-Neoneli-Zerfaliu-Orotelli-Lei-BororeBonorva-Monte Leone Rocca Doria.
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Nelle zone sotto il loro controllo instaurarono un sistema amministrativo giudiziario in
stretta dipendenza dalla madrepatria.
Mentre i fenici gestirono autonomamente le città sarde, definite città Stato, i
cartaginesi dominarono la Sardegna con funzionari inviati da Cartagine, l’isola diventò
quindi una vera e propria colonia.
Fulcro del dominio punico rimasero le città già fenice: Caralis, Nora, Bithia, Sulci,
Tharros, Othoca, Cornus, che vennero fortificate e punicizzate, con l’imposizione di una
cultura estranea e per questo male assimilata, almeno in un primo tempo.
Le città erano amministrate da due Plenipotenziari chiamati Sufeti, che governavano in
nome e per conto di Cartagine, politicamente, amministrativamente e militarmente.
L’economia dell’isola fu indirizzata coattivamente verso l’agricoltura e migliaia di ettari
furono disboscati per lasciar posto alla coltura del grano e dei cereali.
L’esercito cartaginese formato da mercenari si serviva anche di indigeni per ingrossare
le proprie fila.
I sardi autoctoni, arroccati nelle montagne centrali, continuarono ad erigere nuraghi e
tombe dei giganti e a seguire le credenze religiose degli avi ed indubbiamente la cultura
nuragica si evolse in modo autonomo, racchiusa in valli inaccessibili e in siti montani
inespugnabili; si potrebbe così teorizzare una “Sardegna libera”, con una nazione unita,
almeno per combattere l’invasore.
In quel lontano periodo iniziò la dicotomia decisiva che differenziò il Campidano e la
pianura ad economia agricola e le zone montagnose ad economia pastorale.
Gli scambi fra le due comunità non furono certo notevoli, ma il semplice contatto portò
di sicuro alla reciproca conoscenza dei relativi usi e costumi.
Il fiero popolo nuragico, iniziò così il cammino verso l’isolazionismo economico,
culturale, religioso, che lo portò nei secoli futuri a diventare un’isola nell’isola,
l’emarginazione, purtroppo, costò tanto in termini di emancipazione.
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Da allora ogni conquista del genere umano arrivò sempre tardi agli autoctoni
barbaricini, che si trovarono svantaggiati in tutti campi rispetto agli invasori.
I punici, forse per facilitare l’integrazione, trasferirono nell’isola popolazioni iberiche a
Interno di una tomba punica della
necropoli di Tuvixeddu (Cagliari)
loro soggette. Arrivarono anche nobili dalla madrepatria che soprintendevano a delle
vere e proprie fattorie, volte essenzialmente alla produzione di cereali.
Come è immaginabile, dalla seconda generazione, i sardi, volenti o nolenti, diventarono
punici, perdendo la cultura originaria e considerando i “barbaricini” banditi e
sottosviluppati.
La religione punica, era incentrata sulla divinità primaria chiamata BAAL (lo Zeus
Greco).
A Baal si affiancò una Dea, di concezione cartaginese, TANIT, che rappresentava la
manifestazione femminile di Baal e non una divinità diversa.
I fenici ed i cartaginesi, credevano che il loro Dio avesse bisogno di essere ringraziato e
rinvigorito col sangue sacrificale, per poter meglio provvedere a dispensare la gioia e la
salute agli uomini.
Da questa credenza si fa derivare l’uso del sacrificio di adolescenti di età non superiore
ai 6 mesi, i quali venivano uccisi e poi cremati e le ceneri conservate in urne e raccolte
in un luogo sacro chiamato Tophet.
I Tephatim (Plurale di Tophet) furono ritrovati nelle città fenicio-puniche di Nora,
Bithia, Sulci, Tharros etc.
Questo sacrificio veniva chiamato Molk e pare vi venissero immolati i figli dei nobili
come a significare l’alto onore del gesto.
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Nei Tephatim sardi sono state ritrovate centinaia di urne contenenti ceneri che ci
hanno fatto immaginare scenari drammatici di orrendi olocausti.
Pur non conoscendo il modo esatto in cui questa credenza veniva praticata, si possono
fare alcune considerazioni: le 5000 urne trovate a Tharros, coprono un periodo di 500
anni circa, il che ci porta ad una media di 10 all’anno.
Se consideriamo l’alta mortalità naturale degli adolescenti e il fatto che in parecchie
urne le ceneri contenute fossero di animali, si può affermare come questa usanza fosse,
in termini quantitativi, irrilevante e insignificante.
I cartaginesi, oltre alla semplice deposizione in urna contenente le ceneri, presero
l’abitudine di porvi accanto delle stele, per ricordare probabilmente il defunto
invocando la divinità a protezione.
I punici usavano anche delle tombe ipogeiche con Dromos (corridoio) di accesso o a
pozzo verticale.
In periodo tardo i cartaginesi abbandonarono la pratica dell’incenerazione ed
iniziarono a deporre il defunto su un giaciglio funebre accompagnato da scarabei con
chiaro intento apotropaico, (oggetti che scacciano i cattivi spiriti).
Nonostante la dominazione assoluta punica, si ebbero contatti commerciali con greci
ed etruschi attirati dalle materie prime che le miniere offrivano; i rapporti furono senza
dubbio frequenti, come i ritrovamenti di manufatti stanno pian piano dimostrando.
Oltre ai pochi scambi con i popoli anzi accennati, la Sardegna rimase saldamente legata
alla potenza dominatrice, che tendeva a cancellare ogni tradizione passata.
A quel periodo risalgono, forse, le più grandi distruzioni del patrimonio archeologico
esistente, specialmente nel Campidano.
Opere megalitiche, tombe dei giganti, nuraghi, vennero sistematicamente distrutti, per
poter sfruttare le pietre che li componevano e costruire fortificazioni e altre opere
militari.
In molti luoghi, i cartaginesi preferirono insediarsi per convenienza, su costruzioni
esistenti, così alcuni siti sono stati salvati per puro caso e ci sono giunti con
sovrapposizione al Neolitico/Nuragico preesistente.
Con i cartaginesi iniziò anche un urbanesimo antesignano, crescendo le città a
dismisura a scapito delle campagne dove regnava il lavoro coatto e, da dove, liberi
cittadini scappavano per cercare gli agi urbani.
In due secoli e mezzo abbondanti, i punici riuscirono a cancellare una nazione, a
distruggere una economia, sebbene primitiva, a spogliare l’isola del patrimonio
boschivo e a oscurare lingua e tradizioni millenarie.
Si può affermare che iniziò nel 535 a.C., con la venuta dei punici, il fenomeno di
impoverimento intellettuale-culturale e autoctono e si interruppe il processo in corso
dal Neolitico, di unità etnica e di comune cultura che favorirono la nascita delle culture
di Bonu Ighinu, S. Michele, Abealzu Filigosa, M. Claro, Bonnannaro e nuragica, nate
con l’apporto di elementi esterni che però contribuirono a consolidarle.
Un riconoscimento è dovuto a quelle genti che indomite e fiere, continuarono a vivere
libere tra i monti conservando le antiche tradizioni culturali e religiose e che per secoli
saranno costrette a vivere emarginate e perseguitate da tutti i dominatori del momento.
Niente da rimproverare quindi, se tutt’oggi, a 135 anni dall’unità d’Italia, vengono
additate ancora come chiuse in se stesse e senza fiducia nelle istituzioni; pagano il
pedaggio per aver voluto vivere libere per difendere la loro “Sardità” e stanno pagando
anche per noi che abbiamo chinato il capo e ci siamo sottomessi a questo e a quel
padrone diventando stranieri nella nostra terra.
I sardi dei territori in mano ai cartaginesi erano costretti a pagare esose tasse o a
lavorare, forse in modo coatto, nelle miniere pubbliche od in terreni demaniali per
produrre ricchezza da portare a Cartagine.
Nei casi più fortunati il loro lavoro era dovuto ai proprietari terrieri, rigorosamente
punici, in cambio di pochi soldi e di qualche libagione.
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Fu così che nel 368 a.C. il popolo si ribellò, subendo dure repressioni e punizioni
esemplari che fiaccarono ogni desiderio di protesta.
Nel 348 i cartaginesi controllavano la situazione così saldamente che intimarono ai
romani di commerciare con la Sardegna solo in presenza di Araldi e Scribi punici.
I sardi liberi, abbandonati, i fortilizi di Barumini, Orrobiu, Genna Maria, rivelatisi
insufficienti a fermare gli eserciti mercenari punici, si trincerarono oltre le terre
controllate dai cartaginesi costruendo fortificazioni rozze ma adatte allo scopo.
Una di queste fortificazioni è ancora visibile nell’altopiano di Campeda contrapposta ad
una più rifinita costruzione di confine punica.
Quando i cartaginesi conquistavano la Sardegna nel 509, a Roma si passava alla
repubblica dopo aver scacciato l’ultimo re, Tarquino il superbo.
I romani tentarono di espandere il loro territorio nell’Italia meridionale ed entrarono
in contatto con le città della Magna Grecia che gli avevano chiesto aiuto per difendersi
dalla minaccia dei sanniti e degli altri popoli appenninici già nemici dei romani.
Cartagine e Roma non avevano avuto fino ad allora motivi di contrasto, anzi i rapporti
potevano definirsi ottimi non essendoci interessi contrapposti economici o politici.
Con i nuovi territori meridionali ed il controllo delle città marinare di Napoli e Taranto,
Roma iniziò a guardare verso il mare per sviluppare la propria economia.
L’intesa tra le due potenze si andò così deteriorando, anche perché i punici non
vedevano di buon occhio la protezione romana dei loro nemici tradizionali greci.
Nel 264 a.C. i mamertini, mercenari campani al servizio del tiranno di Siracusa Gerone
che intendeva riunificare i greci di Sicilia, si ribellarono e occuparono la città di
Messina da dove imponevano dazi di passaggio alle navi in transito nello stretto e
temendo l’attacco di Gerone chiesero aiuto ai cartaginesi che però subito dopo, per
varie ragioni, furono costretti a lasciare la città.
Temendo un ritorno dei punici, i mamertini chiesero ai romani di intervenire e Gerone
stesso si mise al loro servizio temendo di perdere il potere.
Scoppiò una lunga guerra romano/punica che si combatté per terra e per mare dove i
romani, grazie ai consigli degli esperti marinai greci, dotando le navi di rostri e ponti
mobili per l’abbordaggio chiamati corvi, ottennero lusinghieri successi.
La guerra interessò anche la Sardegna ed i latini sconfissero i punici in una battaglia
navale nei pressi di Olbia, sbarcando anche a Sulci occupandola.
Dopo la nota sconfitta di Attilio Regolo i romani batterono la flotta punica nella
battaglia delle Egadi nel 241 a.C., la Sicilia diventò così la prima provincia romana.
Nel 240, i mercenari cartaginesi di stanza in Sardegna si ribellarono per ottenere
emolumenti arretrati e imperversarono nel territorio compiendo ogni sorta di misfatto;
la reazione della popolazione sardo-punica li costrinse, nel 238 a.C., a chiedere aiuto ai
romani che con il console Tiberio Sempronio Gracco occuparono l’isola senza
incontrare resistenza alcuna.
Il colle e la necropoli di Tuvixeddu.
La sua posizione prospiciente lo stagno di Santa Gilla e a lato dell’insediamento punico
poi romano con centro in piazza del Carmine, lo fece preferire quale luogo sacro dove
poter conservare i corpi dei defunti.
Assunse così la dignità di necropoli, venerato quanto le stesse tombe che custodiva,
terreno sacro che aveva l’alto compito di conservare i resti umani e prepararci alla
seconda vita ultraterrena.
Già con i Fenici il colle doveva ricoprire una qualche funzione religiosa, ma risalente a
quel periodo IX sec. - VI sec. a.C. nulla è emerso; furono quindi i Cartaginesi a dare la
destinazione funeraria che poi i Romani continuarono.
Le tombe che oggi attirano l’occhio dell’occasionale visitatore, furono scavate con cura
artigianale e presentano l’andamento orizzontale, quelle ricavate sui costoni rocciosi e,
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l’andamento verticale, quelle in pianura, l’ingresso preceduto da un breve corridoio
portava alla cella vera e propria dove veniva deposto il defunto con i corredi rituali.
Nelle tombe verticali un profondo porro a pianta quadrata e rettangolare precedeva la
camera sepolcrale il cui ingresso, come nel tipo precedente veniva chiuso da una lastra
di pietra, per agevolare il lavoro dei necropoli su due lati del porro venivano ricavati
Panoramica della necropoli di Tuvixeddu (Cagliari)
degli incavi chiamati “pedarole“ che consentivano l’appiglio ai piedi con le gambe
divaricate e la discesa senza uso di scale.
I Punici usavano in un primo tempo, il rito della incinerazione che veniva effettuato
direttamente nella tomba, nella quale veniva acceso il fuoco dopo aver deposto il
defunto, e in questo caso viene chiamata “busta“; se la cremazione avveniva in altro
luogo le ossa venivano normalmente conservate in urne e poi deposte nella tomba.
In epoca più tarda i Cartaginesi abbandonarono la pratica dell’incinerazione e usarono
la deposizione primaria, con il corpo deposto integro.
La tomba più importante della necropoli, quella dell’Ureo oggi sigillata del tipo
verticale, ci ha restituito degli affreschi parietali tra i quali il mitico serpente alato
egizio che dà il nome alla tomba, maschere gorgoniche (donne che pietrificavano tutti
coloro che osavano guardarle), e magnifiche palmette stilizzate.
Nel luglio 1997, per un caso fortuito, mentre venivano rimossi dei detriti e delle
sterpaglie sul crinale guardante via Sant'Avendrace sono venuti alla luce dei reperti
posti evidentemente in posizione superficiale, dopo un più attento esame del sito sono
state scoperte ben 32 tombe molte delle quali sovrapposte ad altre, che vanno dal
quinto secolo al primo secolo a.C.
Le tombe puniche hanno restituito un grande numero di reperti, oltre a diversi tipi di
deposizione, quella detta busta, in urna in anfora; nei primi due casi si tratta di corpi
incinerati il loco (busta) o fuori sito ed i resti raccolti in urne.
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In alcuni casi, per lo più defunti in giovane età, una capiente anfora serviva a
contenerne il corpo che poi veniva deposto in una fossa (Enchytrismos).
Sullo stesso sito sono emerse anche delle tombe a fossa romane risalenti al II - I secolo
a.C., sovrapposte o affiancate a quelle puniche di cui forse se ne ignorava la presenza, al
momento dello scavo, ma che veniva riconosciuta solamente la sacralità del luogo.
Con i Punici iniziò lo sfruttamento del colle anche come miniera di materiale da
costruzione e come riserva idrica con l’uso di numerose cavità presenti o con la
costruzione di nuove.
Nel periodo romano le pendici del colle furono sede di tombe (Atilla Pomptilla)
monumentali o di colombari (camere funerarie scavate nella roccia con nicchie sulle
pareti alte a contenere urne con ceneri dei defunti), mentre la zona pianeggiante sulla
sommità più usato per le sepolture in tombe a fossa.
Anche i Romani usarono la collina per le loro esigenze idriche e oltre a sfruttare le
cavità costruirono scavandolo nella roccia, un canale oggi ancora evidente, che aveva il
compito di rifornire l’acqua, proveniente da Villamassargia, alla città tramite stazioni di
decantazione, dislocate lungo il percorso e grandi cavità per la conservazione e l’uso del
colle fu abbandonato gradualmente e i tombaroli iniziarono, la loro scellerata opera
distruttrice fin quando le tombe più accessibili furono completamente depredate.
Intanto con l’arrivo dei Vandali e dei Bizantini la città di Caralis perse il ricordo di quel
luogo, poiché altri sistemi in tumulazione entrarono in uso, ma con l’abbandono della
città, a causa delle incursioni musulmane a partire dal IX sec. d.C. e la costruzione della
città di Santa Igia il colle divenne di nuovo importante in quanto ai suoi piedi si
sviluppò il borgo di Sant'Avendrace abitato da pescatori e da lavoratori che non
potevano risiedere entro le mura della città giudicale.
Nel 1258 Santa Igia fu distrutta ed il colle, impotente, fu costretto ad assistere alla
tragedia dei cittadini che cercavano scampo con la fuga. A metà Ottocento, l’uomo con
la sua cecità, prescindendo dagli interessi storici e artistici che ne fanno il primo del
regno animale disinteressato dal valore della necropoli e del suo immenso patrimonio,
decise di “demolirla” poiché le pietre ed il cemento avevano in quel momento un valore
talmente alto che il sacrificio di quei ruderi era una posta, forse anche di poco conto,
rispetto al lucro che si sarebbe ricavato.
Il colle fu così perforato e smembrato e le cavità furono fatte saltare, le sue viscere
traforate da immense gallerie; l’aspetto originale fu così per sempre cancellato con la
creazione di valli artificiali e profonde voragini dalle quali le migliaia di metri cubi di
pietrame asportato andavano ad ingrossare le riserve di materie di materie prime
pronte ad essere trasformate in cemento ed in tintinnanti soldoni.
La Via Sant'Avendrace che intanto diventava un quartiere e le case ai piedi del colle
incorporarono le antiche tombe romane che diventarono magazzini, cantine, depositi
per attrezzi.
Nel 1822 Alberto Della Marmora salvò per caso la Grotta Della Vipera, ormai minata e
pronta a saltare per fare posto alla costruenda Carlo Felice, tra gli sguardi atonici degli
ingegneri e delle maestranze che si chiedevano che importanza potesse avere quella
insignificante cavità dove i soliti buontemponi avevano scolpito delle frasi in latino e
greco.
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Necropoli di Tuvixeddu (Ca): Plastico che ricostruisce la tomba dell’Ureo
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