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La fine del XIX secolo
La Sinistra al potere
Nel 1861, anno della proclamazione del Regno d'Italia, il governo era stato assegnato alla Destra
storica, il gruppo di liberali moderati seguaci della politica di Cavour. La Destra aveva dovuto affrontare molti e difficili problemi e, in diversi campi, era riuscita a raggiungere importanti risultati.
Innanzitutto, con la conquista del Veneto e di Roma, aveva portato a termine l'unificazione territoriale, quindi, con l'abolizione delle dogane e la costruzione di una vasta rete ferroviaria, aveva
favorito il mercato nazionale, infine aveva raggiunto il pareggio del bilancio dello Stato che,
all'indomani dell'unità, era risultato in grave deficit. La modernizzazione del paese e il pareggio del
bilancio, però, erano costati grandi sacrifici alle classi più povere, alle quali erano state imposte
pesanti tasse. Negli anni 70, contro la politica della Destra, era aumentata l'ostilità di una parte
dell'opinione pubblica e, soprattutto, era cresciuta, all'interno del Parlamento, l'influenza della
Sinistra.
Alle elezioni del 1876 la Destra perse la maggioranza e il governo passò alla Sinistra.
Poiché il parlamento rappresentava solo un piccolo gruppo di ricchi, non esistevano profonde
differenze sociali tra la Destra e la Sinistra. Le differenze riguardavano piuttosto le tradizioni
culturali e ideali oltre che le scelte politiche: mentre gli uomini della Destra erano moderati e
conservatori, gli uomini della Sinistra erano ex mazziniani ed ex garibaldini; inoltre il progetto della
Sinistra prevedeva di rappresentare anche le classi meno privilegiate e di tener conto delle diverse
esigenze regionali. Gli uomini che guidarono l'Italia in questo periodo storico furono Agostino
Depretis e Francesco Crispi.
La politica di Agostino Depretis
Politica interna. Vennero avviate alcune importanti riforme: fu abolita la tassa sul macinato,
che aveva causato disagi e malcontento presso le classi più povere; l'istruzione elementare diventò
obbligatoria. Nel 1882 fu provata una legge elettorale che allargò il suffragio portando gli elettori
da 600.000 a 2 milioni.
Il trasformismo. Per poter realizzare il suo programma politico, Depretis aveva bisogno di
poter contare su una larga adesione parlamentare: cercò allora l'appoggio dei deputati ella Destra
e molti di loro, in cambio di favori e vantaggi personali, passarono nelle file della Sinistra. Questo
sistema politico venne chiamato "trasformismo".
II protezionismo. Per scoraggiare le importazioni e proteggere le merci azionali, verso la metà
degli anni 70 i molti Stati europei avevano introdotto pesanti tariffe doganali sui prodotti esteri
aumentandone così il prezzo. Anche l'Italia aderì alla litica protezionista, in questo modo venne
favorito lo sviluppo dell'industria: protetti dalle tariffe doganali, i prodotti delle industrie tessili e
metallurgiche del Nord invasero il mercato nazionale. La barriera doganale protesse anche i grandi
proprietari terrieri del sud dalla concorrenza del grano americano, che giungeva in Europa con le
navi a vapore, a costi inferiori perché coltivato con mezzi più moderni.
La politica estera. Nel 1881 la Francia, tradizionale alleata dell'Italia occupò militarmente la
Tunisia, sulla quale aveva puntato le sue mire coloniali il governo italiano, dato che in quella terra
erano emigrati molti italiani provenienti dalla Sicilia. L'occupazione della Tunisia provocò una
rottura nei rapporti tra Francia e Italia. Quest'ultima, per evitare il pericolo di un isolamento
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diplomatico, cercò nuove alleanze e, l'anno successivo, stipulò con la Germania e l'Austria un
accordo noto come la Triplice Alleanza: esso stabiliva che, nel caso di un attacco provocato
dalla Francia, le altre nazioni
sarebbero intervenute.
Il sistema delle alleanze in Europa
La rottura nei rapporti tra Francia e Italia, portò alla nascita di una inedita alleanza, la Triplice
Alleanza, formata da Italia, Austria (tradizionalmente avversarie) e Germania. La grande
competizione economica tra Germania e Gran Bretagna, portò quest'ultima ad unirsi alla
Francia, da sempre, sua nemica. Nasceva così la Triplice Intesa, un'alleanza a cui aderirono
Gran Bretagna, Francia e Russia.
La politica di Francesco Crispi
Politica interna. Crispi, eletto capo del governo alla morte di Depretis, avvenuta nel 1887,
portò a termine molti progetti del governo precedente e ne avviò di nuovi: va ricordata
specialmente la pubblicazione di un codice penale che conteneva importanti innovazioni tra cui
l'abolizione della pena di morte e il riconoscimento del diritto di sciopero. Attuò, nello stesso
tempo, una politica autoritaria, che si manifestò soprattutto in occasione di manifestazioni
popolari. Violenta fu, ad esempio la repressione dei cosiddetti Fasci siciliani, un movimento
popolare di protesta formatasi nel Mezzogiorno d'Italia, in seguito alla crisi agraria che aveva
colpito tutta l'Europa e che aveva causato gravi danni alle popolazioni più povere. Crispi rispose
con lo stato d'assedio, cioè con l'invio dell'esercito che sparò sui dimostranti. I capi furono
arrestati, i fasci furono sciolti e il Partito Socialista considerato l'ispiratore della protesta,
dichiarato fuorilegge.
Ai contadini in miseria non rimase che cercare scampo nell'emigrazione. I primi a partire furono gli
uomini e le donne delle regioni nordorientali, ma ben presto l'emigrazione meridionale assunse
dimensioni impressionanti. Nel primo decennio del XX secolo lasciarono la propria terra circa 8
milioni di italiani, di cui quasi 1'80% meridionali.
Politica estera. Crispi seguì una linea autoritaria anche in politica estera: rafforzò i legami con
Austria e Germania e lanciò l'Italia in un' impresa coloniale. Già nel 1885, pochi anni dopo essere
stata battuta sul tempo dalla Francia nella conquista della Tunisia, truppe italiane avevano
occupato il tratto di costa tra Massaua e Assab lungo il mar Rosso e da lì avevano iniziato a
penetrare in Etiopia (o Abissinia), un antico regno di tipo feudale, ma a Dogali avevano subito una
pesante sconfitta. Nel 1889, tuttavia, con l'imperatore dell'Etiopia era stato stipulato un trattato,
in base al quale veniva riconosciuto all'Italia il dominio sull'Eritrea, una regione costiera del mar
Rosso. Un controllo analogo fu ottenuto, nello stesso anno, su alcuni territori della Somalia. Sei
anni dopo Crispi, nel timore che l'Italia rimanesse esclusa dalla spartizione del mondo che in quegli
anni le grandi potenze stavano attuando, attaccò di nuovo l'Etiopia, ma anche questa volta
l'avventura si trasformò in un disastro. Ad Adua l'esercito etiope più numeroso, anche se privo di
armamento moderno, sbaragliò gli italiani, costringendoli a ritirarsi in Eritrea. Le perdite furono
altissime e l'opinione pubblica protestò. Crispi fu costretto a dimettersi.
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Impresa coloniale
Tra il 1870 e il 1890 si ebbe in Europa un lungo periodo di pace Questo permise alle potenze
europee di spingersi alla conquista del mondo: in pochi decenni esse si impadronirono di gran
parte delle terre emerse. Le ragioni della volontà di conquista erano diverse: in primo luogo
c'erano ragioni economiche (le regioni africane e asiatiche erano assai ricche di materie prime e
costituivano un ampio mercato per commerciare i prodotti industriali europei); c'erano anche
motivi politici: uno Stato che aveva vasti possedimenti coloniali si dimostrava uno Stato potente.
Infine intervennero ragioni culturali: si stava infatti diffondendo l'idea che la civiltà europea fosse
superiore alle altre e che gli europei dovessero imporre alle altre culture il loro modello di
sviluppo. Francia e Gran Bretagna furono i primi Stati ad intraprendere la politica colonialista; ad
essi presto si aggiunsero Germania, Italia, Russia e Belgio
La crisi di fine secolo
L'Italia si avvicinò alla fine del secolo in una situazione di grave crisi: una crisi politica
decretata dal fallimento della politica autoritaria del governo Crispi, una crisi sociale evidenziata
dal mancato miglioramento delle condizioni di vita degli operai, una crisi istituzionale rispecchiata
nella corruzione delle strutture statali.
In seguito all'insuccesso militare nelle colonie africane, Crispi usci dalla vita politica italiana.
In quella difficile congiuntura tornò al potere la Destra, guidata dal marchese siciliano
Antonio Di Rudinì, rappresentante della borghesia, in particolare dei piccoli e medi industriali
lombardi.
Il nuovo capo del governo attuò almeno inizialmente una politica moderata, effettuò alcune
riforme sociali ed in politica estera operò per un riavvicinamento alla Francia. Di Rudinì non
affrontò però le gravi tensioni sociali che agitavano il paese e che esplosero nella primavera del
1898 quando, a causa di un cattivo raccolto del grano ed alla difficoltà di importazione del
frumento americano, il prezzo del pane aumentò vertiginosamente provocando un forte disagio
per i più poveri. La popolazione insorse in varie regioni.
Il governo reagì con interventi autoritari e repressivi: fece chiudere tutti i giornali di
opposizione, condannò al carcere molti leader politici, tra cui il socialista Filippo Turati,
proclamò lo stato d'assedio nel capoluogo lombardo dove l'esercito uccise un centinaio di
manifestanti.
Lo sdegno suscitato da tali provvedimenti fu tale da costringere Di Rudinì a dimettersi ed il
governo venne affidato al generale Luigi Pelloux, il quale, ispirandosi ai metodi repressivi di
Crispi, propose alla Camera una serie di decreti (leggi eccezionali) volti a limitare la libertà di
stampa, di associazione e di sciopero.
I deputati dell'ala sinistra della Camera condussero una tenace opposizione e bloccarono
l'approvazione dei decreti; nel frattempo l'opinione pubblica, attraverso il direttore del Corriere
della Sera), denunciava il pericoloso tentativo di limitare le libertà politiche già sancite dallo
Statuto Albertino. Pelloux fu costretto a sciogliere il Parlamento e ad indire nuove elezioni che
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decretarono una clamorosa sconfitta per i sostenitori del governo, costretto alle dimissioni, e la
vittoria della Sinistra aperta alle idee riformatrici e liberali.
I contrasti sociali, alimentati da anni di sanguinosa reazione e di sovversione delle regole
istituzionali, riesplosero nell'estate del 1900 quando a Monza un giovane anarchico, Gaetano
Bresci, uccise il re Umberto I per vendicare le vittime del '98.
Con l'ascesa al trono del figlio Vittorio Emanuele III, più vicino agli ideali della sinistra, che affidò
l'incarico di formare il nuovo governo all'esponente più prestigioso della Sinistra, il giurista
Zanardelli, si aprì un periodo di relativa tregua sociale.
Mafia, camorra, ‘ndrangheta
Le difficili condizioni economiche e sociali delle regioni meridionali furono all'origine di un
fenomeno che tuttora condiziona la vita politica italiana: la mafia. Questa organizzazione
segreta, che cominciò ad esistere e ad operare all'indomani dell'unità, non va confusa con il
brigantaggio. Diversa è infatti la figura del mafioso rispetto a quella del brigante. Quest'ultimo
si nascondeva tra i boschi sulle montagne, lontano dai "luoghi di potere" e le sue azioni
avevano lo scopo di difendere gli interessi delle classi più povere. Viceversa il mafioso, spesso un
"uomo di rispetto", cioè una persona nota e importante, cercava la protezione di uomini
politici, ai quali in cambio procurava voti, e rappresentava uno strumento dei grandi proprietari
terrieri contro le ribellioni popolari. In anni di grandi tensioni tra i latifondisti e i braccianti e di
lotte, come quella dei Fasci siciliani, il mafioso interveniva in difesa della proprietà privata
intimorendo i contadini con le minacce e, quando queste non bastavano, con la lupara. Con il
tempo la mafia estese il suo controllo in moltissime attività economiche e politiche anche fuori
dalla Sicilia e ben presto diede inizio a quella catena di "delitti eccellenti" (uccisioni di
persone note) che si sarebbe rivelata interminabile. Venne ucciso anche l'ispettore di polizia italoamericano Joe Petrosino, giunto a Palermo per indagare sulla mafia che nel frattempo era
stata esportata, attraverso l'emigrazione, anche in America. Nel 1893 venne ucciso dalla mafia il
sindaco di Palermo Emanuele Notarbartolo.
Organizzazioni simili alla mafia si svilupparono anche in altre regioni dell'Italia meridionale: la
camorra nel Napoletano e la 'ndrangheta in Calabria.
Il governo Giolitti
Il protagonista del decisivo rinnovamento politico del nuovo secolo fu Giovanni Giolitti. Già
ministro degli Interni nel governo presieduto da Giuseppe Zanardelli (1901-1903), alla morte di
quest'ultimo assunse direttamente le funzioni di Primo ministro. Con questa carica dominò la
politica italiana per circa quindici anni.
Giolitti costruì larghe maggioranze parlamentari ottenendo più volte l'appoggio dei
socialisti in Parlamento, anche se questi non accettarono mai di partecipare direttamente al
governo, e perseguì una politica di forte mediazione tra gli interessi dei lavoratori e quelli
della borghesia.
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Le riforme sociali
Convinto che l'aumento dei salari dei lavoratori avrebbe fatto crescere i consumi interni e quindi
rilanciato l'economia italiana, lo statista pose fine alla repressione antioperaia, assunse una
posizione neutrale nei conflitti tra lavoratori e industriali, fece rispettare il diritto di sciopero.
Egli varò importanti riforme sociali: l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni a parziale
carico dei datori di lavoro, leggi a tutela del lavoro minorile e femminile, la municipalizzazione dei
servizi pubblici, l'istruzione elementare a carico dello Stato.
Nel 1906 nacque la Confederazione Generale del lavoro (CGDL), la prima associazione
sindacale italiana; Giolitti riconobbe al sindacato il ruolo di mediatore sociale e coinvolse le
rappresentanze dei lavoratori nel sistema politico, nel tentativo di avere meno opposizione
possibile nel paese.
• La crescita economica
La politica di Giolitti fu favorita dal notevole sviluppo economico che l'Italia conseguì tra il
1896 e il 1908, anni in cui il paese entrò nei nuovi settori della produzione industriale: l'industria
metallurgica registrò un incremento del 12,4%, l'industria meccanica del 12,2 % e l'industria
chimica del 13, 7%. Accanto alle nuove produzioni, si incrementarono attività economiche già
avviate: nell'industria tessile, che già vantava il primato europeo nell' esportazione della seta, si
potenziarono i cotonifici, mentre la produzione di energia idroelettrica aumentò da 100 a 4000
milioni di kwh.
Alla vigilia della prima guerra mondiale i prodotti industriali rappresentavano il 20% delle
esportazioni italiane.
Lo sviluppo industriale, però, rimase concentrato nel Nord-Ovest, nel triangolo MilanoTorino-Genova, e di conseguenza si accentuò lo squilibrio economico del paese.
Il Sud conservava una struttura arretrata: l'agricoltura latifondista era incapace di svilupparsi e di
reggere la concorrenza internazionale, impedendo qualsiasi progresso alle condizioni di vita dei
contadini.
Oltre al potenziamento del pubblico impiego, concepito anche come possibilità di lavoro per i
cittadini del Meridione, il governo prese provvedimenti speciali a favore del Sud, tra cui le leggi per
l'industrializzazione di Napoli e per la costruzione dell'acquedotto pugliese.
Tuttavia la disastrosa situazione economica e sociale del Mezzogiorno non migliorò, anzi finì per
aggravarsi anche a causa di due calamità naturali: l'eruzione del Vesuvio e il terremoto che colpì
Reggio Calabria e Messina.
In quegli anni milioni di contadini meridionali emigrarono oltreoceano.
La conquista della Libia
Giolitti operò un decisivo rinnovamento anche nella politica estera, benché non fosse il centro
della sua azione di governo.
Nel 1900-01, per rimanere sullo scenario mondiale, l'Italia partecipò ad una spedizione
internazionale organizzata in Cina per reprimere la rivolta dei boxers. In quegli stessi anni
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Giolitti, pur restando nella Triplice Alleanza, con un'intensa attività diplomatica strinse
accordi separati con la Francia, con l'Inghilterra e con la Russia per avere una legittimazione
all'espansione italiana in Africa.
Molte forze sociali sollecitavano la ripresa dell'espansione coloniale: i seguaci del
nazionalismo, un movimento politico e culturale che si andava diffondendo in particolare tra
la piccola e media borghesia, alcuni gruppi finanziari e banche che da tempo avevano cominciato
ad investire nei territori libici, infine una parte dei socialisti che vedeva nella Libia una terra capace
di assorbire parzialmente i disoccupati - emigranti italiani.
Nel settembre 1911, subito dopo che la Francia dette inizio alla conquista del Marocco, l'Italia,
prendendo a pretesto alcuni incidenti verificatisi a Tripoli ai danni di cittadini italiani, dichiarò
guerra alla Turchia (il territorio libico apparteneva infatti all'impero ottomano).
Mentre la conquista della fascia costiera fu rapida, l'occupazione dell'interno del paese si rivelò
molto più difficile sia per le difficoltà del terreno sia per le azioni di guerriglia organizzate dalla
popolazione asserragliata nelle oasi. TI governo italiano decise di spostare il conflitto nel mar Egeo:
occupò Rodi ed altre undici isole (il Dodecanneso) e tentò di penetrare nello Stretto dei
Dardanelli per minacciare Istanbul. La Turchia firmò così nel 1912 il trattato di pace in base al
quale l'ItaIia otteneva la Libia.
Nazionalismo
Sul finire dell'Ottocento 'idea di nazione, che tra il 1815 e il 1870 aveva ispirato le lotte per la
conquista dell'indipendenza dei popoli, cambiò di significato e venne associata non più al concetto
di libertà e democrazia, ma a quello di potenza.
Il nazionalismo, cioè la convinzione che la propria nazione è superiore alle altre, si mescolò
con le teorie razziste che andavano allora diffondendosi.
Queste erano state involontariamente favorite dagli studi sull'evoluzione della specie del
naturalista inglese Chartes Darwin, il quale sosteneva che le specie naturali capaci di
adattarsi all'ambiente hanno maggiori possibilità di sopravvivere. Da questa teoria derivò l'idea
che anche tra gli esseri umani ci sono "razze superiori" destinate a dominare le "razze inferiori". In
molti paesi europei si moltiplicarono i gesti di intolleranza nei confronti degli immigrati.
Le conseguenze dell'impresa libica
La conquista della Libia non portò gli attesi vantaggi economici ma ebbe decisive conseguenze sul
piano politico.
I nazionalisti furono incoraggiati nelle loro aspirazioni espansionistiche e militariste e vennero
presto affiancati dagli industriali che vedevano nella politica coloniale un' opportunità per
incrementare la produzione con le commesse militari, destinate a rifornire le truppe delle
armi e dell'equipaggiamento necessario.
I socialisti accusarono un contraccolpo ben più grave giungendo alla rottura del partito: da un lato
i riformisti che costituirono una minoranza legata alla borghesia e al governo, dall'altro la
sinistra rivoluzionaria, fedele al pacifismo socialista, al cui interno si diffusero le posizioni
estreme dei massimalisti.
Questi ultimi affidarono a Benito Mussolini la direzione del quotidiano del partito L'Avanti
che ebbe un indirizzo antigovernativo. La guerra libica, consolidando gli schieramenti più estremi
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dell'opinione pubblica, i nazionalisti e i massimalisti, a danno dei moderati, provocò la crisi
della politica di equilibrio che fino ad allora aveva ispirato il governo di Giolitti.
Il suffragio universale maschile
Giolitti fece della guerra in Libia un'occasione per coinvolgere più direttamente il popolo nel
sistema politico.
Nel 1912 egli promosse una riforma elettorale a suffragio quasi universale maschile in base
alla quale acquistavano diritto di voto gli analfabeti che avessero raggiunto i trent'anni d'età e
quelli fra i venti e i trent'anni che avessero prestato il servizio militare. Gli elettori passarono così
da 3 milioni a 8 milioni e mezzo.
Il suffragio universale costituì un decisivo mutamento poiché consentì alle masse operaie
socialiste e alle masse contadine cattoliche di partecipare alla vita politica del paese;
mentre fra i socialisti prevalsero i massimalisti, i cattolici appoggiarono i liberali più
conservatori che si erano impegnati a sostenere, una volta eletti, le richieste della Chiesa:
l'opposizione al divorzio, la tutela dell'istruzione privata ed il riconoscimento delle organizzazioni
sindacali cattoliche.
La fine dell'era giolittiana
Giolitti vinse ampiamente le elezioni del 1913 che seguirono la riforma elettorale, ma si trovò a
capo di una maggioranza molto eterogenea e divisa, poco disposta ad approvare il suo programma
di riforme sociali.
Nel maggio 1914 egli decise di allontanarsi dal governo ed affidò ad Antonio Salandra, un
esponente della destra liberale, il superamento della difficile congiuntura economica e sociale;
come già aveva fatto in passato, pensava di ripresentarsi sulla scena politica dopo il superamento
della crisi.
In realtà le tensioni sociali esplosero molto presto in una serie di proteste popolari che nelle
Marche ed in Romagna si trasformarono in insurrezioni rivoluzionarie durante le
quali i manifestanti assaltarono alcuni edifici pubblici, compirono atti di sabotaggio a danno delle
linee telegrafiche e ferroviarie, catturarono alcuni ufficiali dell'esercito che il governo aveva fatto
intervenire per reprimere con durezza le manifestazioni della cosiddetta settimana rossa.
Nel giugno dello stesso anno, in un clima di forti tensioni sociali, giunse in Italia la notizia dello
scoppio del conflitto mondiale che distolse l'opinione pubblica dai problemi interni e
determinò nuovi schieramenti fra le forze politiche.
L'età giolittiana si era definitivamente conclusa, travolta dalla guerra mondiale.
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