coscienza morale e colpevolezza giuridica

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P ROF . M AURO R ONCO
AVVOCATO
3, P. ZZA S OLFERINO
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COSCIENZA MORALE E COLPEVOLEZZA
GIURIDICA
1
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1. La dialettica ‘in interiore hominis’ tra l’ ‘essere padrone’ e l’
‘essere schiavo’ di se stesso.
Come esito concettuale della critica alla ‘geometria legale’, cui il
giusnaturalismo e il giuspositivismo moderno hanno ridotto l’universo
del diritto, Francesco Gentile ha suggerito di superare la concezione
volontaristica
dell’autonomia
personale,
intesa
alla
maniera
hobbesiana, come mero esercizio della volontà1, per riconoscere che
l’autonomia “ [...] prima di un modo di fare è un modo di essere del
soggetto umano; ciò che ne fa una persona, designandone
l’intelligenza di ciò che è, che è reale, che è veramente, e per ciò
naturalmente
capace
di
comunicare;
ciascuno
con
gli
altri
2
condividendola” . Ne segue che: “L’autonomia è [...] all’origine anche
dell’ordinamento giuridico delle relazioni intersoggettive inteso come
modalità della comunicazione interpersonale, attuantesi attraverso
l’obbedienza delle leggi variamente poste nella comunità politica”3.
Se si vuole scongiurare che l’osservanza delle regole sia ridotta a mera
questione di forza, occorre comprendere, sulla scorta del magistero di
Francesco Gentile, che, prima e al di là dell’incontro o dello scontro
delle volontà individuali, l’impronta della giuridicità va rintracciata
nel processo di autoregolamentazione grazie a cui ciascun uomo,
come soggetto morale capace di libertà e responsabilità, riconosce la
1
La fondazione della comunità politica è per Hobbes il frutto di un atto di volontà e
non la naturale conseguenza dell’umana inclinazione a perseguire il bene in comune.
Si veda al riguardo il fondamentale capitolo primo del De Cive di HOBBES, tr. it.
Elementi filosofici sul cittadino, in Opere politiche di Thomas Hobbes, a cura di
Norberto Bobbio, vol. I, Torino, 1988, 81-97
2
F. GENTILE, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, Padova, 2000, 39
3
Ibidem, 40
2
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“giusta misura” “di ciò che conviene, che è opportuno, che è
necessario alla convivenza umana”4.
Questo concetto di ‘giusta misura’, come criterio aureo della vita
sociale e giuridica, rinvia alla esistenza di una ‘giusta misura’ in
interiore hominis, tra gli eccessi disordinati delle passioni, previo il
riconoscimento, come ha insegnato Platone, in uno dei momenti
fondativi della civiltà occidentale “[...] che nella stessa anima di
ciascun uomo vi sono due aspetti, uno migliore, uno peggiore. E
quando la parte per natura migliore ha il dominio sulla peggiore, ecco
l’espressione ‘essere padrone di sé’, e suona lode; quando, invece, per
colpa di una cattiva educazione o di non buona compagnia, la parte
migliore, ma più debole, è vinta dalla cattiva, più forte, allora chi si
trova in questa situazione è detto ‘schiavo di se stesso’ e intemperante:
e suona biasimo e rimprovero”5.
‘Essere padrone di sé’ o ‘essere schiavo di sé’ costituiscono i due poli
verso cui tende, in modo sempre simile e sempre diverso, il nòvero
indefinito delle situazioni di vita di cui la ‘giusta misura’, come
criterio ordinatore dell’universo giuridico, viene a interessarsi nel suo
incessante duello col disordine della condizione storica dell’umanità,
duello ben rappresentato dalla contesa tra la parte migliore e la parte
peggiore dell’anima, di cui ha parlato luminosamente Platone6.
Le nozioni appena evocate, tanto l’ ‘essere padrone di sé’, quanto l’
‘essere schiavo di sé’, sono di grande importanza per comprendere i
temi cruciali del diritto penale che, per sembrare nella sua
immediatezza “[...]fonte di mortificazione della personalità piuttosto
4
Ibidem, 57
PLATONE, Repubblica, IV, 431 a, in Dialoghi politici. Lettere, I, a cura di F.
Adorno, Torino, 1988, 427-428
6
GENTILE, Ordinamento giuridico, cit., 46-47
5
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che strumento della sua edificazione”7, è riuscito di scandalo, per la
sua apparente contraddittorietà, addirittura a Paul Ricoeur, che pure ha
scandagliato con acribia e profondità ammirevoli il significato delle
varie situazioni dell’esistenza umana. Ancora di recente, infatti,
l’insigne studioso dell’ermeneutica ha focalizzato nella giustizia
penale l’estremo opposto dell’idea del giusto, come principio supremo
di tutto l’ambito etico8. La sofferenza della pena inflitta al colpevole
condannato costituisce per Ricoeur uno “scandalo intellettuale”,
perché essa si aggiungerebbe “dal di fuori, attraverso la stessa
istituzione giudiziaria, alla prima sofferenza provata dalla vittima di
un pregiudizio, di un danno, di un torto”9.
La mancata tematizzazione della nozione di colpevolezza, nella
duplice dimensione del ‘dover rispondere’ del delitto compiuto e
dell’aver bisogno, per la riacquisizione completa del proprio statuto
dignitario di persona, di ‘dare una risposta’ agli altri, spiega
l’incomprensione di Ricoeur nei riguardi del diritto penale.
2. Autonomia della persona e colpevolezza per il delitto compiuto.
Nel diritto penale riveste una importanza essenziale il concetto di
colpevolezza. Non presente in modo espresso nel sistema codicistico
italiano del 1930, tale nozione ha trovato ingresso positivo
nell’ordinamento grazie alla sentenza della Corte costituzionale n. 364
del 1988, in virtù della quale l’imputazione penale postula uno
specifico “rapporto tra soggetto e legge penale e, conseguentemente,
7
Ibidem, 40
P. RICOEUR, Il giusto, la giustizia e i suoi fallimenti, in Etica del plurale.
Giustizia, riconoscimento, responsabilità, a cura di E. Bonan e C. Vigna, Milano,
2004, 13
9
Ibidem
8
4
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tra soggetto e coscienza del significato illecito del fatto”10. La
colpevolezza
focalizza
un
momento
di
disvalore
personale,
strettamente inerente alla condotta spesa dal soggetto nella vita
sociale, che riguarda propriamente la dignità e la libertà della persona
umana e, dunque, attiene alla determinazione tanto delle condizioni
soggettive che legittimano l’inflizione della pena, tanto di quelle che
influiscono sulla qualità e quantità di pena comminata ed eseguita in
concreto nei confronti dell’autore del delitto, una volta che egli sia
riconosciuto responsabile di esso.
Ora, perché si possa parlare di colpevolezza, occorre anzitutto che
l’autore del fatto sia capace di autonomia giuridica, sia cioè capace di
fare propri gli scopi dell’ordinamento secondo scelte di carattere
libero e responsabile, al di fuori di condizionamenti che trovano
origine in patologie fisiche o in abnormità mentali, talmente gravi e
radicate
nella
struttura
della
personalità,
da
esprimere
inequivocabilmente, secondo il giudizio degli esperti, un ‘valore di
malattia’11.
10
C. Cost., 24.3.1988, n. 364, in Giur. Cost., 1988, 1528
Sui concetti di malattia mentale, ‘valore di malattia’ e vizio di mente cfr. U.
FORNARI, Trattato di psichiatria forense, 3° Ed., Torino, 2004, 118 ss. Il concetto
“valore di malattia” dell’atto criminale rinvia a una duplice presupposizione, di
livello diverso. Anzitutto occorre l’inquadramento diagnostico della persona che ha
agito, tale da soddisfare criteri diagnostici condivisi e resi confrontabili attraverso i
manuali statistici più accreditati negli ambienti specializzati. Oggi godono di
particolare autorità i protocolli D.S.M.-IV o I.C.D. – 10. In secondo luogo occorre
esplorare il funzionamento della persona, passando dal ‘che cosa ha’ al ‘chi è’,
ovvero passando dal criterio psicopatologico, attinente all’individuazione del o dei
disturbi psichici in atto, a quello dinamico-strutturale, verificando la loro incidenza
sul funzionamento dell’Io. In questo modo si cerca di riscoprire la persona come un
tutto unitario, per rispondere concretamente alla domanda se essa era in grado di
prendere una decisione adeguata ovvero se la sua capacità era compromessa ed
eventualmente in quale misura. Il DSM-IV-TR è il Manuale diagnostico e statistico
dei disturbi mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM)
redatto a cura dell’American Psychiatric Association, pervenuto nel 2001 alla IV
Edizione. In edizione italiana, a cura di V. Andreoli, G. Cassano, R. Rossi, Milano,
11
5
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La ricerca del valore di malattia di un atto criminale è impresa ardua
che non può essere compiuta in modo adeguato con approcci né di
tipo
meramente
scientifico/naturalistico,
ovvero
di
tipo
esclusivamente convenzionale/giuridico. Di fronte a delitti commessi
da personalità abnormi, quanto più crudele, inusuale, efferato,
mostruoso è il delitto, tanto più è difficile per il giudice accertare se la
condotta concretizzatasi debba essere intesa come espressione di
‘criminalità’, ovvero come espressione di ‘malattia’. L’orientamento
scientifico/naturalistico, quando si limiti a ricercare i sintomi di
abnormità comportamentale, classificandoli in una determinata casella
prevista dai vari protocolli della scienza psichiatrica, rischia di
pervenire alla conclusione che tutti gli autori di reato avrebbero diritto
al riconoscimento di un vizio di mente, con la conseguente non
punibilità per il delitto commesso. Uno psichiatra, infatti, non ha
difficoltà alcuna a etichettare ogni sintomo e ogni comportamento
abnorme (e il delitto di sangue è sicuramente tale) all’interno di una
casella alfa-numerica contemplata dai manuali psichiatrici. Se, invece,
ci si dovesse strettamente attenere alla convenzionalità giuridica, e si
riconoscesse a una condotta abnorme ‘valore di malattia’ soltanto in
presenza di un’infermità con basi organiche e con modifiche
anatomico/cerebrali, allora si restringerebbe in modo eccessivo
l’ambito di rilevanza delle condizioni che inducono a modulare in
guisa diversa la responsabilità penale in relazione alle condizioni
psichiche del soggetto agente.
Non intendo negare che tanto l’approccio scientifico/naturalistico,
quanto
quello
convenzionale/giuridico
siano
importanti
nella
valutazione dei profili di responsabilità delle personalità abnormi che
2002. L’ICD-10 è la Decima Revisione della Classificazione Internazionale delle
Malattie e dei Problemi di Salute Correlati
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hanno commesso delitti con la coscienza fortemente perturbata.
Ritengo però che sia necessario integrare lo studio della coscienza in
senso psichico con lo studio della coscienza in senso metafisico:
soltanto in tal modo si può pervenire a una valutazione equilibrata del
soggetto
che
ha
compiuto
delitti
abnormi.
Ciò
postula
il
riconoscimento dell’esistenza, oltre che di una psicologia naturalistica,
di una psicologia metafisica, che esamina il comportamento dell’uomo
non soltanto nella sua fenomenologia esteriore, ma anche alla luce di
ciò che egli è veramente, o meglio, alla luce di ciò che egli è secondo
la tendenza intima dell’essere dell’uomo, fatto a immagine di Dio, e
proteso verso un fine di felicità.
3. Infermità mentale e unità della persona.
Di questa esigenza sono ormai consapevoli tanto i giuristi quanto gli
scienziati della mente e gli esperti in psichiatria forense che
forniscono alla giurisdizione le informazioni necessarie per risolvere i
casi pratici.
La giurisprudenza più avvertita, di cui si è fatto autorevole interprete il
supremo Collegio a Sezioni Unite nell’importante sentenza n. 9163
del 25.01.200512, ha fatto stato della crisi irrimediabile del criterio in
forza del quale le anomalie psichiche rileverebbero nel diritto penale
soltanto
ove
fossero
riconducibili
nel
nòvero
di
rigide
e
predeterminate categorie nosografiche. Far dipendere il giudizio di
capacità dalla applicazione del metodo nosografico di stampo
scientistico, trascurando di dare rilievo ai vari disturbi della
personalità, che i più moderni manuali diagnostici e statistici dei
12
Cass., Sez. Un., 25.1.2005, in Dir. Pen. Proc., 2005, 837
7
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disturbi mentali suddividono in gruppi distinti13, significherebbe
disattendere nella sostanza il principio di colpevolezza e di
risocializzazione
spettante
alla
sanzione
penale,
perché
un
orientamento siffatto non terrebbe conto degli aspetti fondamentali
della personalità dell’autore del reato. La difficoltà, o la impossibilità,
di una spiegazione eziologica del disturbo mentale, in assenza talora
di segni dimostrabili circa alterazioni di organi particolari, non
costituisce ragione sufficiente per escludere che esso incida in modo
talmente grave nel funzionamento della psiche da escludere o
attenuare la colpevolezza dell’agente, con la conseguente applicabilità
del generale principio indicato dall’art. 85 del codice penale, relativo
all’esclusione o alla diminuzione della responsabilità quando venga
meno o sia grandemente scemata la capacità naturalistica di intendere
o di volere. Onde anche il disturbo della personalità toglie o
diminuisce l’imputabilità quando è “idoneo a determinare [...] una
situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile (totalmente
o in grave misura), che, incolpevolmente, rende l’agente incapace di
esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di conseguentemente
indirizzarli,
di
percepire
il
disvalore
sociale
del
fatto,
di
autonomamente, liberamente autodeterminarsi”14.
Gli enormi progressi compiuti dalle scienze neurologiche negli ultimi
decenni hanno, peraltro, chiaramente evidenziato la stretta relazione
intercorrente tra le funzioni cerebrali, da un canto, e, dall’altro, la vita
psichica e il comportamento della persona. I processi mentali
presuppongono funzioni cerebrali intatte, al punto che i disturbi
cerebrali
implicano
la
compromissione
della
memoria,
dell’orientamento, della percezione, del linguaggio e di molteplici
13
14
Cfr. FORNARI, Trattato di psichiatria forense, cit., 118 ss.
Cass., Sez. Un., 25.1.2005, cit., 851
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altre capacità di carattere cognitivo. Eppure, sebbene non vi siano
dubbi circa il fatto che il contegno umano si fondi su processi del
cervello di tipo fisico-chimico, affiora sempre più tra gli scienziati la
consapevolezza che, al fine di comprendere meglio la vita psichica,
siano necessarie ulteriori condizioni di tipo biologico, psicologico e
sociale. Daniel Hell, professore di psichiatria clinica e direttore della
clinica psichiatrica universitaria di Zurigo, ha osservato che proprio le
più recenti ricerche sul cervello sembrano confermare l’insufficienza
di uno studio della mente secondo modalità di tipo esclusivamente
fisico-chimico neuronale. Infatti, lo sviluppo cerebrale, pur nel quadro
di limiti geneticamente prefissati, è dipendente dalle influenze
dell’ambiente e dalle esperienze di vita della persona. L’encefalo non
è affatto un organo statico, bensì plastico, che si adatta nella sua
struttura sottile a influssi sia interiori sia esteriori15. Ora – così
prosegue Daniel Hell – se il sorgere e il collegarsi in rete tra loro delle
cellule cerebrali dipende dagli sviluppi biografici e dalle esperienze di
apprendimento, e se le pressioni ambientali (per esempio, nella forma
dello stress) esercitano un enorme influsso sulla microanatomia e sulla
neuropsicologia di distinti centri cerebrali, è evidentemente erronea la
tendenza a ridurre le ‘malattie mentali’ a mere ‘malattie del cervello’.
Infatti, le modificazioni cerebrali che provocano le malattie mentali
sono potenzialmente anche espressione di situazioni di vita e di
esperienze del mondo16. Ma – osserva Hell – ancora più rilevante di
ciò è la constatazione che l’esperienza psichica non può essere limitata
al correlato biologico, giacché contiene sempre qualcosa di ulteriore
15
D. HELL, Sind psychische Störungen ausschließlich Hirnkrankheiten?, in
AA.VV., Ich und mein Gehirn. Persönliches Erleben, verantwortliches Handeln und
objective Wissenschaft, herausgegeben von Günter Rager, München, 2000, 139-160,
in particolare, 142
16
Ibidem, 142
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rispetto
a
esso.
Il
significato
attribuito
soggettivamente
a
un’esperienza di vita non è dipendente esclusivamente dai processi
cerebrali, ma può essere compreso soltanto nell’ambito di un orizzonte
culturale specifico. Onde si può dire con Hell che il significato
dell’esperienza psichica sta nel linguaggio e il significato del
linguaggio nell’incontro degli uomini tra loro e nel loro confrontarsi
con il mondo17. I disturbi psichici si accompagnano, invero, alla
modificazione delle funzioni cerebrali, ma non si esauriscono in tali
modificazioni. Ammalato psichicamente, conclude Hell, non è un
cervello, ma una persona. Il significato di una infermità psichica non
sta nel cervello, bensì nella presa di posizione di una persona rispetto
a se stesso e nella relazione linguistica tra l’uomo e la sua cultura18.
La pluridimensionalità dell’infermità psichica rinvia alla compresenza
nell’uomo delle tre dimensioni della vita organica, della vita psichica
e della vita spirituale, non separate tra loro, ma costituenti un’unità
inscindibile nel composto umano di corpo e anima. Günter Rager,
professore di Anatomia, Embriologia e Neurobiologia all’Università
di Friburgo in Svizzera, ha suggerito l’analogia strutturale tra le teorie
neurobiologiche oggi emergenti, che vedono una stretta interrelazione
tra la mente e il corpo, tanto da parlare di ‘incarnazione della mente’,
e la spiegazione filosofica dell’esistenza individuale elaborata da
Aristotele e Tommaso d’Aquino. Per essi forma e materia sono un
nulla, in sé e per sé considerate. Forma e materia non sono sostanze,
ma principi, che danno realtà alla vita nel loro legame reciproco.
L’anima è la forma vivente del corpo, che gli dà la consistenza che noi
sperimentiamo. Il corpo, invece, è visto come principio di
17
18
Ibidem, 143
Ibidem, 160
10
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individuazione. Il corpo fornisce all’anima un luogo, nello spazio e nel
tempo, la rende individuabile e distinguibile19.
Se l’uomo è un composto di due sostanze, l’anima e il corpo, e il suo
essere non può venir ridotto all’una o all’altro, separatamente
considerati, le infermità mentali attingono la persona nella sua
interezza, indipendentemente dalla loro causa, provocando effetti in
larga parte simili sul funzionamento della psiche. Alcune patologie
della mente trovano origine in un’alterazione organica o funzionale di
certi organi del corpo: questa alterazione provoca ulteriori alterazioni
nello psichismo della persona, in quella parte dell’anima più
dipendente dal corpo, in guisa che la parte nobile dell’anima − lo
spirito − pur indenne dalla patologia, non ha più la possibilità di
manifestarsi e di esprimersi esteriormente. Come insegna San
Gregorio di Nissa: “In ogni organo del composto umano, che possiede
di per sé un’attività propria, la potenza dell’anima può restare senza
effetto, se l’organo in questione non si mantiene in armonia con
l’ordine naturale”20.
In questi casi, come insegna anche Tommaso
d’Aquino, l’infermità, essendo un disturbo diretto e primario del
corpo, attinge anche l’anima, però soltanto per accidens21.
4. Le infermità mentali che hanno origine nelle patologie
dell’anima
19
RAGER, Hirnforschung und die Frage nach dem Ich, in AA. VV., Ich und mein
Gehirn, cit., 49-50.
20
S. GREGORIO DI NISSA, La creazione dell’uomo, XII, PG 44, 161 AB.
21
TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae III q. 15 a. 4 in c: “Animam in
corpore constitutam contingit pati dupliciter: uno modo, passione corporali; alio
modo, passione animali. Passione quidem corporali patitur per corporis laesionem.
Cum enim anima sit forma corporis: et ideo, corpore perturbato per aliquam
corpoream passionem, necesse est quod anima per accidens perturbetur, scilicet
quantum ad esse quod habet in corpore”.
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Non tutte le patologie mentali, però, sono di origine organica. Se
l’uomo è un composto di anima e di corpo, è inevitabile che vi siano
delle
patologie
dell’anima
che
influiscono
anch’esse
sul
funzionamento della psiche, fino a provocare effetti sul piano
corporeo e del comportamento.
In un processo celebratosi in Italia nei confronti di un uomo accusato
di plurimi omicidi, di tentato omicidio, di plurime violenze sessuali
nei confronti delle vittime e di mutilazione dei cadaveri − processo
conclusosi definitivamente con la condanna all’ergastolo per effetto
della pronuncia 7 febbraio 2002 della V^ sezione penale della Corte di
Cassazione −, si è discusso a lungo, al più elevato livello scientifico,
se l’accusato, inquadrato nella casella della personalità abnorme
nell’ambito di una parafilia secondo la specificazione del sadismo
sessuale, fosse o meno responsabile degli atti compiuti. Gli esperti che
redassero l’ultima perizia collegiale, sostenendo la responsabilità
dell’accusato, hanno, tra l’altro, sostenuto: “Non vi è dubbio che la
pulsione parafiliaca sia una esigenza ‘forte’, difficile da combattere
[…] tuttavia, il controllo degli impulsi è nelle parafilie possibile e in
questo caso l’esecuzione del rituale parafilico non è uno scoppio
improvviso, ma comporta una messa in scena precisa e una complessa
organizzazione: la coscienza dell’Io è sempre attiva e una serie di
eventi sfavorevoli o la presenza di altri inibirebbe questa sequenza
comportamentale. È il Super-Io che è indebolito ed è l’istanza
sovracosciente di controllo che va esercitata che viene meno, istanza
che può essere sempre richiamata”. Altri periti, che si erano
pronunciati in precedenza, pure nel senso della responsabilità
dell’accusato, hanno sostenuto, richiamandosi a due studiosi delle
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perversioni e delle personalità parafiliche, Kernberg e Bergeret22, che
l’accusato mostrava, sia nelle caratteristiche strutturali della
personalità, sia sul piano relazionale, i seguenti caratteri: “[…]
l’incapacità a calarsi in una dimensione etica nel rapporto con
l’interlocutore, l’incapacità di investire in relazioni che non siano di
tipo manipolatorio, la necessità di confessare soltanto ciò per cui è
stato colto in fallo insieme con la evidente tendenza alla
falsificazione”. E hanno affermato che le situazioni descritte:
“inducono nell’interlocutore un senso di irrealtà o di difficoltà di
contatto con la realtà”. La conclusione di questo primo collegio
peritale è stata, però, che il quadro complessivo non significava che
N.N. avesse un disturbo patologico nel contatto e nel rapporto con il
reale, “[…] ma soltanto che non riesce a mettersi in contatto con
l’interlocutore nell’ambito di una dimensione etica”.
Ma cosa significa: “non riuscire a mettersi in contatto con
l’interlocutore nell’ambito di una dimensione etica”?
Significa
aver
completamente
(rectius:
quasi
completamente)
rinnegato la propria coscienza di uomo.
Nel saggio “Coscienza e verità”, pubblicato nel 1991 in “La Chiesa.
Una comunità sempre in cammino”23, il Cardinal Joseph Ratzinger,
mettendo in evidenza l’estrema radicalità dell’odierna disputa
sull’etica e sul centro di essa, la coscienza, definiva il concetto di
coscienza, individuandone due livelli, distinti ma strettamente
interrelati uno con l’altro. Da un lato egli focalizzava un primo livello
ontologico di coscienza, definendolo col termine greco ‘anamnesi’
22
O. KERNBERG, Aggressività, disturbi della personalità e perversioni, Cortina,
Milano, 1993; J. BERGERET, Clinica, teoria e tecnica, Cortina. Milano, 1990.
23
J. RATZINGER, La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, in AA. VV., La
coscienza, Città del Vaticano, 1996, pp. 17 e ss..
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(l’illustre teologo, ora Pontefice di Santa Romana Chiesa regnante
come
Benedetto XVI, ha preferito sostituire con questo termine
quello medievale di sinderesi), consistente nel “[…] fatto che è stato
infuso in noi qualcosa di simile ad una originaria memoria del bene e
del vero […]; che c’è una tendenza intima dell’essere dell’uomo, fatto
a immagine di Dio, verso quanto a Dio è conforme”24. Il Cardinale
Ratzinger ricordava a supporto del suo dire il seguente brano del “De
Trinitate” di Sant’Agostino: “Nei nostri giudizi non ci sarebbe
possibile dire che una cosa è meglio di un’altra, se non fosse impressa
in noi una conoscenza fondamentale del bene”25. Da un altro lato
Joseph Ratzinger focalizzava un secondo livello della coscienza nella
dimensione del giudicare e del decidere, come l’atto della ragion
pratica, che giudica l’atto da compiere sulla base della conoscenza
fondamentale del bene impressa nell’anima, nonché sulla base
dell’esperienza e dell’educazione, tenendo conto delle circostanze
specifiche con cui essa deve confrontarsi di volta in volta.
Non riuscire a comunicare con gli altri secondo la dimensione etica
significa agire avendo cancellato dalla propria coscienza il ricordo
(l’anamnesi) del bene impresso in noi da Dio. La colpa di chi
commette un delitto in questo stato di coscienza non è tanto e soltanto
nell’atto del momento, bensì nel processo che ha condotto alla
cancellazione dalla coscienza del ricordo del bene.
Ma come può vivere l’uomo senza il ricordo del bene? È ancora un
ente razionale colui che agisce avendo cancellato dalla sua coscienza
il ricordo dell’essere e del bene?
24
25
Ibidem, p. 33.
S. AGOSTINO, De Trinitate, VIII, 3, 4; PL 42, 949
14
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Le patologie dell’anima sono quelle perversioni o disordini −
chiamate dalla teologia morale ‘passioni sregolate’ − del modo di
esistenza dell’uomo nel suo rapporto con Dio, con se stesso, con gli
altri e con la natura creata che lo conducono a cancellare il ricordo del
bene impresso nella coscienza e ad agire contro il principio fondante
della ragion pratica, alla cui stregua il bene deve essere fatto e il male
evitato.
Ora, queste perversioni o disordini di tipo spirituale influiscono in
modo
rilevante
sul
funzionamento
stesso
della
psiche
e
conseguentemente sui comportamenti umani, al punto che credo
conveniente formulare la seguente tesi: la progressiva cancellazione
dalla coscienza dell’anamnesi del bene impresso da Dio nell’anima
conduce alla disgregazione della stessa coscienza psichica, alla
frantumazione e alla scissione del funzionamento della psiche.
Nelle complesse e delicate relazioni tra le patologie spirituali e il
funzionamento della psiche e nelle altrettanto complesse relazioni tra
le patologie organiche e il funzionamento della psiche sta l’estrema
difficoltà di distinguere fino in fondo nei casi giudiziari tra infermità
mentale e perversione del carattere o della personalità. La prima, con
l’effetto giuridico di escludere o di diminuire la responsabilità per
l’atto compiuto; la seconda, che imporrebbe, secondo un orientamento
rigido, ormai, come si è prima visto, in via di superamento, di
mantenere intatta la totale responsabilità giuridica. Vero è, piuttosto,
che tra patologia mentale e perversione del carattere o della
personalità v’è un’interrelazione stretta, un reciproco influenzamento
che non consente mai la formulazione di conclusioni nette e assolute.
Va tuttavia riconosciuto che, allo stesso modo in cui vi può essere una
malattia mentale a fondamento organico, che produce l’abnormità del
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comportamento psichico, così vi può essere una malattia spirituale
che, provocando lo sregolamento delle più diverse passioni al di fuori
del controllo della ragione, produce danni irreversibili dello stesso
funzionamento psichico. Le cause sono opposte: organica, in un caso;
spirituale, nell’altro. Ma le conseguenze sono le medesime. JeanClaude Larchet, in una serie di volumi ispirati alla spiritualità dei
Padri orientali dei primi secoli della Chiesa, ha mostrato, per un verso,
l’effetto devastante delle passioni sregolate sullo psichismo umano, e,
per un altro verso, l’analogia tra i sintomi e i disturbi della nosografia
psichiatrica e i sintomi e i disturbi della nosografia spirituale. Per
limitarci soltanto a qualche esempio, Larchet ha osservato che il
carattere patogenetico dell’attitudine dell’orgoglio non è ignorato
dalla psichiatria moderna che l’ha tuttavia “[…] amputée de sa
dimension morale et spirituelle et la désigne le plus souvent comme
‘survalorisation’ ou ‘hipertrophie’ du moi”26. Questa attitudine si
presenta al più alto grado nella psicosi paranoica, ma è presente anche
nella nevrosi isterica. Allo stesso modo ciò che si è abituati a chiamare
dopo Freud con il termine ‘narcisismo’ “correspond également a cette
passion, mais se rattache plus étroitement encore a la ‘philautie’,
l’amour passionel du soi-meme, lequel a souvent pour object le
corps”27. Ma anche altre patologie psichiche evocano gli effetti di
passioni sregolate: le nevrosi fobiche, lo stato emotivo del timore; la
nevrosi d’angoscia, lo stato emotivo della tristezza e del timore; la
psicosi melanconica, le passioni dell’accidia e della tristezza nella sua
forma estrema di disperazione28.
26
J.C. LARCHET, Thérapeutique des maladies mentales, Paris, 1992, p. 99.
Ibidem.
28
Ibidem, 100
27
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San Tommaso d’Aquino, sviluppando le intuizioni di Aristotele, dopo
aver distinto tra le infermità del corpo e quelle dell’anima, soggiunge
che queste ultime sono di due tipi: quelle contro la ragione e quelle
contro la natura29. Nel primo caso la perversità dell’agire non
fuoriesce dai limiti della natura umana. Nel secondo caso le passioni
corrompono a tal punto l’equilibrio della persona, che si può dire che
essa si apparenti al modo di essere di un animale, poiché l’uomo si
comporta difformemente dalla disposizione specifica che connota la
persona. Già Aristotele nell’Etica Nicomachea aveva trattato della
‘bestialità’, che caratterizza in qualche caso il comportamento
dell’uomo, traente talora origine dalla costituzione della persona,
talaltra da stati morbosi provocati o da infermità fisica o da costumi
contrari alla natura, contratti specialmente durante l’infanzia e che
hanno deturpato lo sviluppo del carattere30.
San Tommaso, commentando l’Etica di Aristotele, individua tre
possibili cause della ‘bestialità’: la mancanza di leggi adeguate, che
favoriscono i costumi perversi; le infermità o i grandi traumi affettivi,
che possono provocare la demenza; il progresso nella malizia, che può
condurre a comportamenti bestiali contro natura. Tutti i disturbi
definiti come ‘bestiali’, aventi genesi nel comportamento abnorme,
sono definiti da San Tommaso come ‘aegritudo animalis’, che può
essere tradotto con l’espressione ‘infermità psichica’: “un trastorno de
la vida sensitiva interior y de la afectividad con génesis anímica, en
29
Per l’intera problematica e per l’approfondito esame dell’insegnamento di S.
Tommaso d’Aquino e di Aristotele cfr. M.F. ECHAVARRÍA, Santo Tomás y la
enfermedad psíquica, in AA.VV., Bases para una psicología cristiana, Actas de las
jornadas de psicología y pensamiento cristiano, 27 y 28 de agosto de 2004. Facultad
de Filosofía y Letras. Pontificia Universidad Católica Argentina, Buenos Aires,
2005, 38 ss.
30
ARISTOLE, Etica Nicomachea, L.VII, c. 5, 1148, b 19-27
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cuanto causado por las malas costumbres”, secondo la precisa
definizione formulata da Martín Federico Echavarria31.
I vizi contro natura, sempre secondo San Tommaso, sono contrari non
soltanto alla ragione, che individua l’elemento differenziale specifico
tra l’uomo e l’animale, bensì addirittura alla naturalità dell’animale,
che costituisce il carattere di genere comune tra l’uomo e l’animale.
Onde, secondo Echavarria, con il concetto di ‘aegritudo animalis’, si
identifica
non
soltanto
un’infermità
dell’anima,
bensì,
più
precisamente, l’infermità della dimensione ‘animale’ dell’anima
umana, che si definisce oggi come ‘psiche’32. Sussiste, infatti, secondo
S. Tommaso, una “insania secundum animam”, che insorge quando
l’anima dell’uomo si estranea alla disposizione che caratterizza la
specie umana. Colui che ha smarrito la naturale inclinazione affettiva
verso gli altri e si è vestito di una aggressività antinaturale e sadica
contro i suoi simili, costui è un insano nell’anima33. Come
profondamente annota Echavarria, questi disordini di tipo bestiale,
mostruoso, efferato si distinguono dai comuni vizi umani perché
rivelano non soltanto una disposizione affettiva contraria alla retta
ragione, ma altresì perché la loro materia “no corresponde a la que
naturalmente es proporcionada al apetito del hombre, por eso es
contra natura”34. Ciò che definisce questi contegni è il loro carattere
inumano e contronaturale. Il che li colloca ben al di là del vizio
31
ECHAVARRIA, Santo Tomás,cit., 42
Ibidem, 44
33
TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae II-II q. 157 a.4 ad 3: “Insania
dicitur per corruptionem sanitatis. Sicut autem sanitas corporalis corrumpitur per
hoc quod corpus recedit a debita complexione hamanae speciei, ita etiam insania
secundum animam accipitur per hoc quod anima humana recedit a debita
dispositione humanae speciei. Quod quidem contingit et secundum rationem, puta
cum aliquis usum rationis amittit: et quantum ad vim appetitivam, puta cum aliquis
amittit affectum humanum, secondum quem homo naturaliter est omni homini
amicus, ut dicitur in VIII Ethic”
34
ECHAVARRÍA, Santo Tomás, cit., 45
32
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ordinario, che esprime un disordine della ragione, come esagerazione,
per difetto o per eccesso, di una tendenza pur sempre naturale35.
5. Conclusione
La tesi esposta è pregna di rilevanti conseguenze pratiche.
Non posso soffermarmi su quelle che ne derivano sul piano pastorale e
su quello medico/terapeutico, salvo osservare che, sul piano medico,
va abbandonato il riduzionismo scientista che pretende di curare le
malattie mentali agendo soltanto contro le cause somatiche o i sintomi
psichici. Infatti, pur essendo necessario promuovere tutto ciò che può
costituire un sollievo sul piano fisio/psichico, occorre che la cura sia
integrata con una amorevole e rispettosa attenzione verso la persona,
cercando, in ogni caso, di curarla nella sua essenza integrale di
composto di anima e corpo, nella consapevolezza che all’interno
dell’uomo vi è una parte migliore e una parte peggiore, che vi è una
permanente guerra tra queste due parti e che non è indifferente la
scelta della terapia affinché vinca la parte migliore.
Sul piano giuridico scaturiscono dalla tesi esposta due regole pratiche
apparentemente contraddittorie tra loro, ma, nella realtà, convergenti
nel proporre il rispetto della persona come ente libero e responsabile,
nella cui coscienza è impresso in modo indelebile, nonostante gli
sforzi di cancellazione che la libertà sregolata può aver comportato, il
ricordo del vero e del bene.
La prima regola consiste nell’attribuire il dovuto rispetto, nella
valutazione della capacità del soggetto, al principio di responsabilità
contro il principio di irresponsabilità. La mostruosità dell’atto
35
Ibidem
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criminale, la sua antinaturalità, la sua incomprensibilità secondo le
categorie del ragionamento ordinario non costituiscono motivo
sufficiente per escludere la colpevolezza dell’autore. Come ha
insegnato l’antropologia dell’epoca classica e cristiana, la ‘bestialità’ è
lo stato cui approda l’anima frantumata, che ha smarrito l’anamnesi
del bene a cagione di leggi aberranti, di costumi barbari e perversi, di
mai raffrenate sollecitazioni mediatiche, del capitalizzarsi insaziabile
in interiore hominis della passione dell’orgoglio e di tutte le altre
passioni che a questa fanno conteggio. Il più sottile e colpevole
incoraggiamento a coloro che sono incamminati sulla via della
‘bestialità’ sta proprio nel lavarsi le mani del problema che li riguarda,
giustificandoli per l’insania, senza approfondire le cause che l’hanno
provocata. Così, se non vi sia la certezza di un ‘valore di malattia’
dell’atto compiuto, nel senso di atto che corrisponde a un
funzionamento abnorme dell’attività psichica coerente (altri direbbe
legata da un nesso eziologico) con una patologia mentale dimostrata,
la persona va ritenuta responsabile e non irresponsabile. Ciò non
significa violare il principio in dubio pro reo, bensì trattare l’uomo,
fino a prova del contrario, come uomo, cioè come dotato di una
coscienza in grado di ricordare la voce del bene e di decidere
conformemente al suo richiamo. E se è vero che le malattie spirituali
tendono a cancellare il ricordo di questa voce nell’anima, è anche
vero, per un verso, che questo ricordo non può essere cancellato fino
al punto di non lasciare più alcuna traccia, e che, per un altro verso,
l’uomo è responsabile anche per la colpa di aver volontariamente
obnubilato la voce della coscienza.
La seconda regola, apparentemente opposta alla prima, ma nella realtà
a essa complementare, consiste nel dare rilievo, in senso attenuativo
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della responsabilità, a tutte le situazioni che hanno effettivamente
perturbato e condizionato l’esercizio della libertà, inducendo e
sospingendo all’atto delittuoso, anche se ciò è avvenuto per una colpa
pregressa, ponendo realmente al centro del diritto penale la nozione di
colpevolezza, con tutte le implicazioni pratiche che essa comporta.
Invero, anche le malattie spirituali sono malattie; anch’esse disturbano
il funzionamento psichico; anch’esse sono suscettibili di cura. Anche a
coloro che agiscono delittuosamente in forza di una coscienza psichica
dilacerata dalla cancellazione (rectius: quasi cancellazione) della
coscienza morale, è giusto e opportuno offrire i mezzi e le possibilità
per la propria auto-riabilitazione, possibile una volta che essi si
pongano in ascolto della voce della coscienza.
In ogni caso, e comunque, una lezione preziosa deve valere per tutti:
l’autonomia, che sta al centro dell’universo della giuridicità, su cui
Francesco Gentile ha più volte, opportune et importune, richiamato
l’attenzione
degli
studiosi,
non
è
acquisizione
definitiva,
immodificabile, di cui ci si possa vantare per comportarsi alla stregua
di ciò che contingentemente aggrada, bensì un dono prezioso che
ciascuno deve assumere come compito arduo per la vittoria in se
stesso della parte migliore e per l’edificazione di una società a misura
della dignità umana, in adesione al progetto di Dio sull’uomo.
Mauro Ronco
Professore Ordinario di Diritto penale
nell’Università di Padova
Italia
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