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RAZZA E STORIA
I due testi raccolti razza e storia e razza e cultura furono chiesti dall’Unesco. Il primo fu scritto
nel 1949, per lottare contro pregiudizi sociali; Onu cercava radunare dati scientifici con due dichiarazioni di uomini di scienza: la prima legata a scienze sociali, di Levis Strauss ; la seconda
ad antropologi biologi e genetisti per dimostrare infondatezza razzismo su basi scientifiche.
Il secondo testo, sempre chiesto dall’Unesco, 1971, sempre relativamente del razzismo: era
l’anno internazionale per lotta contro il razzismo. Le due relazioni sembrarono contraddirsi: razza e cultura sembrava contro razza e storia, mentre invece Levis Strauss prende atto che nel 1971
non si era arrivati a nulla. Nel ’49 l’epoca, la storia, era piena di ideali e apriva speranze per il futuro, quella del ’71 appariva limitata nei suoi obbiettivi.
Razza e storia si rifà a Gobineau considerato il padre delle teorie razziste. Per Gobineau le grandi
razze primitive che formavano umanità agli inizi bianca gialla e nera non erano tanto ineguali per
valore assoluto ma diverse nelle particolari attitudini: x lui la tara della degenerazione era collegata al concetto di meticciato ed era destinata a colpire sulla lunga distanza tutta l’umanità.
Levis Strauss si pone una serie di domande sotto forma di contestazioni:
Prima contestazione: non si può fare semplice equivalenza tra razza e cultura perché le culture
umane sono più numerose delle razze e perché due culture elaborate da popoli della stessa razza
possono essere addirittura più distanti rispetto a due culture di popoli appartenenti a due diverse
razze.
Seconda contestazione: Levis Strauss si chiede se la diversità delle culture costituisce vantaggio
o inconveniente.
Terza contestazione: se non si vuole che l’uomo della strada si pone delle diversità nel valutare
una persona giudicandola sulla base delle caratteristiche fisiche, non dovrebbe operare neanche
un giudizio di valore sulle diversità culturali che sono state prodotte.
Parla in generale della diversità delle culture.
Stabilire un inventario delle culture dell’umanità: è cosa difficile perché bisogna avere il parametro dello spazio e del tempo e s’impone la prima constatazione che in effetti che non le conosciamo tutte e soprattutto quelle perse indietro nel tempo. In tutte le società agiscono due forze in
direzioni opposte: l’una tende al mantenimento del particolarismo; l’altra spinge verso la convergenza.
Esempio delle lingue: alcune hanno la stessa origine e che tendono a differenziarsi (x es: neolatine). E poi lingue di origini diverse in territori contigui, tendono a somigliarsi (x es: russo caratteristiche ugrofinniche e turche).
Anche il concetto di diversità è concetto relativo perché ogni cultura potrebbe dirsi davvero totalmente diversa se fosse stata elaborata in totale solitudine e in totale isolamento geografico ignorando completamente le altre culture. Ma in effetti non è mai stato così: ciascuna cultura interagisce con le altre.
Etnocentrismo
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L’uomo raramente vede la cultura per quello che è e cioè un fenomeno naturale risultante dai
rapporti diretti e indiretti tra le società. Il motivo di questa mancata obbiettività è legato al fatto
che singolo uomo come singolo popolo valuta l'altro partendo dalle proprio esperienze.
Gli antichi greci indicavano tutto ciò che non era greco come barbaro. La civiltà occidentale ha
usato il termine selvaggio con la stessa accezione. Barbaro e selvaggio hanno stessa radice: qualcosa che non appartiene alla civiltà umana. Levis Strauss confuta questo tipo di atteggiamento
proprio perché è limitato. Ogni civiltà presuppone essere la migliore e ritiene che tutte le altre civiltà siano tanto peggiori quanto più differiscono dalla propria. Barbaro è l’uomo che crede nella
barbarie. Grandi sistemi religioso e filosofici contestato questo tipo di accezione, ma non basta a
rilevare che vi sono diversità, quantomeno fisiche che balzano agli occhi. Il difetto di religioni e
filosofie è l’esser rimasto su piano astratto in quello che definisce falso evoluzionismo. Un
tentativo di sopprimere la diversità delle culture pur fingendo di riconoscerle.
Si realizza tutto ciò perché si considerano i diversi stati in cui si trovano le società umane come
tappe di un unico svolgimento che muovendo da uno stesso punto le deve far convergere verso la
stessa meta. Ma non è così, perché significa non considerare le grandi variazioni che si verificano sul campo.
Levis Strauss dice che evoluzionismo biologico è una cosa e lo pseudo evoluzionismo ne è
tutt’altra. Sul dato biologico si può fare una analisi scientifica nelle sue singole tappe; quando
invece si va sulla cultura la cosa si complica perché non abbiamo più a disposizione qualcosa su
cui operare scientificamente (DNA cavallo genera cavallo) ma oggetti materiali e tuttalpiù stabilire lo strato in cui questo oggetto è stato trovato (un’ascia non genera un’ascia; né un’ascia diversa può essere stata generata da un’ascia primordiale). Non si possono mettere su stesso piano
fenomeni biologici e culturali.
Culture arcaiche e culture primitive
Ogni società può suddividere le culture in tre tipologie
1) Contemporanee ma situate in un altro punto del globo
2) Quelle che si sono manifestate nello stesso spazio ma che le hanno precedute nel tempo
3) Quelle che sono esistite sia in un tempo anteriore che in uno spazio diverso
Per l’ultimo gruppo soprattutto se si tratta di culture prive di scrittura e architettura, non possiamo avanzare alcuna ipotesi concreta è vero tutto e il contrario di tutto.
Per un sociologo è più facile analizzare quelle del primo gruppo. Qui si scatena il falso evoluzionismo perché è chiaro che l’uomo occidentale si ritiene di gran lunga superiore rispetto alle tribù
arcaiche dell’Australia o della nuova Guinea ed è portato a ritenere che esse si trovano nella fase
in cui lui si trovava milioni di anni fa. Presupposto errato perché noi conosciamo pochissimo anche della funzione degli strumenti per esempio antichi: non riusciamo a capire a cosa servissero
una serie di strumenti che utilizzavano quindi come possiamo pretendere di capire loro usanze e
tradizioni e siamo portati a valutare il loro livello sulla base del nostro attuale livello. Non esistono popoli bambini, tutti sono adulti, anche quelli che hanno tenuto il diario della loro infanzia
e della loro adolescenza.
Levis Strauss ribalta il concetto di idea del progresso: fino agli inizi del ‘900 usavano, per rappresentarsi l’idea del progresso come criterio puramente evolutivo in verticale, schemi di meravigliosa semplicità.
Levis Strauss contesta questo concetto definendolo semplicistico perché
1) il progresso non è né necessario né continuo ma procede a balzi, per mutazioni;
2) bisogna cancellare il concetto di cumulazione del sapere (es: umanità in progresso non
assomiglia a persona che sale le scale, ma paragona l’umanità in progresso a un giocatore
che gioca contemporaneamente su tavoli diversi e quindi ciò che guadagna su un tavolo
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spesso lo perde su un altro e solo raramente l storia è cumulativa: i computi si addizionano per dare una risoluzione positiva)
(esempio di storia cumulativa) Che la storia cumulativa non sia il privilegio di una civiltà è dimostrato dall’America: piccoli gruppi di nomadi passano lo stretto di Bering nelle ultime glaciazioni; in 25mila anni questi uomini compiono enormi progressi; esplorano un ambiente nuovo;
addomesticano specie animali e vegetali; scoprono proprietà positive della manioca conosciuta
solo come veleno; arrivano ad altissimo grado di perfezionamento in lavorazione metalli preziosi, scoprono patata gomma tabacco coca quest’ultima alla base dell’anestesia che diventano i
quattro pilastri della cultura occidentale; lo zero, base dell’aritmetica, era conosciuto e usato dai
Maia almeno 500 anni prima della sua scoperta da parte degli scienziati indiani da cui l’Europa
l’ha ricevuto tramite gli arabi. Sistema politico e il loro calendario più evoluti rispetto al vecchio
continente.
Distinzione tra storia stazionaria e storia cumulativa
In generale gli occidentali considerano storia stazionaria quella di culture lontane dalla nostra
perché la loro linea di sviluppo non è misurabile nei termini del nostro sistema di riferimento. La
contrapposizione tra culture progressive e culture inerti risulta da una differenza di focalizzazione. Per dimostrarne il relativismo Levis Strauss paragona l’osservatore occidentale al viaggiatore
seduto al finestrino di un treno. Noi siamo come quel viaggiatore ci spostiamo con quel sistema
di riferimenti. Di conseguenza possiamo accumulare molte più informazioni su un treno che si
muove alla nostra stessa velocità e direzione rispetto a quel treno che giunge in direzione opposta
o che ci sembra più corto perché lo vediamo in lontananza e in un’altra direzione. Prima di valutare qualsiasi altro tipo di cultura dobbiamo chiederci se non lo consideriamo poco interessante
perché non ci assomiglia. È chiaro che consideriamo la civiltà occidentale nettamente superiore a
tutte le altre perché è quella che è in grado di dare all’uomo energia e mezzi sempre più potenti.
Ma se il criterio adottato per stabilire la superiorità fosse stato un altro (capacità di adattamenti a
luoghi ostili ecc), una serie di altri popoli che consideriamo inferiori sarebbero invece superiori.
Il problema è che anche le altre società finiscono con il riconoscere la superiorità di una di esse
che è quella occidentale e cerca di adottare le sue tecniche e il suo genere di vita e anche
l’abbigliamento. I paesi in via si sviluppo, in sede di riunioni internazionali, protestano non già
per l’occidentalizzazione, ma per la mancanza di mezzi per raggiungere tale scopo (antesignano
della globalizzazione). Da un secolo si verifica ciò che mai prima s’era avuto ossia la nascita di
una civiltà mondiale in cui una delle tante civiltà, quella occidentale, tende a soppiantare tutte le
altre. Non è prevedibile intuire ciò che accadrà ma che comunque una cosa è cheta: la civiltà occidentale ha un’enorme responsabilità perché ha stabilito soldati , missionari, banche nel mondo
intero e quindi ha sconvolto il modo tradizionale di vivere degli altri popoli sia imponendo il
proprio, sia imponendo condizioni che generano il crollo delle strutture preesistenti senza sostituirle con altre. C’è disuguaglianza di forze che non si prevede dove porterà: le società deboli
non accetteranno di scomparire senza combattere.
Contesta che tutte le gradi scoperte siano dovute unicamente al caso. Sicuramente il caso interviene ma accanto a ciò c’è sicuramente il progresso che non è processo continuo, ma che è dato
dall’accumulo di una serie di coincidenze fortunate: nell’intera storia dell’umanità si sono verificare soltanto due grandi rivoluzioni del sapere, la rivoluzione neolitica (agricolturavita stanziale) e la rivoluzione industriale. È stato per caso che rivoluzione industriale sia nata per prima in
Europa. Questa presunta superiorità dell’occidente è del tutto casuale. Tutto quello che acquistiamo in un certo senso lo perdiamo in un altro. Come il giocatore non gioca mai da solo alla
roulette, così nessuna cultura è sola e sono proprio i rapporti esistenti tra culture che permettono
di edificare serie cumulative. Quel che vale per il tempo lo è altrettanto per lo spazio. L’unica tara che possa affliggere un gruppo umano è quello di essere solo. Il vero contributo delle culture
non consiste nell’elenco delle loro invenzioni particolari, ma nello scarto differenziale che esse
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presentano tra di loro. In sintesi la civiltà mondiale non può essere altro che la coalizione di culture ognuna delle quali conservi la propria originalità.
Le grandi rivoluzioni scelte come esempio neolitica e industriale, sono state accompagnate anche
da differenziazioni di natura storico e sociale. La neolitica porta alla nascita delle città, degli stati, delle caste e delle classi. L’industriale porta alla comparsa del proletariato e allo sfruttamento
del lavoro umano. Di fatto il progresso tecnico ha avuto, come correlativo storico, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. In entrambi i casi tutti hanno bisogno di tutti. Levis Strauss auspica che
vi sia integrazione tra progresso, miglioramento sociale e graduale accesso dei popoli colonizzati
all’autonomia. Ma potrebbe anche succedere, come soluzione di questo nuovo aspetto, di regimi
politici sociali e antagonisti. Si può ritenere che una diversificazione, ogni volta diversa, permette di mantenere indefinitivamente, lo stato di squilibrio da cui dipende la sopravvivenza biologica e culturale dell’umanità. Comunque sia resta una contraddizione di fondo: per progredire è
necessario che gli uomini collaborino, ma nel corso della collaborazione è inevitabile che la diversità tenda a fondersi in unità. Bisognerebbe cercare di mantenere un equilibrio tra un progresso generalmente condiviso e la diversità e peculiarità delle singole culture e che in questo le istituzioni internazionali hanno compito immenso e pesanti responsabilità.
La tolleranza non è una posizione contemplativa, che dispensa indulgenza a quel che fu o a quel
che è, ma un atteggiamento dinamico che consiste nel prevedere, nel capire, nel promuovere ciò
che vuol essere.
RAZZA E CULTURA
Lévi Strauss torna sul concetto di razza dicendo che è impossibile definirlo per un etnologo dal
momento che perfino gli specialisti di antropologia fisica, che ne discutono da due secoli, non
riescono a intendersi. Al di là delle caratteristiche fisiche più evidenti ci possono essere variazioni che interessano i caratteri non immediatamente percettibili ai sensi. Su tutti interviene il concetto di adattamento all’ambiente, che è un elemento fondamentale, così come anche i condizionamenti sociali e culturali. Infatti gli infanti africani e nord americani differiscono tra di loro
molto di più di quanto non lo siano i nord americani, bianchi o neri, fra di loro: infatti i neonati
americani, qualunque sia la loro origine razziale, sono allevati nello stesso modo. La diversità
delle culture non è legata a una diversità razziale. Le culture si riconoscono tra loro diverse e finché questo accade possono sia ignorarsi a vicenda, sia desiderare il dialogo. In entrambi i casi
possono minacciarsi o anche attaccarsi, ma senza compromettere realmente le loro rispettive esistenze. La situazione cambia totalmente quando alla nozione di una diversità, riconosciuta da entrambe le parti, subentra presso una delle due, il sentimento della sua superiorità, fondato su
rapporti di forza, e quando il riconoscimento positivo o negativo della diversità delle culture,
cede il passo all’affermazione della loro disuguaglianza in termini di valore.
Il problema non è quello di un eventuale legame genetico di una popolazione e di un suo presunto progresso culturale: ancora una volta il discorso è su un piano economico. Se anche esiste
questa superiorità relativa dell’occidente che si è affermata in un tempo molto breve non si può
dedurre che questa sia fondamentale o definitiva. La storia non va a senso unico.
L’occidente si è reso conto che anche i suoi progressi hanno comportato delle enormi contropartite. (es.: giocatore su diversi tavoli, umanità che sale la scala).
Anche i biologi hanno dovuto rivedere il loro concetto di criterio evolutivo perché ci sono una
serie di variabili che sono estremamente presenti. Adesso si fa strada la speranza di conciliare la
diversità delle culture con l’affermazione della loro disuguaglianza. Diversità non porti avanti
analisi di valore; disuguaglianza è in termini di valore: migliore e peggiore.
Anche i biologia il concetto di tragitto che dà l’idea di un concetto a senso unico: e poi l’albero si
è mutato in traliccio. (es.: viaggiatore sul treno)non si riesce ad avere valutazione oggettiva di
ciò che accade attorno a lui.
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Ogni membro di una cultura le è strettamente solidale tanto quanto il viaggiatore ideale lo è con
il suo stesso treno. Dalla nascita ci portiamo dietro patrimonio complesso di comportamento,
motivazioni, giudizi impliciti che ci impediscono spesso di percepire altri insiemi culturali se
non attraverso quello che appare differente rispetto al nostro sistema. Addirittura possiamo arrivare ad ignorare, a non vedere gli altri proprio perché sono diversi da noi.
Molte abitudini e usi di popoli cosiddetti primitivi, che sono apparsi per molto tempo indice di
arretratezza per l’uomo occidentale, hanno acquistato un senso diverso alla luce di una nuova
scienza, nata verso il 1950, la genetica delle popolazioni. Tale scienza si è indirizzata allo studio
di molte popolazione nell’america tropicale e in Nuova Guinea. Abbiamo la tendenza a considerare le cosiddette razze più lontane dalla nostra come le più omogenee. Per un bianco tutti i gialli
si somigliano, ma è vero anche l’inverso. La situazione reale è molto più complessa. Le unioni
umane si sono verificate attraverso una serie di condizioni che hanno portato a una evoluzione
molto più rapida fra gli uomini di quella che si osserva in genere tra le specie animali. Si deve
riconoscere che le condizioni di alcune popolazioni considerate molto arretrate erano invece le
più idonee a mantenere l’evoluzione umana e a conservarle il suo ritmo, mentre invece le enormi
società contemporanee, in cui gli scambi genetici avvengono in altro modo, tendono a frenare
l’evoluzione. Si è scoperto che presso i cosiddetti selvaggi la mortalità infantile e quella da malattie contagiose sono ben minori di quanto si possa credere (poligamia, aborto, infanticidio).
Nelle tribù selvagge anche contemporanee la carica di capo non è ereditaria: per esserlo bisognava possedere non solo determinate attitudini fisiche ma anche capacità di comando spirito di iniziativa, gusto per gli affari. Questo spiega perché soltanto il capo è poligamo (diffonde le sue
particolari virtù le trasmette ai più figli per creare una razza migliore). Vengono fortificate forme
di selezione naturale.
Così come, sempre nelle società primitive, ci sono riti e credenze che ci appaiono ridicoli, ma
che servono a mantenere il gruppo umano in equilibrio con l’ambiente naturale: il fatto che le
piane siano considerate esseri viventi e chiedere loro scusa… animali da cacciare nello stesso
modo risparmiando femmine e cuccioli; uomini animali e piante hanno patrimonio di vita comune: ogni abuso che si compie si traduce in danno di speranza di vita per l’uomo.
Con l’ingresso della genetica delle popolazioni si è verificato un altro rivolgimento: per tutto il
XIX secolo e la prima metà del XX ci si è chiesti se la razza influiva sulla cultura e, se sì, in che
modo. Adesso ci accorgiamo che le cose si svolgono in seno esattamente inverso. Il ritmo e
l’orientamento dell’evoluzione biologica dell’uomo sono determinate per lo più dalle forme di
cultura adottate nei vari luoghi. Non è la razza che influisce sulla cultura, ma la cultura che influisce sulla razza. È la cultura di un gruppo che determina i limiti geografica che esso si assegna
o subisce; i rapporti di amicizia e di ostilità che mantiene con i popoli vicini e anche
l’importanza degli scambi genetici che si potranno stringere grazie ai matrimoni misti, permessi,
favoriti o vietati.
Quanto i genetisti sostengono al livello del genoma individuale lo è anche per il genoma di una
popolazione che, grazia alla combinazione fra vari patrimoni genetici, deve stabilire un equilibrio ottimale capace di migliorarne le probabilità di sopravvivenza. In questo senso si può dire
che la ricombinazione genetica nella storia delle popolazioni esercita una funzione comparabile a
quella svolta dalla ricombinazione culturale nell’evoluzione dei modi di vivere, delle tecniche,
delle conoscenze e delle credenze la cui varia ripartizione definisce una società. Ci sono anche
molte differenze. Innanzitutto i patrimoni culturali evolvono molto più rapidamente dei patrimoni genetici: tra la cultura dei nostri bisnonni e la nostre c’è un abisso. Poi il numero delle culture
che esistono sulla terra sorpassa di gran lunga delle razze: parecchie migliaia contro qualche decina. Proprio questi enormi scarti confutano i teorici che sostengono che sia il materiale genetico
a pilotare la storia: infatti questa cambia molo più in fretta di quello e per vie molto più diversificate.
Soltanto da dieci anni, dal 1960, abbiamo incominciato a capire che si discuteva del rapporto tra
evoluzione organica ed evoluzione culturale in termini metafisici. L’evoluzione umana non è un
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sottoprodotto dell’evoluzione biologica ma ne è comunque condizionata. È oggi possibile la sintesi tra questi due atteggiamenti tradizionali. In effetti la lotta al razzismo è stata poco efficace
sul piano umano perché è probabile che le differenze razziali continueranno a servire da pretesto
alla crescente difficoltà di vivere insieme percepita a livello inconscio da una umanità in preda
all’esplosione demografica che sembra odiare se stessa come se una prescienza segreta
l’avvertisse che sta diventando troppo numerosa perché tutti possano fruire liberamente dei beni
essenziali: acqua, spazio, aria non contaminata. In effetti non si vedono vere soluzioni al problema razziale. La tolleranza reciproca presuppone due condizioni che le società contemporanee sono lontanissime dall’avere realizzato: un’uguaglianza relativa da una parte, una distanza fisica
sufficiente, dall’altra. Se una specie cresce in maniera esponenziale, quello che la specie ritiene
essere un proprio successo, alla fine diviene disastroso perché non ci sono le risorse sufficienti
per nutrire tutta questa popolazione. L’etnologo si rende conto che il problema razziale è soltanto
una parte di un problema molto più vasto e cioè quello del rapporto tra l’uomo e le altre specie
viventi. Non si può risolvere il problema che l’uomo abbia rispetto per un suo simile se non si ha
rispetto per tutte le forme di vita. L’umanesimo occidentale, isolando l’uomo dal resto della creazione, l’ha privato in un baluardo di protezione, perché gli ha fatto dimenticare che se l’uomo è
rispettabile lo è prima come essere vivente che come signore e padrone della creazione, Sotto
questo aspetto l’estremo oriente buddista è di gran lunga superiore all’occidente. C’è altro elemento che spinge l’etnologo a pensare che gli uomini possano vivere in armonia tra loro: il progresso si è realizzato nel corso dei secoli anche grazie alla separazione dei diversi gruppi umani.
L’abbattimento di queste barriere, dato dagli sconvolgimenti della civiltà industriale ha fatto sì
che venisse meno la possibilità di creare nuove esperienze culturalila massificazione culturale
La creazione di una civiltà mondiale ha distrutto i vecchi particolarismi che avevano creato valori estetici e spirituali che noi chiudiamo in musei e biblioteche perché non siamo più in grado di
produrli autonomamente. Le grandi epoche creatrici furono quelle in cui la comunicazione era
sufficiente perché corrispondenti lontani si stimolassero senza tuttavia essere tanto frequente e
rapida da annullare o livellare le diversità. L’umanità è esposta a un doppio pericolo: quello di
autodistruggersi. Il ritorno al passato è impossibile ma anche la via su cui si è avviata accumula
tensioni tali che l’odio razziale è solo una minima parte dell’intolleranza esacerbata di domani.
Dovrebbe cambiare tutto il corso della storia.
SECONDO CAPITOLO
L’etnologo davanti alla condizione umana
L’etnologia elegge l’uomo come oggetto di studio ma differisce dalle altre scienze umane in
quanto mira a esaminare il suo obbiettivo nelle sue manifestazioni più varie. Perciò è difficile definire il concetto di condizione umana.
Nel passaggio dei secoli gli etnologi si sono sforzati di conciliare l’unità del loro oggetto
(l’uomo) con la varietà e le differenziazioni delle sue manifestazioni. Per conciliare questi due
elementi è stato necessario sostituire al concetto di civiltà, che connota un insieme di attitudini
generali, universali e trasmissibili i concetto di cultura, inteso come singoli stili di vita non trasmissibili, individuabili sottoforma di produzione complete come tecniche, usanze, costumi, istituzioni.
Il concetto di cultura pone due problemi. Il primo se la cultura al singolare è attributo specifico
della condizione umana, quali sono i suoi i suoi caratteri universali. Se invece si parla di culture
come prodotti dei 4-5000 tipi di società che sono esistiti e che esistono sulla terra, queste forme
sono tutti equivalenti o passibili di giudizio di valore.
Se la intendiamo al singolare, riprendendo la definizione dell’etnologo americano Kroeber, la
cultura è un ordine specifico distinto dalla vita, come la vita distinta dalla materia inanimata. Si-
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mile a una scogliera corallina (cristallina) la cultura può essere concepita come un insieme di
tecniche e di idee generate da individui, ma più duratura di ognuno di essi. Se invece la si intende al plurale, allora si deve introdurre il concetto di relativismo culturale. Non si possono introdurre gerarchie di valore, ma rifarsi a tre punti base:
1) il progresso è incontestabile se si guarda il progresso dell’umanità dall’alto, ma si manifesta soltanto in alcuni settore e, anche qui, in modo discontinuo;
2) se guarda alle società preindustriali, l’etnologia non è in grado di ordinarle tutte di metterle tutte su una scala comune;
3) l’etnologia non è in grado di dare un giudizio intellettuale o culturale sui tre tipi di organizzazione sociale: i criteri morali sono sempre funzione della società in cui sono stati
formulati.
Anche il relativismo culturale, tuttavia, è in crisi in base a una serie di scoperte verificatesi negli
ultimi anni e cioè che molte scoperte sono state fatte non dall’ homo sapiens, ma dall’homo erectus. Inoltre anche gli scimpanzé sanno fabbricare utensili primari e comunicare con linguaggio
gestuale. Cadono i due principi che uso di utensili e possesso del linguaggio costituissero i due
attributi specifici della condizione umana.
Si è costituita in Usa la sociobiologia che rifiuta il concetto stesso di condizione umana, dato che
il suo fondatore, Wilson, sostiene che la sociologia e le scienze umane sono le ultime branche
della biologia da integrare nella sintesi moderna. In sintesi la sociobiologia che tutti i comportamenti umani, al pari di quelli animali, sono riportabili all’adattamento inclusivo. I costumi, usanze, leggi, sono dispositivi che permettono agli individui di perpetuare meglio il loro patrimonio
genetico.
Levi Strauss sostiene che il pensiero sociobiologico racchiude una contraddizione fondamentale
perché da una parte pone tutto sotto l’adattamento inclusivo ma, dall’altra, lascia parta la possibilità di scelta: se c’è possibilità di scelta allora non è vero che il destino umano è retto solo dalla
eredità genetica: c’è quindi scarso rigore argomentativo. Ribadisce l’importanza della genetica
delle popolazioni.
Si ritorna quindi al concetto di cultura che no è in contraddizione con la natura ma in correlazione. Il primo problema che si pone è : esistono elementi universali della cultura? Giambattista vico ne distingueva tre: religione, matrimonio con divieto dell’incesto, sepoltura dei morti. Gli etnologi ne hanno aggiunti molti altri ma l’elenco non basta: bisogna scoprire le leggi d’ordine che
regolano queste istituzioni. Lévi Strauss preferisce soffermarsi sulla lingua, anche se le lingue
del mondo differiscono per fonetica e grammatica, obbediscono però tutte ad alcuni principi universali: in qualunque lingua la presenza di alcuni fonemi implica o esclude quella di altri; tutte
contrappongono i fonemi U e I al fonema A; molte lingue formano il plurale aggiungendo al singolare un morfema supplementare, ma nessuna fa l’inverso; se una lingua ha un termine per indicare il rosso, ha sicuramente i termini per indicare nero e bianco, chiaro e scuro; se c’è un termine per indicare quadrato, c’è sicuramente un termine per il cerchio.
Così accade anche per le regole di matrimonio.
Solo guardando le leggi d’ordine si può risolvere l’antinomia tra l’unicità della condizione umana e la molteplicità delle forme in cui l’osserviamo.
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