Gazzetta F O R E N S E Bimestrale Anno 7 – Marzo – Aprile 2013 direttore responsabile Roberto Dante Cogliandro comitato di direzione Almerina bove Corrado d’ambrosio Alessandro jazzetti redazione capo redattore Mario de Bellis redazione gazzetta forense Valeria D’Antò, Melania DuratuRo, Anna Eliseo editore Denaro Libri Srl, presso la Mostra d'Oltremare, viale Kennedy, 54 – 80125 Napoli proprietario Associazione: Nemo plus iuris comitato di redazione Andrea Alberico Giuseppe amarelli Antonio ArdituRO Clelia Buccico Carlo Buonauro Raffaele Cantone Flora Caputo Sergio Carlino Matteo D’Auria Domenico De Carlo Mario de Bellis Andrea Dello Russo Clelia iasevoli Rita Lombardi Raffaele Manfrellotti Catello MARESCA Giuseppina MAROTTA Daniele Marrama Raffaele MICILLO Maria Pia Nastri Giuseppe Pedersoli Angelo Pignatelli Ermanno Restucci Francesco Romanelli Raffaele Rossi Angelo Scala Gaetano scuotto Mariano Valente comitato scientifico Fernando Bocchini Antonio Buonajuto Aurelio Cernigliaro Lorenzo Chieffi Giuseppe Ferraro Gennaro MARASCA Antonio Panico Giuseppe Riccio Giuseppe Tesauro Renato Vuosi n. registraz. tribunale N. 21 del 13/03/2007 finito di stampare da 360o ‑ Roma – nell'aprile del 2013 SOMMARIO Editoriale [ A cura di Roberto Dante Cogliandro ] Diritto e procedura civile La mediazione civile in Italia: riferimenti giuridici europei e comparati Pierangelo Bonanno Il contenuto del testamento apre le porte alla diseredazione espressa Flora Caputo e Gaetano del Giudice L’istituzione familiare dall’unità d’Italia alla Costituzione repubblicana Antonio Bova 9 13 21 Sono leciti gli accordi prematrimoniali? Nota a Corte di Cassazione, sez. civ. I, 23 dicembre 2012, n. 23713 Giusy Cante e Carmen Pennacchio 32 Rassegna di legittimità [A cura di Corrado d’Ambrosio] 42 Rassegna di merito [A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa] 44 In evidenza Cassazione Civile, SEZ. I, 14 settembre 2012 n. 15449 46 In evidenza Corte D’appello di Roma, Sez. I, sentenza n. 383/2013 50 Diritto e procedura penale La Cassazione alla faticosa ricerca del confine fra induzione e costrizione 61 Raffaele Cantone La rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nel giudizio di appello alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale di legittimità 68 Rossella Catena Competenza del giudice dell’esecuzione: scelta definitiva della Corte di Cassazione per il criterio cronologico? 77 Luca Semeraro L’utilizzo dei principi della Corte EDU per risolvere i casi di conflitto apparente di norme 79 Vittorio Sabato Ambrosio I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali 84 A cura di Angelo Pignatelli Rassegna di legittimità [ Rassegna di merito [ A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ] A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ] 87 90 Diritto amministrativo Gli strumenti amministrativi di contrasto alla corruzione. I piani anticorruzione. 97 Carlo Buonauro La giustiziabilità degli atti politici ex art. 113 Cost. 105 Vittorio Sabato Ambrosio Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (d.lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.) 110 A cura di Almerina Bove Diritto tributario L’abuso del diritto nel sistema tributario: evoluzione legislativa e giurisprudenziale 115 Clelia Buccico Diritto internazionale L’incremento dell’efficacia nota quale requisito per la brevettabilità dei nuovi farmaci in India Nota a Corte Suprema Indiana, Novartis AG v. Union of India & Others, 01 aprile 2013 133 Giovanna Sorrentino Rassegna di diritto internazionale 145 A cura di Francesco Romanelli Questioni [ A cura di Mariano Valente ] Quando l’Amministrazione penitenziaria detiene presso di sé il peculio di un internato, è possibile rivolgere nei suoi confronti un atto di pignoramento che vede l’Amministrazione in qualità di “terzo” debitor debitoris? O piuttosto, è necessario 153 un pignoramento diretto al solo obbligato? / Marianna Falco Se ed entro che limiti sia possibile applicare il regime concessorio-autorizzatorio anche nei confronti degli allibratori stranieri, residenti in altri Stati comunitari e ivi regolarmente abilitati a raccogliere scommesse secondo la legislazione del loro Stato di appartenenza, senza che ciò costituisca contrasto con i principi comunitari di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di cui agli artt. 43 e 49 TCE, nonché, ed in particolare, se sia legittima la mancata indizione di una gara e se il meccanismo della periodicità della 154 stessa possa essere un modo per aggirare i principi comunitari. / Anna Sofia Sellitto In tema di responsabilità della P.a., con riguardo alla materia di appalti pubblici e di informative prefettizie antimafia, può configurarsi una responsabilità oggettiva della p.a.? / Ida Sorrentino 157 Recensioni Il mutuo bancario, Cedam, 2013 A cura di Gabriele Burlarelli 165 Gazzetta F O R E N S E ● Interventi chiari e concreti per il nuovo Ministro della Giustizia ● Roberto Dante Cogliandro Notaio m a r z o • a p r i l e 2 0 1 3 5 Cosa il Paese si attende dal nuovo Ministro della Giustizia del Governo Letta è cosa fin troppo ovvia e soprattutto più volte predicata negli ultimi mesi se non anni. I cittadini e il mondo delle imprese si augurano che il nuovo Guardiasigilli possa in primis mettere mano alle lunga variegata e complessa macchina della giustizia civile, di solito in secondo piano ri‑ spetto ai più clamorosi e mediatici problemi della giustizia penale. Soprattutto per esigenze di integrazione europea il nostro Paese non può più permettersi di esserne uno degli ul‑ timi per durata media dei procedimenti civili e soprattutto in tema di recupero credito, dove ci assestiamo agli ultimi posti nelle annuali statistiche redatte dagli organismi internaziona‑ li di referaggio. Con ciò disincentivando, anche per le scarse garanzie per la tutela del credito, gli investitori esteri i quali nel momento in cui decidono di investire in Italia, ben conoscendo le scarse e poco efficaci tutele giurisdizionali, preferiscono ricorrere all’uso ove possibili delle clausole arbitrali o conciliative che anche se più costose garantiscono le parti certamente in ter‑ mini di durata della controversia. Una revisione organica di tutti i riti del processo civile è sicuramente uno dei primissimi passi che il nuovo esecutivo con il sostegno delle relative commissioni parlamentari dovrà compiere nell’ottica di semplificazione da troppi lacci e lacciu‑ oli che burocraticizzano solo il processo civile. A tal uopo, basti pensare ai numerosi interventi posti in essere negli ultimi anni con l’intento di velocizzare ma che in realtà poi anno fi‑ nito solo per problematicizzare l’iter giudiziario; basti pensare da ultimo al cd Tribunale delle Imprese. Che ha solo una indicazione terminologica giornalistica e ad effetto, ma poi nella realtà si è rilevato di scarso impatto pratico. Vuoi perché ha dovuto fare i conti con la carenza di giudici, cancellieri e risorse da applicare a queste sezioni spe‑ cializzate, vuoi perché il rito da applicarsi è risultato da subi‑ to vetusto e poco aderente ai tempi della giustizia civile. In‑ somma è giunto il momento in cui il nostro legislatore ponga in essere una riforma radicale e complessiva della complessa macchina della giustizia civile, dove i tempi si sono rilevati la piaga per il sistema impresa. Per fare ciò certamente un primo passo deve muoversi at‑ traverso il rafforzamento delle strutture giudiziarie esistenti con l’innesto di nuove risorse umane e tecnologiche ed al tem‑ po stesso la soppressione di strutture giudiziarie nate per fina‑ lità meramente campanilistiche (rectius: Giudici di Pace disse‑ minati a macchi d’olio) che con il tempo hanno finito con l’assorbire risorse umane e materiali. Una campagna straordi‑ naria per il sistema giustizia deve poi passare attraverso l’as‑ sunzione di personale amministrativo e tecnico giovane che possa ben supportare l’attività giudiziaria dei magistrati. In‑ fatti, se il numero di questi ultimi è aumentato negli ultimi anni, lo stesso non lo si può dire per il personale di cancelleria che anzi andando in pensione non è stato sostituito, creando un rallentamento della macchina giustizia nel suo complesso. Diritto e procedura civile La mediazione civile in Italia: riferimenti giuridici europei e comparati Pierangelo Bonanno 9 Il contenuto del testamento apre le porte alla diseredazione espressa Flora Caputo e Gaetano del Giudice 13 L’istituzione familiare dall’unità d’Italia alla Costituzione repubblicana Antonio Bova 21 Sono leciti gli accordi prematrimoniali? Nota a Corte di Cassazione, sez. civ. I, 23 dicembre 2012, n. 23713 Giusy Cante e Carmen Pennacchio 32 Rassegna di legittimità [A cura di Corrado d’Ambrosio] 42 Rassegna di merito [A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa] 44 In evidenza In evidenza Corte D’appello di Roma, Sez. I, sentenza n. 383/2013 46 50 civile Cassazione Civile, SEZ. I, 14 settembre 2012 n. 15449 F O R E N S E ● La mediazione civile in Italia: riferimenti giuridici europei e comparati ● Pierangelo Bonanno Mediatore m a r z o • a p r i l e 2 0 1 3 9 Sommario: 1. L’abrogazione dell’obbligatorietà della media‑ zione civile – 2. La proposta dei “saggi” di reintrodurre l’obbligatorietà della mediazione per arginare l’arretrato giu‑ diziario – 3. Nuovo impulso normativo del Parlamento euro‑ peo allo sviluppo delle procedure Adr – 4. La mediazione civile in Romania: l’obbligo della sessione informativa. 1. L’abrogazione dell’obbligatorietà della mediazione civile La Corte costituzionale con la sentenza n. 272 del 6 dicem‑ bre 20121, ha reso note le motivazioni attraverso le quali ha dichiarato incostituzionale per eccesso di delega la mediazio‑ ne civile e commerciale obbligatoria, motivazioni che la stessa Corte aveva anticipato mediante un comunicato successiva‑ mente alla seduta del 24 ottobre 2012. Dalla lettura della sentenza, in via preliminare, il Giudice Costituzionale sotto‑ linea che nel nostro Ordinamento il Legislatore delegato mantiene una certa autonomia decisionale nella redazione del testo normativo, ma deve attenersi alle linee guida delineate sia in maniera esplicita che implicita del Parlamento. In altri termini indica che la conformità di un decreto legislativo ri‑ spetto alla legge delega deve essere valutata anche in base alle finalità con cui è stata adottata la delega ed al contesto nor‑ mativo in cui è nata. Nella sostanza non era necessario che l’obbligatorietà della mediazione fosse espressamente inserita nelle legge delega 2 , ma che la si evincesse anche in maniera implicita. La Corte, quindi, analizza tutta la normativa comu‑ nitaria e nazionale nel cui ambito è nato il d.lgs. 28/20103 per verificare la sussistenza o meno di un implicito richiamo all’obbligatorietà della mediazione civile. Dall’esame della normativa europea4 si denota come questa rimanga neutrale rispetto alla scelta di un sistema di mediazione obbligatorio o facoltativo. Scelta che viene demandata all’autonoma decisio‑ ne del legislatore nazionale. Per quanto riguarda la normativa nazionale, sottolinea il Giudice costituzionale, la legge delega nasce con un evidente richiamo al previgente modello della conciliazione societaria su base facoltativa. Tale circostanza avvalora l’ipotesi che il legislatore delegante aveva in mente anche per la mediazione civile un analogo carattere facoltativo e nulla contrasta con tale interpretazione. Appare utile ricor‑ dare che la legge delega, all’art. 60 nel prevedere per gli avvo‑ cati l’obbligo di informare i propri clienti in merito alla me‑ diazione, parla di “…informare l’assistito della possibilità di avvalersi dell’istituto della conciliazione” e non dell’obbligo. La Corte, inoltre, respinge l’accostamento della fattispecie in questione con quella decisa con la sentenza n. 276 del 2000. In quel caso si trattava di verificare la costituzionalità del tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie in materia di lavoro. In maniera inequivocabile la Corte Costi‑ tuzionale sancisce l’incostituzionalità del tentativo obbligato‑ rio di mediazione per eccesso di delega e non si pronuncia su altri profili. Ne consegue che dalla motivazione della sentenza non emerge alcuna censura nei confronti della mediazione obbli‑ gatoria e che, quindi, potrà essere reintrodotta nel nostro or‑ 1G.U.R.I., ser. Spec., 12 dicembre 201, n. 49. 2 l., 18 giugno 2009, n. 69 in www.normattiva.it. 3G.U.R.I., 05 marzo 2010, n. 53. 4 Dir. Ce 2008/52/ce, in juris data. civile Gazzetta 10 D i r i t t o e p r o c e d u r a dinamento in qualsiasi momento, purché con idoneo strumen‑ to normativo.Appare ulteriormente necessario evidenziare dall’esito della sentenza, come nulla cambi rispetto al passato in relazione alle procedure di mediazione volontarie, a quelle delegate, nonché a quelle nascenti da clausola contrattuale, o statutaria, che continueranno a essere attivate e gestite in base alle disposizione del d.lgs n. 28 del 2010 andate esenti dall’intervento del Giudice delle leggi. L’ampia pronuncia della Consulta, che ricostruisce anali‑ ticamente tutte le numerose ordinanze di rimessione delle varie questioni di legittimità, partendo da quella del Tar Lazio del 12 aprile 2011 a quelle dei diversi Tribunali ordinari e dei Giudici di pace, si incentra e si esaurisce nell’esame di una questione che diviene immediatamente assorbente. L’articola‑ ta disamina circa la possibilità di ricondurre la previsione dell’obbligatorietà5 di cui ai principi e criteri direttivi della legge delega6, anche attraverso una ricostruzione del percorso comunitario7, spinge la Corte a dichiarare l’ incostituzionali‑ tà proprio sotto il profilo dell’eccesso di delega. La conclusio‑ ne è inevitabile nell’iter argomentativo della Consulta e quindi all’operatore non resta che prendere atto che il Gover‑ no nell’emanare il d.lgs. 28/2010 in relazione alla condizione di procedibilità ha ecceduto rispetto alle attribuzioni che allo stesso erano state conferite dal Parlamento. Per cui con la sentenza n. 272/2012 la Consulta dichiara l’illegittimità co‑ stituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 ed altresì in via consequenziale8 anche l’incostituzionalità, derivata di una serie di norme9. Tra le norme che cadono a seguito del pronunciamento della Corte per illegittimità derivata, che peraltro non trova una specifica motivazione nel corpo della decisione, si deve rimarcare: – la incostituzionalità dell’art. 8, comma 5, d.lgs. 28/201010 nella prima norma in base alla quale «Dalla mancata partecipazio‑ ne senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giu‑ dizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile». Al riguardo si deve rilevare come la dottri‑ na aveva ritenuto di poter ritenere la stessa applicabile a tutti i procedimenti di mediazione e non soltanto quelli derivanti dalla condizione di procedibilità ex lege. Appare evidente che la Consulta assume sulla questione una diversa posizione dichiarandone l’incostituzionalità. Con riferimento invece alla seconda norma contenuta nel comma 5 dell’art. 8, Dlgs 28/2010, secondo la quale «Il giudice condanna la parte co‑ stituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipa‑ to al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio»11, il generico richiamo all’art. 5 del d.lgs. 28/2010 conduce alla decisione di illegittimità pur dovendo rilevare come la man‑ cata specificazione del comma 1 non consentiva di ricondur‑ 5 D.lgs. n. 28 del 2010, art. 5, comma 1, in www.normattiva.it. 6L., 18 giugno 2009, n. 69, art. 60, in www.normattiva.it. 7 Dir. ce 2008/52/CE, in Juris data. 8L., 11 marzo 1953, n. 87, art. 27. 9 Marinaro, Con l’abrogazione dell’obbligatorietà cadono anche le conseguenza sanzionatorie, in Guida dir., 2012. 10G.U.R.I., 5 marzo 2010, n.53. 11 d.l., 13 agosto 2011, n. 138, art. 2, comma 35‑sexies, in www.normattiva.it. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E re tale previsione alla sola obbligatorietà legale, ma altresì anche alle altre modalità di accesso alla mediazione quali quelle previste dal comma 2, mediazione su invito del giudice, e dal comma 5, mediazione ex contractu, del medesimo art. 8 d.lgs. 28/2010; – cade l’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 11 in conseguenza della demolizione dell’art. 13 d.lgs. 28/2010. Anche in questo caso la Corte collega strettamente, ma il dato è meramente interpretativo e non testuale, queste norme all’art. 5, comma 1, d.lgs. 28/2010, stabilendo un nesso di interdipendenza necessaria tra la mediazione obbligatoria, la proposta del mediatore e le conseguenze sanzionatorie deri‑ vanti dalla mancata accettazione della stessa secondo i para‑ metri ivi fissati12. 2. La proposta dei “saggi” di reintrodurre l’obbligatorietà della mediazione per arginare l’arretrato giudiziario Il Presidente della Repubblica ha istituito il 30 marzo 2013 due gruppi di lavoro con il compito di proporre, attraverso due distinti rapporti, delle misure dirette ad affrontare tanto la crisi economica quanto la crisi del sistema istituzionale. Ai due gruppi di lavoro è stato assegnato il compito di misurare, sulle questioni affrontate, i livelli di convergenza e i punti di diver‑ genza tra i componenti del gruppo di lavoro al fine di facilita‑ re un ampio consenso tra le forze politiche presenti in Parla‑ mento. In particolare, nella relazione finale inerente le riforme istituzionali presentata il 12 aprile 2013 al Presidente della Repubblica, si evidenzia quali siano stati i propositi e le meto‑ dologie utilizzate, il gruppo di lavoro“ha concepito se stesso come organismo non formalizzato e di breve durata, che non deve interferire né con l’attività del Parlamento, né con le deci‑ sioni che spettano alle forze politiche. Si é posto perciò l’obbiet‑ tivo di formulare alcune brevi proposte programmatiche che possano divenire, con diverse modalità, terreno di condivisione tra le forze politiche. Il gruppo di lavoro ha raggiunto un ele‑ vato grado di condivisione sulle proposte raccolte nel rapporto, salvo pochi casi, specificamente segnalati, nei quali le differen‑ ti opinioni non hanno trovato un punto di mediazione”. Appa‑ re opportuno ricordare che in tema di riforme istituzionali il gruppo di lavoro è stato composto da Mario Mauro, Valerio Onida, Gaetano Quagliariello, Luciano Violante. Il capitolo V della relazione è dedicato all’Amministrazione della Giustizia, infatti i c.d. saggi ritengono che “i conflitti ricorrenti tra poli‑ tica e giustizia si affrontano assicurando che ciascun pote‑ re – quelli politici, legittimati dal processo democratico, e quello giurisdizionale, legittimato dal dovere di applicare la legge in conformità alla Costituzione – operi nel proprio am‑ bito senza indebite interferenze in un quadro di reciproca indi‑ pendenza, di leale collaborazione, di comune responsabilità costituzionale. Una buona e costante manutenzione dell’ordi‑ namento e una migliore qualità della legislazione favoriscono la certezza del diritto e prevengono i conflitti”. Nella relazione gli obiettivi ritenuti prioritari nel campo della amministrazione della giustizia riguardano principalmente: il rispetto effettivo di tempi ragionevoli di durata dei processi, oggi carente, come dimostrato dal moltiplicarsi dei ricorsi in base alla legge “Pin‑ to” nonché alla Corte europea dei diritti, sia sul piano della 12 Marinaro, op. cit., 2012. F O R E N S E m a r z o • a p r i l e giustizia penale, amministrativa e contabile, sia sul piano della giustizia civile (dove la lentezza dei procedimenti penalizza lo sviluppo e la competitività del paese); la riduzione della iper‑ trofia del contenzioso; la maggiore efficacia dell’azione preven‑ tiva e repressiva, oltre che dei fenomeni della criminalità orga‑ nizzata, dei fenomeni di corruzione nella vita politica, ammi‑ nistrativa ed economica; l’esigenza di contenere il fenomeno dei contrasti fra diversi organi giudiziari, nonché, sul piano pena‑ le e della giustizia contabile, il fenomeno di iniziative che ten‑ dono ad intervenire anche in sostanziale assenza di vere, og‑ gettive e già acquisite notizie di reato o di danno erariale, in funzione di controllo generalizzato su determinati soggetti o procedimenti; il perfezionamento del sistema di tutela dei di‑ ritti fondamentali, che si avvale oggi del riconoscimento pieno del diritto al giudice, dell’ampia apertura agli strumenti di tutela internazionali, e di organi giudiziari indipendenti, ma non sempre è effettivo a causa di lacune normative e di carenze organizzative. Nel dettaglio per la giustizia civile il gruppo dei saggi propone: “l’instaurazione effettiva di sistemi alternativi (non giudiziari) di risoluzione delle controversie, specie di mi‑ nore entità, anche attraverso la previsione di forme obbligato‑ rie di mediazione (non escluse dalla recente pronuncia della Corte costituzionale – sent. n. 272 del 2012 – che ha dichiara‑ to illegittima una disposizione di decreto legislativo che dispo‑ neva in questo senso, ma solo per carenza di delega); questi sistemi dovrebbero essere accompagnati da effettivi incentivi per le parti e da adeguate garanzie di competenza, di impar‑ zialità e di controllo degli organi della mediazione”. Si registra che nessuno dei componenti del gruppo di lavoro ha espresso osservazioni di senso contrario in riferimento alla proposta d’inserimento dell’obbligatorietà della mediazione civile nell’or‑ dinamento giuridico. 3. Nuovo impulso normativo del Parlamento europeo allo sviluppo delle procedure Adr In tema di Adr il Parlamento europeo, il 12 marzo 2013, ha adottato una nuova direttiva rivolta agli Stai membri. In particolare all’art. 1 si precisa quale sia l’obiettivo che la diret‑ tiva si prefigge di raggiungere cioè contribuire al corretto funzionamento del mercato interno garantendo che i consuma‑ tori possano, su base volontaria, presentare reclamo nei con‑ fronti di professionisti dinanzi a organismi che offrano proce‑ dure indipendenti, imparziali, trasparenti, efficaci, rapide ed eque di risoluzione alternativa delle controversie. Allo stesso tempo la direttiva comunque non pregiudica la legislazione nazionale che preveda l’obbligatorietà di tali procedure, a con‑ dizione che tale legislazione non impedisca alle parti di eserci‑ tare il loro diritto di accedere al sistema giudiziario. Base giu‑ ridica della direttiva è il Trattato sul funzionamento dell’Unio‑ ne europea che stabilisce al suo interno che l’Unione deve contribuire ad assicurare un livello elevato di protezione dei consumatori13 ed anche la stessa Carta dei diritti fondamenta‑ li dell’Unione europea stabilisce che nelle politiche dell’Unione deve essere garantito un livello elevato di protezione dei consu‑ matori14. Appare opportuno rimarcare che il fine principale di questa fonte del diritto comunitario è nei suoi fini generali 13TFUE, articolo 169, paragrafo 1e paragrafo 2, lett. A. 14 CDFUE, articolo 38. 2 0 1 3 11 l’avvicinamento degli istituti giuridici riguardanti le procedure di Adr tra gli Stati dell’Unione. La recente direttiva parlamen‑ tare delinea, inoltre, i limiti entro cui essa vada applicata, cioè alle procedure di risoluzione extragiudiziale delle controversie, nazionali e transfrontaliere, concernenti obbligazioni contrat‑ tuali derivanti da contratti di vendita o di servizi tra professio‑ nisti stabiliti nell’Unione e consumatori residenti nell’Unione attraverso l’intervento di un organismo Adr che propone o impone una soluzione o riunisce le parti al fine di agevolare una soluzione amichevole. Il Parlamento europeo sostanzial‑ mente stabilisce nello stesso atto i requisiti armonizzati di qualità in materia di organismi Adr e di procedure in modo da garantire che, a seguito della relativa attuazione, i consumato‑ ri abbiano accesso a meccanismi extragiudiziali di ricorso trasparenti, efficaci, equi e di elevata qualità, a prescindere dal luogo di residenza all’interno dell’Unione. Comunque gli Stati membri possono conservare o introdurre norme che prevedano misure ulteriori rispetto a quanto stabilito dalla direttiva al fine di assicurare un livello superiore di tutela dei consumatori. La frammentazione del mercato interno è negativa per la com‑ petitività, la crescita e la creazione di posti di lavoro dell’Unio‑ ne. Per il completamento del mercato interno è essenziale eli‑ minare ostacoli diretti e indiretti al suo corretto funzionamen‑ to e migliorare la fiducia dei cittadini. Secondo le disposizioni contenute nella direttiva è opportuno che i consumatori trag‑ gano vantaggio dall’accesso a mezzi facili, rapidi e a basso costo per risolvere le controversie nazionali e transfrontaliere derivanti da contratti di vendita o di servizi, in modo da raf‑ forzare la loro fiducia nel mercato. Tale accesso dovrebbe va‑ lere sia per le operazioni online che per quelle offline, soprat‑ tutto se i consumatori acquistano oltre confine. In tema di trasparenza gli Stati membri dovranno garantire che gli orga‑ nismi rendano disponibili al pubblico sui loro siti web, su un supporto durevole su richiesta e in qualsiasi modo essi ritenga‑ no appropriato, le relazioni annuali d’attività. Tali relazioni comprenderanno le informazioni relative alle controversie sia nazionali sia transfrontaliere. Gli Stati membri dovranno ga‑ rantire che le procedure Adr siano efficaci e rispettino soprat‑ tutto determinati requisiti che forniscano garanzia di traspa‑ renza, cioè occorre che: la procedura sia disponibile e facilmen‑ te accessibile online e offline per entrambe le parti, a prescin‑ dere dalla loro ubicazione; le parti hanno accesso alla proce‑ dura senza essere obbligate a ricorrere a un avvocato o consu‑ lente legale senza che la procedura precluda alle parti il loro diritto di ricorrere al parere di un soggetto indipendente o di essere rappresentate o assistite da terzi in qualsiasi fase della procedura; sia gratuita o disponibile a costi minimi per i con‑ sumatori. Nella direttiva il Parlamento non trascura di preci‑ sare come la crescente importanza del commercio elettronico e, in particolare, del commercio transfrontaliero quale pilastro dell’attività economica dell’Unione, imponga un’infrastruttura ADR negli Stati membri, omogenea ed efficace, opportuna‑ mente funzionante per le controversie dei consumatori ed un quadro opportunamente integrato di risoluzione delle contro‑ versie online per le controversie dei consumatori derivanti da operazioni effettuate online (ODR) al fine di conseguire l’obiet‑ tivo dell’atto per il mercato unico, di rafforzare la fiducia dei cittadini nel mercato interno. La risoluzione alternativa delle controversie appartiene pienamente al patrimonio giuridico dell’Unione europea poi‑ civile Gazzetta 12 D i r i t t o e p r o c e d u r a ché garantisce una soluzione semplice, rapida ed extragiudi‑ ziale alle controversie tra consumatori e professionisti. Tutta‑ via, l’ Adr non è ancora sviluppata in maniera sufficiente e coerente nell’Unione. È un dato incontrovertibile che l’Adr non sia stato attuato correttamente e non funzioni in modo soddisfacente in tutte le zone geografiche o in tutti i settori economici dell’Unione nonostante le raccomandazioni della Commissione15, riguardante i principi applicabili agli organi responsabili per la risoluzione extragiudiziale delle controver‑ sie in materia di consumo e sui principi applicabili agli orga‑ ni extragiudiziali che partecipano alla risoluzione consensua‑ le delle controversie in materia di consumo16. La direttiva non dimentica di ribadire come i consumatori e i professionisti non siano ancora a conoscenza dei meccanismi extraprocessuali di ricorso esistenti e soltanto un’esigua percentuale di cittadi‑ ni sa come presentare un reclamo a un organismo. Laddove le procedure legate all’Alternative dispute resolution sono disponibili, i loro livelli qualitativi variano notevolmente da uno Stato membro all’altro e le controversie transfrontaliere non sono spesso trattate in modo efficace dagli organismi. 4 La mediazione civile in Romania: l’obbligo della sessione informativa L’istituto della mediazione civile è parte integrante del sistema giuridico rumeno. In particolare l’attività legislativa del Parlamento si è caratterizzata per dinamicità ed efficacia per tentare di arginare l’arretrato giudiziario nazionale. È utile ricordare che gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie in Romania sono essenzialmente la conci‑ liazione in materia commerciale1, l’arbitrato tradizionale ed online e la mediazione. In particolare, la legge 192/2006 re‑ gola la mediazione e la professione del mediatore. La norma‑ tiva disciplina in modo completo la mediazione civile ed in parte quella familiare e penale17. L’art. 1 della legge stabilisce che la mediazione è una modalità alternativa di risoluzione dei conflitti, o una procedura volontaria e confidenziale per mezzo di una terza persona neutrale, imparziale e senza alcun potere decisionale, cioè il mediatore che agevola le parti nel raggiungimento condiviso di un mutuo accordo volto alla risoluzione del conflitto in essere tra le parti. Ad innovare il dettame originario è intervenuta la l.370/2010, che ha elimi‑ nato il termine “alternativa”. In questo modo si e’ cercato di ovviare alla opinione comune secondo cui la scelta di rivol‑ gersi allo strumento di mediazione possa interdire dalla possibilità di rivolgersi poi anche ad altri metodi di risoluzio‑ ne dei conflitti. La mediazione rappresenta un’attività di pubblico interesse18. Nell’esercizio delle sue competenze, il mediatore non ha potere decisionale in termine di contenuti dell’accordo che le parti possono raggiungere, ma può fornire direttive per le parti perché possano verificare la legittimità del loro accordo19.. L’art. 59 prevede che l’accordo possa esse‑ re dotato di efficacia esecutiva mediante l’atto di un notaio pubblico oppure attraverso il recepimento in una decisione del 15 Racc. CE, 30 marzo 1998, 98/257/CE, in Juris data. 16 Racc. CE, 04 aprile 2001, 2001/310/CE, in Juris data. 17 calcagno, Strumenti di composizione dei conflitti in Romania, in mediaresen‑ zaconfini.org, 2012 18 l., 16 maggio 2006, n.192, art. 4 c. 1. 19 l., 16 maggio 2006, n.192, art. 4 c. 2. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E tribunale. All’uopo la legge 202/10 stabilisce da ultimo che se le parti si riconciliano il giudice incorporerà il loro accordo con propria decisione. Le parti possono rappresentare al giu‑ dice che hanno raggiunto un accordo in qualsiasi momento in udienza e fuori udienza (in tal ultimo caso il giudice decide in camera di consiglio). L’accordo sarà presentato in forma scrit‑ ta. La decisione che incorpora l’accordo è inappellabile. La mediazione può avvenire tra due o più parti 20. Le parti hanno il diritto di scegliere liberamente il proprio mediatore21. La mediazione può essere effettuata da uno o più mediatori 22. Anche in Romania come in Italia la mediazione può essere multi parte ed in relazione a questo tipo di conflitti vi posso‑ no essere anche più mediatori che si occupano dello stesso conflitto. Rispetto a questa breve introduzione che delinea i caratteri dell’istituto in Romania è opportuno rimarcare da subito le recenti innovazioni giuridiche introdotte all’interno del quadro normativo. In particolare, è stato introdotto l’ob‑ bligo di un sessione informativa di mediazione sia in fase preventiva, sia in fase di giudizio su impulso del giudice. L’in‑ novazione normativa, entrata in vigore nell’ottobre 201223, è stata successivamente modificata dall’ordinanza urgente del Governo, del 12 dicembre 2012, affermando quindi che tran‑ ne che la legge non disponga diversamente, le parti, fisiche o persone giuridiche, sono tenute a partecipare ad una sessione informativa sui vantaggi della mediazione, compreso, se ne‑ cessario, il caso di giudizio già instaurato davanti alla Corte, in modo da risolvere il conflitto in diritto civile, famiglia, questioni penali ed altro. Da ciò si desume come concretamen‑ te la sessione informativa è prevista per ogni tipo di giudizio24. Il Legislatore rumeno ha precisato che il mediatore rilasci alle parti un certificato con cui attesta di aver rilasciato l’in‑ formativa, se non si partecipa o si rifiuta o non si risponde all’invito del mediatore a partecipare alla sessione informati‑ va obbligatoria questi deposita una relazione in tribunale. Il giudice dichiarerà il ricorso in giudizio inammissibile sia nel caso in cui non si sia provveduto a partecipare alla sessione informativa preventiva, sia a quella su ordine del giudice a processo instaurato. La grande novità è dunque quella della inammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio. La sessione informativa che in Romania deve tenersi entro 15 giorni, non ritarda in alcun modo il corso del giudizio e non incide sulla controversia in alcun modo. 20 l., 16 maggio 2006, n.192, art. 5 c. 1. 21 l., 16 maggio 2006, n.192, art. 5 c. 2. 22 l., 16 maggio 2006, n.192, art. 5 c. 3. 23 l., 4 luglio 2012 , n.115, art. 2. 24 Calcagno, op.cit., 2012. F O R E N S E ● Il contenuto del testamento apre le porte alla diseredazione espressa ● Flora Caputo e Gaetano del Giudice Avvocati m a r z o • a p r i l e 2 0 1 3 13 Sommario: 1. Definizione ed origine. – 2. La controversa ammissibilità della clausola diseredativa – 3. La diseredazio‑ ne dei legittimari – 4. Il nuovo art. 448 bis c.c. e le influenze sull’istituto della diseredazione – 5. Compatibilità tra disere‑ dazione e legato – 1. Definizione ed origine La dottrina più diffusa definisce la diseredazione come una disposizione di carattere patrimoniale a contenuto negativo con la quale il testatore esclude dalla successione taluno dei successibili1. Al fine di comprendere appieno la natura e le finalità dell’istituto che in questa sede si vuol analizzare, seppur bre‑ vemente e senza ambizione di completezza, è il caso di accen‑ nare al differente impianto normativo vigente all’epoca in cui germinò l’istituto. La diseredazione, istituto sconosciuto all’attuale codice civile, affonda le sue radici nel diritto romano, laddove la sua funzione precipua era quella di concedere al pater familias uno strumento di punizione verso i suoi eredi, anche legittimari, nei cui confronti nutriva sentimenti di astio o riprovazione2. Dopo un periodo in cui la sua utilizzazione risultava svin‑ colata da qualunque presupposto, connaturando di arbitrarie‑ tà la scelta del capo famiglia, si sentì l’esigenza di limitare la possibilità di ricorrervi senza freno; a tal fine l’istituto fu in un primo momento modificato con l’introduzione di una serie di ipotesi tassative, e successivamente abolito. Ripercorrendo brevemente le origini e la storia del menzio‑ nato istituto, nel diritto giustinianeo, la diseredazione era re‑ golata dalla Novella 115, ove si prevedeva che i discendenti e gli ascendenti potessero essere diseredati soltanto laddove avessero posto in essere gravi atti, tassativamente previsti dalla legge (iustae causae), fermo restando il potere del testa‑ tore di perdonarli3. L’istituto della diseredazione veniva già all’epoca affianca‑ to a quello dell’indegnità4 similitudine dovuta non certo ad una identità di ratio o di natura giuridica, quanto piuttosto in considerazione dell’affinità di effetti: in entrambi i casi il sog‑ getto destinatario (diseredato o indegno) è escluso dalla suc‑ cessione. L’istituto dell’indegnità era concepito come esplicazione della volontà della legge e mirava a tutelare l’interesse pubbli‑ co, in quanto si considerava riprovevole che un soggetto che avesse commesso atti delittuosi nei confronti di una persona potesse succedergli5; la diseredazione estrinsecava invece la volontà del de cuius di escludere taluno dalla propria succes‑ sione per ipotesi di minore gravità ed era diretta a tutelare l’interesse privato del de cuius. 1 M. Ieva, Manuale di tecnica testamentaria, CEDAM, Milano, 2006, p. 27. 2G. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2009,Tomo I, p. 197; L. Genghini, Le successioni per causa di morte, Milano, 2012, Tomo I, p.445. 3 F. Cancelli, voce: “Diseredazione, a) Diritto romano”, in Enc. Dir., XIII, Milano, 1964, p.95 e ss. 4 M. Comporti, Riflessioni in tema di autonomia testamentaria, tutela dei legit‑ timari, indegnità a succedere e diseredazione, in Familia, 2003, p.31. 5Studio del Consiglio Nazionale del Notariato n. 339/2012, Clausola di disere‑ dazione e profili di modernità, approvato dalla Commissione Studi Civilistici del 20 settembre 2012, 2 a firma di S.Monosi; S. Monosi, L’indegnità a suc‑ cedere in Trattato breve delle successioni e donazioni, diretto da Pietro Rescigno, VOL. I – Le successioni mortis causa. I legittimari. Le successioni legittime e testamentarie, Padova, 2010, p. 19. civile Gazzetta 14 D i r i t t o e p r o c e d u r a Se è evidente che diversi sono i presupposti, a ben vedere, però, diversi sono altresì anche gli effetti. Il soggetto colpito dalla volontà diseredativa del de cuius non addiviene alla successione, mentre l’indegno, come spiega bene la dottrina più accreditata6, potest capere se non potest retinere 7. Entrambi gli istituti hanno poi trovato una parziale diffu‑ sione in ambito europeo, sebbene non simultanea. Schematiz‑ zando, i Germani non conoscevano in origine né il testamen‑ to né la diseredazione ed i sistemi giuridici settecenteschi precedenti alla Rivoluzione Francese confondevano la disere‑ dazione con l’incapacità a succedere per ingratitudine o inde‑ gnità. Fu nel periodo della Rivoluzione che si manifestò un at‑ teggiamento ostile nei confronti dell’istituto, cosicché nel Codice Civile Napoleonico del 1804 ci si limitò a disciplinare l’indegnità8. Col passare del tempo gli istituti de quibus sono andati scomparendo dalla scena di molti ordinamenti europei (tra cui quello Italiano), permanendo, entrambi o solo uno di loro, in altri9. Con riguardo all’ordinamento italiano, l’evoluzione nor‑ mativa non è stata benevola con la sorte della disposizione in commento. La diseredazione infatti, in quanto “sanzione” particolarmente forte e lesiva dei diritti successori degli eredi, finanche legittimari, era coerente con la piena ed ampia auto‑ nomia dispositiva dei diritti soggettivi concessa dalla legisla‑ zione romana, ma non più con la moderna impronta solida‑ ristica cui il Legislatore moderno si ispira nella regolamenta‑ zione dei rapporti tra i più stretti congiunti. Già nel codice civile del 1865, conseguentemente, la diseredazione non tro‑ vava più espressa cittadinanza10. La rinnovazione codicistica culminata nel codice civile del 1942 consacrò la definitiva scomparsa della disposizione di‑ seredativa dall’ordinamento italiano, in seno al quale una disposizione tanto punitiva nei confronti di un appartenente al nucleo familiare del disponente era vista come un’eccessiva manifestazione di arbitrarietà. 2. La controversa ammissibilità della clausola diseredativa Come detto, la clausola di diseredazione è lo strumento idoneo ad escludere alcuno dal novero dei soggetti potenziali chiamati all’eredità. In passato fortemente ostacolata da dottrina e giurispru‑ denza tradizionali, alla luce del recente netto renvirement della Suprema Corte di Cassazione 11 che – condividendo la 6 Ex multis: in dottrina: C. Ruperto, Indegnità a succedere, in Enc. Giur. Roma, 1989 XVI, n. 1.6, 2; P. Schlesinger, Successione (Diritto civile), in Noviss. Dig. It., XVIII, Torino, 1971, p.755; in giurisprudenza: Cass. Civ. 29 marzo 2006, n. 7266, in Giust civ. mass., 2006, 3; Cass. Civ. 05 marzo 2009, n. 5402, in Fam. Pers. Succ. 2009, p. 973. 7G. Bonilini, Trattato di diritto delle successioni e donazioni, Milano, 2009, p. 43. 8L. Albertazzi‑G. Varrasi, La diseredazione, 4 Businessjus 15 2012, p. 3. 9Per una rapida panoramica sugli ordinamenti in cui è prevista e disciplinata la diseredazione, nonché sui contributi della dottrina straniera, si rinvia allo Studio del Consiglio Nazionale del Notariato n. 339/2012, cit.. 10 A. Torrente, voce Diseredazione, diritto vigente in Enciclopedia del Diritto, Vol. XIII, Milano, 1964, p.102. 11 Cass. civ, Sez. II, 25 maggio 2012, n. 8352, in Fam. Pers. Succ., 2012, 11, p.763 con nota di V. Barba, La disposizione testamentaria di diseredazione. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E tesi di illuminata dottrina12 – ha superato l’orientamento re‑ strittivo precedente, oggi la clausola diseredativa meramente negativa sembrerebbe aver trovato finalmente cittadinanza nell’ordinamento giuridico italiano. Procedendo con ordine, dottrina e giurisprudenza tradi‑ zionali non ammettono la diseredazione espressa di un suc‑ cessibile. Le ragioni di ciò si rinvengono: a) in primis, in ra‑ gione di quanto disposto dal Legislatore ex art. 587 comma 1 c.c., ove il termine “disporre” si ritiene non possa che essere interpretato nel senso che il testamento debba necessariamen‑ te contenere previsioni attributive (e non meramente abdicati‑ ve) del patrimonio, e precisamente nelle forme dell’istituzione di erede e/o di legato13; b) in secundis, si adduce la storica prevalenza della successione legittima 14 – posta a tutela delle ragioni della famiglia – su quella testamentaria – che tutela l’esclusivo interesse del testatore. In quest’ottica, dunque, la clausola diseredativa, non costituendo contenuto tipico del testamento nel senso riferito, non è in grado di far prevalere le disposizioni testamentarie su quelle di legge, giacché il te‑ statore potrebbe impedire l’apertura della successione legitti‑ ma sol creando i presupposti per la devoluzione testamentaria dell’eredità attraverso una disposizione positiva, di contenuto attributivo, che abbia la struttura dell’istituzione di erede o di legato15; c) infine, si sottolinea come, tanto nel codice civile del 1865, quanto in quello del 1942, le ipotesi per cui in passato era legittimamente configurabile la diseredazione sono state successivamente assorbite da quelle per le quali oggi è possi‑ bile chiedere una pronuncia di indegnità16. Alla tesi esposta, fa da pendant, secondo l’opinione di certa dottrina17, la teoria sostenuta per lungo tempo dalla 12Il riferimento è a M. Bin, La diseredazione. Contributo allo studio del conte‑ nuto del testamento, Torino, 1966. 13Le uniche previste dal Legislatore ex art. 588 comma 1 c.c. 14 Argomentando ex articoli 457 comma 2, 587 comma 1 e 588 comma 1 c.c.; in tal senso Cicu, Successioni per causa di morte – Parte generale – Delazione ed acquisto dell’eredità in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da Cicu e Messineo, Milano 1958, p.100. 15La natura superindividuale degli interessi sottesi alla successione ab intestato restringe l’operatività della autonomia testamentaria che, operando quale ec‑ cezione alla regola della prevalenza della successione legittima su quella testa‑ mentaria, può esplicarsi solo nel rispetto della tipicità del contenuto del testa‑ mento. Così M. Bin, ibidem. 16In virtù di questo, secondo alcuni la diseredazione non sarebbe ammissibile (anche) perché finirebbe col rappresentare una implicita ed inammissibile estensione delle tassative cause di indegnità; in tal senso F. Messineo, Manua‑ le di dir. Civ. e comm., VI, 1962; G. Capozzi, Successioni e donazioni, 1, 1982, p. 134. In senso contrario si esprimono quanti ritengono che i due istituti re‑ stano comunque profondamente diversi – come si è già avuto modo di dire – e solo l’indegnità può (pacificamente) colpire anche un legittimario e può riguar‑ dare fattispecie che devono essere accertate successivamente all’apertura della successione. Autorevole dottrina, poi, pur non richiamando il rapporto tra indegnità e disere‑ dazione, rileva come unico scopo di quest’ultima sia penalizzare il diseredato, privandolo della possibilità di adire l’eredità, e ciò basterebbe per tacciare la disposizione diseredativa di nullità, in quanto diretta a soddisfare un interesse non meritevole di tutela; cfr.; L. Ferri, L’esclusione testamentaria di eredi, in Riv. Dir. Civ., 1941, p. 232; C.M. Bianca, Diritto civile. La famiglia, le succes‑ sioni, II, Milano, 1989, p. 554. L’Autore da ultimo citato, però, sottolinea come sia valida la volontà diseredativa quando sia manifestata (o suscettibile di esse‑ re interpretata) come intento di beneficiare gli altri successibili legittimi. Fermo ciò, sembra potersi in radice escludere la liceità di una diseredazione resa attraverso una disposizione infamante che possa ledere il decoro o la rispetta‑ bilità del nominato senza che possa parlarsi di nullità della disposizione per illiceità della causa o per immeritevolezza di tutela degli interessi perseguiti, configurandosi semplicemente un illecito commesso per mezzo del testamento che importa per l’offeso il mero diritto a pretendere dagli eredi (ex art. 752 c.c.) il risarcimento dei danni patiti. 17G. Bellavia, La Cassazione ammette la clausola di diseredazione esplicita F O R E N S E m a r z o • a p r i l e giurisprudenza di merito e di legittimità che dal dopoguerra ad oggi non ha mai ammesso – salvo rare eccezioni18 – la clausola meramente diseredativa, salvandola solo allorquando fosse possibile, attraverso un’attenta e complicata opera er‑ meneutica, ricavarvi anche una implicita istituzione di altri soggetti. L’esclusione testamentaria, dunque, per essere valida e non inficiare l’intero testamento, doveva valere sotto un duplice aspetto: da un lato quale dichiarazione tacita (stante il suo implicito contenuto positivo), e dall’altro quale dichia‑ razione per relationem, permettendo l’individuazione dei chiamati per rinvio alle regole della successione legittima, espunto il successibile diseredato19. Sottoposta a vaglio critico da copiosa dottrina 20, la tesi in parola ha incontrato il disfavore di quanti hanno sottolineato, prima di tutto, come ricavare una volontà attributiva certa da una clausola negativa non sia cosa agevole, anche in relazione al principio di certezza enunciato dal Legislatore ex art. 628 c.c. In forza della citata norma, l’implicita volontà istitutiva deve risultare in modo non equivoco dalla valutazione di elementi offerti, in base a precise indicazioni, dallo stesso testatore, e tali da consentire immediatamente l’identificazio‑ ne dei chiamati, benché non indicati nominativamente (cfr. art. 625 c.c.). Se la chiamata testamentaria implica, invece, un complesso procedimento interpretativo privo di un sostra‑ to testuale evidente, è più difficile ravvisare detta certezza, potendosi dubitare delle reali intenzioni del disponente. La clausola diseredativa, si dice, ha una portata meramen‑ te negativa e non è possibile riconoscerle, nemmeno indiret‑ tamente, alcun significato attributivo. La volontà di disereda‑ zione si giustifica ed esaurisce in sé, non essendo il de cuius postosi il problema di scegliere ed indicare (implicitamente) i suoi successori, ma limitandosi ad escludere uno o più poten‑ ziali chiamati alla successione, con conseguente indifferenza, sia per chi in concreto succederà al posto del diseredato, e sia per la sorte dei suoi beni, confidando nella legge per la loro distribuzione tra i non esclusi 21. meramente negativa, in Famiglia e Diritto, 2013, 2, 146. L’Autore non condi‑ vide l’opinione di chi ritiene che l’esponenda tesi giurisprudenziale si possa qualificare come tesi “intermedia”, non facendo altro che ammettere una clausola (istitutiva o comunque dispositiva) positiva accompagnata da una diseredazione c.d. implicita. 18Si vedano, ad esempio, App. Firenze 9 settembre 1954, in Giur. It., 1955, I, 2, p.759; App. Napoli 21 maggio 1961, in Foro pad., 1962, I, p. 939; Trib. Parma 3 maggio 1977, in Riv. Not., 1977, II, p. 689; Trib. Catania 21 febbraio 2000, in Giuri it., 2001, I, p. 70; App. Genova 16 giugno 2000, in Giur. Mer., 2001, p. 937. 19In dottrina si discute sul tipo di relatio: secondo L. Mengoni, Successione per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, in Trattato di diritto civi‑ le e commerciale, già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, Milano, 1993, 24, la relatio non può che essere sostanziale, giacché dall’analisi della volontà del testatore si rileva il prevalente intento di escludere un successibile, più che la volontà di esprimere una preferenza per altri; per altri – F. Bartolozzi: nota a Cass. 18 giugno 1994, n. 5895, in Notariato, 1995, p.16 – si tratterebbe di relatio formale in quanto il rinvio alla fonte esterna si riferisce alle norme che regolano la successione ab intestato. 20 Ex multis. L. Bigliazzi Geri, A proposito di diseredazione, nota a Cass. Civ. 18 giugno 1994, n. 5895, in Corr. Giur., 1994, 12, 1506; G. Capozzi, op. cit., p.203. 21 Così si esprimono L. Bigliazzi Geri, op. cit., 1506; D. Russo, La disereda‑ zione, Torino, 1998, p. 49 ss.; G. Capozzi, op. cit., p. 203, il quale sottolinea come nel diritto moderno l’erede testamentario sia sostanzialmente un heres scriptus e che pertanto la sua individuazione non può essere fatta indirettamen‑ te attraverso il ricorso a fonti estranee al contenuto della stessa dichiarazione testamentaria. 2 0 1 3 15 Nulla osta, inoltre, a che il de cuius voglia intanto comin‑ ciare a predisporre un testamento contenente esclusivamente la diseredazione di alcuno, riservandosi il tempo per decidere se e quando effettuare – con uno o più successivi testamen‑ ti – un’istituzione o un legato22. Secondo altra parte della dottrina23, poi, la tesi giurispru‑ denziale in commento pecca di ipervalutazione di quanto contenuto nell’art. 587 comma 1 c.c. – in relazione all’art. 588 comma 1 c.c. – e di conseguenza assegna al testamento la funzione di atto necessariamente attributivo di beni. È la fra‑ gilità della convinzione che la diseredazione sia invalida in virtù della funzione necessariamente attributiva del testamen‑ to a spingere i giudici della Suprema Corte a ricercare a tutti i costi una volontà positiva in una clausola meramente negativa, anche a prezzo di una probabile incoerenza 24. Secondo la pro‑ spettata opinione critica, invero, detta incoerenza si rinverreb‑ be innanzitutto nell’ammettere la validità della diseredazione: a) quando non esaurisca il contenuto del testamento; b) quan‑ do il contenuto dell’atto si esaurisca sì nella clausola in parola, ma sia comunque possibile ricavare in via interpretativa anche la non equivoca volontà istitutiva del testatore25. Risulta incon‑ gruente, in tale ultimo caso, tra l’altro, sostenere che nonostan‑ te la diseredazione valga come istituzione implicita di altri al di là del diseredato, debba poi aprirsi la successione legittima26; in contrario dovrebbe, invece, comunque ammettersi l’apertu‑ ra della successione testamentaria 27 in favore dei successibili non esclusi, in considerazione del fatto che se nella clausola (meramente) diseredativa si vuole individuare per forza una implicita istituzione, non può negarsi che sia sempre la volon‑ tà del disponente (per quanto implicita) a regolare la devolu‑ zione dei suoi beni per il tempo successivo alla sua morte28. Come detto, la tesi che riconosce cittadinanza alla clauso‑ la di diseredazione espressa quale clausola autonoma di con‑ tenuto negativo, ha trovato espresso riconoscimento in un re‑ cente pronunciato degli Ermellini, che si fonda sul presupposto del superamento, da un lato, del dogma della preminenza della successione legittima su quella testamentaria e, dall’altro, sulla revisione della funzione causale del negozio testamentario che non ha necessariamente contenuto attributivo. Prima di tutto i Giudici del Palazzaccio chiariscono che il Legislatore, quando all’art. 587 comma 1 c.c. utilizza l’espres‑ 22 Così E. Bergamo Brevi note sulla diseredazione, in Giur. It., 2001, p.1. 23L. Bigliazzi Geri, op. cit., p. 1504; L. Mengoni, ibidem. 24 Cfr. quanto sostenuto da G. Bonilini, Disposizione di diseredazione accom‑ pagnata da disposizione modale, in Fam. Pers. Succ., 2007, 8‑9, p. 718 ss.; P. Rescigno, Recensione a Bin, in Riv. Dir. Civ., 1969, I, p. 95; R. Cimmino, Diseredazione e ricostruzione causale del negozio testamentario, in Notariato, 2013, 1, p. 25. 25 Così Cass. 20 giugno 1967, n. 1458, in Foro pad., 1967, I, p. 943. 26 Così Cass. 5895/94 cit. 27In tal senso L. Mengoni, op. cit., 24; M. Ieva, op. cit.,p. 29; Cass. 1458/67 cit.; V. Barba, op. cit., p.782, secondo il quale una volta che il testatore abbia operato l’esclusione dalla sua successione di uno o più soggetti, l’individuazio‑ ne degli altri successibili chiamati non opera in base alla successione legittima, bensì in base ad alcune regole da questa dettate.. Si tratta, dunque, di vocazio‑ ne testamentaria basata su un meccanismo convenzionale di individuazione dei successibili legittimi, anche perché – come sottolinea l’Autore – sarebbe singo‑ lare ritenere chiamati per legge coloro che, in assenza di diseredazione, la legge non avrebbe chiamato o chiamato con un ordine diverso. 28 Così si legge in Cass. 18 giugno 1994, n. 5895, cit.; Trib. Reggio Emilia 27 settembre 2000, in Vita not., 2001, p. 694, con nota di L. Cavandoli, Clau‑ sola di diseredazione e testamento,e con nota di G. Porcelli, Autonomia te‑ stamentaria ed esclusione di eredi in Notariato, 2002, 1, p. 47. civile Gazzetta 16 D i r i t t o e p r o c e d u r a sione “dispone”, lungi dal voler assegnare al testamento la ri‑ ferita funzione necessariamente attributiva, avrebbe inteso solo indicare l’attività “regolamentativa” – quella sì, necessa‑ ria – assegnata all’atto di ultima volontà. In tale accezione, infatti, non può negarsi che tanto l’espressa attribuzione di beni ad alcuno, quanto l’espressa dichiarazione di non volerli attribuire ad uno o più successibili, equivale a “disporre” nel senso di “regolare”. Non solo chi istituisce espressamente uno o più eredi o chi predispone uno o più legati sta disponendo delle proprie sostanze, ma lo sta facendo anche chi – escluden‑ do un successibile – incide sull’operare della successione ab intestato, consentendo o espandendo la chiamata dei non esclusi29. Se, dunque, la diseredazione realizza ex se un atto dispo‑ sitivo nell’accennata accezione, ben può costituire valido (ed eventualmente anche esclusivo) contenuto della scheda testa‑ mentaria. Ma vi è di più. Se la causa del testamento si rinviene nella regolamentazione degli interessi del disponente per il tempo successivo alla sua morte, nulla esclude che tali interessi non siano propriamente patrimoniali (come confermato ex art. 587 comma 2 c.c.) e da ciò non può che conseguirne che l’istituzione di erede ed il legato sono solo due delle possibili modalità di manifestazione dell’essenza dell’atto mortis cau‑ sa, ma non possono esaurirne il contenuto30. La tipicità del testamento quale unico strumento con cui si può validamente disporre delle proprie sostanze per il pe‑ riodo successivo alla propria morte, invero, non ha nulla a che vedere con la tipicità del suo contenuto; ed infatti da tempo la dottrina sottolinea come accanto all’istituzione di erede ed al legato siano espressamente previste una serie di norme che, per quanto a contenuto patrimoniale, non siano strictu sensu attributive31. 29La scelta tra una istituzione esplicita (con esclusione implicita di tutti gli altri successibili) o la esclusione espressa di alcuni sembra dipendere non solo e non tanto alla volontà istitutiva ex se, ma dal motivo (manifestato o meno) che anima il disponente. Istituire o escludere, dunque, dipende dal modo col quale ciascuno intende perseguire il risultato istitutivo finale, ma giammai può dirsi che la volontà istitutiva sia presunta o implicita, seppur la disposizione testa‑ mentaria sia negativa. Cfr. V. Barba, op. cit., p.767. 30La riconosciuta autonomia privata, ancor più ampia in materia testamentaria in considerazione del favor nei confronti di una manifestazione di volontà non più ripetibile dopo la morte, porta ad ammettere una nozione onnicomprensiva del contenuto della scheda testamentaria, con l’unico limite, della liceità dei motivi ed indipendentemente da qualsivoglia giudizio di meritevolezza. Al te‑ stamento, dunque, non può applicarsi il disposto dell’art. 1322 comma 2 c.c. dettato in materia contrattuale. Questa sembra, allo stato, la tesi della dottrina prevalente: si vedano, ex multis, G. Bonilini, Autonomia testamentaria e le‑ gato. I legati cosiddetti atipici, Milano, 1990, p. 64 ss.; A. Trabucchi, L’auto‑ nomia testamentaria e le disposizioni negative in Riv. dir. civ., 1970, I, p. 45 ss.; contra M. Bin:, op. cit., p.185 ss.. 31 Quali – ad esempio – i divieti testamentari di divisione ex artt. 713 commi 2 e 3 c.c., la dispensa da collazione ex art. 737 c.c., la deroga alla disciplina della ripartizione dei debiti ereditari ex art. 752 c.c. etc. Parte della dottrina, però, non ritiene confacente il richiamo a dette norme per ri‑ conoscere l’ammissibilità della diseredazione, giacché, si dice, le disposizioni de quibus sono esclusivamente accessorie, e presuppongono per loro stessa natura una disposizione principale cui accedono. In tal senso cfr. Cass. 20 giugno 1967, n. 1458, cit. Secondo parte della dottrina, però, tale obiezione non sarebbe comunque accoglibile in relazione al divieto testamentario di divisione ex art. 713 commi 2 e 3, o all’assegno divisionale semplice ex art. 733 c.c., che potrebbero anche esaurire da soli il contenuto della scheda testamentaria. In quest’ultimo senso si veda M. Bin, op. cit., p. 235, Forchielli – Angeloni, Della divisione, artt. 713 – 768 c.c., in Comm. C.C. Scialoja – Branca, Bolo‑ gna‑Roma, 2000, p. 289, opinione condivisa da M. Fusco, È valida la clauso‑ la di diseredazione meramente negativa, Giur. It., 2013, 2; Corona, La c.d. diseredazione: riflessioni sulla disposizione testamentaria, in Riv. not. 1992, c i v i l e Gazzetta F O R E N S E Ancora, nessuna norma stabilisce espressamente la preva‑ lenza della successione legittima su quella testamentaria, ed anzi, ben possono essere considerate pari ordinate32: se la legge ammette che quest’ultima impedisca del tutto l’operare della prima, a maggior ragione si deve ammettere una previ‑ sione in forza della quale è solo escluso taluno dal novero dei potenziali successibili ex lege33. Già da tempo, infatti, la dot‑ trina34 critica l’opinione che ravvisa la ratio della successione legittima nella tutela degli interessi della famiglia, essendo invece preordinata alla tutela dei meri interessi individuali e privati all’acquisto patrimoniale in capo ai singoli chiamati, nonché all’interesse ad assicurare il fenomeno successorio usando un criterio certo di individuazione dell’erede (la pa‑ rentela), in un’ottica di concentrazione del nucleo famigliare che (inevitabilmente) influenza il sistema giuridico nella sua interezza35. Infine, si dice, la clausola in commento non è espressa‑ mente vietata dal Legislatore ed è assimilabile ad altri istituti che determinano una efficacia negativa del testamento, pur non essendo costruiti in termini di disposizioni negative, quali una damnosa hereditas, l’esclusione dei legittimari dal‑ la disponibile, l’istituto del legato in sostituzione di legittima ex art. 551 c.c. 36 o anche l’esclusione (diretta) della rappresen‑ tazione37, nonché di raggiungere effetti simili a quelli che si ottengono con la preterizione 38. L’unico limite che sembra ancora oggi sussistere in tema di diseredazione espressa, riguarda l’impossibilità per il testatore 514 e n. 20; inoltre, secondo R. Cimmino, op. cit., p. 30, l’obiezione dell’ac‑ cessorietà delle varie disposizioni patrimoniali non strettamente attributive non può reggere oggi quando la dottrina maggioritaria ritiene che l’onere testamen‑ tario non sia più clausola accessoria ma vera e propria disposizione autonoma che, in forza della sua ambulatorietà (cfr. articoli 676 comma 2 e 677 comma 2 c.c.) ben può fungere esso solo quale strumento di regolamentazione delle so‑ stanze ereditarie, e nulla esclude che possa esaurire l’intero contenuto della scheda. Lo stesso può dirsi, inoltre, laddove il modus esaurisca l’intero valore dell’attribuzione testamentaria. Ulteriore conferma della ampia funzione rego‑ lamentare del testamento, come sottolinea anche questo autore, è data dall’am‑ missibilità di una serie di legati obbligatori che pur essendo disposizioni patri‑ moniali, comunque non attribuiscono al beneficiario sostanze già esistenti nell’asse ereditario, ma si limitano ad attribuire allo stesso un mero diritto di credito nei confronti dell’onerato. 32In questo senso C. Romano, Le successioni legittime, in AA.VV. Diritto delle successioni, a cura di R. Calvo e G. Perlingieri, Napoli, 2009, p.575 ss.; D. Pastore, Riflessioni sulla diseredazione, in Vita not., 2011, 2, p.1204 ss.; G. Capozzi, op. cit., p.613 ss.; L. Mengoni, op. cit., p.21 ss. 33 Con le precisazioni di cui infra. 34Si vedano M. Bin., op. cit., p. 108 ss.; L. Mengoni, op. cit., p. 710; L. Ferri, Disposizioni generali sulle successioni (artt. 456 – 511), in Commentario Scia‑ loja – Branca, a cura di F. Galgano, Bologna – Roma, 1997, p. 85 ss. 35Se le norme sulla successione legittima fossero davvero preordinate alla salva‑ guardia di un interesse superiore della famiglia, non sarebbe consentito all’au‑ tonomia privata derogarvi, come invece risulta possibile ex art. 457 comma 2 c.c., a norma del quale il disponente può impedire in tutto od in parte la devo‑ luzione dei suoi averi secondo le norme di legge. 36Si veda più diffusamente infra. 37Per chi l’ammette, comunque, può sempre e comunque essere fatta nei limiti della disponibile. 38Si osserva che ammettere l’esclusione di certi soggetti mediante disposizioni positive a favore d’altri – e cioè attraverso il ricorso all’istituto della preterizio‑ ne – e non ammettere che ciò avvenga attraverso una espressa ed apposita di‑ chiarazione con cui si esclude un successibile ex lege mediante una disposizione negativa dei propri beni, determinerebbe una forte antinomia. Diseredazione e preterizione, si dice, sono molto differenti giacché solo nella prima l’esclusione dalla successione discende in via diretta ed esplicita dalla volontà testamentaria, mentre con la preterizione la privazione della qualità ereditaria è solo indiretta ed eventuale. Si veda Ungari Trasatti, Rassegna di dottrina e giurisprudenza in tema di diseredaazione, in Riv. Not., 2003, p.1312; G. Torregrossa, Nota in tema di diseredazione¸ Giur. It., 2012, p. 12. F O R E N S E m a r z o • a p r i l e di escludere dalla sua successione tutti gli eredi legittimi – com‑ preso lo Stato – in palese violazione del principio di ordine pubblico in forza del quale un erede deve pur sempre poter essere individuabile, onde evitare che i beni del disponente diventino res nullius 39 . Dato per assodato che il testatore possa oggi espressamen‑ te diseredare un successibile 40, resta da comprendere cosa succede quando detta clausola si accompagni ad altre disposi‑ zioni attributive41, ed il discorso cambia a seconda che queste esauriscano o meno l’asse ereditario. Nulla quaestio ove il testatore diseredi espressamente qualcuno e poi proceda con l’istituzione di altri nella totalità dei suoi averi; in tal caso l’utilità di una espressa diseredazione risulta meramente soggettiva, raggiungendosi comunque l’obiettivo finale attraverso la disposizione della totalità delle sostanze ereditarie in favore d’altri. Discorso diverso è a farsi, invece, laddove alla espressa clausola diseredativa si accompagnino altre disposizioni attri‑ butive che non esauriscono l’intero patrimonio. Ai sensi dell’art. 457 comma 2 c.c. per la parte residua delle sostanze si apre la successione legittima, e, dunque, la diseredazione funge da strumento idoneo ad escludere il destinatario anche da quest’ultima successione, incidendo a monte sul suo diritto a succedere 42. Parte della dottrina 43 sottolinea come in realtà non è poi così scontato che nella fattispecie delineata si apra la succes‑ sione legittima e non quella testamentaria, con rilevanti rifles‑ si circa, ad esempio, l’operatività dell’accrescimento o la pos‑ sibilità di una rinunzia ad una sola delle delazioni (se sono due). Il riconoscere alla clausola diseredativa la capacità, in concre‑ to, di alterare l’ordine e/o il grado dei successibili spinge a pensare che questi ultimi non siano chiamati in forza di legge ma sempre come diretta conseguenza delle scelta operate dal disponente e tale soluzione, invero, non può non condividersi se a monte si condivide l’idea che la diseredazione possa dare un assetto completo alla successione 44. Escludendo espressamente uno o più soggetti dalla propria successione si dà comunque l’assetto voluto agli interessi post mortem, stabilendo, con un rinvio alla legge come modificata dalla disposizione testamentaria, quale sia l’ordine ed il con‑ corso dei successibili. 3. La diseredazione dei legittimari Se tutto quanto fin qui detto può pacificamente riferirsi ai successibili non legittimari (cfr. articoli 536 ss. c.c.), non al‑ trettanto può dirsi per gli eredi necessari 45. Benché ancora 39 A tacer di ciò, inoltre, non si vede a quale ragionevole fine possa essere teleo‑ logicamente indirizzata la disposizione testamentaria di esclusione di tutti gli eredi legittimi! 40Eccezion fatta per i legittimari, su cui si veda infra. 41 Caso in cui perde quasi del tutto rilevanza la discussione sull’astratta ammissi‑ bilità della clausola di diseredazione, non dovendosi cercare un appiglio per individuare una istituzione implicita d’altri. 42La disposizione in commento, dunque, finisce con l’alterare la compagine e l’even‑ tuale concorso tra successibili, in dipendenza dell’esclusione del diseredato. 43 Cfr. V. Barba, op. cit., p. 786. 44 A fondamento di tale impostazione vi è l’idea che la diseredazione sia pur sempre una disposizione istitutiva, benché lo scopo in concreto perseguito non sia istitutivo ma meramente diseredativo non può lo scopo in sé alterare la detta funzione istitutiva. 45Salvo a voler ammettere una diseredazione “nei limiti della disponibile”, come 2 0 1 3 17 oggi in dottrina e giurisprudenza possa dirsi prevalente la tesi che non ammette la configurabilità di una clausola disereda‑ tiva riferita ai più stretti congiunti del disponente, non può dirsi sopita la querelle riguardante la sanzione ad essa appli‑ cabile, con conseguente riflessi sull’attività notarile in relazio‑ ne al disposto dell’art. 28 legge 16 febbraio 1913, n. 89. Secondo l’opinione della dottrina che allo stato sembra ancora prevalere 46, la sanzione configurabile per una dispo‑ sizione diseredativa diretta nei confronti di un legittimario non può che essere la radicale nullità, in quanto disposizione in contrasto con norme imperative poste a tutela di interessi di natura pubblicistica (articoli 457 comma 3 e 549 c.c.), e perciò stesso inderogabili dall’autonomia privata. Ne deriva, conseguentemente, che al notaio è fatto assoluto divieto di ricevere siffatta clausola, pena la sospensione da uno a sei mesi ex art. 138 legge 13/89. Secondo alcuni autori e parte della giurisprudenza47, di contro, la clausola negativa di esclusione dalla successione eventualmente indirizzata ad un legittimario deve considerar‑ si, al pari di una qualunque altra disposizione lesiva o della pretermissione totale da un testamento, meramente riducibile 48 . Fino al successivo (eventuale) vittorioso esperimento dell’azione di riduzione, da esercitarsi entro il termine decen‑ nale di prescrizione, il testamento che la contenga può rite‑ nersi pienamente valido ed efficace. Ne consegue la astratta possibilità per il notaio di ricevere un testamento pubblico contenente la disposizione de qua, senza alcuna violazione dell’art. 28 richiamato riferibile, secondo la tesi oggi pacifica, esclusivamente ad atti irrimediabilmente nulli e non anche a quelli (solo potenzialmente) riducibili. ritiene E. Bergamo, ibidem. Invero, a parer di chi scrive, non potrebbe proprio parlarsi di “diseredazione” in senso proprio con riguardo alla sola quota dispo‑ nibile del patrimonio del disponente, concretizzandosi la disposizione in paro‑ la in una mera istituzione nella sola legittima, sull’ammissibilità della quale non è nemmeno dato discutere G. Azzariti, Diseredazione ed esclusione di eredi, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1968, p. 1197; M. Bin, ibidem.; L. Bigliazzi Geri, Il testamento, in Tratt. di dir. priv., diretto da P. Rescigno, VI, Torino, 1982, p. 119; V. Cuffaro, Il testamento in generale: caratteri e contenuto, in Successioni e donazioni a cura di P. Rescigno, I, Padova, 1994, p. 751; Grosso e Burdese, Le successioni, Parte generale, in Tratt. di dir. civ., diretto da F. Vassalli, XII, Torino, 1977, p. 83. 46 Ex multis si veda L. Bigliazzi Geri, A proposito di diseredazione, nota a Cass. 18 giugno 1994, n. 5895, cit., p. 1503; D. Russo, op. cit., p. 200 ss.; A. Trabucchi, op. cit., p. 62; G. Azzariti, op. cit., p. 1198; G. Porcelli, op. cit., pp. 51 e 59; F. Bertolozzi, op. cit., p.11. In senso contrario si esprime, invece, L. Mengoni op. cit., p. 22, nota 59 – secon‑ do il quale anche la diseredazione del legittimario, come qualsiasi altro peso imposto sulla quota ad esso riservata dalla legge, trova la sua sanzione diretta nell’art. 549 c.c. che riguarda tutte le disposizioni – accessorie o autonome – che incidono sulla riserva. Secondo altri, però, tale tesi non è sostenibile, pena una eccessiva dilatazione del divieto di pesi e condizioni, che dovrebbe comprendere anche una disposizio‑ ne – come quella diseredativa – che invece di limitare (presupponendola) l’istituzione la esclude tout court. In tal senso E. Bergamo, ibidem. 47 Cfr. in dottrina G. Capozzi, op. cit., p. 198; Azzariti, Diseredazione ed esclusione di eredi, in Riv. Trim. dir. Proc. Civ., 1968, 1197; V. Porrello, La clausola di diseredazione, in Il diritto di famiglia e delle persone, 2008, 984 ss.; in giurisprudenza Cass. 12 marzo 1975, n. 296, in Mass. Giust. Civ., 1975, p. 418; App. Napoli 21 maggio 1961, in Foro pad., 1962, I, p. 939 ss.; V. Barba, op. cit., p. 770; tale ultimo Autore, inoltre, ritiene che il trattamento diseguale di situazioni sostanzialmente uguali – quali devono ritenersi, almeno quanto allo scopo perseguito dal disponente, la pretermissione e la diseredazio‑ ne di un legittimario – potrebbe essere considerato costituzionalmente illegitti‑ mo in quanto in contrasto con il disposto dell’art. 3 Cost. 48In ragione del fatto che è la riducibilità e non la nullità la sanzione tipica pre‑ vista dal Legislatore a tutela dei legittimari. Non manca chi sottolinea, però, la palese incongruenza di detta tesi in ragione dell’inesistenza di una disposizione attributiva lesiva da “ridurre”. In tal senso E. Bergamo, ibidem. civile Gazzetta 18 D i r i t t o e p r o c e d u r a La tesi da ultimo esposta si fonda su una serie di conside‑ razioni che, ad opinione di chi scrive, sembrano (almeno in parte) condivisibili. Innanzitutto il rilievo per cui la tutela offerta dall’azione di riduzione poggi necessariamente sull’esistenza di una di‑ sposizione attributiva (lesiva) da ridurre può dirsi solo par‑ zialmente confacente, giacché un legittimario potrebbe in concreto essere leso nel suo diritto di legittima anche in as‑ senza di testamento, in dipendenza di una serie di donazioni fatte in vita dal de cuius di valore eccedente la quota disponi‑ bile. Nessuno dubita o esclude che anche in tale circostanza il legittimario possa tutelarsi agendo in riduzione onde otte‑ nere nei suoi confronti la declaratoria di inefficacia delle do‑ nazioni lesive (cfr. art. 559 c.c.), pur non sussistendo alcuna disposizione testamentaria attributiva lesiva. Alla summenzionata tutela basata sull’esperibilità dell’azione di riduzione è ammesso non solo il legittimario leso nelle sue ragioni, ma anche chi non è stato affatto men‑ zionato nella scheda testamentaria (c.d. legittimario preter‑ messo); l’unico che non sarebbe ammesso a tale tutela sareb‑ be – a seguire la tesi della nullità della diseredazione del legit‑ timario – uno stretto congiunto espressamente diseredato. La scelta legislativa di fondare la tutela delle ragioni dei legittimari sull’azione di riduzione, e non sulla nullità delle disposizioni lesive49, sembra più funzionale nell’ambito di un sistema successorio improntato alla salvaguardia – sopra ogni cosa – dell’autonomia privata e dell’irripetibile volontà del testatore. Ove l’azione di riduzione non sia attivata o rinun‑ ziata 50 dal legittimario leso/pretermesso (o comunque riget‑ tata dall’autorità giudiziaria), si ottiene l’effetto di mantenere ferma la volontà del testatore, benché iniqua. Al contrario, ove la tutela delle ragioni dei soggetti indicati ex articoli 536 ss. c.c. fosse davvero affidata alla sanzione della nullità, la volontà del disponente difficilmente troverebbe concreta at‑ tuazione, anche laddove – seppur possa sembrare un caso di scuola – per ipotesi il soggetto leso/pretermesso fosse d’accor‑ do con la scelta testamentaria operata. Sembra dunque alquanto discutibile affermare inopinata‑ mente che una disposizione diseredativa di un legittimario sia sempre irrimediabilmente nulla e non meramente riducibile anche alla luce di altre considerazioni: 1) non può negarsi che la diseredazione – sotto l’angolo visuale dello scopo in con‑ creto perseguito dal legislatore – non si discosti di molto dalla pretermissione; 2) ancora, come già sottolineato, la sanzione della nullità determinerebbe in capo al legittimario che condivide la scelta diseredativa fatta nei suoi confronti l’onere di attivarsi per restare estraneo alla successione, diver‑ samente dal caso in cui fosse stato solo pretermesso nella scheda. La nullità, infatti, ha efficacia retroattiva e pertanto la clausola affetta da tale patologia si considera tamquam non 49Sanzione che sarebbe stata di difficile attuazione – se non in relazione all’intera scheda testamentaria – in caso di pretermissione del legittimario. 50La tutela rappresentata dalla riducibilità delle disposizioni lesive della legittima è assolutamente indisponibile prima dell’apertura della successione (art. 557 comma 2 c.c.) in quanto il legittimario non ha contezza di ciò che quantitati‑ vamente gli spetta se non successivamente all’apertura della successione, ma dopo tale momento nulla esclude che si rinunzi a tale diritto, senza con ciò ri‑ nunziare, come è ovvio, alla eredità. Ne consegue, tra l’altro, che la mera rinun‑ zia all’azione di riduzione non implica l’attivazione dei meccanismi di devolu‑ zione alternativi che consentono che la quota rifiutata sia delata ad altri. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E esset 51 , ed il legittimario per restare estraneo alla successione si troverebbe costretto ad effettuare un formale ed oneroso atto di rinunzia all’eredità ex art. 519 c.c. 52. 4. Il nuovo art. 448 bis c.c. e le influenze sull’istituto della diseredazione È interessante compiere una breve analisi della disposizio‑ ne diseredativa alla luce della recente riforma dell’istituto della filiazione, avvenuta con l. 10 dicembre 2012, n. 219. Benché una disamina completa della riforma citata esuli dall’oggetto del contributo che qui ci occupa, nondimeno è dato rilevare che la stessa ha significativamente inciso sull’im‑ pianto normativo preesistente, in primo luogo sancendo in modo definitivo e chiaro il principio secondo il quale “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico” 53, ed in secondo luogo introducendo ad opera dell’art. 1 comma 9, nel libro I, titolo XIII, codice civile, il nuovo art. 448 bis c.c.: “[I]. Il figlio, anche adottivo, e, in sua mancanza, i discendenti prossimi non sono tenuti all’adempimento dell’obbligo di prestare gli alimenti al genitore nei confronti del quale è stata pronuncia‑ ta la decadenza dalla potestà e, per i fatti che non integrano i casi di indegnità di cui all’articolo 463, possono escluderlo dalla successione”. Ai fini della nostra indagine, quindi, risulta evidente come la reale innovazione introdotta dalla l. 219/12 consista nell’aver aperto una vera e propria breccia nella normativa a tutela dei legittimari. È manifesto, infatti, che intento del Legislatore sia quello di consentire una esclusione piena del genitore dalla sfera successoria del proprio figlio anche quan‑ do rivesta la qualifica di legittimario ai sensi dell’art. 538 c.c., e non solo ove quest’ultimo sia un semplice erede legittimo, nonché in relazione all’intera quota di eredità ad esso riserva‑ ta e non solo in relazione alla quota disponibile54. Ciò che non risulta parimenti agevole comprendere è la portata di tale intervento alla luce della disciplina della dise‑ redazione, esclusivo oggetto di indagine in questa sede; da una prima (e pertanto necessariamente approssimativa) inter‑ pretazione della lettera della norma non è dato cogliere con certezza, in effetti, se l’”esclusione” ivi indicata sia da inten‑ dersi quale diseredazione o non sia, piuttosto, una possibilità concessa astrattamente al figlio e che necessita poi di un quid pluris (una pronuncia dell’Autorità Giudiziaria) per potersi validamente concretizzare. Alla luce della recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione55 che ammette senza mezzi termini la validità di 51 Dopo che sia stata dichiarata dall’autorità giudiziaria. Si ricordi, al riguardo, che l’azione di nullità è imprescrittibile e la relativa eccezione è anche rilevabi‑ le d’ufficio. 52E si arriverebbe anche all’assurdo di comprimere il diritto del legittimario alla rinunzia all’azione di riduzione, giacché l’operare della nullità lo collocherebbe tra i chiamati all’eredità, con ciò escludendolo ipso facto dal novero dei legitti‑ mati sia ad azionare il relativo giudizio che a rinunziarvi. 53 M. Sesta, La riforma della filiazione: profili successori, VIII Congresso giuri‑ dico – forense per l’aggiornamento professionale, Roma, 2012, p. 4 ss. 54 È lecito chiedersi quali possano essere i comportamenti che, sebbene non così gravi da intergare un caso di indegnità a succedere, legittimino comunque un figlio ad impedire che il genitore adisca l’eredità, e secondo l’interpretazione di G. Facci, La responsabilità dei genitori per violazione dei doveri genitoriali, in Sesta (a cura di), La responsabilità nelle relazioni familiari, Torino, 2008, 203, questi potrebbero riguardare le violazioni dei doveri familiari che importano responsabilità del genitore ex art. 2043 c.c. 55 Cass. n. 8352/2012, cit. F O R E N S E m a r z o • a p r i l e una clausola diseredativa espressa ed a contenuto esclusiva‑ mente negativo – sebbene solo se rivolta verso eredi legittimi ma non anche legittimari – vi è da chiedersi se il Legislatore, con il novello art. 448‑bis c.c., abbia inteso intervenire anche sulla normativa codicistica relativa ai legittimari e consentire apertis verbis la diseredazione di uno di questi (un genitore), ovvero se non gli si voglia, così ragionando, far dire più di quanto abbia voluto (e dovuto). Invero, la collocazione sistematica della nuova norma, unitamente all’interpretazione che della stessa ha fornito la menzionata dottrina che si è tempestivamente occupata dell’ar‑ gomento, induce a ritenere che le intenzioni sottese alla rifor‑ ma in commento non siano state quelle di intaccare la tutela riservata agli eredi necessari, né di disciplinare una dirompen‑ te ipotesi di diseredazione espressa di un legittimario, quanto piuttosto di intervenire esclusivamente in tema di alimenti, seppur con inevitabili riflessi in campo successorio56. Risulta pertanto coerente concludere per l’estraneità del recente intervento legislativo rispetto alla normativa succes‑ soria – specie relativa agli eredi necessari – ed al tema della diseredazione, avvicinandosi di più all’istituto dell’indegnità nel cui impianto normativo, forse, avrebbe trovato una collo‑ cazione più coerente con la sua ratio ispiratrice e con le sue finalità, quantomeno in relazione all’ultimo comma della norma citata57. Coerentemente si ritiene che l’esclusione citata ex art. 448 bis c.c. debba inevitabilmente passare per un apposito (e mo‑ tivato) provvedimento giudiziario, con ciò riducendosi sensi‑ bilmente la possibile ventata di apertura verso l’ammissibilità di una diseredazione “secca” di un legittimario58. 5. Compatibilità tra diseredazione e legato Di particolare interesse è l’analisi del rapporto esistente tra la disposizione di diseredazione ed il legato, disposizione patrimoniale con cui il testatore attribuisce al beneficiario uno o più beni specifici, senza partecipazione alla comunione ereditaria. Le fattispecie da prendere in considerazione sono sostan‑ zialmente due, a seconda che la clausola diseredativa sia ri‑ volta verso un legatario beneficiato nella stessa scheda testa‑ mentaria oppure in una precedente. Argomento poco discusso – ma senza dubbio interessan‑ te – riguarda la possibilità di conciliare, nelle medesima scheda testamentaria, la volontà del de cuius di diseredare un soggetto attribuendogli, al contempo, un bene determi‑ nato. A voler ritenere particolarmente ampio il contenuto 56Sia concesso evidenziare, peraltro, che se così non fosse il Legislatore avrebbe peccato tanto di leggerezza nell’allocazione effettuata, quanto di superficialità, non avendo predisposto alcuna forma di coordinamento sistematico con l’im‑ pianto normativo in tema di successioni. 57Secondo la poca dottrina che si è occupata dell’argomento la nuova disposizio‑ ne potrebbe rappresentare un mero ampliamento del contenuto dell’art. 463 comma 1 n. 3 bis, che – introdotto nel 2005 – ha previsto un nuovo caso di indegnità nei confronti di chi ha perso la potestà genitoriale. In tal senso M. Sesta, op. cit., p. 10. 58 Concludendo, si segnala una curiosità evidenziata in dottrina da M. Sesta, ibidem, secondo il quale la situazione delineata dalla attuale normativa risulta esattamente opposta rispetto a quella esistente alle origini dell’istituto: all’epo‑ ca del diritto romano, infatti, era consentito solo al pater familias di diseredare i propri eredi necessari; oggi, la legislazione vigente, riconosce – seppur in modo più limitato – solo al figlio detto potere nei confronti dell’ascendente. 2 0 1 3 19 della disposizione oggetto della presente trattazione, intesa quale previsione capace di eliminare tout court la delazione ed escludere così a monte sia il titolo legale che quello testa‑ mentario, non può non concludersi che il diseredato non potrebbe ricevere alcunché – né per legge né per testamen‑ to – in quanto, una volta escluso dalla successione a titolo universale, non gli sarebbe più consentita nemmeno una delazione a titolo particolare. La giurisprudenza è, tuttavia, di diverso avviso, ammetten‑ do la possibilità che un soggetto, benché diseredato, possa co‑ munque essere destinatario di disposizioni a titolo di legato. Secondo una pronuncia non molto recente59, la volontà di dise‑ redazione non sarebbe incompatibile con quella diretta ad attri‑ buire un determinato bene ad un soggetto rientrante nella cate‑ goria dei successibili ex lege, in quanto pur escludendo la dise‑ redazione la possibilità di succedere, nulla vieta al de cuius di attribuire un lascito ad uno di essi, senza che ciò implichi ipso iure la volontà di chiamarlo a succedere in universum ius.. Fattispecie diversa rispetto a quella testé delineata si ha allorquando il diseredato riceva a titolo di legato una dispo‑ sizione a proprio favore, ma non nella medesima scheda te‑ stamentaria, bensì in un testamento successivo a quello in cui è consacrata la sua diseredazione. Non sembra peregrino af‑ fermare che la disposizione successiva, per quanto a titolo particolare, revochi la precedente diseredazione, perché di‑ sposizione ex se foriera di un mutato sentimento del testatore nei confronti del beneficiario. Sembra possibile affermare che la revocazione cancelli la chiamata ereditaria esattamente come la diseredazione. Una differenza, tuttavia, risiede nella circostanza che mentre la diseredazione impedisce anche la successione ab intestato, eliminando in radice la possibilità di succedere sia ex lege sia ex testamento, la revoca di prece‑ denti disposizioni, al contrario, implica per definizione la ri‑ mozione solo di quanto contenuto nel precedente testamento e sia oggetto di revoca 60, senza che contestualmente compor‑ ti il venir meno, nel destinatario della disposizione revocata, del titolo a succedere. Nel caso contemplato, pertanto, sembra potersi affermare, con maggior conforto rispetto alla fattispecie precedente, che è ben possibile che un soggetto, diseredato con una scheda testamentaria, sia poi nominato legatario con un successivo testamento, benché risulti più che opportuno – ove possibi‑ le – indagare di volta in volta la volontà del de cuius, al fine di comprendere se con tale disposizione questi abbia voluto realmente revocare la precedente clausola diseredativa (con ciò restituendo al diseredato la capacità di essere “delato”) ovvero abbia inteso semplicemente attribuire allo stesso il solo cespite oggetto di disposizione, confermando implicita‑ mente gli effetti della disposizione diseredativa61. 59 App. Cagliari del 12.01.1996, in Riv. giur. sarda, 1, 1998, con nota di A. Pinna Vistoso. 60 A. Trabucchi, op..cit., p. 57. 61Sulla falsariga di ciò che è consentito dal Legislatore nei confronti dell’indegno ex art. 466 c.c.: se il disponente non intende riabilitarlo espressamente (com‑ ma 1), con ciò eliminando in radice la causa che potrebbe valergli una pronun‑ cia giudiziale di esclusione (ex post) dalla successione, si limita ad attribuirgli testamentariamente un quid nei cui limiti può succedergli (comma 2). L’analogia con detto istituto, a ben vedere, si ferma qui: solo la riabilitazione espressa resta in piedi anche in caso di successiva revoca del testamento in quanto fondata su di un sentimento irretrattabile di perdono, mentre l’eventua‑ le revocazione di una precedente disposizione ben potrebbe essere a sua volta civile Gazzetta 20 D i r i t t o e p r o c e d u r a È solo il caso di precisare che nella previsione di un legato seguito da diseredazione in una diversa e successiva scheda testamentaria nei confronti dello stesso soggetto, è decisamen‑ te più semplice intravedere una manifestazione implicita di revoca della disposizione a titolo particolare, ferma sempre la possibilità di una indagine concreta volta a stabilire la reale (e sovrana) volontà del testatore. rimossa in dipendenza di un’ulteriore ripensamento del testatore. Invero, vi sarebbe da chiedersi se anche la revoca della precedente diseredazione possa essere equiparata ad una riabilitazione, rimuovendo una disposizione che si fonda (principalmente) su di un sentimento di astio o riprovazione, in ragione di un nuovo sentimento di benevolenza e perdono che dovrebbe non poter es‑ sere messo nuovamente in discussione. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E F O R E N S E m a r z o • a p r i l e ● L’istituzione familiare dall’unità d’Italia alla Costituzione repubblicana ● Antonio Bova Dottore di ricerca in Diritto Privato, Seconda Università di Napoli e Docente a contratto di Diritto Privato presso Istituto Universitario della Mediazione Academy School di Roma 2 0 1 3 21 Sommario: 1. Introduzione – 2. La realtà politica ed eco‑ nomica dell’Italia Unita: le condizioni di vita delle fami‑ glie – 3. La famiglia nello specchio del Codice Pisanelli – 4. La famiglia tra sconvolgimenti sociali e responsabilità dei governi nella prima guerra mondiale. – 5. La funzionalizza‑ zione statalistica della famiglia nella ideologia fascista. La vergogna delle leggi razziali. – 6. I Patti Lateranensi del 1929 – 7. La famiglia nell’impianto del codice del 1942. – 8. Il secondo dopoguerra e l’avvento della Repubblica. La Car‑ ta Costituzionale e la famiglia come formazione sociale: il “seme” della riforma del 1975 – 9. Il “cuore” della disciplina della famiglia nel testo costituzionale – 10. Conclusioni. 1. Introduzione Il centocinquantesimo anniversario dell’avvenuta unità d’Italia è stato anticipato da polemiche di vario genere, indub‑ biamente favorite dal complesso “mosaico” che oggi ritrae il nostro Paese dal punto di vista sociale e politico. Nel corso di questo ampio dibattito sono emersi come principali fattori causali l’indebolimento della stessa identità italiana nella sfera pubblica, nonché la mancanza di un pro‑ getto comune, sfilacciandosi così quell’ethos condiviso che aveva costituito l’elemento portante della ricostruzione nazio‑ nale nell’ultimo dopoguerra. Senza dubbio non di aiuto è stato, sul versante dell’inde‑ bolimento dell’identità italiana, il fenomeno che ha visto la dissolvenza del sentimento di appartenenza nazionale in al‑ cune culture politiche, dalle marcate sottolineature separatiste. Opportuno pertanto appare, anche in relazione a queste ulti‑ me, fare chiarezza. Sia pure nel rispetto delle tradizioni, degli idiomi locali e di alcuni evidenti riflessi economici e sociali di segno negativo prodotti dal processo di unificazione, non può non riconoscersi la rilevanza dei tanti vantaggi economici portati dall’unità – proprio alle aree territoriali del Paese del‑ le quali queste forze politiche sono esclusivamente espressio‑ ne – sul piano dello sviluppo, e in particolare dell’effettivo progresso registrato con la conquista di un’identità linguistica nazionale che, al momento dell’unificazione politica, era sco‑ nosciuta alla maggior parte degli Italiani. Si pensi, come at‑ tentamente osservato, che l’analfabetismo riguardava il 78% della popolazione e che appena il 2,5 % era in grado di usare la lingua nazionale per leggere e scrivere. Statistiche che mi‑ glioreranno nel tempo, ma limitatamente, se si arriva alla vi‑ gilia della prima guerra mondiale con un alfabetismo superio‑ re al 50% e 4 Italiani su dieci estranei alla conoscenza e all’uso della lingua nazionale. Fatta questa breve precisazione, sareb‑ be opportuno, pertanto, alimentare il dibattito in modo co‑ struttivo, con un quesito reale: il principale vulnus del proces‑ so di unificazione sostanziale è rappresentato dalla mancanza di un senso di nazione oppure dalla carenza di un senso dello Stato? Questo è indubbiamente il problema principale, rispet‑ to al quale è necessario interrogarsi. Quali sono le responsa‑ bilità della cultura? Quest’ultima avrebbe potuto svolgere meglio il ruolo decisivo di fattore aggregante? In un quadro politico caratterizzato da una grave crisi della dimensione pubblica e dei soggetti sociali, civili e politici, che ormai coin‑ volge l’intero occidente, quali sono le soluzioni possibili e chi potrebbe effettivamente fornirle? “Come è possibile che de‑ cenni di storia, fatti dalla fatica, dal sudore, ma anche dal sangue di generazioni di Italiani non risvegli un senso d’iden‑ civile Gazzetta 22 D i r i t t o e p r o c e d u r a tità comune? La mancanza di conoscenza è una delle cause? Vale la pena di riflettere su questo anniversario? A fronte di tali interrogativi, di certo non incoraggiante appare il dato che a disinteressarsi dell’ anniversario sia stato, accanto alla classe dirigente e politica, la stessa opinione pubblica. L’an‑ niversario dell’unità avrebbe potuto costituire un’occasione per analizzare non tanto il modo in cui si è realizzata l’unifi‑ cazione nazionale quanto “come sia stata vissuta dalle fami‑ glie, ossia dalla cellula più importante della società nel dise‑ gno complessivo della nostra storia, nel tentativo di capire come si possa uscire dall’attuale fase di transizione, da quel‑ la ‘galassia di schegge sempre più molecolarizzate’ che descri‑ ve il nostro presente: con una cittadinanza debole, con forti pulsioni individualistiche che si riconoscono anche nell’insor‑ gere di localismi ancora più ingiustificati se si pensa al quadro europeo e alla visione globale.Da qui la rilevanza e la neces‑ sità di una riflessione sulle vicende storiche dell’istituzione familiare, in particolare del suo tessuto normativo, nonché del ruolo svolto da altre istituzioni sociali, politiche o economi‑ che, descrivendo le stesse in modo esaustivo e chiaro le cause e i riflessi delle problematiche appena descritte. La famiglia, infatti, incarna un’esperienza umana che si svolge in più for‑ me e modalità e che assume le connotazioni proprie di una comunità di vita, caratterizzata da comunione spirituale e materiale tra i partecipanti alla stessa: luogo degli affetti e della solidarietà, dove si realizza la sintesi delle aspirazioni e dei diritti individuali e dove l’adempimento dei doveri è av‑ vertito come esplicazione della propria personalità e dunque della tensione a realizzare una comunità di affetti1. La presen‑ te ricerca, pertanto, tende a delineare e verificare, in occasio‑ ne dei 150 anni dall’Unità d’Italia, un inquietante spaccato di tale variegata realtà sociale. A tal fine, si propone di attra‑ versare la storia della famiglia nel nostro Paese, alla luce dei più significativi mutamenti culturali, ideologici, economici e di costume prodottisi in quest’arco temporale, che l’hanno attraversata e permeata. Si scorge peraltro come la stessa istituzione familiare abbia contribuito all’organizzazione delle strutture sociali ed economiche del Paese, il tutto nel quadro di una costante sinergia tra modelli economici e as‑ setti familiari, rispecchiando e a un tempo orientando l’orga‑ nizzazione familiare, le cadenze e le strutture dell’attività produttiva e della vita sociale. Attraverso tale analisi sarà anche possibile scorgere i fermenti che progressivamente hanno condotto alla trasformazione epocale del diritto di famiglia con la fondamentale riforma del 1975. Coerentemen‑ te con il mutare della società, con l’introduzione del divorzio del 1970 e la riforma del diritto di famiglia del 1975 e ancora con la legislazione successiva fino ad oggi, il diritto di fami‑ glia si è trasformato più di quanto non sia avvenuto per mol‑ ti secoli. Perciò il presente lavoro analizza le correlazioni tra società, economia e famiglia dall’unità d’Italia fino agli inizi 1 Sul punto cfr. F. Bocchini, Diritto di famiglia. Le grandi questioni, Torino 2013, pp. 10 ss.; F. Bocchini, E. Quadri, Diritto Privato, Giappichelli, Torino 2009. Secondo Bocchini le vicende umane possono essere artificiosamente e periodicamente accantonate, ma non definitivamente seppellite: inevitabilmen‑ te continuano ad agitarsi e si ripropongono con analoga emotività e forza propulsiva nelle varie fasi storiche. Così soprattutto l’istituzione familiare non può essere riposta nell’oblio e ancor meno può essere costretta in schemi pre‑ determinati e fissi, astratti dalla struttura socio‑economica e dal periodo stori‑ co in cui maturano e si sviluppano. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E degli anni ’70 del XX secolo, concentrandosi sulle condizioni di vita dell’Italia dell’Ottocento, le relative strutture so‑ cio‑economiche e i suoi costumi, anche alla luce del rapporto tra Stato e Chiesa e dell’idea di famiglia propugnata dal mon‑ do cattolico. In tale analisi si attraversa anche il modello di famiglia imposto e plasmato dalla dittatura fascista, cammi‑ nando tra le macerie delle due guerre mondiali e la complessa opera di ricostruzione, così facendo emergere i valori disegna‑ ti dalla Carta costituzionale, la cui elaborazione ha senza dubbio favorito un momento di convergenza e di sintesi tra diverse culture, e non è un caso che proprio questa, oggi, costituisca il bersaglio principale di quelle culture separatiste che quotidianamente sferrano attacchi alla storia nazionale e ostacolano la spinta per un ethos condiviso. 2. La realtà politica ed economica dell’Italia Unita: le condizioni di vita delle famiglie Nella prospettiva di una ricostruzione storica si osserva in primo luogo come il Regno d’Italia sia nato dominato da un duplice ordine di esigenze: quelle relative al completamento dell’Unità nazionale (mediante la conquista di Venezia e di Roma) e quelle derivanti dalla necessità di dare un contenuto reale all’unificazione. Queste ultime erano destinate a proiet‑ tarsi in un arco di tempo molto lungo, riguardando prospet‑ tive remote di un’unificazione tra regioni che rappresentavano realtà sociali, economiche e amministrative profondamente diverse. Sul piano dei costumi e delle condizioni di vita nell’Ot‑ tocento2 si osserva in primo luogo come, a fronte di un quadro europeo caratterizzato da uno straordinario sviluppo demo‑ grafico, dovuto in particolare ad una graduale discesa della 2 Per un’analisi approfondita dei profili storici e degli aspetti giuridici della fami‑ glia cfr. Campanini (a cura di), Le stagioni della famiglia, CISF Edizioni San Paolo, Torino 1994, pp. 41‑178; Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia 1796‑1975, Mulino, Bologna 2002. Per una ricostruzione storica del diritto di famiglia cfr. Vecchio, Profilo storico della famiglia italiana, in G. Campanini (a cura di), Le stagioni della famiglia, CISF Edizioni San Paolo, Torino 1994, pp. 41‑178. Sulla nuzialità e instabilità matrimoniale dalla seconda metà dell’ottocento agli anni sessanta del nostro secolo cfr. Blangiardo, Formazio‑ ne e instabilità matrimoniale prima e dopo il divorzio, in G. Campanini (a cura di), Le stagioni della famiglia, CISF Edizioni San Paolo, Torino 1994, pp. 185‑213. Per una ricostruzione del diritto di famiglia in Italia cfr. D’Agostino, Dalla Torre, Per una storia del diritto di famiglia in Italia: modelli ideali e disciplina giuridica, in G. Campanini (a cura di), Le stagioni della fa‑ miglia, CISF Edizioni San Paolo, Torino 1994, pp. 214‑250. Per un quadro storico delle politiche familiari in Italia cfr. Matteini, L’evoluzione delle poli‑ tiche familiari in Italia, in G. Campanini (a cura di), Le stagioni della famiglia, CISF Edizioni San Paolo, Torino 1994, pp. 250‑278. Sul rapporto uomo‑donna cfr. Di Nicola, Storia delle relazioni uomo‑donna, in G. Campanini (a cura di), Le stagioni della famiglia, CISF Edizioni San Paolo, Torino 1994, pp. 279‑310. Sugli effetti del processo di modernizzazione sulla famiglia cfr. Turchini, Modelli familiari, storia della mentalità e modernizzazione, in G. Campanini (a cura di), Le stagioni della famiglia, CISF Edizioni San Paolo, Torino 1994, pp. 311‑328.Sulle vicende del matrimonio civile e del divorzio nelle varie fasi storiche cfr. Lulli, Il problema del divorzio in Italia dal sec. XVIII al codice del 1865, in Dir. fam. pers., 1974, 4, pp. 1230‑1247; Galoppini, Profilo storico del divorzio in Italia, in Dir. fam. pers., 1980, 2, pp. 594‑666. In generale sui rapporti tra Stato e Chiesa dagli Stati preunitari alla Costituzione repubblicana cfr. Lariccia, Stato e Chiesa cattolica, in Enc. dir., XLIII, Giuffrè, Milano, pp. 890‑919; Lariccia, Giurisdizione ecclesiastica, in Enc. dir., XIX, Giuffrè, Milano, pp. 469 ss. Sul codice civile del 1942 e la famiglia cfr. Rescigno, Il codice civile del 1942 oggi: visto dalla scienza giuri‑ dica, in Riv. dir. civ., 1994, n. 1, pp. 1‑13; Barbiera, L’umanizzazione del di‑ ritto di famiglia, in Rass. dir. civ., 1992, n. 2, pp. 259‑267; Giacobbe, Famiglia: molteplicità di modelli o unità categoriale?, in Dir. fam. pers., 2006, n. 3, pp. 1219‑1245. Sulla famiglia nella Carta Costituzionale cfr. Cavana, La fami‑ glia nella Costituzione italiana, in Dir. fam. pers., 2007, n. 2, pp. 902‑921; Giacobbe, Il modello costituzionale della famiglia nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. civ., 2006, n. 4, pp. 481‑502 F O R E N S E m a r z o • a p r i l e mortalità e livelli di natalità ancora alti e stabili, in Italia si registrava un alto tasso di mortalità, soprattutto infantile. Tra le cause principali: misere condizioni di igiene ed in partico‑ lare la piaga sociale dell’abbandono dell’infanzia. Sia pure con importanti distinguo tra famiglie contadine, operaie e borghe‑ si, l’elemento comune nell’Ottocento italiano, quindi, sembra‑ va costituito dalle condizioni di estrema precarietà della maggior parte delle famiglie italiane. Una realtà caratterizza‑ ta dalle delicate condizioni alimentari e abitative, la persisten‑ te carenza di denaro contante e la cronica situazione debito‑ ria, fonte di infinite speculazioni da parte di usurai e proprie‑ tari. Con riferimento ai costumi non si deve poi trascurare la grande diversità esistente tra i gruppi familiari. Insostenibile appare, infatti, l’idea di un unico modello familiare, generica‑ mente e approssimativamente definibile come patriarcale, ligio alle tradizioni e al sentimento religioso, frugale nelle abitudi‑ ni e solida nei legami affettivi. Comune alla maggior parte delle famiglie, soprattutto quelle contadine, fu però principal‑ mente la drammaticità delle condizioni di vita. Il pessimo li‑ vello di alimentazione e le malattie conseguenti, nonché le cattive condizioni abitative sono i principali indici della diffi‑ cile situazione in cui si trovavano la maggior parte delle fami‑ glie dell’Italia Unita, nella quale, tra l’altro, il processo di in‑ dustrializzazione fu particolarmente lento, tortuoso e, soprat‑ tutto, relativo solo a poche aree, con conseguente ulteriore inasprimento della questione sociale.In questo scenario poli‑ tico, economico e sociale appena descritto, si pose subito la questione dell’uniformità legislativa, fronte sul quale fu pos‑ sibile, soprattutto in materia di famiglia , misurare il contra‑ stato rapporto di forze tra Chiesa e Stato3. Come vedremo, quest’ultimo approdò ad una linea di netto separatismo fra nozze civili e nozze religiose, cui fece seguito, com’era prevedibile, la dura condanna pontificia, con inconvenienti anche piuttosto gravi: primo fra tutti, la persi‑ stenza di matrimoni celebrati soltanto con rito religioso e pertanto considerati dallo Stato pure e semplici convivenze. Alla base della diffusione di tale costume vi erano vari moti‑ vi (come la polemica ideologica cattolica; il desiderio di ri‑ sparmiare le spese per una doppia celebrazione; il tentativo di sottrarre i figli all’anagrafe e dunque alla futura coscrizio‑ ne obbligatoria). Va detto, però, che, sia pure in un clima di rottura con la Chiesa, lo Stato liberale non pervenne mai a misure estreme, quali l’imposizione della precedenza del ma‑ trimonio civile su quello religioso o l’ammissione del divor‑ zio 4 . In questo quadro di rapporti con la Santa Sede, nel 1865 fu approvato, dopo un lungo dibattito, il cosiddetto Codice Pisanelli, che unificava le normative precedentemente vigenti e, in tema di famiglia, tentava un “compromesso” fra le ten‑ denze più tradizionaliste e l’eredità lasciata dalla Rivoluzione francese, senza risolvere però, come di seguito evidenziato, due grandi questioni di fondo: il rapporto fra matrimonio civile e matrimonio religioso5 e l’inferiorità giuridica della donna sposata 6 . 3 Per il rapporto tra Stato e Chiesa cfr. S. Lariccia, Stato e Chiesa cattolica, cit., pp. 890‑919 4 Lulli, op. cit., pp. 1230‑1247. In particolare v. p. 1245. 5 Lulli, op. cit., pp. 1241‑1242. 6 Per far fronte alla quale furono posti in atto interventi che, sia pure limitati, modificarono taluni aspetti, sia in termini di legislazione sociale sia in termini 2 0 1 3 23 3. La famiglia nello specchio del Codice Pisanelli Il codice Pisanelli7 costituì, quindi, una frattura interna della società italiana, che rese difficile e stentata la vita dello Stato post‑unitario, ma rappresentò anche un tassello impor‑ tante nel processo di unificazione sostanziale e non solo formale della comunità italiana. Una legislazione civile dif‑ ferenziata per regioni, infatti, avrebbe evitato ai lombardi di perdere qualche posizione8, ma nel breve e anche lungo perio‑ do avrebbe causato fratture ben più radicali. Va considerato, poi, che alla luce dell’antico mondo di leggi, di giurispruden‑ za e di pratiche commerciali (non privo di elementi nuovi) proprie dei singoli Stati preunitari9, dal quale il nuovo codice emerge, è evidente come lo stesso rappresentasse a pieno tito‑ lo un evento rivoluzionario. Tra i suoi meriti vi è senza dubbio l’immediata ed energica unificazione del diritto civile in uno Stato, che non aveva di certo alle spalle secoli di monarchia, trovandosi così non a fondere province ma sistemi statali. Le vicende della lotta per la nuova codificazione civile fra il 1859 e il 1865 si possono schematicamente riassumere nei termini seguenti: in una prima fase, l’orizzonte rimane limitato ad una più o meno profonda revisione del codice albertino10, nella quale appare dominante l’influenza di giureconsulti e magi‑ strati del Regno sardo. Una seconda fase è caratterizzata dall’alternativa fra modello francese e modello napoletano: risolta da ultimo nel senso di un codice nazionale italiano che, avvicinandosi maggiormente al primo modello, vi innesta però principi e istituti più aderenti alle tradizioni degli antichi Stati della penisola. Valutando il risultato complessivo del lavoro per ciò che attiene alla famiglia si trova che, toltene alcune soluzioni più avanzate in senso liberale rispetto allo stesso codice napole‑ onico, la maggior parte si ispirò a prudente contemperamen‑ to fra quanto dei principi rivoluzionari si era in esso mante‑ nuto e lo spirito della tradizionale famiglia italiana delle classi medie e agricole.Assoluta novità rispetto a tutti gli Stati preunitari, con ritorno pieno al diritto napoleonico, è l’affermazione senza riserve del principio separatista. Nel dibattito sul matrimonio civile, infatti, sia pure di fronte a tante alternative di diverso contenuto, il Pisanelli ribadiva in modo forte la tendenza invincibile del tempo a laicizzare le istituzioni, attuando così nella sua purezza la linea del sepa‑ ratismo cavouriano, respingendo però sia le suggestioni giu‑ risdizionaliste sia quelle della democrazia giacobina. Del re‑ sto, la disciplina del matrimonio teneva ampiamente conto del costume e delle credenze della maggioranza degli Italiani, e spesso finiva per ricalcare regole canonistiche non in contra‑ sto con principi di diritto pubblico e principi un tempo pre‑ sidiati dalla giurisdizioni ecclesiastica e ora fatti propri in base ad una valutazione meramente laica. Contemporanea‑ mente alla promulgazione del codice Pisanelli si apriva in Roma il Concilio Vaticano I. La condanna al matrimonio di attività economica. In particolare sul tema del rapporto uomo‑donna nell’Ot‑ tocento cfr. Di Nicola, op. cit., pp. 279‑310. 7 Per tutti cfr. Ungari, op. cit., pp. 151‑17 8 Si pensi alla rafforzata condizione giuridica riconosciuta alla donna e ai figli legittimi. 9 Sul punto cfr. Lulli, op. cit., pp. 1230‑1238; Galoppini, op. cit., pp. 594‑666. In particolare sul principio di indissolubilità v. pp. 594‑601. 10 Sul punto per tutti cfr. Biscaretti di Ruffia, Statuto albertino, in Enc. dir., XLIII, Giuffrè, Milano. civile Gazzetta 24 D i r i t t o e p r o c e d u r a civile fu rinnovata, dopo la codificazione, nel Concistoro se‑ greto del 29 ottobre 1866 e di nuovo, sempre con riferimento alla nefanda legge in un’allocuzione del 22 giugno 1868 apren‑ do una polemica destinata a durare, per parte della Chiesa, fino agli Accordi Lateranensi del 1929. Nettissimo fu il ripu‑ dio di tutta una serie di impedimenti canonici al matrimo‑ nio11. È evidente quindi come il codice del 1865 si presentasse con lineamenti assai caratteristici, sia pure con una chiara influenza francese. Nonostante le numerose opposizioni fu mantenuta da ultimo l’autorizzazione maritale, dando vita così ad un regime durato fino al 1919, che precludeva alle donne coniugate donazioni, alienazioni di immobili, ipoteche, cessioni o riscossioni di capitali; nonché le relative transazio‑ ni e azioni giudiziarie e di conseguenza, come ribadì la legi‑ slazione successiva, l’autonoma gestione dei conti bancari. Fu del pari mantenuto il divieto di ricerca della paternità, sia pure aggiungendo all’eccezione del ratto quella dello stupro violento. Sempre ammessa, invece, la ricerca della maternità. L’adozione12 fu introdotta da ultimo. La patria potestà13 era attribuita ad entrambi i genitori ma esercitata dal marito. Molto accuratamente organizzata per contro la tutela con una serie di obblighi di pubblicità. Lo stesso valeva per il curato‑ re. Quanto al regime patrimoniale della famiglia, a differenza di quanto previsto dagli ordinamenti preunitari, respinta la comunione universale dei beni, ritenuta estranea ai costumi italiani, si accettava, in via di libera pattuizione tra i nubendi, la mera comunione degli acquisti, anche alla luce della netta prevalenza dell’istituto della dote14 . Questo complesso impor‑ tante di principi organizzativi aveva un puntuale riscontro in sede successoria, laddove i figli naturali riconosciuti erano ammessi a succedere nella metà della quota dei legittimi, ma con facoltà a questi ultimi di soddisfarli in denaro o in beni ereditari a giusta stima, nel preciso intento di preservare l’unità dell’azienda familiare; a sua volta la moglie succedeva, ma solo in una quota di usufrutto a quota legittima fissata in una misura uniforme. Coerentemente con la prevalenza dell’interesse pubblico e sociale sulla volontà privata del te‑ statore furono vietate le sostituzioni fidecommissarie15 di ogni genere e cancellato l’istituto della diseredazione16 .Quanto all’impatto prodotto dal nuovo codice, va sottolineato come, nonostante la non radicale rottura con la preesistente tradi‑ zione giuridica, l’adeguamento della famiglia italiana agli 11 Sul punto cfr. Ungari, op. cit., p.161. 12 Sul punto cfr. Vismara, Adozione (diritto intermedio), in Enc. dir., I, Giuffrè, Milano, pp. 581‑584. 13 Ciccarello, Patria potestà, in Enc. dir., XXXII, Giuffrè, Milano, p. 255‑ 262. In particolare v. p. 256. 14 Istituto antichissimo che si ritrova in diritto romano fin da epoca arcaica ed in tutto il camminodel diritto intermedio, da cui è passato come regime conven‑ zionale in Francia, oltre che in Italia e, con varia disciplina, in Belgio, Spagna, Portogallo, Austria ecc. Sul punto cfr. Funaioli, Dote, in Enc. dir., XIV, Giuf‑ frè, Milano, pp. 32‑48. 15 Ricca, Fedecommesso, in Enc. dir., XVII, Giuffrè, Milano, pp. 114‑142. In particolare pp.115‑116. 16 Per certi aspetti il codice civile del 1865 recepiva le istanza che giuristi e filoso‑ fi dell’età illuministica avevano espresso per liberare l’individuo non solo dall’autoritarismo dello stato, ma anche da quello dell’istituzione familiare a esso funzionalmente collegata. Si pensi al superamento di ogni forma di mag‑ giorascato, fedecommesso, diseredazione. Istituti tutti con i quali, in passato, si era assicurata la soggezione dei componenti la grande famiglia patriarcale all’autorità del capofamiglia. Sul tema della diseredazione nelle legislazioni preunitarie, fino al codice del 1865 cfr. Marongiu, Diseredazione, in Enc. dir., XIII, Giuffrè, Milano, pp. 99‑102. In particolare p. 101. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E istituti del nuovo diritto sia apparsa nel complesso assai lento.. Nella consapevolezza che la storia degli istituti familiari vada condotta con riferimento non solo allo schema legale, né solo in base alle vicende giurisprudenziali, è evidente come non bastasse, almeno nell’immediato, la individuazione di una linea di diritti indisponibili e di norme imperative, a sradica‑ re dalla coscienza giuridica collettiva degli Italiani quel vasto e complesso tessuto di consuetudini e credenze giuridiche, di prassi contrattuali ed usi di fatto, che non solo è parte della legge vivente, ma dà poi ragione di molte norme. 4. La famiglia tra sconvolgimenti sociali e responsabilità dei governi nella prima guerra mondiale: l’avvento del fascismo Dall’unità d’Italia un lungo periodo di pace o di guerre li‑ mitate, di progresso tecnico, di riforme e nuovi equilibri poli‑ tici aveva diffuso in tutta Europa la convinzione che fosse possibile evitare o comunque circoscrivere i conflitti tra i mag‑ giori Paesi. Il problema della responsabilità di popoli e governi nello scoppio della prima guerra mondiale fu sentito e dibattuto negli anni del conflitto e nel successivo ventennio con un’inten‑ sità lacerante. Il carattere totale rapidamente assunto dalla conflagrazio‑ ne scoppiata nell’agosto 1914 e la conseguente mobilitazione di tutte le risorse nazionali provocarono perciò reazioni pro‑ fonde, mentre i governi, per convincere i rispettivi popoli della “santità” della propria causa cercavano di riflettere sull’avver‑ sario tutta la responsabilità del conflitto e dei suoi orrori. Nel 1919, a guerra mondiale conclusa, l’Europa era pro‑ strata come prima di allora, in età moderna, lo era stata solo la Germania dopo la terribile guerra dei 30 anni, conclusasi nel 1648. In Italia la crisi del dopoguerra tra il 1919 e il 1922, con la pesante situazione economica e gli acuti conflitti politici e sociali, aveva portato al potere il fascismo, che aveva così chiu‑ so un periodo segnato da momenti di vera e propria guerra civile. È in questa fase che tale movimento, grazie alla sua indeci‑ frabilità e difficoltà di analisi, neutralizzò e disorientò l’intel‑ ligenza stessa dei suoi avversari, arrivando velocemente al potere. 5. La funzionalizzazione statalistica della famiglia nella ideologia fascista. La vergogna delle leggi razziali. In questa cornice e dopo quasi mezzo secolo senza rifor‑ me, emergeva gradualmente, con l’affermazione del regime fascista, una nuova concezione della famiglia, intesa come realtà sottratta al volere delle parti. In una logica di funzio‑ nalizzazione statalistica della famiglia il fascismo fa sì che le libertà individuali debbano piegarsi a superiori interessi dell’istituzione familiare e della società politica, e che gli in‑ teressi collettivi debbano prevalere su quelli individuali. Da qui l’accentuazione in senso istituzionalistico del matrimonio, come realtà sottratta al volere delle parti: la libertà individua‑ le si esaurisce nella libertà di contrarre matrimonio, sicché una volta che questo è stato contratto, l’uniformazione al modello precostituito dal legislatore è giuridicamente dovero‑ sa. I segni di tale inversione di tendenza si manifestano chia‑ ramente nella dottrina giuridica: basterebbe soltanto ricorda‑ re le teorizzazioni della dottrina civilistica del tempo, per cui F O R E N S E m a r z o • a p r i l e il matrimonio doveva considerarsi come atto complesso, il quale veniva a formarsi grazie al concorso della volontà dei nubendi con quella dello Stato, espressa dal pubblico ufficia‑ le, che con la sua dichiarazione li univa in matrimonio. Tuttavia è in taluni interventi della legislazione speciale, benché fossero confluiti nel periodo fascista non pochi postu‑ lati di riforma già propri dell’età liberale (che giungono ora ad attuazione) ed un indirizzo generale di politica legislativa intesa alla restaurazione della famiglia (come ad esempio nell’opposizione al divorzio17), che tale inversione di tendenza si manifestò con estrema chiarezza. Si pensi agli interventi legislativi volti a favorire sia i ma‑ trimoni (l. n. 2132 del 19 dicembre 1926, introduttiva della c.d. “tassa sul celibato”), sia la procreazione e la formazione di famiglie numerose (l. n. 1312 del 14 giugno 1928; l. n. 1024 del 6 giugno 1929; l.1047 del 27 giugno 1929; l. n. 404 del 19 gennaio 1937), nei quali la ragion di Stato, espressa nella politica d’incremento demografico, veniva a prevalere sugli interessi dei singoli. E si pensi, ancora, ad alcuni interventi settoriali per determinate categorie di cittadini, chiaramente a favore della famiglia: si pensi, ad esempio, alla l. 10 dicem‑ bre 1925, n. 2277, istitutiva dell’Opera nazionale maternità e infanzia (Onmi), cui seguirono il regio decreto l. 22 marzo 1934, n. 654 (che promuoveva una più ampia tutela della maternità della lavoratrice), la l. 26 aprile 1934, n. 653 (che predisponeva garanzie a tutela della donna e del fanciullo nel rapporto di lavoro) e il regio decreto n. 636 del 14 aprile 1939 (che introduceva l’assicurazione obbligatoria di maternità).È innegabile, quindi, che l’attrazione di matrimonio e famiglia nella sfera pubblicistica abbia avuto, a prescindere dalle logi‑ che politiche e propagandistiche sottese, anche una ricaduta positiva sulla stessa istituzione familiare. In questo scenario – anticipato in qualche modo dall’ado‑ zione di prassi di repressione legale, chiaramente riconduci‑ bili nel quadro di un perfezionamento e rafforzamento del tradizionale Stato di polizia, che non è ancora il moderno Stato autoritario e tantomeno quello totalitario, ma che co‑ stituisce un necessario ingrediente sia dell’uno che dell’altro18 – si inseriscono interventi di legislazione speciale che segneran‑ no l’inizio di un periodo di terrore e morte per molte famiglie italiane, condizionate dalla legge nel modo di vivere e nei costumi, semplicemente a causa del loro credo religioso. Immane, infatti, fu la tragedia prodotta dalla “vergogna” della legislazione razziale sul matrimonio, e in particolare del r. d. n. 1728 del 17 novembre 1938 relativamente agli impe‑ dimenti matrimoniali derivanti dalla razza, in forza dei 17 La proposta Marangoni‑Lazzari sul divorzio incontrò dapprima fortuna a Montecitorio, ma soggiacque al destino finale di tutte le altre da un cinquan‑ tennio a quella parte. Non si videro ora petizioni di massa paragonabili a quelle dell’inizio di secolo: ma c’era, invece, da un anno, solidamente attestato e vigilante al centro dello schieramento parlamentare il nuovo partito popolare sorto dall’appello ai “liberi e ai forti” di Don Sturzo. Successivamente, l’oppo‑ sizione al divorzio fu vanto del governo Mussolini. Nella campagna elettorale del 1924 il guardasigilli Oviglio non mancò di elencare tra le benemerenze del nuovo governo nei confronti della Chiesa anche quella di aver posto termine ai divorzi fiumani”. 18 Vanno collocati in questa cornice i provvedimenti contro la libertà di stampa iniziati con il R.D. 15 luglio 1923, n. 3288 (che dava ai prefetti la facoltà di diffidare e revocare i gerenti dei giornali) e perfezionati, poi, con la l. 31 dicem‑ bre 1925, n. 2307 (premesse all’uso della stampa come veicolo della propagan‑ da di massa) 2 0 1 3 25 quali non poteva essere celebrato un matrimonio fra un aria‑ no e un ebreo, o un appartenente da altra razza non ariana (né poteva conseguire effetti civili il matrimonio religioso contratto fra di loro) 19. Fra la pubblicazione dei due codici, quindi, norme, pur‑ troppo vergognose perché relative alla tutela della razza e all’avvio della legislazione antisemita, andarono a toccare la vita della famiglia italiana, innescando, fra l’altro, un conflit‑ to giuridico con la Santa Sede, dal momento che esse, proi‑ bendo la trascrizione civile dei matrimoni religiosi celebrati in dispregio delle norme razziali, colpivano anche le già ana‑ lizzate intese concordatarie del 1929 20. Il fascismo colpì gli Ebrei con un numero infinito di divie‑ ti che ebbero per oggetto tutti gli aspetti di una vita di un essere umano: furono espulsi dalla scuola pubblica, dallo spettacolo, dalle associazioni sportive, dall’editoria, dalle cooperative, dal lavoro pubblico, e, in misura progressiva, dal lavoro privato. Questi provvedimenti da un lato realizzavano la politica di persecuzione degli ebrei e dall’altro quella della loro separazione dai non ebrei. Entrambe erano condizioni essenziali per il successo dell’azione di espulsione. Il fascismo italiano aveva l’obiettivo di arianizzare la società italiana. Come nell’Italia del 1922, così in Germania la crisi giocò a favore non già della sinistra rivoluzionaria ma del nazismo. La partita si chiuse nel gennaio del 1932 con l’avvento al potere di Hitler, il quale rapidamente stabilì e consolidò la dittatura nazista, segnando la catastrofe sia dei partiti demo‑ cratici sia di quello comunista. Da qui l’inizio di un tragico percorso, innescato il 1 settembre del 1939 dall’invasione te‑ desca della Polonia e conclusosi con la resa di quest’ultima nel 1945. Una guerra che, sia pure con paradossali contraddizio‑ ni, seminò morte e dolore in una cornice di annientamento della persona in nome della razza. 6. I Patti Lateranensi del 1929 Prodromo in una certa misura, sul piano del ruolo affida‑ to all’elemento religioso, fu la stipulazione (11 febbraio 1929) del Concordato21 con la Santa sede, con la quale si pose fine alla c.d. questione romana22 . Per comprendere le ragioni ad esso sottese occorre, come attentamente sottolineato, “richiamarsi a quella che era la situazione anteriore esistente in Italia nei confronti della Chiesa cattolica e alla peculiarità che la caratterizzavano ri‑ spetto a quella degli altri Stati. Come è notorio, il problema 19 Così, D’Agostino, Dalla Torre, op. cit., pp. 235‑236. Significative, d’altra parte, furono anche le determinazioni del nuovo codice penale del 1930: sotto la discutibilissima intitolazione dei “Delitti contro la integrità e la sanità della stirpe”, in cui si riflettevano gli orientamenti ideologici del tempo, furono pe‑ raltro contemplate le fattispecie criminose dell’aborto, della procurata impoten‑ za, dell’incitamento a pratiche contraccettive e della propaganda delle stesse. 20 Così, D’Agostino, Dalla Torre, op. ult. cit., pp. 233‑234. 21 Sul tema specifico dei rapporti tra Stato e Chiesa cfr. Lariccia, Stato e Chiesa, cit., pp. 890‑919; d’Avack, Patti Lateranensi, in Enc. dir., XXXII, Milano, Giuffrè, pp. 456‑472; Tedeschi, Fascismo e Chiesa cattolica in Italia, in Dir. eccl., 1987, n. 3‑4, pp. 1074‑1097; Fedele, I rapporti fra lo Stato e la Chiesa e il Concordato Lateranense, in Dir. eccl., 1994, n. 1, pp.49‑63. 22 In tal senso, in ordine alla tematica specifica della discriminazione religiosa operata dal fascismo Margiotta Broglio, Discriminazione razziale e discri‑ minazione religiosa, in Quad. Dir. Pol. Eccl., 2000, n. 1, pp. 269‑279, secondo il quale la legislazione razziale antisemita ha rappresentato anche uno sviluppo della discriminazione religiosa introdotta dopo i Patti lateranensi con la l. 1159 del 1929 e con la normativa 1930‑1931 sulle comunità israelitiche. civile Gazzetta 26 D i r i t t o e p r o c e d u r a che si presentava per la soluzione dei rapporti tra Stato e Chiesa era duplice: l’uno rifletteva la situazione giuridica della Chiesa cattolica italiana, che il nostro Stato aveva pre‑ teso regolare sovranamente con norme proprie, quale una comunità ad esso soggetta. L’altro, invece, rifletteva la posi‑ zione giuridica della Santa Sede (ente centrale della Chiesa), che il nostro Stato, dopo avere spodestato del potere tempo‑ rale, aveva regolato unilateralmente con la famosa legge delle guarentigie. Di per sé i due problemi erano indipendenti l’uno dall’altro e potevano essere risolti separatamente, ma di fatto, però, gli stessi finivano per essere strettamente connessi e interdipen‑ denti fra loro e non risolubili quindi che contemporaneamen‑ te. La Santa Sede, infatti, si rifiutava di discutere il problema religioso finché non fosse stata sistemata la sua stessa posi‑ zione personale in modo soddisfacente, affermando di man‑ care altrimenti della necessaria libertà e indipendenza di fronte allo Stato italiano per potere trattare un qualunque accordo con lui e si rifiutava insieme di sistemare la propria posizone indipendentemente dalla soluzione del problema religioso, sostenendo di non potere entrare in rapporti con uno Stato, che informava il suo comportamento e la sua legi‑ slazione religiosa a presupposti e indirizzi condannati dalla Chiesa e contrari ai suoi dogmi”23. Le ragioni 24, a parte quelle di rafforzamento del regime fascista 25, che nel 1929 presiedettero alle profonde modifiche del sistema matrimoniale,soprattutto in relazione alle ampie e sostanziose concessioni a favore della Chiesa cattolica, fu‑ rono, quindi, molteplici: anzitutto la volontà dello Stato di tener conto delle tradizioni cattoliche del popolo italiano; in secondo luogo, l’opera di riconfessionalizzazione dell’ordina‑ mento giuridico, approntata con i patti lateranensi; infine, una certa sensibilità alle esigenze della libertà religiosa. Fra tali ragioni, però, un ruolo importante ebbero soprattutto quelle più direttamente connesse con l’ideologia allora domi‑ nante (la concezione dello Stato di derivazione hegeliana), profondamente incidente sulle determinazioni del Legislatore: in particolare, nella concezione del matrimonio come istituto etico, come forma di eticità dello Stato; nella teoria che pog‑ giava famiglia e Stato su basi di un ordine necessario, sottra‑ endo l’una e l’altro al capriccio della volontà individuale; nella tesi per cui il matrimonio non fosse puro istituto roman‑ tico, bensì vincolo etico. In questo contesto si comprende, fra l’altro, l’obiettivo di politica legislativa perseguito dallo Stato col Concordato: evitare la duplicità di vincoli matrimoniali, civili e religiosi, fra le stesse persone degli sposi, ovvero fra ciascuno di costoro e terzi, in ragione proprio del fondamen‑ to etico del principio monogamico, inteso nella sua più rigida26 accezione27. Insomma, la stipulazione del Concordato fra la Santa Sede e l’Italia l’11 febbraio 1929, a chiusura della c.d. questione romana, non solo introdusse alcune innovazioni 23 d’Avack, op. cit., pp. 456‑472. 24 Ungari, op. cit., pp. 209‑211. 25 Consapevole dell’influenza che la Chiesa esercitava sulla popolazione italiana, Mussolini mirò a trasformare il Cattolicesimo in un autorevole fondamento del nuovo regime politico. 26 Così, D’Agostino, Dalla Torre, op. cit., pp. 233‑234. 27Per questo, nel 1929, mentre era Papa Pio XI, il Governo stipulò con la Santa Sede i Patti Lateranensi, che sancirono la conciliazione tra Stato italiano e Chiesa Cattolica. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E sostanziali28 nel regime dei presupposti e della forma di cele‑ brazione del matrimonio, ma influì anche su quella che sareb‑ be stata la linea di politica legislativa in tema di indissolubi‑ lità del vincolo. Non a caso, infatti, nel corso di questa generale riforma del regime matrimoniale ereditato dalla prima legislazione unitaria si parlò pochissimo del divorzio, e solo per dire che esso non aveva titolo ad esistere nella nostra legislazione: così nelle trattative con la Santa Sede per la formazione del Concordato, così nei lavori della commissione mista, incari‑ cata di predisporre le norme di esecuzione del medesimo29. 7. La famiglia nell’impianto del codice civile del 1942 Solo alla fine della sua parabola storica il fascismo inter‑ venne, varando nel 1942 il nuovo codice civile 30, che superava il vecchio codice Pisanelli. In realtà, però, alla legislazione ottocentesca erano già state apportate da tempo, come sotto‑ lineato in precedenza, numerose modifiche. Si pensi alla cancellazione della norma relativa all’auto‑ rizzazione maritale per le attività della donna. Vani, invece, i tentativi di introdurre il divorzio31 e la ricerca giudiziale della paternità nel caso delle procreazioni fuori del matri‑ monio. Nei lunghi tempi di elaborazione dei nuovi codici – pena‑ le (1930) e civile (1942) – era stata gradualmente introdotta, come sottolineato, una diversa visione della famiglia, che ri‑ gettava l’individualismo della legislazione liberale, per far passare una concezione più organica, capace oltretutto di dare alla famiglia stessa un peso speciale maggiore, natural‑ mente entro la visione totalizzante del regime. Era dunque l’interesse generale dello Stato e della società a essere anteposto alla centralità della persona, coerentemen‑ te con una concezione fascista dello Stato come educatore del cittadino e fine primario della persona. Le poche novità introdotte nel codice civile andarono a cristallizzare quanto di autoritario era già presente nel vecchio codice liberale. Si pensi alla possibilità di sottrarre un minore ad una famiglia ritenuta incapace di svolgere il proprio com‑ pito educativo; l’ampio spazio dato alla regolazione dei rap‑ porti di adozione e affiliazione, diffusisi in seguito alla prima guerra mondiale; l’imposizione della ricerca della paternità, ora dichiarabile giudizialmente non soltanto nei casi di ratto o stupro, ma anche laddove vi fosse stata notoria convivenza oppure essa fosse rintracciabile tramite precise documenta‑ zioni o dichiarazioni. 28 L’art. 34 del Concordato attribuiva effetti civili “al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico (comma 1), riservava alla giurisdizione eccle‑ siastica “le cause concernenti la nullità del matrimonio rato e non consumato” (comma 4), lasciando, infine, all’autorità giudiziaria civile le cause di separa‑ zione personale (ult. comma). 29 In questi termini, in ordine ai Patti del Laterano e la nuova disciplina del ma‑ trimonio, nonché la problematica del divorzio Galoppini, op. cit., pp. 654‑656. 30 Su tali aspetti cfr. Vecchio, op. cit., pp. 114‑117; Giacobbe, Famiglia: molte‑ plicità di modelli o unità categoriale?, cit., pp. 1219‑1228; Barbiera, op. cit., p. 260. 31 Per un’analisi approfondita del divorzio nei lavori preparatori del codice civile del 1942 v. Galoppini, op. cit. pp. 656‑658 il quale osserva: “che, all’atto di una riforma giuridica come quella di una nuova codificazione, non si avvertis‑ se l’esigenza di rimeditare, almeno per il matrimonio civile, la questione dell’in‑ dissolubilità del vincolo durante la vita dei coniugi, destò una certa sorpresa in chi seguiva dall’estero le vicende italiane” F O R E N S E m a r z o • a p r i l e Il codice civile del 1942, però, era segnatoda una profon‑ dacontraddizioneai postulati ideologici dello Stato etico, secondo i quali la famiglia era di fondamentale rilevanza pubblica per le sue finalità eccedenti l’interesse sia individua‑ le sia dello stesso gruppo familiare, si contrapponeva la tra‑ dizione giuridica, specie quella consolidata nella codificazio‑ ne del 1865 e nell’esperienza giuridica successiva. Da un lato, dunque, vi era l’insieme delle disposizioni codiciali, ispirato al proposito di accentuare la vigilanza dello Stato sull’eserci‑ zio dei poteri nella famiglia in ragione del carattere pubblici‑ stico dell’istituto familiare: basti pensare, tanto per portare un esempio significativo, che in forza dell’art. 145 del codice civile l’opera educativa doveva avere come scopo quello di elevare i minori in conformità al sentimento nazionale fasci‑ sta. Sicché un’educazione difforme dalla direttiva del codice avrebbe potuto configurare un abuso di patria potestà. Con‑ seguentemente molteplici attribuzioni erano conferite alla pubblica autorità, e segnatamente all’autorità giudiziaria, in materia di tutela e di esercizio della patria potestà. Dall’altro lato la tradizione giuridica appariva evidente nell’insieme di norme che intendevano consolidare l’unità del gruppo fami‑ liare, garantendo e rafforzando l’autorità del marito‑padre, capo della famiglia. Così la donna risultava essere ancora in una condizione di inferiorità: sottoposta alla potestà marita‑ le (artt. 144‑245), poteva essere oggetto di ritorsioni econo‑ miche nel caso in cui si allontanasse ingiustificatamente dalla residenza familiare (art. 146); ella aveva la titolarità, ma non l’esercizio della potestà sui figli 32 (art. 316), pienamente nelle mani del marito; anche in ciò che atteneva ai rapporti fra i coniugi, la moglie era mantenuta in uno stato di sudditanza rispetto al marito. Per quanto concerneva poi la posizione dei figli 33 , sostanzialmente immodificata era quella dei figli legit‑ timi, mentre si registrava una certa apertura a favore del ri‑ conoscimento dei figli naturali e della ricerca della paternità; anche la disciplina dell’adozione risultava migliorata Ferma restando l’indissolubilità del matrimonio, il codice del 1942 mantenne gli istituti della separazione consensuale e della separazione per colpa del coniuge, distinguendo i reati tipica‑ 32 “Un ulteriore aspetto che merita di essere analizzato per definire l’ambito di operatività della preminenza del marito nella determinazione dell’indirizzo fa‑ miliare, si riscontra nel rapporto tra genitori e figli. Anche secondo il codice civile nella sua originaria formulazione il rapporto di filiazione all’interno del matrimonio impone ad entrambi i coniugi l’obbligo di istruire, mantenere ed educare i figli. Tuttavia, ricollegandosi l’originario testo dell’art. 147 c.c. con la disciplina della patria potestà secondo l’originaria formulazione dell’art. 316 c.c., emerge, come si è già accennato, un ulteriore profilo di supremazia del marito, laddove si distingue, rispetto alla potestà il profilo della titolarità da quello dell’esercizio. Sembra di intuitiva evidenza che, avuto riguardo alla na‑ tura della potestà genitoriale codesta dissociazione che si esprime qualificando‑ si il relativo potere come patria potestà sostanzialmente rende priva di qualsia‑ si rilevanza giuridica la titolarità congiunta del potere, sottolineandosi, anche per questo fondamentale profilo dei rapporti familiari, la preminenza del ma‑ rito rispetto alla moglie”. Così Giacobbe, Famiglia: molteplicità di modelli o unità categoriale?, cit., p. 1225. 33 “La concezione gerarchica dei rapporti familiari si riflette anche nel regime della filiazione. La contrapposizione tra filiazione legittima e filiazione illegitti‑ ma è espressiva di una concezione della famiglia secondo la quale l’esigenza di tutela del’ambito familiare è destinata a prevalere rispetto alla garanzia dei diritti fondamentali della persona umana. La prevalenza assoluta della filiazio‑ ne legittima si giustifica, nel sistema della codificazione, avuto riguardo alla ideologia che ne costituisce il fondamento, non soltanto sotto il profilo della qualificazione giuridica, e quindi, della individuazione dello status soggettivo del figlio, a seconda che la procreazione sia avvenuta all’interno del rapporto matrimoniale ovvero al di fuori di esso, ma anche e si direbbe soprattutto sul piano dei rapporti patrimoniali”. Così Giacobbe, op. ult. cit., pp. 1219‑1245 2 0 1 3 27 mente maschili (eccessi, sevizie) da quelli propriamente fem‑ minili (adulterio, ingiurie gravi). Era sulla base della loro accertata sussistenza che, di volta in volta, l’autorità giudizia‑ ria poteva concedere la separazione per colpa. Nel complesso si deve rilevare che, mentre nella legislazione speciale erano prevalenti gli orientamenti del tempo, incisivamente indicati nei “principi fascisti”, nel nuovo codice civile sembravano invece prevalere, nonostante tutto, le concezioni tradizionali in materia familiare34. In definitiva, un codice civile dal cui moderno “impianto” emerge un diritto di famiglia che si presenta come sistema chiuso, autoritario e rigido, fondato, come sottolineato, sui seguenti principi: Statuto privilegiato per la famiglia di sangue legittima; marito‑padre come capo di famiglia investito di funzioni e connessi poteri‑doveri, con soggezione passiva degli altri componenti la famiglia; indis‑ solubilità del matrimonio. Un microsistema, questo appena descritto, rappresentati‑ vo, quindi, di un modello di famiglia unitario, che non ebbe possibilità di consolidarsi nell’esperienza applicativa della codificazione, a causa delle vicende – seconda guerra mondia‑ le, caduta del fascismo e successivo mutamento istituzionale con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana – che, come vedremo, caratterizzarono l’evoluzione estremamente veloce della società italiana. 8. Il secondo dopoguerra e l’avvento della Repubblica. La Carta Costituzionale e la nuova concezione della famiglia come formazione sociale: il “seme” della riforma del 1975 Gli interventi del legislatore fascista sulla famiglia aveva‑ no segnato, come evidenziato in precedenza, un’inversione di tendenza rispetto al moto che aveva caratterizzato l’età libe‑ rale: l’istituzione familiare era stata progressivamente attrat‑ ta nella sfera pubblicistica, ove l’ingerenza statuale si era fatta penetrante e continua. È difficile individuare la data precisa in cui gli Italiani videro svanire le residue speranze nel regime fascista e se ne allontanarono in modo definitivo. Si trattò con ogni probabilità di un processo che avvenne per tappe successive e sempre più determinanti.Il 2 giugno 1946 gli Italiani scelsero la Repubblica. Importante fu il lavoro di elaborazione della Carta fondamentale da parte dell’Assem‑ blea Costituente tra il giugno 1946 e il dicembre 1947.Non ci furono modelli, ma, senza dubbio, l’esperienza della Costitu‑ zione di Weimar, nel bene e nel male ebbe un suo peso, come l’ebbe la Costituzione della Repubblica francese varata nel 1947. Mentre i costituenti elaboravano la nuova Carta costi‑ tuzionale, giungendo a frequenti compromessi, che permet‑ tevano di contemperare esigenze in origine contrapposte e accantonando scelte che avrebbero determinato una crisi tra i maggiori partiti, la politica italiana evolveva verso nuovi equilibri, influenzati dal quadro internazionale, ma anche dai rapporti tra le forze economiche e tra le Istituzioni tradizio‑ nali della società, a cominciare dalla Chiesa cattolica che sotto la guida di Pio XII guardava con crescente preoccupa‑ zione ai successi elettorali dei comunisti e dei socialisti. Il periodo che va dal 1943 al 1947 pone le basi, quindi, di quella che sarà la revisione radicale di un impianto normati‑ vo fondato, fin dalla costituzione dello Stato Unitario, su una 34 Così, D’Agostino, Dalla Torre, op. cit., pp. 235‑237. civile Gazzetta 28 D i r i t t o e p r o c e d u r a c i v i l e Gazzetta F O R E N S E concezione patriarcale della famiglia. Tale revisione avviene in particolare sotto l’impulso dei nuovi problemi posti dal conflitto bellico mondiale e dal nuovo ruolo assunto dalla donna in una società attraversata da gravissime tragedie e da inimmaginabili sconvolgimenti della vita civile. Per compren‑ dere il nuovo orientamento del legislatore, sempre più sensi‑ bile al nuovo contesto socio‑politico che si andava afferman‑ do nel Paese, possiamo far riferimento a due provvedimenti emblematici varati nell’estate del 1944: il primo avente ad oggetto la soppressione del divieto per le donne di impartire insegnamenti e di assumere uffici direttivi negli istituti di istruzione media; il secondo conduce all’estensione alle don‑ ne del diritto di voto. Da questo momento una serie di provvedimenti consacra‑ no il pieno ingresso femminile nella cittadinanza. La parifi‑ cazione giuridica delle donne in tema di diritti politici non rappresenta solo un termine ad quem, ma l’esito di un lungo e contrastato movimento di emancipazione, come pure un’or‑ mai improcrastinabile adeguamento della situazione italiana a quella europea. Si apre nel contempo la strada per una rivi‑ sitazione dei diritti civili e di quelli sociali riconosciuti nel quadro di un nuovo sistema di libertà. Il percorso che condu‑ ce all’Assemblea Costituente e alla “non scontata” scelta di inserire la famiglia nel testo costituzionale aveva riportato all’attenzione problematiche antiche come il divorzio è costel‑ lato proprio da tali provvedimenti che annunciano un rinno‑ vamento nel diritto di famiglia 35 , ma anche dibattiti su pro‑ blematiche antiche. Si pensi, ad esempio, al divorzio36 , ancora una volta ostacolato, per ragioni di natura diversa, dalle cul‑ ture allora dominanti (quella cattolica, quella liberale e, infi‑ ne, quella marxista) dal cui felice compromesso nacque la stessa Costituzione. Un’esemplificazione di questo bilancia‑ mento tra culture diverse si rinviene, come correttamente osservato37, nell’art. 2 del testo costituzionale, in base al qua‑ le ‘la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale’. Sarà, questo, uno dei cardini della giurisprudenza degli anni Ot‑ tanta sulla famiglia di fatto. Il valore della persona umana, contenuto nella clausola generale di tutela di cui all’art. 2 Cost., rappresenterà, peraltro, un elemento fondante del di‑ ritto di famiglia in generale. L’art. 3 Cost., invece – nella molteplicità dei contenuti che il termine “eguaglianza” è ca‑ pace di assumere nel linguaggio giuridico non meno che in quello filosofico, e come tale causa della varietà dei sensi che esso esprime nello stesso diritto positivo – servirà, come ve‑ dremo, di base al legislatore e alla giurisprudenza sia per le pari opportunità sia per il sostegno all’infanzia e all’adole‑ scenza. Nei lavori dell’Assemblea Costituente, e dunque nel testo della Costituzione, la questione dei diritti della famiglia s’intreccerà sempre con quella dei diritti dell’uomo. All’art. 7 Cost. 38, infine, è affidato il difficile compito di trattare i rap‑ porti fra Stato e Chiesa, sanzionando l’indipendenza di quest’ultima e collocando i già analizzati Patti Lateranensi del 1929 quale strumento diretto a regolare tali rapporti. Insomma, la valorizzazione della tutela della persona umana e il principio di solidarietà costituzionale permeeran‑ no di per sé i rapporti familiari”, rappresentando il “seme” dal quale “germoglierà” successivamente la riforma del dirit‑ to di famiglia del 1975. 9. Il “cuore” della disciplina della famiglia nel testo costituzionale L’attenzione del Costituente ai problemi della famiglia emergente, come sottolineato, dall’art. 2 Cost. trova specifi‑ cazione concreta negli artt. 29, 30 e 31, attraverso i quali viene definito il modello di famiglia39 che, costituendo ogget‑ to della scelta costituzionale, acquisisce il ruolo di inderoga‑ bile di definizione precettiva, vincolante per il Legislatore ordinario. L’art. 29 Cost., infatti,recita: “La Repubblica rico‑ nosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza mora‑ le e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. È evidente come il primo com‑ ma di tale disposizione sarà, da un lato, il fondamento di gran parte della legislazione a favore della famiglia, dall’altra uno dei punti di forza delle argomentazioni contrarie al ricono‑ scimento della famiglia di fatto. Il secondo comma, invece, costituirà la base di tutta la legislazione a favore della parità dei coniugi in merito ai loro diritti e ai loro doveri, sia reci‑ proci sia nei confronti della prole.L’istituzione familiare, in‑ fatti, viene riconosciuta come “società naturale” fondata sul “matrimonio”, a sua volta basato sull’eguaglianza dei coniu‑ gi. La famiglia, quindi, è presa in considerazione nella sua natura di formazione sociale (società), diversa, data il rilievo che assume in relazione al “divenire” della persona, oltre che della sua rilevanza sociale, da altre formazioni sociali suppor‑ tate solo da una generalissima, seppur fondamentale, garanzia posta dall’art. 2 Cost.; ma diversa anche da quelle altre for‑ mazioni sociali oggetto di disciplina tipizzata, in quanto considerata “società naturale”. Su questa espressione la dottrina si è soffermata a lungo, con interpretazioni diverse e spesso contraddittorie 40 , fino a concludere nel senso che il riferimento alla famiglia come “società naturale” ha quale proprio e unico significato il ri‑ conoscimento che l’istituto familiare è, nella sua essenza, realtà preesistente allo Stato, che la sua struttura non è so‑ cio‑culturale (pur essendo inevitabilmente soggetta agli in‑ flussi sociali e culturali di un determinato momento storico), ma antropologica, nel senso che essa riflette un’esigenza strutturale dell’essere dell’uomo. Da qui la conseguenza, voluta dalla Costituzione con quel riferimento, della irrefor‑ 35 “Non si trattava di una scelta scontata, anzi essa andava contro tutta la nostra tradizione costituzionale legislativa. Lo Statuto Albertino (1848) che per oltre un secolo aveva rappresentato la Costituzione del Regno d’Italia, aveva sempre ignorato la famiglia”. Così Cavana, op. cit., p. 902. 36 Su famiglia e divorzio all’Assemblea Costituente cfr. Galoppini, op. cit., pp. 658‑659. 37 Così Giacobbe, Il modello costituzionale della famiglia nell’ordinamento ita‑ liano, cit., p. 483. 38 Sul tema specifico del rapporto tra Stato e Chiesa cfr. Musselli, Chiesa e Stato all’assemblea costituente: l’art. 7 della Costituzione italiana, in Il Politico, 1988, n. 1, pp. 69‑97. 39 Sul tema specifico cfr. Cavana, op. cit., pp. 902‑921; Giacobbe, Il modello costituzionale della famiglia nell’ordinamento italiano, cit., pp. 481‑502. 40 Soprattutto i giuristi legati a una concezione positivistica o storicistica del di‑ ritto hanno cercato di esorcizzare – o, quantomeno, di attenuare – la valenza giusnaturalistica della norma, avanzando ipotesi interpretative tendenti a ren‑ dere sostanzialmente inutile e inoperante l’aggettivo naturale” F O R E N S E m a r z o • a p r i l e mabilità delle basi naturali dell’istituto – come tali eguali sempre e ovunque – da parte delle leggi dello Stato. Per la Costituzione, infine, non c’è famiglia senza matrimonio. Nella misura in cui questa formazione sociale è produttiva di fitte trame di relazioni interpersonali, dalle quali derivano precisi diritti e doveri di fondamentale rilievo per il divenire della persona e per il bene della società, si richiede un atto formale, solenne, per la sua costituzione, col quale coloro che intendono costituire una nuova famiglia si assumono non soltanto reciprocamente ma davanti alla società tali diritti e, soprattutto, tali doveri. Al comma, inoltre, pone il principio della parità non soltanto morale, ma anche giuridica dei co‑ niugi , innovando rispetto all’intera tradizione giuridica, fondata sul concetto del primato dell’uomo e incardinata negli istituti della potestà maritale e della patria potestà. Si pongono così le premesse per una rivoluzione delle norme riguardanti il governo della famiglia, nella misura in cui si abbandona quella plurisecolare concezione modellata sulle monarchie assolute che si esprimeva, anche sul piano norma‑ tivo, nell’affermazione di essere il marito‑padre il capo della famiglia. Ora, invece, si dà attuazione ad un’idea della fami‑ glia che – volendo continuare sulle analogie – potrebbe defi‑ nirsi, come attentamente osservato, “democratica”, postulan‑ te cioè un governo collegiale della famiglia, in forza del quale le scelte riguardanti la vita familiare e i figli sono frut‑ to di una convergenza d’intenti e di volontà da parte di ma‑ rito e moglie. Questa scelta profondamente innovativa è da collegarsi immediatamente al generale principio di eguaglianza, senza distinzione di sesso, sancito da quell’art. 3 della Costituzione che rappresenta, come abbiamo visto, uno dei principi supre‑ mi e inderogabili della stessa, ma può anche leggersi, come sottolineato, come uno sviluppo ulteriore di un altro principio costituzionale qualificabile come supremo: il principio demo‑ cratico 41. Solo se si rapporta, infatti, la disposizione sull’egua‑ glianza dei coniugi al riconoscimento dei diritti fondamenta‑ li e all’affermazione della famiglia come società naturale, si riesce a cogliere la ragione profonda e il senso della disposi‑ zione stessa. Difatti la parità nella condizione giuridica dei coniugi è nient’altro che il riconoscimento della struttura propria, sul piano naturale, del coniugio, cioè di quella rela‑ zione fra due soggetti che reciprocamente si riconoscono nella propria dignità di persona. Altrettanto innovative le disposizioni che, nell’art. 30 della Cost., sono poste in materia di filiazione. Sul presupposto che la famiglia, società natura‑ le, è il luogo naturalmente atto alla procreazione ed educazio‑ ne dei figli, l’articolo in questione pone due principi fonda‑ mentali: che il mantenimento, l’allevamento, l’educazione dei figli costituiscono compito proprio della famiglia, per cui, in ragione del principio di sussidiarietà, lo Stato può interveni‑ re sostituendosi a essa solo nei casi accertati di incapacità della famiglia allo svolgimento delle sue funzioni; che il do‑ vere‑diritto dei genitori in merito esprime una funzione volta a garantire il “divenire” della personalità dei figli, nell’inte‑ 41 Nel senso che nella Costituzione Repubblicana esso spira ben oltre i tradizio‑ nali confini delle istituzioni politiche (democrazia rappresentativa, democrazia diretta), per svolgersi fin nell’interno del corpo sociale (si pensi alla democra‑ tizzazione, nel loro interno e nel loro agire, che gli artt. 39 e 49 Cost. richiedo‑ no a sindacati e partiti). 2 0 1 3 29 resse primario e preminente di costoro, non in quello dei genitori né, addirittura dello Stato. Si coglie qui chiaramente come la Costituzione venga a distinguersi tanto dalle idee dominanti nell’età liberale che piegavano l’educazione all’in‑ teresse del padre, quanto da quelle dell’età del fascismo, che piegavano l’educazione agli interessi dello Stato. La Costituzione d’altra parte, sempre nell’art. 30, miglio‑ ra notevolmente la condizione dei figli nati fuori dal matri‑ monio, in ragione del principio di eguaglianza, che fa divieto di distinzioni basate sulle condizioni personali, essa assicura ai figli naturali una tutela giuridica pari a quella dei figli le‑ gittimi, con l’unico limite della tutela dei membri della fami‑ glia legittima. Sono inoltre ampliate notevolmente le possibi‑ lità di accertamento della paternità, ponendo di conseguenza il principio che, in linea generale, nessuno possa sottrarsi alle gravi responsabilità che si è assunte mettendo al mondo una nuova vita: si tratta, anche qui, di una incisiva innovazione rispetto al passato, la quale fonda il diritto di ciascuno a co‑ noscere le proprie origini e, quindi il diritto alla propria identità”. Il sostegno alla famiglia viene approfondito, poi, all’art. 31 Cost., laddove si statuisce che: “la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’in‑ fanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo. Una norma tipicamente programmatica – nella quale, cioè, il Costituente ha conferito allo Stato, nelle sue diverse artico‑ lazioni, il compito di perseguire costantemente, nel tempo, determinati obiettivi – che pone le basi per una politica della famiglia. Si tratta di una disposizione che raccoglie e sviluppa la linea di politica sociale affermatasi soprattutto negli anni trenta, sia pure con finalità naturalmente diverse, in quanto riconducibili a quel principio di sussidiarietà che, come si è visto, ispira le disposizioni costituzionali sulle formazioni sociali in genere e segnatamente, sulla famiglia”. All’art. 37 Cost., infine, si stabilisce che “la donna lavo‑ ratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retri‑ buzioni che spettano al lavoratore”, riconoscendo, però, anche quella che si usa definire la “specificità” della figura femmi‑ nile: “le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimen‑ to della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. In definitiva, la Costituzione ha delineato un istituto familiare fondato sull’autonomia e sulla libertà, nella riscoperta di valori giusnaturalistici (la famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio”) che appaiono un’estensione di quel‑ li relativi all’ “uomo” in quanto tale espressi nell’art. 2 della Costituzione. Una svolta, per molti aspetti radicale, nell’espe‑ rienza normativa. Anche ad una lettura superficiale degli artt. 29‑31Cost. riguardanti il matrimonio e la famiglia, in‑ fatti, è dato cogliere immediatamente, rispetto al codice del 1942, un salto qualitativo notevole, sia dal punto di vista dei modelli ideali sia da quello dei contenuti normativi. Ed è sorprendente rilevare come, nonostante i pochissimi anni che separavano la codificazione dal processo costituente, si fosse prodotto in materia un mutamento qualitativo di tanta evi‑ denza. Mentre i pregressi interventi del Legislatore italiano, dal 1865 al 1942, erano stati fortemente condizionati dalle civile Gazzetta 30 D i r i t t o e p r o c e d u r a mutevoli fondamenta dell’ideologia e da una concezione positivistica del diritto, la Costituzione della Repubblica, con il suo forte impianto giusnaturalistico e con lo sguardo sul futuro, venne a porre, anche per la materia familiare, basi42 stabili alla disciplina dell’istituto, aderenti alla sua immute‑ vole realtà naturale e cristallizzate nelle disposizioni costitu‑ zionali analizzate: logici sviluppi dei principi supremi posti dagli artt. 2 e 3 Cost.43 e “cuore vero” della disciplina della famiglia. 10. Conclusioni Dall’ analisi fin qui delineata si evincono in modo suffi‑ cientemente chiaro alcuni tratti fondamentali dell’evoluzione della famiglia italiana. I caratteri dei più recenti sviluppi della normativa su matrimonio e famiglia sono invece da cogliere nella disciplina del divorzio e nella grande riforma del diritto di famiglia, la quale venne a modificare profon‑ damente le disposizioni del codice civile, nonché nel comples‑ so delle leggi speciali, più o meno attinenti alla materia, che si svilupparono soprattutto negli anni Settanta44, di seguito attentamente analizzate. Accanto a questi interventi legisla‑ tivi sono poi da ricordare quelli, assai numerosi, relativi alla promozione della donna – con particolare riguardo alla sua condizione nel mondo del lavoro – ordinariamente ispirati, insieme al riconoscimento della parità femminile nel lavoro, alla compatibilità con le funzioni familiari, alla legge sull’in‑ terruzione volontaria della gravidanza45. Un rinnovamento legislativo 46 anticipato, da evoluzioni della giurisprudenza nel tentativo di armonizzare con il dettato costituzionale norme ereditate dal passato, e non più compatibili con i principi della Carta fondamentale 47. Dal lungo divenire della legislazione italiana su matrimonio e famiglia si desume chiaramente, pertanto, come i successivi interventi del Legi‑ slatore non abbiano risposto né alle regole di un’evoluzione graduale né a quelle di una rivoluzione, bensì, come è stato osservato, a quelle di un moto ellittico che, poco alla volta, riconduce alle posizioni iniziali. Infatti, a ben guardare, la storia del diritto di famiglia presenta, quanto a modelli sot‑ tesi alle diverse soluzioni normative, “corsi e ricorsi”. Già il legislatore dell’età napoleonica era stato costretto ad inter‑ venire per restringere l’applicazione, nel loro assoluto rigore, 42 Il riconoscimento di diritti inviolabili dell’uomo; la centralità della persona umana titolare di tali diritti; i doveri inderogabili di solidarietà; la pari dignità sociale e l’eguaglianza davanti alla legge, senza distinzione – fra l’altro – di sesso. 43 Riassumibili nel principio personalista, nel principio pluralista e nel principio di eguaglianza. 44 Si pensi alla legge sull’abolizione della menzione nei certificati anagrafici della nascita illegittima (l. n. 1064 del 31 ottobre 1955), a quella introduttiva del divorzio (l. n. 898 del 1 dicembre 1970); a quella che provvide ad abbassare dai 21 ai 18 anni la maggiore età (l. n. 38 dell’8 marzo 1975) etc. 45 Basti qui ricordare la l. n. 7 del 9 gennaio 1963, che vieta il licenziamento della lavoratrice a causa del matrimonio, la l. n. 66 del 9 febbraio 1963, che elimina ogni divieto di accesso a cariche, professioni e uffici pubblici, la l. n. 1024 del 30 dicembre 1971 per le lavoratrici madri. 46 Intervenuto soprattutto negli anni Settanta, che ha progressivamente investito l’istituto familiare e non può, d’altra parte, essere giudicato appieno restringen‑ done la rilevanza al solo diritto privato di famiglia, giacché, come è stato giu‑ stamente osservato, deve essere valutato nel contesto dei settori del diritto pubblico dove sono organizzate le garanzie pubbliche della famiglia. 47 In particolare, la Corte Costituzionale – con la sua opera di cassazione delle norme ritenute illegittime – è divenuta la “levatrice saggia” del generale rinno‑ vamento della disciplina privatistica e pubblicistica della famiglia. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E dei principi individualistici di derivazione illuministica. A una concezione individualistica, rispondeva invece la codi‑ ficazione del 1865. Nell’età del fascismo, poi, l’individuo si era ancora una volta piegato a interessi superiori, con eviden‑ te attrazione del diritto di famiglia nell’orbita del pubblico. L’esperienza repubblicana, infine, ha ricondotto a un prima‑ to dell’individuo tanto sul gruppo familiare quanto sugli interessi generali, con una nuova attrazione del diritto di famiglia nel privato. Due modelli, dunque, si sono alternati nel tempo, anche se non di rado, di epoca in epoca. Al pri‑ mato dell’uno si è affiancata una certa convivenza con l’altro. In questo quadro la Costituzione repubblicana ha rappresen‑ tato un’eccezione. Essa si è posta al di fuori del moto rivolu‑ zionario fra pubblico e privato, e viceversa: con il suo im‑ pianto giusnaturalistico, è uscita dalla contrapposizione pubblico‑privato per attingere alla realtà naturale dell’istitu‑ zione familiare, nella quale i diversi interessi individuali e collettivi sono mediati e armonizzati4849. In questo lungo percorso storico caratterizzato da “corsi e ricorsi” è stato possibile, però, individuare50 anche della “costanti” fisse nel tempo. Si pensi alla indiscutibile presenza di diverse “famiglie” italiane nel corso della storia anche re‑ cente; alla carenza di rapida e tempestiva analisi delle trasfor‑ mazioni socio‑economiche e culturali; al forte condiziona‑ mento di una totale assenza di una politica efficace; ad una eccessiva ideologizzazione degli interventi; alla lunga soprav‑ vivenza di norme anacronistiche, discriminatorie e superate (come quelle nei confronti della donna); all’apparente prote‑ zione delle ideologie che, pur nelle loro diversità, permette‑ vano a fascisti, cattolici e comunisti di sfuggire al duro con‑ fronto con il moderno, salvo poi farli ritrovare in un mondo molto diverso da quello “sognato e descritto”; e infine al continuo ripiegamento dei cittadini su se stessi e su una ri‑ sposta “privata”, in una monotona e infinita ricerca di vitto, abitazione, sicurezza, senza una reale né incisiva capacità di guida delle grandi centrali educative, scuola, Chiesa o partiti che fossero. Ciò che soprattutto si perdeva di vista era che i mutamen‑ ti sociali connessi allo sviluppo economico potevano e dove‑ vano essere governati e che i rapporti tra lo Stato e la Socie‑ tà da un lato, lo Stato e il Mercato dall’altro, in un Paese maturo e divenuto complesso, richiedevano di venire conti‑ nuamente ridefiniti e comunque non andavano abbandonati a se stessi. Le spinte conflittuali che nascono da questo con‑ testo sono molto forti e pervasive . È in questo quadro di mobilitazione sociale e civile che verrà svolgendosi il con‑ fronto referendario sul divorzio e la relativa disciplina. In tema di diritti civili si avranno, inoltre, altre successive cam‑ pagne, come quella che porterà all’introduzione dell’aborto e dell’obiezione di coscienza, tutte volte a innovare profon‑ damente il costume e la vita sociale 51. In questa cornice di 48 D’altra parte, i due modelli di matrimonio e di famiglia si sono allontanati nel tempo, più o meno accentuatamente, dall’archetipo sotteso alla disciplina ca‑ nonistica, cioè dal modello da cui, storicamente, la disciplina civilistica di ma‑ trimonio e famiglia ha tratto origine, e dal quale si è sviluppata per processo di . secolarizzazione 49 Così D’Agostino, Dalla Torre, op. cit., pp.248‑250. 50 Così Vecchio, op. cit., p. 178‑179. 51 Sul punto Cfr. Blangiardo, op. cit., pp. 200 ss. F O R E N S E m a r z o • a p r i l e mutamenti sociali anche la Chiesa del Concilio Vaticano II mostrò una certa disponibilità all’ “ascolto” di quel bisogno di cambiamento che proveniva dalla società alla cui emersio‑ ne contribuì senza dubbio la Costituzione, che rappresenta 2 0 1 3 31 però anche il limite cronologico della nostra ricostruzione, al di là del quale vi sono altre problematiche, che riguardano il nostro “presente”, ma sono altresì “figlie” della “storia”: quella dell’Italia unita. civile Gazzetta 32 D i r i t t o e p r o c e d u r a c i v i l e Gazzetta F O R E N S E ● Corte di Cassazione, sez. civ. I sentenza 23 dicembre 2012, n. 23713 Pres. Carnevale; Est. Dogliotti Sono leciti gli accordi prematrimoniali? Famiglia e Matrimonio – Nubendi – Negozio giuridico per eventuale fallimento – Qualificazione – Contratto atipico con condizione sospensiva lecita e non accordo prematrimoniale – Autonomia negoziale ex art. 1322 c.c. – Liceità È valido l’impegno negoziale assunto dai nubendi in caso di “fallimento” del matrimonio, in quanto qualificabile non come accordo prematrimoniale in vista del divorzio, ma come contratto atipico con condizione sospensiva lecita, espressione dell’autonomia negoziale dei coniugi diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela, ai sensi dell’art. 1322, secondo comma c.c. Corte di Cassazione, sez. civ. I, sent.23 dicembre 2012, n. 23713 Pres. Carnevale; Est. Dogliotti Nota a Corte di Cassazione, sez. civ. I, 23 dicembre 2012, n. 23713 ● Giusy Cante dottoressa in Giurisprudenza, praticante Notaio e Carmen Pennacchio docente presso Università degli Studi di Napoli Federico II (Omissis) Motivi della decisione Con il primo motivo la ricorrente sostiene che la scrittura privata in questione trarrebbe il proprio titolo genetico dal matrimonio e integrerebbe violazione dell’art. 160 c.c., ove si precisa che i coniugi non possono derogare ai doveri e diritti nascenti dal matrimonio. Con il secondo lamenta la ricorrente insufficiente e con‑ traddittoria motivazione della sentenza impugnata sull’inter‑ pretazione della predetta scrittura. La scrittura privata, sottoscritta dai nubendi il giorno prima della celebrazione del matrimonio, prevede che, in caso di suo fallimento (separazione o divorzio), la P. cederà al marito un immobile di sua proprietà, quale indennizzo delle spese soste‑ nute dallo stesso per la ristrutturazione di altro immobile, pure di sua proprietà, da adibirsi a casa coniugale; a saldo, comun‑ que, l’O. trasferirà alla moglie un titolo *** di lire ***. È evidente che la ricorrente inquadra la predetta scrittura tra gli accordi prematrimoniali in vista del divorzio, molto frequenti in altri Stati, segnatamente quelli di cultura anglo‑ sassone, dove essi svolgono una proficua funzione di deflazio‑ ne delle controversie familiari e divorzili. Come è noto, in Italia, la giurisprudenza è orientata a ri‑ tenere tali accordi, assunti prima del matrimonio o magari in sede di separazione consensuale, e in vista del futuro divorzio, nulli per illiceità della causa, perché in contrasto con i princi‑ pi di indisponibilità degli status e dello stesso assegno di di‑ vorzio (per tutte, Cass. n. 6857 del 1992). Tale orientamento è criticato da parte della dottrina, in quanto trascurerebbe di considerare adeguatamente non solo i principi del sistema normativo, ormai orientato a riconoscere sempre più ampi spazi di autonomia ai coniugi nel determinare i propri rappor‑ ti economici, anche successivi alla crisi coniugale. È assai singolare che invece siano stati ritenuti validi accordi in vista di una dichiarazione di nullità del matrimonio, perché sareb‑ bero correlati ad un procedimento dalle forti connotazioni inquisitorie, volto ad accertare l’esistenza o meno di una causa di invalidità del matrimonio, fuori da ogni potere negoziale di disposizione degli status: tra le altre, Cass. n. 248 del 1993). Giurisprudenza più recente di questa Corte ha invece F O R E N S E m a r z o • a p r i l e sostenuto che tali accordi non sarebbero di per sé contrari all’ordine pubblico; più specificamente il principio dell’indi‑ sponibilità preventiva dell’assegno di divorzio dovrebbe rinvenirsi nella tutela del coniuge economicamente più debo‑ le, e l’azione di nullità (relativa) sarebbe proponibile soltanto da questo (al riguardo, tra le altre, Cass. n. 8109 del 2000; n. 2492 del 2001; n. 5302/2006). Va peraltro precisato che la sentenza impugnata, sorretta da motivazione ampia, articolata e non illogica, ha fornito un preciso inquadramento e non illogica, ha fornito un pre‑ ciso inquadramento della scrittura privata in esame. Si trat‑ ta, all’evidenza, di valutazione di merito, in suscettibile di controllo in questa sede, ove immune da errori di diritto. L’impegno negoziale della P., una sorta di datio in solu‑ tum, viene collegato alle spese affrontate dall’O. per la siste‑ mazione di altro immobile adibito a casa coniugale, e il fal‑ limento del matrimonio non viene considerato come causa genetica dell’accordo, ma è degradato a mero “evento condi‑ zionale”. Prosegue la Corte di merito precisando che, ove causa genetica fosse il matrimonio (e il suo fallimento), l’im‑ pegno predetto, una sorta di sanzione dissuasiva volta a condizionare la libertà decisionale degli sposi anche in ordi‑ ne all’assunzione di iniziative tendenti allo scioglimento del vincolo coniugale, sarebbe sicuramente nullo. Ma indice di tale ipotesi potrebbe essere soltanto una notevole spropor‑ zione delle prestazioni, al contrario non provata. L’argomentazione è censurata dalla ricorrente, ma, al contrario, la Corte territoriale ha fatto buon uso delle regole di ermeneutica contrattuale, in particolare con riferimento all’art. 1353 c.c., per cui le clausole del contratto si interpre‑ tano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto. Si tratterebbe in definitiva – si può aggiungere – di un accordo tra le parti, libera espressione della loro autonomia negoziale, estraneo peraltro alla categoria degli accordi pre‑ matrimoniali (ovvero effettuati in sede di separazione con‑ sensuale) in vista del divorzio, che intendono regolare l’inte‑ ro assetto economico tra i coniugi o un profilo rilevante (come la corresponsione di assegno), con possibili arricchi‑ menti e impoverimenti. Nella specie, dunque un accordo (rectius: un vero e proprio contratto) caratterizzato da pre‑ stazioni e controprestazioni tra loro proporzionali, secondo l’inquadramento effettuato dal giudice a quo. Come si è detto, una motivazione adeguata e non illogica, e immune da errori di diritto. Come è noto, ai sensi dell’art. 1197 c.c. il debitore non può liberarsi eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta, salvo che il creditore vi consenta; l’obbligazione si estingue quando la diversa prestazione è eseguita. Nella specie, il trasferimento di immobile può sicuramente costitu‑ ire adempimento, con l’accordo del creditore, rispetto all’ob‑ bligo di restituzione delle somme spese per la sistemazione di altro immobile, adibito a casa coniugale. La condizione, nella specie sospensiva (il “fallimento” del matrimonio) non può essere meramente potestativa ai sensi dell’art. 1355 c.c., e cioè dipendere dalla mera volontà di uno dei contraenti (ciò che, nella specie, non potrebbe verificarsi, considerando, evidentemente, le parti tale “fallimento”, come fattore oggettivo, indipendentemente da eventuali responsa‑ bilità addebitabili all’uno o all’altro coniuge). 2 0 1 3 33 La condizione neppure può porsi in contrasto con norme imperative, l’ordine pubblico, il buon costume (in tal caso renderebbe nullo il contrasto, ai sensi dell’art. 1354 c.c.). Dunque nulla sarebbe una condizione contraria all’art. 160 c.c., sopra indicato. E tuttavia, nella specie, essa appare pie‑ namente conforme a tale disposizione, ove si consideri che in costanza di matrimonio (e prima della crisi familiare) opera tra i coniugi il dovere reciproco di contribuzione di cui all’art. 143 c.c.; il linguaggio comune spiega il significato ad esso attribuito dal legislatore, è la parte che ciascuno conferi‑ sce, con cui si concorre, si coopera ad una spesa, al raggiun‑ gimento di un fine. Con la contribuzione, si realizza dunque il soddisfacimento reciproco dei bisogni materiali e spirituali di ciascun coniuge, con i mezzi derivati dalle sostanze e dalle capacità di ognuno di essi. Può sicuramente ipotizzarsi che, nell’ambito di una stretta solidarietà tra i coniugi, i rapporti di dare ed avere patrimo‑ niale subiscano, sul loro accordo, una sorta di quiescenza, una “sospensione” appunto, che cesserà con il “fallimento” del matrimonio, o con il venir meno, provvisoriamente con la separazione, e definitivamente con il divorzio, dei doveri o diritti coniugali. Condizione lecita, dunque, nella specie, di un contratto atipico, espressione dell’autonomia negoziale dei coniugi, si‑ curamente diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela, ai sensi dell’art. 1322, secondo comma c.c. Vanno pertanto ri‑ gettati i due motivi, in quanto infondati e, conclusivamente, il ricorso stesso. P.Q.M. (Omissis) • • • Nota a sentenza 1. La fattispecie. Il caso muove da una negoziazione stipulata da una cop‑ pia, prima della celebrazione del matrimonio, mediante la quale i contraenti si impegnano reciprocamente, ossia la fu‑ tura moglie (ricorrente), a séguito della scrittura privata, in caso di separazione o divorzio, avrebbe ceduto un di lei im‑ mobile al marito in pectore, come indennizzo delle spese so‑ stenute dallo stesso per la ristrutturazione di altro immobile, pure di sua proprietà, altresì, quest’ultimo si era impegnato a trasferire alla moglie un titolo BOT di un dato importo. L’esposizione in questi termini potrebbe apparire promet‑ tere scenari non contemplati dall’attuale materia codicistica1, 1 In materia, la giurisprudenza nazionale (ad esempio, Cass. 11 giugno 1981, n.3777 in Foro italiano, 1981, 1, 184; in Giurisprudenza italiana 1981, 1, 1, 1553, con nota di Trabucchi) considera nulli gli accordi cosiddetti prematri‑ moniali, esperienza giuridica – invece – contemplata e consolidata in visioni ordinamentali diverse dalle nostre, per illiceità della causa ritenuta contraria ai principi di indisponibilità degli status e dell’assegno divorzile. A ben vedere, si tratta in realtà di un orientamento molto criticato in dottrina (Oberto, Sulla natura disponibile degli assegni di separazione e divorzio, in Famiglia e diritto, 5, 2003, 496 ss.) e smentito dalla giurisprudenza più recente (Cass., 3 maggio 1984 n. 2682, in Rivista Diritto Internazionale Privato, 1985, 579), della Corte “che ha invece sostenuto che tali accordi non sarebbero di per sé contrari all’ordine pubblico: più specificamente il principio dell’indisponibilità preven‑ tiva dell’assegno di divorzio dovrebbe rinvenirsi nella tutela del coniuge eco‑ civile Gazzetta 34 D i r i t t o e p r o c e d u r a per cui è meglio scandire temporalmente le fasi evolutive del rapporto litigioso e ripercorrere le tappe del ragionamento giuridico che rassegna il binario percorso dagli ermellini. Il matrimonio successivamente attraversa una fase critica e, nel relativo contenzioso, il giudicante di primo grado, nel dichiarare la cessazione degli effetti civili del matrimonio, af‑ fida alla madre i figli minori, ponendo a carico del padre una partecipazione contributiva periodica per il loro mantenimen‑ to, rigettando, al contempo, la domanda riconvenzionale dell’ex marito, volta all’ottenimento di una sentenza costitutiva (ex art. 2932 c.c.), per la esecuzione in forma specifica dell’impegno assunto con il sopra menzionato accordo. L’impegno successivo in Corte d’Appello, invece, a parziale riforma della sentenza di primo grado, vede riconosciuto valido ed efficace, nei confronti del marito, l’impegno negoziale as‑ sunto dalla moglie nella negoziazione privata, omettendo pe‑ raltro di pronunciarsi ex art. 2932 c.c., ed invitando la parte interessata ad attivarsi, al riguardo, in separata sede. Contro questa statuizione propone ricorso per Cassazione la ex moglie, ma la Corte di legittimità, come visto, ritiene valido l’impegno negoziale assunto dai nubendi prima del matrimonio qualificandolo come contratto atipico con con‑ dizione sospensiva lecita. 2. Definizione dei rapporti fra coniugi: spinte emozionali o ragionate certezze? La sentenza in commento2 – innovativa tanto da sembrare in discontinuità con il passato – offre il destro ad una discus‑ sione circa uno dei temi più spinosi del diritto di famiglia, nomicamente più debole, e l’azione di nullità (relativa) sarebbe proponibile soltanto da questo (al riguardo, tra le altre, Cass. n. 8109 del 2000; n. 2492 del 2001; n. 5302 del 2006)”. Solo una volta, la Corte di Cassazione si è pronunciò positivamente riguardo i patti prematrimoniali, ma il caso era relativo a due cittadini americani abitanti in Italia, Cass. Civ., 3 maggio 1984, n. 2682: «L’accordo, rivolto a regolamentare, in previsione di futuro divorzio, i rap‑ porti patrimoniali fra coniugi, che sia stato stipulato fra cittadini stranieri … sposati all’estero e residenti in Italia, e che risulti valido secondo la legge nazi‑ onale dei medesimi … è operante in Italia, senza necessità di omologazione o recepimento delle sue clausole in un provvedimento giurisdizionale, tenuto conto che l’ordine pubblico, posto dall’art. 31 delle citate disposizioni come limite all’efficacia delle convenzioni fra stranieri, riguarda l’ordine pubblico cosiddetto internazionale, e che in tale nozione non può essere incluso il prin‑ cipio dell’ordinamento italiano, circa l’invalidità di un accordo di tipo preven‑ tivo fra i coniugi sui rapporti patrimoniali successivi al divorzio, il quale attiene all’ordine pubblico interno e trova conseguente applicazione solo per il matri‑ monio celebrato secondo l’ordinamento italiano e fra cittadini italiani». 2 Essa ha fatto séguito ad un’altra recente sentenza, resa dalla VII sezione del Tribunale di Torino in data 20 aprile 2012, nella quale viene stabilito che “L’accordo concluso sui profili patrimoniali tra i coniugi in sede di separazione legale ed in vista del divorzio non contrasta né con l’ordine pubblico, né con l’art. 160 c.c.”. (Nella specie le parti, pochi mesi prima della pronuncia di separazione «a conclusioni congiunte», avevano convenuto che l’erogazione dell’importo a titolo di assegno di mantenimento a carico del marito sarebbe venuta a cessare all’atto dell’inizio della causa per la pronunzia della cessazione degli effetti civili del matrimonio, con impegno della moglie a «nulla pretender[e] [dal marito], né a titolo di una tantum né di mantenimento». In sede di udi‑ enza presidenziale di divorzio la suddetta intesa è stata ritenuta valida e vincol‑ ante, con conseguente rigetto della domanda della moglie volta ad ottenere un assegno). Diversa opinione giurisprudenziale la ritroviamo in Cass., 11 giugno 1981, n. 3777; Cass., 5 dicembre 1981, n. 6461; Cass., 11 dicembre 1990, n. 11788; Cass., 2 luglio 1990, n. 6773; Cass., 1 marzo 1991, n. 2180; Cass., 6 dicembre 1991, n. 13128; Cass., 4 giugno 1992, n. 6857; Cass., 11 agosto 1992, n. 9494; Cass., 28 ottobre 1994, n. 8912; Cass., 7 settembre 1995, n. 9416; Cass., 20 dicembre 1995, n. 13017; Cass., 20 febbraio 1996, n. 1315; Cass., 11 giugno 1997, n. 5244; Cass., 20 marzo 1998, n. 2955; Cass., 18 febbraio 2000, n. 1810; Cass., 9 maggio 2000, n. 5866; Cass., 12 febbraio 2003, n. 2076; Cass., 9 ottobre 2003, n. 15064; Cass., 25 gennaio 2012, n. 1084; Trib. Varese, 29 marzo 2010. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E riguardante la possibilità per i nubendi3 di definire, conven‑ zionalmente, i rapporti personali4 e patrimoniali5, scaturenti dal negozio matrimoniale, in previsione della crisi coniugale6, in omaggio ad un principio di comune buon senso, riassunto dall’aforisma Prevenire è meglio che curare7. È noto, infatti, come in una fase patologica, quale quel‑ la tendente allo scioglimento del vincolo matrimoniale8, ri‑ sulti difficile raggiungere accordi in merito alla sistemazio‑ ne degli assetti patrimoniali tra i coniugi 9, dato l’elevato 3 Badiali, sv. Coniugi (rapporti personali e patrimoniali tra coniugi) (diritto internazionale privato processuale), in EG. Treccani, Roma, 1988, 8, 1 ss., secondo il quale la nuova convenzione tra i coniugi poteva modificare solo un regime precedente di tipo convenzionale, ma non un regime legale, che sarebbe stato quindi immutabile. 4 Pazzeschi, L’eguaglianza tra coniugi, in Studi Senesi, 1981, 214 ss. 5 Garofalo, I rapporti patrimoniali tra coniugi nel diritto internazionale privato, Torino, 19972, 108, secondo il quale, in sostanza, il legislatore della novella del 1975 ha eletto a regime legale quello della comunione regolata dagli artt. 177 ss. c.c. perché lo riteneva rispettoso dell’assetto patrimoniale tipico della famiglia media italiana, trasferendo sulle frange minoritarie l’onere di un rifiuto o di una diversa regolamentazione. La scelta di una certa soluzione di conflitto non è meccanicamente condizionata all’adozione di un certo regime dei rapporti patrimoniali tra coniugi, bensí dunque, come sempre avviene, dalla “qualificazione” dell’istituto che è frutto, a sua volta, del modo in cui la singola disciplina sostanziale ha avuto origine e si è evoluta e, con riferimento al problema dell’opponibilità, (159 s.). S. Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, in Familia, 2002, 285 ss. 6 Fino agli ultimi decenni del secolo scorso la dottrina italiana non offriva un panorama sensibile allo studio dei contratti tra coniugi in vista di una possibile crisi dell’unione. Studi e soluzioni giurisprudenziali circa le intese di carattere preventivo apparivano essenzialmente dirette a disciplinare i consensi sul futuro divorzio tra coniugi già separati (ad esempio, cfr., Gabrielli, Indisponibilità preventiva degli effetti patrimoniali del divorzio: in difesa dell’orientamento adottato dalla giurisprudenza, in Rivista di diritto civile, 1996, 1, 699 ss.; Sorrentino, Convenzioni preventive di divorzio, diritto agli alimenti e diritto al mantenimento, Tribunale di Terni, 10 maggio 2005, in il Corriere del Merito, 8‑9, 2005, 910 ss., in particolare note 1 e 2; in altro senso, Brignone, Tardia, Gratuità e accordi patrimoniali tra coniugi in vista del divorzio, in a cura di A. Palazzo, S. Mazzarese, I contratti gratuiti, Milano, 2008, 557, in particolare nota 81 ss.) profilo del quale si apprezzano alcune caratteristiche sue proprie. Sul punto, una volta dimostrata la piena disponibilità delle attribuzioni patri‑ moniali postmatrimoniali (cfr., di recente, Romano, Sgroi, Gli accordi preven‑ tivi in vista della crisi coniugale. Come disciplinare i rapporti patrimoniali tra le parti, in a cura di Oberto, Gli aspetti patrimoniali della famiglia. I rap‑ porti patrimoniali tra coniugi e conviventi nella fase fisiologica ed in quella patologica, Padova, 2011, 25 ss.), va subito detto che il riconoscimento della possibilità per i nubendi di accordarsi in vista di una presumibile crisi coniugale trova riscontro, oltre che nell’assenza di ostacoli in seno alla legislazione vigente, anche in alcune riflessioni di carattere storico, sociologico e comparatistico, operate in dottrina e di cui rende notizia Oberto, I patti prematrimoniali nel contesto della negozialità familiare, in a cura di Oberto, Gli aspetti di sepa‑ razione e divorzio nella famiglia, Milano, 2012, 1 ss., in particolare note 2 ss. 7 Esso può anche essere considerato come una generalizzazione moderna del principio (di precauzione) ascrivibile ad Ippocrate Primum non nocere. In realtà bisogna considerare che vi è differenza tra prevenzione (limitazione di rischi oggettivi e provati) e precauzione (limitazione di rischi ipotetici o basati su in‑ dizi). Il principio di precauzione si applica cioè non a pericoli già identificati, ma a pericoli potenziali, di cui non si ha ancora conoscenza certa. 8 Cfr., E. Al Mureden, Il divorzio di Paul McCartney ed Heather Mills. I diritti del coniuge debole in una emblematica decisione inglese e nella prospettiva del diritto italiano, in Famiglia e diritto, 2008, 843 ss.; inoltre, Oberto, Gli ccordi preventivi sulla crisi coniugale, Relazione presentata al Convegno sul tema «La crisi coniugale tra contratto e giudice», organizzato dal Comitato Regionale Notarile Toscano in collaborazione con i Consigli Notarili della Toscana, a La Biodola (Isola d’Elba), il 28 e 29 settembre 2007, in particolare nt. 7, con l’indicazione di accordi famosi e storia dell’istituto= in Familia, 2008, 25 ss. 9 È bene, comunque, sottolineare che il matrimonio determina l’obbligo recip‑ roco, per i coniugi, di assistenza materiale. Questo dovere non cessa con la separazione, ma si trasforma, per il coniuge economicamente più forte, nell’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento eventualmente pre‑ visto dal giudice. Analogo regime è previsto durante il divorzio e dopo di esso. Sotto il profilo economico, pertanto, il matrimonio non si dissolve automatica‑ mente con il divorzio, ma può continuare a determinare effetti, come se fosse ancora “indissolubile”. L’insieme di tali effetti dà luogo al fenomeno della solidarietà post coniugale, di cui sono importante espressione, ad esempio, la pensione di reversibilità e l’indennità di fine rapporto. Cfr., de Filippis, F O R E N S E m a r z o • a p r i l e 2 0 1 3 35 grado di conflittualità che connota la crisi del rapporto coniugale10. Per comprendere la portata (forse innovativa?) della sen‑ tenza non si può prescindere dalla situazione delle due parti del negozio e del ruolo da loro stessi rivestito nella fattispecie. Ne mettiamo in evidenza i punti: nubendi e sottoscrizione scrittura privata con impegni, ora per allora, reciproci (la futura moglie avrebbe ceduto al prossimo marito un bene immobile di sua proprietà, in caso di divorzio, quale inden‑ nizzo delle spese che egli stesso avrebbe affrontato per ri‑ strutturare la casa da adibire a residenza familiare, dal suo canto il futuro marito avrebbe corrisposto una somma di danaro). La delicata e controversa questione giuridica prescinde, per un attimo, dalla contingente soluzione ed attiene ad un più algido ragionamento per genus e species11, volto, allora, alla collocazione o meno di questa espressione contrattuale nell’ampia categoria degli accordi prematrimoniali12 , impli‑ cando un risvolto positivo, teso alla valutazione della sua ammissibilità; oppure, negativo, ad accellerarne la coloritura causale, tanto da inserirlo nelle scelte categoriali ordinamen‑ tali, già operate dal legislatore. Il nodo essenziale da sciogliere – in una indagine di questo tipo, è rappresentato dalla definizione di un accordo prema‑ trimoniale, figura giuridica cara alle culture giuridiche anglo‑ sassoni13. 3. Uno sguardo al passato. Il tema, come abbiamo già avuto sentore dalle prime battute del nostro discorso, declina due aspetti di una proble‑ matica complessa e intrisa di umori passionali, quali sono l’autonomia coniugale e la crisi della famiglia. Per poter, al meglio, analizzare il nostro tema è necessario dare uno sguar‑ do alle fonti alle quali l’istituto si appella, per poi analizzarne i risvolti e le possibili, o probabili, attuazioni in un ordina‑ mento come il nostro, nel quale, i patti prematrimoniali, non sono esplicitamente contemplati, anche se rappresentano una realtà negli ordinamenti stranieri14. Alla base della differenza tra gli ordinamenti che non sanzionano negativamente tali istituti e sistemi, e quelli, come l’italiano, che li ignorano, vi è certamente la diversa conside‑ razione (ed ampiezza) riconosciuta all’autonomia privata nei rispettivi contesti giuridici, nonché della concezione della familia15 con conseguente possibilità di incisione sugli status l’indennità di fine rapporto, in a cura di de Filippis, Lettieri, Chiarito, Saddi, Manzo, Mencarini, Rauty, De la Ville sur Illon, La solidarietà post‑coniugale, Pensione di reversibilità ed indennità di fine rapporto, Milano, 2012, 111 ss. 10 Con la Legge denominata Fortuna‑Baslini (n. 898/1970, disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, con successive integrazioni, L. 74/1987) il legis‑ latore ha previsto che, qualora venga meno la comunione materiale (beni ed intenti) e spirituale (elezione del coniuge a proprio compagno di vita e procre‑ azione), il tribunale possa, su richiesta di uno o di entrambi i coniugi, pronun‑ ciare lo scioglimento del matrimonio civile o la cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso. Cfr., Pellecchia, Separazione, divorzio, interdizione e inabilitazione, Flussi processuali, Milano, 2008, 42 ss. Con la L. 6 marzo 1987 n. 74 intervenuta a rivedere l’istituto introdotto dal legislatore del ’70, sono state apportate sensibili modifiche alla disciplina dello scioglimento del matri‑ monio, snellendolo in tema di procedimento, anche in armonia con l’ampliamento delle cause di scioglimento, inserendo la previsione di un procedimento per “direttissima” allorquando la domanda di divorzio sia inoltrata di comune accordo dalle parti: in tal caso, la legge prevede il rito camerale e così le parti compariranno innanzi al tribunale in camera di consiglio per la prima (e unica) udienza. 11 La prima descrizione e utilizzazione del metodo diairetico (distinctio come strumento conoscitivo di carattere generale) risaliva a Platone, che aveva affi‑ dato alla διαρεσις un ruolo essenziale al fine di realizzare una piena cono‑ scenza dello scibile umano. L’utilità del meccanismo della διαρεσις – in latino divisio o distinctio – si reggeva sull’efficacia conoscitiva della suddivisione di un concetto in due categorie distinte e opposte. L’antitesi si radica sulla indi‑ viduazione di una differenza, che rende incompatibile l’appartenenza contem‑ poranea degli elementi che compongono il genere ad entrambe le specie anti‑ nomiche. Si pensi, ad esempio, alla contrapposizione tra mortale ed immortale. Cfr., Errera, Lineamenti di epistemologia giuridica medievale. Storia di una rivoluzione scientifica, Torino, 2006, 5 ss., in particolare nntt.11 ss. 12 Non appare possibile, in questa sede, procedere ad una indicazione, seppure per linee generali, del panorama storico/evolutivo che rappresenta la base dei moderni istituti familiari, nel settore patrimoniale. Per gli approfondimenti e per i richiami dottrinali, si rinvia agli scritti di Oberto, La promessa di matri‑ monio tra passato e presente, Padova, 1996, 67 ss., 107 ss., 250 ss.; I doni prenuziali e la loro restituzione nella storia e nel diritto vigente, in Scuola di Notariato A. Anselmi di Roma (cur.), La volontaria giurisdizione. Casi e materiali. Contributi in onore di Daniele Migliori, Milano, 1997, 362 ss.; Gli accordi sulle conseguenze patrimoniali della crisi coniugale e dello sciogli‑ mento del matrimonio nella prospettiva storica, nota a Cass., 20 marzo 1998, n. 2955, in Foro italiano, 1999, I, c. 1306 ss.; Simulazioni e frodi nella crisi coniugale (con qualche accenno storico ad altri ordinamenti europei), nota a Cass., 5 marzo 2001, n. 3149, in Familia, 2001, 774 ss.; I precedenti storici del principio di libertà contrattuale nelle convenzioni matrimoniali, in Diritto di famiglia e delle persone, 32.2,, 2003, 535 ss.; Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215‑219, Milano, 2005, 265 ss.; La comunione legale tra coniugi, Milano, 2010, 3 ss., 225 ss., 408 ss., 518 ss., 651 ss., 711 ss., 929 ss., 1393 ss. e 1605 ss. 13 Ricordiamo l’accordo tra Aristotele Onassis e Jacqueline Lee Bouvier Kennedy, antesignani delle nozze personalizzate. L’avvocato André Meyer, incaricato della stesura dei prenuptial agreement, svolse il suo lavoro dal 1967 al 1968, in poche parole impiegò un anno per redigere le 22 pagine e le 170 clausole in cui vennero stabiliti l’appannaggio annuale, la liquidazione in caso di rottura, il testamento, le modalità del regime di non convivenza e persino la frequenza degli incontri sessuali. Riportiamo alcune opinioni dottrinarie più recenti, Cfr., F. Cerri, Gli accordi prematrimoniali, Milano, 2011, 81 ss. con bibliografia; E. Al Mureden, “Nuove prospettive di tutela del coniuge debole”. Funzione perequativa dell’assegno divorzile e famiglia destrutturata, Milano, 2007, pas‑ sim; dello stesso Autore, Le rinunce nell’interesse della famiglia e la tutela del coniuge debole tra legge e autonomia privata, in Familia, 2002, 4, 991 ss., in particolare 1003 ss.; dello stesso Autore, I prenuptial agreements negli Stati Uniti e nella prospettiva del diritto italiano, in Famiglia e diritto, 2005, 543 ss.; F. Angeloni, La cassazione attenua il proprio orientamento negativo nei confronti degli accordi preventivi di divorzio: distinguishing o prospective over‑ ruling?, in Contratto e impresa, 2000, 1136 ss.;· T. Auletta, Gli accordi sulla crisi coniugale, in Familia, 2003, 1, 45 ss.; ·C. M. Bianca, Diritto civile, 3, Il contratto, Milano 2000; dello stesso Autore, Diritto civile, 2, La famiglia e le successioni, Milano, 2005, passim; V. Di Gregorio, Programmazione dei rapporti familiari e libertà di contrarre, Milano, 2003; M. Guarini, La Cas‑ sazione conferma la nullità dei “patti” anteriori al divorzio, nota Cass. 14 giugno 2000 n. 8109, in Giustizia civile, 2001, 51, 457 ss.; C. Murgo, L’autonomia negoziale nella crisi della famiglia, Milano, 2006, passim; G. Oberto, I contratti della crisi coniugale, Milano, 1999; dello stesso Autore, “Prenuptial agreements in contemplation of divorce” e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi coniugale, in Rivista diritto civile, 1999, 2, 171 ss.; M.D. Panforti, Gli accordi paramatrimoniali fra autonomia dis‑ positiva e disuguaglianza sostanziale. Riflessioni sul Family Law Amendment Act australiano, in Familia, 2002, 1, 156 ss.; F. Patti, Accordi patrimoniali tra coniugi connessi alla crisi del matrimonio.Autonomia negoziale e ruolo del notaio, in Vita notarile, 3, 2004, 1381 ss.; D.G. Ruggero, Gli accordi premat‑ rimoniali, Napoli, 2005, passim; F. Ruscello, Accordi sulla crisi della famiglia e autonomia coniugale, Padova, 2006, passim. 14 È d’uopo avvertire che anche se presenti nei paesi di Common Law, le dette negoziazioni non ottengono, in tutte le realtà giuridiche (ad esempio, inglese, australiana o statunitense) ove sono contemplati, la stessa disciplina e configu‑ razione. Cfr. E. Al Mureden, Nuove prospettive di tutela del coniuge debole, Funzione perequativa dell’assegno divorzile e famiglia destrutturata, Milano, 2007, 181 ss., in particolare nntt. 41 ss. 15 Le costruzioni giuridiche della famiglia, nella civiltà europea, posseggono radici profonde nel diritto romano e nella sua esperienza odinamentale. C’è, comunque, da dire che quanto questo “lontano passato” sia tutt’ora attivo o potrebbe influenzare la visione e la disciplina della famiglia è ancora contro‑ verso. Da più parti si ipotizza che l’esperienza romana sia fuori tempo e non sia suscettibile di richiamo, poiché nutriamo aspettative della civiltà tecnologica lontane dalla visione della società agricolo‑pastorale romana. Il nodo è intri‑ cato e già da tempo la dottrina si è dedicata a dirimere simili controversie. In questa sede, poco opportuna per digressioni di tal genere, possiamo solo sof‑ civile Gazzetta 36 D i r i t t o e p r o c e d u r a generati dal vincolo matrimoniale16. Sappiamo, infatti, che negli ordinamenti quale quello degli Stati Uniti, che tra i primi, a partire dagli anni 70, ha accolto e riconosciuto valo‑ re giuridico ai prenuptial agreements, emerge un’impostazio‑ ne liberale dei rapporti di diritto privato, secondo cui anche quelli di natura familiare sono contrattualizzabili17; in Italia, invece, prevalendo una concezione pubblicistica del matrimo‑ nio e dei procedimenti di separazione e divorzio, è difficile ammettere l’ingresso di tali istituti18. Già l’etichetta apposta ad un atteggiamento negoziale siffatto (prenuptial agreements) si presta ad indicare quei patti stipulati da coppie, prima di contrarre matrimonio, fi‑ nalizzati a gestire vari aspetti, patrimoniali e non, dello stes‑ so nonché l’eventuale crisi coniugale19. Ad un attento esame non sfugge che la soluzione negozia‑ le dei problemi posti dalla crisi della coppia e, più in generale, dallo scioglimento del vincolo matrimoniale non costituisce una novità; è interessante ricordare come gli ordinamenti giuridici abbiano già avvertito questa necessità – in un passa‑ to talora anche assai remoto –, cercando di risolverla con escogitazioni dirette a definire contrattualmente le questioni economiche aperte a causa della fine del rapporto coniugale. fermarci su aspetti meno evidenziati, nel loro insieme e nei collegamenti reci‑ proci, i quali possano rivelare quali apporti alcune costruzioni del diritto ro‑ mano possano contribuire alla elaborazione di concetti e soluzioni per la famiglia moderna, conferendole profili di grande respiro ed attualità. La rifles‑ sione su queste realtà potrebbe evidenziare non solo l’attualità degli ereditati principii del diritto romano, ma anche quanto siano lontane dalle radici della nostra civiltà le pretese di potere fondare la famiglia partendo da visioni ed idee individualistiche ed egoistiche. Nello linguaggio giuridico il polisemico termine familia indicava realtà molteplici e meno univoche rispetto a quelle espresse oggi con ‘famiglia’. Su di esse le fonti giuridiche ed in particolare gli escerti dei Digesta giustinianei appaiono numerose e circostanziate (cfr., ad esempio, D. 50.16.195.1‑4, Ul 46 ad ed.) 16 Non a caso Cicerone (de off. 1.54: Nam cum sit hoc natura commune anim‑ antium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una domus, communia omnia; id autem est princi‑ pium urbis et quasi seminarium rei publicae.) afferma che era la famiglia il nodo di ogni organizzazione e dell’intera umanità. Vale la pena, velocemente, di riflettere sull’espressione quasi seminarium rei publicae ed occorre tener presente che il quasi latino non corrisponde al nostro ‘quasi’. Nel linguaggio giuridico romano, quasi realizzava l’introduzione di un discorso di tipo ana‑ logico e stava ad indicare che una situazione doveva essere considerata alla stessa maniera di un’altra. Cfr., Vaihinger, La filosofia del «come se», tr. it., Roma, 1967; Kerber, Die quasi‑Institute als Methode der Römischen Rechts‑ findung, 1970; Steinwenter, Prolegomena zu eine Geschichte der Analogie, II, Das Recht der kaiserlichen Konstitutionen, in Studi Arangio‑Ruiz 2, Na‑ poli, 1953, 170; Wesener, Zur Denkform der «quasi» in der römische Juris‑ prudenz, in Studi Donatuti, 3, Milano, 1973, 1387 ss.; Quadrato, Sulle tracce dell’annullabilità. Quasi nullus nella giurisprudenza romana, Napoli, 1983, 23 ss.; Tafaro, Famiglia e matrimonio: le radici romanistiche, in Rodzina i spolec‑ zenstwo. Wczoraj i Dzis, Bialystok, 2002, 20 ss., al quale si rinvia sia per la dottrina sia per la restante riflessione. 17 Jessep, Gli accordi prenuziali negli ordinamenti di common law, in www. corsodirittofamiglia.it/contributi.html, 2006, 3. 18 Cfr., Maietta, Gli accordi prematrimoniali e gli accordi di convivenza. Nel diritto italiano e negli altri ordinamenti, in Uniese, 12 gennaio 2010, disponi‑ bile on line http://www.uniese.it/pubblicazioni/gli‑accordi‑prematrimonia‑ li‑e‑gli‑accordi‑di‑convivenza‑nel‑diritto‑italiano‑e‑negli‑altri‑ordinamenti. html; in particolar modo per l’avvertita bibliografia oltre le questioni rilevanti trattate, cfr., Turchetti, I contratti prematrimoniali, in Santini (cur.), I con‑ flitti patrimoniali della separazione e del divorzio,questioni economiche e pat‑ rimoniali; Milano, 2012, 287 ss., in particolare per la normativa di riferimento 285; Oberto, Premessa, I patti prematrimoniali nel contesto della negozialità familiare, in Idem (cur.), Gli aspetti di separazione e divorzio nella famiglia, Profili Sostanziali, Processuali di Mediazione, di Previdenza, di Tutele con riferimento al coniuge Debole, e ai Minori, le Nuove Frontiere del Risarci‑ mento del Danno, Milano, 2012, 3 ss. 19 Basta inserire in qualsiasi motore di ricerca la locuzione prenuptial agreements oppure premarital agreement per vedersi comparire siti (in particolar modo americani) c i v i l e Gazzetta F O R E N S E Inoltre, siffatto regolamento negoziale di interessi veniva addirittura perfezionato preventivamente rispetto alla crisi coniugale e cioè al momento della conclusione degli accordi che accompagnavano la celebrazione delle nozze. Nell’ottica prospettata ed accettata nell’ambito del nostro lavoro, basterà ripercorrere brevemente le tappe di un simila‑ re percorso, già battuto da altra (e più antica) esperienza giuridica. Potremmo prendere in considerazione, ad esempio, l’attenzione ed il livello d’approfondimento con cui l’antica giurisprudenza romana, a noi forse più vicina, disciplinava le questioni patrimoniali endofamiliari, a partire dagli sponsa‑ lia, all’istituto dotale20, dai patti nuziali 21 stipulati anche ante nuptias22 , alle donazioni tra fidanzati23 o coniugi, dal divorzio, allo status dei figli, alle tutele ecc. 24. In poche parole, indos‑ seremo la veste di colui che vuole “vedere come è andata a finire, dal momento in cui il diritto romano, in formato giu‑ stinianeo, si è offerto generosamente al saccheggio da parte dei giuristi di tutta Europa”.25 La vivacità della casistica e delle soluzioni attestate dalle fonti antiche, in particolare, la previsione di forme di nego‑ ziazioni che consentivano di regolare ex ante questioni patri‑ moniali derivanti da un’eventuale crisi coniugale, consentono di comprendere la plasticità del fenomeno ed i suoi risvolti non solo in campo sociale, ma anche giuridico‑economico. Pre‑ ponderante è l’interesse dei giuristi verso l’istituto della dote26 (cfr., D. 23.3.3, Ulp. 63 ad ed.)27, cioè quel certo complesso di beni che, apportati dalla moglie (o dalla sua famiglia) al ma‑ 20 Cfr., ad esempio, Casola, Dote ed interesse pubblico, in Diritti@Storia, 6, 2007, Tradizione romana, on line http://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione‑romana/ Casola‑Dote‑interesse‑pubblico.htm. Nicotri, De dote quantitate, in Teoria e Storia del Diritto Privato, 4, 2011, 33 ss. con bibliografia. 21 Sembra interessante notare, per gli accordi postnuziali, che il diritto romano sembrava a tal punto vedere con favore una liquidazione globale delle pen‑ denze in fase di divorzio, tanto da rappresentare una espressa deroga al divieto di donazioni tra coniugi (cfr. D. 24.1.60.1: Divortii causa donationes inter virum et uxorem concessae sunt: saepe enim evenit, uti propter sacerdotium, vel etiam sterilitatem; ancora D. 24.1.11.10; D. 24. 1.26.1; D. 24.1.53). 22 Alcuni servivano poi a scandire il tempo della restituzione degli apporti, una volta sciolto il matrimonio, stabilendone anche le modalità. Ad esempio, in D. 23.4.17, Proculus 11 epist., si ipotizza la maturazione del diritto alla ripetizione di quanto dato solo decorso un certo tempo, a far data dal divorzio. Proprio in questo caso, il termine fissato dalle parti non poteva eccedere quello determinato dalla legge, ed in tale regola sembra emergere addirittura un principio di tutela della moglie, quasi come coniuge debole, ante litteram. Cfr., Giunti, Il modus divortii nella legislazione augustea, Aspetti problematici, ipotesi di lettura, in Studi in onore di Remo Martini, 2, Milano, 2010, 345 ss. Il favor verso nego‑ ziazioni concluse in vista dello scioglimento delle nozze, possiamo leggerlo negli accordi transattivi conclusi, D. 23.4.20 (Paul. 35 ad ed.). 23 Ferretti, Le donazioni tra fidanzati nel diritto romano, Milano, 2000, passim; dello stesso Autore, Doni fatti a causa della promessa di matrimonio. Prospet‑ tiva storico‑comparatistica, in Labeo, 45, 1999, 76 ss., ora in AA.VV., Con‑ tributi romanistici, Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche, 8, Trieste, 2003, 5 ss.; ancora, Donazioni e sponsali nella politica costantiniana, in Philia. Scritti per Gennaro Franciosi, 2, Napoli, 2007. 24 Si confrontino i libri del Digesto dal 23 al 27 ed il quinto libro del Codex Ius‑ tinianus. In relazione alle opinioni dottrinarie, si confronti Fayer, La familia romana, Aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia, matrimonio, dote, 2, Roma, 2005, 682 ss. nntt. 30 ss. 25 Manfredini, “Chi caccia e chi è cacciato…”. Cacciatore e preda nella storia del diritto, Ferrara, 2006, 6. 26 Fayer, La familia romana, Aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia, matrimo‑ nio, dote, cit., 376 ss., in particolare nntt. 161 ss., sulle tabulae nuptiales si legga nota 162 con fonti e bibliografia. Sulla causa dotis ed i negozi attuativi, cfr., Cannata, sv. Dote (diritto romano), in ED., 1965, 1 ss., Fayer, La fa‑ milia romana, Aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia, matrimonio, dote, cit., 675 ss. 27 Dotis appellatio non refertur ad ea matrimonia, quae consistere non possunt: neque enim dos sine matrimonio esse potest. Ubicumque igitur matrimonii nomen non est, nec dos est. F O R E N S E m a r z o • a p r i l e rito ad onera matrimonii ferenda, andavano da quest’ultimo (o dai suoi eredi) restituiti alla cessazione del rapporto28. Queste tendenze evolutive, inclini ad un rassicurante al‑ largamento della libertà negoziale circa gli assetti patrimo‑ niali familiari, acquistarono forza e conferma nei secoli suc‑ cessivi, pur in assenza dello strumento del divorzio, quale diretta conseguenza dell’affermazione del principio dell’indis‑ solubilità del matrimonio imposto dalla Chiesa cattolica. Neanche questo, comunque, sortì l’effetto di far evitare alle parti dei pacta nuptialia di premunirsi contro le conseguenze di una situazione di crisi coniugale che fosse dovuta eventual‑ mente sopravvenire29. Orbene, secondo una calzante definizione30, si tratta di un accordo con il quale si disciplinano ex ante gli effetti dello scioglimento del vincolo matrimoniale con particolare riguar‑ do all’assegno di mantenimento, all’assegnazione della casa familiare, all’affidamento dei figli, e in generale all’assetto patrimoniale dei coniugi. La giurisprudenza sul punto è pressoché univoca nel con‑ siderare nulli gli accordi prematrimoniali31, per le ragioni in seguito esaminate, mentre in dottrina si registrano posizioni diametralmente opposte: taluni autori, infatti, avallando l’orientamento giurisprudenziale tuttora prevalente, negano la cittadinanza di tali pattuizioni32 , mentre altri autori pro‑ 28 Fayer, La familia romana, Aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia, matrimo‑ nio, dote, cit., 81 ss., in particolare nota 98 con bibliografia. Alla restituzione della dote conseguente allo scioglimento del vincolo coniugale è dedicato il ti‑ tolo terzo del libro ventiquattresimo dei Digesta (Soluto matrimonio quemad‑ modum dos petatur). In questo, così come nel quarto dello stesso libro (De pactis dotalibus, anche, sullo stesso argomento, C. 5.18 e C. 5.14) emergono tracce di accordi stipulati al momento della costituzione della dote, disci‑ plinanti la tempostica e le modalità di restituzione della medesima nell’ipotesi di scioglimento dell’unione per morte o per divorzio. In questi casi, nelle fonti (D. 23.4.17, Proculus 11 epist, pactum conventum ante nuptias; inoltre D. 23.4.28, Paul. 5 quaest.; post nuptias) ritroviamo l’impiego di termini ed espres‑ sioni destinate a transitare quasi inalterate nei sistemi di common law, per designare, successivamente, proprio quegli accordi preventivi (o successivi) alle nozze riguardanti, tra l’altro, la regolamentazione ex ante dei rapporti econo‑ mici tra gli ex coniugi soluto matrimonio. 29 Si veda la giurisprudenza rotale sulla separatio tori, sulla dotis restitutio, così come le sentenze degli altri «Grandi Tribunali» italiani (dal Senato Piemontese, alla Rota Genovese ecc.) sulle doti, sui patti matrimoniali e così via. Proprio la disamina della messe di decisioni in tal senso prospetta i tratti di soluzioni moderne ed ardite (cfr., ad esempio, la decisione Bononien, restitutionis dotis, 16 maggio 1595, con la quale la Rota Romana accreditò la validità del patto nuziale per la restituzione della dote come una clausola penale per il caso di mancata solutio della somma periodica prevista a carico del marito a titolo di alimenta nell’ipotesi di un’eventuale separatio tori. 30 Cfr., Fusi, Accordi prematrimoniali, convivenza more uxorio e trust, in Trust opinioni a confronto, Atti dei congressi dell’associazione italiana, Il trust in Italia, Roma 21‑23 ottobre 2005, I trust per la famiglia, Firenze 15 gennaio 2005, 2006, 556 ss. 31 Cass., 11 giugno 1981, n. 3777, in Foro it., 1981, I, c. 184; in Giur it., 1981, I, 1, c. 1553 con nota di Trabucchi; in Dir. fam. pers., 1981, 1025; in Giust. civ., 1982, I, 724; Cass., 20 maggio 1985, n. 3080, in Giur. it., 1985, I, 1, c. 1456, con nota di Di Loreto; in Dir. fam. pers., 1985, 876; in Foro it., 1986, I, 747, con nota di Quadri; in Giust. civ., 1986, I, 188; Cass., 11 dicembre 1990, n. 11788, in Arch. civ., 1991, 417; in Giur. it., 1991, I, 1, c. 156; in Giur. it., 1992, I, 1, c. 156, con nota di Cecconi; Cass., 2 luglio 1990, n. 6773; Cass., 1 marzo 1991, n. 2180; Cfr. Cass., 11 agosto 1992, n. 9494, in Giur. it., 1993, I, 1, c. 1495, con nota di De Mare; Cass., 28 ottobre 1994, n. 8912, in Rivista Famiglia e Diritto, 1995, 14 con nota di Uda; Cass., 7 settembre 1995, n. 9416, in Dir. fam. pers., 1996, 931; Cass., 20 dicembre 1995, n. 13017, in Giust. civ., 1996, I, 1694; Cass., 20 febbraio 1996, n. 1315; Cass., 11 giugno 1997, n. 5244, in Giur. it., 1998, 218, con nota di Ermini; in Vita not., 1997, 848; Cass., 20 marzo 1998, n. 2955, in Corr. giur., 1998, 513. Cass., 18 feb‑ braio 2000, n. 1810 in Corriere giuridico, 2000, 8021; Cass., 9 maggio 2000, n. 5866; Cass., 12 febbraio 2003, n. 2076, in Dir. Fam., 2003, 344. 32 Negano l’ammissibilità degli accordi in previsione di un futuro divorzio Bianca, Diritto civile, 2, La famiglia. Le successioni, Milano, 20054, 230; Ga- 2 0 1 3 37 pendono per una maggiore apertura verso le esperienze dei paesi di common law, ove gli accordi prematrimoniali costi‑ tuiscono una realtà ormai consolidata. 33 4. Le ragioni della nullità: la lesione della libertà dei coniugi. Il primo argomento addotto a sostegno della tesi negativa attiene alla possibile influenza che siffatti accordi potrebbero spiegare sulle determinazioni dei coniugi inerenti al proprio status: il coniuge, infatti, conoscendo le condizioni contrat‑ tuali testualmente previste in sede di accordo prematrimonia‑ le, potrebbe essere indotto a non chiedere una pronuncia di divorzio se non avesse la possibilità di ottemperare gli obblighi ivi convenuti34. Tale motivazione emerge costantemente nelle pronunce giurisprudenziali, come ad esempio può leggersi in una recen‑ te sentenza del Tribunale di Varese che, richiesto di pronun‑ ciarsi sulla validità di una transazione dirimente ogni questio‑ ne economica passata e futura tra i coniugi, ne nega l’ammis‑ sibilità asserendo che “si tratta di “illiceità della causa” in quanto accordi del genere hanno ad oggetto non tanto meri aspetti patrimoniali, conseguenti ad un determinato status «di coniuge divorziato», ma lo stesso status di «coniuge» con «lo scopo o, quanto meno, l’effetto di condizionare il compor‑ tamento delle parti nel futuro giudizio di divorzio… viziando, o quanto meno limitando la libertà di difendersi nel giudizio di divorzio, con irreparabile compromissione di un obiettivo di ordine pubblico”35. Come può osservarsi, il timore avvertito dalle nostre cor‑ ti concerne l’interferenza tra due piani insuscettibili di inter‑ secarsi, quali quello delle relazioni personali e sessuali e quello economico; in particolare, il pericolo di condiziona‑ mento sussiste quando un comportamento personale (il divor‑ zio) viene elevato a rango di causa, di titolo delle attribuzioni traslative. Ma in tempi recentissimi quest’argomento è stato sottoposto a revisione critica in una pronuncia di merito36 che brielli, Indisponibilità preventiva degli effetti patrimoniali del divorzio: in difesa dell’orientamento adottato dalla giurisprudenza, in Rivista di diritto civile, 1996, 695 ss.; Ieva, Trasferimenti mobiliari ed immobiliari in sede di separazione e divorzio, in Rivista notarile, 1995, 465. 33 Per la tesi positiva: Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Rivista Famiglia e Diritto, 2012, 1, 69 ss.; Idem, “Pre‑ nuptial agreements in contemplation of divorce” e disponibilità in via preven‑ tiva dei diritti connessi alla crisi coniugale, in Rivista di diritto civile, 1999, 2, 171 ss.; dello stesso Autore, Contratto e famiglia, in Roppo (cur.), Trattato del contratto, 6, Interferenze, Milano, 2006, 253 ss.; Idem, Gli accordi preven‑ tivi sulla crisi coniugale, in Familia, 2008, 25 ss. V. inoltre Giaimo, I contratti paramatrimoniali in Common Law, Palermo, 1997, 31 ss.; Comporti, Auto‑ nomia privata e convenzioni preventive di separazione, divorzio, di annulla‑ mento del matrimonio, in Foro italiano, 5, 1995, c. 111 s. c. Per una maggiore bibliografia vedi Bonilini, Tommaseo, Lo scioglimento del matrimonio, Milano, 2010, 725. 34 Cass., 11 giugno 1981, n. 3777, cit., sostiene che l’accordo avrebbe l’effetto di condizionare il comportamento processuale inducendo “a seconda dei casi il contraente più debole a non difendersi nel giudizio di divorzio pur di percepire al più presto un vantaggio economico […] oppure il contraente effettivamente più motivato […] a subire anche odiosi riscatti concedendo sul piano eco‑ nomico molto più del giusto. Cass., 20 maggio 1985, n. 3080, cit., secondo cui “gli accordi preventivi tra i coniugi sul regime economico del divorzio prima che esso sia pronunciato hanno sempre lo scopo o, quanto meno, l’effetto di condizionare il comportamento delle parti nel giudizio concernente uno status, limitandone la libertà di difesa. 35 Tribunale Varese 29 marzo 2010 36 Tribunale Torino, sez. VII, ord. 20 aprile 2012, in Famiglia e diritto 8‑9/2012, con nota di Oberto, secondo il quale “Sembra, anzi, che il nostro ordinamen‑ to, per così dire, solleciti il soggetto, all’atto del matrimonio, a “costruire” le proprie prospettive matrimoniali attraverso la stipulazione delle convenzioni civile Gazzetta 38 D i r i t t o e p r o c e d u r a ha ammesso la validità di un accordo concluso sui profili patrimoniali tra i coniugi in sede di separazione legale ed in vista del divorzio in quanto non contrastante né con l’ordine pubblico, né con l’art. 160 c.c. Il Giudice torinese, infatti, ribadendo un concetto già avanzato in dottrina37 ha sottolineato la distinzione tra obbli‑ go a tenere un determinato comportamento e determinazione convenzionale delle conseguenze patrimoniali di un evento, il divorzio, che si pone quale condizione38. A sostegno della sopradetta argomentazione viene richia‑ mato nella motivazione della sentenza l’istituto della donazio‑ ne obnuziale, di cui all’art. 785 c.c. quale negozio giuridico unilaterale nel quale l’attribuzione traslativa è subordinata alla condizione sospensiva della celebrazione del matrimonio, l’evento (forse) più rilevante per quanto attiene alla sfera per‑ sonale ed affettiva. 5. Il contrasto con l’art. 160 c.c. La norma di cui all’art. 160 c.c. nello statuire che “gli spo‑ si non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio” inibisce espressamente ai coniugi di stipulare ogni patto che disciplini in modo difforme al dettato legislativo i doveri che informano la vita coniugale regolati agli articoli 143, 147 e 148 c.c.39. Sulla base di tale premessa si è aperto un dibattito giuri‑ sprudenziale concernente l’estensione del disposto della norma in commento alla fase terminale del rapporto coniugale e, se‑ gnatamente, alla possibilità di convenire l’an e il quantum dell’assegno di divorzio. Sul punto è possibile isolare quattro diversi orientamenti che si snodano da una decisa incompati‑ bilità degli accordi de quibus con l’assegno divorzile fino ad arrivare ad ammetterne finanche una rinunziabilità preventi‑ va. Secondo la tesi che ha avuto nel corso dell’ultimo trentennio maggior seguito in giurisprudenza, un accordo tra i coniugi volto a determinare preventivamente le conseguenze economi‑ che della rottura dell’unione coniugale si pone in netto contra‑ sto con l’indisponibilità dei diritti che sorgono con la pronuncia di divorzio40 . Questa tesi si fonda sull’analisi dei diritti sui quali potrebbe focalizzarsi l’attenzione dei coniugi al momento di redazione del patto, quali l’assegno di mantenimento e l’assegnazione della casa adibita a residenza coniugale. Orbene, secondo tale orientamento, dalla lettura dell’art. 5 comma 6 legge dicembre 1970 n. 898, come sostituito dall’art. 8, (pre)matrimoniali più idonee alla tutela dei suoi interessi in relazione alle cir‑ costanze e alle esigenze di vita, stabilendo espressamente che le convenzioni matrimoniali possano essere stipulate in ogni tempo”. 37 Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit. 83. 38 Tribunale Torino, sez. VII, ord. 20 aprile 2012, cit., in cui è detto: “fermo re‑ stando che altro è porre a base del sinallagma negoziale l’impegno sullo status (mi obbligo a divorziare/ a non divorziare), e ben altro è prestabilire le mere conseguenze economiche dell’eventuale mutamento di status”. 39 Cian, Trabucchi, Commentario al codice civile, 2011, sub art. 160 c.c. al quale si rimanda per l’ulteriore bibliografia ove a titolo esemplificativo si ritiene nullo un patto che esoneri totalmente un coniuge dal contributo che sia in grado di fornire ai bisogni della famiglia. 40 Cassazione civile 18 febbraio 2000 n. 1810, cit.,; Cassazione civile 9 maggio 2000, n. 5866 cit.; Cassazione civile 12 febbraio 2003, n. 2076 cit.; Cassazione civile, sez. I, 10 agosto 2007, n. 17634; Cassazione civile, sez.I, 25 gennaio 2012, n. 1084. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E L. 6 marzo 1987, n. 7441, emerge una preponderante funzione assistenziale dell’assegno divorzio che si fonda sulla solidarietà tra i coniugi che permane anche a seguito della cessazione degli effetti civili del matrimonio42 . Anche per l’assegnazione della casa adibita a residenza fa‑ miliare eventuali accordi preventivi sarebbero ontologicamente incompatibili con una pronuncia dell’autorità giudiziaria con‑ dotta sulla scorta di una valutazione dell’interesse dei figli mi‑ nori a non vedersi allontanare dal luogo nel quale hanno vissu‑ to come “famiglia” 43 . Ciò posto, se questi sono i principi cardine che informano la materia, si segnalano talune sentenza di legittimità che di‑ stinguono una negoziazione del contenuto degli obblighi di mantenimento, tacciata di nullità, dalla possibilità di qualifi‑ care un’attribuzione traslativa quale corresponsione una tantum dell’assegno, senza però privare il coniuge economicamente più debole di ottenere una revisione della misura dell’assegno 44 . Altra giurisprudenza recente,invece, pur continuando ad asserire la nullità degli accordi in vista del divorzio, ha mutato i termini del discorso e, segnatamente, la natura dell’interesse tutelato. Non di tratterebbe, infatti, della violazione di una norma di ordine pubblico, quale l’art. 160 c.c., ma della lesione di un interesse privato consistente nell’esigenza di tutela del coniuge economicamente più debole45. 41 La norma dispone che “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valu‑ tati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, di‑ spone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”. 42 Fusi, Accordi prematrimoniali, convivenza more uxorio e trust, cit,, 556. Vedi, in giurisprudenza, Cassazione I sez civile 4 novembre 2010, n. 22505, ove si legge: “sarebbe stata preclusa dalla nullità per illiceità della causa di un tale tipo di abdicazione, interferente sul diritto indisponibile all’assegno di divorzio, di carattere assistenziale, ed inerente a materia nella quale le decisioni del giu‑ dice, collegate anche ad interessi di ordine generale, sono svincolate dal potere dispositivo dei contendenti. 43 Fusi, Accordi prematrimoniali, convivenza more uxorio e trust, cit,, 558 ss. 44 Cassazione, I sez. civile, 9 ottobre 2003, n. 15064, secondo cui “Ogni patto stipulato in epoca antecedente al divorzio volto a predeterminare il contenuto dei rapporti patrimoniali del divorzio stesso deve ritenersi nullo; è consentito, invece, che le parti, in sede di divorzio, dichiarino espressamente che, in virtù di una pregressa operazione (ad es. trasferimento immobiliare) tra di esse, l’assegno di divorzio sia già stato corrisposto una tantum, con conseguente richiesta al giudice di stabilire conformemente l’assegno medesimo, ma in as‑ senza di tale inequivoca richiesta è inibito al giudice di determinare l’assegno riconoscendone l’avvenuta corresponsione in unica soluzione. Del tutto diversa è l’ipotesi in cui le parti abbiano già regolato i propri rapporti patrimoniali e nessuna delle due richieda un assegno (tale regolamento, infatti, non neces‑ sariamente comporta la corresponsione di un assegno una tantum, potendo le parti avere regolato diversamente i propri rapporti patrimoniali e riconosciuto, sulla base di ciò, la sussistenza di una situazione di equilibrio tra le rispettive condizioni economiche con conseguente non necessità della corresponsione di alcun assegno), nel qual caso l’accordo è valido per l’attualità, ma non esclude che successivi mutamenti della situazione patrimoniale di una delle due parti possa giustificare la richiesta di corresponsione di un assegno a carico dell’altra (nella fattispecie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale, escluso che i coniugi avessero dichiarato l’avvenuta corresponsione una tantum dell’assegno di divorzio in virtù di una precedente operazione di trasferimento immobiliare, aveva proceduto alla determinazione dell’assegno medesimo su richiesta di modifica delle condizioni di cui alla sentenza di divorzio presentata da uno degli ex coniugi)”. Vedi anche Cassazione, I sez. civile, 10 agosto 2007, n.17634 45 Cassazione civile, sez. I, 10 marzo 2006, ove si legge che “deve rilevarsi che ciò che entra in giuoco con riguardo alla problematica sollevata dalla questione all’odierno esame, non è propriamente il carattere indisponibile in sè dei diritti patrimoniali dei coniugi, ma, piuttosto, la esigenza di tutela del coniuge econo‑ F O R E N S E m a r z o • a p r i l e Logico corollario di tale impostazione è che l’invalidazione di siffatta contrattazione può essere ottenuta solo su domanda della parte nel cui interesse è disposto il precetto normativo, dando così luogo alla cosiddetta “nullità relativa” (Cassazione civile 15349/2000)46 . Secondo l’orientamento possibilista, la norma in commento non è afferente alla fase patologica del rapporto coniugale ma a quella dell’ordinario svolgimento della vita coniugale47, tenu‑ to conto di significativi indici sistematici e letterali. L’art. 160 c.c. è collocato, infatti, all’interno del Capo VI del Titolo VI del Libro I del codice civile, dedicato al regime patrimoniale della famiglia, con un esplicito riferimento alla fase fisiologica dell’unione coniugale, e, per di più, indica qua‑ li soggetti della convenzione gli sposi, cioè coloro i quali danno una coloritura ai propri doveri prima di iniziare una vita di coppia. E ancora si afferma che se all’esito della pronuncia di divor‑ zio vengono meno tutti i diritti e doveri nascenti dal matrimo‑ nio, non potrebbe sopravvivere il dovere di contribuzione che si fonda su un principio di solidarietà tra i coniugi conseguente all’affectio che li lega.48 6. La soluzione offerta la sentenza in commento: continuità o rottura? Al termine di questa breve analisi del panorama giuri‑ sprudenziale italiano in materia di accordi prematrimoniali è opportuno domandarsi se la sentenza numero 23713 del 21 dicembre 2012 si pone in una posizione di continuità o di rottura con il prevalente orientamento, volto, come si è visto, a stigmatizzare pattuizioni in vista del divorzio. Dalla lettura della motivazione emerge che la Corte di legittimità abbia confermato la nullità degli accordi prema‑ trimoniali per illiceità della causa, ma abbia anche delimitato un perimetro all’interno del quale le attribuzioni patrimonia‑ li tra coniugi “in vista del divorzio” possano essere sorrette da una valida giustificazione causale. I tre elementi che inducono nello scrivente tale considera‑ zione sono la natura giuridica del trasferimento, la sua colo‑ ritura causale e la diversa considerazione che assume il divor‑ zio nell’ambito della pattuizione. 7. La natura di contratto e non di accordo. È di grande impatto la circostanza che nella sentenza in commento si nega in maniera decisa l’ammissibilità degli ac‑ micamente più debole, l’attribuzione al quale dell’assegno divorzile potrebbe essere messa in discussione dagli accordi di cui si tratta”. 46 Barbalucca, Gallucci, L’autonomia negoziale dei coniugi nella crisi matri‑ moniale, Milano, 2012, 28. 47 Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., 86; Idem, Accordi preventivi di divorzio: la prima picconata è del Tribu‑ nale di Torino, nota a Ord. 20 aprile 2012, Tribunale Torino, cit. 48 Tribunale Torino, sez. VII, ord. 20 aprile 2012, cit., ove è detto:”come è noto a seguito della separazione, nella fase c.d. “patologica” del rapporto coniugale, cessano la maggior parte dei diritti doveri discendenti dal matrimonio (come il dovere di fedeltà, di coabitazione…) onde non si ravvisano ragioni per ritenere che, al contrario, il diritto‑dovere di contribuzione al mantenimento debba invece, necessariamente, permanere intatto e nulla, in relazione ad esso, possa essere convenuto tra le parti. Inoltre, con riferimento all’ipotesi di assegno ex art. 5, l. div., affermare la vigenza dell’art. 160 c.c. presupporrebbe l’estensione analogica della suddetta norma al divorzio, così postulando una “similitudine di casi” (v. art. 12 cpv. prel.) tra la materia degli effetti del matrimonio e quella, opposta, degli effetti del suo venir meno. 2 0 1 3 39 cordi assunti prima del matrimonio o magari in sede di sepa‑ razione consensuale, ma si prevede la liceità di un contratto atipico con il contenuto in seguito esaminato. È nota, infatti, la distinzione tra contratto, accordo e convenzione, che si incentra sulla patrimonialità o meno delle prestazioni49, con la conseguenza che giammai potranno essere costituire oggetto della pattuizione de qua regole in merito all’affidamento dei figli, o norme di comportamento da osservare all’esito della pronuncia di divorzio. 8. La coloritura causale delle attribuzioni. Per comprendere la reale portata della pronuncia in esame non si può non ricordare la questione che ha dato adito alla controversia tra i coniugi e, cioè, che a fronte dell’esborso economico effettuato da uno solo di essi per ristrutturare la casa adibita a residenza familiare, l’altro coniuge aveva assun‑ to l’impegno di trasferirgli un bene immobile, quale presta‑ zione in luogo dell’adempimento dell’obbligazione pecuniaria su di esso gravante, il tutto in caso di divorzio. Il fatto concreto aiuta a comprendere come nell’ipotesi de qua non sorgano quelle istanze analizzate in precedenza in merito al pericolo di lesione del diritto di difesa del coniuge più debole o dell’intangibilità dell’assegno divorzile con con‑ seguente mercificazione dello status coniugale. Le parti, infatti, come affermato chiaramente nella pro‑ nuncia, per regolare una pregressa situazione debitoria ante‑ riore alla domanda di divorzio, stipulano una datio in solu‑ tum, ai sensi dell’art. 1197 c.c. 50, come del resto dimostrato dalla proporzionalità tra le due prestazioni. È proprio siffatta proporzionalità che deve aiutare l’ope‑ ratore pratico nel discernere pattuizioni valide in quanto ri‑ entranti nel perimetro operativo delimitato dalla pronuncia da quelle che potrebbero rappresentare manovre elusive volte a celare diversi intenti delle parti. Ad ogni modo il riferimento espresso al negozio di datio in solutum va salutato con favore in quanto, nella sua incisi‑ vità, evita di creare negli operatori imbarazzo nell’interpreta‑ re le parole della Corte. Si osserva, infatti, che già nel 2000 la Corte si era espressa, in maniera più sibillina, sulla possi‑ bilità di contratti in vista del divorzio con i quali regolare rapporti pregressi tra i coniugi, dando però adito a diverse posizioni in dottrina in merito alla sua portata51. 49 Sulla nozione di convenzione quale negozio giuridico che, pur avendo la strut‑ tura del contratto ha ad oggetto rapporti non patrimoniali, Diener, Il contrat‑ to in generale, manuale e applicazioni pratiche delle lezioni di Guido Capozzi, Milano, 2002, 28; Messineo, Dottrina generale del contratto, Milano, 1948, 30; per la non riconducibilità alle convenzioni è possibili avvalersi delle acqui‑ sizioni dottrinarie e giurisprudenziali che negano la natura di convenzione agli accordi assunti in sede di separazione, in particolare: Oberto, accordi preven‑ tivi di divorzio: la prima picconata è del Tribunale di Torino, cit. 807 ove si legge: “le convenzioni matrimoniali, le quali postulano “il normale svolgimen‑ to della convivenza coniugale” hanno riferimento ad una generalità di beni anche di futura acquisizione e non l’esigenza di assetto dei rapporti personali e patrimoniali dei coniugi separati”; cfr. Cass., 11 maggio 1984, n. 2887; Cass., 11 novembre 1992, n. 12110; Cass., 12 settembre 1997, n. 9034; per la giuri‑ sprudenza di merito v. App. Bologna, 29 gennaio 1980, in C.E.D. – Corte di cassazione, Arch. Merito, pd. 820052; 50 Norma secondo la quale “il debitore non può liberarsi eseguendo una presta‑ zione diversa da quella dovuta, anche se di valore uguale o maggiore, salvo che il creditore consenta. In questo caso l’obbligazione si estingue quando la diver‑ sa prestazione è eseguita”. 51 Cass., 14 giugno 2000, n. 8109, in Dir. fam., 2000, 429; in Corr. giur., 2000, 1021, con nota di Balestra; in Riv. notar., 2000, II, 1221, con nota di Zanni, civile Gazzetta 40 D i r i t t o e p r o c e d u r a Secondo una prima opzione ermeneutica, infatti, l’inter‑ vento avrebbe testimoniato questi accordi tra i coniugi pre‑ ventivi rispetto al divorzio ma volti a definire pendenze pre‑ gresse, fossero validi52; secondo, invece, la prospettiva di di‑ versi autori quella pronuncia non aveva costituito un’inversio‑ ne di rotta della giurisprudenza, posto che in realtà, l’emolu‑ mento periodico corrisposto da uno dei coniugi transattiva operava come indice per quantificare l’assegno e valutare la posizione dei coniugi53. Il merito ascrivibile alla pronuncia in esame è quello, quindi, di individuare la figura giuridica alla quale l’operato‑ re pratico può rivolgersi senza timore e, cioè, come detto, la datio in solutum. 9. Il divorzio non come causa, ma come condizione Elemento chiave nel ragionamento della Corte di Cassa‑ zione è configurare il divorzio non già come titolo dell’attri‑ buzione traslativa ma come sua condizione sospensiva. In altre parole, il divorzio non penetra nello schema cau‑ sale elevandosi a rango di elemento essenziale, ma si pone come evento estrinseco, accidentale alla vicenda negoziale54. In tale prospettiva si osserva come la sentenza in esame si pone in una posizione di continuità con il recente provvedi‑ mento del Tribunale di Torino, ove il giudice merito aveva qualificato la rottura del rapporto coniugale alla stregua di una condizione sospensiva, ammessa espressamente dal Legi‑ slatore in rapporto alle donazioni sottoposte a condizione sospensiva della celebrazione delle nozze55. Una prima obiezione mossa alla soluzione offerta potreb‑ be fondarsi si un’asserita presenza di una condizione mera‑ mente potestativa, vietata dall’art. 1355 c.c., in quanto sareb‑ be rimessa alla volontà del coniuge la possibilità di determi‑ nare il suo operare proponendo domanda di divorzio56. Un attento esame della fattispecie posta al vaglio del giu‑ dizio della Corte denuncia, però, la mancanza di questo ele‑ mento proprio perché, come si legge nella pronuncia, il divor‑ zio è considerato come un fattore oggettivo, a prescindere dalla responsabilità o meno di uno dei coniugi nella frattura del rapporto coniugale. Trent’anni di giurisprudenza in tema di autonomia negoziale e assegno divor‑ zile; in Giust. civ., 2000, I, 2217, con Osservazioni di Giacalone; in Giur. it., 2000, 2249, con nota di Barbiera, Un incerto revirement della Cassazione in favore della validità degli accordi sui rapporti patrimoniali fra i coniugi da valere anche dopo il divorzio; in Nuova giur. civ. comm., 2000, 1, 704, con nota di Bargelli; in Foro it., 2001, 1, c. 1318, con note di Russo, Il divorzio “all’americana”; ovvero l’autonomia privata nel rapporto patrimoinale e di Ceccherini, I contratti tra i coniugi in vista del divorzio: regole operative e limiti di liceità; in Giust. civ., 2001, I, 457, con nota di Guarini, La Cassazio‑ ne conferma la “nullità”dei patti anteriori al divorzio; in Familia, 2001, 243, con nota di Ferrando, Crisi coniugale e accordi intesi a definirne gli aspetti economici. 52 Bonilini, Tommaseo, Lo scioglimento del matrimonio, cit. 723. 53 Brignone, Tardia, Gratuità e accordi patrimoniali tra i coniugi, in Palazzo, Mazzarese, I contratti gratuiti, Milano, 2008, 553. 54 In ambito successorio la dottrina e la giurisprudenza hanno ritenuto che la donazione cum moriar e si premoriar siano valide in quanto la morte si eleva a rango di condizione sospensiva e non di elemento essenziale, Capozzi, Auciello, Successioni e donazioni casistica, Milano, 2004, 10‑12; Torrente, La donazione, in Tratt. dir. civ. e comm., diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1956, 314; Cass. 16 giugno 1966, n. 1547; Cass. 9 luglio 1976, n. 2619; Cass. 11 novembre 1988, n. 6083. 55 Oberto, Accordi preventivi di divorzio: la prima picconata è del Tribunale di Torino, nota a ord. 20 aprile 2012 Tribunale Torino, cit. 56 Giacobbe, Le persone e la famiglia, 2, Il matrimonio, Milano, 2012. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E La seconda critica che potrebbe muoversi al ragionamen‑ to seguito nella sentenza in commento, è la possibile coarta‑ zione del coniuge debole nella stipulazione del contratto di datio in solutum. Anche questa seconda obiezione può essere superata se si analizza il percorso logico seguito dalla pronuncia de qua. Una volta che viene contratto il matrimonio tra i coniugi sorge, reciprocamente, un dovere di solidarietà inderogabile ed irrinunciabile, come si desume dal combinato disposto degli articoli 143 c.c. e 160 c.c.; di conseguenza, tutte le spe‑ se che vengono compiute da uno dei coniugi per provvedere ai bisogni della famiglia, come, ad esempio, quelle per la ri‑ strutturazione dell’immobile adibito a residenza familiare, sono realizzate nell’interesse della famiglia. Il corollario di quest’affermazione è che nel corso dello svolgimento della vita matrimoniale i rapporti di dare e avere tra coniugi versano in una fase di quiescenza, proprio perché si tratta di sacrifici che ciascuno sopporta per il fabbisogno della famiglia. Quando, però, si assiste alla disgregazione di quel nucleo familiare questo dovere di solidarietà viene meno irrimedia‑ bilmente per cui, fermo restando il dovere di assistenza del coniuge economicamente debole, non c’è più un vincolo di solidarietà che avvince i coniugi57. Conclusioni Dall’esame delle diverse pronunce giurisprudenziali che si sono susseguite negli ultimi trent’anni emerge un costante e progressivo mutamento di vedute delle nostre Corti in relazio‑ ne al concetto di “solidarietà” tra i coniugi quale emerge dall’art. 143 comma 3 c.c. Nelle prime sentenze risalenti agli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della Riforma del diritto di fa‑ miglia, il vincolo di solidarietà tra i coniugi ha avuto un rilievo così pregnante da permanere anche nella fase patologica del rapporto. In altre parole, quando uno dei coniugi, per contribuire ai bisogni della famiglia, corrispondeva l’intera somma per i la‑ vori di ristrutturazione dell’abitazione adibita a residenza fa‑ miliare, nessun credito avrebbe mai maturare verso l’altro co‑ niuge: si trattava, infatti, di un sacrificio compiuto per realiz‑ zare un interesse superiore, un sacrificio che restava tale anche se fosse venuta meno una comune residenza. Questa assolutezza del vincolo si è andata attenuando fino a giungere alla sentenza in esame che ha recepito gli avvenuti mutamenti del costume sociale e delle relazioni personali degli ultimi anni. Dalle motivazioni della corte emerge, infatti, una maggiore evidenziazione dei contributi del singolo nell’ambito della coppia, dell’importanza di un apporto che non perde ir‑ reversibilmente il legame con il suo autore, ma anche, anzi, è a lui riconducibile. Quando il coniuge, allora, paga l’intero importo dei lavori di ristrutturazione dell’abitazione ove si svolgerà la vita fami‑ liare, esso, in quanto soggetto giuridico, vanta un credito nei 57 Bonilini, Tommaseo, Lo scioglimento del matrimonio, cit. 723 e secondo la riflessione contenuta nello scritto, “tale ripologia di intese realizza, a ben vedere, quella compensazione convenzionale dei sacrifici affrontati nell’interesse della famiglia”. F O R E N S E m a r z o • a p r i l e confronti dell’altro coniuge, perché è un esborso che ha realiz‑ zato con propri mezzi. Questo credito, come è scritto nella sentenza, subisce una sorta di quiescenza, una “sospensione”, durante il matrimonio proprio perché ogni singolo ha il dovere di contribuire per il mantenimento della famiglia e ogni suo sacrificio si presume sorretto dalla volontà di garantire una serena prosecuzione della vita familiare. Quando, però, si ha quello che viene definito dalla Corte il “fallimento” del matrimonio, l’agire dei coniugi non è più orientato dai doveri di cui agli artt. 143 e ss cc. e tornano at‑ tuali quegli originari rapporti di credito‑debito. Ciò posto, il compito dell’operatore pratico è consentire l’emersione e la definizione di questi rapporti in un momento anteriore alla crisi coniugale che, per l’elevato tasso di conflit‑ tualità che la connota, renderebbe difficile trovare un accordo. In altre parole, all’esito di un divorzio, mai un coniuge ricono‑ scerebbe che i lavori di ristrutturazione sono stati pagati inte‑ ramente dall’altro obbligandosi alla restituzione della som‑ ma. 2 0 1 3 41 Per tale motivo, è opportuno operare prima della crisi, ed anzi, ancor prima della celebrazione delle nozze e del sorgere del vincolo di solidarietà, consentendo l’emersione dell’indivi‑ dualità dell’apporto con un negozio di riconoscimento di debi‑ to. In tale negozio il nubendo riconosce che un esborso è stato effettuato interamente dall’altro per assolvere ai doveri contri‑ butivi discendenti dal matrimonio e si obbliga così alla restitu‑ zione della somma quando, col divorzio, verrà meno quella quiescenza dei rapporti creditori. Ma c’è di più. In tale contratto è possibile, alla luce della pronuncia in esame, definire in anteparte le modalità di adem‑ pimento dell’obbligazione, convenendo anche, a titolo di datio in solutum, il trasferimento di un immobile da parte del futuro sposo debitore, sotto condizione sospensiva dell’avvenuto di‑ vorzio. La condizione de qua è di imprescindibile apposizione perché armonizza un sistema nel quale esiste un rapporto giu‑ ridico ma ad esso non può essere data immediata attuazione. civile Gazzetta 42 D i r i t t o ● Rassegna di legittimità ● A cura di Corrado d’Ambrosio Magistrato presso il Tribunale di Napoli e p r o c e d u r a c i v i l e Gazzetta F O R E N S E Fallimento e procedure concorsuali – Amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi – Decreto di inammissibilità della domanda di dichiarazione dello stato di insolvenza – Reclamo alla corte d’appello – Ammissibilità – Requisito dimensionale – Accertamento in ordine alla singola impresa pur inserita in un “gruppo” – Necessità Intervenendo in tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, la Suprema Corte ha sancito la reclamabilità alla Corte di Appello del decreto con cui sia ri‑ tenuta inammissibile, per difetto dei requisiti indicati dall’art. 2, lettere a) e b), del d. lgs. 8 luglio 1999, n. 270, la domanda di dichiarazione dello stato di insolvenza senza la contestuale dichiarazione di fallimento della stessa impresa, riconoscendo la legittimazione a proporlo a quest’ultima, e precisando, al‑ tresì, che il requisito dimensionale indicato nell’art. 2, lettera a), del citato decreto va accertato con riferimento alla singola impresa richiedente e non con riguardo al gruppo del quale essa eventualmente faccia parte, escludendosi, inoltre, dal computo dei dipendenti occupati nell’ultimo anno quelli che lavorano nelle aziende cedute in affitto a terzi. Cass. civ., sez. I, sentenza 15 marzo 2013, n. 6648 Pres. Vitrone, Est. Ceccherini Fallimento e procedure concorsuali – Cooperativa mutualistica – Dichiarazione d’insolvenza – Limite di euro trentamila dei debiti scaduti e non pagati – Applicabilità – Esclusione La dichiarazione d’insolvenza di una società cooperativa esclusivamente mutualistica, a norma dell’art. 195 della legge fallimentare, non è impedita dalla circostanza che l’ammon‑ tare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare sia complessivamente inferio‑ re a euro trentamila, non applicandosi in tal caso l’art. 15, ultimo comma, della legge medesima. Cass. civ., sez. I, sentenza 22 aprile 2013, n. 9681 Pres. Rordorf, Est. Ceccherini Fallimento e procedure concorsuali – Dichiarazione di fallimento – Istanza del P.M. a seguito di segnalazione del Tribunale – Ammissibilità Le Sezioni Unite, pronunciandosi su questione di massima di particolare importanza, hanno enunciato il principio di diritto secondo cui è legittima la dichiarazione di fallimento intervenuta su istanza del pubblico ministero, inoltrata a se‑ guito di segnalazione compiuta dal tribunale nell’ambito di procedura prefallimentare. Cass. civ., sez. un., sentenza 18 aprile 2013, n. 9409 Pres. Preden, Est. Piccininni Famiglia – Decreto del Tribunale di revisione delle disposizioni sullo scioglimento del matrimonio – Esecutività immediata – Sussistenza Le Sezioni Unite hanno affermato il principio di diritto secondo cui il decreto pronunciato dal tribunale in materia di revisione delle disposizioni sui figli e sui contributi da corri‑ spondere in caso di scioglimento e cessazione degli effetti del matrimonio, previsto dall’art. 9 della legge n. 898 del 1970, è immediatamente esecutivo, in conformità alla regola generale desumibile dall’art. 4 della stessa legge, che è incompatibile con la disposizione comune dell’art. 741 c.p.c. in tema di procedimenti camerali, il quale subordina l’efficacia esecutiva F O R E N S E m a r z o • a p r i l e al decorso del termine per la proposizione del reclamo. Cass. civ., sez. un., sentenza 26 aprile 2013, n. 10064 Pres. Preden, Est. Ceccherini Impugnazioni civili – Appello – Atto di appello – Avvertimento ex art. 163, comma 3, n. 7, c.p.c. – Necessità – Esclusione Le Sezioni Unite, risolvendo un contrasto, hanno enuncia‑ to il principio secondo cui l’art. 342 c.p.c., nel testo derivante dall’art. 50 della legge n. 353 del 1990 e prima delle modifiche apportate dall’art. 54 d.l. n. 83 del 2012 (conv. nella l. n. 134 del 2012), non richiede anche lo specifico avvertimento pre‑ scritto dal terzo comma dell’art. 163, n. 7, c.p.c., per il quale la costituzione del convenuto oltre i termini previsti implica le decadenze di legge nel giudizio di primo grado. Cass. civ., sez. un., sentenza 18 aprile 2013, n. 9407 Pres. Preden, Est. Amoroso Obbligazioni – Adempimento del terzo – Efficacia – Opposizione del debitore – Rifiuto del creditore – Rilevanza – Condizioni L’adempimento del terzo è efficace, qualora né l’opposi‑ zione del debitore, né il rifiuto del creditore, siano giustifica‑ bili alla luce del principio di correttezza. Cass. civ., sez. II, sentenza 30 gennaio 2013, n. 2207 Pres. Felicetti, Est. Carrato Procedimento civile – Domanda di risarcimento del danno – Chiamata in causa del proprio assicuratore della responsabilità civile da parte del convenuto – Intempestiva riassunzione della domanda di garanzia – Estensione dell’effetto estintivo anche alla domanda principale Le Sezioni Unite, pronunciandosi su questione di massi‑ ma di particolare importanza, hanno enunciato il seguente principio di diritto: “Nel processo con pluralità di parti cui dà luogo la chiamata in causa dell’assicuratore prevista dall’art. 1917, quarto comma, c. c., l’evento interruttivo che in primo grado colpisca l’assicuratore determina la sola in‑ terruzione del giudizio relativo alla domanda di indennità, ancorché il processo debba essere mantenuto in stato di rinvio sino alla scadenza del termine per la prosecuzione da parte dei successori del chiamato o della riassunzione da parte del chiamante; conseguentemente, l’onere della riassunzione grava sul convenuto che ha eseguito la chiamata in causa e, mancata ad opera di alcuna delle parti attività processuale utile alla prosecuzione del relativo giudizio, il processo di estingue solo per la parte che riguarda la domanda proposta con la chiamata in causa”. Cass. civ., sez. un., sentenza 22 aprile 2013, n. 9686 Pres. Preden, Est. Spirito Procedimento civile – Questione di legittimità costituzionale sollevata in altro giudizio – Sospensione – Riassunzione – Termine – Decorrenza Il termine per la riassunzione del giudizio, sospeso in ragione della questione di legittimità costituzionale sollevata nell’ambito di un diverso giudizio, decorre dalla pubblicazio‑ ne della sentenza della Corte costituzionale sulla Gazzetta Ufficiale e non dalla notificazione operata dalla parte inte‑ ressata alle controparti. Cass. civ., sez. I, sentenza 26 marzo 2013, n. 7580 Pres. Vitrone, Est. Bernabai 2 0 1 3 43 Procedimento civile – Richiesta di informazioni alla p.a. ex art. 213 c.p.c. – Utilizzabilità per acquisire documenti cui le parti hanno diritto di accedere – Esclusione – Conseguenze – Rapporti di sinistri stradali redatti dalle forze di polizia – Acquisibilità ai sensi della suddetta norma – Esclusione Con una importante decisione (la prima espressamente pronunciata sul punto), la Corte di cassazione ha stabilito che l’art. 213 c.p.c., il quale consente al giudice di richiedere atti ed informazioni alla pubblica amministrazione, non può esse‑ re utilizzato come uno strumento per sollevare le parti dall’one‑ re probatorio su di esse incombente e che, pertanto, le parti stesse non possono sollecitare l’esercizio, da parte del giudice, di tale potere officioso per acquisire documenti che potevano ottenere direttamente dall’amministrazione. Da questo princi‑ pio generale, si fa discendere l’importante corollario che, nel caso di controversie risarcitorie scaturenti da sinistri stradali, le parti non possono pretendere che sia il giudice a disporre l’acquisizione d’ufficio, ai sensi della menzionata disposizione, del rapporto eventualmente redatto in occasione del sinistro dalle forze di polizia, giacché tale documento può essere diret‑ tamente acquisito dalle parti, giusta l’espressa previsione in tal senso dell’art. 11 Codice della Strada Cass. civ., sez. III, sentenza 12 marzo 2013, n. 6101 Pres. Finocchiaro, Est. Carleo Processo civile – Notificazione a persona giuridica – Notifica a mezzo posta a convivente del legale rappresentante La notificazione a persona giuridica è validamente effet‑ tuata a mezzo posta al legale rappresentante della stessa, la cui qualità e residenza siano indicati nell’atto, in caso di consegna a mani di un familiare convivente con il destinata‑ rio, dovendo presumersi che l’atto sia giunto a conoscenza dello stesso e restando irrilevante ogni indagine sulla ricon‑ ducibilità del luogo di detta consegna fra quelli indicati dall’art. 139 c.p.c. Cass. civ., sez. lav., sentenza 13 marzo 2013, n. 6345 Pres. Roselli, Est. Stile Proprietà – Domanda di costituzione coattiva di servitù di passaggio su fondi appartenenti a diversi proprietari – Proposizione nei confronti di uno solo di essi – Conseguenze Le Sezioni Unite, risolvendo il contrasto rimesso dalla Seconda sezione con ordinanza n. 6764 del 2012, hanno affermato che la domanda di costituzione coattiva di servitù di passaggio deve essere contestualmente proposta nei con‑ fronti dei proprietari di tutti i fondi che sia necessario attra‑ versare per il collegamento con la strada pubblica, dovendo, in mancanza, essere respinta, perché diretta a far valere un diritto inesistente. Cass. civ., sez. un., sentenza 22 aprile 2013, n. 9685 Pres. Preden, Est. Bucciante Stranieri – Straniero regolarmente soggiornante – Capacità all’acquisto dell’abitazione – Condizione di reciprocità – Irrilevanza Lo straniero, titolare del permesso di soggiorno, ha la capacità negoziale per l’acquisto dell’immobile da destinare a propria abitazione, senza che rilevi la condizione di reci‑ procità di cui all’art. 16 delle preleggi. Cass. civ., sez. II, sentenza 21 marzo 2013, n. 7210 Pres. Oddo, Est. Giusti civile Gazzetta 44 D i r i t t o ● Rassegna di merito ● A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa Avvocati e p r o c e d u r a c i v i l e Gazzetta F O R E N S E Attribuzione dello status di rifugiato politico e/o del diritto di asilo – Impossibilità parziale – Interposizione di appello ad ordinanza di rigetto – Procedimento ordinario – Domanda di asilo e domanda di rifugiato – Connessione oggettiva 1. L’appello avverso l’ordinanza emessa dal giudice di prime cure soggiace alla disciplina di cui all’art. 702 quater c.p.c. e, quindi, esso va introdotto con atto di citazione. Ciò in quanto se è pur vero che l’art. 702 quater c.p.c., nel disci‑ plinare il giudizio di impugnazione contro l’ordinanza emes‑ sa all’esito del procedimento sommario di cognizione, non contiene nessuna disposizione sul rito da applicare, è altret‑ tanto vero che dottrina e giurisprudenza (Corte Appello Roma, sez. III 11.05.2011 n. 2089) hanno ritenuto che l’as‑ senza di specifiche disposizioni al riguardo, comporta la soggezione del gravame alle regole ordinarie (cfr. combinato disposto dell’art. 342 e art. 359 c.p.c.). La ratio di siffatta interpretazione va rinvenuta nel rilievo che, in mancanza di espressa volontà legislativa, non sarebbe consentito estende‑ re i tratti di sommarietà previsti per il primo grado anche al giudizio di appello, dovendosi al contrario ritenere che il ri‑ chiamo contenuto nell’art. 359 c.p.c, lungi dall’omologare, nei tratti di sommarietà previsti, i due gradi di giudizio, si‑ gnifica invece applicazione nel giudizio di appello della normativa prevista in materia di cognizione ordinaria (cfr. Corte di Appello di Reggio Calabria, 1 marzo 2012). 2. Asilo e rifugio politico, pur avendo connotazioni diver‑ se, sono tuttavia accomunati sotto il profilo procedimentale, posto che la domanda di asilo deve essere assistita dalle me‑ desime formalità previste per il riconoscimento dello status di rifugiato… tra le due figure – quella dell’asilante e quella del preteso rifugiato – vi è in via di principio una connessione oggettiva, data dal vincolo di diretta strumentalità della prima rispetto alla seconda, con l’effetto che (cfr. Cass. n. 25028/05, Cass. n. 26278/05, Cass. n. 18353/06 e Cass. n. 18549/06) il diritto di asilo deve intendersi come diritto di accedere nel territorio dello Stato al fine di esperire la procedura per otte‑ nere lo status di rifugiato, sicché, una volta negativamente risolto in sede processuale il tema della sussistenza dei presup‑ posti per il riconoscimento dello status di rifugiato, non vi è spazio residuo per l’apprezzamento della (subordinata e/o alternativa) istanza di asilo, di talché il permesso di soggiorno temporaneo a tal fine rilasciato non può che essere immedia‑ tamente, e del tutto legittimamente, revocato. Ne consegue che respinta la domanda di protezione del preteso rifugiato non può essere accolta quella di asilo politico. App. Napoli, sez. Persone e Famiglia, sentenza 22 febbraio 2013 Pres. C. Montella, Rel. A. Cocchiara Medici specializzandi – Danni da omessa o tardiva trasposizione di direttive comunitarie non auto esecutive – Legittimazione passiva – Prescrizione ordinaria del diritto 1. Il diritto al risarcimento dei danni per omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie non autoesecutive, va ricondotto allo schema della responsabilità contrattuale per inadempimento dell’obbligazione “ex lege” dello Stato, di natura indennitaria. Ne consegue che, essendo lo Stato italia‑ no l’unico responsabile di detto inadempimento e, dunque, l’esclusivo legittimato passivo in senso sostanziale, non è F O R E N S E m a r z o • a p r i l e configurabile una responsabilità degli altri Ministeri conve‑ nuti (in tal senso cfr. 23558/11). 2. In tema di responsabilità dello Stato per mancato re‑ cepimento di direttive comunitarie, la norma introdotta dall’art. 4, comma 43, della L. n. 183 del 2011, secondo la quale la prescrizione del diritto al risarcimento del danno soggiace al termine quinquennale ex art. 2947 c.c., vale soltanto per i fatti verificatisi successivamente alla sua entra‑ ta in vigore, poiché essa non evidenzia i caratteri della norma interpretativa, idonei a sottrarla al principio di irretroattivi‑ tà; ne consegue che, per i fatti anteriori alla novella, opera la prescrizione decennale, secondo la qualificazione giurispru‑ denziale nei termini dell’inadempimento contrattuale. Trib. Napoli, sez. X, sentenza 28 gennaio 2013 Giud. B. Garcia Procura contenuta in foglio separato – Validità – Esclusione dalla qualità di socio della cooperativa – Diritto alla restituzione delle somme anticipate – Rivalutazione monetaria – Esclusione 1. La procura si considera apposta in calce anche se rilascia‑ ta su foglio separato che sia però congiunto all’atto cui si riferi‑ sce. Tale congiunzione si sostanzia in fatti e circostanze dalle quali desumere con ragionevole certezza la provenienza dalla parte del potere di rappresentanza conferito all’avvocato. 2. Gli esborsi effettuati per il conseguimento dei singoli beni o servizi prodotti dalla società pongono il socio nella posizione di creditore della cooperativa. Pertanto, una volta avvenuto lo scioglimento del rapporto sociale o per recesso del socio o per la sua esclusione, egli ha diritto alla restitu‑ zione delle somme anticipate (Cass. 6 dicembre 2000 n. 15489). Quando a seguito della risoluzione del contratto sorge l’obbligo della restituzione delle somme già versate, per essere venuta meno la causa giustificatrice dell’attribuzione patrimoniale, tale obbligazione è debito di valuta e, come tale, insensibile alle variazioni del potere d’acquisto della moneta ed insuscettibile, quindi, di rivalutazione. App. Napoli, sez. III, sentenza 24 febbraio 2013 Pres. R. Giordano, Rel. C. Gabriele Provvedimento illegittimo – Responsabilità della pubblica amministrazione – Insufficienza mero dato obiettivo – Lesione di diritti riflessi – Sussistenza del diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali dei prossimi congiunti 1. Ai fini dell’imputazione a responsabilità della P.A. di un evento dannoso, non è sufficiente il mero dato obiettivo dell’illegittimità del provvedimento, richiedendosi una più penetrante indagine in ordine alla valutazione della colpa che, unitamente al dolo, costituisce requisito essenziale della re‑ sponsabilità aquiliana (cfr. Cass. 27.05.2009, n. 12282; Cass. 15.03.2007, n. 6005). 2 0 1 3 45 2. Nell’ipotesi in cui il fatto illecito abbia comportato, in via diretta e immediata, la lesione dei c.d. diritti riflessi di cui siano portatoli soggetti diversi dalla vittima iniziale del fatto ingiusto, spetta agli stessi, in proprio, il diritto al risar‑ cimento dei danni non patrimoniali, in quanto prossimi congiunti del soggetto leso. Vengono in questione in tal caso molteplici profili, quali il diritto del coniuge a regolari rap‑ porti coniugali, nell’ambito dei reciproci doveri di assistenza materiale e morale, che trova riscontro nell’art. 143 c.c., ovvero in caso di azione dei figli il diritto all’educazione e ad un sano sviluppo psicofisico, imposto dall’art. 147 c.c. a carico di entrambi i genitori (Cass. 17.09.1996, n. 8305). Trib. Napoli, sez. X, sentenza 28 gennaio 2013 Giud C. Sorrentini Reddito di cittadinanza – Diritto soggettivo perfetto – Giurisdizione del giudice ordinario – Natura assistenziale del beneficio – Incompetenza del Giudice di pace 1. Sono devolute alla cognizione del Giudice ordinario le controversie dirette al riconoscimento ed alla corresponsione del reddito di cittadinanza (cfr. Cass., sez.un. 09.07.2010, n. 18460). Trattasi della prestazione di un diritto sociale fon‑ damentale che spetta, nei limiti delle risorse disponibili, ai soggetti che, in presenza delle condizioni previste, “ne fanno richiesta”. Si configura, pertanto, in capo a tali soggetti, un diritto soggettivo perfetto che trova la sua fonte direttamente nella legge ed il cui riconoscimento non presuppone alcun potere discrezionale della Pubblica Amministrazione, la quale è tenuta, unicamente, a verificare la sussistenza delle condi‑ zioni reddituali e l’inserimento degli aventi diritto negli appo‑ siti elenchi predisposti dai Comuni sulla base delle domande ricevute. La conseguenza che ne deriva è che tali controversie rientrano senz’altro nella giurisdizione del Giudice ordinario, configurandosi una cognizione su diritti soggettivi perfetti. 2. Le controversie concernenti tale beneficio appartengo‑ no alla competenza del Tribunale in funzione di giudice del lavoro in quanto il reddito di cittadinanza costituisce una prestazione di natura sicuramente assistenziale per la quale trova applicazione l’art. 442 c.p.c. Infatti, ha sottolineato la Corte come i provvedimenti legislativi in materia di reddito di cittadinanza evidenzino la sussistenza di un nesso funzio‑ nale tra i servizi sociali, quali che siano i settori di intervento, (famiglia, minori, anziani, emarginati, indigenti) e la rimo‑ zione o il superamento di situazioni di svantaggio o di biso‑ gno, per la promozione del benessere fisco o psichico della persona, a prescindere dalla sua occupazione lavorativa o dalla costituzione di un rapporto assicurativo e dalla natura temporanea della prestazione. Trib. Napoli, sez. X, sentenza 25 gennaio 2013 Giud. C. d’Ambrosio civile Gazzetta 46 D i r i t t o e p r o c e d u r a In evidenza CASSA ZIONE CIVILE , SEZ . I, 14 settembre 2012 n. 15449 Pres. C. Carnevale, Rel. A. Scaldaferri Obbligazioni e contratti – Requisiti essenziali – Causa del contratto – Indagine in astratto – Inconfigurabilità – Indagine in concreto – Necessità L’indagine sulla obiettiva funzione economico‑sociale di un contratto va svolta non “in astratto” ma “in concreto”, Nota redazionale a cura di Pietro d’Alessandro (Avvocato) (1) La Corte di Cassazione conferma l’orientamento, sino a poco tempo fa pacifi‑ co, secondo cui la causa consiste nella funzione economico – sociale del con‑ tratto, in contrasto con il diverso avviso di recente affermato in numerose massime – che rappresenta un superamento della tradizionale nozione di causa tipica – per il quale la causa va considerata come lo scopo pratico del negozio (causa cd concreta), cioè come funzione economico individuale della singola e specifica negoziazione quale emerge dalla sintesi degli specifici interessi che il contratto è volto a realizzare [Cass., 01.04.2011, n. 7557, Guida al Dir., 2011, 23,72; Cass. 12 novembre 2009, n. 23941, Guida al Dir., 2009, 50, 55; Cass. 8 maggio 2006, n. 10490, Riv. Not., 2007, 1, 184]. Abbandonata la concezione soggettiva della causa come scopo per il quale la parte assume l’obbligazione ed interpretata la figura in termini di oggettiva funzione del contratto, secondo l’opinione che ha avuto a lungo maggior for‑ tuna la causa consiste nella ragione e funzione economico‑sociale del contratto che ne caratterizza il tipo (tipica in questo senso) e ne determina il contenuto minimo necessario [Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1960, pp 184 e ss; Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1966, 170; Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1985, 166; Mirabelli, Comm. Cod Civ, 1980, Torino, 156]. In questa prospettiva, la causa coincide con il tipo legale, cioè con l’astratta descrizione che di ciascun contratto viene di volta in volta data dal legislato‑ re. La teoria, almeno nella sua formulazione originaria, rispondeva all’esigenza di tipo politico di sottrarre all’autonomia privata la delimitazione del contenuto minimo indispensabile del negozio giuridico, di modo che non fosse consentito alle parti di stralciarne elementi che costituiscono parte integrante della sua funzione tipica o di conferire efficacia ad atti che non risultano idonei a creare vincoli giuridici (Betti, op. cit., p. 185) e costituiva, per molti versi, il riflesso nella regolamentazione dei rapporti privati delle concezioni dei rapporti tra cittadino e Stato propri della filosofia idealista (Galgano, Recensione a G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Riv. dir. civ., 1969, I, p.424). Si trattava della medesima scelta ideologica che ha portato il legislatore a scin‑ dere artificiosamente e regolare separatamente due elementi, il contenuto e gli effetti del contratto che rappresentano invece solo momenti distinti della me‑ desima realtà, ossia il regolamento contrattuale; tale scissione risponde alla particolare visione secondo la quale il ruolo dell’autonomia privata sarebbe limitato alla determinazione del contenuto del contratto, mentre gli effetti giuridici sarebbero dominio esclusivo della legge sottratto ad ogni competenza dispositiva dei privati (Roppo, Digesto delle Discipline privatistiche, Sezione civile, voce “contratto”, Torino, sd ma 1989, p.114). Della concezione della causa tipica hanno tenuto conto i compilatori del codi‑ ce civile che dichiararono espressamente di preferirla. Si legge nella relazione al codice civile che la causa “è la funzione economico‑so‑ ciale che il diritto riconosce rilevante ai suoi fini e che sola giustifica la tutela dell’autonomia privata.” (n. 613). Il fine politico del legislatore viene espressamente enunciato dal relatore, per il quale la funzione del contratto deve essere “non soltanto conforme ai precetti di legge, all’ordine pubblico e al buon costume ma anche, per i riflessi diffusi dall’art 1322 cc secondo comma, rispondente alle necessità che il fine intrinse‑ co del contratto sia socialmente apprezzabile e come tale meritevole della tute‑ la giuridica” (n. 613); l’impostazione risente della particolare concezione dell’autonomia privata del legislatore dell’epoca, per il quale se “si traggono le logiche conseguenze dal principio corporativo che assoggetta la libertà del singolo all’interesse di tutti, si scorge che, in luogo del concetto individualistico di signoria della volontà, l’ordine nuovo deve accogliere quello più proprio di autonomia del volere. L’autonomia del volere non è sconfinata liberà del pote‑ re di ciascuno, non fa del contratto un docile strumento della volontà privata; ma, se legittima nei soggetti un potere di regolare il proprio interesse, nel con‑ tempo impone ad essi di operare sempre sul piano del diritto positivo, nell’or‑ bita delle finalità che questo sanziona e secondo la logica che lo governa” (n. 603). c i v i l e Gazzetta F O R E N S E onde verificare la conformità alla legge dell’attività negoziale posta in essere dalle parti e, quindi, la riconoscibilità nella specie della tutela apprestata dall’ordinamento giuridico. [1] Cass. civ., sez. I, 14 settembre 2012 n. 15449 Svolgimento del processo 1. Con contratto del 18 luglio 1996 la s.p.a. S. – S. f. f. i. concesse in mutuo alla s.r.l.F. F. la somma di lire 100 milioni con piano di ammortamento in rate bimestrali per ventiquattro mesi, garantito dalla dazione in pegno di una quota pari all’84,21% del capitale sociale della C.P. s.r.l., per un valore di lire 80 milioni, della quale la mutuataria era titolare. Nell’ago‑ La predisposizione ad opera del legislatore della causa per ogni tipo di contrat‑ to aveva allora lo scopo di approntare un controllo preventivo ed astratto della corrispondenza del contratto alle finalità garantite dall’ordinamento giuridico, cioè di verificare se il risultato pratico che i soggetti si propongono di perseguire “sia ammesso dalla coscienza civile e politica, dall’economia na‑ zionale, dal buon costume e dall’ordine pubblico” (Relaz., n. 603). Venute meno le ragioni di stampo ideologico sottese a tale interpretazione, la dottrina ha iniziato a ritenere insoddisfacente la teoria della causa tipica che priva il requisito di ogni concreta utilità con riferimento ai contratti tipici; solo nel campo della atipicità [che peraltro si presenta marginale nell’esperienza giuridica: Rescigno, Introduzione al codice civile, Laterza, 1991, 513] essa conserverebbe un ruolo attivo perché manca l’astratta descrizione legislativa dell’operazione economica. L’impostazione soprattutto porta a limitare l’ipotesi della illiceità della causa ai contratti atipici; per i contratti tipici il fatto stesso della previsione normativa ne attesterebbe la liceità (Trabucchi, op. cit., 168; Mirabelli, op. cit., p.161). Per il Relatore al codice “un controllo sulla corrispondenza obbiettiva del contratto alle finalità garantite dall’ordinamento giuridico è inutile se le parti utilizzano i tipi contrattuali, legislativamente nominati e specificamente disci‑ plinati: in tal caso la corrispondenza stessa è stata apprezzata e riconosciuta dalla legge con disciplinare il tipo particolare di rapporto, e resta allora da in‑ dagare, come si dirà più avanti (n. 614), se per avventura la causa considerata, non esista in concreto o sia venuta meno. Quando il contratto non rientra in alcuno degli schemi tipici legislativi, essendo mancato il controllo preventivo ed astratto della legge sulla rispondenza del tipo nuovo di rapporto alle finalità tutelate, si palesa invece necessaria la valu‑ tazione del rapporto da parte del Giudice, diretta ad accertare se esso si adegui ai postulati dell’ordinamento giuridico” (n. 603). Il legislatore ha probabilmente avvertito la necessità di regolare l’ipotesi del contratto in frode alla legge – peraltro con disposizione (art 1344 c.c.) che pone gravi problemi di concretizzazione e di inserimento nella teoria generale del contratto, non contenendo una definizione della figura [Morello, “Frode alla legge”, in Digesto delle Discipline Privatistiche, Sez. Civ., Vol VIII, Torino, sd ma 2001, p.501] – perché costrettovi dal fatto di aver prescelto una nozione della causa coincidente con il tipo legale; se il contratto tipico non può mai avere, per definizione, causa illecita, è stato necessario approntare un rimedio per colpire l’atto che, pur presentando una astratta liceità, persegua un risulta‑ to economico in contrasto con un divieto di legge. A ciò si deve la terminologia della legge: la causa “si reputa” illecita non potendo ammettersi che essa “sia” illecita. Sul piano sistematico, la teoria della causa tipica non riesce a spiegare come l’art 2126 cc abbia potuto prevedere l’illiceità della causa di un contratto tipico, quale quello di lavoro. L’impostazione è stata ritenuta anche fuorviante e fonte di inutili equivoci perché confonde concetti che operano su piani diversi e pongono problemi diversi. Il tipo fa nascere un problema di qualificazione del contratto per risolvere il quale si deve in primo luogo verificare l’esistenza di una pattuizione che rispon‑ da in astratto ai requisiti posti da uno schema tipico, al fine di stabilire la normativa applicabile; in secondo luogo, si deve verificare se quel determinato schema tipico sia o meno presente in concreto; in terzo luogo, si deve verificare l’esistenza o meno di un accordo in ordine al contenuto tipico del contratto perché, in caso di assenza, è inesistente lo stesso schema vincolante [Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli 2004, p.791] Nessuno di questi problemi può essere risolto facendo riferimento alla funzio‑ ne assolta dal contratto. La causa pone invece il diverso problema della valutazione dei concreti interes‑ si che le parti intendono perseguire con la concreta operazione economica per stabilirne la liceità o illiceità. L’indagine sul tipo, che serve a stabilire la configurabilità dell’operazione è necessariamente astratta e statica, poiché richiede un raffronto tra lo schema costruito dai privati e lo schema delineato dal legislatore mentre il giudizio sulla causa è concreto e dinamico poiché implica un raffronto tra interessi F O R E N S E m a r z o • a p r i l e 2 0 1 3 47 sto 1997, non avendo la F. F. – nel frattempo posta in liquida‑ zione – provveduto al pagamento dei primi due ratei di rimbor‑ so, la S. s.p.a. la convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano per sentir disporre l’assegnazione ad essa mutuante, in pagamento dell’intero debito restitutorio, della quota sociale data in pegno dalla mutuataria, in attuazione della espressa clausola contrattuale che prevedeva tale diritto. La società convenuta si costituì deducendo che aveva inutilmente tentato il versamento della somma dovuta, prov‑ vedendo anche ad offerta reale; chiese quindi l’accertamento dell’avvenuto adempimento e della liberazione di essa debitri‑ ce – oltre allo svincolo della quota sociale data in pegno – con condanna della controparte al risarcimento dei danni. Nel giudizio, riunito ad altro promosso dalla F. F. per la convalida dell’eseguita offerta reale di lire 112 milioni, intervennero volontariamente C.G. – acquirente delle quote corrisponden‑ ti all’intero capitale sociale della C.P.srl – per aderire alla posizione della F. F., e la s.r.l. B. F. di r., cessionaria del cre‑ dito fatto valere da S. s.p.a.. Il Tribunale, espletata c.t.u. ai fini della determinazione della somma dovuta e del valore della quota sociale data in pegno, ritenne inammissibile la questione di nullità del con‑ tratto di mutuo – in quanto sollevata tardivamente dalla F. F. e dal C., peraltro sulla base di documentazione tardivamente perseguiti nel caso concreto dai privati ed interessi ritenuti leciti e protetti dall’ordinamento, quindi il giudizio sulla causa implica un’attività valutativa, a differenza di quello sul tipo, che richiede un’attività conoscitiva (Gazzoni, Atipicità del contratto, giuridicità del vincolo e funzionalizzazione degli inte‑ ressi, Riv. dir. civ., 1978, I, 955, nt 61] Frutto di tale commistione concettuale tra giudizi diversi, secondo alcuni, è la previsione normativa della nullità del contratto per mancanza di causa (Gazzoni, Atipicità, cit, 948 e 954). La causa, si afferma, non può mai mancare se il tipo è individuabile; le ipotesi comunemente ricondotte al difetto causale si risolvono invece in mancanza del tipo e quindi costituiscono ipotesi di inconfigurabilità dello schema regolamen‑ tare e quindi di impossibilità di procedere positivamente alla qualificazione dell’operazione economica: la compravendita di cosa già di proprietà dell’ac‑ quirente non presenta il requisito dello scambio che è elemento costitutivo del tipo legale, non già in concreto ma in astratto; non è configurabile un contrat‑ to di assicurazione contro il rischio dell’incendio, quando il bene è già bruciato, per difetto di danno; non è configurabile il tipo per l’inutilità (e quindi impos‑ sibilità) della garanzia fideiussoria rilasciata dal socio illimitatamente respon‑ sabile di una società di persone. Per tutti i limiti che manifesta la ricostruzione della causa in termini di funzio‑ ne economico‑sociale la dottrina ha elaborato una diversa teoria. In base a detta impostazione, la causa non è la ragione astratta ma la funzione concreta che il singolo contratto è diretto ad attuare (GB Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano 1966, 345; Id, Il codice italiano del 1942 e l’ideologia corporativa fascista, in Europa e dir. priv., 2012, 02, 319; Id., Motivi, presupposizione e l’idea di meritevolezza, in Europa e dir. priv,. 2009, 02 331, dove l’autore chiarisce che l’interpretazione della causa in una dimensione economico‑individuale viene consentita anche da un passaggio della Relazione al cod. civ. (n. 613) laddove si sottolinea come la causa, nella sua dimensione funzionale, debba corrispondere «alla necessità che il fine in‑ trinseco del contratto sia socialmente apprezzabile e come tale meritevole di tutela»; il fine intrinseco del contratto per l’A. non può che consistere nello scopo pratico individuale perseguito dai contraenti). Ricercare l’effettiva funzione pratica del contratto vuol dire avere riguardo all’interesse concretamente perseguito dalle parte e che, pure tacitamente, rien‑ tra tra le finalità dell’operazione economica. La teoria risulta ormai maggioritaria, se non unanime, in dottrina (Bianca, Diritto Civile, Il Contratto, Milano, 2000, 452 e ss; Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2004, 788; Roppo, Il Contratto, Trattato di diritto privato a cura di Iudica e Parri, Milano 2001, 364; Id, voce “Contratto”, Di‑ gesto Discipline Privatistiche, Sezione Civile, vol IV, Milano, sd ma 1987, 114; Gabrielli, L’operazione economica nella teoria del contratto, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2009, 03, 905). L’opinione muove dal presupposto che la tipizzazione di una struttura negozia‑ le individua solo l’interesse che essa normalmente realizza, nel senso che nor‑ malmente quando si richiama un tipo di attività si richiama anche il tipo di interesse che essa persegue. Tale corrispondenza non è però necessaria, perché ben può sussistere l’ipotesi in cui il privato, pur utilizzando uno schema tipiz‑ zato, lo modifichi per perseguire un interesse nuovo e diverso, purché merite‑ vole di tutela. La causa allora non può essere fatta coincidere con il tipo se ad una struttura tipica può corrispondere un interesse tipico, come normalmente accade, ma anche un interesse extratipico. La valutazione dell’atto negoziale deve quindi incentrarsi sulla natura dell’in‑ teresse che le parti perseguono. La causa non è dunque la funzione economico‑ sociale ma, poiché anche il negozio ha come atto individuale un valore, è la sua funzione economico‑indi‑ viduale, in quanto riguarda un’operazione che esprime esigenze ed interessi di uno o più individui La giurisprudenza per lungo tempo – e nonostante l’ampio dibattito dottrina‑ rio – ha mantenuto fermo il proprio convincimento sul fatto che la causa sia l’astratta funzione‑economico sociale del contratto [Cass. 22 ottobre 2012, n. 17478; Cass. 13 dicembre 2010, n. 25159; Cass. 5 giugno 2012, n. 9046Cass. 20 agosto 2003 n. 12216; Cass. 4 aprile 2003 n. 5324; Cass. 19 marzo 1999 n. 2526; Cass. 15 luglio 1993 n. 7844, in Giur. it., 1995, I, 1, 734; Cass. 15 giugno 1991 n. 6771; Cass. 18 febbraio 1983 n. 1244; Cass. 29 gennaio 1983 n. 826; Cass. 11 agosto 1980 n. 4921; Cass. 22 gennaio 1976 n. 185; Cass. 13 ottobre 1975 n. 3300; Cass. 7 aprile 1971 n. 1025, in Foro it., I, 2574; Cass. 16 ottobre 1968 n. 3317; Cass. 15 febbraio 1963 n. 331, in questa Rivista, 1963, I, 736; Cass. 7 maggio 1955 n. 1299, ivi, 1955, I, 1075; Cass. 28 febbraio 1946 n. 217]. In realtà la giurisprudenza ha spesso ribadito, come nella sentenza in esame, che la nozione di causa come astratta funzione economico sociale non fa venir meno la necessità di un giudizio sulla concreta utilizzazione di uno strumento negoziale se, con esso, le parti perseguano uno scopo illecito [Cass. 5 aprile 2003, n. 5324, Gius civ mass, 2003, 4; Cass. 29 gennaio 1983, Giust civ mass, 1983 1; Cass. 11 agosto 1980, Giut civ, rep, 29]. In questo modo il richiamo alla causa nella sua connotazione astratta è dive‑ nuto sempre più un omaggio alla tradizione privo di incidenza effettiva nel processo di qualificazione del contratto [Izzi, La causa del contratto come funzione economico‑individuale, Giust. Civ. 2007, 1988]. Resta solo da accennare ad un ulteriore rilievo in tema di causa del contratto. Dottrina [Giorgianni, Causa, Enciclopedia del diritto, Torino, sd ma 1961, p. 565; Gazzoni, Manuale cit, 806/807; Mariconda, Il pagamento traslativo, in Contratto e Impresa, 1988, p. 735] e giurisprudenza (Cass., sez. un., 18 marzo 2010, n. 6538, in Giur. Comm., 2011, 3,2,561 in motivazione) rilevano che talvolta la giustificazione causale di uno spostamento patrimoniale non è desumibile dal contesto dell’atto ma da elementi ad esso esterni e dunque si atteggia diversamente. Ciò accade, in particolare nelle ipotesi di pagamento traslativo, che si configu‑ ra quando il trasferimento della proprietà avviene in adempimento di un obbli‑ go preesistente. L’esempio tipico è l’obbligo del mandatario di ritrasferimento immobiliare al mandante ex art 1706 cc: l’atto traslativo, in questo caso, non ha una propria causa ma adempie alla funzione gestoria ad esso esterna del contratto di man‑ dato. Gli esempi sono comunque numerosi: l’obbligo di dare può discendere dalla legge (art 746 quando il bene è reso in natura), da testamento (art 651 cc se il dante causa conosceva l’altruità del bene), da regole morali o sociali (art 2034 cc quando si adempie col trasferimento di proprietà) o da contratto [es. di so‑ cietà (artt 2253 e 2254 per i conferimenti in proprietà; contratto fiduciario (per il trasferimento dal fiduciante al fiduciario), mandato (art 1706 cc)]. La causa in questa tipologia di atti dunque è in realtà esterna al negozio attri‑ butivo che, pertanto, deve contenere l’indicazione dello scopo per il quale si adempie (cd expressio causae) e dunque del negozio fondamentale. La necessità di distinguere negozi fondamentali e negozi di attribuzione patri‑ moniale discende dal diverso modo di atteggiarsi della giustificazione causale e dalla diverse conseguenze dei vizi della causa. Nel caso di negozio fondamentale l’illiceità o il difetto di causa non potranno che determinare un difetto strutturale che porta alla nullità dell’atto. Nel negozio di attribuzione patrimoniale deve invece distinguersi. La mancan‑ za della expressio causae, quando cioè non viene indicato lo scopo del trasferi‑ mento, determina la nullità perché rende l’atto astratto. L’assenza o il venir meno del rapporto esterno giustificativo, invece, non si ri‑ flette sul piano strutturale perché, come detto, la causa è esterna e dunque l’atto è di per sé idoneo a creare effetti; l’assenza dell’elemento soggettivo che costituisce il momento di imputazione dell’attribuzione (fondamento), allora inciderà non sulla produzione degli effetti, poiché la fattispecie è completa, ma sulla loro conservazione, nel senso che l’attribuzione diventa indebita ed il solvens potrà agire in ripetizione (Giorgianni, op. cit., p. 570). Le conseguenze disciplinari sono notevoli. Nel caso di nullità per vizio o difetto di causa di contratti con causa interna il disponente potrà agire l’azione di rivendica che ha natura reale e dunque è esperibile erga omnes e non è soggetta ai limiti di cui all’art. 2038 nei confron‑ ti dei terzi subacquirenti. Nel diverso caso in cui il trasferimento è divenuto indebito perché il negozio attributivo è privo di fondamento, il solvens potrà agire solo con l’azione di ripetizione dell’indebito che ha natura personale. civile Gazzetta 48 D i r i t t o e p r o c e d u r a depositata ‑, ma rigettò la domanda della S. s.p.a. (e della cessionaria B. s.r.l.) per avere la stessa abusato del suo diritto, ponendo in essere una condotta volta ad impedire alla debi‑ trice l’adempimento. Rigettò anche la domanda di convalida dell’offerta reale della F. F. perché la somma offerta era, sia pure in misura lieve (poco più di un milione di lire), inferiore al dovuto. Interposto appello da parte sia della B. s.r.l. sia della F. F. s.r.l., e riuniti gli appelli, la Corte di Milano, con sentenza depositata il 15 febbraio 2006, ha ammesso la questione di nullità del contratto di mutuo pignoratizio in questione ed i documenti prodotti al riguardo, ed ha accertato tale nullità, per illiceità della causa. In tal senso, premesso che il contrat‑ to era intercorso in sostanza tra M.M., quale amministratore della società mutuataria, ed il medesimo, quale mandante (e fornitore della provvista) della fiduciaria mutuante S. in base a scrittura privata in atti, ha osservato che tale contratto non era diretto a svolgere l’obiettiva funzione sociale che lo con‑ traddistingue (anche perché non risultava neppure prospetta‑ ta la ragione del finanziamento, in un contesto nel quale la società era priva di qualsiasi operatività e dei mezzi per resti‑ tuire la somma mutuata), bensì la diversa funzione, persegui‑ ta dal M., di sottrarre alla proprietaria F. F. la quota sociale data in pegno, finalità vietata dall’ordinamento perché in violazione tanto degli obblighi propri dell’amministratore di società di capitali quanto della funzione propria del pegno, che non è quella di acquisizione diretta della proprietà del bene dato in garanzia. Obiettivo, questo, che risultava perse‑ guito nella specie attraverso una condotta, tenuta da S. s.p.a. (evidentemente conforme alle direttive ricevute dal mandante M.), di astensione dall’intimare alla debitrice il pagamento del debito, negandole poi ogni collaborazione per consentirle di provvedervi. Avverso tale sentenza, notificata il 27 marzo 2006, hanno proposto distinti (ancorché di identico contenuto) ricorsi a questa Corte la S. s.p.a. e la cessionaria B. s.r.l. Resistono con controricorsi la F. F. s.r.l. e C.G., il quale ha altresì proposto ricorso incidentale. Motivi della decisione 1. Deve, innanzitutto, disporsi la riunione dei ricorsi in esame, in quanto proposti avverso la medesima sentenza. 2. Quanto ai due ricorsi principali, essi si basano su quat‑ tro motivi, tutti diretti a censurare le statuizioni della senten‑ za di appello aventi ad oggetto l’illiceità del contratto di mutuo pignoratizio in questione. Con il primo motivo si denuncia la violazione delle norme di diritto in materia di nullità dei contratti per illiceità della causa, sostenendo che la Corte avrebbe disapplicato il principio secondo cui i motivi o mo‑ venti soggettivi (nella specie del M., dominus effettivo dell’operazione), che non siano esteriorizzati in una condizio‑ ne o patto, sono elementi estranei al contratto e ininfluenti ai fini del giudizio sulla illiceità dello stesso, salva l’ipotesi di‑ stinta di illiceità dei motivi. Con il secondo motivo si denun‑ cia l’omissione, insufficienza e/o contraddittorietà della mo‑ tivazione: la Corte avrebbe tratto il suo convincimento in merito alla illiceità della causa presupponendo, senza consi‑ derare alcune circostanze di segno contrario, che la mutuata‑ ria non avesse alcuna valida ragione per chiedere un finanzia‑ mento. Con il terzo motivo si denuncia la violazione e/o falsa c i v i l e Gazzetta F O R E N S E applicazione di norme di diritto, per avere la Corte identifi‑ cato nella violazione dei doveri in capo agli amministratori di società una ragione di nullità del contratto per illiceità della causa: si sostiene che non esiste nell’ordinamento una norma che preveda in via generale l’invalidità del contratto stipulato in frode ai terzi, bensì norme che accordano diversi rimedi specifici, correlati alle varie ipotesi di pregiudizio (azione re‑ vocatoria, azione di responsabilità nei confronti dell’ammini‑ stratore, azione di annullamento del contratto per conflitto di interessi del rappresentante), salve ipotesi di particolare disvalore, sanzionate anche penalmente (art 2642 c.c.). Con il quarto motivo, si denuncia l’omissione, insufficien‑ za e/o contraddittorietà della motivazione circa la esistenza di un preordinato inadempimento della F. F. al piano di am‑ mortamento, con conseguente trasferimento della quota della C. alla S. quindi al M.. 3. Con il ricorso incidentale, il C. censura, sotto il profilo dell’insufficienza e contraddittorietà della motivazione, la conferma da parte della Corte della statuizione (negativa per il ricorrente) sulle spese del giudizio di primo grado, nono‑ stante l’accoglimento del gravame da lui proposto e la con‑ danna delle controparti al rimborso in suo favore delle spese del giudizio di secondo grado. 4. Le doglianze espresse con i ricorsi principali, attesa la loro connessione, possono essere esaminate congiuntamente, e meritano accoglimento, nei limiti delle considerazioni che seguono. 4.1. Invero, il tema su cui focalizzare l’attenzione non at‑ tiene alla pacifica distinzione tra i motivi soggettivi, o inten‑ dimenti particolari che ciascuna parte si propone di realizza‑ re, e la causa quale obiettiva funzione economico – sociale del contratto. Posto che l’indagine su tale elemento essenziale del contratto va svolta non “in astratto” ma “in concreto”, onde verificare – secondo il disposto degli artt. 1343 e 1344 cc – la conformità a legge dell’attività negoziale posta in essere dalle parti e quindi la riconoscibilità nella specie della tutela appre‑ stata dall’ordinamento giuridico (cfr. ex multis Sez. 1 n. 1898/2000; Sez. 3 n. 5324/03; Sez. 1 n. 3646/09), una siffatta indagine in ordine alla funzione obiettiva del negozio posto in essere non può prescindere dall’apprezzamento degli interessi che lo stesso è destinato a realizzare, quali emergono dalle circostanze obiettive (pregresse, coeve e successive alla sua conclusione) secondo la valutazione, riservata al giudice del merito, del materiale probatorio acquisito. E, ove da tale indagine risulti che le parti abbiano utilizzato un determina‑ to modello negoziale per realizzare una funzione obiettiva che sia non solo diversa da quella per la quale tale strumento giuridico è previsto dalla legge ma anche in contrasto con norme imperative (ciò che caratterizza l’illiceità della causa), il giudice deve negare al negozio posto in essere dalle parti la tutela apprestata dall’ordinamento. 4.2. Tuttavia in tale prospettiva – nella quale sembra muoversi la Corte milanese – riveste rilevanza decisiva la chiara indicazione delle norme imperative la cui violazione risulti perseguita nel contratto in esame: ed è su questo punto che la motivazione della sentenza impugnata si mostra caren‑ te, atteso che in essa è dato solo rinvenire alcuni generici ri‑ ferimenti del tutto inidonei a sostenere la conclusione cui la Corte è giunta. Ciò vale, in primo luogo, per il riferimento alla violazione F O R E N S E m a r z o • a p r i l e (che sarebbe realizzata dalla appropriazione da parte del M. della partecipazione in C.) degli obblighi, gravanti sugli am‑ ministratori delle società di capitali, di conservazione del pa‑ trimonio sociale, violazione che è piuttosto fonte di responsa‑ bilità a carico degli amministratori, per la quale la legge ap‑ presta in favore dei soggetti titolari degli interessi lesi mezzi tipici di reazione. Analogamente, deve ritenersi inidoneo ad individuare una violazione di norma imperativa la elusione della norma che vieta al rappresentante di acquistare beni del rappresentato, atteso che anche per tale condotta in conflitto di interessi l’ordinamento appresta in favore del rappresentato uno specifico rimedio, costituito dall’azione di annullamento del contratto concluso dal rappresentante. Quanto, poi, alla evidenziata deviazione dalla funzione di garanzia propria del pegno, con attribuzione a tale negozio della diversa funzione di strumento di acquisizione diretta da parte del creditore della proprietà del bene dato in garanzia, va osservato che, ove in tal modo si intendesse far riferimento alla violazione del 2 0 1 3 49 divieto del patto commissorio previsto dall’art 2744 cc, tale riferimento sarebbe nella specie inappropriato, attesa la spe‑ cifica clausola del contratto che, contrariamente all’automati‑ smo traslativo che caratterizza il patto commissorio, prevede‑ va il ricorso al giudice (del quale la S. si è per l’appunto avval‑ sa) per l’assegnazione al creditore del bene dato in garanzia. 4.3. In definitiva, l’impianto motivazionale sulla illiceità della causa concreta perseguita con il negozio in esame risul‑ ta vulnerato dal difetto di una chiara e specifica individua‑ zione ed esplicazione circa l’elemento decisivo costituito dal contrasto tra lo scopo obiettivamente perseguito con il nego‑ zio in esame ed il disposto di norme imperative. La cassazio‑ ne sul punto della sentenza impugnata si impone dunque (restando assorbito il ricorso incidentale), con il rinvio della causa alla Corte territoriale, la quale provvederà anche a re‑ golare le spese di questo giudizio di cassazione. (Omissis) civile Gazzetta 50 D i r i t t o e p r o c e d u r a In evidenza CORTE D’APPELLO DI ROMA, SEZ. I, sentenza n. 383/2013 Termine di prescrizione del danno derivante da trasfusione di sangue infetto – Prescrizione quinquennale – Decorrenza dalla notifica del verbale CMO – Sussistenza In caso di trasfusione di sangue infetto, il termine prescri‑ zionale per la proposizione dell’azione risarcitoria decorre dalla notifica del verbale CMO e non dalla domanda volta all’ottenimento della legge 210/90, in ragione del fatto che solo all’esito della visita presso la commissione medica ospe‑ daliera il danneggiato è posto nella piena consapevolezza della malattia e relativo nesso causale trasfusione‑contagio malattia.[1] App. Roma, sez. I, sent. N. 383/2013 (Omissis) Svolgimento del processo I signori (Omissis) convennero in giudizio dinanzi al Tri‑ bunale di Roma il Ministero della Salute con la citazione notificata il 20.4.2004, chiedendone la condanna al risarci‑ mento del danno in proprio, rispettivo, favore, previa affer‑ mazione della responsabilità del convenuto per l’infezione da virus dell’epatite C contratta dal sig. (Omissis) a seguito di somministrazioni di sangue infetto. Esposero gli attori che quest’ultimo, nel dicembre 1981, era stato ricoverato presso la clinica pediatrica dell’Ospedale di Torino per “leucoencefalite acuta virale” e che durante il ricovero aveva ricevuto trasfusioni di sangue e plasma intero. Nota redazionale a cura di Gaetano Scuotto (Avvocato) (1) La sentenza in oggetto si inserisce nel vivace dibattito in cui sono da anni coinvolti gli operatori del diritto, riguardante il dies a quo della prescrizione nelle ipotesi di azioni risarcitorie derivante da somministrazione di sangue infetto. La problematica riguarda sia spetti di carattere giuridico che medico scienti‑ fico. In relazione a quest’ultimo le difficoltà derivano dal fatto che l’HCV è una malattia silente, vale a dire che tra la contrazione e la manifestazione chiara, palese, sintomatologica, i tempi possono variare da soggetto a sog‑ getto in relazione alla carica virulenta del virus. In questo difficile meccanismo si inserisce la questione giuridica. La suprema Corte di Cassazione con Sen‑ tenza a Sezioni Unite del 2008 n. 576 arretrava il dies a quo al momento della domanda “amministrativa” volta all’ottenimento dei benefici previsti dalla L. 210/90, muovendo dal presupposto che il danneggiato per richiede‑ re il benefici assistenziali aveva già piena conoscenza e consapevolezza della sussistenza del nesso causale trasfusione‑contagio malattia “…il diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto tali patologie per fatto doloso o colposo di un terzo è soggetto al termine di prescrizione quinquennale che decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947, primo comma, cod. civ., non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, bensì da quello in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l’ordinaria diligen‑ za e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche (a tal fine coincidente non con la comunicazione del responso della Commissione me‑ dica ospedaliera di cui all’art. 4 della legge n. 210 del 1992, bensì con la proposizione della relativa domanda amministrativa” (Cassa con rinvio Appello Napoli, 5 Aprile 2002)”(Cass. Civ. Sez. Unite Sent. 11.01.2008, n. 576). La Corte di Appello di Roma, invece, riprende un vecchio orienta‑ mento del Tribunale capitolino che già nel 2003 in argomento affermava “Posto che il giorno della verificazione del fatto illecito quale dies a quo della prescrizione del diritto al risarcimento del danno s’identifica con quello in cui la condotta illecita ha inciso nella sfera giuridica del danneggiato con effetti esteriorizzati e conoscibili, nel senso che la persona abbia avuto reale e concreta consapevolezza dell’esistenza e della gravità del danno, la prescri‑ zione del diritto al risarcimento del danno conseguente al contagio da Hcv c i v i l e Gazzetta F O R E N S E In seguito, esami clinici avevano fatto emergere aumento di transaminasi, sinché, nel 1991, gli era stata diagnosticata l’epatite “C”, da porsi in relazione causale con le trasfusioni ricevute. Il plasma, secondo gli attori, non era stato controllato dal Ministero, che aveva consentito l’utilizzazione di plasma in‑ fetto. Il Ministero della Salute, costituendosi in giudizio dinan‑ zi al Tribunale, ha eccepito – per quanto rileva nel presente giudizio d’appello – il proprio difetto di legittimazione passi‑ va e l’avvenuto decorso del termine prescrizionale. Nel merito, ha contestato la domanda. La causa è stata istruita con documenti con conferenti e con c.t.u. medico‑legale sulla persona degli attori. Con la sentenza impugnata il Tribunale ha riconosciuto il Ministero legittimato passivo, poiché dalla domanda si traeva che era censurata la sua condotta omissiva delle prescrizioni delle regole adeguate a tutela della salute pubblica, venendo meno ai doveri di vigilanza e regolamentazione che la legge imponeva in capo ad esso. La ricostruzione del contesto legislativo operata dal Giu‑ dice consentiva invece di riconoscere in capo al convenuto un preciso dovere di vigilanza e controllo in materia di raccolta, preparazione e conservazione del sangue umano destinato alle trasfusioni. Il Tribunale ha inoltre respinto l’eccezione di prescrizione, poiché, applicata quella decennale di cui all’art. 2947 III comma c.c., essa non era maturata al tempo della citazione, dovendo la prescrizione decorrere dal 1995, tempo in cui era stata inoltrata la richiesta dell’indennizzo previsto dalla legge del 1992 n. 210. Nel merito il Giudice ha accolto la domanda, condannan‑ da parte di un soggetto, che assuma di essere stato contagiato in occasione di una trasfusione, prende a decorrere dal giorno in cui quest’ultimo ha ricevu‑ to notizia, da parte delle commissioni mediche ospedaliere di cui alla l. 210/92, della certificazione relativa all’esistenza del nesso causale tra le trasfusioni o la somministrazione di emoderivati ed il contagio, non rilevando a tal fine, in mancanza di prova contraria, la circostanza che, anteriormente a tale certificazione, il soggetto sia venuto a conoscenza di aver contratto il virus in esito ad accertamenti laboratoristici” (Trib. civ. Roma, sent. 08.01.2003). Le conclusioni a cui sono giunti prima il Tribunale di Roma, poi la Corte di Appello, trovano conferma nella incognita che pone il giudizio medico della commissione ospedaliera all’esito del quale il portatore del virus potrebbe anche non essere ritenuto idoneo a beneficiare dell’indennizzo previsto dalla L. 210/90 in quanto non sussistente il nesso causale. La sentenza in commento ci conduce anche ad un altro tipo di ragionamento: il nesso causale richiesto ai fini indennitari (L. 210/90) è, o meglio dovrebbe essere valido, anche per la successiva azione risarcitoria. In questa ottica troverebbe ingresso la c.d. exceptio interruptae praescrizionis. L’eccezione di prescrizione è considerata, infatti, eccezione in senso stretto, mentre quella di interruzione della prescrizione è considerata in senso lato. La “exceptio interruptae praescrizionis”, è stata rivisitata dalla Corte di Cassazione con Sentenza a Sezioni Unite del 27 luglio 2005, n. 15661, la quale definisce la eccezione di interruzione della prescrizione come eccezione in senso lato, e pertanto rilevabile d’ufficio dal giudice, in qualunque stato e grado del giu‑ dizio, sulla base della documentazione e delle prove ritualmente allegate al processo. L’interruzione della prescrizione pone altresì il suo fondamento anche nell’art. 2944 CC “La prescrizione è interrotta dal riconoscimento del diritto da parte di colui contro il quale il diritto stesso può essere fatto valere”. Per sollevare l’eccezione di interruzione della prescrizione è essenziale che nel riconoscimento su cui essa si fonda, sussistano contestualmente i requisiti della volontarietà, consapevolezza, inequivocità ed esternazione (Cass., sez. I, 16 giugno 2000, n. 8248). Tutti gli atti e/o fatti posti in essere per l’otteni‑ mento del riconoscimento nesso causale trasfusioni praticate – contagio malattia, valgono come atti interruttivi della prescrizione come la visita presso la CMO, giusta convocazione proveniente dal Ministero per il trami‑ te della ASL (ecco così concretizzati, ai fini della interruzione della prescri‑ zione, i requisiti della volontarietà, consapevolezza, inequivocità ed esterna‑ zione) e successivamente la notifica del verbale CMO. F O R E N S E m a r z o • a p r i l e do il ministero al pagamento in favore dell’attore (omissis) della somma di euro 726.223,50 oltre interessi come indicati in sentenza; in favore di (omissis) dell’attrice della somma di euro 60. 518,62 ciascuno, oltre interessi come indicati in sentenza ed oltre spese processuali. L’importo è stato riconosciuto a titolo di risarcimento del danno permanente all’integrità psico‑fisica e di danno mora‑ le per (omissis) a titolo di solo risarcimento del danno mora‑ le in favore degli altri attori, suoi genitori. Con atto di citazione notificato il 15.6.2007 il Ministero della Salute ha proposto appello avverso questa sentenza, insistendo nella eccezione di carenza di legittimazione passiva; di prescrizione del diritto vantato dagli attori; nonché chie‑ dendo il rigetto della domanda proposta da questi ultimi. In subordine, ha chiesto la riforma della sentenza impu‑ gnata nella parte in cui aveva riconosciuto il danno morale. I motivi saranno esaminati nella motivazione della presen‑ te sentenza. Tutti gli appellanti si sono tempestivamente costituiti di‑ nanzi a questa Corte e il 26.11.2007 (rispetto alla prima udienza indicata in citazione nel 18.12.2007), chiedendo re‑ spingersi l’appello. Quale appello incidentale, hanno censurato a propria volta la sentenza, chiedendo che fosse riconosciuto il danno patrimoniale ed esistenziale in favore di (omissis), che fosse riconosciuto il danno biologico, esistenziale e patrimoniale in favore della sig.ra. (omissis) ed il danno esistenziale in favore di (omissis). Anche i motivi dell’appello incidentale saranno esaminati nella motivazione della presente sentenza. All’udienza collegiale del 22.5. 2012 la causa è stata riser‑ vata in decisione. Motivi della decisione 1. L’amministrazione impugnante ha sostenuto di essere estranea alla materiale esecuzione della trasfusione, poiché i compiti amministrativi in tema di salute erano stati trasferiti alle regioni con il d.lgs. n. 112/1998, contrariamente a quan‑ to ritenuto nella sentenza impugnata. Il motivo, ad avviso della Corte, è infondato. La Corte di Cassazione a sezioni unite, proprio con rife‑ rimento alla raccolta, preparazione, conservazione e distribu‑ zione del sangue umano destinato a scopi terapeutici, ha af‑ frontato il tema dell’omesso o negligente o errato esercizio da parte del Ministero della salute dei compiti ad esso attribuiti dalla legge ed ha enunciato i seguenti principi di diritto: “La L. n. 592 del 1967, (art. 1) attribuisce al Ministero le diret‑ tive tecniche per l’organizzazione, il funzionamento ed il coordinamento dei servizi inerenti alla raccolta, preparazio‑ ne, conservazione, e distribuzione della sangue umano per uso trasfusionale, alla preparazione dei suoi derivati e ne esercita la vigilanza, nonché (art. 21) il compito di autoriz‑ zare l’importazione e l’esportazione di sangue umano e dei suoi derivati per uso terapeutico. Il D.P.R. n. 1256 del 1971, contiene norme di dettaglio che confermano nel Ministero la funzione di controllo e vigilanza in materia (artt. 2, 3, 103,112). La L. n. 519 del 1973, attribuisce all’Istituto superiore di sanità compiti attivi a tutela della salute pubblica. La L. 23 dicembre 1978, n. 833, che ha istituito il Servizio 2 0 1 3 51 sanitario Nazionale conserva al Ministero della Sanità, oltre al ruolo primario nella programmazione del piano sanitario nazionale ed a compiti di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative regionali delegate in materia sanitaria, importanti funzioni in materia di produzione, sperimentazio‑ ne e commercio dei prodotti farmaceutici e degli emoderivati (art. 6 lett. b, c), mentre l’art. 4, n. 6, conferma che la raccol‑ ta, il frazionamento e la distribuzione del sangue umano co‑ stituiscono materia di interesse nazionale. Il D.L. n. 433 del 1987, stabilisce la sottoposizione dei medicinali alla c.d. “farmacosorveglianza” da parte del Mi‑ nistero della Sanità, che può stabilire le modalità di esecuzio‑ ne del monitoraggio sui farmaci a rischio ed emettere provve‑ dimenti cautelari sui prodotti in commercio. Ne consegue che, anche prima dell’entrata in vigore della L. 4 maggio 1990, n. 107, contenente la disciplina per le atti‑ vità trasfusionali e la produzione di emoderivati, deve ritener‑ si che sussistesse in materia, sulla base della legislazione vi‑ gente, un obbligo di controllo, direttiva e vigilanza in materia di sangue umano da parte del Ministero della sanità, anche strumentale alla funzione di programmazione e coordinamen‑ to in materia sanitaria. L’omissione da parte del Ministero di attività funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l’ordinamento attri‑ buisce il potere (qui concernente la tutela della salute pubbli‑ ca) lo espone a responsabilità extracontrattuale, quando, come nella fattispecie, dalla violazione del vincolo interno costituito dal dovere di vigilanza nell’interesse pubblico, il quale è strumentale ed accessorio a quel potere, siano deriva‑ te violazioni dei diritti soggettivi dei terzi… La responsabilità del Ministero della Salute per i danni conseguenti ad infezioni da HIV e da epatite, contratte da soggetti emotrasfusi per l’omessa vigilanza esercitata dall’Am‑ ministrazione sulla sostanza ematica negli interventi trasfu‑ sionali e sugli emoderivati appare inquadrabile nella viola‑ zione della clausola generale di cui all’art. 2043 c.c.” (Cass. S.U. 11 gennaio 2008, n. 576). Questa Corte condivide appieno quanto affermato dalla Corte di Cassazione. Va pertanto affermato che per i fatti narrati nell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado il Ministe‑ ro della salute è passivamente legittimato rispetto all’azione di responsabilità extracontrattuale spiegata dagli odierni appellati. 2. Con il successivo motivo, il Ministero ha eccepito l’av‑ venuta prescrizione dei diritti fatti valere, in quanto essa era quinquennale, pur volendo considerare l’illecito imputato al Ministero quale astratto fatto‑reato. Essa inoltre decorreva dal 1981, tempo della trasfusione o, al più tardi, dal 1989, tempo in cui furono approntati a test diagnostici Il motivo è, ad avviso della Corte, infondato. Dalla sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 576/2008 si traggono i principi di diritto in base ai quali giudicare la fondatezza della stessa. La S.C., proprio con riferimento alle domande di risarci‑ mento dei danni causati dall’omesso o negligente o errato esercizio da parte del Ministero della Salute dei compiti allo stesso attribuiti dalla legge in tema di raccolta, preparazione, conservazione e distribuzione del sangue umano destinato a civile Gazzetta 52 D i r i t t o e p r o c e d u r a scopi terapeutici ha enunciato i seguenti principi di diritto, che, peraltro, ribadiscono principi generali già ripetutamente espressi con riferimento ad altre materie: “Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una ma‑ lattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma dell’art. 2935 c.c., e art. 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al com‑ portamento doloso o colposo di un terzo, usando l’ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle co‑ noscenze scientifiche”. La prescrizione è quinquennale, ai sensi dell’art. 2947 I comma c.c. Nel caso di specie, a (omissis) è stata diagnosticata il 24.6.1991 la positività al virus HCV, per la prima volta; mentre il 7.9.1996 egli è stato dimesso dall’Ospedale di Ge‑ nova con la diagnosi di epatite cronica HCV correlata di modesta entità. Non vi è, ad avviso della Corte, alcun dato sicuro, ricava‑ bile dalla storia clinica del danneggiato (cfr. la c.t.u.) e nep‑ pure alcun dato scientifico certo – non indicato peraltro ne‑ anche dal Ministero – tale da convincere la Corte che il (omissis), o per meglio dire i suoi genitori (essendo egli nato nel 1978), utilizzando l’ordinaria diligenza di paziente affetto da epatite e valutando le notizie apprese dalla vasta diffusio‑ ne di conoscenze scientifiche, già a partire dal 1991 o dal 1996, cioè da quando è stata effettuata la diagnosi, avrebbe potuto porre in relazione l’epatite riscontrata con le trasfusio‑ ni ricevute circa dieci anni addietro. È evidente infatti che non può farsi riferimento alle cono‑ scenze del virus e della sua trasmissibilità quali erano in possesso della comunità scientifica internazionale e naziona‑ le (di cui si dirà in seguito) e quali invece potevano essere conosciute e comprese dall’uomo di media diligenza che, in occasione di altra patologia sofferta, sia sottoposto a trasfu‑ sioni di plasma. Nella specie, la Corte ritiene quanto segue. In base alle conoscenze scientifiche, applicate alla pecu‑ liare storia clinica e patologica di (omissis), egli ha verosimil‑ mente e più probabilmente acquisito certezza del nesso cau‑ sale tra l’epatite diagnosticata e le trasfusioni del 1981 solo nel 1998, allorché la C.M.O., adita per ottenere l’indennizzo di cui alla l. n. 210 del 1992, si è pronunciata nel senso della sussistenza di tale nesso causale. Questa Corte è ben consapevole che in precedenti senten‑ ze, al pari di quanto ritenuto dal Tribunale nella sentenza impugnata, ha ritenuto raggiunta tale consapevolezza nel momento in cui viene di norma inoltrata la domanda per il riconoscimento dell’indennizzo ex lege n. 210 del 1992; ciò che nella specie, comporterebbe la conclusione che tale con‑ sapevolezza era stata raggiunta già dal 1995, tempo della domanda. Tuttavia, la pregressa patologia sofferta dal (omissis) ed i suoi riflessi pregiudizievoli anche sulla funzionalità del fegato, a prescindere dalle trasfusioni, fanno ritenere che solo il re‑ sponso della C.M.O. abbia indotto nel danneggiato e nei suoi genitori la certezza del nesso causale tra epatite e trasfusioni. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E È bene riassumere infatti che (Omissis), a soli tre anni di età, nel dicembre 1981, è stato ricoverato presso la clinica pediatrica dell’Università di Torino per “sindrome apallica in leucoencefalite virale acuta”, in stato di coma ed in gravi condizioni generali. Nei giorni successivi le transaminasi sono aumentate ed il paziente ha mostrato anche insufficienza epatica ed anemia, tanto è vero che anche dopo le dimissioni egli ha assunto, tra gli altri, il farmaco Thiola, a causa della pregressa sofferenza epatica. Il trattamento con emoderivati vari, ha osservato il c.t.u., si era reso necessario anche per far fronte alla “gravissima compromissione della funzionalità epatica”, all’incapacità del fegato di produrre le sostanze proteiche necessarie alla coa‑ gulazione del sangue ed a depurare il sangue dai metabolici tossici. Sebbene sia la C.M.O., sia il c.t.u. hanno concluso, in modo concorde, nel senso che l’epatite cronica contratta sia dipesa dalle trasfusioni, mentre la sofferenza epatica manife‑ statasi durante il primo ricovero è stata verosimilmente dovu‑ ta allo stesso virus che ha provocato la leucoencefalite, vi è da osservare che la stessa certezza scientifica, in un quadro di pregressa sofferenza epatica in occasione della leucoencefali‑ te, non può all’evidenza attribuirsi anche al (omissis) ed ai suoi genitori, i quali potevano attribuire alla malattia mani‑ festatasi nel 1981 anche la probabile fonte dell’epatite in se‑ guito riscontrata. In tale quadro, l’aver proposto, nell’anno 1995, domanda per il riconoscimento dell’indennizzo ai sensi della l. n. 210 del 1992, non può automaticamente interpretarsi quale cono‑ scenza certa, acquisita ed indubbia, del nesso causale tra epatite e trasfusioni. L’indennizzo, che ha natura giuridica diversa rispetto al risarcimento del danno, ben può essere stato richiesto quale misura solidaristica ed indennitaria di sostegno, non essendo necessario allegare la conoscenza di tutti gli elementi dell’il‑ lecito lamentato ed in particolare del nesso causale tra le trasfusioni e l’epatite C. Se quindi, di norma è sostenibile che la proposizione del‑ la domanda colta al riconoscimento del suddetto indennizzo comporta conoscenza o conoscibilità, in capo al danneggiato, del nesso causale tra l’epatite e la pregressa trasfusione; nel caso di specie è legittimo dubitare che il danneggiato avesse la piena consapevolezza di ciò, ben potendo ritenere solo la mera possibilità di tale nesso causale, bastevole per la doman‑ da di indennizzo, ma insufficiente per intraprendere un’azio‑ ne giudiziaria fondata sull’art. 2043 c.c. e, quindi sul ben più gravoso onere della prova a carico del danneggiato circa l’esi‑ stenza del nesso causale tra le trasfusioni e l’epatite C. Invece, deve concludersi che solo con il responso della C.M.O. (assunto peraltro non all’unanimità, ma con il dis‑ senso del Presidente, dott. (Omissis), il che denota ancor più la oggettiva difficoltà, per l’uomo di media diligenza, di ac‑ quisire informazioni certe sul nesso causale, nella specie, tra epatite C e trasfusioni, prima di intraprendere un’azione giu‑ diziaria), il (Omissis) abbia acquisito siffatta chiara contezza dell’esistenza del nesso causale tra epatite C e trasfusioni e che, quindi, solo da tale responso, emesso il 14.11.1998, sia stato nelle condizioni di esercitare il diritto al risarcimento del danno. F O R E N S E m a r z o • a p r i l e Anche la Corte di Cassazone, nella sentenza n. 576/2008, ha osservato, a tal proposito: “occorre che il giudice proceda ad un’accurata disamina, puntualmente motivata, per sot‑ trarsi al sindacato di legittimità, della diligenza che ha con‑ trassegnato l’atteggiamento della vittima a fronte della sua sofferenza, ovvero alla verifica, avuto riguardo alle partico‑ larità della fattispecie, della diligenza impiegata dalla vittima nell’accedere alle informazioni necessarie per risalire alla malattia esteriorizzatasi, alle sue cause e, infine, al respon‑ sabile del danno”. Alla luce di quanto sin qui osservato, deve considerarsi che solo dal 1998 è iniziata la decorrenza della prescrizione, ai sensi dell’art.2947 c.c. La prescrizione è stata interrotta nel 2002, con la lettera di diffida del 20.6.2002. Essa risulta prodotta, visto l’indice degli atti in calce alla citazione in primo grado, il cui contenuto è incontestato tra le parti. Pertanto, essendo la citazione notificata nel 2004, la pre‑ scrizione quinquennale non si è maturata. 3. Con il successivo motivo il Ministero ha censurato la sentenza, con lunghe argomentazioni che possono così rias‑ sumersi: a) in base alle ancor scarse conoscenze scientifiche dell’epoca era sostanzialmente inesigibile una condotta del Ministero volta concretamente ad impedire la trasmissione di patologie quali l’epatite attraverso il plasma; b) il Ministero aveva sempre adempiuto tempestivamente ai propri doveri e rispettato le normative in vigore, così da svolgere correttamente le proprie attività di controllo e vigi‑ lanza sull’attività sanitaria, che non poteva qualificarsi quale controllo minuzioso su ciascuna singola attività sanitaria; c) erroneamente era stato riconosciuto il nesso causale tra la trasfusione e l’epatite. Deve essere qui ricordato che in tema di plasma umano e derivati, fu emanato il D.M. 18 giugno 1971, contenente di‑ rettive tecniche per la determinazione dei requisiti, fra gli altri, del sangue umano e dei suoi derivati, il decreto del Pre‑ sidente della Repubblica 24 agosto 1971, n. 1256, recante il regolamento di esecuzione della l. n. 592/67 (le norme del titolo III, artt. 44 e ss., riguardano specificamente la raccolta, la distribuzione e la conservazione del sangue); nonché il D.M. 15 settembre 1972, relativo alle modalità di importazione e di esportazione del sangue, che subordina l’autorizzazione all’importazione all’accertamento della sussistenza, nel san‑ gue, degli stessi requisiti stabiliti dal D.P.R. n. 1256/71 (art. 1). Soltanto con D.M. 21 luglio 1990 furono però imposte, su ogni singola unità di sangue e di plasma donato, la ricerca degli anticorpi HCV (virus dell’epatite C) e la determinazione del livello di ALT (enzima capace di rivelare patologie epati‑ che). È notorio che il test per l’individuazione del virus dell’epa‑ tite C venne messo a punto nel 1989, mentre l’anno preceden‑ te era stato perfezionato il trattamento per la sua innocuizza‑ zione (cd. Termotrattamento). Ciò tuttavia non comporta alcun esonero del Ministero da responsabilità. Gli studi scientifici (già esaminati da questa Corte in precedenti pronunce, tra cui quella (Omissis) c/ Ministero 2 0 1 3 53 della Salute, decisa nella camera di consiglio del 7.12.2010) consentono di concludere che dal 1965, anno in cui è citata una prima pubblicazione sull’epatite post‑trasfusionale, sino al 1983 erano stati pubblicati 52 articoli scientifici sull’argo‑ mento. In particolare l’ipotesi che virus diversi da quelli conosciu‑ ti potessero determinare l’epatite post‑trasfusionale era stata avanzata nel 1974 da Prince ed al., ponendo la diagnosi di epatite non A non B, per esclusione. Le epatiti post trasfusionali erano note in Italia non solo agli studiosi, ma anche agli operatori sanitari del settore: il 14.10.1967 il Medico Provinciale di Firenze con lettera prot. n. 5482 aveva invitato il Centro per la trasfusione del sangue Arcispedale S.M. Nuova Firenze ad attenersi alle disposizioni emanate dal Ministero della Salute con circolare n. 50 del 28.3.1966 “in cui si vietava l’uso di sangue umano per trasfu‑ sione da soggetti con transaminasi GOT superiori a 40 unità internazionali e GPT superiore a 30 unità internazionali, nel fondato sospetto che il donatore potesse essere portatore di virus epatitico”. Invero, questa Corte ha ritenuto, in precedenti sentenze, che costituisse fatto notorio la circostanza per cui già dalla metà degli anni ‘70 si era acquisita – nella comunità scienti‑ fica – consapevolezza dell’esistenza di un tipo di epatite non identificabile con quelli fino ad allora conosciuti (A e B), tanto che veniva genericamente individuata come epatite non A – non B (NANB): si trattava di casi di ipotizzata epatite A, perché privi dell’antigene dell’epatite di tipo B, ma che non presentavano, però, neppure i marcatori propri dell’epatite A. Gli studi scientifici in materia hanno posto in luce che l’infezione HCV è responsabile della maggioranza dei casi (oltre l’80%) di epatite NANB post‑trasfusionale e non post‑trasfusionale. Con riguardo alla trasmissione delle infezioni virali per via parenterale, cioè attraverso lo scambio di sangue infetto, la consapevolezza era acquisita già fin dall’inizio degli anni ‘70, tanto vero che il D.P.R. n. 1256/71 espressamente esclu‑ de dalla donazione il soggetto che “sottoposto a visita medi‑ ca generale, risulti…affetto da epatite virale” (art. 46, lett. a) e prevede la non ammissione temporanea alla donazione del soggetto che “negli ultimi sei mesi abbia(no) ricevuto una trasfusione di sangue, plasma, fibrinogeno o altri derivati che possono trasmettere l’epatite” (art. 47, lett. g) ovvero abbia avuto “negli ultimi sei mesi…contatti con epatici” (art. 47, lett. h); risulta, inoltre, che controlli sul sangue o sul plasma prelevato furono imposti, anche se con ingiustificato ritardo, con la circolare ministeriale 24 luglio 1978 n. 68, che rese obbligatoria la ricerca dell’antigene dell’epatite B. Né va dimenticato che la determinazione dell’enzima ALT (alanina transaminasi) costituiva idoneo metodo di rilevazio‑ ne, sia pure indiretta, di infezioni da virus, essendo noto che questo enzima si presenta alterato, con valori superiori alla media, nei soggetti con patologie epatiche; della sua ricerca fu proposta l’introduzione già nel 1974 al fine di escludere dalla donazione coloro i cui valori erano alterati, a il metodo fu reso obbligatorio solo con il D.M. del 1990 cit. È certo poi che controlli del genere di quelli appena indi‑ cati, tanto sul sangue quanto sui donatori, furono completa‑ mente omessi sul sangue di importazione (attesa la assoluta civile Gazzetta 54 D i r i t t o e p r o c e d u r a carenza dei quantitativi raccolti in Italia e il ritardo nell’ese‑ cuzione del c.d. piano nazionale del sangue, volto al raggiun‑ gimento dell’autosufficienza nazionale), proveniente anche da aree geografiche, come l’America e l’Africa, ove notoriamen‑ te alto era il rischio di infezioni. Ed infatti il Ministero si limitò ad un mero controllo sui documenti che accompagnavano le varie partite di sangue e di derivati acquisite dall’estero (cfr., in proposito, Trib. Roma 27 novembre 1998, in Foro italiano, 1999, I, 313, spec. C. 328, il quale ha sottolineato l’omissione colpevole del Mini‑ stero per mancato controllo e mancato ritiro degli emoderi‑ vati non trattati al calore anti‑virucidico), così venendo meno al suo compito istituzionale di vigilanza. In sostanza, ben prima dell’individuazione del metodo di rilevazione del virus dell’epatite C o dell’introduzione di effi‑ caci sistemi per il suo annientamento (peraltro va ricordato che il termotrattamento non può essere praticato sul sangue intero, perché ne distrugge la parte corpuscolata, ma solo sui derivati), le conoscenze scientifiche raggiunte erano tali da consentire l’adozione di specifiche cautele, sulla scelta dei donatori e sul sangue prelevato, capaci di ridurre in misura assai apprezzabile il rischio di contagio da trasfusione. Tali cautele vennero invece omesse per moltissimi anni: sia perché la loro adozione fu imposta dal Ministero con colpevole ritardo, sia perché non venne posta in essere un’ade‑ guata azione di vigilanza sul rispetto delle disposizioni ema‑ nate (compito certamente compreso fra quelli istituzionali: art 1, comma primo, n. 4 l. n. 296/58). Dunque, ben avrebbe potuto il Ministero, almeno dai primi anni ‘70 (ma va ricordata ancora la circolare dello stesso Ministero n. 50 del 28.3.1966, già richiamata) dispor‑ re l’effettuazione da parte degli operatori del settore di rigo‑ rosi controlli sui donatori e sul sangue raccolto ed assicurarsi che tali controlli fossero concretamente eseguiti, per impedi‑ re che soggetti affetti dal virus dell’epatite C fossero ammes‑ si alla donazione ovvero che sangue infettato da quel virus venisse reso disponibile per le trasfusioni. D’altro canto, sull’argomento, è chiara l’osservazione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 576 del 2008: Dai principi sopra esposti in tema di nesso causale da comportamento omissivo, emerge anche il criterio per la delimitazione temporale della responsabilità del Ministero. Questa Corte, con sentenza 31/05/2005, n. 11609, osserva‑ va che, finché non erano conosciuti dalla scienza medica mondiale, i virus della HIV, HBC ed HCV, proprio perché l’evento infettivo da detti virus era già astrattamente invero‑ simile, in quanto addirittura anche astrattamente sconosciu‑ to, mancava il nesso causale tra la condotta omissiva del Ministero e l’evento lesivo, in quanto all’interno delle serie causali non poteva darsi rilievo che a quelle soltanto che, nel momento in cui si produsse l’omissione causante e non suc‑ cessivamente, non apparivano del tutto inverosimili, tenuto conto della norma comportamentale o giuridica, che impo‑ neva l’attività omessa. La corte di legittimità, quindi, rite‑ neva esente da vizi logici la sentenza della Corte di appello, che aveva ritenuto di delimitare la responsabilità del Mini‑ stero a decorrere dal 1978 per l’ HBC (epatite B), dal 1985 per l’HIV e dal 1988 per l’HCV (epatite C), poiché solo in tali rispettive date erano stati riconosciuti dalla scienza c i v i l e Gazzetta F O R E N S E mondiale rispettivamente i virus ed i tests di identificazio‑ ne. 7.2. Ritengono, invece, queste S.U. (in conformità a quanto ritenuto da una parte della giurisprudenza di merito e della dottrina) che non lo sussistono tre eventi lesivi, come se si trattasse di tre serie causali autonomi ed indipendenti, ma di un unico evento lesivo, cioè la lesione dell’integrità fisica (essenzialmente della fegato), per cui unico è il nesso causale: trasfusione con sangue infetto – contagio infetti‑ vo – lesione dell’integrità. Pertanto già a partire dalla data di conoscenza dell’epatite B (la cui individuazione, costituendo un accertamento fattuale, rientra nell’esclusiva competenza del Giudice di merito) sussiste la responsabilità del Ministe‑ ro anche per il contagio degli altri due virus, che non costi‑ tuiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di mani‑ festazioni patogene dello stesso evento lesivo dell’integrità fisica da virus veicolati dal sangue infetto, che il Ministero non aveva controllato, come pure era obbligato per legge. Non può, invece, ritenessi la responsabilità del Ministero a norma dell’arte. 1225 c.c., per cui il responsabile risponde anche dei danni imprevedibili. Infatti tale norma attiene, secondo la condivisibile dottrina prevalente, non al nesso di causalità materiale, ma a quella giuridica, relativa alla valu‑ tazione e determinazione dei danni.” Stabilito che il Ministero è venuto meno, con colpa, ai doveri su di esso incombenti, occorre ora esaminare la dedu‑ zione per cui non vi sarebbe nesso causale tra la predetta violazione e la malattia contratta dall’odierno appellato. Il motivo, sul punto, non è fondato. La verifica della sussistenza del nesso causale va condotta sulla base dei principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza sopra citata, la qua‑ le, come già detto, riguarda proprio un caso di infezione epatica (HIV, anziché HCV, ma la sostanza non cambia) che si assume essere stata contratta proprio in conseguenza dell’as‑ sunzione di farmaci emoderivati. Afferma la Suprema corte che nel processo civile “vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l’identità di tali standards delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale (in questo senso vedasi: la recentissima Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; Cass. 5.9.2006, n. 19047; Cass. 4.3.2004, n. 4400; Cass. 21.1.2000 n. 632). Anche la Corte di Giustizia CE è indirizzata ad accertare che la causalità non possa che poggiar‑ si su logiche di tipo probabilistico (CGCE, 13/07/2006, n. 295, ha ritenuto sussistere la violazione delle norme sulla concor‑ renza in danno del consumatore se “appaia sufficientemente probabile” che l’intesa tra compagnie assicurative possa avere un’influenza sulla vendita delle polizze della detta assicurazio‑ ne; Corte giustizia CE, 15/02/2005, n. 12, sempre in tema di tutela della concorrenza, ha ritenuto che “occorre postulare le varie concatenazioni di causa – effetto, al fine di accogliere quelle maggiormente probabili”). Detto standard di “certezza probabilistica” in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determi‑ nazione quantitativa – statistica delle frequenze di classi di F O R E N S E m a r z o • a p r i l e eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che po‑ trebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verifica‑ to riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concre‑ to (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema gene‑ rale della probabilità come relazione logica va determinata l’attendibilità delle ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosas‑ soni). 5.11. Le considerazioni sopra esposte, maturate in rela‑ zione alla problematica del nesso di causalità, portano a denunciare il seguente principio di diritto della decisione del caso concreto, attinenti alla responsabilità del Ministero della Sanità (oggi della Salute), da omessa vigilanza: “Premesso che sul Ministero gravava un obbligo di con‑ trollo, direttive e vigilanza in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati) anche strumentale alle funzioni di programma‑ zione e coordinamento in materia sanitaria, affinché fosse utilizzato sangue non infetto e proveniente da donatori con‑ formi agli standards di esclusione di rischi, il Giudice, accer‑ tata l’omissione di tale attività, accertata, altresì, con riferi‑ mento all’epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazio‑ ne di virus attraverso sangue infetto ed accettata – infi‑ ne – l’esistenza di una patologia da virus HIV o HBV O HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ri‑ tenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissio‑ ne sia stata causa dell’insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la verificazione dell’evento”. 6. Ne consegue che nella fattispecie va rigettata la prima censura del primo e del secondo motivo di ricorso attinente alla natura della responsabilità del Ministero, come respon‑ sabilità da attività pericolosa o come responsabilità contrat‑ tuale, mentre va accolta la seconda censura, relativa alla ri‑ tenuta mancata sussistenza del nesso causale. Poiché il Ministero aveva obblighi di farmaco sorveglian‑ za in materia di produzione, commercializzazione e consumo di sangue umano e dei suoi derivati, sull’intero territorio nazionale, avendo ritenuto il Giudice di appello che il conta‑ gio da HIV sia dovuto ad una trasfusione di sangue infetto, è irrilevante, ai fini della responsabilità del Ministero se tali trattamenti sanitari siano avvenuti presso strutture della Usl 42 di Napoli o presso altre strutture nazionali. In questi termini, quindi, è irrilevante la censura del ricorrente, secon‑ do cui la corte di merito non avrebbe conferito valore proba‑ torio all’accertamento della Commissione medica ospedalie‑ ra, che aveva riconosciuto tale nesso eziologico con le trasfu‑ sioni effettuate presso l’ospedale Nuovo Pellegrini. Il Giudi‑ ce di rinvio in applicazione dei suddetti principi di diritto dovrà valutare se esista nesso eziologico tra il comportamen‑ to omissivo di controllo e vigilanza sul sangue utilizzato per emotrasfusioni o emoderivati e la patologia infettiva, ripor‑ tata dall’attore a seguito della sottoposizione a tali trattamen‑ ti sanitari.” Peraltro, sull’esistenza del nesso causale si sono pronun‑ ciati, in modo concorde, sia la C.M.O., sia il c.t.u. In ordine alla questione dei controlli rimessi al Ministero 2 0 1 3 55 sulla materia, anch’essi fatti oggetto del motivo di appello in esame, si osserva quanto segue. È vero che i compiti nel tempo affidati al Ministero hanno sempre avuto carattere generale e sono consistiti nell’impar‑ tire direttive a carattere generale alle quali tutti i soggetti, a qualunque titolo impegnati nel settore sanitario erano obbli‑ gati ad attenersi. Non si vede, però, anche alla luce della lettura delle dispo‑ sizioni legislative elencate nella sentenza della Corte di legit‑ timità sopra citata, come tale caratteristica delle attribuzioni del Ministero sia compatibile con l’omessa rilevazione di un problema grave, noto e diffuso (e, quindi, a carattere genera‑ le) e con l’omessa emanazione di direttive a carattere genera‑ le, dirette a rendere obbligatoria per tutti i soggetti operanti nel settore l’adozione dei protocolli sanitari messi a punto dalla scienza medica prima per risolvere questo problema o, almeno, per attenuarne la gravità. Del resto anche per quanto riguarda questo argomento vale quanto affermato dalle Sezioni Unite della Corte di cas‑ sazione nella sentenza sopra citata: “ne consegue che, anche prima dell’entrata in vigore della L. 4 maggio 1990, n. 107, contenente la disciplina delle attività trasfusionali e la pro‑ duzione di emoderivati, deve ritenersi che sussistesse in ma‑ teria, sulla base della legislazione vigente, un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di sangue umano da parte del Ministero della sanità, anche strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria. L’omissione da parte del Ministero di attività funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l’ordinamento at‑ tribuisce il potere (qui concernente la tutela della salute pubblica) lo espone a responsabilità extracontrattuale, quan‑ do, come nella fattispecie, dalla violazione del vincolo inter‑ no costituito dal dovere di vigilanza nell’interesse pubblico, il quale è strumentale ed accessorio a quel potere, siano de‑ rivati violazioni dei diritti soggettivi dei terzi…”. In altre parole, la S.C. ha chiaramente esposto che il Mi‑ nistero era obbligato per legge ad eseguire i controlli su de‑ scritti. Ebbene, quello che si imputa al Ministero è proprio man‑ cato assolvimento di tale controllo. L’esame nel merito della condotta del Ministero, su esposto, conduce ad affermare che lo stesso non ha svolto con la dovuta tempestività, diligenza e competenza i doveri di controllo e vigilanza posti a suo carico dalla legge. 4. Con il successivo motivo di impugnazione si è censura‑ to il capo di sentenza che ha liquidato il danno morale, in assenza di alcun fatto‑reato. Il motivo è infondato. L’evoluzione conosciuta dalla giurisprudenza di legittimi‑ tà, anche a seguito di alcune pronunce della Corte Costitu‑ zionale, ha recentemente condotto ad escludere che l’astratta configurabilità di un reato sia un presupposto indispensabile per la risarcibilità del danno non patrimoniale: “L’onore e la reputazione, la quale si identifica con il senso della dignità personale in conformità all’opinione di gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico, costi‑ tuiscono diritti della persona costituzionalmente garantiti e, pertanto, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 2043 e 2059 cod. civ.; la loro missione è civile Gazzetta 56 D i r i t t o e p r o c e d u r a suscettibile di risarcimento del danno non patrimoniale, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo costituisca o meno reato.” (Cass. 20 ottobre 2009, n. 22190). Il danno non patrimoniale è comunque risarcibile quando deriva dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, ed a condizione che l’inte‑ resse leso – e non il pregiudizio sofferto – abbia rilevanza costituzionale, che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale, e che il danno non sia futile, ovvero non consista in meri disagi o fastidi ossia nella lesione di diritti del tutto immaginari (vedi Cass. 13 novembre 2009 n. 24030). Il diritto alla salute è costituzionalmente garantito e nel caso di specie la sua lesione ha assunto connotati di partico‑ lare gravità attesa l’entità della riduzione della complessiva validità psico‑fisica del danneggiato. Anche sotto questo profilo, la sentenza appellata è immu‑ ne da censure. 5. Con il successivo motivo, il Ministero ha censurato la sentenza, laddove aveva fatto decorrere gli interessi compen‑ sativi dal 1981, tempo delle trasfusioni, sebbene avesse fatto decorrere la prescrizione dal 1995, attraverso un ragionamen‑ to ritenuto contraddittorio dall’appellante. Il motivo è infondato. Va premesso che nella motivazione della sentenza appel‑ lata gli interessi sono indicati come decorrenti dal 15.12.1981; mentre nel dispositivo sono indicati come decorrenti dal 15.12.2001 per i soli genitori del (omissis.) Tuttavia gli appellati hanno dedotto che vi è stato il pro‑ cedimento di correzione di errore materiale e che il dispositi‑ vo della sentenza è stato corretto dal giudice nel senso che la data del 15.12.2001 dovesse intendersi 15.12.1981. La Corte osserva quanto segue. Nel caso di illecito extracontrattuale, qual è quello di specie, gli interessi compensativi decorrono dall’illecito, ai sensi dell’articolo 1219 n. 1 c.c., trattandosi di “mora ex re” e avendo essi la funzione di reintegrare il patrimonio del cre‑ ditore, come se gli avessi ricevuto il risarcimento per equiva‑ lente subito dopo la commissione dell’illecito. L’art. 2935 c.c. dispone invece che la prescrizione decorre “da quando il diritto può essere fatto valere”, che cioè il di‑ ritto può ben preesistere nel patrimonio del creditore, ma tuttavia, per ragioni legali, non può essere fatto valere attual‑ mente; cosicché la prescrizione, nelle more, non decorre. Non vi è quindi alcun automatismo tra il sorgere del di‑ ritto e la possibilità legale che esso possa essere esercitato: è quindi ben possibile che gli interessi, nella specie, sull’impor‑ to del risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. decorrano da un tempo anteriore rispetto a quello in cui il diritto possa essere esercitato. 6. Con il successivo motivo, il Ministero ha sostenuto che il Tribunale, nella liquidazione del danno, avrebbe proceduto a duplicazione delle voci di danno. È bene riassumere che il Tribunale ha riconosciuto in fa‑ vore di (omissis) il danno biologico e quello morale; in favore di ciascuno di suoi genitori il solo danno morale. La Corte osserva quanto segue. La materia inerente al risarcimento del danno alla perso‑ na è stata rivisitata di recente dalla giurisprudenza di legitti‑ c i v i l e Gazzetta F O R E N S E mità, successivamente alla sentenza impugnata (Cass. S.U. 11.11.2008 n. 26972). La Corte di Cassazione ha adottato un’interpretazione unitaria della nozione di danno non patrimoniale, nel quale rientrano la lesione alla salute (comprensiva del danno esteti‑ co e del danno alla vita di relazione, ecc.) ed il danno morale inteso quale sofferenza soggettiva, che costituisce una com‑ ponente della prima. Tuttavia, ciò che rileva, nella specie, è che sia riconosciuto il danno alla persona ed il danno morale, i quali non costitu‑ iscono duplicazione dello stesso pregiudizio: il primo concer‑ ne la lesione dell’integrità psico‑fisica complessivamente inte‑ sa, il secondo la sofferenza fisica e morale. Si tratta di voci che, pur nella visione unitaria del danno non patrimoniale attualmente fatta propria dalla S.C., sono ontologicamente differenti e concorrono al risarcimento, non già si escludono a vicenda (come avverrebbe se si trattasse di pubblicazione della stessa voce). La sentenza impugnata è, quindi, anche sul punto immu‑ ne da censure. 7. Con il penultimo motivo, il Ministero ha sostenuto che il Tribunale avrebbe dovuto detrarre la somma ottenuta dal danneggiato a titolo di indennizzo ai sensi della l. n. 210 del 1992. Osserva la Corte, al pari di quanto osservato dal Tribuna‑ le, che l’impugnante non ha offerto alcuna prova circa il paga‑ mento di tale indennizzo e della sua misura; cosicché non è possibile argomentare in alcun modo sul motivo di appello, non potendosi in ogni caso pervenire ad alcuna compensazione. 8. Con l’ultimo motivo, il Ministero ha sostenuto che – con‑ traddittoriamente – il Tribunale aveva riconosciuto la percen‑ tuale di invalidità permanente in capo a (omissis) pari al 71%, pur avendo escluso che tale danno incidesse sulla capacità lavorativa. Il motivo è infondato, perché non è assolutamente chiari‑ ta la contraddittorietà o erroneità della sentenza laddove, da un lato, ha riconosciuto tale alta percentuale del danno alla persona, sulla scorta della c.t.u. (non contestata neppure dall’impugnante) e, dall’altro, ha escluso il danno patrimo‑ niale, in quanto il (omissis) svolgeva (e, deve ritenersi, svolge,) un’attività lavorativa. Non è infatti sostenibile giuridicamente che il danno alla persona in percentuale elevata non sussiste o deve essere sen‑ sibilmente diminuito allorché una persona lavori. Il pregiudizio alla integrità psico‑fisica di un soggetto, ogni qualvolta esso sia accertato, prescinde ed è autonomo rispetto alla capacità lavorativa o al fatto che il danneggiato lavori in concreto, cosicché anche in tal caso non è possibile alcun parallelismo tra il danno alla persona e quello patrimo‑ niale, al fine di diminuire l’entità del primo. Nel caso di specie, del tutto correttamente, alla stregua della c.t.u., il Tribunale ha riconosciuto l’alta percentuale di invalidità permanente al (omissis) derivata dall’aver contratto l’epatite C. Invero, con argomentazioni sorrette scientificamente e del tutto immuni da vizi logico‑giuridici, il consulente d’ufficio ha accertato che il (omissis) non può curare l’epatite C con i farmaci tipici, quale l’interferone, poiché quest’ultimo agisce negativamente sul sistema nervoso centrale, che è compromes‑ so dagli esiti neurologici dell’encefalite contratta a tre anni; F O R E N S E m a r z o • a p r i l e con la conseguenza che l’epatite “ha un’elevata percentuale di progressione verso la cirrosi epatica e del carcinoma epatico primitivo”. Ha pertanto indicato non solo la predetta alta percentua‑ le di invalidità permanente, ma anche i parametri di riferi‑ mento adoperati: le tabelle allegate al D.M. della Sanità del 5.2.1992 (emesse cioè dallo stesso;inistero odierno impugnan‑ te), riviste nel 1994, indicano la percentuale invalidante fissa delle 51% per l’epatite cronica attiva, in accordo con l’indica‑ zione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Tale percentuale aumenta però tra il 71% e l’80% per l’epatite cronica attiva nell’infanzia. 9. Venendo a questo punto ad esaminare l’appello inciden‑ tale, tempestivamente proposto dagli appellati si osserva quanto segue. 9.1. (Omissis) ha lamentato che il Tribunale non avesse riconosciuto in suo favore il danno patrimoniale ed esisten‑ ziale. Il motivo è, ad avviso della Corte, infondato. Quanto al danno patrimoniale, correttamente il Tribuna‑ le non lo ha ritenuto sussistente, poiché il (omissis) svolgeva attività lavorativa presso la società (omissis) partecipata dal Comune di Roma. L’appellante ha lamentato che fosse stata sottovalutata dal Tribunale la sua condizione psico‑fisica, la quale gli consen‑ tiva solo lavori manuali, per poche ore al giorno. Sul punto, va rilevato quanto segue. La c.t.u. ha osservato come il danno subito a causa dell’epatite abbia determinato una “una generica riduzione complessiva della attitudine lavorativa”, che allo stato è so‑ stanzialmente superata dal fatto che il (omissis) ha una stabi‑ le attività lavorativa. Quanto al limitato numero di ore lavorative che egli riesce a svolgere e quanto al fatto che si tratta di attività manuali, non è certo che siano conseguenze riconducibili all’epatite. Occorre invero rilevare che dall’encefalite sono derivati esiti neurologici che compromettono le capacità intellettive del paziente, cosicché dall’accertamento peritale d’ufficio non emergono riscontri che consentano con la dovuta certezza di ricondurre all’epatite le allegate difficoltà nello svolgere lavo‑ ri per tempi più lunghi o lavori non solo manuali. Quanto al danno esistenziale, la Corte di Cassazione, nella sentenza su richiamata (Cass. S.U. 11.11.2008 N. 26972) ha negato l’autonoma risarcibilità di tale danno, mentre la congrua e motivata liquidazione del danno alla persona fa 2 0 1 3 57 ritenere alla Corte che il danno non patrimoniale del (omissis) sia stato riconosciuto “personalizzandolo” in base all’entità della patologia sofferta, dei suoi postumi e del lungo tempo in cui si è manifestata. 9.2. La sig.ra (omissis) ha impugnato la sentenza di primo grado, la quale erroneamente non le aveva riconosciuto il diritto al risarcimento del danno biologico e di quello patri‑ moniale e neppure del danno esistenziale. Lo stato d’ansia sofferto a seguito dell’ulteriore danno alla salute del proprio figlio si è invece tradotto in un’auten‑ tica patologia invalidante ed inoltre l’aveva costretta a lascia‑ re la professione di insegnante, con risvolti pregiudizievoli sulla pensione e sulla indennità di fine rapporto. Ritiene la Corte alla luce della c.t.u., che il danno non patrimoniale liquidato dal Tribunale costituisca un equo ri‑ storo per l’aggravamento della sindrome ansioso‑depressiva già sorta in capo alla odierna appellata dopo l’encefalite che colpì nel 1981 il proprio figlio. Nel resto, la sentenza impugnata è immune da censure laddove ha osservato che non vi è prova del nesso causale tra la patologia e la lamentata circostanza di aver lasciato il lavoro, né vi è prova di aver lasciato il lavoro per accudire il figlio. Inoltre, non risulta documentazione medica o farmacolo‑ gica che descriva la “storia” di tale patologia e che consenta quindi di istituire una relazione causale certa tra la patologia epatica di (omissis) ed un danno non patrimoniale della madre maggiore di quello già liquidato. 9.3. (Omissis) ha chiesto la riforma della sentenza impu‑ gnata, laddove non ha riconosciuto il danno esistenziale sof‑ ferto. Come si è detto, il danno esistenziale autonomamente inteso non può riconoscersi; mentre la sentenza è immune da censure, laddove ha liquidato il danno non patrimoniale del padre del danneggiato da trasfusioni in guisa tale da costitu‑ ire un serio ristoro per la sofferenza le preoccupazioni da ciò derivate. 10. Conclusivamente, l’appello principale quello inciden‑ tale devono essere respinti. La sentenza di primo grado deve essere interamente con‑ fermata. Il rigetto di entrambe le impugnazioni rende equa la com‑ pensazione tra le parti le spese dell’appello. P.Q.M. (Omissis) civile Gazzetta Diritto e procedura penale La Cassazione alla faticosa ricerca del confine fra induzione e costrizione 61 Raffaele Cantone La rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nel giudizio di appello alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale di legittimità 68 Rossella Catena Competenza del giudice dell’esecuzione: scelta definitiva della Corte di Cassazione per il criterio cronologico? 77 Luca Semeraro L’utilizzo dei principi della Corte EDU per risolvere i casi di conflitto apparente di norme 79 Vittorio Sabato Ambrosio I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali 84 A cura di Angelo Pignatelli Rassegna di merito [ A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ] A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ] 87 90 penale Rassegna di legittimità [ F O R E N S E m a r z o • a p r i l e ● La Cassazione alla faticosa ricerca del confine fra induzione e costrizione * ● Raffaele Cantone Magistrato presso la Suprema Corte di Cassazione 2 0 1 3 61 Sommario: Premessa - 1. Le ragioni della riforma. - 2. La divisione in due della precedente fattispecie di concussione. – 3. Le questioni di diritto intertemporale – 4. Il delitto di concussione;la condotta di costrizione - 5. La condotta di induzione nel delitto di cui all’art. 319-quater c. p. – 6. Il momento consumativo del delitto di cui all’art. 319-quater c. p. - 7. Il confine fra induzione indebita e corruzione. Premessa Sono passati poco più di quattro mesi dall’entrata in vigo‑ re della legge 6 novembre 2012 n. 1901 e già la sesta sezione penale della Suprema Corte di Cassazione, competente per materia sui reati contro la pubblica amministrazione, ribolle di questioni ermeneutiche di grande delicatezza. Un punto, in particolare, è oggetto di incandescente dibat‑ tito; l’individuazione del discrimen fra le due nuove fattispecie di concussione ed induzione indebita, gemmate entrambe dall’unica norma di cui all’art. 317 c.p. Problema che si è posto subito all’attenzione per individua‑ re, in assenza di norme transitorie, quale fosse la disposizione applicabile, lì dove in passato era stata contestata la concus‑ sione. La soluzione del quesito passa, ovviamente, attraverso una complessa actio finum regundorumfra le due nuove fattispecie, ancora ad oggi non riuscita e che certamente avrà bisogno dell’intervento dirimente delle Sezioni Unite. 1. Le ragioni della riforma La legge n. 190, intitolata “disposizioni per la prevenzio‑ ne e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pub‑ blica amministrazione”, affronta, forse per la prima volta nella storia della Repubblica, il fenomeno corruzione in modo organico, sia sul piano della prevenzione amministrativa che su quello della repressione penale. Era una legge attesa e considerata indispensabile sia per aggiornare le norme ai mutamenti strutturali che, nel corso degli anni, avevano interessato le concrete forme di manife‑ stazione dell’illegalità amministrativa sia per adempiere agli obblighi internazionali. In particolare, l’Italia aveva aderito alla Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione del 31 ottobre 2003, (nota come convenzione di Merida) e alla Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo del 17 gennaio 1999, che richiedevano, oltre che la ratifica2 , anche la adozione di più norme attuative e di adeguamento. Le scelte, quindi, anche sul piano della normativa squisi‑ tamente penalistica avrebbero dovuto muoversi nel duplice obiettivo indicato. E, così, a titolo esemplificativo, se la modifica della dispo‑ sizione della corruzione per l’esercizio delle funzioni di cui all’art. 318 c.p. appare finalizzata, in particolar modo, a tener * Rielaborazione dell’intervento al convegno del 17 aprile 2013, tenutosi presso l’Aula Magna della Corte di Cassazione, su “Il contrasto alla corru‑ zione: le prospettive aperte dopo la legge 6 novembre 2012, n. 190” 1 La legge è stata pubblicata nella G.U. del 13 novembre 2912 e, di conseguenza, entrata in vigore il successivo 28 novembre 2 Le convenzioni sono state ratificate in notevole ritardo dall’Italia, in modo “secco” e cioè senza la previsione di norme di adeguamento, proprio in attesa dell’adozione della normativa organica poi varata nel novembre del 2012; in particolare la Convenzione di Meridaè stata ratificata con legge 3 agosto 2009, n. 116 e quella di Strasburgo con legge 28 giugno 2012, n. 110. penale Gazzetta 62 D i r i t t o e p r o c e d u r a conto di come il rapporto corruttivo si è in concreto evoluto, senza più incentrare l’illecito sulla compravendita di un atto specifico del pubblico agente3, quella sul traffico di influenze, prevista oggi dall’art. 346 bis c. p., sembra rispondere soprat‑ tutto a precisi auspici internazionali4. Anche in materia di concussione, dall’ambito internazio‑ nale erano giunte indicazioni o meglio raccomandazioni per una modifica del testo in precedenza vigente5. Si era, in particolare, rilevato come nelle indagini sulla cd corruzione internazionale, gli imprenditori italiani erano so‑ liti utilizzare quale argomento difensivo la circostanza di es‑ sere stati costretti o indotti al pagamento. In questo senso, il Working group on Bribery, istituito presso l’OCSE, nel rapporto sull’Italia adottato il 16 dicembre 2011, ribadendo i rilievi già avanzati quattro anni prima, aveva invitato il nostro paese “a modificare senza indugio la sua legislazione, escludendo la configurabilità della concus‑ sione come possibile esimente per la corruzione internazio‑ nale” 6 In termini analoghi si era espresso il GRECO (acronimo di GRoup d’Etats contre la COrruption) nel rapporto adot‑ tato a Stasburgo il 23 marzo 2012, osservando, al punto 108, come “il potenziale rischio di un uso improprio del reato di concussione come meccanismo di difesa da parte di privati cittadini che commettono la corruzione nell’ambito delle transazioni commerciali internazionali è stato ripetutamente evidenziato come fonte di preoccupazione da parte del grup‑ po di lavoro dell’OCSE”7. 2. La divisione in due della precedente fattispecie di concussione Le raccomandazioni internazionali - che come si è visto non riguardavano tanto il diritto penale interno ma le ricadu‑ te sul piano della corruzione internazionale, e che comunque non avevano carattere vincolante per il nostro paese – non rappresentavano un’assoluta novità nel vivace dibattito giu‑ ridico che da anni si era sviluppato sul tema corruzione. Nel corso degli anni, in più occasioni, erano già state presentate proposte, che in qualche caso si erano tradotte anche in disegni di legge, con l’obiettivo di modificare il de‑ litto di concussione. 3 Ex plurimis, Pulitanò, Legge anticorruzione, in Cass. p., 2012, suppl al vol. 11,7; Bartoli, Il nuovo assetto della tutela a contrasto del fenomeno corrutti‑ vo, in Dir. p. e proc. 2013350 e ss; Garofoli, La nuova legge anticorruzione, tra prevenzione e repressione, in www.p.alecontemporaneo.it, 14. Spadaro – Pastore, Legge anticorruzione (l. 6 novembre 2012, n. 190), in Il P.alista, speciale riforma, 2013, 41. 4 Così, Maiello, Il traffico di influenze indebite, in La legge anticorruzione, a cura di Mattarella- Pellissero, Torino, 2013, 419, secondo cui la disposi‑ zione dell’art. 346 bis tra origine da un duplice titolo; uno di fonte sopranazio‑ nale, costituito dalle Convenzioni di Merida e Strasburgo, l’altro espressivo di valutazioni politico-criminali, maturate nell’esperienza di funzionamento del sistema p.aleitaliano. 5Le raccomandazioni conseguono alle attività di valutazione che sono previste dagli stessi strumenti convenzionali; esse non hanno, però, la medesima natu‑ ra vincolante degli strumenti pattizi; così, Salazar, Contrasto alla corruzione e processi internazionali di mutua valutazione:l’Italia davanti ai suoi giudici, in Cass. p. 2012, 4271. 6 Così, Phase 3 Report on Implementino the OECD Anti-Bribery Convention in Italy, - December 2011. 7 Così, Rapporto Greco di valutazione dell’Italia – Tema I incriminazioni – Ter‑ zo ciclo di valutazioni, n. 108; il tema era stato affrontato anche nelle prece‑ denti raccomandazioni del GRECO; sulle raccomandazioni adottate a seguito del monitoraggio del 2009, si v. Bonfigli, L’Italia valutata dal GRECO, in Cass. p. 2011, 1167. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E Nel 1994, ad esempio, nel pieno delle indagini cd di tan‑ gentopoli, un gruppo di magistrati milanesi e di professori universitari sposò l’idea dell’eliminazione totale della fattispe‑ cie di concussione; i fatti costrittivi sarebbero confluiti nella norma, considerata generale, di estorsione aggravata dall’abu‑ so dei pubblici poteri; quelli induttivi riassorbiti dalla incri‑ minazione della corruzione8. In questa stessa direzione si sono mossi anche alcuni di‑ segni di legge presentati al Parlamento, nel corso di questi anni, nell’ambito proprio dell’attuazione delle disposizioni internazionali di cui si è detto9. In dottrina, invece, si erano segnalate voci autorevoli di diverso segno; tendenzialmente contrarie, in particolare, all’idea della totale eliminazione di una figura delittuosa che, appartenente alla nostra tradizione giuridica, aveva avuto l’importante merito di operare una specifica stigmatizzazione del fatto, quando commesso da un pubblico agente10 Il legislatore della legge n. 190 ha scelto una posizione per certi versi mediana; non l’abolizione tout court dell’ipotesi della concussione, ma un suo sdoppiamento o, come ormai è invalso nel linguaggio giurisprudenziale, un suo spacchetta‑ mento, che dovrebbe, però soddisfare le richieste provenienti dagli organismi internazionali11. Dall’unica norma dell’art. 317 c. p. sono, infatti, gemma‑ te due fattispecie. L’articolo ante riforma rubricato “concussione” puniva “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abu‑ sando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe o induce taluno a dare o promettere indebitamente a lui o a un terzo denaro o altra utilità”. L’attuale art. 317 c. p. che mantiene la dizione di “con‑ cussione”, punisce, invece, con una pena maggiore nel mini‑ mo di quella precedente (oggi da “sei a dodici anni di reclu‑ sione”; ieri da quattro a dodici anni di reclusione”) “il pub‑ blico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi po‑ 8 Durante un convegno, tenutosi a Milano il 14 settembre 1994, venne formu‑ lata e presentata all’opinione pubblica una proposta normativa il cui profilo qualificante, oltre ad un generale inasprimento sanzionatorio e la formulazio‑ ne di una fattispecie unitaria di corruzione, era costituto dalla contestuale soppressione della figura della concussione, ricondotta quanto all’ipotesi co‑ strittiva nella fattispecie di estorsione, e dalla previsione di una causa di non punibilità per il corrotto ed il corruttore che “prima che la notizia di reato sia stata iscritta a suo carico nel registro generale e comunque entro tre mesi dalla commissione del fatto, spontaneamente lo denunci, fornendo indicazio‑ ni utili per la individuazione degli altri responsabili” e ponendo a disposizione dell’autorità giudiziaria una somma pari a quanto ricevuto o versato. Sull’ar‑ gomento, ex plurimis,Seminara, La riforma dei reati di corruzione e concus‑ sione come problema giuridico e culturale, in Dir. p. e proc. 2012, 1239 a cui si rinvia anche per i riferimento al vasto dibattito dottrinale che intorno ad essa si sviluppò. Il testo della proposta può leggersi in Riv. trim. dir. p. econ. 1994, 1025. 9 Alla soppressione della figura della concussione, con conseguente spostamen‑ to dell’ipotesi costrittiva all’interno della fattispecie di estorsione facevano rife‑ rimento il ddl C 3380, presentato dall’On Di Pietro ed altri, il ddl. C 3850, presentato dall’on. Ferranti ed altri, il ddl C 4516 presentato dall’On Garavinied altri. 10 Così, Palazzo, Concussione, corruzione e dintorni: una strana vicenda, in www. penalecontemporaneo.it, 4. Alle stesse conclusioni, Pellissero, Le istanze di moralizzazione dell’etica pubblica e del mercato nel “pacchetto” anticorruzio‑ ne: i limiti dello strumento p.ale, in Dir. p. e proc. 2008, 282. 11 Così pronostica, Salazar, Contrasto alla corruzione e processi internazionali, cit., 4287, secondo cui la previsione della punizione dell’indotto fornisce risposta alla richiesta OCSE di non lasciare impunita la condotta di colui che era sotto‑ posto ad una semplice attività di induzione. Per una valutazione in termini po‑ sitivi della scelta legislativa si v. pure Pulitanò, Legge anticorruzione, cit., 10, F O R E N S E m a r z o • a p r i l e 2 0 1 3 63 teri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo denaro o altra utilità”. La condotta di induzione, invece, è finita nell’app.a intro‑ dotto art. 319-quater, primo comma, c.p. la cui rubrica reci‑ ta “induzione indebita a dare o promettere utilità”; sanziona, con una p.a inferiore sia rispetto all’attuale che alla pregressa concussione (la reclusione da “tre ad otto anni”) “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo denaro o altra utilità” La novità più rilevante è, però, contenuta nel capoverso di essa, laddove prevede che “nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità, è punito con la reclu‑ sione fino a tre anni”. Come è stato efficacemente evidenziato in dottrina, la riforma non comporta “un semplice riassestamento sul piano sanzionatorio, costituendo piuttosto il frutto di una scelta politico criminale volta ad una ridefinizione degli ambiti di illiceità” 12. La punibilità, infatti, del soggetto indotto nel delitto di cui all’art. 319-quater c. p. vorrebbe, nelle intenzioni del le‑ gislatore, fungere da norma propulsiva di un nuovo modo di porsi del privato nel rapporto con la pubblica amministrazio‑ ne; costui non può più cedere nei confronti di una blanda spinta a pagare, se non vuole essere anche lui punito13. Già ad una rapidissima lettura risulta evidente come, nel confronto delle disposizioni precedente ed attuali, non si è proceduto ad una scissione pura e semplice; nell’attuale con‑ cussione è “scomparso” il riferimento, quale possibile sogget‑ to attivo del reato, all’incaricato di pubblico servizio14; nella nuova ipotesi di induzione è “apparsa” la punibilità di quel‑ la che, fino al 28 novembre 2012, era soltanto la parte offesa del delitto. Le evidenti differenze delle norme incriminatici, in assenza di disposizioni transitorie, rimbalzano sull’interprete e sulla giurisprudenza il compito di stabilire se le modifiche normati‑ ve hanno modificato l’area del penalmente rilevante. parti, in quanto i principi indicati nell’art. 2 c. p., soprattutto si verifica un’abolitio criminis, vanno applicati anche di uffi‑ cio. La risposta fornita dalla Corte è stata sostanzialmente univoca; le novità legislative non hanno comportato alcuna eliminazione di condotte in precedenza punite. In primo luogo, i supremi Giudici hanno ritenuto che la costrizione per farsi dare o promettere denaro o altra utilità, posta in essere da un incaricato di pubblico servizio, sarà anche in futuro suscettibile di sanzione penale. Non più, evidentemente, come concussione ma come estorsione (aggravata ex art. 61, n. 9 c.p. dall’abuso di quali‑ tà), essendo quest’ultima norma generale rispetto alla prima e, quindi, idonea a riassorbire quei comportamenti in passato sanzionati ex art. 317 c. p.15. Nell’individuazione di quale sarà, ex art. 2, comma 4, c.p., la disciplina applicabile per i fatti commessi prima del 28 novembre dovrà, però, necessariamente tenersi conto della non perfetta coincidenza delle due fattispecie; la concussione si consuma, infatti, con la mera promessa dell’utilità; l’estor‑ sione richiede che l’ingiusto profitto sia conseguito. Le pene, inoltre, appaiono alquanto diverse; l’estorsione, rispetto alla pregressa ipotesi di concussione, ha una pena più bassa nel massimo, ma maggiore nel minimo; rispetto all’at‑ tuale, è punita meno gravemente nel minimo e nel massimo, anche se la pena dell’estorsione diventa di gran lunga superio‑ re se scattano l’aggravante ordinaria dell’art. 61, n. 9 c. p. o quella speciale di cui all’art. 628 c. p., e, quindi, anche se il reato venga commesso da più persone riunite 16. Ed, inoltre, non si può dimenticare come il diritto vivente giurisprudenziale aveva ritenuto inquadrabile nell’utilità con‑ seguibile dal pubblico agente con la costrizione o con l’indu‑ zione anche una prestazione sessuale, mentre quest’ultima difficilmente potrà integrare l’evento dell’ingiusto profitto del delitto di estorsione 17. Sarà, in conclusione, compito del giudice verificare, rispet‑ 3. Le questioni di diritto intertemporale Il tema della successione nel tempo si è posto da subito all’attenzione della Cassazione; si tratta, infatti, di una que‑ stione che non necessita, nemmeno di essere rilevata dalle 15 A questa conclusione Cass., sez. VI, 25 febbraio 2013, n. 13047, Piccino, CED Cass. n. 254466 secondo cui “A seguito dell’entrata in vigore della l. n. 190 del 2012, la minaccia, di qualsivoglia tipo o entità, di un danno ingiusto, finalizzata a farsi dare o promettere denaro o altra utilità, posta in essere con abuso della qualità o dei poteri, integra il delitto di concussione se proveniente da pubblico ufficiale ovvero di estorsione se proveniente da incaricato di pub‑ blico servizio …”; negli stessi termini, anche Relazione n. III/11/2012 del 15 novembre del 2012 dell’Ufficio del Massimario presso la Corte di Cassazione, 10, in Italgiureweb, servizio novità. 16 Critici sul fatto che vi la costrizione posta in essere dall’incaricato di pubbli‑ co servizio sia punita più gravemente di quella posta in essere dal pubblico ufficiale, ex plurimis, Balbi, Alcune osservazioni in tema di riforma dei de‑ litti contro la pubblica amministrazione, in www.p.alecontemporaneo.it, 8; Palazzo, Concussione, corruzione e dintorni: una strana vicenda, ivi, 5;Pisa, Una nuova stagione di “miniriforme”, in Dir. p. e proc. 2012, 1422. In senso diverso, invece, Severino, La nuova legge, cit., secondo cui la circo‑ stanza aggravante comune sarebbe comunque soggetta a bilanciamento ed i suoi effetti potrebbero essere neutralizzati con il riconoscimento delle circo‑ stanze attenuanti generiche. 17Nel senso che in caso di attività di costrizione posta in essere da pubblico agente, finalizzata ad ottenere una prestazione sessuale, vi sia concorso forma‑ le fra concussione e violenza sessuale è orientata la giurisprudenza assolutamen‑ te consolidata; da ultimo Cass., sez. VI, 04 novembre 2010, n. 8894 , G, CED Cass., n. 249652; anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 190 la posizione risulta essere stata confermata dalla Cassazione; in questo senso Cass., sez. VI, 21 febbraio 2013, n. 18372, S. inedita; secondo Seminara, La riforma dei re‑ ati di corruzione e concussione, cit., 1240 in futuro tali comportamenti se posti in essere da incaricato di pubblico servizio potranno integrare solo il delitto di violenza sessuale ex art. 609 bisc. p. 12 A questa conclusione, Seminara, I delitti di concussione ed induzione indebita, in La legge anticorruzione, a cura di Mattarella- Pellissero, Torino, 2013, 384. 13In questo senso, Pellissero, La nuova disciplina della corruzione tra repres‑ sione e prevenzione, in La legge anticorruzione, a cura di Mattarella- Pellissero, Torino, 2013, 350. 14La scelta si fonda sull’assunto che solo il pubblico ufficiale è in grado di inge‑ nerare il metus pubblicae potestatis; su punto si vedano le illuminanti indica‑ zioni che vengono dallo stesso Ministro della giustizia in carica al momento dell’approvazione della l. n. 190; secondo, infatti, Severino, La nuova legge anticorruzione, in Dir. p. e proc. 2013, 9 la scelta di estendere la soggettività attiva del reato di concussione all’incaricato di pubblico servizio mal si attaglia “alla struttura soggettiva della fattispecie, incentrata su forme di coazione psicologica riportabili esclusivamente ai poteri coercitivi tipici della pubblica funzione”. In senso critico rispetto alle ragioni di fondo della scelta, Seminara, I delitti di concussione ed induzione indebita, cit., 388 secondo cui la scelta normativa non tiene conto della circostanza he, in seguito alla progressiva di‑ latazione giurisprudenziale della categoria degli incaricati di pubblico servizio risulta difficilmente sostenibile l’idea di un metuslegato esclusivamente ai pote‑ ri coercitivi propri della pubblica funzione. penale Gazzetta 64 D i r i t t o e p r o c e d u r a to al caso concreto, (se e) quale fattispecie sarà applicabile; in linea di massima se non vi sia stata alcuna dazione, sarà più favorevole la disposizione sull’estorsione, applicabile nella forma del tentativo; in caso contrario più favorevole sarà quella pregressa sulla concussione La Corte di legittimità ha anche precisato che le condotte induttive commesse in passato resteranno ancora punibili; vi è, infatti, un rapporto di continuità fra la disposizione di cui all’art. 317, vigente ante 28 novembre, e quella attuale ex art. 319-quater c. p.18. La novità, rappresentata dall’essere nella disposizione incriminatrice introdotta dalla legge n. 190 punito anche l’indotto, non può condurre, infatti, all’opposta conclusione; il comportamento sanzionato nei confronti del pubblico agen‑ te resta, oggi come ieri, identico, si punisce, cioè, sempre l’attività di induzione; e del resto la struttura del reato anche in passato era già naturalisticamente plurisoggettiva, anche se ad essere punito era solo l’appartenente alla pubblica am‑ ministrazione 19. In un unico caso la Corte sembra avere espresso qualche minimo dubbio sulla posizione da ultimo esposta; lo ha fatto quando, in un suo arresto, ha evidenziato, che la continuità normativa fra le due fattispecie medesima presuppone neces‑ sariamente che l’“induzione” che, oggi rappresenta l’elemento oggettivo della fattispecie di cui all’art. 319-quater c. p., sia definita negli stessi identici termini di quando era vigente il pregresso testo dell’art. 317 c. p. 20. Una volta esclusa l’abolitio criminis, per i pregressi fatti di induzione, per i quali non sia intervenuta sentenza passata in giudicato, il condannato ha diritto a beneficiare del tratta‑ mento sanzionatorio più favorevole e, di conseguenza anche del regime più favorevole dei termini di prescrizione exart. 157 c. p. Quanto all’applicazione concreta della disposizione più favorevole, la Suprema CorteCassazione in uno dei suoi arre‑ sti sembra essersi orientata nel ritenere che l’inquadramento della condotta sotto il profilo della costrizione oppure sotto quello dell’induzione non è questione attinente alla qualifica‑ zione giuridica del fatto ma è questione di merito sottratta alla cognizione della Corte di Cassazione, fuori del caso di mancanza o di manifesta illogicità della motivazione costi‑ 18 Anche la dottrina sembra concordare su questa soluzione; così Palazzo, Gli effetti <preterintenzionali> delle nuove norme p.ali contro la corruzione, La legge anticorruzione, a cura di Mattarella- Pellissero, Torino, 2013, 18 secondo cui l’art. 319 quater non presenta novità strutturali, risultando da una semplice operazione di distacco, di separazione dalla vecchia concussione; in senso problematico, Relazione n. III/11/2012 del 15 novembre del 2012 dell’Ufficio del Massimario presso la Corte di Cassazione, cit., 8. 19 A questa conclusione sono, ad oggi, giunte, Cass., sez. VI, 03 dicembre 2012, n. 3251, Roscia, CED Cass.n. 253935; Cass., sez. VI, 11 febbraio 2013, n. 12388 , Sarno, ivi, n. 254441; Cass., sez. VI, n. 11792 del 11 febbraio 2013 (dep. 12 marzo 2013 ), Castelluzzo, ivi, n. 254437; in termini anche Cass., sez. VI, 11 gennaio 2013,n. 17285, Vaccaro, ivi n. 254620, sia pure però negando la natura bilaterale del reato di induzione di cui all’art. 319 quaterc. p., considerato una fattispecie con due condotte che si consumano autonomamente. 20 Così, Cass., sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 16154, Pierri, CED Cass. n. 254539che in motivazione, testualmente afferma “se la induzione dovesse essere definita … quale unico e nuovo elemento strutturale del delitto di <induzione indebita>, saremmo in presenza di un fenomeno di successione di norme che non potreb‑ be che comportare ex art. 2, comma 2, c.p. una vera e propria abolitio crimi‑ nisper coloro che sono stati condannati per il delitto di concussione mediante induzione.”. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E tuente oggetto di specifica deduzione. Ne deriva che la ricon‑ duzione della condotta stessa, operata dal giudice di merito, all’una piuttosto che all’altra delle due ipotesi non può essere affrontata dal giudice di legittimità ove non espressamente dedotta dal ricorrente in forza di un apprezzabile interesse; e che la stessa non può, in difetto di ciò, essere autonomamen‑ te presa in esame ai fini della riconduzione della condotta alla previsione del nuovo art. 317 c. p., che trova ora applica‑ zione alla sola ipotesi di costrizione, o non piuttosto a quella dell’art. 319-quater c. p. che trova la sua applicazione nell’ipo‑ tesi di induzione, dovendo aversi riguardo esclusivo a tal fine nell’inquadramento già operato dal giudice di merito, sempre che esso non sia stato specificamente posto in questione sulla base di motivi ammissibili 21. Quando, però, il giudice di merito non ha proceduto alla qualificazione giuridica del fatto ma quest’ultimo risulta precisamente ricostruito, in modo che sia chiaro il comporta‑ mento materiale del pubblico agente incriminato, la Corte, in più di un’occasione, ha operato direttamente la riconduzione della fattispecie concreta all’ipotesi di concussione o di indu‑ zione. E in quest’ultimo caso ha annullato con rinvio al giu‑ dice di merito, per le determinazioni quoad poenam 22 o senza rinvio quando ha considerato decorsi i termini di pre‑ scrizione 23; se, invece, la riconduzione nella fattispecie neces‑ sitava di attività valutative tipiche del giudice di merito, ha annullato con rinvio anche perché venissero effettuati i neces‑ sari accertamenti 24. 4. Il delitto di concussione; la condotta di costrizione Il delitto di concussione così come previsto dal nuovo testo dell’art. 317 c. p., è, come si è già poco sopra evidenziato, integrato quando, con abuso di funzioni o di poteri, il pub‑ blico ufficiale pone in essere una condotta di “costrizione”. In base anche al linguaggio comune, “costrizione” indica quell’azione attraverso cui ad un soggetto è impedito realmen‑ te di scegliere; l’azione posta in essere, quindi, presuppone l’utilizzo di forme di violenza, finalizzate ad imporre un’azio‑ ne o un’omissione (nel caso di specie una promessa o una dazione). La violenza nel diritto penale può, però, avere natura o morale (e quindi essere di fatto una minaccia) o fisica (violen‑ za vera e propria, come estrinsecazione di forza fisica che si abbatte sulla vittima). Secondo le pronunce esaminate ai fini del delitto di con‑ cussione, il concetto di costrizione non può che far riferimen‑ to alla sola violenza morale e cioè alla minaccia; la violenza fisica, infatti, è assolutamente incompatibile con l’esercizio – anche se in forma di abuso - delle funzioni e dei poteri; il pubblico ufficiale che ne dovesse fare uso agirebbe, quindi, certamente al di fuori di funzioni e poteri ed il suo compor‑ 21 Cass., sez. VI, 8 febbraio 2013, Breccia, la cui motivazione non risulta ancora depositata ma il principio anticipato da un’ informazione provvisoria della Corte; da essa si evince anche come, nel caso di specie, sia stata ricondotta alla previsione del nuovo art. 319 quater c. p. una condotta espressamente qualifi‑ cata in sentenza come induzione, con conseguente dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione intervenuta già prima della sentenza di appello. 22 Così, Cass., sez. VI, 25 febbraio 2013, n. 13047, Piccino, cit. 23 Così, Cass., sez. VI, 04 dicembre 2012, n. 8695, Nardi, CED Cass. n. 254114. 24 Così Cass., sez. VI, 03 dicembre 2012, n. 3251, Roscia, cit. F O R E N S E m a r z o • a p r i l e tamento sarebbe qualificabile come quello di un comune cit‑ tadino. L’eventuale violenza fisica finalizzata a farsi dare danaro o utilità qualificherebbe il comportamento del pubblico uffi‑ ciale, di conseguenza, in termini di estorsione o persino di rapina 25. Nell’ambito, però, della violenza morale il punto contro‑ verso riguarda l’individuazione precisa della tipologia di mi‑ naccia che possa considerarsi idonea ad integrare l’elemento materiale del delitto di cui all’art. 317 c. p. Per la Corte, sembra fuori discussione che è costrizione quella minaccia che non lascia margini di autodeterminazio‑ ne a colui che la riceve; il destinatario di essa dà o promette perché non ha di fatto scelta alcuna; utilizzando l’espressione civilistica coniata per indicare il vizio della volontà della violenza morale, può dirsi etsi coatctus tamen voluti 26. In alcuni arresti, però, si ritiene che non sono necessarie minacce espresse del pubblico ufficiale, ma possono bastare anche soltanto modi bruschi e stressanti, accompagnati da comportamenti idonei a creare nel destinatario una condizio‑ ne di soggezione27; ed in questa stessa prospettiva sembra muoversi la Cortequando ritiene che anche la artata prospet‑ tazione da parte dell’agente pubblico al privato di difficoltà e rischi di non riuscire ad ottenere un diritto, integra la costri‑ zione rilevante ex art. 317 c. p. e ciò anche se l’utilità che si cerca di ottenere è una prestazione sessuale28. Discusso è, invece, se possa considerarsi “costrizione” anche una minaccia che si manifesti in forme più blande che sfocino, ad esempio, in comportamenti allusivi o quando la minaccia venga posta in essere attraverso la prospettazione al destinatario di un male giusto, cioè di una conseguenza sfa‑ vorevole, connessa, però, all’applicazione della norma. Questi ultimi casi in passato erano stati fatti rientrare dalla giurisprudenza nell’alveo della fattispecie di cui all’art. 317 c. p. senza porsi nemmeno interrogativi su come qualifi‑ carli: essendo punita nell’unico contesto sia la costrizione che l’induzione le esigenze classificatorie avevano avuto un minor peso pratico. Oggi però che l’induzione è divenuta l’ elemento materia‑ le di un altro delitto, la questione assume un ruolo centrale; l’individuazione del quid consistam di quest’ultima consenti‑ 25In questi termini, Cass., sez. VI, 03 dicembre 2012 n. 3251, Roscia, CED Cass. n. 253936 e Cass., sez. VI, 03 dicembre 2012, n. 7495, Gori, ivi n. 254020; nel senso, però, che integrerebbe concussione l’esercizio della violenza fisica qualora il soggetto attivo sia investito di poteri di coercizione sulla persona e a questa residui una libertà di scelta, si v. Seminara, I delitti di concussione e induzione indebita, cit. 390. 26 Così, Cass., sez. VI, 25 febbraio 2013, n. 11942 , Oliverio, CED Cass., n. 254444; sostanzialmente alla stessa conclusione – per cui è costrizione anche la mera prospettazione di un male ingiusto che finisce per coartare in modo assoluto la volontà del destinatario della pretesa economica – perviene anche Cass., sez. VI, 25 gennaio 2013, n. 6578 , Piacentini, ivi n. 254544 27In questo senso, Cass., sez. VI, 21 febbraio 2013, n. 10891, Fazio, CED Cass. n. 254443 secondo cui “Anche a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 1, comma 75 della l. n. 190 del 2012, commette il delitto di concussione di cui all’art. 317 c. p. il pubblico ufficiale che, nella sua interazione con il privato, utilizzi modi bruschi e stressanti, accompagnati da comportamenti di abusi della qualità e/o dei poteri, preordinati a creare nel destinatario una condizione di riduzione dello “spatium deliberandi”, idonea a determinare quest’ultimo a promettere o dare un’indebita utilità . (Nella specie, il pubblico ufficiale utiliz‑ zando i modi indicati e prospettando al privato il potere di incidere sulla emissione di mandati di pagamento, connessi ad un contratto di fornitura con la p.a., si faceva consegnare un fax).” 28 Così, sez. VI, 21 febbraio 2013, S. inedita 2 0 1 3 65 rà, di conseguenza, di delimitare con maggiore precisione anche l’elemento oggettivo della vigente disposizione dell’art. 317 c. p. 5. La condotta di induzione nel delitto di cui all’art. 319-quater c. p. L’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 319-quater c. p. è costituito dall’attività di induzione posta in essere con abuso di funzioni o di poteri dal pubblico ufficiale o dall’in‑ caricato di pubblico servizio. La parola che descrive il comportamento incriminato è caratterizzata da un’efficacia di selettività linguistica molto minore rispetto a quella poco sopra analizzata con riferimen‑ to al delitto di concussione. Ed almeno su questo punto sem‑ bra in linea di massima sostanzialmente concordare la Corte di Cassazione. Sul significato della stessa, però, e soprattutto su quale debba essere l’azione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che la integri vi sono, invece, posizioni di‑ varicate. Ad oggi possono individuarsi nelle pronunce della Sesta sezione della Corte, competente ratione materiae, tre diverse opzioni interpretative29. Una prima posizione parte proprio dalle difficoltà di ri‑ costruire il significato della parola “induzione”; afferma, in‑ fatti, in premessa che già sul piano squisitamente linguistico “costringere … è un verbo descrittivo di un’azione e del suo effetto, mentre indurre connota soltanto l’effetto e non il modo in cui questo effetto venga raggiunto”. Evidenzia, poi, sul piano sistematico, come nel codice penale la parola induzione sia presente in più fattispecie de‑ littuose (art. 377 bis, 507, 558), ma sempre accompagnata da specificazioni verbali che individuano le modalità dell’azione e, quindi, in funzione più di indicare il risultato raggiunto che il modo attraverso il quale si è riusciti ad ottenerlo. L’ambiguità semantica della parola impone all’interprete di spostare l’attenzione sulla fattispecie così come complessi‑ vamente costruita dal legislatore del 2012, evidenziando, in particolare, la più importante novità che la caratterizza e cioè la punibilità dell’indotto. La norma letta da questa prospettiva deve trovare una giustificazione, sul piano dei principi generali, della punibili‑ tà di un soggetto che, fino al 28 ottobre 2012, era a tutti gli effetti una parte offesa. Se si ritenesse l’induzione come una minaccia più blanda, si finirebbe per punire un soggetto che comunque si è piegato ad una attività di pressione; significherebbe “richiedere al soggetto virtù civiche ispirate a concezioni di stato etico pro‑ prie di ordinamenti che si volgono verso concezioni antisoli‑ daristiche ed illiberali”. Ed allora, si conclude, intanto l’indotto può essere punito perché, pur sottoposto ad una pressione connessa al metus pubblicae potestatis, persegue un proprio interesse ed ottiene un proprio vantaggio. Dal punto di vista dell’agente, l’azione di costui consiste nella prospettazione, anche in forma minac‑ 29 Alle stesse conclusioni, nel senso che sarebbero tre ad oggi le opzioni inter‑ pretative della giurisprudenza, Garofoli, La nuova legge anticorruzione, cit., 17. penale Gazzetta 66 D i r i t t o e p r o c e d u r a ciosa, di una conseguenza sfavorevole, ma comunque connes‑ sa all’applicazione della legge. La pressione del funzionario pubblico non avendo ad oggetto “un male ingiusto” tecnica‑ mente non dovrebbe nemmeno considerarsi una minaccia. In conclusione, la linea di discrimine fra le due ipotesi delittuose sta nell’oggetto della prospettazione; danno ingiusto e contra ius nella concussione; danno legittimo e secundum ius nella nuova fattispecie dell’art. 319-quater 30. In altre pronunce, la Cortegiunge alla stessa conclusione anche con ulteriori argomenti; in un caso si richiama al prin‑ cipio costituzionale di colpevolezza: l’indotto può essere pu‑ nito a condizione che tenga una condotta che sia “rimprove‑ rabile” ed esigibile”. Situazione questa che si verifica, in pre‑ senza di una prevaricazione del pubblico agente, solo se il comportamento adesivo del privato si muova in una logica di perseguire un proprio interesse 31; in altro prova a trovare un aggancio normativo all’implicito requisito che caratterizze‑ rebbe la condotta dell’indotto, cioè la necessità di perseguire un proprio tornaconto o vantaggio, nella collocazione topo‑ grafica scelta dal legislatore per la nuova disposizione incri‑ minatrice 32. Una seconda opzione ricostruisce l’induzione in termini di una minaccia blanda o di un comportamento di persuasio‑ ne o di suggestione che sia tale da non far venir meno la possibilità di opporsi da parte del destinatario della pretesa. Non è, quindi, rilevante cosa il pubblico agente prospetti al privato, ma l’intensità della pressione prevaricatrice. A questa opzione la sesta sezione della Corte aderisce con la sua prima decisione intervenuta in argomento, dopo la pubblicazione della legge n. 190 in Gazzetta ufficiale, ma prima persino che essa sia entrata in vigore. A sostegno della tesi, la Corte evidenzia soprattutto l’as‑ senza di un univoco significato del termine induzione, che può sul piano semantico essere letto come compatibile sia con un contegno implicito o blando, ma comunque in grado di deter‑ minare uno stato di soggezione, sia con una condotta più o meno subdolamente persuasiva33. In successivi arresti, viene, però, meglio precisata la rico‑ struzione ermeneutica. Si parte dalla premessa secondo cui l’art. 319-quater c. p. nasce dal distacco di uno dei comportamenti che integravano l’elemento oggettivo della fattispecie delittuosa, in preceden‑ za punita dall’art. 317 c. p. Nel vigore del precedente testo sanzionatorio della con‑ cussione, seppure la giurisprudenza non si era particolarmen‑ te impegnata a distinguere l’induzione dalla costrizione per 30 In questo senso, per prima, Cass., sez. VI, 3 dicembre 2012, n. 3251, Roscia, CED Cass., n. 253938; in termini sovrapponibili Cass., sez. VI, 3 dicembre 2012, n. 7495, Gori, ivi n. 254021; secondo Cass., sez. VI, 15 febbraio 2013, n. 17943, Sammatrice, inedita il vantaggio che l’indotto vuole perseguire con l’accettazione della richiesta, può essere anche parziale o essere ottenuto in forma diretta o indiretta. 31 Così, Cass., sez. VI, 25 febbraio 2013, n. 13047, Piccino, CED Cass. n. 254466. 32Nella motivazione di Cass., sez. VI, 14 gennaio 2013, n. 17593, Marino, CED Cass., n. 254622, evidenzia la circostanza che “il legislatore abbia previsto non un articolo 317 bis ma un articolo 319-quater, accostando cioè la fattispecie in disamina al fenomeno della corruzione, in cui entrambe le parti agiscono in vista di un vantaggio”. 33 Così, Cass., sez. VI, 18 dicembre 2012, n. 3093, Aurati, CED Cass., n. 253947. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E essere le due condotte entrambe integrative della fattispecie, non erano mancate, in alcune occasioni, precise indicazioni in tal senso. L’induzione era stata ritenuta sussistente quando il pub‑ blico agente, per creare una posizione di soggezione nei con‑ fronti del privato, abusando della propria qualità o della propria funzione. faceva leva su suggestione, persuasione o convincimento a dare o promettere qualcosa per evitare un male peggiore 34. Non vi è, quindi, nessuna ragione plausibile per dover abbandonare la pregressa impostazione, oggi che l’induzione è assurta ad elemento oggettivo di un nuovo reato. In questa ricostruzione, del resto, la punizione dell’indot‑ to trova una sua legittima ragion d’essere; il carattere più blando della pressione postagli gli consente di resistere e se non lo fa, è giusto venga punito in modo ovviamente meno grave del corrotto perché comunque è sottoposto ad una ves‑ sazione 35. Fra le due posizioni interpretative, così brevemente deli‑ neate, si è posto anche un terzo orientamento che prova ad individuare una soluzione di mediazione. Il punto di partenza del ragionamento è sostanzialmente identico a quello esplicitato da ultimo; la fattispecie dell’art. 319-quaterc. p. nasce per scissione della precedente norma dell’art. 317 c. p. per cui non possono che essere recuperati quegli approdi esegetici che, in passato, avevano consentito di qualificare l’induzione come una minaccia più blanda o come una suggestione posta in essere, abusando della qualità o dei poteri, dal pubblico ufficiale. Bisogna, però, - secondo i supremi giudici - prendere atto che il criterio adottato in passato per distinguere induzione e costrizione, fondato sul minore grado di coartazione morale, ha dato luogo a difficoltà interpretative ed ha finito per am‑ pliare la portata applicativa della precedente disposizione codicistica. Quel criterio oggi può essere rivisto alla luce del fatto nuovo introdotto dalla norma dell’art. 319-quater e cioè la punibilità dell’indotto. E’ necessario, quindi, individuare una ragione ulteriore per spiegare perché colui che fino al 28 no‑ vembre era solo vittima oggi comunque diventa compartecipe del reato, sia pure con una p.a ben diversa e minore di quella prevista per colui che induce ma anche per il corruttore. Tale ragione può essere reperita nella possibilità che egli ha di opporsi alla pretesa illegittima e tale possibilità va indi‑ viduata nella conservazione di un margine di autodetermina‑ zione, che esiste sia quando la pressione del pubblico agente è più blanda sia quando egli ha un interesse a soddisfare la 34 Ex plurimis, Cass., sez. VI, 19 giugno 2008, n. 33843, Lonardo, CED Cass., n. 240795; Cass., sez. VI, 11 gennaio 2011, n. 25694 , De Laura, ivi n. 250468 35 Cosi, Cass., sez. VI, 04 dicembre 2012, n. 8695, Nardi, CED Cass. n. 254114; l’affermazione è ribadita negli stessi termini in altro arresto di poco successivo con una decisione redatta dal medesimo estensore; in essa è interessante rileva‑ re come, forse anche nell’obiettivo di addivenire ad una soluzione di compro‑ messo con l’orientamento precedentemente esposto, si prova comunque a va‑ lorizzare l’eventuale vantaggio perseguito dall’indotto; esso non sarebbe un elemento costitutivo del reato ma soltanto “elemento indicatore” che consen‑ tirebbe di individuare l’induzione, distinguendola dalla costrizione; così, Cass., sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 16154, Pierri, ivi n. 254539; alle medesime con‑ clusioni, anche Cass., sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 17285 Vaccaro, ivi, n. 254621 F O R E N S E m a r z o • a p r i l e pretesa del pubblico funzionario, perché ne consegue per lui un indebito beneficio. In questa prospettiva, l’induzione avrebbe carattere biva‑ lente; sussisterebbe, cioè, sia in presenza di pressione blanda sia quando ciò che viene minacciato è un male giusto 36. 6. Il momento consumativo del delitto di cui all’art. 319-quater c. p. La Cassazione ha affrontato anche il tema dell’individua‑ zione del momento consumativo del delitto di cui all’art. 319-quater c. p. Coerente con l’idea che la nuova fattispecie si ponga in continuità con la pregressa ipotesi di concussione e che essa nasca per gemmazione/scissione di quella, ha mutuato dai precedenti approdi i riferimenti per individuare quanto il re‑ ato è ormai perfetto. Tale situazione si verifica quando la richiesta del pubblico agente è accolta anche con la sola promessa da parte dell’in‑ dotto, nessun rilievo potendosi riconoscere alla circostanza che, subito dopo la promessa, il privato si rivolga alla polizia perché la consegna dell’utilità avvenga sotto il controllo di essa o la promessa sia stata fatta con la riserva mentale, ab origine, di non volere poi effettuare la dazione 37. Seppure in questa fase la giurisprudenza si sta occupando di fatti di induzione originariamente nati sotto l’egida della concussione, non ha potuto far a meno di anticipare quale sarà uno dei possibili temi su cui, in un prossimo futuro, il dibattito sarà di certo molto animato. E cioè sulla punibilità o meno dell’indotto che prometta l’utilità al funzionario pubblico, ma ciò faccia o con l’inten‑ zione fin dal primo momento di non adempiere e di avvertire la polizia o cambi opinione dopo avere aderito all’illecita proposta e decida di allertare le forze dell’ordine. In una sorta di obiter dictum contenuto nella motivazione di una delle sentenze edite la Corte sembra anticipare una possibile opzione ermeneutica futura; una volta aderito alla richiesta anche con la semplice promessa il reato di cui al comma 1 dell’art. 319-quater c. p. si intende consumato; l’atteggiamento originario o successivo dell’indotto potrebbe rilevare, invece, sul piano della desistenza o del recesso attivo; afferma, infatti, ..[non si può escludere].. “in prospettiva il ricorso agli istituti della desistenza o del recesso attivo i quali potrebbero operare non soltanto nell’ipotesi di tentati‑ vo, ma anche là dove alla promessa, che di per sé sola perfe‑ ziona il reato, faccia seguito la dazione e prima che tale evento si verifichi” 38. 36 Così, Cass. sez. VI, 11 febbraio 2013, n. 11794 , Melfi, CED Cass. n. 254440 e Cass. sez. VI, 25 febbraio 2013, n. 11944, De Gregorio, ivi n. 254446. 37 Così, Cass. sez. VI, 25 febbraio 2013, n. 13047, Piccinno, CED Cass.n. 254467; in termini, con riferimento specifico alla riserva mentale di non voler poi adempiere, Cass., sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 16154, Pierri, ivi n. 254541. 38 Cass., sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 16154, Pierri, cit., Sembrerebbe giungere alla stessa conclusione in dottrina, Seminara, I delitti di concussione ed inde‑ bita induzione, cit., 397; secondo l’autore, infatti, il tentativo certamente configurabile si strutturebbe in senso diverso a seconda che il reato sia commes‑ so dal pubblico agente o dal privato: nel primo caso esso richiede il compimen‑ to di atti di abuso idonei e diretti in modo non equivoco ad indurre a taluno a dare o promettere indebitamente l’utilità; nel secondo caso è necessario che gli atti diretti a dare o promettere siano stati preceduti dall’altri induzione. 2 0 1 3 67 7. Il confine fra induzione indebita e corruzione Un tema su cui è opportuno, in conclusione, fare solo un breve cenno: l’individuazione dei confini fra il delitto di cui all’art. 319-quater e la corruzione. La nuova fattispecie, per quanto si è anche sino a questo momento evidenziato, si pone al centro fra la concussione - i cui caratteri distintivi oggi con la corruzione dovrebbero es‑ sere più chiari, atteso che l’azione dell’agente è particolarmen‑ te marcata dall’utilizzo di una forma di violenza morale - e corruzione 39. Ed è pronostico fin troppo semplice quello che in un pros‑ simo futuro, quando sarà definitivamente chiaro il quid consistamdell’induzione, sull’individuazione di questa mal‑ certa linea di demarcazione saranno moltissimi gli arresti giurisprudenziali che si dovranno cimentare. Ad oggi, la Corte ha chiarito quale sono gli ambiti diffe‑ renziali fra il delitto di induzione e quello di istigazione alla corruzione; quest’ultima presuppone un rapporto partitario fra i soggetti che manca nella fattispecie di nuovo conio, in quanto questa resta sempre un delitto che si caratterizza per un rapporto di prevaricazione del pubblico agente 40. La distinzione fra i delitti di cui all’art. 322 (o 319) e 319-quaterc. p. appare, almeno in astratto, chiara anche quando la condotta del pubblico agente abbia la forma della sollecitazione; il discrimen è da individuarsi nella preesisten‑ za all’azione sollecitatoria di un abuso di funzioni o di poteri da parte del pubblico agente 41. Nella prospettiva di delineare il confine fra corruzione ed induzione può essere anche utile ricordare quanto affermato in altra decisione: il delitto di induzione si distinguerebbe dalla corruzione perché la nuova norma non delineerebbe un’unica fattispecie di “reato contratto” (come avviene per la corruzione) ma due diverse ipotesi delittuose una del pubblico agente, l’altra dell’indotto; così si esprime in motivazione la decisione citata: “La nuova fattispecie, rubricata, come detto, “Induzione indebita a dare o promettere utilità”, pur facen‑ do partitamente riferimento alla condotta di due soggetti, non integra propriamente un reato bilaterale, come nel caso della corruzione, perché le due condotte del soggetto pubbli‑ co e del privato si perfezionano autonomamente. Il soggetto pubblico continua ad essere punito perché “induce taluno a dare o a promettere indebitamente” denaro o altra utilità; il soggetto privato è (ora) punito perché, essendo stato in tal modo indotto, “dà o promette” denaro o altra utilità. Invece, nella corruzione, tipico reato bilaterale, il soggetto pubblico “riceve” denaro o altra utilità, o “ne accetta la promessa”, sulla base di un accordo che intercorre necessariamente con il privato. Dunque, in base all’art. 319-quater, i due soggetti si determinano autonomamente, e in tempi almeno idealmen‑ te successivi: il soggetto pubblico avvalendosi del - e il priva‑ to subendo il - metus publicae potestatis; mentre la fattispecie corruttiva si basa su un accordo, normalmente prodotto di una iniziativa del privato.”42 39 Così, Relazione n. III/11/2012 del 15 novembre del 2012 dell’Ufficio del Mas‑ simario presso la Corte di Cassazione, cit., 7. 40 Cass., sez. VI, 3 dicembre 2012, n. 3251, Roscia, CED Cass. n. 253937. 41 Cass., sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 16154 , Pierri, CED Cass. n. 254540. 42 Brano tratto dalla motivazione di Cass., sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 17285, Vaccaro, cit. penale Gazzetta 68 D i r i t t o ● La rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nel giudizio di appello alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale di legittimità ● Rossella Catena Presidente della III Sezione Corte Appello Penale di Napoli e p r o c e d u r a p e n a l e Gazzetta F O R E N S E 1. La sentenza emessa dalla V sezione penale della Corte di Cassazione, n. 1798 del 5 luglio 2012, avente ad oggetto i fatti svoltisi a Genova nel luglio 2001, allorquando in città si teneva il vertice di Capi di Stato e di Governo del G8, oltre ai numerosissimi spunti di interesse giuridico e di ricostruzione storica di quegli avvenimenti, offre argomenti di riflessione estremamente interessanti nella parte in cui, tra le questioni preliminari, esamina l’eccezione di incostituzionalità, solleva‑ ta dalla Difesa, dell’art. 603 c.p.p. in relazione all’art. 117, comma 1, della Costituzione. La sentenza analizza anzitutto il riferimento alle pronunce della Corte Costituzionale, n. 348 e n. 349 del 2007, che han‑ no affermato come l’art. 117, comma 1, della Costituzione abbia introdotto nel sistema delle fonti normative, quale nor‑ ma di rango costituzionale, l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare le norme internazionali pattizie; da ciò consegue che la norma nazionale che risulti incompatibile con quella della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, e quindi con gli obblighi internazionali della citata norma costituzionale, viola per ciò stesso detto parametro costituzionale. La Cassazione evidenzia poi come il meccanismo di inte‑ grazione tra la norma convenzionale e l’art. 117, comma 1, della Costituzione sia assicurato dall’art. 32, par. 1, C.E.D.U., che attribuisce alla Corte Europea del Diritti dell’Uomo di Strasburgo l’interpretazione centralizzata, con la conseguenza che il giudice nazionale è obbligato ad interpretare le norme interne in conformità della disposizione internazionale, non potendo fare da esse derivare contenuti divergenti dall’interpre‑ tazione fornita dalla Corte di Strasburgo, per cui allorquando il risultato sfoci in un contrasto insanabile in via interpretativa, sarà compito della Corte Costituzionale accertare il conflitto tra la norma interna e le disposizioni della Convenzione. Nel caso di specie la Difesa aveva citato la sentenza 5 luglio 2011 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, definitiva il 5 ottobre 2011, nel caso Dan versus Moldavia, al fine di di‑ mostrare che il giudizio innanzi alla Corte di Appello di Ge‑ nova si era svolto in contrasto con quanto previsto dall’art. 6, par. 1, CEDU, come interpretato dai giudici di Strasburgo, secondo cui “Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente ... da parte di un tribunale indi‑ pendente ed imparziale, costituito dalla legge che deciderà... sul fondamento di ogni accusa elevata contro di lui”. Nel caso esaminato dalla Corte di Strasburgo il ricorrente era stato dapprima assolto dall’accusa di aver accettato, quale preside di una scuola, una tangente per favorire il trasferimen‑ to di uno studente presso l’istituto da lui diretto, in quanto in primo grado i testimoni avrebbero offerto versioni contrastan‑ ti dei fatti, mentre la sentenza di appello, pronunciata a segui‑ to di impugnazione del P.G., aveva ribaltato il giudizio, con‑ dannando l’imputato, senza però escutere nuovamente i testi ma solo dando una diversa valutazione delle testimonianze rese in primo grado, ritenute tutte attendibili, e non rilevando essenziali discordanze tra le stesse. I giudici di Strasburgo, con la citata decisione, hanno rite‑ nuto che l’essersi la Corte di Appello basata sulle dichiarazio‑ ni dei testi, come verbalizzate in atti, senza udire nuovamente i testi medesimi, e ciò nonostante pervenire ad una sentenza di condanna, costituiva una violazione dell’art. 6, par. 1 della Convenzione, e ciò perché “la valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non F O R E N S E m a r z o • a p r i l e può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate”. La Corte europea, pertanto, come osservato dalla Cassa‑ zione, àncora la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU, con ri‑ ferimento al giudizio di appello, al duplice requisito della decisività della prova testimoniale e della rivalutazione di essa da parte della Corte di Appello in termini di attendibili‑ tà, effettuata in assenza di un nuovo esame dei testimoni dell’accusa; ciò in quanto la diversa valutazione di attendibi‑ lità era stata eseguita non direttamente, ma solo sulla base della lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dai testi. Secondo la valutazione della Cassazione nel caso della sentenza di appello per i fatti di Genova, accaduti la notte del 21 luglio 2001 presso la scuola Diaz e la scuola Pascoli, non ricorreva nessuno dei due predetti requisiti. Non il primo, dai momento che il compendio probatorio a carico degli imputa‑ ti, che supporta la sentenza di condanna di secondo grado, è costituito non solo da prove testimoniali, ma anche da prove documentali, audio e video, dalla documentazione sanitaria, dalla documentazione del traffico telefonico, dalle registra‑ zioni di conversazioni telefoniche, oltre che dalle dichiarazio‑ ni rese contra se dagli stessi imputati e quelle, sempre prove‑ nienti dagli imputati, giudicate in evidente contrasto con la documentazione audiovisiva acquisita agli atti. Non il secon‑ do, poiché, nel pervenire alla condanna degli imputati assolti in primo grado, la Corte genovese non ha operato una diver‑ sa valutazione delle varie testimonianze, pervenendo ad un differente giudizio di attendibilità dei testi di accusa, ma ha invece tratto dalle dichiarazioni di alcuni testimoni conse‑ guenze in termini di responsabilità, con riferimento alle di‑ verse imputazioni elevate a carico di alcuni dei ricorrenti, sulla base della interpretazione delle dichiarazioni testimo‑ niali che non è andata ad involgere quel giudizio di valore delle stesse dichiarazioni, ritenuto precluso dalla Corte euro‑ pea ai giudici di appello ove con esso intendano ribaltare la sentenza assolutoria di primo grado, a ciò potendo invece pervenire solo in seguito all’esame diretto delle medesime fonti testimoniali. Sulla base di queste premessa la S.C. ha concluso per la conseguente irrilevanza della dedotta questione di legittimità costituzionale. 2. Dal contenuto di detta sentenza si potrebbe quindi desumere che il giudice di appello, tutte le volte in cui abbia elementi desumibili dagli atti, ovvero eventualmente emersi nel corso del giudizio di appello, per ritenere ragionevolmen‑ te dubbia l’attendibilità di uno o più testimoni escussi nel corso del primo giudizio, la cui deposizione sia stata determi‑ nante nell’economia processuale al fine di pervenire alla sentenza, debba necessariamente disporre l’esame del teste o dei testi attraverso il meccanismo della rinnovazione del di‑ battimento, non potendosi limitare a formulare un nuovo giudizio involgente l’attendibilità del teste sulla scorta dei soli atti processuali, senza alcuna discrezionalità, quindi, nel decidere se rinnovare o meno l’esame dei testi. Detta necessità, quindi, deriverebbe non solo nelle ipotesi in cui il giudice di appello si trovi di fronte ad una testimo‑ nianza sopravvenuta, in quanto del tutto nuova o scoperta dopo il giudizio di primo grado, purché si tratti di prove che rispondano ai requisiti di ammissibilità e rilevanza, secondo 2 0 1 3 69 quanto previsto dall’art. 603, comma 2, in relazione agli artt. 495, 190 e 190 bis, c.p.p., ma anche nei casi previsti dall’art. 603, comma 1, c.p.p., ossia quando la parte abbia fatto richie‑ sta di riassumere prove già acquisite nel dibattimento di primo grado o di assumere prove nuove. Detta lettura implica l’esigenza di chiarire, quindi, come possano coordinarsi tra loro il requisito previsto dalla norma di cui al comma primo dell’art. 603 c.p.p. – allorquando pre‑ vede che alla richiesta riassunzione delle prove o all’assunzio‑ ne di nuove prove il giudice provveda solo allorquando non possa decidere allo stato degli atti – ed il requisito richiesto dalla lettura operata dai giudici di Strasburgo, secondo cui la riassunzione sarebbe doverosa in ogni caso, a fronte di prove già assunte in primo grado, purché si tratti di prove decisive ai fini del giudizio e purché vi siano fondati elementi per ri‑ valutare l’attendibilità della prova testimoniale decisiva. Il problema appare più apparente che reale, posto che se ricorrono entrambi i requisiti richiesti dai giudici di Strasbur‑ go è chiaro che il giudice di appello si trova nella impossibili‑ tà di poter decidere allo stato degli atti, per cui le situazioni esaminate appaiono del tutto sovrapponibili. Altrettanto evidente, a parere di chi scrive, è la circostan‑ za che i seri dubbi circa l’attendibilità della prova testimonia‑ le non devono necessariamente essere posti o allegati dalla Difesa, potendo essere lo stesso giudice di appello ad enucle‑ arli dalla complessiva valutazione del materiale probatorio e dovendo, in tal caso, far ricorso alla rinnovazione dell’istrut‑ toria dibattimentale ai sensi dell’art. 603, comma 3, c.p.p. 3. La sentenza esaminata offre inoltre lo spunto per ana‑ lizzare alcuni aspetti delle possibili opzioni che si presentano al giudice di appello in relazione all’istituto della rinnovazio‑ ne dell’istruttoria dibattimentale, tradizionalmente residuale nella prassi applicativa, anche per la scarsa considerazione del giudizio di appello come giudizio di merito secondo la più risalente giurisprudenza di legittimità e parte della meno re‑ cente dottrina. Quanto emerge dalla sentenza citata in precedenza, infat‑ ti, costituendone un aspetto estremamente attuale e rilevante, è il dato che la giurisprudenza della Corte di Cassazione, sulla scorta anche di quanto statuito dai giudici di Strasburgo, stia tendenzialmente abbandonando l’interpretazione dell’isti‑ tuto della rinnovazione del dibattimento come quella di un istituto di residuale applicazione, sul presupposto non più condivisibile di una completezza dell’attività di istruttoria dibattimentale in primo grado. E che si possa parlare, in tal senso, di una vera e propria inversione di tendenza, può essere dimostrato attraverso una rapidissima analisi di alcune pronunce della giurisprudenza di legittimità negli ultimi dieci anni. Nel senso della residualità della rinnovazione del dibatti‑ mento in grado di appello si era espressa la sentenza della IV sezione penale della Cassazione in data 5.12.2003, n. 1634, laddove aveva escluso la sussistenza di un vero e proprio di‑ ritto alla rinnovazione del dibattimento in grado di appello, affermando che l’istituto della rinnovazione è governato dal‑ la regola prevista dall’art. 603 c.p.p. che, al comma 1, la consente solo allorquando non sia possibile decidere allo stato degli atti, a richiesta di parte, e qualora sia assolutamen‑ te necessario, se viene disposta d’ufficio, ai sensi del terzo penale Gazzetta 70 D i r i t t o e p r o c e d u r a comma. In particolare in detta sentenza veniva affermato che non si ricade nella previsione di prove scoperte o sopravvenu‑ te dopo il dibattimento di primo grado qualora si richieda l’assunzione come teste di un coimputato assolto in primo grado. La Corte osservava altresì che una conferma dell’am‑ bito di applicazione del diritto alla prova nel giudizio di ap‑ pello la si ottiene dall’analisi del combinato disposto dell’art. 495, comma 2, c.p.p. e dell’art. 606, comma 1, lett. d), c.p.p., secondo cui le parti possono ricorrere in Cassazione solo contro la mancata assunzione di una prova decisiva a disca‑ rico (o a carico se si tratta del pubblico ministero), e non per altre ragioni attinenti al diritto alla prova. Ancora la Cassazione, I sezione penale, con la sentenza del 24 marzo 2004, n. 415, aveva ribadito, in materia di rin‑ novazione del dibattimento in sede di giudizio di rinvio a se‑ guito di annullamento da parte della Cassazione che “la rin‑ novazione del dibattimento in appello è un evento che, con‑ trapponendosi alla presunzione della completezza della istruzione dibattimentale compiuta in primo grado, ha carat‑ tere assolutamente eccezionale, e l’esercizio del potere di di‑ sporla da parte del giudice è vincolato alla condizione che quest’ultimo ritenga che gli elementi probatori raccolti in primo grado non gli consentano di pervenire ad una decisio‑ ne”, confermando il precedente indirizzo giurisprudenziale secondo cui la prova da assumersi nella eccezionale ipotesi di nuova istruttoria dibattimentale, oltre che indispensabile per la decisione ai sensi dell’art. 603 c.p.p., deve anche essere ri‑ levante, come prescritto dall’art. 627, comma II, c.p.p. Anche nella motivazione della sentenza della III sezione penale della Cassazione in data 2 marzo 2004, n. 382, si legge che l’istituto della rinnovazione dell’istruttoria dibatti‑ mentale in appello ha carattere eccezionale e, a sostegno di tale affermazione, si citava la sentenza delle SS.UU. del 15 marzo 1996, n. 2780; tuttavia detta motivazione apriva una breccia nella precedente giurisprudenza laddove, esaminando le conseguenze prodotte dalla legge 479/1999 sul giudizio abbreviato – che non costituiva più un rito alternativo vinco‑ lato allo stato degli atti, essendo stata ammessa in primo grado l’integrazione probatoria - riteneva che potrebbero considerarsi ammissibili le così dette prove nuove, ossia quel‑ le non potute proporre in primo grado anche se anteriori alla decisione, citando a sostegno le SS.UU. del 9 gennaio 2002, n. 624, in materia di giudizio di revisione. In realtà appare illuminante e significativa, ai fini della individuazione dei limiti del significato concettuale di “prove nuove” proprio quanto stabilito dalla III sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 22061 del 5 maggio 2010 che, ammettendo la possibilità della revisione a seguito di giudizio abbreviato, ha affermato che per prove nuove ai sensi dell’art. 630 lett. c), c.p.p., devono intendersi anche quei mezzi di prova che l’imputato avrebbe potuto indicare come integra‑ zione probatoria nella richiesta di giudizio abbreviato, in quanto “La circostanza che l’imputato, seguendo una sua strategia difensiva, abbia in ipotesi rinunciato a subordinare la sua richiesta di giudizio abbreviato all’espletamento di una determinata prova, non gli preclude, dopo la condanna, di far valere in sede di domanda di revisione questa prova, se idonea a dimostrare che l’imputato avrebbe dovuto esser prosciolto ai sensi dell’art. 631 c.p.p. Infatti in generale la nozione di “prove nuove” ex art. 630 c.p.p., comma 1, lett. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E c), va intesa in senso ampio in ragione del favor libertatis: tali devono intendersi non solamente quelle “sopravvenute” - e quindi acquisite o rinvenute dopo la sentenza di condan‑ na - ma anche quelle successivamente “scoperte”, ossia di‑ svelate, nel senso di non valutate, neppur implicitamente, dal g i u d i c a n t e , a n c o rc hé c o n o s c i u t e o c o n o s c i b i l i .” Estremamente interessante ed evidentemente significativa di una diversa concezione dell’istituto della rinnovazione del dibattimento in appello, appare, invece, l’affermazione con‑ tenuta nella sentenza della VI sezione penale della Cassazione, n. 1487 del 2 novembre 2004, la quale non solo ha affermato che il potere del giudice di disporre anche d’ ufficio l’ assun‑ zione di nuovi mezzi di prova previsto dall’art. 507 c.p.p. può essere esercitato anche con riferimento a quelle prove che le parti avrebbero potuto richiedere e non hanno richiesto o dalle quali siano decadute, richiamando le Sezioni Unite del 6 novembre 1992, Martin, e specificando che tale norma ha natura sostanziale, in quanto diretta alla ricerca della verità, indipendentemente dalle vicende processuali che determinano la decadenza della parte al diritto alla prova, ma ha afferma‑ to espressamente come il giudice di appello, che in sede di rinvio proceda alla rinnovazione dell’ istruttoria dibattimen‑ tale, ha il potere di disporre d’ ufficio, ai sensi dell’art. 507 c.p.p., l’ammissione di nuove prove, atteso che l’ art. 627, comma 2, non costituisce norma derogatoria rispetto a quel‑ la, ordinaria, di cui all’art. 603, comma 3, c.p.p., riguardante la rinnovazione ufficiosa dell’ istruttoria dibattimentale pro‑ pria del giudizio di appello (sez. VI, 14 febbraio 2001, Enea). In senso sostanzialmente analogo si è espressa altresì la sentenza della I sezione penale del 22.1.2008, n. 60, che ha equiparato la funzione dell’art. 603 c.p.p. in grado di appello a quella dell’art. 507 c.p.p. prevista per il dibattimento di primo grado. 4. Appare quindi evidente come, anche attraverso ripen‑ samenti e timide aperture, la giurisprudenza della Cassazione abbia finito per attribuire all’istituto della rinnovazione del dibattimento nel giudizio di appello quel carattere di centra‑ lità caratterizzante la natura stessa del giudizio quale giudizio di merito e la sua funzione fondamentale proprio in quanto ultimo grado in cui il merito possa essere non solo valutato e/o rivalutato, ma anche diversamente inquadrato dal punto di vista probatorio, con tutte le conseguenze sulla valutazione di merito. La strada veniva percorsa, come visto, attraverso la so‑ stanziale equiparazione della natura e della funzione degli artt. 507 e 603 c.p.p., il che implica il riconoscimento mani‑ festo al giudice di appello delle funzioni e dei poteri di un giudice di merito a tutti gli effetti e della qualificazione del giudizio di appello quale secondo grado di merito pieno, e non più grado di giudizio minusvalente quanto a finalità, facoltà e poteri istruttori. Sotto altro profilo appare evidente, anche per un principio di economia di mezzi processuali che se una prova nuova le‑ gittima il giudizio di revisione, a maggior ragione essa debba essere assunta nel giudizio di appello, indipendentemente dalla scelta del rito con cui è stato concluso il giudizio di primo grado, posto che il giudizio di appello deve essere co‑ munque e sempre inteso come giudizio di merito. Ciò com‑ F O R E N S E m a r z o • a p r i l e porta che il giudice dell’impugnazione in appello non può essere considerato come un giudice i cui poteri siano circo‑ scritti o limitati rispetto a quello di primo grado, ostando a tale interpretazione il semplice richiamo alla norma di cui all’art. 598 c.p.p. In relazione all’art. 598 del codice di rito bisogna infatti intendersi in ordine alla portata dell’inciso secondo cui le disposizioni del giudizio di primo grado si osservano in grado di appello, in quanto applicabili, nel senso che certamente esso non autorizza attualmente una lettura del giudizio di appello come caratterizzato da una fase dibattimentale neces‑ sariamente ed ontologicamente contratta. A tali conclusioni si può agevolmente pervenire se si esamina la giurisprudenza relativa al divieto di reformatio in peius ed ai poteri del giu‑ dice di appello in relazione ai casi disciplinati dall’art. 521 c.p.p., per comprendere la portata ed i limiti dell’inciso con‑ tenuto nella norma citata. Come già detto, anche le più recenti conclusioni della dot‑ trina appaiono coerenti con detta impostazione1, e tuttavia proprio alla luce delle precedenti considerazioni appare interes‑ sante rileggere le significative riflessioni contenute in un artico‑ lo di Elvio Fassone avente ad oggetto il giudizio di appello. Nello scritto si seguiva un percorso argomentativo in un’ottica di riforma del giudizio di appello e, non a caso, si esaminavano proprio le ambiguità insite nella rinnovazione dibattimentale. 2 Fassone osservava come ogni questione concernente l’isti‑ tuto della rinnovazione del dibattimento in appello non po‑ tesse non inserirsi in un più ampio discorso sull’inquadramen‑ to della funzione effettiva del giudizio di appello. Sin dall’or‑ mai lontana entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale era stata, infatti, avviata una riflessione complessiva sul problema delle impugnazioni3 e, in particolare sull’appel‑ lo, di cui si sottolineava l’eterogenesi dei fini, ossia il progres‑ sivo mutamento della funzione del giudizio di appello, da ri‑ medio all’errore della decisione a strumento per dilazionare l’esecutività della sentenza ovvero per lucrare la prescrizione dei reati. Detta considerazione, per la verità, conserva la sua piena attualità, come dimostrato dalla sostanziale inammissibilità di molte impugnazioni in grado di appello da punto di vista contenutistico; ed infatti l’esperienza insegna che se si dispo‑ nesse del tempo sufficiente per un serio vaglio preliminare dei motivi di appello, non vi è dubbio che si perverrebbe ad argi‑ nare la celebrazione di numerosissimi giudizi in grado di ap‑ pello manifestamente dilatori attraverso l’immediata emissio‑ ne di un’ordinanza di inammissibilità. Se si ritiene che la risposta alla drammatica inefficienza della giustizia non sia necessariamente la discrezionalità dell’azione penale, con tutte le conseguenze che essa implica, non vi è dubbio che si debbano prendere in considerazione altri rimedi possibili alla luce del sistema attualmente vigente. 1 D. Chinnici, La rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nel giudizio di appello, relazione tenuta per il CSM nel corso di formazione su “Il giudizio di appello”, in Roma, 10 – 12 ottobre 2011. 2 E. Fassone, L’appello: un’ambiguità da sciogliere, in Questione Giustizia, n. 3 del 1991. 3 A. Nappi, Il nuovo processo penale: un’ipotesi di aggiornamento del giudizio di appello, in Cass. pen., 1990, p. 974. 2 0 1 3 71 Uno di questi sistemi è, appunto, un serio vaglio dell’am‑ missibilità dei motivi di appello. D’altro canto si tratterebbe semplicemente di applicare al giudizio di appello un filtro analogo a quello che viene utilizzato in Cassazione, come peraltro previsto per tutte le forme di impugnazione dall’art. 591 c.p.p., e quindi espressamente consentito per il giudizio di appello. Ciò renderebbe da un lato possibile al giudice di appello lo svolgimento effettivo del suo ruolo di giudice di merito, sgombrando il campo immediatamente da tutte le impugna‑ zione prima facie dilatorie, anche se va evidenziato come l’effettiva realizzazione pratica di detta opzione implichereb‑ be un atteggiamento un po’ più realistico da parte della stes‑ sa Corte di Cassazione, che in taluni casi, attraverso il succes‑ sivo annullamento delle ordinanze declaratorie di inammissi‑ bilità dell’appello, finisce per perpetuare inconsapevolmente la prassi che assicura un diritto a prescindere dagli abusi dello stesso, senza neanche tenere presente che non si può sacrificare sistematicamente la giustizia del singolo processo con il complessivo, ormai del tutto teorico, miglior funziona‑ mento del sistema nel suo complesso. E quanto ciò sia vero è dimostrato semplicemente dalla considerazione della elevatissima pendenza di processi giacen‑ ti nelle cancellerie delle sezioni di molte Corti di Appello, se‑ gnatamente quelle, prima tra tutte la Corte di Appello di Na‑ poli, afflitte da una sistemica criminalità diffusa su tutto il territorio nelle sue più diverse e disparate forme di manifesta‑ zione, dalla microcriminalità alla criminalità organizzata. Sotto altro profilo osservava Elvio Fassone come sin dagli albori dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale4si era rilevato che se l’appello costituisce una garanzia, detta garanzia per poter essere effettiva rende necessario che in entrambi i gradi di giudizio si pervenga alle conclusioni attraverso un’analisi condotta con i medesimi strumenti co‑ noscitivi, il che non avviene quando si considera o si costrin‑ ge il giudice dell’appello ad essere un mero ed acritico ratifi‑ catore della decisione adottata in primo grado, per tacere delle distorsioni costituite dalla diffusa considerazione e dall’accettazione conseguente, da parte di alcuni giudici dell’appello, del loro ruolo come quello di giudici di benefi‑ cenza. Né appare possibile ritenere che in un modello processua‑ le improntato alla logica del contraddittorio si affidi la paro‑ la definitiva sulla ricostruzione del fatto ad un giudice che detto contraddittorio sperimenta assai di rado e, soprattutto, sconta una logica di presunta completezza del giudizio di primo grado, nei fatti spesso del tutto contraddetta, come l’esperienza di molti processi insegna, segnatamente di quelli conclusi con giudizio abbreviato. A ciò si deve aggiungere una ulteriore considerazione, basata non su una scelta processuale, ma su un dato ontolo‑ gico: la centralità del dibattimento non dipende dal fatto che la prova si deve formare davanti al giudice in contraddittorio, ma dipende dal fatto che la prova non può formarsi due volte. Se, infatti, principio ispiratore del rito accusatorio è che cia‑ scuna parte scelga il materiale formato ed acquisito nel corso 4 P. Ferrua, Il sindacato di legittimità sul vizio di motivazione nel nuovo codice di procedura penale, in Cass. pen., 1990, p. 969. penale Gazzetta 72 D i r i t t o e p r o c e d u r a delle indagini, in base al quale far emergere gli elementi di prova favorevoli alla propria tesi, presentando detto materia‑ le al giudice che non è solo terzo, ma è anche ignaro, e questa attività viene contestualizzata in un’unica sequenza, attraver‑ so meccanismi quali, ad esempio, la cross – examination, appare di tutta evidenza che detta sequenza non è suscettibi‑ le di replica. Con queste premesse, proseguiva Fassone, appare eviden‑ te come il concetto di rinnovazione del dibattimento si ponga in stridente contrasto, e ciò emerge evidente proprio dall’ana‑ lisi dell’art. 603 c.p.p., in quanto esso contempla, a ben vede‑ re, due distinte ipotesi: la prima è costituita dai casi in cui si richiede la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimen‑ to di primo grado, ovvero l’assunzione di nuove prove, ai sensi dell’art. 603, comma 1, c.p.p., e la seconda è costituita da casi in cui si chiede l’assunzione di prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado ovvero si renda ne‑ cessario ovviare alla menomazione del diritto di difesa dell’im‑ putato rimasto contumace, secondo quanto previsto dall’art. 603, commi 2 e 4, c.p.p. Ma, a ben vedere, esaminando accuratamente i casi della prima ipotesi, ossia quelli contemplati dall’art. 603, comma 1, c.p.p., ci si rende conto che essi si pongono in aperto con‑ trasto con i cardini fondamentali del rito accusatorio, in quanto non dovrebbe essere consentito alla parte appellante di chiedere ed ottenere la riassunzione delle prove già acqui‑ site in primo grado, salvo il caso di violazione di regole pro‑ cessuali nell’assunzione delle prove stesse, così come un dibat‑ timento di primo grado basato su un obbligo di discovery, sanzionato da scansioni di inammissibilità e decadenze non può consentire alla parte, in grado di appello, di far valere prove storicamente preesistenti di cui, però, aveva scelto di non avvalersi nel primo grado di giudizio. In quest’ultimo caso, infatti, ciò deve essere ritenuto ammissibile solo se le prove siano anche storicamente sopraggiunte o scoperte ri‑ spetto al giudizio di primo grado ma, in tal caso, si ricade nell’ipotesi delle prove inedite, ossia delle prove contemplate dall’art. 603, comma 2, c.p.p. Questa ipotesi, in sostanza, corrisponde peraltro alle ipotesi di revisione, mentre ontologicamente estraneo al con‑ cetto di rivalutazione della prova è il caso previsto dall’art. 603, comma 4, c.p.p., in cui in realtà si tratta di recuperare delle facoltà che avrebbero dovuto essere già esercitate nel grado precedente. Peraltro ci si dovrebbe chiedere, come si è chiesto Fassone e come sembra attualmente affermare la giurisprudenza più sensibile, ivi inclusa quella comunitaria, come possa il giudice di appello, senza la riassunzione delle prove già svolte in primo grado, giungere a conclusioni nel merito difformi da quelle del primo giudice, posto che il giudice di secondo grado, non es‑ sendo dotato di una maggiore autorevolezza conoscitiva, non potrebbe giungere a conclusioni diverse, a meno che non rav‑ visi l’omissione, da parte del giudice di primo grado, di elemen‑ ti di prova di senso contrario evidentemente influenti, ovvero ravvisi, da parte del giudice di primo grado, l’uso di criteri manifestamente irragionevoli, ovvero l’utilizzazione di pseudosillogismi probatori manifestamente inaccettabili. Appare di tutta evidenza, quindi, che in tali casi l’ambito in cui opera il giudice dell’appello tende a sovrapporsi con quello del giudizio di cassazione, consistendo, in maniera abbastanza evidente, in p e n a l e Gazzetta F O R E N S E un giudizio su questioni di diritto ovvero sulla manifesta irra‑ gionevolezza del percorso argomentativi e valutativo. D’altra parte, venendo a considerazioni basate su quanto emerso dall’analisi delle esperienze successive, va detto chia‑ ramente che si leggono sempre più spesso, soprattutto di re‑ cente, motivazioni di sentenze di legittimità contenenti vere e proprie ricostruzioni del fatto. Sembra quasi che il giudice di legittimità più o meno con‑ sapevolmente o volontariamente scivoli verso una vocazione di merito, mentre, corrispondentemente, il giudice del grado di appello, obliando o abdicando alla sua funzione di giudice di merito, perviene a conclusioni difformi da quelle del primo giudice sulla base di valutazioni che prescindono dall’assun‑ zione diretta di mezzi di prova. Se quindi ciò dimostra quella che da più parti, ed anche sotto il vigore del codice abrogato, veniva definita l’ambigui‑ tà di fondo del giudizio di appello5, l’esperienza giudiziaria continua ad insegnare come appaia necessario implementare i poteri del giudice di appello nel suo ruolo di giudice di me‑ rito, al di là di ogni finzione di completezza del giudizio di primo grado. Detta considerazione, tra l’altro, si basa sull’esperienza dei processi per delitti associativi e relativi reati fine, conclusi prevalentemente con il rito abbreviato, in cui le sentenze rap‑ presentano sempre più spesso su una sorta di reiterazione tralaticia delle argomentazioni contenute nella richiesta di misura cautelare, riprodotta pedissequamente nella motiva‑ zione dell’ordinanza di custodia cautelare e, quindi, nella sentenza di primo grado, corredata invariabilmente da pagine e pagine di citazioni della giurisprudenza di legittimità sulla chiamata di correo e sulla sua valutazione, oltre che sulla natura del delitto associativo contestato, cui si accompagna‑ no, in una sorta di perversa corrispondenza, argomentazioni spesso insufficienti se non apparenti circa la valutazione delle singole chiamate di correo in relazione alla singole posizioni processuali ovvero alle singole ipotesi di reato. Da ciò conse‑ gue che spesso il giudice di appello finisce per essere sempre più il primo vero giudice del merito, colui che potrebbe valu‑ tare approfonditamente la vicenda processuale delimitata e circoscritta dai motivi dell’impugnazione. Ciò a meno che il giudice dell’appello non decida di voler abdicare al proprio ruolo fondamentale e, nascondendosi dietro la presunta funzione di completezza del giudizio di primo grado, svolgere il proprio ruolo di controllore fittizio del primo giudice, ossia ratificarne, spesso del tutto acritica‑ mente, l’operato. A ben vedere il codice offre al giudice di appello tutti gli strumenti processuali per poter approfondire gli aspetti pro‑ batori che risultino carenti o lacunosi. In tal senso il potere di iniziativa, non certamente residua‑ le del giudice di appello, si basa non solo sull’ipotesi contem‑ plata dall’art. 603, comma 2, c.p.p., ma soprattutto sulla norma dell’art. 603, comma 3, c.p.p., che rappresenta una vera e propria norma di chiusura del sistema, idonea a colma‑ re tutte le eventuali lacune processuali e probatorie, oltre alle manifeste incongruità nei processi inferenziali, consentendo al giudice di appello di poter svolgere un ruolo di controllore 5 F. Cordero, Procedura penale, 1982, pag. 484. F O R E N S E m a r z o • a p r i l e non solo formale, ossia di verificatore e ratificatore della de‑ cisione di primo grado, ma di riappropriarsi del suo ruolo di titolare di una fase processuale in cui può essere celebrato un nuovo giudizio per quegli aspetti essenziali e non manifesta‑ mente infondati che si palesino necessari ed indispensabili all’accertamento della verità processuale. 5. Detto percorso è tracciato, ancora una volta, da alcune pronunce della Corte di Cassazione. Già con la sentenza della I sezione penale del 2 febbraio 2007, n. 192, i giudici di legittimità hanno annullato una sentenza della Corte di Assise di Appello di conferma della condanna dell’imputato, in relazione alla circostanza che la Corte di Assise in primo grado aveva respinto la richiesta del P.M. di acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali rese dai testi ex art. 500, comma 4, c.p.p.; detta ordinanza successivamente non era stata impugnata dal P.M. che, essen‑ do stata pronunciata una sentenza di condanna dell’imputato, non ne avrebbe avuto interesse. Sulla circostanza che la Cor‑ te di Assise di Appello aveva dichiarato inammissibile la ri‑ chiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, i giu‑ dici di legittimità hanno osservato che - non valendo il prin‑ cipio della immodificabilità delle ordinanze dibattimentali, ed essendo la facoltà di revoca delle ordinanze ammissive della prova esplicitamente previste dall’art. 595, comma 4, c.p.p., in relazione all’art. 598 c.p.p. - il giudice di appello ben avrebbe potuto, in sede di rinnovazione dell’istruttoria dibat‑ timentale, da disporre eventualmente d’ufficio ex art. 603 comma 3, c.p.p., modificare o revocare la suddetta ordinanza emessa dal giudice di prime cure; all’opposto il giudice di appello aveva, da un lato, scelto di non pronunciarsi ex pro‑ fesso, sostenendo di non poter esprimere alcuna certezza in ordine a presunte pressioni o minacce che i testi avrebbero ricevuto dall’imputato e, dall’altro, aveva in tal modo assunto una posizione di sostanziale anche se non formale adesione alla tesi dell’accusa, osservando che l’esistenza di tali pressio‑ ni o minacce sembrava aver trovato conferma in altri fonti probatorie. La Corte di Cassazione aveva qualificato la scelta del giudice di appello come illogica, contraddittoria, per certi versi ambigua, tale da non consentire affatto di fare chiarezza in una situazione connotata da non poche incertezze, nella quale qualsiasi aspetto avrebbe dovuto essere scandagliato ed esplorato con tutto lo scrupolo e l’attenzione che il caso ri‑ chiedeva. Detta pronuncia appare paradigmatica del riconoscimen‑ to, da parte della più sensibile giurisprudenza di legittimità, del ruolo fondamentale del giudizio di appello come giudizio di merito e non di mera convalida del giudizio di primo grado, e della sussistenza di fondamentali strumenti offerti al giudi‑ ce di secondo grado per svolgere detto ruolo, attraverso la rielaborazione non solo del percorso logico ed argomentativo sotteso all’adozione delle ordinanze in materia di ammissione dei mezzi di prova in primo grado, ma della possibilità di colmare tutte le eventuali lacune ed illogicità che lo svolgi‑ mento del giudizio di primo grado possa palesare, anche a prescindere dalle istanze di parte, ossia facendo ricorso a poteri di iniziativa che mal si concilierebbero con un ruolo del giudice di appello limitato ad una semplice rivalutazione cartolare del primo giudizio. 2 0 1 3 73 Ritornando al discorso relativo al giudizio di appello av‑ verso sentenze concluse con il rito abbreviato, si ritiene che proprio la giurisprudenza della Cassazione abbia ulteriormen‑ te sottolineato l’ampiezza dei poteri istruttori del giudice di appello anche in relazione a detto rito alternativo. Basti, in tal senso, ripercorrere le articolatissime argomentazioni della sentenza della I sezione della Corte di Cassazione, nr. 555 del 23.5.2012 (P.M. in processo Andali), pronunciata a seguito di appello del P.G. avverso una sentenza della Corte di Appel‑ lo di Catanzaro con cui era stata confermata la sentenza di assoluzione emessa a seguito di giudizio abbreviato. La sentenza della Corte di Appello aveva giustificato la mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale richiesta dal P.G. ai sensi dell’art. 603, comma 3, c.p.p., ritenendo la stessa non assolutamente necessaria ai fini del decidere, risul‑ tando l’istruttoria celebrata in primo grado esaustiva, la ri‑ chiesta del P.G. avendo ad oggetto fonti dichiarative generiche al pari di quelle già acquisite agli atti. Avverso la sentenza aveva interposto ricorso in Cassazio‑ ne il P.G. ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., in relazione all’ordinanza reiettiva della richiesta di assunzione di nuove prove costituite da fonti dichiarative che avevano avviato la collaborazione dopo la sentenza di primo grado, argomentando che, trattandosi di prove sopravvenute, il cri‑ terio che avrebbe dovuto essere seguito, ai fini dell’ammissio‑ ne dell’istanza di rinnovazione, avrebbe dovuto essere quello dell’utilità di dette fonti di prova, con la conseguenza che esse avrebbero potuto essere escluse solo se manifestamente superflue o irrilevanti; il P.G. aveva citato giurisprudenza della Cassazione in tal senso, peraltro avente ad oggetto sen‑ tenze emesse a seguito di dibattimento ordinario e non di giudizio abbreviato (sez. V. n. 552 del 13.3.2003; sez. III, n. 230 del 9.11.2006; sez. I, n. 43373 del 14.10.2010). Sul punto osserva la Corte che la sentenza citata dal ricor‑ rente non affermava esplicitamente la sussistenza di un dirit‑ to delle parti discendente direttamente dall’art. 495 c.p.p., quindi con applicazione piena dell’art. 603, comma 2, c.p.p., indicando piuttosto un differente criterio di valutazione che il giudice di appello deve adottare in caso di prova nuova sopravvenuta, nel provvedere sulle sollecitazioni delle parti ad una integrazione probatoria di ufficio. Appare evidente da queste premesse come, nella ricostru‑ zione della vicenda processuale descritta dalla sentenza in esame, si contrapponga la concezione del giudizio di appello come giudizio meramente di controllo con la concezione di segno opposto, che attribuisce al giudice di appello tutt’altro ruolo, salvo verificare le modalità esplicative di detto ruolo in relazione alla scelta processuale effettuata in primo grado. Sotto questo profilo la Corte rileva come l’art. 603, com‑ ma 2, c.p.p., non si applichi al giudizio di appello instaurato avverso una sentenza definita con rito abbreviato, citando in tal senso la sentenza a sez.un., n. 930 del 13.12.1995, Clarke, che aveva escluso qualsiasi potere di iniziativa delle parti in ordine all’assunzione delle prove, poiché esse, prestando il consenso all’adozione del rito abbreviato, avevano definitiva‑ mente rinunciato al diritto alla prova, mentre, per converso, al giudice di appello era consentito, a differenza del giudice di primo grado, disporre d’ufficio i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari per l’accertamento dei fatti, ai sensi dell’art. 603, comma 3, c.p.p. Con la sentenza Clarke la Cor‑ penale Gazzetta 74 D i r i t t o e p r o c e d u r a te aveva sottolineato che alla parti rimane in ogni caso la possibilità di sollecitare i poteri suppletivi di iniziativa proba‑ toria che spettano al giudice di secondo grado, e che l’acqui‑ sizione delle prove ammesse d’ufficio non faceva perdere all’imputato il beneficio della diminuzione della pena ex art. 442, comma 2, c.p.p. Non si può negare, quindi, che già la sentenza Clarke avesse riconosciuto al giudice di appello, chiamato a pronun‑ ciarsi in relazione ad una sentenza emessa a seguito di giudi‑ zio abbreviato, i poteri istruttori tipici del giudice di merito, a maggior ragione necessari a compensare la limitazione dei poteri officiosi del giudice di primo grado derivanti dalla scelta del rito. In realtà, come osservato dalla S.C. con la sentenza del 2012 in commento, il quadro normativo sussistente al mo‑ mento delle pronuncia delle Sezioni unite nel 1995 era del tutto diverso, atteso che era necessario il consenso del P.M. per procedere con il rito alternativo, requisito non più richie‑ sto all’esito della riforma introdotta dalla legge n. 479 del 1999. Si riteneva quindi, anche in riferimento alla parte pub‑ blica, che il negozio processuale abdicativo alla base del giu‑ dizio abbreviato consistesse nella disposizione del diritto alla prova, per cui, una volta scelto il rito abbreviato, l’imputato ed il pubblico ministero rinunciassero ad avvalersi della facol‑ tà di richiedere l’ammissione dei mezzi di prova ai sensi dell’art. 190, comma 1, c.p.p., il che, ovviamente, può riguar‑ dare i soli poteri rientranti nella sfera di disponibilità delle parti, e non anche i poteri di iniziativa ex officio di cui il giudice è direttamente investito dalla legge in vista del supe‑ riore interesse alla ricerca della verità. La differenza sul piano della estensione e delle connotazio‑ ni funzionali tra i poteri delle parti ed i poteri del giudice in ordine alle prove implica che l’inerzia e la rinuncia delle prime restano prive di negativa incidenza sui poteri del giudice, fina‑ lizzati questi ultimi al conseguimento di una giusta decisione indipendentemente dalla condotta processuale delle parti. Detta affermazione, che trova puntuale riscontro nella sentenza a Sezioni unite della Cassazione del 6.11.2002, Martino, oltre che nelle pronunce della Corte Costituzionale del 26.3.1993 n. 111 e del 3 giugno 1992, n. 225, restituisce al giudizio di appello la sua piena funzione di giudizio fina‑ lizzato all’accertamento del merito della vicenda e non al mero controllo di regolarità della decisione altrui, con la conseguenza che il giudice di appello, proprio in quanto or‑ gano necessario alla pronuncia di una decisione giusta, deve essere munito di tutti i poteri funzionali ad un accertamento dei fatti, a prescindere dalla tipologia di rito prescelta. La scelta operata ai sensi dell’art. 438 c.p.p., quindi, avrà necessariamente conseguenze sul potere dispositivo delle parti in ordine alla prova, ma non potrà avere alcun riflesso in termine di preclusioni sui poteri del giudice, come dimo‑ strato dall’istituto della rinnovazione del dibattimento in grado di appello che, esaminato specificamente dal punto di vista dell’organo giudicante, non soffre alcuna imitazione rispetto ai poteri allo stesso attribuiti rispetto al giudizio di appello instaurato a seguito di dibattimento ordinario. La sentenza analizza poi l’evoluzione del giudizio abbre‑ viato attraverso i successivi interventi normativi, con argo‑ mentazioni che, in ultima analisi, non fanno che confermare la natura di giudizio di merito del processo di appello in tut‑ p e n a l e Gazzetta F O R E N S E te le sue forme di manifestazione. A seguito della riforma del 1999 la Corte Costituzionale aveva tenuto ben presente il possibile sbilanciamento tra i poteri delle parti - già in precedenza paventato con la senten‑ za n. 442 del 1994 e n. 92 del 1992, nonché con l’ordinanza n. 33 del 1998 - in quanto la eliminazione del presupposto del consenso del P.M. avrebbe potuto determinare ulteriori disar‑ monie di dubbia costituzionalità, posto che alla perdita per l’accusa della facoltà di interloquire sulla scelta del rito avreb‑ be dovuto accompagnarsi una nuova disciplina sull’esercizio del diritto alla prova ed una modifica delle limitazioni alla facoltà di impugnazione. Con la sentenza n. 320 del 1997 – che dichiarava l’illegit‑ timità costituzionale della norma che escludeva la possibilità di appello da parte del P.M. avverso le sentenze di prosciogli‑ mento emesse a seguito di giudizio abbreviato - la Corte aveva infatti osservato che gli auspici di riforma manifestati nelle pronunce precedenti alla riforma del 1999 non avevano trovato integrale attuazione, in quanto alla soppressione pura e semplice del consenso del P.M. non era seguita alcuna revi‑ sione, funzionale ad un riequilibrio interno dell’istituto, del diritto alla prova del P.M. e dei limiti all’appello del medesi‑ mo, atteso che i limiti posti alle facoltà del P.M. erano giusti‑ ficabili solo se collegati al consenso. Con la legge n. 479 del 1999, osserva la Cassazione, gli auspici della Corte Costituzionale erano stati in parte recepi‑ ti in quanto, privato il P.M. del potere di interloquire sulla scelta del rito, la novella ha configurato l’accesso al rito ab‑ breviato come un vero e proprio diritto dell’imputato, non più subordinato ad un vaglio giudiziale circa la possibilità di decidere o meno il processo “allo stato degli atti”, essendosi previsto come rimedio alle eventuali carenze degli organi in‑ vestigativi un ampio potere di integrazione probatoria officio‑ sa da parte del giudice; si è stabilito altresì che l’imputato possa condizionare la propria richiesta ad una specifica inte‑ grazione probatoria, purché compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, circoscriven‑ do i poteri del P.M. alla prova contraria, ferma restando la preclusione dell’appello della pubblica accusa ai sensi dell’art. 443, comma 3, c.p.p. La Cortedi Cassazione, con la citata sentenza Clarke, de‑ scriveva lo sbilanciamento dei poteri delle parti a seguito dell’evoluzione dell’istituto, indicando come la scelta dell’im‑ putato venisse in un certo qual modo subita dal P.M., che perdeva la possibilità di coltivare le prospettive dell’accusa in dibattimento, con un conseguente ridimensionamento del suo ruolo quale parte processuale che finirebbe solo per fornire un contributo dialettico in sede di discussione, salvo il diritto alla prova contraria rispetto alle integrazioni probatorie chie‑ ste dall’imputato, mentre la decisione del giudice può appro‑ dare a ricostruzioni del fatto anche totalmente alternative ri‑ spetto a quelle desumibili dagli atti di indagine raccolti dallo stesso pubblico ministero, non solo per effetto delle integra‑ zioni probatorie officiose o richieste dall’imputato, ma anche per effetto degli apporti delle investigazioni difensive, i cui risultati sono anch’essi utilizzabili nel giudizio abbreviato. Tuttavia, come osservato dalla medesima Corte di Cassa‑ zione con la sentenza in esame, nonostante una delle fonda‑ mentali argomentazioni della sentenza Clarke sia venuta meno – ossia la rinuncia del diritto alla prova da parte del F O R E N S E m a r z o • a p r i l e P.M. correlata al consenso al rito alternativo - non necessa‑ riamente la situazione che si prospetta è asimmetrica a svan‑ taggio del P.M., nel senso che il diritto alla prova da parte della pubblica accusa non è certamente pretermesso, potendo il P.M. farlo valere ai sensi dell’art. 603, comma 2, c.p.p. in caso di prove nuove sopravvenute o scoperte, potendo il pote‑ re d’ufficio del giudice tutelare adeguatamente gli interessi di cui la pubblica accusa è portatrice. Infatti ciò che il P.M. subi‑ sce a seguito della richiesta dell’imputato di accedere al giudi‑ zio abbreviato è comunque un dato favorevole per la parte pubblica, concretizzandosi nell’utilizzabilità da parte del giu‑ dice di tutti gli atti di indagine compiuti prima dell’esercizio dell’azione penale, con la sola eccezione di quelli affetti da inutilizzabilità patologica, senza alcun vaglio derivante dal contraddittorio dibattimentale; in realtà avendo il P.M. chiesto il rinvio a giudizio, gli elementi dovrebbero essere, secondo il suo giudizio, sufficienti ed idonei a sostenere l’accusa in giudi‑ zio, come si evince, a contrariis, dall’art. 425, comma 3, c.p.p., per cui l’eliminazione del consenso del P.M. alla celebrazione del rito abbreviato, in definitiva, non comporta affatto una situazione deteriore per l’accusa rispetto alla difesa. In secondo luogo, l’eventualità che le indagini difensive non conosciute dal P.M. ed introdotte nel giudizio abbreviato mettano la parte pubblica nell’impossibilità di contrastare le prove addotte dalla difesa dell’imputato, in ragione del rito alternativo scelto, è neutralizzata dalla possibilità per il P.M. di compiere ulteriori indagini e di sollecitare i poteri officiosi del giudice. La stessa Corte di Cassazione, infatti, aveva già ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costitu‑ zionale dell’art. 442,comma 1 bis, c.p.p., per contrasto con gli artt. 3 e 111, commi secondo, terzo e quinto, Cost., nella parte in cui consente, nel giudizio abbreviato, l’utilizzabilità delle indagini difensive anche in difetto del consenso del P.M., poiché il diritto di quest’ultimo al contraddittorio può essere assicurato disponendo un congruo differimento dell’udienza, onde consentire lo svolgimento delle contro-investigazioni suppletive eventualmente necessarie, ovvero attivando - anche su sollecitazione dello stesso P.M. - i poteri officiosi di cui all’art. 441, comma 5, c.p.p., per le necessarie integrazioni probatorie. (vedi Corte Cost. n. 115 del 2001, n. 57 del 2005 e n. 245 del 2005, n. 16 del 1994, nonché Cassazione, sez. VI, n. 31683 del 31/03/2008 - dep. 29/07/2008, P.M. in proc. Reucci, Rv. 240779). Infine, prosegue la Corte, soprattutto la previsione del potere officioso del giudice di integrazione probatoria, ai sensi dell’art. 441, comma 5, c.p.p., consente adeguatamente di superare i problemi derivanti dalle limitazioni del diritto alla prova del P.M., così da rispondere al fine primario del processo penale che, pur essendo processo di parti, deve ten‑ dere alla “ricerca della verità”, “fine primario ed ineludibile del processo penale”, come sottolineato dalla sentenza della Corte Costituzionale, n. 111 del 1993. La Corte prosegue poi ricordando l’insegnamento delle Sezioni unite sulla funzione dell’art. 507 cod. proc. pen. (Sez. unite, n. 41281 del 17/10/2006 - dep. 18/12/2006, P.M. in proc. Greco, Rv. 234907), che merita di essere ricordato in quanto valido anche per la norma qui in esame, ossia l’art. 603, comma 2, c.p.p.: “l’art. 507 ha un diverso ambito di applicazione e, soprattutto, un diverso scopo: quello di con‑ 2 0 1 3 75 sentire al giudice - che non si ritenga in grado di decidere per la lacunosità o insufficienza del materiale probatorio di cui dispone - di ammettere le prove che gli consentono un giudi‑ zio più meditato e più aderente alla realtà dei fatti che è chiamato a ricostruire. Senza neppure scomodare i grandi principi (in particolare quello secondo cui lo scopo del pro‑ cesso è l’accertamento della verità) può più ragionevolmente affermarsi che la norma mira esclusivamente a salvaguarda‑ re la completezza dell’accertamento probatorio sul presup‑ posto che se le informazioni probatorie a disposizione del giudice sono più ampie è più probabile che la sentenza sia equa e che il giudizio si mostri aderente ai fatti. (...) Una li‑ mitazione dei poteri probatori officiosi del giudice sarebbe idonea a vanificare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale e si porrebbe in palese contraddizione con l’esistenza degli amplissimi poteri del giudice in tema di richiesta di archiviazione del pubblico ministero. (...) V’è ancora, in questa sentenza (sez.un., Martin), un’im‑ portante precisazione che consente di evitare che l’esercizio del potere in esame avvenga in modo troppo esteso o addirit‑ tura arbitrario: l’iniziativa deve essere “assolutamente neces‑ saria” (sia l’art. 507 che il 603 usano questa espressione) e la prova deve avere carattere di decisività (altrimenti non sareb‑ be “assolutamente necessaria”), diversamente da quanto avviene nell’esercizio ordinario del potere dispositivo delle parti in cui si richiede soltanto che le prove siano ammissibi‑ li e rilevanti. Può ancora aggiungersi che questo potere andrà esercita‑ to nell’ambito delle prospettazioni delle parti e non per supportare probatoriamente una diversa ricostruzione che il giudice possa ipotizzare”. Quindi, così come nel dibattimento l’art. 507 c.p.p. con‑ sente al giudice di disporre d’ufficio l’assunzione dei mezzi di prova se ciò risulta assolutamente necessario ai fini della de‑ cisione, analogo potere riconosce il codice di rito al giudice del giudizio abbreviato: il potere, cioè, di assumere, anche di ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione; paralle‑ lamente, detto potere viene attribuito al giudice di appello con la norma dell’art. 603, comma 3, c.p.p. Nel giudizio abbreviato, i poteri di integrazione probatoria del giudice di appello corrispondono a quelli descritti dall’art. 441, comma 5, c.p.p. (come rilevato da sez. I, n. 31686 del 26/4/2010, dep. 11/8/2010, Sestito, Rv. 248011; sez. IV, n. 10795 del 14/11/2007, dep. 11/03/2008, Pozzi, Rv. 238956; sez. V, n. 19388 del 09/05/2006, dep. 06/06/2006, Biondo, Rv. 234157). Il potere di integrazione probatoria del Giudice, prosegue la Corte, proprio in quanto diretto a garantire le finalità primarie del processo anche in una fase in cui le parti (anche quella pubblica, nonostante non abbia espresso alcuna rinun‑ cia) non hanno più la disponibilità della prova, non può, tuttavia, essere eccessivamente limitato: esso, quindi, deve ritenersi sussistente indipendentemente dal fatto che le prove assunte possano risultare a favore o contro l’imputato. In ef‑ fetti, quando il legislatore ha voluto limitare i poteri officiosi del giudice alla sola assunzione delle prove favorevoli per l’imputato, lo ha esplicitato come nell’ipotesi disciplinata dall’art. 422, comma 1, c.p.p. (cfr., Cassazione, sez. I, n. 31686 del 26/4/2010, dep. 11/8/2010, Sestito, Rv. 248011). La Corte osserva di aver certamente e ripetutamente affer‑ penale Gazzetta 76 D i r i t t o e p r o c e d u r a mato, che “anche dopo la riforma contenuta nella legge 16 dicembre 1999, n. 479, nel giudizio abbreviato l’integrazione probatoria in appello non è esclusa in modo assoluto, ma è ammessa compatibilmente con le esigenze di celerità del rito, per cui può essere disposta, anche d’ufficio, solo per le acqui‑ sizioni documentali assolutamente indispensabili ai fini del decidere ed attinenti la capacità processuale dell’imputato o i presupposti stessi del reato o della punibilità, dovendo esclu‑ dere che possa farsi ricorso all’integrazione per far fronte a ordinarie lacune probatorie nel merito, ovvero per acquisire prove a carico dell’imputato, essendo possibile l’integrazione solo in bonam partem, dal momento che l’acquisizione di elementi a carico dell’imputato potrebbe incidere sulla origi‑ naria determinazione di richiedere il rito alternativo, scelta non più modificabile” (Cass., sez. III, n. 33939 del 16/6/2010, dep. 21/9/2010, Anzaldo, Rv. 248229; Cass., sez. VI, n. 45240 del 10/11/2005, dep. 13/12/2005, Spagnoli, Rv. 233506); tut‑ tavia i benefici cui l’imputato accede con il rito abbreviato - e che gli vengono garantiti anche in caso di integrazione proba‑ toria - sono in realtà diversi da quello di conoscere preventiva‑ mente il materiale probatorio su cui il Giudice fonderà la sua decisione: sono la riduzione di un terzo della pena in caso di condanna e la celebrazione non pubblica del processo. L’interesse dell’imputato a vedersi giudicato sulla base di materiale probatorio non del tutto completo e a “bloccare” ogni integrazione di detto materiale in senso a lui sfavorevo‑ le, magari opponendo esiti positivi di investigazioni difensive, non può che soccombere rispetto all’interesse dello Stato alla ricerca della verità, interesse, quest’ultimo, in base al quale, da parte sua, lo Stato può ben rinunciare a quello alla rapida definizione del processo, base dello “scambio” intervenuto in conseguenza della richiesta dell’imputato di essere giudicato con il rito alternativo. Ciò è ancora più valido con riferimento alle nuove prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, ri‑ spetto alle quali - se davvero tali sono - la posizione della pubblica accusa è “incolpevole”, non potendosi ad essa adde‑ p e n a l e Gazzetta F O R E N S E bitare la mancata presentazione delle stesse nel giudizio ab‑ breviato di primo grado. Si aggiunga che l’imputato ha la garanzia del contraddit‑ torio di fronte all’ampliamento del materiale probatorio: in‑ fatti, qualora, nel giudizio abbreviato, celebrato in appello a seguito di impugnazione del P.M. avverso decisione assoluto‑ ria, il giudice, valendosi dei suoi poteri officiosi, anche se sollecitati dalla parte pubblica, abbia disposto nuovi mezzi istruttori potenzialmente pregiudizievoli alla posizione dell’imputato, sussiste, a suo carico, l’obbligo di far seguire l’ammissione anche delle eventuali prove contrarie, che pos‑ sono non essere assunte solo ove si rivelino superflue o irrile‑ vanti. (cfr. sez. I, n. 31686 del 26/4/2010, dep, 11/8/2010, Sestito, Rv. 248011). Il giudice di appello nel giudizio abbreviato, in definitiva, di fronte a prove nuove sopravvenute, deve adeguatamente e logi‑ camente motivare sulla necessità di assumerle ai fini della deci‑ sione, tenuto conto che, di fronte ad esse, viene meno la presun‑ zione di completezza del materiale probatorio: la “assoluta ne‑ cessità”, quindi, altro non è che la valutazione da parte del giudice della possibilità di giungere ad una decisione di colpe‑ volezza o di innocenza con un giudizio più meditato e più ade‑ rente alla realtà dei fatti che è chiamato a ricostruire, perché “se le informazioni probatorie a disposizione del giudice sono più ampie è più probabile che la sentenza sia equa e che il giudizio si mostri aderente ai fatti” (Sezioni Unite, Greco, cit.). Sulla scorta delle esaminate argomentazioni la Corte di Cassazione annullava, quindi, la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Catanzaro con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello. 6. Quanto sin qui considerato suggerisce, quindi, la ne‑ cessità di operare una profonda rivalutazione del giudizio di secondo grado come giudizio di merito pieno e non come semplice giudizio di controllo critico della sentenza di primo grado, il che appare ancor più ragionevole alla luce dei prin‑ cipi sul giusto processo. F O R E N S E m a r z o • a p r i l e ● Competenza del giudice dell’esecuzione: scelta definitiva della Corte di Cassazione per il criterio cronologico? ● Luca Semeraro Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Perugia 2 0 1 3 77 Cassazione penale, sezione 1ª, sentenza 20 aprile 2012, n. 17545 La competenza in fase esecutiva a decidere sulla richiesta di restituzione di beni oggetto di confisca, avanzata dal terzo estra‑ neo, spetta al giudice che ha pronunciato il provvedimento dive‑ nuto irrevocabile per ultimo nei confronti dell’imputato, anche se la questione proposta non riguarda la decisione da lui emessa. Nel risolvere il conflitto di competenza tra il giudice mo‑ nocratico del Tribunale di Ascoli Piceno, sezione distaccata di S. Benedetto del Tronto, - che aveva emesso la sentenza dive‑ nuta definitiva per ultima - ed il Tribunale di Camerino – che aveva pronunciato il provvedimento oggetto dell’incidente di esecuzione, la Corte di Cassazione ha fatto una scelta di cam‑ po, privilegiando la tesi del cd. criterio cronologico. La Corte di Cassazione ha dichiarato la competenza del giudice monocratico del Tribunale di Ascoli Piceno, sezione distaccata di S. Benedetto del Tronto, affermando che “… In presenza di più sentenze o decreti di condanna da eseguire, pronunciati da giudici diversi, la competenza spetta, per tutti, al giudice la cui decisione è divenuta irrevocabile per ultima, anche se la questione proposta riguardi decisione emessa da altro giudice”. La Corte ha fatto riferimento anche alla giurisprudenza formatasi sull’applicazione dell’indulto, richiamando la sen‑ tenza n. 2151/12 del 20 dicembre 2011 della Cass. sez. 1ª: “in tema d’esecuzione, il giudice competente a provvedere sull’applicazione dell’indulto in favore di un soggetto raggiun‑ to da più condanne emesse da giudici diversi è sempre quello che ha pronunciato il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo, anche se la questione non riguarda la sentenza da lui emessa”. La prima sezione ha quindi aggiunto che questo principio si applica anche nel caso “… in cui il giudice dell’esecuzione sia chiamato alla restituzione all’avente diritto dei beni in sequestro, dal momento che il provvedimento richiesto non esula dalle attribuzioni dal giudice dell’esecuzione …”. Dunque, secondo l’orientamento espresso nella sentenza n. 17545, nel caso, purtroppo frequente, del giudice che con la sentenza non provveda sui beni in sequestro, ad es. non revo‑ cando i provvedimenti di sequestro e non restituendo i beni all’avente diritto, la restituzione dei beni compete, nel caso di più sentenze di condanna emesse nei confronti dello stesso imputato, sempre e comunque al giudice che ha emesso la sentenza divenuta definitiva per ultima. Il criterio cronologico risolve certamente con maggiore semplicità i conflitti di competenza, individuando con esattez‑ za il giudice competente; ma l’adesione al criterio cronologico di interpretazione dell’art. 665 c.p.p. non è condivisibile, anche perché determina conseguenze irrazionali. In tema di esecuzione il principio da cui partire è sempre quello previsto dal comma 1 dell’art. 665 c.p.p., per il quale competente a conoscere dell’esecuzione di un provvedimento è il giudice che lo ha emesso. Il legislatore, tra le varie soluzioni possibili, ha scelto quel‑ la di attribuire la risoluzione dei problemi sorti sull’attuazione del titolo definitivo al giudice “della cognizione” e ciò anche affinché tali questioni fossero risolte con efficienza e rapidità, tanto da conservare tale competenza funzionale anche nelle ipotesi di conferma o di riforma non sostanziale del provvedi‑ mento in sede di impugnazione. penale Gazzetta 78 D i r i t t o e p r o c e d u r a Il criterio cronologico è previsto dal comma 4 dell’art. 665 c.p.p.: il giudice che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo è competente se l’esecuzione concerne più provvedimenti emessi da giudici diversi. L’interpretazione corretta però è quella che volge verso un criterio cronologico non assoluto, nel senso che è sempre competente “l’ultimo giudice”, ma “temperato” o “sistemati‑ co”: quando la decisione in sede di esecuzione riguardi un solo provvedimento definitivo, e non incide su gli altri titoli neppure in via indiretta, allora la competenza è sempre, ai sensi del comma 1 dell’art. 665 c.p.p., del giudice che ha emesso il provvedimento. Ciò anche se l’imputato risulti con‑ dannato in via definitiva successivamente. La competenza funzionale cronologica sussiste solo se la questione esecutiva riguardi e coinvolga più titoli esecutivi: solo se vi sia un collegamento funzionale tra l’esecuzione del provvedimento e gli altri successivamente emessi. Il criterio puramente cronologico produce anche irrazio‑ nalità nel sistema, laddove sono preferibili le ragioni di “eco‑ nomia processuale” poste a fondamento del comma 1 dell’art. 665 c.p.p. L’imputato o il terzo estraneo al processo, che può pro‑ porre incidente di esecuzione (“Il terzo rimasto estraneo al processo non è legittimato all’impugnazione della sentenza con cui è stata ordinata la confisca di somme di denaro e può far valere i propri diritti su detta somma per mezzo dell’inci‑ dente di esecuzione”; cfr. Cass. penale, sez. III, 19 marzo 2009, n. 12117), già privato a monte del suo diritto alla resti‑ tuzione dal giudice competente per il merito, che non ha provveduto in sentenza, nel caso di più provvedimenti defini‑ tivi si troverebbe costretto, ove definitivamente accolto l’orien‑ tamento della prima sezione, a migrare verso altri lidi, non potendo più il giudice del merito, quanto meno, rimediare all’errore in fase esecutiva, attivando la procedura de plano prevista in questi casi. Il fascicolo processuale dovrà essere trasmesso all’ “ultimo giudice”, il quale, fra l’altro, ove disponga il dissequestro di un bene sottoposto ad onerosa custodia, dovrà anche proce‑ dere alla liquidazione di quanto spetti al custode, quale giu‑ dice che procede e che ha provveduto sul dissequestro. Il criterio cronologico puro non può essere adottato anche in altre ipotesi. Si pensi al caso in cui l’istante lamenti la mancata forma‑ zione del giudicato, ad es. per vizi di notifica dell’estratto contumaciale. Anche qui la valutazione da parte del giudice che ha emesso il provvedimento (e non dell’ultimo giudice), consente una decisione certamente più rapida, perché la valu‑ tazione dovrà essere fatta dal giudice che è anche fisicamente in possesso degli atti del processo. O ancora al caso della dichiarazione in esecuzione della falsità di documenti (art. 675 c.p.p.): anche in tal caso il fa‑ scicolo processuale dovrebbe “viaggiare” verso l’ultimo giu‑ dice. Soprattutto, la dichiarazione di falsità dovrebbe essere pronunciata da un giudice del tutto estraneo al processo, laddove tale dichiarazione è proprio strettamente collegata al merito. Ciò che conta, per l’applicazione del comma 4 dell’art. 665 c.p.p., invece è il “coinvolgimento” di più titoli esecutivi nella decisione: qui il quadro finale è in mano proprio all’ultimo giudice. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E Questa interpretazione è stata affermata in passato, ri‑ chiamando altre sentenza della suprema corte, da Cass., sez. 1ª, sent. 4 luglio 2000 – 9 agosto 2000, n. 4825: “In tema di determinazione del giudice competente per l’esecuzione di una sentenza di condanna, non si rende sufficiente, ai fini dell’ap‑ plicazione dell’art. 665, comma quarto, c.p.p., il fatto che vi sia coesistenza di più sentenze a carico di una stessa persona, essendo invece necessaria, a tal fine, una pluralità di provve‑ dimenti di giudici diversi, dai quali derivi la stessa questione da delibare in sede esecutiva. Ne discende che, quando, pur nella sussistenza di giudicati emessi da diversi giudici, sorga questione concernente l’esecuzione di uno solo di essi per fatto non incidente in modo assoluto sull’esecutività degli altri, va applicata la disciplina di cui all’art. 665 c.p.p., secon‑ do cui competente a conoscere dell’esecuzione di un provve‑ dimento è il giudice che lo ha deliberato”. Va osservato che in realtà proprio il richiamo alla giuri‑ sprudenza della Corte di Cassazione in tema di indulto con‑ ferma l’interpretazione sistematica proposta, ove si consideri che l’indulto opera sulla pena inflitta e, in caso di più condan‑ ne, sul cumulo delle pene; il giudice dovrà verificare se l’in‑ dulto sia già stato concesso ed in che limiti; se sussistano cause che impediscano l’applicazione dell’indulto. Va infatti ricordato che la Corte di Cassazione ha affer‑ mato che la sentenza di condanna, ove sia prevista quale causa di revoca del beneficio dell’indulto già concesso, ne impedisce ancor prima l’applicazione1. In tali casi quindi l’ “ultimo giudice” è in grado di valu‑ tare la sussistenza di tutte le condizioni applicative o ostative dell’indulto. Si auspica dunque il ritorno ad una interpretazione più ragionevole. 1 “nei casi di indulto soggetto a revoca per successiva condanna, la già verifica‑ tasi condizione risolutiva rende l’indulto inapplicabile anche nelle ipotesi in cui il beneficio non sia stato ancora formalmente concesso” (sez. 1, 24 gennaio 1996, n. 467, Di Giovanni, massima n. 204011; cui adde: sez. 1, 1 dicembre 1993, n. 5244/1994, Lupo, massima n. 196138 e sez. 1, 24 febbraio 2005, n. 1146, Arrighini, massima n. 201023); “la giuridica ed, ancor prima, logica impossibilità di dichiarare giudizialmente l’applicazione di un condono in relazione al quale si sia già verificata una causa di revoca del beneficio” (sez. 1, 27 aprile 1994, n. 1877, Vecchi, massima n. 198184); la Corte di Cassazione con la sentenza della sez. 1ª, n. 15462 del 31 marzo 2010, ha affermato che tali principi devono essere tenuti fermi anche in relazione al condono di cui alla l. 31 luglio 2006, n. 241, affermando altresì che “… sarebbe, comunque, inutiliter data la eventuale declaratoria del condono, seguita dalla doverosa, contestuale revoca del beneficio in presenza della condizione di legge” (in massima: Fattispecie in tema di indulto previsto dalla l. n. 241 del 2006). Gazzetta F O R E N S E ● 2 0 1 3 79 I contrasti tra la Corte Edu e le Corti nazionali ● Vittorio Sabato Ambrosio Avvocato Corte EDU: (02 novembre 2006, ric. Milazzo c. Italia; Grande Camera 17 febbraio 2004, ric. Maestri contro Italia; 17 febbraio 2005, ric. K.A. ET A.D. contro Belgio; 21 gennaio 2003, ric. Veeber c. Estonia; 08/07/1999, ric. Baskaya e Okcuoglu c. Turchia; 15 novembre 1996, ric. Cantoni c. Francia; 22 settembre 1994, ric. Hentrich c. Francia; 25 maggio 1993, ric. Kokkinakis c. Grecia; 08 luglio 1986, ric. Lithgow e altri c. Regno Unito) “Il dato decisivo da cui dedurre il rispetto del principio di legalità è la prevedibilità del risultato interpretativo cui per‑ viene l’elaborazione giurisprudenziale, tenendo conto del contenuto della struttura normativa, prevedibilità che si ar‑ ticola nei due sotto principi di precisione e di stretta interpre‑ tazione”. Corte Giustizia: (26 febbraio 1991, C-119/89, ric. Commissione c. Spagna; Tribunale CE, 05 aprile 2006, T-279/02, ric. Degussa AG; Corte Giustizia, 28 giugno 2005, cause riunite C-189/02 P, C-202/02 P, C-205/02 P a C-208/02 P e C213/02 P; Corte Giustizia, 08 ottobre 1987, C-80/86, ric. Kolpinghuis Nijmegen) “la normativa degli Stati membri deve avere una formu‑ lazione non equivoca, in modo da consentire agli interessati di conoscere i propri diritti e ai giudici di garantirne l’osser‑ vanza e che il principio di legalità delle pene costituisce un’emanazione del principio di certezza del diritto onde ga‑ rantire principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento”. Cass. pen., Sezioni unite, sentenza, 19 gennaio 2011, n. 1235 “Non può trascurarsi, inoltre, di considerare che il prin‑ cipio di legalità trova fondamento anche nell’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (oltre che nell’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e nell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali di Nizza, oggi espres‑ samente richiamata nel corpus comunitario attraverso l’art. 6, par. 1, del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007). Nella giurisprudenza della Corte EDU al suddetto principio si collegano i valori della accessibilità (accessibility) della norma violata e della prevedibilità (foreseeability) della san‑ zione, accessibilità e prevedibilità che si riferiscono non alla semplice astratta previsione della legge, ma alla norma “vi‑ vente” quale risulta dall’applicazione e dalla interpretazione dei giudici; pertanto, la giurisprudenza viene ad assumere un ruolo decisivo nella precisazione del contenuto e dell’ambito applicativo del precetto penale. Il dato decisivo da cui dedur‑ re il rispetto del principio di legalità, sempre secondo la Corte EDU, è, dunque, la prevedibilità del risultato interpre‑ tativo cui perviene l’elaborazione giurisprudenziale, tenendo conto del contenuto della struttura normativa, prevedibilità che si articola nei due sotto principi di precisione e di stretta interpretazione”. Cass. pen., Sezioni unite, 19 gennaio 2011, n. 1963 “Il concorso tra norme penali è disciplinato dall’art. 15 c.p., in virtù del quale, stante il cd. principio di specialità, al fine di evitare il cd. ne bis in idem sostanziale, le legge o la penale L’utilizzo dei principi della Corte EDU per risolvere i casi di conflitto apparente di norme m a r z o • a p r i l e 80 D i r i t t o e p r o c e d u r a disposizione di legge speciale deroga a quella generale, salvo che sia altrimenti stabilito. Qualora ci si trovi di fronte alla cd. specialità unilaterale, che può assumere il carattere di specificazione, o per aggiunta, a seconda che la norma spe‑ ciale vada a specificare o ad aggiungere requisiti alla fattispe‑ cie generale, si concretizza di certo un concorso apparente, per cui deve ritenersi applicabile soltanto la fattispecie spe‑ ciale”. **** S ommario: Premessa; 1. Il concorso di norme nel codice penale; 2. Il concorso apparente di norme: principio di spe‑ cialità; 3. I recenti interventi giurisprudenziali sul tema; 4. L’applicazione del principio specialità nei casi concreti; 5. Brevi considerazioni conclusive. Premessa Nel complesso e dinamico processo di globalizzazione del diritto si registra una tutela multilivello per il cittadino nell’ambito della quale le istanze protezionistiche di quest’ul‑ timo, laddove non dovessero trovare tutela nell’ordinamento interno, sono certamente protette dagli ordinamenti sovra‑ nazionali. Onde realizzare una più proficua difesa dei diritti riconosciuti al singolo, sovente, gli interpreti nazionali devo‑ no attingere dal patrimonio normativo ed ermeneutico pro‑ dotto dagli organi extraterritoriali, al fine di rileggere gli istituti disciplinati dal diritto interno in un’ottica evolutiva. Questa è la base del ragionamento effettuato dalle Sezio‑ ni unite per risolvere la questione problematica relativa all’esatta norma da applicare nel caso in cui un’azione crimi‑ nosa sia astrattamente riconducibile a più reati. Nel caso che ci occupa, l’opera interpretativa del supremo organo di No‑ mofilachia, avvalendosi dei principi di prevedibilità e chiarez‑ za della sanzione penale espressi nella Convenzione EDU, coglie l’occasione per individuare un criterio certo da utiliz‑ zare per risolvere i casi di superfetazione del diritto penale, con riferimento alle ipotesi di concorso apparente di reati. Il caso, seppur non recentissimo, presenta interessanti spunti di riflessione, poiché siamo in presenza di un vero e proprio dialogo a distanza tra le corti interne e le corti inter‑ nazionali ed europee, in cui i giudici nazionali mostrano, li‑ mitatamente al caso di specie, una evidente volontà di aprirsi a nuovi fronti interpretativi ed “abbracciare” concetti mag‑ giormente protettivi per il cittadino. 1. Il concorso di norme nel codice penale La persistente difficoltà di tracciare un netto discrimen con il concorso di reati, l’irriducibile contrasto, mai definiti‑ vamente sopito, tra i fautori delle teorie moniste ed i sosteni‑ tori delle più “eccentriche” teorie pluraliste, unitamente ai numerosi progetti di riforma prospettati al fine di superare l’asfitticità della quanto mai scarna disciplina codicistica, fanno del concorso apparente di norme uno dei più affasci‑ nanti e problematici terreni di scontro per i teorici ed i prati‑ ci del diritto, fucina di problemi interpretativi ed esegetici di grande attualità. Il corretto inquadramento sistematico della fattispecie in esame richiede la preliminare distinzione con il concorso di reati, ravvisabile allorquando un soggetto compia più reati p e n a l e Gazzetta F O R E N S E con un pluralità di azioni od omissioni, nel caso di concorso materiale di reati, o ponga in essere più reati con una sola azione od omissione, nel caso di concorso formale di reati. Il concorso materiale, a sua volta, può essere definito omo‑ geneo nell’ipotesi in cui il soggetto violi più volte la stessa fattispecie incriminatrice, mentre può essere qualificato etero‑ geneo allorquando le norme violate siano diverse; negli stessi termini la violazione reiterata e contestuale della stessa norma incriminatrice consente di configurare il concorso formale omogeneo, mentre la contemporanea violazione di norme differenti apre la strada al concorso formale eterogeneo. La distinzione tra concorso formale e materiale rileva non solo sul piano della diversa configurazione della fattispecie, ma anche per quanto concerne il versante sanzionatorio, ri‑ servando il codice un più severo trattamento al concorso materiale, per il quale è previsto, in ossequio a spiccate esi‑ genze di carattere repressivo-retributive oltre che specialpreventive, il regime del cumulo materiale (sommatoria delle pene previste per i singoli crimini in concorso espressa nel noto brocardo latino “tot crimina tot poenae”) appena miti‑ gato dalla previsione dei limiti di cui all’art. 78 e 79 c.p., mentre al concorso formale è riservato il più lieve regime sanzionatorio del cumulo giuridico dato, in base a quanto disposto dall’art. 81, c. 1, c.p., dalla pena prevista per il reato più grave aumentata fino al triplo. 2. Il concorso apparente di norme: principio di specialità Pur nella profilata distinzione tra materiale e formale, l’elemento distintivo del concorso di reato, considerato come unitaria categoria, è dato dalla plurima violazione della leg‑ ge penale da parte di un soggetto: circostanza, quest’ultima, che comporta l’inevitabile assoggettamento dell’autore dei reati alle pene previste per le diverse fattispecie criminose. E’ proprio tale tratto qualificante a differenziare il con‑ corso di reati dal concorso apparente di norme. Nel primo vi è una effettiva violazione di più norme pena‑ li, nel secondo il soggetto viola una specifica e determinata norma penale: si crea tuttavia l’apparenza di un concorso per‑ ché più norme sembrano prima facie essere applicabili ad un medesimo fatto, di guisa tale che il vero problema pare essere quello, di carattere squisitamente interpretativo, di individua‑ zione della norma effettivamente applicabile al caso concreto. Pluralità di norme penali incriminatrici disciplinanti la stessa materia, tali da determinare l’apparenza di un concor‑ so tra le norme astrattamente applicabili, e unicità del reato concretamente realizzatosi: questi gli elementi qualificanti del concorso apparente di norme. L’unico appiglio normativo lo si rinviene nella disposizio‑ ne codicistica dell’art. 15 c.p. che risolve il problema dell’ap‑ parenza del concorso ricorrendo al criterio della specialità, in virtù del quale, quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o disposizione di legge speciale deroga alla disposizione di legge generale. Il riferimento alla pluralità di leggi penali o disposizioni di una medesima legge penale è da intendere come riferimen‑ to al diritto penale comune e al diritto penale speciale: il di‑ ritto penale speciale deroga al diritto penale comune. Lo stesso può dirsi nell’ipotesi di apparente concorso tra una norma che commina una sanzione penale e una norma F O R E N S E m a r z o • a p r i l e che prevede una sanzione amministrativa: l’art. 9 l. 689/1989 sancisce la prevalenza della norma da considerarsi speciale. Il riferimento alla stessa materia, a fronte dei diversi ap‑ procci interpretativi, oscillanti tra l’identità del bene giuridico e l’identità della situazione di fatto, pare implicare il riferi‑ mento alla stessa fattispecie astratta, ovverosia allo stesso fatto tipico nel quale si realizza l’ipotesi di reato, seguendo l’orientamento sostenuto dalla giurisprudenza dominante e avallato, da ultimo, dalle Sezioni unite della Suprema Corte di Cassazione con sentenza 16568/2007. I giudici di Piazza Cavour evidenziano, in tale pronuncia, l’inopportunità dell’identità del bene giuridico a qualificare l’ambito applicativo del concorso apparente, atteso che si può avere identità di bene giuridico tra fattispecie totalmente eterogenee, mentre fattispecie in evidente relazione di specia‑ lità possono tutelare beni giuridici ben distinti. Per quanto concerne, invece, il riferimento al criterio della specialità è da sempre estremamente problematica la sua esatta qualificazione e delimitazione. Invero, si ha spe‑ cialità, in generale, quando una norma, speciale, presenta tutti gli elementi di un’altra norma, generale, con qualche elemento in più: tale elemento può essere meramente aggiun‑ tivo (in tal caso si avrà rapporto di specialità unilaterale per aggiunta) o specificativo di un elemento della fattispecie generale (in tal caso si parlerà di specialità unilaterale per specificazione). Se questa nozione di specialità non pare creare problemi sul piano applicativo, maggiori perplessità hanno sempre sollevato i tentativi della dottrina e di una certa giurispruden‑ za di ampliare l’ambito di applicazione del criterio di specia‑ lità con riferimento alla specialità in concreto e alla specialità bilaterale o reciproca. La specialità in concreto presupporrebbe la riconducibili‑ tà di un dato fatto commesso in concreto a due distinte pre‑ visioni incriminatrici, non poste in astratto in relazione di genere a specie. La specialità bilaterale implicherebbe, invece, una relazio‑ ne di specialità reciproca tra le fattispecie coinvolte nel con‑ corso: ciascuna presenterebbe un elemento specializzante ri‑ spetto ad un nucleo comune, come accade, ad esempio, tra il reato di aggiotaggio societario (caratterizzato dalla qualifica soggettiva dell’agente) e il reato di aggiotaggio comune (qua‑ lificato dal dolo specifico richiesto al fine dell’integrazione della fattispecie). Invero, entrambi i criteri su enunciati comportano dei problemi di compatibilità con il principio di legalità. Il primo, oltre a porsi in evidente contrasto con il principio costituzionale di legalità, per quanto concerne la tassatività della previsione legislativa, non pare riconducibile alla dispo‑ sizione dell’art. 15 c.p. che richiede l’esistenza di un effettivo rapporto di genere a specie tra le fattispecie incriminatrici astrattamente coinvolte nel concorso. Il secondo, invece, non sembra neanche latamente ascrivi‑ bile alla previsione dell’art. 15, posto che le norme coinvolte sono tutte speciali. Si porrebbe in tal caso l’esigenza, invero difficilmente realizzabile, di individuare quale tra le norme speciali coinvolte nel concorso sia effettivamente la “più spe‑ ciale”. L’inidoneità dei criteri alternativi appena enunciati non ha tuttavia persuaso taluni della esaustività della nozione di 2 0 1 3 81 specialità unilaterale quale desumibile da una interpretazione stricto iure dell’art. 15 c.p. Essa è parsa insufficiente a soddisfare le ragioni di equità e giustizia sostanziale che spingono, da più parti, ad una va‑ lutazione del complessivo disvalore penale del fatto posto in essere. Per tali ragioni, rifiutando il rigoroso riferimento al rap‑ porto strutturale tra le fattispecie astratte propugnato vigo‑ rosamente dai fautori della cd. teoria monista, fedeli ad una interpretazione letterale dell’art. 15, parte della dottrina e della giurisprudenza, richiamandosi al principio del ne bis in idem sostanziale che vieta di addossare più volte lo stesso fatto al suo autore, hanno individuato ulteriori criteri ricon‑ ducibili all’ambito del concorso apparente di norme. Sussidiarietà, consunzione ed assorbimento: questi i prin‑ cipali criteri elaborati, tutti complementari rispetto a quello di specialità e fondati sull’apprezzamento del disvalore del fatto concreto. Il principio di sussidiarietà implica l’esistenza di un rappor‑ to di complementarietà, tale per cui la norma sussidiaria si applica solo qualora la norma primaria non sia applicabile. In tali termini è ormai pacificamente ricostruito il rapporto tra la fattispecie di cui all’art. 640 bis e quella di cui all’art. 316 ter, secondo quanto statuito dai giudici della Corte di Cassazione con la pronuncia a Sezioni unite cui prima si è fatto cenno: il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato è in rapporto di sussidiarietà, non specialità, rispetto a quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbli‑ che, risultando dunque invocabile solo qualora difettino, nel caso in concreto esaminato, i presupposti della truffa. Il principio di consunzione implica la preminenza della norma consumante su quella consumata, intendendo per consumante quella il cui fatto comprende in sé il fatto previsto dalla norma consumata. Non dissimile è il principio di assorbimento, in virtù del quale una determinata fattispecie criminosa comporta, secon‑ do l’id quod plerumque accidit, l’integrazione di una diversa fattispecie che, nell’ambito di una complessiva valutazione del fatto posto in essere, finisce con l’essere assorbita dalla prima. Il fatto assorbente pare, detto altrimenti, esaurire per intero il disvalore penale del fatto assorbito. 3. I recenti interventi giurisprudenziali sul tema Malgrado l’ecletticità dei tentativi di l’ampliare l’ambito applicativo del concorso apparente di norme, la giurispruden‑ za dominante, da sempre ostile all’utilizzo di criteri suppleti‑ vi rispetto a quello di stretta specialità delineato dall’art. 15 c.p., si è espressa perentoriamente con una pronuncia a Sezio‑ ni unite della Suprema Corte di Cassazione, nel dicembre del 2005, sostenendo l’inaccettabilità delle teorie pluralistiche. Invero, a giudizio della Corte, i giudizi di valore che i criteri di assorbimento e consunzione, in particolare, richie‑ derebbero, si pongono tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità, di tassatività e determinatezza per un duplice ordine di motivi. Innanzitutto perché i criteri di cui sopra risultano privi di fondamento normativo, dal momento che l’inciso finale dell’art. 15 c.p. fa riferimento alle clausole di riserva espres‑ samente previste dalle singole norme incriminatrici, ma non fa riferimento alcuno a situazioni fortemente generiche e non penale Gazzetta 82 D i r i t t o e p r o c e d u r a previamente identificate, quali quelle riconducibili ai criteri stessi. Inoltre, in mancanza di un espresso appiglio normativo, l’applicazione del criterio di assorbimento e di consunzione resta affidata prevalentemente alla valutazione intuitiva del giudice, incontrollabile ed inevitabilmente sottoposta all’ar‑ bitrio del giudicante. E’ evidente la carica elusiva del principio di determinatez‑ za e tassatività della fattispecie penale insita nei giudizi di valore che tali criteri richiedono, facendo dipendere l’applica‑ zione di una norma penale da determinazioni individuali as‑ solutamente discrezionali. Per risolvere in maniera definitiva la questione problema‑ tica, onde abiurare dal nostro ordinamento i fumosi criteri alternativi al criterio di specialità, le Sezioni unite nella sen‑ tenza n. 1235 del 19 gennaio 2011 si avvalgono dei principi enunciati dalla Corte EDU per rafforzare il principio di auto‑ determinazione del soggetto agente, il quale deve essere ga‑ rantito in modo chiaro e prevedibile sulle conseguenze san‑ zionatorie e sulla fattispecie concreta da applicare all’azione criminosa posta in essere. Emblematico è il passaggio in cui il Supremo Consesso di giustizia penale afferma: “si comprende, pertanto, la necessi‑ tà del rigoroso rispetto del principio di legalità e dei conse‑ guenti principi di determinatezza e tassatività, anche con ri‑ ferimento alla materia del concorso apparente di norme in‑ criminatrici. Certamente, non può trascurarsi l’esigenza sottesa alla giurisprudenza che fa ricorso al criterio della consunzione, cioè il rispetto del principio del ne bis in idem sostanziale, ma tale rispetto è assicurato da una applicazione del principio di specialità, secondo un approccio strutturale, che non trascuri l’utilizzo dei normali criteri di interpretazio‑ ne concernenti la ratio delle norme, le loro finalità e il loro inserimento sistematico, al fine di ottenere che il risultato interpretativo sia conforme ad una ragionevole prevedibilità, come intesa dalla giurisprudenza della Corte EDU. D’altro canto, anche quella giurisprudenza che fa riferimento al cri‑ terio di consunzione (sez. un., n. 23427 e n. 22902 del 2001, cit.) lo utilizza ad integrazione o a conferma delle conseguen‑ ze applicative del principio di specialità e in funzione garan‑ tistica rispetto al destinatario della norma penale”. 4. L’applicazione del principio specialità nei casi concreti Relativamente al rapporto esistente tra il reato di cui all’art. 334 c.p. e l’illecito di cui all’art. 213 del Codice della Strada, si sono da sempre fatti largo due distinti orientamen‑ ti giurisprudenziali: uno minoritario, per il quale il soggetto sorpreso alla guida di un’automobile sottoposta a sequestro risponde soltanto dell’illecito di cui all’art. 213 C.d.S..; l’altro, maggioritario, che profila l’esistenza di un concorso tra la fattispecie codicistica e l’illecito amministrativo. La questione, molto delicata, concerne la configurabilità del concorso di reati o del concorso apparente di norme, con le implicazioni che la diversa soluzione comporta, con riguar‑ do al custode del veicolo oggetto di sequestro amministrativo che circoli abusivamente con lo stesso. A porre termine ai perduranti contrasti giurisprudenziali è intervenuta la Suprema Corte di Cassazione che, con la pronuncia a Sezioni unite, n. 1963/2011, ha concluso per la specialità della fattispecie di cui all’art. 213 C.d.S. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E Invero, tra le due norme considerate pare porsi un rappor‑ to di genere a specie: l’illecito amministrativo disciplinato dall’art. 213 C.d.S. possiede evidenti elementi specializzanti rispetto al reato di sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro, previsto dall’art. 334 c.p., dati dalla circostanza che l’art. 213 non si riferisce ad una qualsivoglia tipologia di sequestro (come accade per l’art. 334 c.p.) ma al sequestro amministrativo previsto dallo stesso articolo, non‑ ché dalla circostanza di fatto che non ogni condotta prevista dall’art. 334 integra gli estremi dell’illecito amministrativo ma solo la condotta di chi “circola abusivamente”. Data l’esistenza di una effettiva relazione di specialità tra le fattispecie coinvolte, la controversia interpretativa andrà risolta alla luce di quanto statuito dall’art. 9 l. 689/1981, che prevede l’applicazione della norma disciplinante l’illecito am‑ ministrativo, se speciale rispetto alla norma relativa al reato. Detto altrimenti, il concorso con la fattispecie di cui all’art. 334 c.p. deve essere ritenuto apparente e, in quanto speciale, si deve concludere per l’applicazione esclusiva dell’art. 213 C.d.S. in presenza dei requisiti specializzanti concretizzanti la fattispecie stessa. A soluzioni analoghe sembrano giungere le Sezioni unite della Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 1235/2011 relativamente al rapporto tra frode fiscale e truffa aggravata ai danni dello Stato. Con tale pronuncia il Supremo Consesso, risolvendo un annoso contrasto giurisprudenziale, ha statuito che sia il de‑ litto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2 d.lgs. 74/2000) che quello di emissione di fatture o altri documenti per opera‑ zioni inesistenti (art. 8 d.lgs. 74/2000) si pongono in rapporto di specialità rispetto al delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato, di cui all’art. 640, comma secondo, n. 1, c.p. Il raffronto tra le fattispecie astratte evidenzia, infatti, che la frode fiscale si connota per uno specifico artifizio, costitu‑ ito da fatture e documenti per operazioni inesistenti. Non può considerarsi rilevante il mancato riferimento alla verificazione dell’evento di danno, posto che, come già evidenziato in una precedente pronuncia del 2008 della stessa Corte, il realizzarsi dell’evento di danno è posto al di fuori della fattispecie oggettiva. Invero, la dichiarazione fraudolenta, in quanto supporta‑ ta da un impianto contabile, risulta particolarmente insidiosa, perchè in grado di ostacolare la successiva attività di accerta‑ mento dell’amministrazione finanziaria: trattasi di una con‑ dotta connotata di particolare disvalore, per la quale il legi‑ slatore, intervenendo nel 2000, ha ritenuto opportuno proce‑ dere anticipando la soglia di tutela del bene protetto non ri‑ chiedendo la necessaria verificazione dell’evento di danno. Non è da escludersi, d’altra parte, che il danno possa es‑ sere comunque astrattamente configurabile: la presentazione di una dichiarazione non veridica si accompagna normalmen‑ te al versamento di un minor tributo e genera un danno im‑ mediato quanto meno nel senso del ritardo nella percezione delle entrate tributarie. La negazione del rapporto di specialità si porrebbe in contraddizione con la ratio che ha ispirato il legislatore nella riforma di cui al d.lgs. n. 74/2000, il quale ha inteso con tale intervento disciplinare una particolare fattispecie criminosa, di tipo commissivo e di mera condotta, che, F O R E N S E m a r z o • a p r i l e seppur teleologicamente diretta all’evasione d’imposta, ha natura istantanea e si consuma con la mera presentazione della dichiarazione annuale. Ragioni di politica criminale inducono quindi a ritenere che i reati in materia fiscale di cui agli artt. 2 e 8 del d.lgs. 74/2000 si pongono in rapporto di specialità rispetto al delit‑ to di truffa aggravata ai danni dello Stato di cui all’art. 640 c.p.: il loro concorso apparente determinerà l’applicazione della norma speciale in presenza dei presupposti di applica‑ zione della stessa. I recentissimi arresti pretori cui si è fatto cenno testimo‑ niano, ancora una volta, il tenace tentativo della giurispru‑ denza dominante di risolvere il fenomeno del concorso appa‑ rente di norme alla luce dell’esclusivo principio di specialità. D’altra parte, a fronte degli approcci più tradizionalisti, non va sottaciuto il ritorno alle teorie pluralistiche da parte di una certa giurisprudenza anche recente, con riferimento, ad esempio, al rapporto tra art. 423 c.p. e art. 434 c.p. o al rap‑ porto tra truffa e millantato credito, evidenziando in tal modo la vivacità di un confronto mai compiutamente attenuatosi. Il dibattito, invero, non può dirsi definitivamente risolto né in giurisprudenza nè tanto meno tra i teorici del diritto, che continuano vivacemente a significare l’angustia concet‑ 2 0 1 3 83 tuale e dogmatica della categoria di specialità auspicando di continuo un intervento risolutore di tipo legislativo che possa recepire normativamente quei criteri di globale valutazione del disvalore penale del fatto ormai pienamente compenetra‑ ti nella sensibilità giuridica ed utilizzati già da tempo nelle elaborazioni delle teorie pluralistiche. 5. Brevi considerazioni conclusive Il dibattito oggetto della presente trattazione si differen‑ zia dai casi trattati nei precedenti numeri di questi rubrica. In particolare, mentre nelle ipotesi già compiutamente esamina‑ te abbiamo rilevato l’esistenza di un effettivo contrasto, in ordine al medesimo istituto, tra la Corte EDU e le Corti in‑ terne, nel caso di specie la Cassazione si serve di taluni prin‑ cipi generali espressi dalla giurisprudenza sulla Convenzione EDU al fine di risolvere l’annosa querelle interpretativa rela‑ tiva all’ammissibilità di criteri alternativi al principio di spe‑ cialità per la risoluzione dei conflitti apparenti di norme. È peculiare che in tale contesto la Corte di Cassazione abbia attuato i principi della CEDU incondizionatamente, senza effettuare quel margine di apprezzamento che la Corte Co‑ stituzionale impone, quasi come se la Convenzione si appli‑ casse in maniera diretta nel nostro ordinamento. penale Gazzetta 84 D i r i t t o ● p r o c e d u r a p e n a l e Gazzetta F O R E N S E CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza 29 marzo 2012 (ud. 20 dicembre 2012), n. 14978 I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali ● e A cura di Angelo Pignatelli Avvocato La sentenza di appello priva della sola firma del Presidente La sentenza di appello sottoscritta dal Giudice estensore ma priva della firma del Presidente, integra una nullità rela‑ tiva, la cui tempestiva deduzione ne comporta l’annullamen‑ to senza rinvio, con contestuale restituzione degli atti al giudice a quo affinché si provveda alla redazione di nuovo provvedimento, munito delle sottoscrizioni prescritte. La questione di diritto devoluta alle Sezioni unite può es‑ sere riassunta nei seguenti termini: «Se la sentenza di appello mancante della sottoscrizione del presidente del collegio e firmata dal solo giudice estensore configuri: a) una mera irregolarità rimediabile con il procedimento di correzione dell’errore materiale anche dopo l’impugnazione della sentenza; b) una nullità relativa che comporti l’annullamento con rinvio al medesimo collegio affinché provveda alla sanatoria mediante nuova redazione della sentenza-documento; c) una nullità che investe l’intero giudizio, tale da compor‑ tare l’annullamento con rinvio ad altro collegio per la rinno‑ vazione del giudizio medesimo». *** Sulla questione si rinviene un contrasto nella Giurispru‑ denza di legittimità che ha espresso una pluralità di indirizzi riguardanti sia la natura della patologia che il rimedio consequenziale. Un primo indirizzo sostiene la tesi della mera irregolarità rimediabile con il procedimento di correzione dell’errore ma‑ teriale anche dopo l’impugnazione della sentenza. In tal senso si legga la Sesta Sezione sentenza n. 36158 del 12 maggio 2008, Campolo secondo cui «Tale interpretazione appare quella più aderente al disposto dell’art. 546 c.p.p., comma 3, il quale, nel prescrivere che la sentenza è nulla se manca la sottoscrizione del giudice, fa evidente riferimento alla sola ipotesi di mancan‑ za assoluta della sottoscrizione. Al contrario, quando manca la firma del presidente o quella del giudice estensore, la sotto‑ scrizione risulta incompleta ma non totalmente mancante; sicchè si verte in ipotesi di vizio emendabile con la correzione, a norma dell’art. 547 c.p.p.». Anche la Terza Sezione - con la sentenza n. 44657 del 16 novembre 2001 Ferrara aderisce a questo primo indirizzo interpretativo laddove è lo stesso art. 546 c.p.p., comma 3, che prevede la nullità della sentenza se manca o è incompleto il dispositivo e se manca la sottoscrizio‑ ne del giudice (e non se è incompleta la sottoscrizione). Aderi‑ scono anche Sesta Sezione, con ordinanza n. 49886 del 09 dicembre 2009, Legname, nonché Prima Sezione, con la sen‑ tenza n. 23445 del 16 aprile 2003, Agozzino. Un secondo orientamento prospetta, invece, la tesi della mera irregolarità rimediabile con il procedimento di correzione dell’errore materiale soltanto fino all’impugnazione della sentenza. In tal senso la Quinta Sezione con la sentenza n. 6246 del 20 gennaio 2004, Attinà - ha rilevato testualmente che la correzione a norma dell’art. 547 c.p.p., «può avvenire solo da parte del giudice che ha emesso il provvedimento da correggere e non anche da parte del giudice dell’impugnazione, come è invece generalmente previsto dall’art. 130 c.p.p., com‑ ma 1, ultima parte; perciò deve ritenersi che la correzione sia Gazzetta m a r z o • a p r i l e 2 0 1 3 85 F O R E N S E se: la Terza Sezione, n. 40025 del 13 ottobre 2011, Quispe Huamani; la Prima Sezione, sentenza n. 429 del 24 gennaio1997, Triglia e sentenza n. 12723 del 04 ottobre 1995, Nicoletti.) Un isolato orientamentointerpretativo rappresentato dal‑ la sentenza della Seconda Sezione n. 5223 del 17 ottobre 2000, Pavani ha cavalcato la tesi dell’inesistenza della sentenza priva della sottoscrizione dell’estensore. Tale inesistenza non può, tuttavia, comunicarsi al dispositivo, nel quale risulta già espressa la decisione del giudice. Ne consegue che, dovendosi ritenere senza effetti nel mondo giuridico un atto privo di sottoscrizione e perciò non attribuibile ad alcun soggetto, detta sentenza deve essere riprodotta con la data di pronuncia del dispositivo, nonchè sottoscritta e depositata dallo stesso giudice persona fisica che l’ha pronunciata (nella specie era stata annullata, pertanto, la sentenza impugnata e disposta la trasmissione degli atti al giudice a quo per una nuova reda‑ zione della sentenza-documento). A fronte del contrastante quadro interpretativo dianzi delineato, le Sezioni unite hanno affermato il seguente prin‑ cipio di diritto: « La sentenza di appello mancante della sottoscrizione del Presidente del collegio non giustificata espressamente da un suo impedimento legittimo e firmata dal solo giudice estensore configura una nullità relativa che com‑ porta l’annullamento senza rinvio e la restituzione degli atti affinchè si provveda alla sanatoria mediante nuova redazio‑ ne della sentenza-documento». CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza 18 aprile 2013 All’esito dell’udienza pubblica del 18 aprile 2013 le Sezio‑ ni unite hanno affrontato la seguente questione: « se il giudi‑ ce di appello, dopo aver escluso una circostanza aggravante in accoglimento del motivo proposto dall’imputato, possa confermare la pena applicata in primo grado ribadendo il giudizio di equivalenza tra le residue circostanze». Secondo l’informazione provvisoria diffusa, al quesito è stata data risposta « affermativa » La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena sarà depositata la motivazione. CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza 28 marzo 2013 All’esito dell’udienza pubblica del 28 marzo 2013 le Se‑ zioni unite hanno affrontato la seguente questione: «se, nei delitti contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità possa applicarsi anche al delitto tentato». Secondo l’informazione provvisoria diffusa, al quesito è stata data risposta « affermativa » La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena sarà depositata la motiva- zione. CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza 28 marzo 2013 All’esito dell’udienza pubblica del 28 marzo 2013 le Se‑ zioni unite hanno affrontato la seguente questione « se nel procedimento di riesame di un provvedimento di sequestro sia applicabile per la trasmissione degli atti al tribunale il termine perentorio di cinque giorni previsto dall’art. 309, comma 5, c.p.p., con la conseguente perdita di efficacia del penale possibile fino a quando gli atti non vengono trasmessi al giu‑ dice dell’impugnazione e che successivamente l’omissione della sottoscrizione non possa più essere emendata e diventi causa di annullamento della sentenza». Una terza tesi giurisprudenziale disconosce l’operatività della correzione dell’errore materiale e configura un’ipotesi di nullità relativa, ai sensi dell’art. 546 c.p.p., comma 3, com‑ portante l’annullamento con rinvio al medesimo collegio per la sanatoria mediante nuova redazione della sentenza-docu‑ mento. Si legga sul punto la Quinta Sezione - con la sentenza n. 3544 del 10 luglio 2002, dep. 24 gennaio 2003, Severini che ha osservato come «la sottoscrizione del presidente del collegio immedesima il riscontro dell’espleta- mento della funzione essenziale e sostanziale, demandatagli dalle previ‑ sioni ordinamentali, di controllare la conformità della moti‑ vazione a quanto deliberato in camera di consiglio. Per modo che la mancanza correlativa non consente di verificare se tale funzione di garanzia sia stata effettivamente espletata e non realizza, per ciò, fattispecie di mera omissione materiale emendabile ex art. 130 c.p.p.». In ordine agli effetti dell’annullamento, una prima posi‑ zione afferma che in sintesi che la sottoscrizione attiene al momento formativo della documentazione e non a quello della decisione, sicchè il processo deve regredire nel grado in cui l’atto nullo è stato compiuto - fase degli atti successivi alla deliberazione, in cui la sentenza-documento è stata redat‑ ta e sottoscritta - mentre, in base al fondamentale principio dell’autonomia funzionale degli atti, la detta declaratoria di nullità della sentenza non può invalidare anche la precedente fase del dibattimento. Aderiscono a tale imposta- zione la Terza Sezione, sentenza n. 10629 del 22 gennaio 2003, Lom‑ bardo; Seconda Sezione - sentenza n. 43788 del 09 dicembre 2010, Franzè; Sezione 3, n. 3018 del 16 gennaio 1997, Di Marco; Sezione 1, n. 12754 del 27 settembre 1999, Federici e Sezione 5, n. 1171 dell’11 marzo 1999, Vivallos Cruces. Una lieve variante all’indirizzo precedente è rappresentata da quelle sentenze che sostengono la tesi della nullità relativa comportante l’annullamento senza rinvio con trasmissione degli atti per la sanatoria mediante nuova redazione della sentenza-documento. (cfr. Quinta Sezione, con la sentenza n. 7094 del 29 ottobre 2010, dep. 23 febbraio 2011, Cassano e, con riferimento al giudice monocratico, si sono espresse la Sesta Sezione, con la sentenza n. 23738 del 19 marzo 2010, Cascino, nonché la Quarta Sezione, con la sentenza n. 34293 del 13 luglio 2007, Mancino.) Un secondo orientamento radicalmente diverso sostiene la tesi della nullità riguardante l’Intero giudizio in quanto la sentenza mancante della sottoscrizione del Presidente del collegio è affetta da nullità e va annullata con rinvio ai fini della celebrazione di un nuovo giudizio e non al solo fine di integrare la relativa omissione. (cfr. Terza Sezione sentenza n. 7959 del 13 gennaio 2011, Pacilli; Quinta Sezione, con le sentenze n. 19506 del 28 aprile 2006, Guggiari e n. 35769 del 19 maggio 2004, Prestifilippo; Prima Sezione, con la senten‑ za n. 8077 del 26 giugno 1996, D’Avena.) Una variante rispetto all’orientamento che precede, si riscon‑ tra in quelle sentenze che sostengono la tesi della nullità riguar‑ dante l’intero giudizio e comportante l’annullamento senza rinvio ma con trasmissione degli atti ad altro collegio per la rinnovazione del giudizio medesimo. (In tal senso si sono espres‑ 86 D i r i t t o e p r o c e d u r a provvedimento in caso di inosservanza del termine ». Secondo l’informazione provvisoria diffusa, al quesito è stata data la seguente soluzione: «negativa». La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena sarà depositata la motivazione. CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza 28 marzo 2013 All’esito dell’udienza pubblica del 28 marzo 2013 le Sezio‑ ni unite hanno affrontato le seguenti e collegate questioni: « Se l’art. 10 ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, introdot‑ to dall’art. 35, comma 7, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, conv. con mod. dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 ed entrato in vi‑ gore il 4 luglio 2006, si applichi anche agli omessi versamen‑ ti dell’Iva per l’anno 2005, da effettuarsi nel corso del 2005, e non versati alla scadenza del 27 dicembre 2006, prevista dal citato art. 10 ter, oppure se in tale ipotesi l’illecito debba rite‑ nersi comunque consumato alle singole scadenze del 2005 e sia quindi punibile con le sole sanzioni amministrative previ‑ ste dall’art. 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471» (proc. 42955/11, ric. Romano) « Se l’art. 10 bis del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, introdot‑ to dall’art. 1, comma 414, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 ed entrato in vigore il 1° gennaio 2005, si applichi anche agli omessi versamenti delle ritenute relative all’anno 2004, da effettuarsi nel corso del 2004 e non versati alla scadenza prevista per la presentazione della dichiarazione annuale di p e n a l e Gazzetta F O R E N S E sostituto di imposta relativa all’anno 2004 (nel caso di specie, 31 ottobre 2005), oppure se in tale ipotesi l’illecito debba ri‑ tenersi comunque consumato alle singole scadenze del 2004 e sia quindi punibile con le sole sanzioni amministrative pre‑ viste dall’art. 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471». (proc. n. 7087/2012, ric. Favellato) Secondo l’informazione provvisoria diffusa, per entrambi i quesiti è stata ritenuta «penalmente rilevante l’omesso versamento sia delle ritenute effettuate nel corso del 2004, sia dell’IVA incassata nel corso del 2005» La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena sarà depositata la motivazione. CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza 28 febbraio 2013 All’esito dell’udienza pubblica del 28 febbraio 2013 le Sezioni unite hanno affrontato la seguente questione «se, in tema di reato continuato, l’individuazione della vio‑ lazione più grave ai fini di computo della pena debba essere effettuata in concreto oppure con riguardo alla valutazione compiuta in astratto dal legislatore ». Secondo l’informazione provvisoria diffusa, l’individuazione della violazione più grave ai fini di computo della pena in tema di reato continuato si individua con riferimento alle previsioni edittali. La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena sarà depositata la motivazione. F O R E N S E m a r z o • a p r i l e ● Rassegna di legittimità ● A cura di Alessandro Jazzetti Andrea Alberico Assegnista di Ricerca in Diritto Penale Avvocato Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli 2 0 1 3 87 Impugnazioni - Provvedimenti impugnabili - Provvedimenti abnormi - Giudice del dibattimento - Dichiarazione di nullità del decreto di citazione a giudizio - Abnormità - Esclusione Non è abnorme, e quindi non è ricorribile per cassazione, a prescindere dall’esattezza della decisione, il provvedimento con cui il giudice del dibattimento, ritenuta la nullità dell’av‑ viso di conclusione delle indagini preliminari nonché del de‑ creto di citazione a giudizio per l’indeterminatezza o l’omes‑ sa indicazione della data del commesso reato, dichiara la nullità del decreto, atteso che la dichiarazione di invalidità, se pure insussistente, costituisce esercizio dei poteri propri del giudice e dunque non colloca l’atto fuori dal sistema proces‑ suale. Cass., sez. II, sentenza 26 febbraio 2013, n. 11938 (dep. 14 marzo 2013) Rv. 254272 Pres. Esposito, Est. Iannelli, Imp. P.M. in proc. Nannei, P.M. Geraci (Conf.) (Dichiara inammissibile, Trib. Savona, sez. dist. Albenga, 07 maggio 12) Procedimenti speciali - Giudizio abbreviato - In genere - Erronea declaratoria di inammissibilità o rigetto del rito - Riconoscimento all’esito del dibattimento della diminuente del rito - Utilizzazione delle prove assunte nel giudizio ordinario - Legittimità Il giudice che all’esito del dibattimento - di primo grado o di appello- ritenendo erronea una precedente declaratoria di inammissibilità o di rigetto della richiesta di giudizio ab‑ breviato riconosca all’imputato il diritto ad ottenere la ridu‑ zione della pena, ex art. 442 c.p.p., può legittimamente uti‑ lizzare le prove assunte nel giudizio ordinario. (In motivazio‑ ne, la Corte ha precisato che il riconoscimento della riduzio‑ ne ex art. 442 c.p.p. all’esito del dibattimento non ha come effetto di far regredire il processo, affinché si svolga nelle forme camerali del rito speciale). Cass., sez. VI, sentenza 15 marzo 2013, n. 14454 (dep. 27 marzo 2013) Rv. 254542 Pres.Agro’, Est.:Aprile, Imp. Lomazzi, P.M. D’Angelo (Conf.) (Rigetta, App. Roma, 01 giugno 2012) Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei privati Millantato credito - Delitto di traffico di influenze ex art. 346 bis c.p. - Natura propedeutica al delitto di corruzione - Configurabilità - Conseguenze. Il delitto di traffico di influenze di cui all’art. 346 bis c.p., così come introdotto dall’art. 1, comma 75, della l. n. 190 del 2012, è una fattispecie che punisce un comportamento pro‑ pedeutico alla commissione di una eventuale corruzione e non è, quindi, ipotizzabile quando sia già stato accertato un rap‑ porto, partitario o alterato, fra il pubblico ufficiale ed il soggetto privato. Cass., sez. VI, sentenza 11 febbraio 2013, n. 11808 (dep. 12 marzo 2013) Rv. 254442 Pres. Milo, Est. Aprile, Imp. Colosimo, P.M. Lettieri (Diff.) (Rigetta, Trib. Roma, 29 novembre 2012) Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei Pubblici Ufficiali - Concussione - Elemento oggettivo (materiale) - Modifiche introdotte dalla legge n. 190 del 2012 - Condotta di costrizione - Indicazione penale Gazzetta 88 D i r i t t o e p r o c e d u r a Nel delitto di concussione di cui all’art. 317 c.p., così come modificato dall’art. 1, comma 75 legge n. 190 del 2012, la costrizione consiste in quel comportamento del pubblico ufficiale che, abusando delle sue funzioni o dei suoi poteri, agisce con modalità o con forme di pressione tali da non la‑ sciare margine alla libertà di autodeterminazione del desti‑ natario della pretesa illecita che, di conseguenza, si determi‑ na alla dazione o alla promessa esclusivamente per evitare il danno minacciato. Cass., sez. VI, sentenza 25 febbraio 2013, n. 11942 (dep. 14 marzo 2013) Rv. 254444 Pres. Di Virginio, Est. Gramendola, Imp. Oliverio, P.M. Ge‑ raci (Conf.) (Annulla in parte con rinvio, App. Reggio Calabria, 22 feb‑ braio 2012) Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei Pubblici Ufficiali - Concussione - Elemento oggettivo (materiale) - Modifiche introdotte dalla legge n. 190 del 2012 - Condotta di costrizione - Pressioni tali da non lasciare margine di scelta nel destinatario - Differenze con la condotta di induzione di cui all’art. 319 quater La costrizione, che costituisce l’elemento oggettivo del reato di concussione di cui all’art. 317 c.p., così come modi‑ ficato dall’art. 1, comma 75 della l. n. 190 del 2012, sussiste quando il pubblico ufficiale agisca con modalità ovvero con forme di pressioni tali da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario della pretesa, il quale decide, senza che gli sia stato prospettato alcun vantaggio diretto, di dare o promettere un’utilità, al solo scopo di evi‑ tare il danno minacciato; essa si distingue dall’induzione, che integra il reato di cui all’art. 319 quater c.p., che si verifica, invece, quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio agisca con modalità o forme di pressione più blande, tali da lasciare un margine di scelta al destinatario della pretesa, che concorre nel reato perché gli si prospetta un vantaggio diretto. Cass., sez. VI, sentenza 25 febbraio 2013, n. 11944 (dep. 14 marzo 2013) Rv. 254446 Pres. Di Virginio, Est. Gramendola, Imp. De Gregorio, P.M. Geraci (Conf.) (Annulla in parte senza rinvio, App. Bologna, 06 febbraio 2012) Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei Pubblici Ufficiali - In genere - Delitto di induzione indebita, ex art. 319 quater c.p. - Accoglimento della promessa - Riserva mentale di non adempiere - Consumazione del reato - Configurabilità Ai fini della consumazione del delitto di induzione indebi‑ ta di cui all’art. 319 quater c.p., come introdotto dall’articolo 1, comma 75 della l. n. 190 del 2012, è sufficiente la promes‑ sa di denaro o altra utilità fatta dall’indotto al pubblico uffi‑ ciale o all’incaricato di pubblico servizio, senza che abbia ri‑ levanza alcuna né la riserva mentale di non adempiere nè l’intendimento di sollecitare l’intervento della polizia giudizia‑ ria affinché la dazione avvenga sotto il suo controllo. Cass., sez. VI, sentenza 11 gennaio 2013, n. 16154 (dep. 08 aprile 2013) Rv. 254541 Pres. De Roberto, Est. Carcano, Imp. Pierri, P.M. Spinaci (Conf.) p e n a l e Gazzetta F O R E N S E (Annulla in parte con rinvio, App. Messina, 17 giugno 2011) Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei Pubblici Ufficiali - In genere - Delitto di induzione indebita, ex art. 319 quater c.p. - Promessa della prestazione - Successiva richiesta di intervento alla polizia giudiziaria - Configurabilità del delitto consumato - Sussistenza È consumato il delitto di indebita induzione, di cui all’art. 319 quater c.p., quando dopo aver promesso il pagamento di una somma di denaro, si sollecita l’intervento della polizia giudiziaria affinché l’effettiva dazione avvenga sotto il con‑ trollo della stessa. Cass., sez. VI, sentenza 25 febbraio 2013, n. 13047 (dep. 21 marzo 2013) Rv. 254467 Pres. Di Virginio, Est. Di Stefano, Imp. Piccinno e altro, P.M. Geraci (Conf.) (Annulla in parte con rinvio, App. Milano, 04 gennaio 2012) Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei Pubblici Ufficiali - In genere - Modifiche introdotte dalla legge n. 190 del 2012 - Minaccia di un danno ingiusto del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio - Finalizzata a farsi dare o promettere denaro o altra utilità - Delitti configurabili - Concussione o estorsione - Prospettazione da parte di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico di servizio di adottare atti legittimi ma dannosi - Finalizzata a farsi dare o promettere denaro o altra utilità - Delitto di induzione indebita - Configurabilità - Fattispecie A seguito dell’entrata in vigore della l. n. 190 del 2012, la minaccia, di qualsivoglia tipo o entità, di un danno ingiusto, finalizzata a farsi dare o promettere denaro o altra utilità, posta in essere con abuso della qualità o dei poteri, integra il delitto di concussione se proveniente da pubblico ufficiale ovvero di estorsione se proveniente da incaricato di pubblico servizio; sussiste, invece, il delitto di induzione indebita, di cui all’art. 319 quater c.p., qualora il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, abusando della qualità o dei poteri, per farsi dare o promettere il denaro o l’utilità pro‑ spetti, con comportamenti di persuasione o di convinzione, la possibilità di adottare atti legittimi, ma dannosi o sfavore‑ voli. (Nella specie, la Corte ha qualificato come induzione indebita, ex art. 319 quater c.p., la condotta di un sottuffi‑ ciale della guardia di finanza che, nell’esercizio di attività di verifica, aveva prospettato al titolare di un’azienda il rilievo di gravi irregolarità fiscali, effettivamente sussistenti, e si era, quindi, fatto promettere una consistente somma di danaro). Cass., sez. VI, sentenza 25 febbraio 2013, n. 13047 (dep. 21 marzo 2013 ) Rv. 254466 Pres. Di Virginio, Est. Di Stefano, Imp. Piccinno e altro, P.M. Geraci (Conf.) (Annulla in parte con rinvio, App. Milano, 04 gennaio 2012) Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei Pubblici Ufficiali - In genere - Reato di cui all’art. 319 quater c.p. - Continuità normativa con la precedente fattispecie di concussione per induzione - Configurabilità - Ragioni La fattispecie di cui all’art. 319 quater c.p., come intro‑ dotta dall’art. 1, comma 75 della legge n. 190 del 2012, si Gazzetta m a r z o • a p r i l e 2 0 1 3 89 F O R E N S E Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei Pubblici Ufficiali - In genere - Reato di cui all’art. 319 quater c.p. - Elemento oggettivo - Attività di induzione - Significato. La induzione, richiesta per la realizzazione del delitto previsto dall’art. 319 quater c.p., così come introdotto dall’art. 1, comma 75, della legge n. 190 del 2012, non è diversa, sotto il profilo strutturale, da quella che già integra‑ va una delle due possibili condotte del previgente delitto di concussione di cui all’art. 317 c.p. e consiste, quindi, nella condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, abusando delle funzioni o della qualità, attra‑ verso le forme più varie di attività persuasiva, di suggestione, anche tacita, o di atti ingannatori, determini taluno, consa‑ pevole dell’indebita pretesa e non indotto in errore dalla condotta persuasiva svolta dal pubblico agente, a dare o promettere, a lui o a terzi, denaro o altra utilità. (In motiva‑ zione, la Corte ha evidenziato che la prospettazione di con‑ seguenze sfavorevoli da parte del pubblico agente per ottene‑ re l’indebita promessa o pagamento può essere considerato un indice sintomatico della induzione indebita). Cass., sez. VI, sentenza 11 gennaio 2013, n. 16154 (dep. 08 aprile 2013) Rv. 254539 Pres. De Roberto, Est. Carcano, Imp. Pierri, P.M. Spinaci (Conf.) (Annulla in parte con rinvio, App. Messina, 17 giugno 2011) Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei Pubblici Ufficiali - In genere - Sollecitazione del pubblico ufficiale a dare o promettere denaro o altra utilità - Delitto configurabile - Indicazione La sollecitazione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio rivolta al privato a dare o promettere denaro o altra utilità, pure se espressa con la prospettazione di evitare un pregiudizio derivante dall’applicazione della legge, mediante un atto contrario ai doveri di ufficio integra, nel caso sia rifiutata, il delitto di istigazione alla corruzione punito dall’art. 322 c.p., o, se accolta, quello di corruzione punito dall’art. 319 c.p.; la medesima sollecitazione integra, invece, il delitto induzione, punito dall’art. 319 quater c.p., quando sia preceduta o accompagnata da uno o più atti che costituiscono estrinsecazione del concreto abuso della qua‑ lità o del potere dell’agente pubblico. Cass., sez. VI, sentenza 11 gennaio 2013, n. 16154 (dep. 08 aprile 2013) Rv. 254540 Pres. De Roberto, Est. Carcano, Imp. Pierri, P.M. Spinaci (Conf.) (Annulla in parte con rinvio, App. Messina, 17 giugno 2011) penale pone in termini di continuità normativa rispetto alla prece‑ dente fattispecie concussiva per induzione, essendo stata, nella nuova norma, descritta in termini identici la condotta del pubblico ufficiale. Cass., sez. VI, sentenza 11 febbraio 2013, n. 12388 (dep. 15 marzo 2013) Rv. 254441 Pres. Milo, Est. Capozzi, Imp. Sarno, P.M. Lettieri (Conf.) (Rigetta, Trib. lib. Milano, 12 novembre 2012) 90 D i r i t t o ● p r o c e d u r a p e n a l e Gazzetta F O R E N S E diritto penale Rassegna di merito ● e A cura di Alessandro Jazzetti Giuseppina Marotta Avvocato Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli Calunnia: ritrattazione della denunzia - Irrilevanza (art. 368 c.p.) La spontanea “ritrattazione” della denuncia non esclude la punibilità del reato di calunnia, integrando un “post factum” irrilevante rispetto all’avvenuto perfezionamento del reato, eventualmente valutabile quale circostanza attenuante ai sensi dell’art. 62 n. 6 cod. pen., purché effettuata prima che 1’autorità giudiziaria acquisisca la prova della falsità dell’ incolpazione. Tribunale Nola, coll. A) sentenza 27 marzo 2013, n. 715 Pres. Aschettino, Est. Imparato Circostanze attenuanti generiche: finalità (art. 162 bis c.p.) Le circostanze attenuanti generiche hanno lo scopo di estendere le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all’imputato in considerazione di situazioni e circostanze che effettivamente incidano sull’apprezzamento dell’entità del reato e della capacità a delinquere dello stesso, sicché il riconoscimento di esse richiede la dimostrazione di elementi di segno positivo (Cass. sez. 3, sentenza n. 19639 del 27/01/2012 Ud. (dep. 24/05/2012) rv. 252900). Tribunale Napoli, G.u.p. Giordano sentenza 8 febbraio 2013, n. 406 Confisca: sentenza di assoluzione – Previsione (art. 240 c.p.) La confisca facoltativa può essere disposta anche d’ufficio. dal giudice di cognizione di primo grado il quale, nel pronunciare sentenza di assoluzione o di condanna, può ben applicare le eventuali misure di sicurezza, ai sensi degli artt. 205, comma 1 e 236, comma 2. cod. pen. nonché degli art. 530, comma 4 e 533, comma 1, cod. proc. pen., trattandosi di pronunzie necessariamente conseguenziali al principale thema decidendum riguardante l’imputazione (Cass. pen., sez. I, n. 10069/2002). Tribunale Nola, coll. A) sentenza 30 gennaio 2013, n. 237 Pres. Aschettino, Est. De Majo Peculato d’uso: elementi costitutivi – Condotta occasionale (art. 314 c. 2 c.p.) Non è configurabile il reato di peculato d’uso laddove l’uso del bene della P.A. sia “episodico ed occasionale” e quando “la condotta abusiva non abbia leso la funzionalità della P.A. e non abbia causato un danno patrimoniale apprezzabile”. ( cfr. sul punto tra le altre sez. 6. sentenza n. 5006 del 12/01/2012). La giurisprudenza di legittimità ha invero affermato, con un orientamento ormai consolidato, che l’uso temporaneo del bene pubblico per finalità, reali o supposte, non corrispondenti a quelle istituzionali non sempre è destinato ad integrare la fattispecie del peculato d’uso. Non certamente nei casi in cui un siffatto temporaneo uso si è rilevato, come nel caso in oggetto, del tutto episodico ed occasionale e non risulti caratterizzarsi, quanto a consistenza (distanze percorse) e durata dell’uso, in fatti di effettiva “appropriazione” delle autovetture di servizio, suscettibili di recare un concreto e significativo danno Gazzetta m a r z o • a p r i l e 2 0 1 3 91 F O R E N S E Peculato d’uso: ratio legislativa – Punibilità (art. 314 co. 2 c.p.) La ragione fondamentale della fattispecie del peculato d’uso va individuata nell’esigenza del legislatore di sottrarre alla estensione del più grave peculato comune ( art. 314 c.p.,comma 1) l’appropriazione di cose di specie (e non anche di quelle fungibili) per un circoscritto periodo di tempo, cui faccia seguito la loro pronta restituzione con coevo pieno ripristino della situazione precedente (cfr. Cass. Sez. 6, 1.2.2005 n. 9216, Triolo, rv. 230940). Nel caso in esame l’autovettura di servizio è sempre rimasta nella sfera della P.A. e della funzionale disponibilità degli agenti della Polstrada giammai essendosene consentito il più temporaneo impiego a soggetti terzi, pubblici ufficiali o privati, non aventi diritto all’uso di veicolo di servizio ( v. Cass. sez. 6, 13.5.2003 n. 27007, P.M. in proc. Grassi, rv. 225759). Tribunale Nola, coll. A) sentenza 27 novembre 2012, n. 2568 Pres. Est. Aschettino Pornografia minorile: accesso al programma Emule - Divulgazione – Nozione - Elemento soggettivo - Presupposti (art. 600 ter c.p.) Il dolo richiesto dalla norma può sussistere sia nella sua forma diretta che nella forma di dolo eventuale come accettazione del rischio della divulgazione. In entrambi i casi è però necessario che il soggetto agente si sia rappresentato tutti gli elementi del fatto reato oggetto di contestazione e nel caso di specie che sia rappresentato che i files erano allocati in una cartella condivisa accettando quanto meno il rischio che altri li potessero vedere. Sul punto soccorre la giurisprudenza di legittimità che ha affermato che non è ravvisabile anche il reato divulgazione per il solo motivo (e sulla base della sola prova) che i files illeciti siano procuratia attraverso un programma di condivisione del tipo di quello EMULE in quanto per ravvisare l’elemento soggettivo del reato è necessaria la prova di una volontà consapevole del soggetto diretta a divulgare o diffondere il file. Invero, se l’utente in ragione della sua limitata conoscenza tecnico-informatica ignora che i “files” detenuti sono di fatto nella disponibilità dio altri utenti perché inserito in una “cartella condivisibile” incorre in un evidente errore sul fatto che costituisce reato, così come disciplinato dall’art. 47 cp, e tale errore ricadendo su uno degli elementi essenziali del reato incide sul profilo psichico elidendo il dolo di divulgazione che costituisce elemento soggettivo tipico della fattispecie in contestazione. Tribunale Nola, coll. A) sentenza 20 febbraio 2013, n. 469 Pres. Est. Aschettino procedura penale Termini di custodia cautelare: diversa qualificazione del reato in sentenza rispetto a quello del titolo cautelare – Inefficacia della misura – Esclusione (art. 303 c.p.p.) Deve ritenersi che il titolo cautelare per il capo di imputazione X, permanga pur a fronte della diversa qualificazione giuridica della condotta operata in sentenza, dovendosi ritenere, argomentando diversamente, del tutto vanificato il titolo cautelare emesso per la stessa condotta ancorché originariamente qualificata ex art. 378 c.p., 7 l. 203/1991, opzione quest’ultima non condivisibile, in quanto in tal modo si determinerebbe un’ipotesi di inefficacia della misura cautelare non prevista dal codice di rito; si deve pertanto ritenere che il termine di cui all’art. 303, comma 1, lett. c), c.p.p., non sia decorso, atteso che nel caso di specie detto temine deve essere calcolato in relazione all’intera pena attribuita all’imputato per i reati per i quali è in atto la custodia cautelare. Corte Appello Napoli, sez. III ordinanza 17 aprile 2013, n. 6662/12 Pres. Est. Catena Udienza preliminare: potere e limiti del G.u.p. (art. 425 c.p.p.) Sotto un profilo teorico deve rilevarsi che la nuova formulazione dell’art. 425, comma 3, c.p.p. ha ampliato la funzione di “filtro” dell’ udienza preliminare, assegnando al Gup un potere di controllo “sostanziale” ossia una attenta valutazione dei risultati delle indagini al fine di determinare, con un giudizio attinente il merito, l’effettiva fondatezza dell’ ipotesi accusatoria. In tale ottica si impone la emissione della sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 , comma 3, c.p.p. ogni qualvolta risulti l’inadeguatezza del materiale probatorio raccolto a sostenere l’accusa e ciò anche quando esiste un principio di prova della responsabilità penale ma non in misura tale da supportare una pronuncia di condanna in sede dibattimentale (Cass. 687/98; 45275/200l). Tribunale Napoli, G.u.p. Colucci sentenza 28 gennaio 2013, n. 264 Valutazione della prova: deposizione della persona offesa – Criteri e differenze rispetto al testimone (art. 192 c.p.p.) La persona offesa, pur essendo considerata dal legislatore, anche quando si costituisce parte civile, alla stregua di un qualunque testimone, viene collocata, dalla giurisprudenza in una posizione diversa rispetto a quella del teste - e ciò proprio per il ruolo che assume nell’ambito del processo. Sia quando si costituisce parte civile nel processo penale, sia quando non eserciti tale facoltà. Se. infatti, il testimone, è per definizione una persona estranea agli interessi in gioco del processo, che si limita a rendere una deposizione su fatti a cui ha assistito personalmente, senza altre o diverse implicazioni, la persona offesa è per definizione in posizione di antagonismo nei confronti dell’imputato, finalizzata ad ottenere giustizia con la condanna di questi. Tribunale Nola, coll. C) sentenza 7 marzo 2013, n. 588 penale economico all’ente pubblico (in termini di carburante utilizzato e di energia lavorativa degli autisti addetti alla guida) ovvero di pregiudicarne l’ordinaria attività funzionale. Del resto l’autovettura non fu neppure distolta dal suo uso istituzionale atteso che lo straordinario programmato era previsto che si dovesse svolgere con le motociclette e non con l’auto di talchè la stessa doveva rimanere parcheggiata nel distretto. Tribunale Nola, coll. A) sentenza 27 novembre 2012, n. 2568 Pres. Est. Aschettino 92 D i r i t t o e p r o c e d u r a Pres. Di Iorio, Est. Cervo Valutazione della prova: deposizione della persona offesa – Unica fonte di prova - Criteri (art. 192 c.p.p.) Quando la persona offesa rappresenta il principale (se non il solo) testimone che abbia avuto la percezione diretta del fatto da provare e sia, quindi sostanzialmente, l’unico soggetto processuale in grado di introdurre tale elemento valutativo o nel processo, affinchè la sua deposizione possa essere posta a fondamento del giudizio di colpevolezza dell’imputato, occorre sottoporla ad una puntuale analisi critica, mediante la comparazione con il rimanente materiale probatorio acquisito (laddove ciò sia possibile) utilizzabile per corroborare la sua dichiarazione, ovvero, laddove una verifica ab estrinseco non sia possibile. attraverso un esame attento e penetrante della testimonianza. Tribunale Nola, coll. C) sentenza 7 marzo 2013, n. 588 Pres. Di Iorio, Est. Cervo LEGGI PENALI SPECIALI Bancarotta: prestanome – Concorso nel reato – Presupposti (art. 216 L.F.) Invero, se, per costante giurisprudenza, il mero prestanome può concorrere con l’amministratore di fatto nella bancarotta commessa da quest’ultimo in seno alla società solo fiscalmente riconducibile al primo, anche solo per non aver impedito l’evento che aveva l’obbligo di impedire (cfr. sul punto, Cass. Pen. Sez. V n°7208\2006) , diverso è il caso, come quello di specie, in cui, attraverso una società “cartiera”, formalmente amministrata da terzi, si realizza una distrazione ai danni di altra società. Tribunale Nola, coll. A) sentenza 27 marzo 2013, n. 715 Pres. Aschettino, Est. Imparato Bancarotta fraudolenta: soggetti responsabili – Differenze tra bancarotta documentale per sottrazione e quella per distrazione (art. 216 L.F.) In tema di bancarotta fraudolenta, mentre con riguardo a quella documentale per sottrazione delle scritture contabili, ben può ritenersi la responsabilità del soggetto investito solo formalmente del’amministrazione dell’ impresa fallita (cosiddetto “testa di legno”), atteso il diretto e personale obbligo dell’amministratore di diritto di tenere e conservare le suddette scritture, non altrettanto può dirsi con riguardo alle ipotesi della distrazione, relativamente alla quale non può, nei confronti dell’ amministratore apparente, trovare automatica applicazione il principio secondo il quale, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell’imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi data, legittima la presunzione della dolosa sottrazione, dal momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall’amministratore di fatto. (Cass. pen., sez. V, sent. 28007 del 2004). p e n a l e Gazzetta F O R E N S E Tribunale Nola, coll. A) sentenza 27 marzo 2013, n. 715 Pres. Aschettino, Est. Imparato Bancarotta fraudolenta patrimoniale: differenze con la ricettazione prefallimentare (art. 216 co. 1 e 223 co. 1 L.F.) Sussiste il concorso in bancarotta fraudolenta patrimoniale, ex artt. 216 comma primo e 223 comma primo, legge fall., e non la cosiddetta ricettazione prefallimentare (art. 232, comma secondo n. 3) quando la distrazione di beni sociali prima del fallimento sia operata dall’estraneo in accordo con 1 ‘amministratore della società fallita” (Cass. pen., sez. V, n°12824 del 2005). Tribunale Nola, coll. A) sentenza 27 marzo 2013, n. 715 Pres. Aschettino, Est. Imparato Bancarotta fraudolenta: elemento soggettivo - Presupposti (art. 216 L.F.) In tema di bancarotta fraudolenta per distrazione od occultamento ad integrare 1’elemento soggettivo è sufficiente il dolo generico, dal momento che è necessario che 1’agente, perseguendo un interesse proprio o di terzi estranei all’impresa, abbia coscienza e volontà di porre in essere atti incompatibili con gli interessi della stessa, in quanto aventi quale conseguenza la lesione del patrimonio aziendale, la diminuzione delle garanzie patrimoniali e 1 ‘indebolimento della posizione dei creditori” (Cass. Pen. Sez. V n°2876 del 1998). Tribunale Nola, coll. A) sentenza 27 marzo 2013, n. 715 Pres. Aschettino, Est. Imparato Bancarotta fraudolenta: concorso dell’extraneus – Presupposti e condizioni (art. 216 L.F.) In materia di reati fallimentari, nell ‘ipotesi di fatti di bancarotta fraudolenta per distrazione, e con riferimento alla partecipazione dell’”extraneus” in reato proprio dell ‘amministratore di società deve ritenersi che il soggetto esterno alla società può concorrere nel reato proprio, mediante condotta agevolativa di quella dell’”intraneus”, nella consapevolezza della funzione di supporto alla “distrazione”, intesa quest’ultima come sottrazione dal patrimonio sociale e suo depauperamento ai danni della classe creditoria, in caso di fallimento. Nel caso in cui, la “distrazione” venga realizzata mediante l’azione “combinata” di più soggetti, la consapevolezza del partecipe “extraneus” deve abbracciare le varie condotte ed i reciproci loro nessi protesi al raggiungimento dell ‘evento conclusivo” (Cass. Pen. Sez. V n°6470 del 1999) Tribunale Nola, coll. A) sentenza 27 marzo 2013, n. 715 Pres. Aschettino, Est. Imparato Bancarotta semplice: comportamento punibile – Presupposti (art. 216 L.F.) Il reato di bancarotta semplice documentale sanziona il comportamento omissivo del fallito che non ha tenuto le scritture contabili, trattandosi di reato di pericolo che, Gazzetta m a r z o • a p r i l e 2 0 1 3 93 F O R E N S E Imposte: emissione fatture per operazioni inesistenti – Configurabilità (art. 8 d.lgs 74/2000) In tema di reati finanziari e tributaria il reato di emissione di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74) è configurabile anche in caso di fatturazione solo soggettivamente falsa, sia per 1 ‘ampiezza della norma che si riferisce genericamente ad “operazioni inesistenti”, sia perché anche in tal caso è possibile conseguire il fine illecito indicato dalla norma in esame, ovvero consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto. Tribunale Nola, colla. A) sentenza 27 marzo 2013, n. 715 Pres. Aschettino, Est. Imparato Stupefacenti: idoneità della sostanza a produrre effetto drogante – Accertamento – Necessità ai fini della condanna (art. 73 d.P.R. 309/90) Ai fini della configurabilità di un reato è necessario accertare la concreta offensività della condotta, e cioè, l’effettiva capacità della stessa a ledere i beni giuridici tutelati dalla norma incriminatrice. Con riferimento al reato previsto dall’art. 73 d.P.R. n. 309/90 occorre verificare l’idoneità della sostanza a produrre un effetto drogante; è, cioè, necessario accertare se la sostanza contenga un minimo di principio attivo. Nel caso esaminato non è stato possibile procedere a questo accertamento perché la sostanza era completamente deteriorata al punto da non poter essere analizzata. Orbene, il predetto stato della sostanza riscontrato ad appena un mese dal sequestro, induce a ritenere che la sostanza non fosse marijuana. E’ vero che le sostanze stupefacenti col passare del tempo si deteriorano; ma di certo, un deterioramento così veloce, appare francamente inusuale. Lo stesso narcotest effettuato dalla PG ha dato esito incerto e al momento del sequestro la sostanza si presentava “umida”. Sulla base di tali elementi è stata pronunciata sentenza di assoluzione perché non è certo che la sostanza detenuta fosse stupefacente. Tribunale Napoli, G.u.p. Carola sentenza 1 febbraio 2013, n. 327 Stupefacenti: consumo di gruppo – Irrilevanza penale – Presupposti (art. 73 d.P.R. 309/90) La giurisprudenza di legittimità in ordine alla possibile irrilevanza penale del ‘cd. consumo di gruppo’ (Cass. 26.1.20Il, sez. VI, n. 3162) chiarisce come la causa di giustificazione possa concretamente operare solamente se si raggiunga la piena prova di alcune circostanze quali: a)Il consumo della sostanza anche da parte del soggetto che ha proceduto all’acquisto (mandatario); b)La certezza dei componenti del gruppo sin da quando è conferito il mandato con l’intesa circa il tempo e il luogo dell’ assunzione;c)Unicità del comportamento del gruppo al fine del consumo della sostanza. Ne consegue che in assenza di prova di alcuna delle ultime circostanze descritte, e la dimostrata presenza della quantità di sostanza -stupefacente unitamente alle modeste condizioni reddituali dell’imputato - non consentono di ritenere che la droga fosse destinata unicamente al consumo personale. Tribunale Napoli, G.u.p. Pilla sentenza 4 febbraio 2013, n. 339 Stupefacenti: circostanza aggravante dell’ingente quantità – Presupposti e condizioni (art. 73, 80 d.P.R. 309/90) In tema di produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti, L’aggravante della ingente quantità dio cui all’art. 80, comma secondo, d.P.R. n. 309/1990, non è di norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a 2mila volte il valore massimo, in milligrammi (valore-soglia), detenuto per ogni sostanza nella tabella allegata al d.m. 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata. Tribunale Napoli, G.u.p. Piccirillo sentenza 11 marzo, n. 644 penale mirando ad evitare che sussistono ostacoli all’attività di ricostruzione del patrimonio aziendale dei movimenti che l’hanno costituito, persegue la finalità di consentire ai creditori l’esatta conoscenza della consistenza patrimoniale sulla quale possono essere soddisfatti. Di tale ipotesi di reato risponde l’imprenditore dichiarato fallito o l’amministratore della società fallita il quale non ha esercitato la necessaria sorveglianza sul puntuale adempimento di obblighi di legge in quanto il reato è punibile anche a titolo di colpa. Tribunale Nola, coll. C) sentenza 31 gennaio 2013, n. 251 Pres. Est. Di Iorio Diritto amministrativo Gli strumenti amministrativi di contrasto alla corruzione. I piani anticorruzione 97 Carlo Buonauro La giustiziabilità degli atti politici ex art. 113 Cost. 105 Vittorio Sabato Ambrosio Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (d.lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.) 110 amministrativo A cura di Almerina Bove Gazzetta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e ● 97 ● Carlo Buonauro Magistrato amministrativo* Premessa La legge 6 novembre 2012 n.19, sotto il nomen “Disposi‑ zioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, si sviluppa in due articoli, di cui il primo, formato da 83 commi, contenen‑ te tutta la disciplina sostanziale ed il secondo recante la consueta clausola di invarianza finanziaria. Con tale riforma - collocantesi nella più ampia ottica della lotta all’illegalità nella pubblica amministrazione anche in ossequio alle istanze di matrice internazionale che più volte hanno sollecitato l’Italia ad un intervento in materia, garantendo un completo e pieno adeguamento dell’ordina‑ mento interno agli obblighi internazionali1 -, il legislatore ha inteso, da un lato, introdurre misure di stampo amministra‑ tivo a carattere sia preventivo sia repressivo della corruzione e, dall’altro, delineare misure di stampo penale più incisive sia sul piano applicativo e sia sul piano sanzionatorio . Quest’ul‑ timo aspetto si è realizzato mediante una complessiva modi‑ fica della disciplina del Codice Penale relativa ai reati contro la pubblica amministrazione . Sul versante amministrativo, il complessivo architrave delineato dalla nuova normativa - accanto ad un rafforzamen‑ to della trasparenza amministrativa, attraverso un perentorio richiamo alla cultura dell’integrità ed all’ennesima modifica alla legge 241/1990 - si regge su due pilastri fondamentali: • sul piano macro-organizzativo, viene delineata la nuova struttura dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, cui, sul versante micro - organizzativo, si affianca, nei singoli enti, la figura del responsabile della prevenzione della corruzione; • sul versante operativo, vengono in linea di conto, anco‑ ra una volta nella medesima logica binaria di rapporto tra centro e periferia, gli innovati strumenti di pianificazione, nel duplice livello del Piano nazionale anticorruzione e dei piani triennali di prevenzione della corruzione, approvati da tutte le amministrazioni pubbliche2. 1 ∗ Componente del Nucleo Tecnico Scientifico del Progetto “Inter‑ venti mirati al contrasto della corruzione nella Pubblica Ammi‑ nistrazione Locale e Centrale”, nell’abito della cui esperienza è maturata gran parte del presente contributo. Cfr. Camera dei Deputati, sezione “Temi di attività parlamentare”, 25 ottobre 2012, in http://www.camera.it/misure-anticorruzione. A tal fine basti pensare alla Convenzione penale di Strasburgo sulla corruzione del 1999 che impegna gli Stati a prevedere l’incriminazione : di fatti di corruzione attiva e passiva tanto di funzionari nazionali quanto stranieri; di corruzione attiva e passiva nel settore privato; del c.d. traffico di influenze illecite; del c.d. autoriciclaggio. Si pensi ancora alla Convenzione civile sulla corruzione di Strasburgo del 1999 che è diretta ad assicurare che negli Stati aderenti siano garantiti rimedi giudi‑ ziali efficaci in favore delle persone che hanno subito un danno risultante da un atto di corruzione. Entrambe le Convenzioni Internazionali suddette, sono state oggetto di ratifica da parte dell’Italia rispettivamente con Legge 28 giugno 2012, n. 110 e con Legge 28 giugno 2012, n.112. 2 Sul punto si segnale come, rispettivamente il 12 e 19 marzo 2013. sono state approvate e pubblicate sul sito della Funzione Pubblica (http://www.funzione‑ pubblica.gov.it/la-struttura/anticorruzione.aspx) le “Linee di indirizzo” del Comitato interministeriale (d.p.c.m. 16 gennaio 2013) per la predisposizione, da parte del Dipartimento della funzione pubblica, del PIANO NAZIONALE ANTICORRUZIONE di cui alla legge 6 novembre 2012, n. 190”. Peraltro l’attività del citato Nucleo Tecnico Scientifico del Progetto “Interventi mirati al contrasto della corruzione nella Pubblica Amministrazione Locale e Centrale” ha avuto, come primo compito, proprio il supporto a tale elaborazione. amministrativo Sommario: Premessa - 1. L’Autorità Nazionale Anticorruzio‑ ne - 2. Il Responsabile della prevenzione della corruzione 3. Il Piano Nazionale Anticorruzione ed i piani triennali di prevenzione della corruzione. Gli strumenti amministrativi di contrasto alla corruzione. I piani anticorruzione 2 0 1 3 98 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o 1. L’Autorità Nazionale Anticorruzione La legge anticorruzione individua all’articolo 1 comma 1 nell’Autorità nazionale anticorruzione il soggetto incaricato di svolgere attività di controllo, di prevenzione e di contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministra‑ zione. 3 A tal fine si specifica al comma 2 che è la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazio‑ ni pubbliche ad operare quale Autorità nazionale anticorruzio‑ ne. In realtà la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche, era già stata istituita in forza dell’ articolo 13 del decreto legislativo 27 ot‑ tobre 2009, n. 150 in materia di ottimizzazione della produt‑ tività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni. Tale commissione in forza della legge istitutiva è chiamata a svolgere funzioni di indirizzo e coordinamento delle funzioni delle amministrazioni pubbliche e, più in generale, ad essa spetta il compito di sovraintendere all’esercizio delle funzioni pubbliche affinché venga garantita la trasparenza e l’efficienza dell’attività pubblica e la qualità dei servizi resi ai cittadini; a tal fine alla Commissione è garan‑ tito la piena indipendenza e autonomia di giudizio. In forza della previsione della Legge Anticorruzione, si aggiunge a quanto su detto l’ulteriore e più ampio compito per la Commissione di operare nell’ottica di garantire la traspa‑ renza totale delle amministrazioni favorendo a tal fine un controllo partecipato dei cittadini e delle istituzioni sul modo di gestione delle “cosa pubblica” attraverso la messa in rete dei dati più importanti e utili relativi al funzionamento delle amministrazioni e garantendone la relativa accessibilità . In particolare, la Commissione: a) collabora con i paritetici organismi stranieri, con le organizzazioni regionali ed internazionali competenti; b) approva il Piano nazionale anticorruzione predisposto dal Dipartimento della funzione pubblica, di cui al comma 4, lettera c); c) analizza le cause e i fattori della corruzione e individua gli interventi che ne possono favorire la prevenzione e il con‑ trasto; d) esprime pareri facoltativi agli organi dello Stato e a tutte le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, in materia di conformità di atti e comporta‑ menti dei funzionari pubblici alla legge, ai codici di compor‑ tamento e ai contratti, collettivi e individuali, regolanti il rapporto di lavoro pubblico; e) esprime pareri facoltativi in materia di autorizzazioni, di cui all’articolo 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, allo svolgimento di incarichi esterni da parte dei dirigenti amministrativi dello Stato e degli enti pubblici nazionali; 3 Tale specifica previsione si pone sul piano più generale dell’adeguamento della nostra normativa agli obblighi che il nostro paese ha assunto sul piano inter‑ nazionale obblighi che vincolano il nostro legislatore ai sensi dell’art. 117 comma 1 Cost. Il riferimento è alla Convenzione ONU contro la corruzione del 31 ottobre 2003 (c.d. Convenzione di Merida) ratificata dal nostro paese in forza della legge 3 agosto 2009 n. 116, ed alla Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa del 27 gennaio 1999 (Convenzione di Stra‑ sburgo) ratificata dal nostro paese in forza della legge 28 giugno 2012 n. 110. Gazzetta F O R E N S E f) esercita la vigilanza e il controllo sull’effettiva applica‑ zione e sull’efficacia delle misure e dei piani anticorruzione adottate dalle pubbliche amministrazioni ai sensi dei commi 4 e 5 dell’articolo1 Legge Anticorruzione sul rispetto delle regole sulla trasparenza dell’attività amministrativa previste dai commi da 15 a 36 dell’articolo1 Legge Anticorruzione e dalle altre disposizioni vigenti. In particolare al comma 3 del medesimo articolo 1si specifica che per l’esercizio di queste funzioni la Commissione esercita poteri ispettivi mediante richiesta di notizie, informazioni, atti e documenti alle pub‑ bliche amministrazioni, e ordina l’adozione di atti o provve‑ dimenti richiesti dai piani anticorruzione e dalle regole sulla trasparenza dell’attività amministrativa previste dai commi da 15 a 36 del medesimo articolo e dalle altre disposizioni vigenti, ovvero la rimozione di comportamenti o atti contra‑ stanti con i piani e le regole sulla trasparenza citati. La Commissione e le amministrazioni interessate danno notizia, nei rispettivi siti web istituzionali, dei provvedimenti adottati ai sensi del presente comma. g) riferisce al Parlamento, presentando una relazione entro il 31 dicembre di ciascun anno, sull’attività di contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione e sull’efficacia delle disposizioni vigenti in materia. Inoltre la legge risponde alla più ampia necessità di ga‑ rantire un’azione coordinata e netta nella lotta alla corruzio‑ ne che coinvolga tutto l’apparato centrale dello Stato: a tal fine si pone accanto alla Commissione un ulteriore soggetto pubblico con competenze nella lotta alla corruzione, il Dipar‑ timento della Funzione Pubblica cui i commi 4 e 5 dell’arti‑ colo 1 Legge Anticorruzione affidano ulteriori e rilevanti prerogative. In particolare il Dipartimento della Funzione Pubblica : a) coordina l’attuazione delle strategie di prevenzione e contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica am‑ ministrazione elaborate a livello nazionale e internazionale; b) promuove e definisce norme e metodologie comuni per la prevenzione della corruzione, coerenti con gli indirizzi, i programmi e i progetti internazionali; c) predispone il Piano nazionale anticorruzione, anche al fine di assicurare l’attuazione coordinata delle misure di cui alla lettera a); d) definisce modelli standard delle informazioni e dei dati occorrenti per il conseguimento degli obiettivi previsti dalla presente legge, secondo modalità che consentano la loro gestione ed analisi informatizzata; e) definisce criteri per assicurare la rotazione dei dirigenti nei settori particolarmente esposti alla corruzione e misure per evitare sovrapposizioni di funzioni e cumuli di incarichi nominativi in capo ai dirigenti pubblici, anche esterni. 2. Il Responsabile della prevenzione della corruzione Figura peculiare delineata dal legislatore della riforma al comma 7 dell’art. 1 Legge Anticorruzione è il responsabile della prevenzione della corruzione, individuato dall’organo di indirizzo politico, possibilmente tra i dirigenti amministrati‑ vi di ruolo di prima fascia in servizio e la cui ratio è eviden‑ temente data dalla necessità di individuare all’interno delle amministrazioni stesse i primari referenti anticorruzione. Negli enti locali, il responsabile della prevenzione della corruzione è individuato, di norma, nel segretario, salva di‑ F O R E N S E m a r z o • a p r i l e versa e motivata determinazione: ai Segretari comunali e provinciali è quindi demandato il compito di svolgere la reda‑ zione del piano per le rispettive amministrazioni locali con il supporto delle Prefetture e tali piani andranno poi approvati dagli organi politici di indirizzo, quale è la Giunta. In definitiva i Segretari comunali e provinciali assumono la responsabilità della prevenzione della corruzione. Il comma 8 poi specifica che è compito dell’organo di in‑ dirizzo politico adottare entro il 31 gennaio di ogni anno, su proposta del responsabile della prevenzione della corruzione , il piano triennale di prevenzione della corruzione, curando‑ ne la trasmissione al Dipartimento della funzione pubblica. Il legislatore inoltre specifica che l’attività di elaborazione del piano non può essere affidata a soggetti estranei all’am‑ ministrazione, con ciò sottolineando la delicatezza e impor‑ tanza di una simile operazione che come tale va compiuta dai soggetti facenti parte della stessa pubblica amministrazione. Il comma in esame poi specifica che entro lo stesso termi‑ ne suddetto , il responsabile deve definire procedure appro‑ priate per selezionare e formare i dipendenti destinati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione. Inoltre è di fondamentale importanza la previsione secon‑ do cui la mancata predisposizione del piano e la mancata adozione delle procedure per la selezione e la formazione dei dipendenti costituiscono elementi di valutazione della respon‑ sabilità dirigenziale. Quest’ultima attiene sia all’aspetto eco‑ nomico sia all’aspetto disciplinare. Più in generale il responsabile del procedimento, oltre ai rilevanti compiti su menzionati, provvede ai sensi del comma 10 dell’ articolo 1 Legge Anticorruzione anche: a) alla verifica dell’efficace attuazione del piano e della sua idoneità, nonché a proporre la modifica dello stesso quando sono accertate significative violazioni delle prescrizioni ovve‑ ro quando intervengono mutamenti nell’organizzazione o nell’attività dell’amministrazione; b) alla verifica, d’intesa con il dirigente competente, dell’ef‑ fettiva rotazione degli incarichi negli uffici preposti allo svolgimento delle attività nel cui ambito è più elevato il rischio che siano commessi reati di corruzione; c) ad individuare il personale da inserire nei programmi di formazione sull’etica e sulla legalità tenuti dalla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. Infine al comma 14 dell’articolo1 Legge Anticorruzione si specifica che entro il 15 dicembre di ogni anno, il dirigente responsabile della prevenzione della corruzione pubblica nel sito web dell’amministrazione una relazione recante i risulta‑ ti dell’attività svolta e la trasmette all’organo di indirizzo politico dell’amministrazione. Nei casi in cui l’organo di in‑ dirizzo politico lo richieda o qualora il dirigente responsabile lo ritenga opportuno, quest’ultimo procederà a riferire circa l’attività posta in essere per la prevenzione alla corruzione. Il punto centrale della disciplina è senz’altro costituito dalla puntuale definizione della responsabilità disciplinare e giudiziale del responsabile della prevenzione della corruzione. Al riguardo, di rilievo notevole risulta essere la previsione fortemente afflittiva e deterrente di cui all’articolo 1 comma 12 della Legge Anticorruzione: quest’ultima prevede che, qualora sia accertato con sentenza passata in giudicato la commissione di un reato di corruzione all’interno dell’ammi‑ nistrazione, il responsabile della prevenzione della corruzione 2 0 1 3 99 sarà chiamato a rispondere sia ai sensi dell’articolo 21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 rubricato respon‑ sabilità dirigenziale, sia sul piano disciplinare, nonché per il danno erariale e all’immagine della pubblica amministrazio‑ ne, salvo che provi tutte le seguenti circostanze: a) di avere predisposto, prima della commissione del fatto, il piano di prevenzione della corruzione nell’osservanza dei requisiti minimi richiesti dalla Legge Anticorruzione e di aver provveduto alla verifica dell’efficace attuazione del piano e della sua idoneità, nonché a proporre la modifica dello stesso quando sono accertate significative violazioni delle prescri‑ zioni ovvero quando intervengono mutamenti nell’organizza‑ zione o nell’attività dell’amministrazione; alla verifica, d’in‑ tesa con il dirigente competente, dell’effettiva rotazione degli incarichi negli uffici preposti allo svolgimento delle attività nel cui ambito è più elevato il rischio che siano commessi re‑ ati di corruzione; ad individuare il personale da inserire nei programmi di formazione sull’etica e sulla legalità tenuti dalla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. b) di aver vigilato sul funzionamento e sull’osservanza del piano. In particolare occorre distinguere, ai fini in esame, la re‑ sponsabilità disciplinare dalla responsabilità innanzi la Cor‑ te dei Conti cui il responsabile della prevenzione della corru‑ zione è chiamato a rispondere. Infatti, in quest’ultimo caso se da un lato l’amministrazio‑ ne danneggiata deve procedere alla segnalazione dei fatti dannosi alla competente Procura della Corte dei Conti, dall’al‑ tro la titolarità dell’azione di responsabilità spetterà sempre ed unicamente al Pubblico Ministero contabile, il quale pro‑ cederà all’esercizio dell’ azione suddetta solo qualora ritenga che ve ne siano i presupposti. Alla luce di quanto sopra esposto, si vede come da un lato il giudice non potrà procedere d’ufficio e dall’altro l’ammini‑ strazione, non essendo titolare dell’azione di responsabilità amministrativa, non potrà sostituirsi al P.M. nell’attivazione del giudizio nei confronti dei presunti responsabili e quindi qualora il P.M. decida di non procedere il processo non avrà inizio. L’azione andrà proposta nel termine di prescrizione di cinque anni che decorrono dalla data in cui il fatto dannoso si è verificato o dalla data della sua scoperta qualora ricorra l’ipotesi di occultamento doloso del danno . Diversa è l’ipotesi della responsabilità disciplinare cui è esposto il responsabile della prevenzione della corruzione: infatti, spetta alla sola amministrazione la decisione di atti‑ varsi e di concludere autonomamente il relativo procedimento disciplinare. In particolare il comma 13 dell’articolo 1 Legge Anticorruzione prevede che la sanzione disciplinare non può essere inferiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di un mese ad un massimo di sei mesi. Inoltre il successivo comma 14 prevede che in caso di ri‑ petute violazioni delle misure di prevenzione previste dal piano, il responsabile della prevenzione della corruzione ri‑ sponde ai sensi dell’articolo 21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, cioè a titolo di responsabilità dirigenzia‑ le oltre che per omesso controllo, sul piano disciplinare. La violazione, da parte dei dipendenti dell’amministrazione, delle misure di prevenzione previste dal piano costituisce ille‑ cito disciplinare. amministrativo Gazzetta 100 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o Il decreto legislativo27 ottobre 2009, n. 150 ha riconosciu‑ to in capo ai dirigenti pubblici un’ampia autonomia gestiona‑ le ed organizzativa cui si ricollega una conseguente integrale responsabilizzazione degli stessi per i risultati conseguiti e per la realizzazione dei programmi e progetti loro affidati. Infat‑ ti, in caso di risultati negativi, si avranno delle immediate conseguenze sul piano retributivo e sullo stesso rapporto di lavoro complessivamente inteso. Più precisamente il dirigen‑ te potrà subire, il mancato rinnovo del contratto, il recesso dal rapporto di lavoro da parte dell’amministrazione e la decurtazione della retribuzione. Anche i semplici dipendenti dell’amministrazione saranno tenuti al rispetto delle misure di prevenzione previste dal piano e l’inosservanza delle stesse costituisce fonte di illecito disciplinare. In quest’ultimo caso tuttavia non sono previste tipologie specifiche o sanzioni disciplinari minime, potendo, quindi, l’amministrazione operare con la più ampia discrezionalità, prevedendo all’occorrenza anche un mero rimprovero orale o un semplice richiamo scritto all’assolvimento degli obblighi di legge. 3. Il Piano Nazionale Anticorruzione ed i piani triennali di prevenzione della corruzione Portata centrale, nella struttura assiologica della nuova Legge, assumono i piani anticorruzione, nel duplice ambito ivi individuato: la legge n. 190 del 2012 prevede due livelli di piani di prevenzione della corruzione: il Piano nazionale an‑ ticorruzione, P.N.A., previsto all’articolo 1, ai commi 2, let‑ tera b) e 4, lettera c); i piani triennali di prevenzione della corruzione, approvati da tutte le amministrazioni pubbliche (commi 5, 9 e 60)4 4 La legge n. 190 individua le amministrazioni tenute alla definizione del piano triennale. Queste sono, da un lato, le «amministrazioni centrali» (comma 5); dall’alto, le amministrazioni «delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano e degli enti locali, nonché degli enti pubblici e dei soggetti di diritto privato sottoposti al loro controllo» (comma 60, lettera b). Le amministrazio‑ ni regionali e locali e gli enti in loro controllo definiscono i loro piani triennali secondo adempimenti «con l’indicazione dei relativi termini» stabiliti attraver‑ so intese in sede di Conferenza unificata, entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore della legge. Per gli enti locali è anche previsto il «supporto tecnico e informativo» del Prefetto «anche al fine di assicurare che i piani siano formu‑ lati e adottati nel rispetto delle linee guida contenute nel piano nazionale ap‑ provato dalla Commissione» (comma 6). Sempre nell’ottica della predisposi‑ zione del piano di prevenzione della corruzione, il comma 9 dell’articolo 1 Legge Anticorruzione, riconosce un ruolo di grande rilievo al prefetto. Infatti, quest’ultimo è tenuto a fornire su richiesta il necessario supporto tecnico e in‑ formativo agli enti locali, anche al fine di assicurare che i piani siano formula‑ ti e adottati nel rispetto delle linee guida contenute nel Piano nazionale appro‑ vato dalla Commissione. La valorizzazione delle Prefetture deriva dalla consa‑ pevolezza del ruolo strategico che le stesse possono svolgere data la vicinanza al sistema delle autonomie locali. I Prefetti in quanto titolari in proprio delle funzioni di coordinamento degli uffici periferici delle amministrazioni statali, sono chiamati a fornire un supporto tecnico e informativo alle Amministra‑ zioni locali in sede di elaborazione dei piani di prevenzione della corruzione e a vigilare che gli stessi siano adottati e formulati nel rispetto delle direttrici del Piano nazionale anticorruzione In particolare la Commissione, nel Rapporto del 22 ottobre 2012 sulla “Corruzione in Italia. Per una politica di prevenzio‑ ne” sottolinea l’importanza che assume il Piano di prevenzione della corruzio‑ ne nella vita politico- amministrativa dell’ente stesso ed a tal fine afferma che “va valutata la possibilità di prevedere l’attuabilità di poteri sostitutivi ovvero che la stessa mancata adozione sia equiparata alla mancata adozione di altri atti amministrativi di fondamentale importanza ,come il bilancio annuale, con conseguente estensione – per l’ipotesi di reiterato inadempimento- del mecca‑ nismo contemplato dall’art. 141, lett. c), del Testo unico degli enti locali”. Dalle indicazioni, pur non perfettamente coordinate, della legge n. 190 si deve ricavare che sono tenute alla definizione dei piani tutte le amministrazioni Gazzetta F O R E N S E Anche da questo punto di vista il contesto internazionale aveva più volte sollecitato l’Italia ad adottare tale misura specifiche per la prevenzione ed il contrasto della corruzione; il Piano Nazionale Anticorruzione si pone, infatti, quale spe‑ cifica attuazione degli obblighi internazionali assunti dal nostro Paese con la Convenzione ONU contro la corruzione del 2003, ratificata con la legge 3 agosto 2009, n. 116. Più precisamente nella Convenzione si afferma la necessità per i paesi aderenti di prevedere delle buone pratiche di prevenzio‑ ne della corruzione5. Inoltre anche il GRECO (Gruppo di Stati contro la corru‑ zione ), quale organismo costituito nell’ambito del Consiglio d’Europa di cui l’Italia fa parte dal 2007, aveva più volte sollecitato il nostro Paese ad adottare un Piano nazionale per la prevenzione ed il contrasto della corruzione e riferire in merito innanzi allo stesso Consiglio d’Europa. Inoltre nel quadro europeo la maggior parte degli stati già da tempo hanno adottato piani e strategie anticorruzione sulla base della suddetta Convenzione ONU. La legge anticorruzione specifica che il Piano Nazionale Anticorruzione va redatto, sulla base dei piani di azione di prevenzione della corruzione delle singole amministrazioni centrali, ad opera del Dipartimento della Funzione Pubblica che poi procederà a trasmetterlo alla Commissione per la definitiva approvazione. Alla luce di quanto suddetto il comma 5 precisa che le pubbliche amministrazioni centrali definiscono e trasmettono al Dipartimento della funzione pubblica: a) un piano di prevenzione della corruzione che fornisce una valutazione del diverso livello di esposizione degli uffici al rischio di corruzione e indica gli interventi organizzativi volti a prevenire il medesimo rischio; b) procedure appropriate per selezionare e formare, in collaborazione con la Scuola superiore della pubblica ammi‑ nistrazione, i dipendenti chiamati ad operare in settori parti‑ colarmente esposti alla corruzione, prevedendo, negli stessi settori, la rotazione di dirigenti e funzionari. Il comma 9 dell’articolo 1 Legge Anticorruzione specifica il contenuto minimo dei piani di prevenzione precisando a tal fine che : Il piano di cui al comma 5 risponde alle seguenti esigen‑ ze: pubbliche di cui all’ articolo 1, comma 2, del d. lgs. n. 165 del 2001. Tra le amministrazioni rientrano, quindi, da un lato gli enti pubblici costituiti e vigilati dalle amministrazioni a livello centrale, regionale e locale e i soggetti privati in controllo pubblico (società di capitali, fondazioni associazioni) da parte della amministrazioni ai diversi livelli di governo. Che il piano debba essere adottato da tutti gli enti di diritto privato in controllo pubblico si ricava in primo luogo dalla esplicita previsione contenuta con riferimento a tali sog‑ getti controllati da amministrazioni regionali e locali, dall’altro dalla costante estensione della nozione di amministrazioni pubbliche a tali soggetti anche per altri contenuti fondamentali della legge anticorruzione, dalla disciplina in ma‑ teria di trasparenza a quella in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi dirigenziali (si vedano al proposito i relativi decreti legislativi). 5 L’art. 15 della Convenzione ONU contro la corruzione del 31 ottobre 2003 (c.d. Convenzione di Merida) – ratificata dall’Italia con la legge 3 agosto 2009, n. 116 e quindi già oggi vincolante per il nostro legislatore – impone l’incrimi‑ nazione del fatto di “promettere, offrire o concedere a un pubblico ufficiale, direttamente od indirettamente, un indebito vantaggio, per se stesso o per un’altra persona o entità, affinché compia o si astenga dal compiere un atto nell’esercizio delle sue funzioni ufficiali” (lett. a), nonché il fatto del pubblico ufficiale consistente nel “sollecitare o accettare, direttamente od indirettamen‑ te, un indebito vantaggio, per se stesso o per un’altra persona o entità, affinché compia o si astenga dal compiere un atto nell’esercizio delle sue funzioni uffi‑ ciali” (lett. b). F O R E N S E m a r z o • a p r i l e a) individuare le attività, nell’ambito delle quali è più elevato il rischio di corruzione, anche raccogliendo le propo‑ ste dei dirigenti, elaborate nell’esercizio delle competenze previste dall’articolo 16, comma 1, lettera a-bis), del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165; b) prevedere, per le attività individuate ai sensi della lette‑ ra a), meccanismi di formazione, attuazione e controllo delle decisioni idonei a prevenire il rischio di corruzione; c) prevedere, con particolare riguardo alle attività individua‑ te ai sensi della lettera a), obblighi di informazione nei confron‑ ti del responsabile, individuato ai sensi del comma 7, chiamato a vigilare sul funzionamento e sull’osservanza del piano; d) monitorare il rispetto dei termini, previsti dalla legge o dai regolamenti, per la conclusione dei procedimenti; e) monitorare i rapporti tra l’amministrazione e i soggetti che con la stessa stipulano contratti o che sono interessati a procedimenti di autorizzazione, concessione o erogazione di vantaggi economici di qualunque genere, anche verificando eventuali relazioni di parentela o affinità sussistenti tra i tito‑ lari, gli amministratori, i soci e i dipendenti degli stessi sog‑ getti e i dirigenti e i dipendenti dell’amministrazione; f) individuare specifici obblighi di trasparenza ulteriori rispetto a quelli previsti da disposizioni di legge. Conseguenzialmente, quanto agli obiettivi che esso mira a conseguire, il Piano di prevenzione della corruzione rappre‑ senta uno strumento attraverso il quale l’amministrazione sistematizza e descrive un “processo”- articolato in fasi tra loro collegate concettualmente e temporalmente- che è fina‑ lizzato a formulare una strategia di prevenzione e di contrasto del fenomeno. In esso si delinea un programma di attività derivante da una preliminare fase di analisi che in sintesi consiste nell’esa‑ minare l’organizzazione, le sue regole e le sue prassi di fun‑ zionamento in termini di “possibile esposizione” al fenomeno corruttivo. Ciò deve avvenire ricostruendo il sistema dei pro‑ cessi organizzativi con particolare attenzione alla struttura dei controlli ed alle aree sensibili nel cui ambito possono, anche solo in via teorica, verificarsi episodi di corruzione o ad essa assimilabili. Attraverso la predisposizione del Piano, in sostanza, l’Am‑ ministrazione è tenuta ad attivare azioni ponderate e coeren‑ ti tra loro capaci di ridurre significativamente il rischio di comportamenti corrotti. Ciò implica necessariamente una “misura” probabilistica di tale rischiosità e l’adozione di un sistema di gestione del rischio medesimo. Sul piano concretamente operativo e contenutistico, la struttura dei piani viene a delinearsi lungo una duplice, pa‑ rallela previsione precettiva: da un lato, l’individuazione delle attività nell’ambito del‑ le quali è più elevato (comma 5 lett. a) il rischio di corruzione (cc.dd. “aree di rischio”). Al riguardo, la previsione si traduce nella identificare delle stesse, delle loro caratteristiche, delle azioni e degli strumenti per prevenire il rischio, dando indi‑ cazioni in merito agli obblighi di trasparenza e di informazio‑ ne nei confronti del responsabile6. 6 Sul punto si è notato come il grado di rischio di corruzione è sicuramente col‑ legato a diverse variabili, tra le quali a titolo di esempio: le dimensione dell’Am‑ ministrazione, le caratteristiche socio-economiche del territorio, la tipologia di 2 0 1 3 101 dall’altro lato, vengono in rilievo le misure e gli strumen‑ ti di prevenzione, procedendo, per ciascuna area di rischio, alla loro identificazione, all’indicazione delle modalità e dei tempi della loro attuazione, nonché dei vari soggetti interni che sono responsabili dell’attuazione di ciascuna misura7. In via esemplificativa e mutuando dall’esperienza matu‑ rata nell’ambito del Nucleo Tecnico Scientifico del Progetto Interventi mirati al contrasto della corruzione nella Pubblica Amministrazione Locale e Centrale, quanto all’area di rischio costituita dalla pianificazione territoriale ed attività edilizia, da un lato si potrebbe procedere, in primo luogo, ad operare a) la descrizione generale dell’area di rischio Le tradizionali definizioni di “urbanistica” (pianificazio‑ ne volta all’individuazione dei suoli destinati all’edificazione ed alla precisazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria) e di “edilizia” (realizzazione degli obiettivi co‑ struttivi di interesse privato secondo gli strumenti urbanisti‑ attività presidiate, la tipologia dei soggetti esterni con i quali l’Amministrazione entra in relazione, la complessità delle procedure e dell’articolazione organiz‑ zativa. Tuttavia, l’esperienza internazionale e nazionale mostrano che vi sono delle aree di rischio ricorrenti rispetto alle quali potenzialmente tutte le pubbliche ammi‑ nistrazioni sono esposte. Tali aree devono essere analizzate ed indicate nel Piano da parte di tutte le Amministrazioni, seguendo la struttura riportata nelle relative Linee Guida; qui le aree di rischio sono raggruppate in quattro macro-categorie (personale, esternalizzazioni e rapporti con soggetti privati, rapporti con cittadini e imprese, area finanziaria), con la precisazione che cia‑ scuna delle quattro macro-categorie raggruppa delle aree ad elevato rischio di corruzione, rispetto alle quali sono delineate la descrizione generale, l’elenco esemplificativo dei rischi specifici, l’elenco degli strumenti di prevenzione che ogni Amministrazione deve garantire per prevenire il rischio. 7 Gli strumenti in questione per lo più richiamano misure ordinamentali già previsti nella normativa, compresa la stessa L. 190/2012, che ne individua puntualmente una serie (si veda ad es. quanto previsto dai commi 17, 28, 32). Correttamente si è rilevato come la strategia anticorruzione di per sé ruota in‑ torno ad alcuni cardini fondamentali: integrità dell’azione amministrativa, buon andamento, etica. Tutti questi principi sono già ampiamente presenti nell’ordi‑ namento e trovano un riscontro in strumenti che già da tempo sono stati o dovrebbero essere stati adottati dalle amministrazioni pubbliche. Di qui la conclusione, nelle richiamate Linee Guida, per cui, nell’affrontare un’adeguata strategia di prevenzione della corruzione, innanzitutto occorre giungere al perfezionamento di tutti quegli strumenti che orientano l’azione dell’ammini‑ strazione pubblica verso quei principi (si pensi esemplificativamente agli stru‑ mentari in tema di trasparenza, di controllo dei risultati, di procedimenti am‑ ministrativi, di regole e norme nella gestione degli affidamenti all’esterno, nonché nella selezione del personale e della sua valorizzazione). Da questo punto di vista vengono identificate alcune categorie di strumenti ricorrenti, i quali possono rispondere adeguatamente ad una strategia di pre‑ venzione alla corruzione per la maggior parte dei rischi potenziali cui un ente pubblico può essere esposto (atti organizzativi interni, quali ad esempio i rego‑ lamenti, mediante i quali individuare le regole, i criteri, i confini entro i quali si esplica l’autonomia decisionale dell’Ente e del soggetto titolare dell’esercizio della funzione; procedure di controllo interno, eventualmente sostenute da adeguati sistemi informativi, protetti da potenziali manomissioni, e in grado di garantire la tracciabilità di chi ha compiuto l’irregolarità, mirate a controllare i tempi dei procedimenti, i risultati, i costi di produzione, la presenza di irrego‑ larità; queste procedure devono essere; azione di trasparenza, quali pubblica‑ zione sui siti web, procedure di evidenza pubblica, individuazione dei procedi‑ menti, dei loro termini e responsabili; sistemi di segnalazione dei casi di irrego‑ larità, che garantiscano ai dipendenti la certezza di non subire ritorsioni o pe‑ nalizzazioni di sorta, nei casi di segnalazione non manifestamente infondata; codici di comportamento, nell’ambito dei quali esplicitare norme di comporta‑ mento specifiche per ogni fase dei procedimenti, definendo un dettagliato siste‑ ma di sanzioni con riferimento specifico ai casi di condotta non conforme a quanto stabilito, nonché i soggetti responsabili di attivare il procedimento di‑ sciplinare e i tempi di conclusione dello stesso; percorsi di formazione specifica dei funzionari pubblici in materia di anticorruzione (analisi del rischio, stru‑ menti di prevenzione), trasparenza, etica, integrità, rivolti in particolare, ma non solo, ai responsabili delle aree a maggiore esposizione al rischio di corru‑ zione. amministrativo Gazzetta 102 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o ci precostituiti), nonché la loro “saldatura” attraverso il rila‑ scio di un provvedimento amministrativo ampliativo per l’esercizio dello jus aedificandi, rendono evidente l’elevato rischio corruttivo che tali settori presentano. Poiché controllare la pianificazione e consentire l’edifica‑ zione significa controllare il valore della terra non è sorpren‑ dente che l’uso, a livello amministrativo, della stessa attra‑ verso atti normativi (i.e. regolamenti edilizi), atti amministra‑ tivi generali (strumenti urbanistici di vario livello) e provve‑ dimenti amministrativi (permessi, licenze, autorizzazioni) appaiano generatori di considerevoli opportunità di corru‑ zione politica ed amministrativa: in altri termini, quando un diritto di proprietà è nella decisiva disponibilità dell’ente pubblico (e, più in generale, quando un’attività a rilevanza economica risulta conformata dalla previa decisione ammi‑ nistrativa: si pensi all’attiguo settore del commercio con ri‑ guardo all’apertura di centri commerciali o anche di struttu‑ re di media vendita; nonché al più lato ambito delle conces‑ sioni amministrative nei settori del demanio, dei servizi pubblici, ecc.), il rischio di corruzione cresce, essendo gene‑ ralmente riconosciuto che i pericoli di abuso aumentano ogni volta che un determinato assetto ordinamentale (sia a livello di normativa che di applicazione amministrativa) impedisce transazioni volontarie e quindi crea le condizioni di fondo per la crescita di mercati illegali. La pianificazione dell’uso del territorio e le modalità di esercizio dell’attività costruttiva, che sono i due livelli deci‑ sionali attraverso cui viene allocato e conformato lo jus ae‑ dificandi, costituiscono di conseguenza un settore ad alto rischio di corruzione, atteso che la grande dimensione degli interessi economici che l’edilizia muove in ogni luogo crea una forte pressione. Ancoro di recente sia la letteratura in materia, anche in chiave comparativista, che i contributi statistico-ricostrutti‑ vi del fenomeno in questione evidenziano, da un lato, come i proprietari di terra (soprattutto di grande estensione, ma anche di singoli lotti) così come gli operatori edilizi più in generale (agenti e agenzie di sviluppo) scoprono che la loro terra, lottizzata per permettere edilizia residenziale ad alta densità, vale molto di più che se fosse stata lottizzata per sviluppo industriale o abitativo a bassa intensità., di tal che la pianificazione e la conformazione dello jus aedificandi vengono ad essere soggetti ad enormi pressioni da parte dei funzionari pubblici, proprietari di terra e sviluppatori e che si verifichino frequenti casi di corruzione. Dall’altro, pongo‑ no in rilievo il rilevantissimo problema della cd. “corruzione ambientale”, atteso che, sempre più spesso, attività illegali come il traffico illecito di rifiuti o l’abusivismo edilizio, ma‑ gari “rivestito” con il rilascio di concessioni illegittime, sono accompagnate da un sistematico ricorso alla corruzione di amministratori pubblici e rappresentanti politici, funzionari incaricati di rilasciare autorizzazioni o di effettuare control‑ li: le inchieste analizzate hanno riguardato il ciclo illegale dei rifiuti (dai traffici illeciti agli appalti per la raccolta e la ge‑ stione dei rifiuti fino alle bonifiche); il ciclo illegale del ce‑ mento (dall’urbanistica alle lottizzazioni, dalle licenze edilizie agli appalti pubblici); le autorizzazioni e la realizzazione di impianti eolici e fotovoltaici; le inchieste sulle grandi opere, le emergenze ambientali e gli interventi di ricostruzione. A conferma dell’importanza del settore nel contesto del‑ Gazzetta F O R E N S E le reti di corruzione viene un dato della situazione italiana, laddove si è censito, anche attraverso l’esame della relativa casistica giurisprudenziale, che l’insieme delle procedure che riguardano l’uso del territorio - licenze edilizie, piani regola‑ tori, varianti di destinazione - copre oltre un sesto del nume‑ ro totale dei casi di corruzione registrati, così collocandosi al secondo posto dietro solo gli appalti pubblici. b) quindi delineare i rischi specifici dell’area in questione: In termini generali vengono in rilievo fenomeni di impro‑ prio utilizzo, anche per effetto di un abuso quali-quantitati‑ vo delle stesse, di forme alternative e derogatorie rispetto alle ordinarie modalità di esercizio del potere pianificatorio o di autorizzazione all’attività edificatoria, quali, a titolo esemplificativo,: - adozione di varianti al piano o strumento urbanistico con adeguamento delle previsioni volumetriche e le possibi‑ lità edificatorie cui conseguano plusvalenze garantite dalla semplice concessione di edificabilità, a prescindere dalla ef‑ fettiva edificazione; - procedure anomale (quanto a passaggi procedimentali: i.e omissione e pretermissione di apporti consultivi) o acce‑ lerate (quanto a “modalità semplificate” o ricorso a modelli “provvedimenti amministrativi impliciti”) di approvazione di piani di governo del territorio o strumento equivalente, con riferimento alle quali possono essere stati conclusi, per il tramite di alcuni professionisti, accordi corruttivi tra espo‑ nenti politici, funzionari amministrativi e diversi imprendi‑ tori per ottenere il mutamento della destinazione urbanistica delle aree di proprio interesse; - rilascio di sanatorie, accertamento di conformità e permessi, anche in variante, a costruire illegittimi, con par‑ ticolare riguardo al riutilizzo a fini abitativi o di grande di‑ stribuzione o alberghieri di edifici, talora a seguito di proces‑ si di dismissione o riqualificazione; - eccessiva frequenza e distorto utilizzo del ricorso al permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici: trattasi di istituto di carattere eccezionale giustificato dalla necessità di soddisfare esigenze straordinarie rispetto agli interessi primati garantiti dalla disciplina urbanistica gene‑ rale e, in quanto tale, applicabile esclusivamente entro i limi‑ ti tassativamente previsti dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 14, e mediante la specifica procedura (Cassazione penale, sez. III, 31/03/2011, n. 16591, anche sul prevalente indirizzo per cui per tale sua particolare natura si tende ad escludere che possa essere rilasciato “in sanatoria” dopo l’esecuzione delle opere.); - assenso di lottizzazioni attraverso irregolari atti dell’en‑ te e indebite «sponsorizzazioni», grazie anche a legami di amicizia o parentela con politici e amministratori; - adozione di atti e provvedimenti atipici o sui generis, quali rilascio di un permesso di costruire in sanatoria con effetti temporanei o relativo soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati od. ancora, subordinato all’esecuzione di opere (cfr. in tema Cassazione penale, sez. III, 27/04/2011, n. 19587 con riguardo al rilascio un titolo abilitativo in sa‑ natoria con “validità di mesi sei dalla data del rilascio”, prevedendosi, alla scadenza, la necessità di una richiesta di rinnovo); F O R E N S E m a r z o • a p r i l e - approvazione di progetti edilizi, da realizzarsi su terre‑ ni sottoposti a vincolo paesaggistico-ambientale, in cui, per rendere più celere e sicuro l’iter di approvazione del piano urbanistico, si ammorbidiscono i controlli (in primis degli organi tecnici con competenza paesaggistica) per evitare in‑ toppi per ottenere il necessario nulla osta paesaggistico; - anomale velocizzazioni per il rilascio dei titoli abilita‑ tivi (sia ordinari che a sanatoria) o altre certificazioni (i.e. agibilità) anche per fare in modo di sistemare, con documen‑ ti falsificati, le pratiche di condono edilizio; - gestione molto disinvolta degli iter amministrativi da parte dell’apparato amministrativo-politico (alterazione di protocolli, retrodatazione di atti amministrativi, produzione di false attestazioni di collaudo); - mancato seguito alle ordinanze di demolizione (accer‑ tamento di inottemperanza, esecuzione in danno, acquisizio‑ ne al patrimonio dell’ente) ed improprio utilizzo della revoca delle stesse (ammessa solo quando risulti assolutamente in‑ compatibile con atti amministrativi della competente autori‑ tà, intervenuti successivamente all’irrevocabilità della sen‑ tenza di condanna, che abbiano conferito all’immobile altra destinazione ovvero abbiano provveduto alla sua sanatoria, dovendo deve sussistere una incompatibilità insanabile e non meramente futura o eventuale con i concorrenti provvedi‑ menti della p.a. che abbiano conferito all’immobile una di‑ versa destinazione o ne abbiano sanato la abusività: Cassa‑ zione penale , sez. III, 11 maggio 2005, n. 37120); - omessa vigilanza su situazioni de-provvedimentalizza‑ te (dia, superdia, D.I.A. in sanatoria, ecc; cfr. (Cassazione penale, sez. III, 29/09/2011, n. 41425 con riguardo ad una fattispecie relativa alla realizzazione di un muro di conteni‑ mento) con specifico riguardo a fattispecie di incerta e non univoca definizione (i.e. inclusione dell’attività di demolizio‑ ne e ricostruzione dell’opera con la stessa volumetria e sago‑ ma di quella preesistente nell’ambito degli interventi di ri‑ strutturazione edilizia) o dalla opinabile classificazione (i.e. pertinenze, strutture amovibili, ecc.); - ulteriori prassi omissive ed apparentemente meno signi‑ ficative, quali evitare di dare adeguata notizia dei cambiamen‑ ti di pianificazione o evitare di tenere pubbliche audizioni sulla questione; c) infine, porre in rilievo sia le misure di prevenzione che ogni amministrazione deve garantire - Monitorare, all’interno dei procedimenti delle varie amministrazioni interessate, tutte le applicazioni di norme/ prassi/regolamentazioni interne che consentano deroghe/ec‑ cezioni/varianti rispetto a soluzioni ordinarie e normali. L’intervento corruttivo tende ad annidarsi proprio in quella zona grigia in cui non c’è piena fisiologia (qui il pactum sce‑ leris sarebbe quasi inutile) o evidente patologia (il rischio qui è, di regola, troppo elevato): le parti del progetto criminoso tendono cioè a dilatare la norma fino alla sua estrema elasti‑ cità, sfruttando la possibilità di interpretazioni estensivoanalogiche, forzando l’ammissibilità di varianti per eventua‑ lità straordinarie, snaturando l’opportunità di procedure semplificate ed asistemiche. - Implementare la soglia dei controlli (soprattutto attra‑ verso sia il rafforzamento dei controlli di gestione, finalizza‑ 2 0 1 3 103 ti a valutare il rapporto costi-benefici dell’azione amministra‑ tiva; sia il perfezionamento ed il miglioramento del collega‑ mento tra il controllo interno e quello esterno), nei vari set‑ tori dell’azione amministrativa inerenti la pianificazione ur‑ banistica e la regolazione dell’attività costruttiva, il ricorrere,da parte dei vari uffici, a siffatte deroghe ordina‑ mentali, soprattutto quando la frequenza statistica della loro utilizzazione ne tradisce l’ordinaria natura di eccezione al sistema - Verificare e rafforzare il puntuale rispetto del principio di separazione tra politica e amministrazione, in base al qua‑ le gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo mentre ai dirigenti spetta il compi‑ mento dell’attività amministrativa, della gestione e realizza‑ zione dei risultati, per cui è impedito ai titolari degli organi di governo, che sono espressione di una determinata volontà politica, di ingerirsi anche nell’adozione di decisioni attuati‑ ve a valle del piano, che non comportano variante, e che pur tuttavia vengono frequentemente percepite come se siano sempre assunte, di fatto, dagli organi politici. - Stimolare forme di accordi interamministrativi (art. 15, L. 241/1990) in forza dei quali assicurare assistenza da par‑ te di altre amministrazioni qualora gli enti competenti non siano in grado di assicurare la necessaria qualificazione pro‑ fessionale, in ragione delle dimensioni territoriali e per man‑ canza di risorse - Individuare, anche mediante incroci di dati, eventuali pratiche indebite e/o illecite, prevedendo obblighi di porre in essere atti di puntuale e sindacabile stima del valore econo‑ mico dei diritti edificatori riconosciuti al privato e dell’impe‑ gno finanziario dallo stesso sostenuto in favore dell’ammini‑ strazione, nonché verificando, in caso di intervento pianifi‑ catorio od autorizzatorio in variante, l’assunzione di una decisione obiettiva e diligente, giustificata con motivazioni pubbliche. c-bis) sia ulteriori misure di prevenzione - prevedere, anche in sede regolamentare, che in caso si realizzino situazioni di conflitto di interessi, anche qualora non vi sia un obbligo giuridico in tal senso, si debba rendere pubblica tale condizione e astenersi da qualsiasi atto nel procedimento di formazione della decisione. emanare disposizioni per regolamentare la rotazione pe‑ riodica del personale,con particolare riguardo a quello che svolge le proprie mansioni nei settori più esposti al rischio corruttivo, tra io quali la gestione di pratiche concernenti interventi abitativi, l’edilizia, l’urbanistica. - promuovere forme di partecipazione procedimentale anche in capo a enti esponenziali di interessi diffusi e aumen‑ tare la soglia di pubblicità e trasparenza delle determinazioni amministrative in materia (i.e. nel caso di varianti urbanistiche prevedere la pubblicazione, sul sito del Comune, anche della domanda dell’interessato, le risultanza, anche tecniche, della successiva fase istruttoria, le varie delibere con i relativi appor‑ ti consultivi, le loro motivazioni anche per relationem, tutte le norme utilizzate, le ragioni del credito bancario, ecc.). - adottare percorsi formativi per prevenire tentativi e fenomeni di infiltrazione corruttiva all’interno del ramo amministrativo di propria competenza; siglare specifiche amministrativo Gazzetta 104 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o convenzioni, anche con le realtà associative anti-corruzione, al fine di istituire delle strutture per la formazione obbliga‑ toria e continuativa del proprio personale operante nei set‑ Gazzetta F O R E N S E tori strategici quali quelli dell’urbanistica e dell’edilizia - sviluppare strumenti di gestione dei rischi e svolgimen‑ to di percorsi di formazione in materia di principi etici F O R E N S E ● La giustiziabilità degli atti politici ex art. 113 Cost. ● Vittorio Sabato Ambrosio Dottore in Giurisprudenza Specializzato in Professioni Legali m a r z o • a p r i l e 2 0 1 3 105 Sommario: Premessa: la giustiziabilità degli atti amministra‑ tivi – 1. L’atto politico e le differenze con l’atto di alta ammi‑ nistrazione – 2. La natura dell’atto di revoca di un assesso‑ re – 3. L’evoluzione giurisprudenziale dell’atto politi‑ co – 4. Brevi considerazioni conclusive Premessa: la giustiziabilità degli atti amministrativi La portata precettiva dell’art. 113 della Costituzione è di fondamentale importanza per il nostro sistema costituziona‑ le, in quanto mira a realizzare le garanzie che sono ricono‑ sciute al singolo cittadino di fronte all’estrinsecazione del potere da parte della p.a. Esso prevede che “contro gli atti della Pubblica Amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tu‑ tela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a parti‑ colari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della Pubblica Amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa”. Tale norma va letta in combinato disposto con l’art. 24 della Costituzione, il quale, a sua volta, riconosce a tutti i cittadini il diritto all’azione a tutela dei propri diritti sogget‑ tivi ed interessi legittimi. Ne consegue che il singolo ha il di‑ ritto di impugnare tutti gli atti della p.a. che incidono in modo illegittimo nella sua sfera giuridica sostanziale. Per ef‑ fetto del combinato disposto di tali articoli si evince che tutti gli atti amministrativi, diretti a regolare l’interesse pubblico, sono suscettibili di impugnazione giurisdizionale davanti agli organi di giustizia amministrativa. Bisogna specificare che non tutti gli atti, emanati da sog‑ getti che governano i pubblici poteri, sono soggetti ad impu‑ gnativa. Per atti amministrativi si intendono tutti quelli emanati sulla base di una legge attributiva del potere, la quale vincola l’amministrazione nel fine di cura dell’ interesse pubblico da perseguire. Tale atto deve essere emanato a seguito di un procedimento amministrativo, regolato dalla l. 241/90 e sue successive modifiche, diretto ad inverare i principi metagiuri‑ diciai quali deve attenersi l’amministrazione onde realizzare il buon andamento e l’imparzialità dell’azione amministrativa ex art. 97 Cost. Il riferimento è ai parametri di efficienza, efficacia, economicità e trasparenza e tempestività che devono orientare l’esercizio del potere amministrativo. L’atto, che viene adottato nel rispetto della disciplina del procedimento amministrativo, deve contemperare tutti gli interessi, pubbli‑ ci e privati, dei quali la p.a. deve tener conto per realizzare la cura dell’interesse pubblico. Può considerarsi, di conseguenza, tramontata l’idea secon‑ do cui la p.a. nell’ esercizio delle proprie funzioni sia dotata di una speciale “supremazia” nei confronti dei governati. Di contro, si è innescato un vistoso spostamento del baricentro in un’ottica più vicina al diritto comunitario, seguendo la quale la p.a., nel realizzare l’interesse collettivo, deve consi‑ derare tutte le posizioni giuridiche soggettive sulle quali va ad incidere onde non determinare sacrifici irragionevoli attraver‑ so misure attuative/provvedimentali che siano proporzionate agli scopi da raggiungere. A tale scopo è garantita la possibi‑ lità per i privati di partecipare al procedimento amministra‑ tivo in una prospettiva di collaborazione, unitamente alla amministrativo Gazzetta 106 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o possibilità di presentare istanze o osservazioni al fine di indi‑ care all’amministrazione una soluzione che meglio contempe‑ ri la propria posizione sostanziale. Tale potere è garantito anche all’eventuale controinteressato, il quale può ricevere effetti pregiudizievoli dall’ adozione di un determinato atto. Ancora, l’atto amministrativo deve essere adottato sulla base di una istruttoria completa dell’autorità competente, nella quale vengono ponderati tutti gli interessi in gioco. In ultimo, l’atto amministrativo suscettibile di impugna‑ zione, deve essere adeguatamente motivato:questo permette di verificare se la scelta della p.a. risulti coerente con l’iter procedimentale e se gli interessi in esso contemperati siano ragionevoli e proporzionati con il soddisfacimento dell’inte‑ resse collettivo. Ne consegue che sono giustiziabili, ex art. 113 Cost., tutti gli atti della p.a. emanati in ossequio alle norme proce‑ dimentali dettate dalla legge 241 del 90. Per effetto di tale legge si evince che il cittadino ha un potere di controllo sulla correttezza dell’esercizio del potere amministrativo che gli consente di impugnare gli atti che sacrificano i propri diritti soggettivi ed interessi legittimi ex art. 24 e 113 Cost. 1. L’atto politico e le differenze con l’atto di alta amministrazione Dagli atti impugnabili dinanzi agli organi di giustizia amministrativa ex art. 113 Cost. vanno esclusi gli atti politi‑ ci. Tali atti sono espressamente riservati dalla Costituzione agli organi supremi dello stato, in quanto diretti ad individua‑ re la funzione generale di indirizzo politico per la soddisfa‑ zione di esigenze unitarie ed indivisibili. Gli atti politici si differenziano dagli atti amministrativi per il fatto che sono liberi nell’individuare il fine da persegui‑ re, per cui sono caratterizzati da una forte discrezionalità in quanto emanati sulla base di ragioni di opportunità politica. L’adozione di un atto politico richiede sia un requisito sogget‑ tivo, ovverosia che l’atto venga emanato da organi costituzio‑ nalmente previsti ai quali è attribuita la funzione di indirizzo politico(es. Presidente della Repubblica, Governo, Parlamen‑ to, Corte Costituzionale), sia un requisito oggettivo, ovverosia il fatto che esso sia finalizzato alla vigilanza e salvaguardia della cosa comune onde garantire il funzionamento dei pub‑ blici poteri nella loro struttura organica. Caratteristica principale è la loro inimpugnabilità. Dal punto di vista legislativo ciò è confermato dal com‑ ma 1 dell’ art. 7 del c.p.a., il quale dispone che “non sono impugnabili gli atti emanati o i provvedimenti emanati dal governo nell’esercizio del potere politico”. Dal dato normati‑ vo si evince chiaramente che, a differenza degli atti ammini‑ strativi, l’adozione degli atti politici non richiede l’attivazione di tutte le garanzie previste per il cittadino dalla legge 241/90. Infatti, non è richiesta la motivazione in quanto sono ampia‑ mente discrezionali nei fini da perseguire, ed escludono ob‑ blighi di comunicazione nei confronti dei terzi perché sono dotati di generalità ed astrattezza. Da ciò deriva che gli atti politici non ledono in maniera immediata la posizioni giuri‑ diche sostanziali vantate dai cittadini, poiché sono diretti a regolare le Supreme funzioni di uno Stato democratico nell’ambito, ad esempio, delle relazioni internazionali o dei rapporti tra organi costituzionali. Si è discusso sulla ampiezza della categoria degli atti po‑ litici da sottrarre al sindacato giurisdizionale ex art. 113 Cost. Gazzetta F O R E N S E Sia in dottrina che in giurisprudenza è prevalsa una lettura restrittiva, diretta a limitare la categoria degli atti politici solo a quelli espressamente previsti dalla Costituzione, sot‑ traendoli così all’impugnativa ex art.113 al solo scopo di evitare un’indebita interferenza del potere giudiziario nell’eser‑ cizio del potere amministrativo. In realtà ciò che giustifica la non impugnabilità degli atti politici è la mancanza di parametri da utilizzare per verifica‑ re la loro legittimità in sede di giurisdizione. Invero, le uniche limitazioni cui l’atto politico soggiace sono costituitedall’os‑ servanza dei precetti costituzionali, la cui violazione può giustificare un sindacato dilegittimità della Corte costituzio‑ nale sulle leggi e gli atti aventi forza di legge o in sede di conflitto di attribuzione su qualsivoglia atto lesivo dicompe‑ tenze costituzionalmente garantite (si pensi, a titolo esempli‑ ficativo, alla legge e agli atti aventi forza di legge; alla nomina dei senatori a vita e dei giudici costituzionali; agli atti di con‑ cessione di grazia e di commutazione delle pene; alle pronun‑ ce della Corte costituzionale; all’elezione del presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali e dei membri del C.S.M.; alla presentazione di disegni di legge; allo scioglimen‑ to delle Camere; alla promulgazione delle leggi; alla nomina dei ministri; alla firma dei trattati; alle mozione di fiducia e di sfiducia delle Camere al Governo). Tali fattispecie, afferendo ai rapporti internazionali o alle relazioni politiche tra organi costituzionali, investono interes‑ si e funzioni prioritari della Repubblica, con la conseguenza che un assoggettamento degli atti che li esprimono al control‑ lo giurisdizionale minerebbe alla base le stesse dinamiche democratiche e l’operatività dei pubblici poteri. Dall’atto politico si differenzia la categoria degli atti di alta amministrazione che afferisce all’attività con la quale si pongono in essere le scelte amministrative di fondo della p.a., caratterizzate da una discrezionalità di massima estensione (si consideri l’atto con cui vengono nominate le supreme cariche o i vertici di stampo non politico quale, ad esempio, il Primo Presidente della Corte di Cassazione, le decisioni dei Comita‑ ti Interministeriali, le nomine dei più alti dirigenti o funziona‑ ri, le decisioni dei ricorsi straordinari al Capo dello Stato in difformità del parere reso dal Consiglio di Stato). Trattasi di atti che si collocano, in definitiva, in una posizione intermedia tra gli atti politici, quali atti di indirizzo volti alla scelta dei fini da perseguire, ed i provvedimenti stictosensu amministra‑ tivi, diretti all’attuazione concreta delle opzioni stabilite a li‑ vello governativo, rappresentando il primo grado di attuazio‑ ne dell’indirizzo politico nel campo amministrativo. Ne consegue che, a differenza dell’atto politico, l’atto di alta amministrazione esprime una potestasvincolata nel fine e soggetta al principio di legalità. Per questa peculiare natura è evidente che essi, rappresentando un species del più ampio genus degli atti amministrativi, in quanto tali soggiacciono al relativo regime giuridico, ivi compreso il sindacato giuri‑ sdizionale, sia pure con talune peculiarità connesse allanatu‑ ra spiccatamente discrezionale degli stessi. Infatti, il controllo del giudice non è della stessa ampiezza di quello esercitato in relazione ad un qualsiasi attoammini‑ strativo, ma si appalesa meno intenso e circoscritto alla rile‑ vazione di manifeste illogicità formali e procedurali.La stessa motivazione assume connotati di semplicità e il sindacato del giudice risulta complessivamente meno intensoed incisivo. F O R E N S E m a r z o • a p r i l e 2. La natura dell’atto di revoca di un assessore Strettamente collegata all’impugnabilità degli atti politici è la problematica relativa alla natura giuridica ed all’esatta qualificazione degli atti adottati dagli organi politici degli enti locali, nello specifico, se siano da considerarsi atti politi‑ ci o amministrativi, con particolare riferimento all’atto di revoca dell’assessore. Prima di tentare di sciogliere tale nodo gordiano bisogna individuare la natura delle funzioni attribuite agli enti locali all’interno del nostro ordinamento. Tali coordinate vanno ricercate nell’evoluzione del sistema costituzionale a seguito della riforma costituzionale n.3 del 2001. Per effetto di tale riforma, si è passati da una impostazionestatocentrica alla costituzionalizzazione di un progressivo decentramento delle funzioni legislative ed amministrative alle regioni ed agli enti locali che compongono la Repubblica Italiana. Sulla base di tali linee generali, si è riconosciuta l’autono‑ mia legislativa alle regioni ex art. 117 cost. (sia pur differen‑ ziata, a seconda della materie, in potestà legislativa esclusiva o concorrente) nonché, in omaggio al principio di sussidiarie‑ tà, la devoluzione delle funzioni amministrative agli enti lo‑ cali ex art.118 Cost. Di maggiore importanza è stata l’introduzione del princi‑ pio di equiordinazione previsto dall’art.114, il quale prevede che i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni se‑ condo i principi fissati dalla Costituzione. Dalla combinazione di tali disposizioni si evince che viene abiurata la struttura verticale di Stato accentrato, realizzan‑ dosi un organizzazione statuale orizzontale nella quale regio‑ ni, comuni, provincie e città metropolitane sono dotati di at‑ tribuzioni proprie capaci di generare una pluralità di ordina‑ menti giuridici. Questo tipo di organizzazione non determina la nascita di uno stato anarchico, in quanto vanno considera‑ ti una serie di indici costituzionali dai quali si desume l’esigen‑ za di difendere l’unità dell’ordinamento della repubblica. In primis, l’art. 5 della Costituzione riconosce l’unità e l’indivisibilità della Repubblica e promuove le autonomie lo‑ cali al fine di garantire il decentramento amministrativo. In secundis, si riconosce l’operatività del principio di sus‑ sidiarietà all’art. 118 cost., in base al quale laddove l’azione amministrativa dell’ente locale fosse inidonea ad inverare il soddisfacimento degli interessi della collettività, è consentito all’ente gerarchicamente sovraordinato di intervenire onde realizzare in modo adeguato le attività di interesse generale. In terzo luogo, lo Stato ha comunque un posizione premi‑ nente nell’ambito dell’attuazione dei vincoli derivanti dall’or‑ dinamento comunitario e dagli obblighi internazionali ex art.117 cost. I principi costituzionali affermatisi a seguito della riforma sono stati inverati dal legislatore ordinario nella disciplina deltesto unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali approvato con decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, che contribuisce a delineare il sistema dei compiti funzionali at‑ tribuiti agli enti locali. Dalla disciplina contenuta nel TUEL deriva che gli organi degli enti locali non sono dotati di rilevanza costituzionale in quanto titolari di funzioni amministrative, con la conseguen‑ za che l’esercizio dei poteri a loro attribuiti è vincolato nel fine della migliore gestione dell’ente pubblico. 2 0 1 3 107 Poste queste premesse essenziali, è chiaro desumere quale sia la natura giuridica ed il regime dell’atto sindacale di revo‑ ca dell’assessore comunale ex. art 46 TUEL. La giurispruden‑ za amministrativa del Consiglio di Stato, 23 gennaio 2007 n. 209, ritiene tali atti suscettibili di impugnazione davanti agli organi giurisdizionali ex art. 113 cost. In particolare, in ossequio alla lettura restrittiva degli atti politici, tali atti si considerano di natura amministrativa con la conseguente applicazione del regime giuridico proprio degli atti ammini‑ strativi, in quanto gli organi degli enti locali non sono chia‑ mati ad adottare atti di indirizzo politico aventi la funzione di salvaguardare esigenze unitarie, bensì ad attuare le funzio‑ ni amministrative di cura concreta dell’interesse pubblico che gli sono attribuite dalla Costituzione. Dalla disciplina legislativa si ricava che il Sindaco o Pre‑ sidente di Provincia, nell’esercizio delle loro funzioni, non emanano atti di indirizzo politico a tutela della vigilanza delle istituzioni edi esigenze unitarie, in quanto non sono organi di rilevanza costituzionale, bensì pongono in essere azioni concrete di cura dell’interesse collettivo. Allo stesso modo anche nella nomina dei membri della giuntaessi esercitano un potere amministrativo, giacché no‑ minano un organo di natura tecnica con competenze specifi‑ che nel settore cui è preposto. Gli organi della giunta hanno una funzione diretta a coadiuvare l’organo politico apicale ed hanno una competenza sussidiaria: infatti, gli sono attribuite tutte quelle attività amministrative che non sono espressamen‑ te attribuite agli organi democraticamente eletti. Ne deriva che l’atto di revoca di un assessore, anche se altamente discrezionale, è vincolato nel fine, in quanto deve essere diretto a migliorare i rapporti tra gli organi dell’ente locale ed a potenziare il funzionamento della giunta. Proprio come un qualsiasi atto amministrativo, l’atto sindacale di revoca necessita di motivazione ex art. 3 l. 241/90, sia per la presentazione dell’atto al consiglio, sia per il controllo della legittimità dell’atto che può essere fatto dall’assessore revocato. In particolare, attraverso la motiva‑ zione il soggetto può comprendere le ragioni che sono alla base della propria revoca e controllare la ragionevolezza dell’iter argomentativo dell’atto che sacrifica la propria posi‑ zione giuridica sostanziale. L’ermeneutica giurisprudenziale ha sottolineato che, quantunque questo atto abbia un elevato tasso di discrezionalità, si deve riconoscere la possibilità al soggetto leso di un controllo di legalità sia sui profili di forma, sia in merito all’accertamento dell’arbitrarietà della scelta. Per quanto riguarda la comunicazione dell’avvio del pro‑ cedimento, si ritiene che tale comunicazione non sia necessa‑ ria ai fini del perfezionamento dell’atto di revoca. Infatti, tale prerogativa deve essere realizzata nei confronti di quel soggetto che, in un’ottica collaborativa, apporta il proprio contributo onde consentire alla p.a. una migliore ponderazio‑ ne degli interessi in gioco. Tale peculiarità è esclusa qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato ex art. 21 octies l. 241/90. Per le stesse ragioni, anche per l’atto di revoca dell’assessore si ritiene non necessaria la comunicazione dell’avvio del procedimento di adozione dell’atto, in quanto non possono essere presentati elementi idonei a far escludere le discrezionali ragioni della revoca del rapporto fiduciario tra sindaco e assessore. amministrativo Gazzetta 108 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o Da tale sentenza in poi si è aperta una nuova stagione per gli atti politici nella quale si è, in parte, erosa la loro tradizio‑ nale inimpugnabilità riconoscendo maggiori margini di sin‑ dacato per quegli atti che, seppur emanati da organi di gover‑ no per dare attuazione ad indirizzi politici, risultano vincola‑ ti negli scopi concreti da perseguire. 3. L’evoluzione giurisprudenziale dell’atto politico Di recente il dibattito si è posto con grande attualità edau‑ torevolezza – specie ove si consideri che su tale questione si sono pronunciati ilTAR Campania, il Consiglio di Stato, nonché la Corte Costituzionale – in relazione alla clausola di salvaguardia prevista dallo Statuto della Regione Campania, la quale pone un vincolo alla potestà di nomina degli asses‑ sori riconosciuta al Presidente di Regione che deve essere esercitata «nel pieno rispetto del principio di un’equilibrata presenza di donne e uomini». Sostanzialmente la sentenza del Consiglio di Stato n. 4502 del 27 luglio 2011, confermando in toto le statuizioni conte‑ nute nella sentenza del TAR Campania n.1985 del 7 aprile 2011, arriva alla conclusione secondo cui non può considerar‑ si politico un atto che lede o può ledere le posizioni individua‑ li, in quanto potenzialmente lesivo di posizioni individuali rilevanti. Un atto con tale contenuto pregiudizievole, sebbene adottato nell’esercizio di un potere politico promanante da un organo politico, è comunque sottoposto a vincoli giuridici dal legislatore. Se il legislatore o la fonte che ne disciplina l’eserciziopone vincoli giuridicamente rilevanti, non c’è dubbio che un sinda‑ cato sui quei vincoli rilevanti debba esserci. Per cui, ogniqual‑ volta c’è un limite giuridicamente vincolante all’esercizio del potere, l’atto adottato nell’esercizio del potere non può consi‑ derarsi atto politico. Il caso problematico riguardava la possibilità di sindacare i decreti di nomina degli assessori che violavano ad es. i prin‑ cipi delle quote rosa o della rappresentanza paritaria e pro‑ porzionata uomo‑donna. Ci si è chiesti: quello della rappre‑ sentanza tendenzialmente paritaria è un vincolo giuridica‑ mente rilevante? La questione si è posta poiché lo statuto re‑ gionale della Campania pone un vincolo giuridicamente rile‑ vante all’esercizio del potere di nomina della giunta, con la precipua conseguenza che l’atto adottato nell’esercizio di quel potere non può essere considerato atto politico e quindi esen‑ te da qualsiasi sindacato. Sulla base di tali coordinate ermeneutiche i Giudici di Palazzo Spada arrivano alla conclusione che “all’atto di no‑ mina di un assessore regionale non può riconoscersi natura di atto politico; da un lato non è libero nella scelta dei fini, essendo sostanzialmente rivolto al miglioramento della com‑ pagine di ausilio del Presidente della Regione nell’ammini‑ strazione della Regione stessa, dall’altro è sottoposto a crite‑ ri strettamente giuridici come quello citato dell’art. 46, comma 3, dello Statuto campano, con riguardo al rispetto dell’equilibrata composizione dei due sessi. Di conseguenza, deve ritenersene ammissibile l’impugnativa davanti al giudi‑ ce amministrativo, in quanto posto in essere da un’autorità amministrativa e nell’esercizio di un potere amministrativo, sia pure ampiamente discrezionale”. Sul tema, poi, si è pronunciata anche la Corte costituzio‑ nale, investita del ricorso per conflitto di attribuzione pro‑ Gazzetta F O R E N S E mosso dalla Regione Campania nei confronti dello Stato. La Corte Costituzionale, con sentenza 5 aprile 2012 n. 81, ha dichiarato inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzio‑ ne proposto dalla Regione Campania che aveva sostenuto che la sentenza del T.A.R. Campania, confermata in grado di appello dal Consiglio di Stato, aveva finito per non tener con‑ to del fatto che l’atto di nomina degli assessori, da parte del Presidente della Regione, sarebbe un atto politico (come tale insindacabile in sede giurisdizionale). Ha osservato il Giudice delle Leggi che, in materia, il legislatore regionale della Cam‑ pania, nell’esercizio dell’autonomia politica ad esso accordata dall’art. 123 della Costituzione, ha ritenuto di dover delimi‑ tare il libero apprezzamento del Presidente della Giunta regio‑ nale nella scelta degli assessori, stabilendo nello statuto regio‑ nale alcuni vincoli di carattere generale, prescrivendo in par‑ ticolare che gli assessori siano nominati «nel pieno rispetto del principio di un’equilibrata presenza di donne e uomini» (art. 46, comma 3), di talché la discrezionalità spettante al Presidente risulta arginata dal rispetto di tale canone, stabili‑ to dallo statuto, in armonia con l’articolo 51, primo comma, e 117, settimo comma, della Costituzione. D’altra parte, la circostanza che il Presidente della Giunta sia un organo politico ed eserciti un potere politico, che si concretizza anche nella nomina degli assessori, non compor‑ ta che i suoi atti siano tutti e sotto ogni profilo insindacabili. Né, d’altra parte, la presenza di alcuni vincoli altera, di per sé, la natura politica del potere esercitato dal Presidente con l’atto di nomina degli assessori, ma piuttosto ne delimita lo spazio di azione. L’atto di nomina degli assessori risulterà, dunque, sindacabile in sede giurisdizionale, se e in quanto abbia violato una norma giuridica. Se, infatti, l’insindacabi‑ lità dell’atto politico si giustifica in relazione alla mancanza di un parametro normativo da assurgere ai fini della sua va‑ lidità è evidente come nel caso di specie sussista un vincolo legislativo idoneo a conformare la scelta dell’organo di gover‑ no e, pertanto, controllabile in sede giurisdizionale. Ciò posto afferma la Corte che“deve essere dichiarato inammissibile il ricorso relativo al conflitto di attribuzione, proposto dalla Regione Campania nei confronti del Presiden‑ te del Consiglio dei ministri, in relazione alla sentenza con‑ fermativa del Consiglio di Stato, sezione V, con cui è stato annullato l’atto del Presidente della Giunta regionale di no‑ mina di un assessore, per violazione dell’art. 122, quinto comma, della Costituzione, perché sembra un improprio mezzo di gravame avverso le sentenze del giudice ammini‑ strativo”. In definitiva, la natura politica dell’atto deve escludersi ogniqualvolta sostanzialmente ci sia un atto da un lato lesivo e dall’altro sottoposto a vincoli giuridicamente rilevanti per‑ ché proprio l’esistenza di vincoli giuridicamente rilevanti, di vincoli cogenti, esclude una delle principali caratteristiche dell’atto politico, cioè la sua libertà nel fine che tradizional‑ mente giustifica l’esclusione del sindacato.Si diceva tradizio‑ nalmente che l’atto politico non è sindacabile anche perché non si saprebbe come sindacarlo, in quanto frutto di valuta‑ zioni politiche che non sono sottoposte a vincoli da parte del legislatore o dell’ordinamento. Ma laddove l’ordinamento sottopone la valutazione a vincoli cogenti, non c’è dubbio che non ci sono gli aspetti propri dell’atto politico e quindi quell’atto diventa sindacabile. F O R E N S E m a r z o • a p r i l e 4. Brevi considerazioni conclusive L’erosione della categoria dell’atto politico segna un ulte‑ riore passo avanti nell’evoluzione chela giurisdizione ammi‑ nistrativasta attuando nell’ultimo decennio. I giudici amministrativi, in un’ottica sempre più attenta alle istanze comunitarie, si stanno sganciando progressiva‑ mente da una valutazione meramente formale dell’atto andan‑ do ad esaminare, in una prospettiva di maggiore sensibilità, i rapporti sociali e personali che sottostanno all’esercizio del potere autoritativo. In questo modo si sta notevolmente ampliando la sfera dei soggetti legittimati ad esercitare i propri diritti ed interessi dinanzi agli organi della giustizia amministrativa. Infatti, la legittimazione ad agire sfugge da posizioni giuridiche stan‑ dardizzate o condizionate per raggiungere, in un’ottica comu‑ nitaria, ampie categorie di soggetti che sul piano concreto risentono, nella propria sfera giuridica, i pregiudizi delle scel‑ te amministrative. Ciòanche quando queste ultime sono frutto di una evidente spersonalizzazione o di una eccessiva discrezionalità a fronte della quale non si pongono destinata‑ ri determinati ma intere categorie di soggetti lesi dall’agere amministrativo. Riferimenti bibliografici: Francesco Caringella, Manuale di diritto Amministrati‑ vo, 2010, Roma; R. Chieppa e R. Giovagnoli, Manuale di diritto Ammini‑ strativo, 2012, Milano; R. Garofoli e G. Ferrari, Manuale di diritto Amministra‑ tivo, 2011; Sadulli, Manuale di diritto Amministrativo, 1984, Napoli; Proto Pisani, Verso il superamento dellagiurisdizione am‑ ministrativa, in Foro It., 2001, V; G. Rossi, L’incertezza sui principi del processo amministra‑ tivo, Relazione al convegno “La Codificazionedel proces‑ so amministrativo”, Università Roma Tre14 dicembre 2010, in Giust. Amm., 2010; Foà, Giustizia amministrativa epregiudizialità costituzionale, comunitaria e internazionale. I confinidell’interpretazio‑ ne conforme, Napoli, 2011; R. Lombardi, La tutela delle posizioni giuridiche metaindi‑ vidualinel processo amministrativo, Torino, 2008; Gallo, Il valore di principio contenute negli statutiregionali, in Foro amm. CdS, 2004, 12, 3384; Cingano, I riflessi della riforma costituzionale del 2001sul‑ la possibilita` per le Regioni e gli enti locali di emanare attipolitici: evoluzione giurisprudenziale, in Quad. reg., 2009, 3, 815; Cugur r a, L’attività di alta amministrazione, Pado‑ va,1973. De l l’acqua , A t to politic o ed e se rciz io di pot e r i sovrani,Padova, 1983; Francesca Palazzi, L’esercizio del potere di revoca degli assessori comunali e provinciali,Comuni d’Italia, 2007, 4, 2; Giornale Dir. Amm., 2011, 10, 1125; Foà, Fascio, Nomina assessorile in violazione dell’equili‑ brata rappresentanza di genere, alta amministrazione e legittimazione al ricorso, Giur. It., 2012, 04, 939; 2 0 1 3 109 Foro It., 2012, 5, 1, 1285 Cerruti, La nomina dell’assessore regionale e i limiti ai limiti dell’atto politico, Giur. It., 2013, 2; Veronelli, Atto di indirizzo ministeriale e giudice ammi‑ n i s t ra t i vo, G ior n a le d i d i r it to a m m i n i st rat ivo n. 4/2003; Gola, La revoca dell’assessore provinciale e l’obbligo di motivazione, Giornale di dirit to amministrativo n. 9/2005; Vandelli, Revoche e fiducia nei rapporti tra organi nel governo locale, Giornale di diritto amministrativo n. 5/2000. Riferimenti giurisprudenziali: Tar Calabria, 17 febbraio, 2009, n. 154, www.pluris‑cedam.it; Tar Puglia, 18 maggio 2009, n. 1183www.pluris‑cedam.it; Tar Lazio, 16 febbraio 2010, n. 2255 www.pluris‑cedam.it; Consiglio di Stato, 23 gennaio 2007, n. 209 www.pluris‑cedam.it; Consiglio di Stato Sentenza, Sez. V, 08/03/2005, n. 944 www.plu‑ ris‑cedam.it; Consiglio di Stato, Sez. V, 25/11/1999, n. 1983 www.plu‑ ris‑cedam.it; TAR Valle d’Aosta, 14/05/1999, n. 88 www.pluris‑cedam.it; Consiglio di Stato, Sez. V, 06/09/1999, n. 1017 www.pluris‑ce‑ dam.it; TAR Basilicata, 14/02/2000, n. 84 www.pluris‑cedam.it; Consiglio di Stato, 14 aprile 2001, n. 340 www.pluris‑cedam.it; Cass. SSUU 13 novembre 2000, n. 170 www.pluris‑cedam.it. amministrativo Gazzetta 110 d i r i t t o ● Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (d.lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.) ● A cura di Almerina Bove Dottore di ricerca e Avvocato presso l’Avvocatura Regionale della Campania a m m i n i s t r at i v o Gazzetta F O R E N S E Anomalia dell’offerta – Sussiste ove manchi un significativo margine di utile delle imprese a tutela del sistema concorrenziale Va considerata anomala l’offerta della concorrente che permetta un margine di utile solo simbolico, come quello pari all’1%. Merita, invero, condivisione l’orientamento, ormai consolidato nella giurisprudenza amministrativa, se‑ condo cui il procedimento di verifica dell’anomalia dell’of‑ ferta è finalizzato a consentire che gli appalti vengano affi‑ dati ad un prezzo che consenta un adeguato margine di guadagno per le imprese, nella convinzione che le acquisizio‑ ni in perdita portino gli affidatari ad una negligente esecu‑ zione, oltre che ad un probabile contenzioso; infatti, il con‑ sentire la presentazione di offerte senza adeguato utile fini‑ rebbe con l’alterare il sistema di libera concorrenza del mer‑ cato, permettendo la sopravvivenza alle sole imprese fornite di maggiori risorse economiche, che possono consentirsi contratti in perdita. Consiglio di Stato, sez. V, 15 aprile 2013, n. 2063 Pres. Carmine Volpe, Est. Antonio Amicuzzi Danno da mancata aggiudicazione - Non costituisce un’ipotesi di responsabilità per “contatto sociale qualificato” Premesso ache la violazione di quegli obblighi procedi‑ mentali che incombono sull’amministrazione a tutela del privato determina la c.d. responsabilità da “contatto sociale qualificato”, deve escludersi la ricorrenza della suddetta re‑ sponsabilità ove si avanzi istanza di ristoro patrimoniale a tutela del proprio interesse legittimo all’aggiudicazione della gara d’appalto. In questo senso il presunto danneggiato non si duole dell’inottemperanza ad un obbligo gravante in capo all’amministrazione, quanto dello scorretto esercizio del potere amministrativo. Occorre, quindi, distinguere la re‑ sponsabilità della p.a. che discende dal cattivo esercizio del potere da quella che può derivare dal mancato adempimento di un obbligo. Pertanto, va respinta la tesi secondo la quale nel caso si avanzi richiesta di risarcimento del danno per la mancata aggiudicazione si è in presenza di un contatto sociale che ge‑ nera una responsabilità latu sensu contrattuale. Diversamen‑ te ragionando, si giungerebbe ad un’inaccettabile sovrapposi‑ zione delle posizioni di interesse legittimo e di diritto sogget‑ tivo, ricostruendo la prima categoria alla stregua di un inte‑ resse alla legittimità dell’attività amministrativa, immediata‑ mente leso dalla mera presenza di un vizio di legittimità. Consiglio di Stato, sez. V, 27 marzo 2013, n. 1833 Pres. FF Manfredo Atzeni; Est. Luigi Massimiliano Tarantino Divieto di modificazione soggettiva dei partecipanti alla gara, in forma di RTI ovvero di Consorzio ordinario - Ai sensi del Codice dei Contratti pubblici e della normativa comunitaria vige soltanto dal momento della presentazione dell’offerta, e non anche nella fase di prequalifica - Il diverso tipo di rapporto intercorrente tra i partecipanti al RTI e al Consorzio non è idoneo a fondare una diversa disciplina di gara Dagli articoli 37 (co.9 e 12) e 51 del codice dei contratti, oltre che dalla normativa comunitaria di riferimento, emerge la indifferenza dell’ordinamento, alla veste giuridica a mezzo della quale gli operatori concorrono alle procedure di gara ed alle eventuali modifiche della veste assunta inizialmente, quanto meno fino alla presentazione delle offerte. F O R E N S E m a r z o • a p r i l e In particolare l’articolo 37 co.9 e 12 del codice degli ap‑ palti consente espressamente che l’operatore prequalificatosi modifichi il proprio profilo soggettivo in vista della gara, sempre che detta modifica intervenga prima della presenta‑ zione delle offerte e sempre che la stessa non risulti preordi‑ nata a sopperire ad una carenza di requisiti intervenuta medio tempore o esistente ab origine (Cons. Stato, sez. IV, n. 4327/2010 e n.4327/2010). In specie l’art. 37 co.9 denun‑ zia la volontà del legislatore di individuare nella presentazio‑ ne dell’offerta il momento a partire dal quale sorge il divieto di modificazione soggettiva della composizione dei parteci‑ panti alla gara, l’art. 37 co.12 consente la possibilità di mu‑ tare forma giuridica tra prequalifica e gara là dove consente che il concorrente prequalificatosi nella veste di operatore singolo, possa poi partecipare in forma associata e dunque in una forma giuridica diversa da quella originaria. L’articolo 51 del codice dei contratti ha rafforzato l’indi‑ cats autonomia organizzativa dei concorrenti per la parteci‑ pazione alle gare sancendo la configurabilità di fenomeni di successione nella titolarità della posizione del concorrente, offerente o aggiudicatario a fronte di specifiche vicende sog‑ gettive. Identiche, se non più pregnanti indicazioni, si rinvengono nella normativa comunitaria (art. 4 co.2 Dir. CE 18/2004) che prevede espressamente che: “Ai fini della presentazione di una offerta o di una domanda di partecipazione le ammi‑ nistrazioni aggiudicatrici non possono esigere che i raggrup‑ pamenti di operatori economici abbiano una forma giuridica specifica”. Gli indicati principi valgono con riferimento tanto alla figura del rti che del consorzio ordinario - cui a mente dell’art. 34 co. 1 lett. e) del codice degli appalti, si applicano le disposizioni dell’art. 37 - le quali sono in rapporto di con‑ tiguita’ sostanziale e condividono la stessa ratio diretta a cumulare i requisiti di qualificazione dei diversi operatori raggruppati o consorziati in vista della partecipazione ad una specifica gara, consentendo il cumulo dei requisiti di qualifi‑ cazione. Il differente tipo di rapporto che lega gli operatori raggruppati e consorziati non è idoneo a fondare una diversa disciplina di gara e a differenziare il trattamento da destina‑ re all’una o all’altra figura. Consiglio di Stato, sez. III, 5 marzo 2013, n.1328 Pres. Pier Giorgio Lignani; Est. Roberto Capuzzi Offerta tecnica – Valutazione - Elemento fiduciario - Non è suscettibile di alcuna valutazione Nell’ambito dei procedimenti selettivi rigorosamente di‑ sciplinati dalla lex specialis e dalla pertinente disciplina legi‑ slativa, l’elemento fiduciario non si presta ad essere liberamen‑ te valutato dalla stazione appaltante, in quanto trova ogget‑ tiva concretizzazione nelle regole disciplinatrici della gara, il cui puntuale rispetto consente di individuare l’impresa che oggettivamente offra, per i requisiti posseduti e l’offerta pre‑ sentata, le migliori garanzie di realizzazione dell’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione aggiudicatrice. Consiglio di Stato, sez. V, 11 aprile 2013, n. 1974 Pres. Carmine Volpe; Est. Paolo Giovanni Nicolò Lotti Operazioni di gara - Ordine inderogabile di apertura delle buste Secondo un principio pacifico in materia di appalti pub‑ 2 0 1 3 111 blici- recepito nel regolamento attuativo del codice all’art.120 dpr n.207/2010 (cfr. C.d.S., sez. VI, 22 novembre 2012 n. 5928) - la commissione di gara ha il dovere di aprire in primo luogo la busta contenente la documentazione ammi‑ nistrativa e solo in un secondo momento può procedere ad aprire le buste dell’offerta economica. Il comportamento tenuto dalla stazione appaltante che si attenga all’oggetto indicato in ciascuna sottobusta senza neanche aprire quella inerente la documentazione amministrativa è di per sè suffi‑ ciente ad inficiare l’esito dell’intera procedura di gara. Tar Campania sez. I, 18 marzo 2013, n. 1504 Pres. FF Fabio Donadono, Est. Michele Buonauro Requisiti di idoneità tecnico-economica - Devono valutarsi con esclusivo riferimento al dato oggettivo del servizio erogato, con conseguente idoneità anche del servizio svolto in assenza di contratto, ove remunerato Il requisito di idoneità tecnico-economica va valutato con riferimento esclusivo al dato oggettivo del servizio erogato e della sua attinenza all’oggetto del contratto. Anche la mera prestazione di fatto, remunerata in quanto tale, rappresenta titolo per l’acquisizione di esperienza e causa di produzione del fatturato idoneo a comprovare il requisito. Un argomen‑ to in tal senso si trae dall’art. 42, co. 1, lett. a) del codice dei contratti che parifica, in sede di disciplina legale dei requisi‑ ti soggettivi di partecipazione a gare per l’aggiudicazione di appalti pubblici, le pregresse esperienze maturate dalle im‑ prese concorrenti nel settore pubblico e in quello privato. Consiglio di Stato, sez. III, 13 marzo 2013, n. 1494 Presidente Gianpiero Paolo Cirillo; Est. Paola Alba Aurora Puliatti Requisiti di moralità – L’obbligo di fornire le dichiarazioni di cui all’art. 38 grava, in caso di trasferimento d’azienda o di un suo ramo, sia sugli amministratori della società cessionaria che di quella cedente, a prescindere dalla concreta conoscenza dei loro nominativi In caso di trasferimento d’azienda o di un suo ramo, l’obbligo di rendere le dichiarazioni di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, si riferisce, oltre che agli amministratori della società cessionaria, partecipan‑ te alla gara, anche a quelli delle società cedenti l’azienda o il ramo di azienda in favore dell’impresa partecipante alla gara. Non costituisce esimente da tale obbligo il fatto che la socie‑ tà cessionaria non conosca i nominativi degli amministrato‑ ri della società cedente e dei loro precedenti penali, ove gli stessi non risultino dai certificati del casellario giudiziale. Tale inconveniente può difatti essere agevolmente superato dal cessionario attraverso l’adozione di opportune cautele, quali pretendere dall’impresa che si intende acquisire l’atte‑ stazione circa intervenute condanne o indagini penali già in corso sui rispettivi vertici amministrativi e tecnici per reati che incidono sull’affidabilità morale e professionale, nonché prevedendo penali o garanzie o risoluzione della cessione al verificarsi di tali fatti, suscettibili di risolversi negativamente per tali soggetti entro il successivo triennio (ora entro il suc‑ cessivo anno). Consiglio di Stato, sez. V, 09 aprile 2013, n. 1953 Pres. Stefano Baccarini; Est. Carlo Saltelli amministrativo Gazzetta 112 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o Risarcimento danni da perdita di chance di aggiudicazione - Presupposti, condizioni e limiti quantitativi La domanda risarcitoria infondata sotto il profilo della mancata aggiudicazione per mancato raggiungimento della prova di resistenza e quindi di valida prognosi di vantaggio‑ sità dell’offerta presentata in gara può essere apprezzata unicamente con riguardo alla perdita della chance di conse‑ guire l’aggiudicazione. La pretesa risarcitoria commessa alla perdita di chance può trovare accoglimento nei limiti seguenti: - con riferimento al danno così detto da perdita di chance, il ricorrente ha l’onere di provare gli elementi atti a dimo‑ strare, pur se solo in modo presuntivo e basato sul calco‑ lo delle probabilità, la possibilità che egli avrebbe avuto di conseguire il risultato sperato, atteso che la valutazio‑ ne equitativa del danno, ai sensi dell’art. 1226 c.c., pre‑ suppone che risulti comprovata l’esistenza di un danno risarcibile (Tar Lazio, sez. I, 27 luglio 2006, n. 6583); - atteso il ribasso offerto e le condizioni dichiarate dal ri‑ corrente, ed in considerazione dell’esigenza di garantire effettività di tutela al ricorrente che ha ragione, si può equitativamente valutare il danno da perdita di chance suddividendo l’utile generalmente ritraibile dall’appalto (il 10% dell’importo a base d’asta, come ridotto secondo il ribasso offerto) per il numero dei partecipanti alla gara (pari a sette concorrenti). Gazzetta F O R E N S E L’amministrazione, ai fini della formulazione della pro‑ posta risarcitoria e l’eventuale raggiungimento di un accordo con la ricorrente ex art. 34, comma 4, c.p.a., dovrà dun‑ que: - attenersi all’offerta economica presentata dall’appellante in sede di gara; - determinare il margine di guadagno che residua dopo l’applicazione dell’importo indicato in sede di gara e, in caso di mancanza di tale dato, applicare l’aliquota forfe‑ taria del 10%; - suddividere l’importo per il numero dei concorrenti am‑ messi. Sull’importo sopra indicato compete la rivalutazione monetaria secondo gli indici ISTAT, trattandosi di debito di valore, con decorrenza dalla data di pubblicazione del‑ la presente sentenza fino a quella di determinazione da parte dell’amministrazione dell’effettivo ammontare del debito risarcitorio (cfr. TA R Lazio, Roma, sez. III, n . 37 76 / 2 011; TA R C a mpa n i a , N apoli , sez . V I I , n. 5611/2011). Sulla somma, infine, si computeranno gli interessi legali calcolati esclusivamente dalla data di determinazione dell’im‑ porto complessivo fino all’effettivo soddisfo (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 3144/2009; sez. V, n. 550/2011). Tar Campania, sez. I, 18 marzo 2013, n. 1504 Pres. FF Fabio Donadono, Est. Michele Buonauro Diritto tributario L’abuso del diritto nel sistema tributario: evoluzione legislativa e giurisprudenziale 115 tributario Clelia Buccico Gazzetta m a r z o • a p r i l e 2 0 1 3 115 F O R E N S E L’abuso del diritto nel sistema tributario: evoluzione legislativa e giurisprudenziale ● Clelia Buccico Professore Associato di Diritto Tributario presso la Seconda Università degli Studi di Napoli Sommario: 1. Premessa – 2. Il concetto di abuso del dirit‑ to – 3. Il concetto di abuso del diritto nel settore tributario e gli orientamenti della giurisprudenza – 4. Le garanzie proce‑ dimentali contenute nell’art. 37‑bis del d.P.R.. n. 600 del 1973 – 4.1. Il regime nei casi di abuso del diritto: assenza di garanzie e rilevabilità d’ufficio – 5. Necessità di estendere all’abuso del diritto le garanzie ex art. 37‑bis d.P.R. n. 600/73 – 6. L’evoluzione legislativa. 1. Premessa. Si era immaginato di affrontare il tema dell’abuso del di‑ ritto muovendo da considerazioni etico morali. In un periodo storico nel quale, per ragioni contingenti, risposte di equità e solidarietà si impongono alla coscienza collettiva mentre si mettono in campo strumentazioni giuridiche sempre più affi‑ nate per sottrarsi alle imposte, sollecitando in questo modo la generale attenzione, ci si domandava se non fosse almeno opportuno utilizzare il ventaglio dei valori che dovrebbero animare la società costituita per meglio risolvere le questioni riguardanti elusione ed evasione. Questa idea, però, avrebbe fatto senz’altro commettere un errore metodologico ripensando non soltanto alla tradizione positivista che con Kelsen ha spianato la strada al diritto mo‑ derno, ma anche sul presupposto espresso in passato dalla dottrina giuridica sui concetti di buona fede e correttezza nei comportamenti giuridicamente rilevanti: “seppur per motivi diversi, etica e morale, l’una per il suo tendenziale immobili‑ smo; l’altra, per un suo schizofrenico dinamismo, si rivelano inutilizzabili. Né, a superare l’impasse, varrebbe probabilmente il non infrequente riferimento ad una morale sociale”; che, sebbene “sociale”, si scontra pur sempre coi limiti e difetti propri della morale applicata al diritto. Intendiamoci, morale ed etica costituiscono armamentari rilevantissimi per altre discipline, ma trasportati nella nostra ingenerano un rischio grave, che deve essere a tutti i costi evita‑ to anche in situazione emergenziale, come quella attuale, della finanza pubblica: contribuire a giustificare scelte normative o interpretative non rispettose dei principi giuridici storicamente accreditati, per dar corpo a valori metagiuridici ritenuti preva‑ lenti o per soddisfare esigenze di gettito mascherate da ragioni di giustizia sociale, in spregio per l’appunto ai principi ordinan‑ ti lo Stato di diritto. Rischi, questi, tanto più gravi se calati nella fase storica attuale che devono vedere la scienza schierata in una ferma e ragionata opposizione ad abusi e derive. Certo, valori e diritto non sono categorie contrapposte e men che meno categorie che si elidono a vicenda. Non è soste‑ nibile un’idea di contribuzione alle spese pubbliche conseguen‑ za dell’obbligazione giuridica, svincolata dai valori impressi nell’art. 53, nell’art. 23 e negli artt. 2, 3, 41, 42, 47, 54 e 81 e 97 della Costituzione. Mi confortano in questa convinzione, oltre alla dottrina, le sentenze dei giudici della Consulta che, ormai graniticamente, affermano l’intreccio inscindibile tra queste disposizioni, obbligo di concorso alle pubbliche spese e valori fondamentali, valori che proprio da quelle disposizio‑ ni traggono forza giuridica. Non dico nulla di nuovo, perciò, se ribadisco la necessità per l’interprete di rimanere ancorato a quei principi e ai valori che essi esprimono. Da questo punto di vista, parlare di elusione ed evasione e di strumenti atti a contrastare simili fenomeni, significa accet‑ tributario ● 116 d i r i t t o tare l’idea di valutare le fattispecie concrete e interpretare il diritto positivo, anche alla luce dei valori costituzionalmente rilevanti, ma quest’approccio si rivela sistematicamente cor‑ retto solo a una condizione: che sia spurgato da suggestioni anticipatrici dell’etica e della morale e spurgato dalla pervica‑ cia ideologica di piegare le regole giuridiche alle esigenze contingenti – quantunque serie – di finanza pubblica. Queste necessità, per la verità, non sono nuove e gli stru‑ menti messi in campo per soddisfarle hanno radici antiche, sebbene alla fine tutte con linfa similare. Fin dagli inizi degli anni trenta del secolo passato, infatti, il problema dell’elusio‑ ne fu studiato con alterne soluzioni. La scuola pavese, da questo punto di vista, contribuì energicamente a consolidare gli studi sull’interpretazione e sull’interpretazione economi‑ co‑funzionale del diritto, senza tuttavia trovare la risolutiva chiave di volta per offrire al sistema una clausola generale antielusiva o almeno una chiave di volta generalmente accet‑ tata. Su basi completamente diverse, questa ricerca è conti‑ nuata fino ai giorni nostri e fino, per l’appunto, all’avvento nel nostro settore della clausola del divieto dell’abuso del di‑ ritto, ripresa inizialmente dalla giurisprudenza comunitaria e poi dalla nostra Corte di Cassazione. Leggendo in controluce questa lunga e articolata evolu‑ zione, qui ripercorsa a mo’ di volo d’uccello, si possono indi‑ viduare due elementi che ne caratterizzano lo svolgimento. Innanzitutto la costante esigenza di dotare il sistema di uno strumento – non necessariamente tradotto in norma scritta ad hoc – di portata generale, quale “concetto valvola”, adat‑ tabile alla multiforme varietà dei comportamenti dei contri‑ buenti. Dall’altro, l’esigenza di giustificare l’applicazione delle norme oltre i casi in esse espressamente contemplati, dando prevalenza, molto spesso, alla funzione e causa del diritto (economica, politica, sociale) e quindi a valori pregiu‑ ridici o metagiuridici che di volta in volta anche la pratica di governo ha necessità di realizzare. Senza voler evocare la contrapposizione del secolo scorso tra giurisprudenza dei concetti e giurisprudenza degli interes‑ si, occorre rilevare come sia sempre risorgente il tentativo di giustificare, con la funzione sostanziale delle norme d’impo‑ sta, strumenti antiabuso e sia risorgente altresì la tentazione di rispolverare il concetto d’interesse fiscale alla stregua di valore che tra quelli costituzionali godrebbe di supremazia, così da assegnargli anche forza di “criterio ermeneutico pri‑ vilegiato, utilizzabile quale regola di ricostruzione della por‑ tata semantica delle norme dell’ordinamento tributario”. Conformemente alle considerazioni ora svolte, si impone subito una doppia, simmetrica esigenza: definire il concetto di abuso del diritto nella sua dimensione propriamente giuri‑ dica e valutarne, successivamente, natura e confini. 2. Il concetto di abuso del diritto. La formula “abuso del diritto”, nell’esperienza continen‑ tale, ha circa un secolo e mezzo di vita: nasce negli ordina‑ menti liberali della seconda metà dell’Ottocento, come eser‑ cizio scorretto di un diritto soggettivo. Inteso come abuso di una facultas agendi, esso riguarda soprattutto l’esercizio delle libertà, individuali e collettive, nei rapporti economici. Ciò che non era vietato era permesso. Nell’impostazione liberale, il diritto soggettivo veniva considerato come prerogativa del singolo, come riconoscimen‑ t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E to della sua libertà: non residuando spazi valutativi fra la norma generale e astratta attributiva del potere e la libertà del titolare nel suo corrispondente esercizio non si riconosceva dignità giuridica all’abuso, o al massimo esso veniva ridotto ad una questione di riconducibilità dell’atto alla fattispecie astratta. La crisi dei principi istituzionali della società liberale e del positivismo giuridico (uguaglianza formale davanti alla legge ed esclusività dell’ordinamento statuale) ha favorito la nasci‑ ta e la diffusione della teoria dell’abuso, che nasce come correttivo agli enunciati della concezione assolutistica e me‑ ramente individualistica del diritto reale. L’abuso si pone come mezzo di controllo “contenutistico” della discreziona‑ lità che governa l’esercizio libero dell’autonomia privata e si sviluppa in modo parallelo alla progressiva estensione delle forme di controllo giudiziale sull’esercizio di situazioni sog‑ gettive di diritto privato. La moderna teoria dell’abuso nasce, quindi, con il matu‑ rare della consapevolezza del fine sociale dell’ordinamento, grazie all’apporto della dottrina francese e alle codificazioni della seconda metà dell’Ottocento. I diritti hanno una finalità sociale, sono relativi e non assoluti: il loro esercizio al di là della loro funzione economica e sociale costituisce un abuso. Attraverso il divieto di abuso si coglie l’idea sociale, non individuale, del diritto, poiché lo scopo delle istituzioni crea‑ trici del diritto oggettivo è di matrice sociale. La tradizionale definizione di “abuso” comprende, infatti, le ipotesi di uso – o di non uso – di un diritto proprio che non porta a vantaggi per sé, ma ha lo scopo di nuocere ad altri: la connotazione soggettivistica dell’esercizio di un potere o diritto è evoluta a strumento di garanzia della funzione sociale del diritto stes‑ so. Poiché “i diritti soggettivi sono poteri che si svolgono e si chiudono nella cerchia di un attuale e concreto rapporto con una cosa determinata o con altri soggetti ugualmente deter‑ minati”, la concettualizzazione dell’abuso si scontra con dif‑ ficoltà tecnico‑giuridiche di collocazione sistematica nell’am‑ bito della teoria del diritto soggettivo.L’oggetto dell’abuso non è, infatti, limitato ai diritti soggettivi in senso stretto: la no‑ zione di abuso rappresenta il mezzo per segnare l’ambito e i confini della posizione giuridica soggettiva di vantaggio, complessivamente intesa. Oggetto di abuso possono essere posizioni di vantaggio (facultas agendi) o disposizioni normative (norma agendi). Designiamo questa seconda accezione del concetto di “abuso” come abuso in senso lato, per distinguerla dall’abuso in senso stretto, che – come è stato illustrato – ha connotato la prima forma storica del fenomeno. La frode alla legge è, quindi, una species del genus “abu‑ so del diritto”: l’assimilazione concettuale delle due figure discende dal fatto che l’abuso viene spesso descritto come l’uso illegittimo di una norma, della quale viene aggirata la ratio. Con l’espressione “abuso del diritto” in questo caso non ci si riferisce alle ipotesi in cui una facultas agendi viene esercita‑ ta per fini non meritevoli di tutela o in modo eccessivo, tale da superare le facoltà attribuite da una norma: la frode alla legge indica, piuttosto, il concetto di specie che ha per ogget‑ to di abuso una norma agendi. Anche la frode alla legge, così come l’abuso in senso stret‑ to, è un concetto che nasce in ambito civilistico e “si presenta F O R E N S E m a r z o • a p r i l e come uno strumento di carattere ibrido, prodotto da un lun‑ go processo di depurazione tecnica”. Il concetto prevede l’aggiramento delle regole giuridiche: il soggetto privato abusa della libertà di adottare un certo trattamento per i propri interessi, sfruttando la varietà di forme giuridiche che l’ordinamento gli mette a disposizione, allo scopo di ottenere un risultato che ordinariamente il siste‑ ma non consente e indirettamente disapprova. Il nucleo dogmatico della figura è rappresentato dall’atti‑ vità di aggiramento della norma che in via di principio si sa‑ rebbe dovuta applicare, non dal danno sociale: l’elemento della produzione del danno – presente nella definizione origi‑ naria – diventa non più essenziale alla configurazione dell’abu‑ so. Sganciata la teoria dell’abuso da quella degli atti emulati‑ vi e superata l’equazione “abuso” ed “eccesso dal diritto”, a lungo coltivata, è emerso che a livello civilistico esiste un di‑ vieto di abuso non scritto applicabile con caratteri di genera‑ lità in ogni settore dell’ordinamento 56. Più in particolare si è visto che il concetto di “abuso del diritto”, nato per disci‑ plinare i conflitti di diritto privato, ha conosciuto una elabo‑ razione che ha dato origine a due nozioni distinte (in senso lato e in senso stretto). Si tratta ora di vedere se tali istituti abbiano trovato corrispondenti applicazioni nel settoriale terreno del diritto tributario. Nonostante vada registrata la “resistenza del legislatore fiscale e della giurisprudenza a mutuare dall’ordinamento civile quegli istituti più generali che prevedono rimedi contro il fenomeno elusivo e l’abuso delle forme”, non paiono esserci ragioni ostative a che lo strumento negoziale alla base dell’operazione sostanzialmente elusiva possa ricevere una distinta regolamentazione dal punto di vista del diritto civile e del diritto tributario. Poiché “[n]on esiste un primato del diritto civile”, non si pone un problema di dipendenza esterna, ma di adattamento di concetti ed istituti elaborati e filtrati programmaticamente in un settore disciplinare extrafiscale. In particolare, sempre l’analisi storica ha mostrato come il divieto di abuso, inteso come possibilità di sindacare l’eser‑ cizio dell’autonomia privata, sia stato inizialmente fatto deri‑ vare dal principio di buona fede oggi disciplinato nel diritto tributario dall’art.10 della legge 212 del 2000 (c.d. Statuto del contribuente). Buona fede e divieto di abuso non esprimono esattamen‑ te lo stesso concetto, non esprimono cioè nozioni perfetta‑ mente sovrapponibili. Buona fede oggettiva e divieto di abuso, però, hanno una medesima connotazione: entrambe le nozioni si caratterizzano per esigere una valutazione bila‑ terale. Da un lato, infatti, impongono di valutare i diritti del privato alla realizzazione del ventaglio di interessi suoi propri e le ragioni sostanziali che lo hanno indotto all’adozione di atti o negozi, nel rispetto della libertà dei traffici giuridici e dell’autodeterminazione negoziale. Dall’altro, esigono che sia valutato il diritto del creditore alla realizzazione della prete‑ sa secondo la sua reale configurazione, in ossequio al princi‑ pio di congruità sostanziale degli atti con i fini effettivi degli stessi. Fin qui le due nozioni si accomunano. Ma il principio della buona fede oggettiva, per ricostruzione consolidata, introduce un elemento di giudizio ulteriore: la correttezza della condotta. 2 0 1 3 117 L’ordinamento protegge gli atti del privato e ne legittima gli effetti anche in ambito fiscale sino a quando essi non di‑ vengono strumentali al perseguimento di finalità diverse ed estranee a quelle astrattamente tutelate e per questi motivi non riflettono, sul terreno della condotta, aggiramento di obblighi o divieti. Vero è che il contribuente, non possedendo il potere di comparazione degli interessi, non può disporre di quello ma‑ teriale riferibile al creditore erariale e quindi disporre degli effetti giuridici conseguenti, sicché l’attività nella quale si concretizza l’esercizio del suo diritto (della situazione giuridi‑ ca soggettiva) si “trasforma” per forza di cose in contenuto materiale di un dovere che, come tale, non può contemplare né danni alle ragioni del creditore con risparmio d’imposta, né aggiramenti di legge come espressione di condotta sostan‑ zialmente non conforme all’ordinamento. Ed eccoci all’altro punto focale del ragionamento, anello successivo e per certi aspetti riproduttivo delle cose fin qui dette: il risparmio d’imposta, che di per sé è soltanto conse‑ guenza economica finale della qualificazione della fattispecie operata dal contribuente in forza della sua libertà negoziale, diviene risparmio indebito quando regole di condotta astrat‑ tamente definite e regole in concreto seguite divergono, e quando divergono altresì fine degli atti tutelato dalla legge e fine in concreto perseguito, quando cioè alle reali finalità di questi non sono riconducibili ragioni sostanziali apprezzabili positivamente. Comparazione degli interessi (ragioni sostan‑ ziali del contribuente e ragioni del creditore erariale alla corretta determinazione della pretesa) e valutazione della condotta nell’esercizio di situazioni giuridiche soggettive solo formalmente perfette, integrano perciò il giudizio fattuale che può condurre, per l’appunto, a una decisione negativa di con‑ gruità, con la qualificazione del risparmio d’imposta come indebito. Di qui una conseguenza essenziale sul piano sistematico. L’uso distorto del diritto e delle libertà negoziali non deve essere riferito a un tanto generico quanto insignificante com‑ portamento scorretto o sleale o ad una equivoca regola di diligenza morale o sociale o ancora a una confusa nozione di “risparmio asistematico d’imposta”, ma deve essere riferito direttamente a un principio immanente nell’ordinamento, quello della buona fede oggettiva, e alle connesse regole di comportamento, pilastro del principio stesso, regole che di per sé – lo ribadisco – non tollerano aggiramento di qualsivoglia precetto. Se nell’originaria accezione in senso stretto, l’abuso del diritto è stato definito come un cattivo esercizio di un potere discrezionale, i “diritti tributari” oggetto di abuso si configu‑ rano, invece, come pretese nei confronti del Fisco: il contenu‑ to del diritto è il contenuto della pretesa e del dovere del Fisco di soddisfarla. Già da queste definizioni si coglie che il pro‑ blema del limite del diritto soggettivo nel diritto privato è distinto da quello dei confini della richiesta che si vanta nei confronti del Fisco. L’ambito applicativo dell’istituto dell’abuso è più ampio nel settore civilistico: “il problema dell’abuso va infatti ben oltre i confini dell’esecuzione di rapporti, per estendersi a tutto il campo delle libertà, delle facoltà, delle «prerogative»”. In questo contesto si valutano gli interessi del soggetto priva‑ to in comparazione con gli altri interessi coinvolti; nel diritto tributario Gazzetta 118 d i r i t t o tributario l’interesse del contribuente è considerato nella cor‑ nice del particolare rapporto d’imposta. Nel diritto privato, il divieto di abuso postula che le parti si trovino in una situa‑ zione di sostanziale parità ed equilibrio; nel diritto pubblico, le parti sono vincolate ad un rapporto di legittimità sostan‑ ziale e formale. Anche il requisito del danno a controparte, applicabile alle fattispecie civilistiche, non è immediatamente esportabi‑ le alle ipotesi di abuso fiscale. Infatti, il contribuente che tenta di risparmiare sulle imposte, non agisce con l’intento di danneggiare un altro soggetto. Nondimeno, sussiste in termi‑ ni oggettivi un vantaggio per il contribuente ed un conseguen‑ te danno all’Erario, sotto forma di minor gettito. Il requisito del danno può, dunque, essere interpretato come “danno so‑ ciale” 65: il principio del neminem laedere assurge a tutela del più generale diritto dello Stato ad ottenere l’esecuzione esatta dell’obbligazione tributaria. Nell’accezione in senso lato, l’abuso del diritto è stato definito come frode alla legge, ovvero come abuso dell’auto‑ nomia negoziale. La frode alla legge trova abbondante casi‑ stica nel diritto tributario: per indicare il comportamento del contribuente che dà scacco alla legge si parla di “frode alla legge fiscale”, ovvero di “elusione”, distinta dalla “frode fi‑ scale”, da intendersi come evasione penalmente rilevante: nell’elusione il presupposto del tributo non è integrato, mentre il negozio dissimulato nelle condotte evasive integra il presup‑ posto imposi‑tivo. Nella frode alla legge tributaria non si re‑ alizza il fatto imponibile, ma è come se si realizzasse, forzan‑ do la riconduzione di una situazione dentro un fatto imponi‑ bile, pensato per contemplare situazioni differenti. Con “abuso dell’autonomia negoziale” si fa riferimento alla problematica tipica del diritto civile di privati che attra‑ verso l’esercizio della loro autonomia predispongono essi stessi regole giuridiche, suscettive di superare i limiti posti da norme imperative, o utilizzano i negozi civilistici in funzione atipica rispetto quella che è loro propria al fine di perseguire il risultato pratico voluto. L’interesse elusivo è conseguibile attraverso le flessibilità proprie dell’autonomia contrattuale, che trova fondamento nel quadro delle libertà giuridiche po‑ sitivamente determinate. Diversamente, le disposizioni fiscali oggetto di abuso sono norme che operano una qualificazione di fatti: scopo delle norme tributarie è l’assunzione di un dato o una situazione di fatto, oggettivamente variabile, quale indice di capacità con‑ tributiva. Il diritto tributario – che è diritto di secondo grado rispetto a quello civile – presuppone le figure di qualificazio‑ ne civilistiche per la definizione del presupposto impositivo: “La contrapposizione fra fattispecie formali e fatti economici non può essere intesa nel senso che esistano vicende economi‑ che pure che solo il diritto tributario potrebbe prendere in considerazione”. La norma impositiva ha carattere di norma cogente diret‑ ta a tutelare interessi di carattere generale ed aventi valenza pubblicistica. Ciò che per il diritto civile è espressione di au‑ tonomia, per il diritto tributario è un mero presupposto di fatto. Ne consegue che la frode alla legge fiscale non può configurare espressione patologica della libertà contrattuale del contribuente. Se nel diritto civile l’abutente “crea la norma” in funzione del regime sociale applicabile, nel diritto tributa‑ rio, ove i negozi sono “fatti”, meri presupposti delle fattispecie t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E impositive, al cui verificarsi vengono ricollegate determinate conseguenze, l’abutente “crea il fatto” in funzione della norma impositiva che vuole eludere: il suo comportamento sfrutta una smagliatura del sistema per ottenere sgravi d’imposta non previsti. In questo senso si accoglie l’opinione che “l’elusione fiscale non dipende dalla libertà negoziale e dall’autonomia privata, ma dall’esistenza stessa di regole, che in ogni campo del diritto rischiano di essere aggirate”. Va, dunque, distinta la frode alla legge fiscale dall’abuso dell’autonomia negoziale: la prima è propriamente manipola‑ zione di regole tributarie senza altre ragioni se non quella di accedere ad un determinato regime di tassazione, la seconda è un cattivo uso del potere di autonomia. 3. Il concetto di abuso del diritto nel settore tributario e gli orientamenti della giurisprudenza. Fatte tali premesse vediamo come il concetto di abuso del diritto nel settore tributario nel corso dell’ultimo decennio ha conosciuto un’originale elaborazione da parte della giurispru‑ denza di legittimità con la conseguenza di determinare un’in‑ naturale contrapposizione fra l’esigenza di ricomporre un equilibrio fiscale alterato e l’esigenza di assicurare la certezza del diritto e la tutela del diritto di difesa. La figura dell’abuso ha, infatti, subito una molteplicità di caratterizzazioni da parte della Corte di Cassazione che, lungi dal garantire un’uniforme e unitaria interpretazione del dato giuridico, è stata ispirata – anche seppure a livello subli‑ minale‑ dalla ragione fiscale arginando i principi garantistici. La Corte ha, infatti, utilizzato strumenti giuridici talvolta mutuati da altri settori dell’ordinamento, talaltra addirittura introdotti nel sistema attraverso discusse costruzioni erme‑ neutiche che hanno bloccato la dialettica tra libertà e legalità a tutela dell’interesse erariale. La conseguenza è stata che l’abuso del diritto è stato accolto, se non con ostilità, quanto meno con sospetto tanto dalla dottrina, quanto dagli opera‑ tori economici, preoccupati la prima per la lesione della cer‑ tezza del diritto, i secondi per i rischi di ingerenza del Fisco nelle scelte imprenditoriali, e più in generale per i riflessi sulla competitività delle imprese nazionali. È bene qui ricordarlo che il ricorso al principio dell’abuso del diritto nella lotta all’elusione fiscale è avvenuto essenzial‑ mente per una ragione: il sistema tributario italiano non contiene, a differenza di altri Paesi, una clausola antielusiva generale, ma singole disposizioni specifiche. Punto di riferi‑ mento normativo in un contesto siffatto è sicuramente l’art. 37‑bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in vigore dall’8 novembre 1997: la disposizione rende inopponibili al Fisco determinati comportamenti privi di valide ragioni eco‑ nomiche, che, mediante un aggiramento della legge tributaria, attribuiscano al contribuente vantaggi fiscali indebiti. (co.1 “Sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti.”) La norma trova applicazione unicamente per le imposte sui redditi, e soltanto in presenza delle operazioni tassativa‑ mente indicate nel comma, mentre si rivela del tutto ineffica‑ ce in tutte le altre ipotesi di elusione di leggi tributarie. Così a dar inizio al dibattito sono state una serie di sen‑ F O R E N S E m a r z o • a p r i l e tenze della Corte di Cassazione del 2005 che affrontando le operazioni di dividend washing e dividend stripping hanno ribaltato il precedente orientamento della stessa Corte sull’ar‑ gomento. Ed infatti in precedenza i giudici di legittimità avevano ritenuto legittime le operazioni menzionate sulla scorta del fatto che potevano essere qualificati elusivi solo quegli atti che erano definiti tali da una norma vigente al momento in cui erano stati posti in essere (cfr. Cass., 03.04.2000 n. 3979; Cass., 03.09.2001 n. 11371; Cass., 07.03.2002 n. 3345). La Corte nel 2005 ha invece ritenuto non necessaria l’esi‑ stenza di una norma ad hoc per qualificare l’atto o la serie di atti come elusivi. A tal fine, secondo la Cassazione bastava: a) da un lato, appellarsi all’istituto civilistico del negozio in frode alla legge (ex art. 1344 c.c.) in guisa da riconoscere l’illiceità della causa, in quanto le norme tributarie sono nor‑ me imperative poste a tutela dell’interesse generale al concor‑ so delle spese pubbliche ex art. 53 della Cost. (Cass., 26.10.2005 n. 20816); b) da un altro, rilevare che i negozi giuridici tra loro col‑ legati possono essere considerati nulli (nei confronti dell’Am‑ ministrazione Finanziaria) per difetto di causa, giusta il di‑ sposto degli artt. 1325 n. 2 e 1418, co. 2, del c.c. visto che da questi contratti “… non consegue per le parti alcun vantaggio economico all’infuori del risparmio fiscale” (Cass., 21.10.2005 n. 20398; Cass., 14.11.2005 n. 22932). Da tali pronunce emerge che i due elementi qualificanti dell’elusione sono, da un lato, l’ottenimento di un vantaggio fiscale da considerarsi indebito (perché contrario alle scelte di fondo del sistema) e, dall’altro, l’insussistenza di ragioni eco‑ nomiche a sostegno dell’articolato schema negoziale adottato. Dopo queste sentenze, che costituiscono un deciso revire‑ ment rispetto al precedente orientamento, entra in scena la Corte di Giustizia Europea che affronta il problema dell’abu‑ so del diritto comunitario nel campo dell’imposta sul valore aggiunto. Nella sentenza Halifax – che viene subito considerata un leading case in tema di abuso del diritto nel campo fiscale – la Corte, dapprima afferma il principio generale che gli interes‑ sati non possono avvalersi fraudolentemente del diritto comu‑ nitario (poiché la normativa comunitaria non può essere estesa sino a comprendere i comportamenti abusivi degli operatori commerciali) e successivamente applica questo principio “… anche al settore Iva …” ed aggiunge che si ha abuso del diritto ogniqualvolta le operazioni pur realmente volute hanno “… essenzialmente lo scopo di ottenere un van‑ taggio fiscale …”, e tutto questo deve “… risultare da un in‑ sieme di elementi obiettivi …” (Corte di Giustizia Ce, causa C‑255/02 del 21.02.2006). Sulla scorta di questa prima pronuncia del giudice comu‑ nitario in materia di IVA, la Corte di Cassazione torna ad occuparsi di elusione fiscale, muta il proprio iter argomenta‑ tivo e censura alcune operazioni negoziali (a suo dire in odor di elusione) richiamando il principio di matrice comunitaria dell’abuso del diritto (cfr. Cass., 29.03.2006 n. 21221). Dun‑ que non più rinvio ad istituti di matrice civilistica nazionale ma diretto richiamo ai principi comunitari che, come tali, sono direttamente applicabili o d’ufficio in forza del criterio di effettività oppure come jus superveniens. La Corte afferma altresì che “… la presenza di scopi eco‑ 2 0 1 3 119 nomici (oltre al risparmio fiscale) non esclude l’applicazione del principio che deve essere inteso come un vero e proprio canone interpretativo del sistema … L’operazione deve essere valutata secondo la sua essenza, sulla quale non possono in‑ fluire ragioni economiche meramente marginali o teoriche tali da considerarsi manifestamente inattendibili o assoluta‑ mente irrilevanti rispetto alla finalità di conseguire un rispar‑ mio di imposta”. Il travaso che i giudici di legittimità compiono, relativa‑ mente all’abuso di diritto, dall’ambito comunitario a quello interno è stato molto criticato da parte della dottrina. Invero, la prima e più incisiva critica sottolinea che il principio dell’abuso del diritto matura nell’ambito dell’impo‑ sta sul valore aggiunto che è tributo oggetto di armonizzazio‑ ne comunitaria (per cui il giudice nazionale deve conformar‑ si agli standars europei di qualunque natura essi siano) mentre le imposte sui redditi (non armonizzate) hanno matri‑ ce interna e quindi non vi può essere applicazione di principi comunitari che taglino trasversalmente tributi diversi fondati su caratteristiche eterogenee. Tale principio è stato ribadito anche più volte dalla stessa giurisprudenza comunitaria da ultima si ricorda la sentenza della Corte di Giustizia del 29 marzo 2012, causa C‑417/10 che al punto 32 ha quindi risposto che “… è giocoforza con‑ statare che nel diritto dell’Unione non esiste alcun principio generale dal quale discenda un obbligo per gli Stati membri di lottare contro le pratiche abusive nel settore della fiscalità diretta e che osti all’applicazione di una disposizione come quella di cui trattasi nel procedimento principale, qualora l’operazione imponibile derivi da pratiche siffatte e non sia in discussione il diritto dell’Unione”. La Corte significativamente ha escluso anche l’esistenza di un principio generale di diritto comunitario dal quale di‑ scenda per gli Stati membri l’obbligo di “lottare contro le pratiche abusive nel settore della fiscalità diretta”. In questo modo, ha ribadito l’assenza nel diritto comuni‑ tario di una norma e di un principio che imponga agli Stati membri di lottare contro le pratiche abusive nel settore della fiscalità diretta, e ha così implicitamente riconosciuto che questo settore appartiene alla competenza dei singoli Stati allorché le norme interne non creino interferenze con il dirit‑ to dell’Unione, da cui risultano restrizioni alle libertà garan‑ tite dal Trattato. Finché, dunque, le norme interne producono effetti solo sul piano della fiscalità diretta (e non armonizzata), gli effet‑ ti dei comportamenti vanno disciplinati esclusivamente dalle norme interne, sicché il diritto comunitario non c’entra. A contrario può rilevarsi che allorché la norma interna produce effetti sul piano delle imposte armonizzate, la disciplina ap‑ plicabile è quella che deriva dal diritto comunitario e dalla ricostruzione ed interpretazione che di esso ha fatto la Corte di Giustizia. Sembra di capire che la Corte di Giustizia ritiene che ogni Stato membro – in relazione alle norme sulle imposte non armonizzate, e fino a che esse non coinvolgano norme del diritto dell’Unione – è autonomo e sovrano nella scelta di lottare o meno “contro le pratiche abusive nel settore della fiscalità diretta”. I dubbi sollevati dalla dottrina hanno finito di avere ra‑ gione infatti oggi la Cassazione (sent.19 maggio 2010, tributario Gazzetta 120 d i r i t t o n.12249) statuisce che la clausola antielusiva di matrice co‑ munitaria si applica solo all’Iva e ai tributi armonizzati. Ulteriore evoluzione giurisprudenziale si è avuta con due ordinanze del 2006 con le quali la Corte di Cassazione ha investito del problema le Sezioni Unite ed ha sollevato una rilevante questione sistematica alla Corte di Giustizia. In particolare, con la prima la Suprema Corte, prendendo atto della situazione di incertezza, ha lodevolmente rimesso gli atti alle Sezioni Unite, ritenendo necessario l’esame di “que‑ stioni di diritto involgenti massime di particolare importanza” ai sensi del comma 2 dell’art. 314 del Cod. Proc. Civ.. Con la seconda, invece, poiché si è ritenuto “che siano ne‑ cessari alcuni chiarimenti al fine di consentire una rigorosa applicazione del principio enunciato dalla sentenza Halifax”, è stato formulato un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia allo scopo di chiarire se “la nozione di abuso del diritto o di forme giuridiche, definita dalla sentenze della Corte di Giusti‑ zia in causa C‑255/02 come «operazione essenzialmente com‑ piuta al fine di conseguire un vantaggio fiscale» sia coinciden‑ te, più ampia o più restrittiva di quella di «operazione non avente ragioni economiche diverse da un vantaggio fiscale»”. Le indicazioni della Corte di Giustizia sono arrivate con la nota sentenza del 21 febbraio 2008, Causa C‑ 425/06 (co‑ siddetta Part Service), riferita al sistema dell’I.V.A., che ha chiarito i connotati strutturali del principio di abuso del di‑ ritto, affermando che affinché una operazione possa conside‑ rarsi abusiva deve essere verificato a) se il risultato perseguito sia un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria ad uno o più obiettivi delle direttive in materia b) e se esso fosse lo scopo essenziale della soluzione con‑ trattuale prescelta. Le linee guida tracciate dai giudici comunitari se, da una parte, permettono di meglio individuare alcuni aspetti del principio dell’abuso del diritto in campo fiscale, dall’altra, pongono qualche interrogativo. Il collegamento tra “il vantaggio fiscale” e “l’obiettivo della direttiva” consente di cogliere un aspetto che può essere utile per distinguere tra lecita pianificazione fiscale (tesa alla minimizzazione degli oneri tributari) ed elusione fiscale. E quando la Corte chiede di verificare che il vantaggio fiscale non urti contro gli obiettivi della direttiva attribuisce ad essa il rango di criterio guida, in quanto un qualunque beneficio in antitesi con essa può essere indicativo (seppur non decisivo) della elusività di uno schema negoziale. Peraltro, quando la Corte di Giustizia, precisa il secondo requisito, non facilita l’analisi, posto che non è semplice ap‑ purare se uno o più negozi giuridici compiuti dal contribuen‑ te possano essere stati (o meno) articolati con lo “scopo es‑ senziale” di conseguire un risparmio tributario (mediante la soluzione contrattuale adottata). A seguito delle sopraindicate critiche avanzate da parte della dottrina (e della sentenza Part Service che ha ribadito l’applicabilità dell’abuso del diritto ai tributi armonizzati) la giurisprudenza della Corte di Cassazione subisce una ulterio‑ re evoluzione. Infatti, la Corte pur continuando a far riferimento all’abu‑ so del diritto comunitario, cerca di trovare un collegamento a principi antiabuso all’interno del sistema normativo nazio‑ nale e lo rinviene in quello di capacità contributiva. t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E Le Sezioni Unite, infatti, relativamente a due eclatanti fattispecie elusive hanno affermato che “… i principi di capa‑ cità contributiva (art. 53 Cost., comma 1) e di progressività dell’imposizione (art. 53 Cost., comma 2) costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme evidente‑ mente finalizzate alla più piena attuazione di quei principi. Con la conseguenza che non può non ritenersi insito nell’ordi‑ namento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebi‑ ti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastan‑ te con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione (diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”, così Cass., sez. un., 23.12.2008 n. 30055 e n. 30057). Inoltre la Corte ha sottolineato che il principio di divieto di abuso del diritto, quale principio generale non scritto vi‑ gente dell’ordinamento nazionale siccome informato agli stessi principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione di cui all’art. 53 della Costituzione, non è contrario all’altro principio della riserva di legge in materia tributaria, di cui all’art. 23 della Costituzione (Cass., Sez. trib., n. 1372 del 21 gennaio 2011), in quanto non si traduce nell’imposizione di ulteriori obblighi a carico del contribuen‑ te, ma ha l’obiettivo di evitare gli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di dispo‑ sizioni fiscali, con la diretta ulteriore conseguenza della sua applicabilità anche in via retroattiva nei confronti di tutti i contribuenti e per tutte le imposte. Di diverso avviso è parte della dottrina che, invece, muo‑ vendo dalla differenza dei valori di riferimento tra l’ordina‑ mento giuridico comunitario e quello nazionale, rinviene nella costruzione giurisprudenziale della nozione di divieto di abuso del diritto così delineata una palese violazione proprio dell’art. 23 della Costituzione. “Nell’ordinamento nazionale, la materia fiscale, a differenza del diritto privato, civile o commerciale, è avvolta dal principio della riserva (art. 23 Cost.), che non svolge una funzione ornamentale o decorativa del sistema, ma lo plasma in modo da garantire ai soggetti passivi non soltanto la democraticità delle scelte impositive (non certamente demandabili al giudice), ma anche la certez‑ za (del diritto) nei rapporti con l’amministrazione finanziaria. È un principio di civiltà giuridica”. Si deve sottolineare, tra l’altro, che i soggetti passivi debbono essere posti nelle condi‑ zioni di conoscere ex ante il carico tributario delle operazioni effettuate ed i rischi ai quali possono andare incontro a segui‑ to dei controlli che il Fisco ha il potere di attivare, “ma nel procedere in tale direzione, i principi, da soli, non sono suffi‑ cienti e debbono, al contrario, essere positivamente iniettati nel sistema attraverso disposizioni di contrasto” che rimuo‑ vano le forme giuridiche ritenute abusive, e con loro gli effet‑ ti da esse prodotti, non in via interpretativa “ma soltanto attraverso una disposizione che tale rimozione consenta …”, senza lasciare all’interprete “il ruolo di arbitro del bene e del male, unico soggetto deputato a stabilire se i contratti stipu‑ lati siano o meno meritevoli di tutela”. Ad una attenta analisi dell’evoluzione della giurispruden‑ za comunitaria e di quella nazionale si possono comprende‑ F O R E N S E m a r z o • a p r i l e re – ponendo a raffronto le sentenze dell’una e dell’altra – le ragioni per cui la Corte di cassazione (forse anche un po’ forzando la mano) abbia sentito il bisogno di ricercare all’in‑ terno del nostro sistema normativo un principio generale antiabuso. La Corte di Giustizia nella sentenza Kofoed (C. 321/05 del 5.7.2007) ha affermato che quando una Direttiva comu‑ nitaria prevede determinati effetti in relazione ad una certa fattispecie, questi (gli effetti) in mancanza di un recepimento della Direttiva da parte del legislatore nazionale non possono esplicarsi o prodursi (nella specie si trattava di scambio tra azioni tra società che per le modalità con cui avvenivano potevano essere strumentalizzate in chiave elusiva). Tuttavia, precisa la Corte Europea, anche in mancanza di un diretto recepimento della norma comunitaria, quegli effetti possono trovare cittadinanza ugualmente se all’interno dello Stato membro vi è “un contesto normativo” che consenta la sua applicazione un’interpretazione adeguatrice della normativa nazionale alle finalità delle Direttive comunitarie. È questa la ragione per cui la Corte di cassazione, succes‑ sivamente alla sentenza Kofoed, tornando sul problema dell’elusione fiscale avverte la necessità di trovare dei principi di carattere generale nel sistema normativo tributario interno che vietino l’abuso del diritto (anche in materia di imposte sui redditi). È sintomatico, infatti, che le Sezioni Unite della Cassazio‑ ne abbiano tenuto a precisare “… che la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano” (Cass., sez. un., 23.12.2008 n. 30057). A seguito di questa giurisprudenza delle Sezioni Unite particolarmente rigida (visto che tali argomentazioni sono state sollevate d’Ufficio in Cassazione) v’è stata una evoluzio‑ ne della Sezione Tributaria della stessa Cassazione (aperta con la s. m. 1465 del 21.1.2009 e seguita dalle sentenze n. 22992 del 12 novembre 2010, dalla n.1372 del 21.1.2011 e dalla n.3947 del 18 febbraio 2011) che appare più bilanciata. Con tali pronunce che fanno seguito alla pronuncia della Corte di giustizia (procedimento C‑102/09 del 22 dicembre 2010) con la quale il Giudice europeo ha precisato che l’ele‑ mento che caratterizza la condotta abusiva si individua nel “… procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo”. La stessa Corte di giustizia ha sotto‑ lineato che il soggetto passivo di imposta ha diritto ad effet‑ tuare quelle scelte economiche che gli consentano di persegui‑ re il fine sociale con un minor carico fiscale, la Suprema Corte, dopo aver ribadito che l’esistenza nell’Ordinamento tributario italiano di un generale principio antielusivo la cui fonte, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, trae origine non dalla giurisprudenza comunitaria, ma dagli stessi principi costituzionali in tema di capacità contributiva e progressività dell’imposta, di cui all’art. 53 Cost. – ha ritenuto che: 1.occorre accertare se una determinata operazione rientri o meno in una normale logica di mercato il cui carattere elu‑ sivo deve essere escluso “per una compresenza non margina‑ le di ragioni extrafiscali che non si identificano necessaria‑ mente in una redditività immediata dell’operazione, ma pos‑ 2 0 1 3 121 sono essere anche di natura meramente organizzativa e con‑ sistenti in un miglioramento strutturale e funzionale dell’im‑ presa” (sentenza n. 1372); 2. per censurare un’operazione (sotto il profilo dell’elusione) l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare che l’operazione realizzata da un’im‑ presa appare economicamente irrazionale (sentenza n. 3947). Le riprodotte enunciazioni di principio rappresentano indubbiamente una significativa “apertura” alla rilevanza fiscale delle operazioni realizzate dagli operatori economici. Alla luce di questa giurisprudenza una operazione econo‑ mica, vista nel suo complesso, può lecitamente perseguire diversi obiettivi di natura commerciale, finanziaria, contabi‑ le ed anche di vantaggio fiscale, integrando gli estremi del comportamento abusivo solo qualora e nella misura in cui tale vantaggio si ponga come elemento predominante ed as‑ sorbente dell’intera operazione (tenuto conto sia della volontà delle parti che del contesto fattuale e giuridico in cui la stessa viene posta in essere) e con la conseguenza che il divieto di comportamenti abusivi non vale più ove gli accordi economi‑ ci possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimen‑ to di risparmi di imposta. La Cassazione ha inoltre precisato che è onere dell’Ammi‑ nistrazione finanziaria, non solo prospettare il disegno elusi‑ vo a sostegno degli accertamenti, ma anche le supposte mo‑ dalità di manipolazione o di alterazione di schemi classici ritenute come irragionevoli in una normale logica di mercato, se non per pervenire a quel risultato di vantaggio fiscale (ul‑ tima Ord. Cass. N.21390, 30 novembre 2012), e che grava sul contribuente la prova dell’esistenza di valide ragione econo‑ miche alternative o concorrenti (al vantaggio fiscale) di reale spessore che giustifichino operazioni così strutturate. Dunque, in ipotesi di abuso del diritto, si assiste ad una strumentalizzazione di norme, ad una modalità di aggiramen‑ to della legge tributaria utilizzata per scopi non propri con forme e modelli ammessi dall’ordinamento giuridico (opera‑ zioni reali, assolutamente conformi agli schemi legali, senza immutazioni del vero o rappresentazioni incomplete della realtà): il proprium del comportamento abusivo è la validità degli atti compiuti (Cass., sent. n. 21221/2006). Pertanto, la “regola aurea” è quella secondo cui non è lecito risparmiare tributi strumentalizzando le norme in mo‑ do contrario ai loro scopi (in assenza di valide ragioni econo‑ miche), e non quella, emergente da alcune sentenze della Su‑ prema Corte, secondo cui integrerebbe l’abuso ogni compor‑ tamento produttivo di un risparmio di imposta privo di vali‑ de ragioni economiche (Cass., sent. n. 20030 del 22 settembre 2010). La scelta da parte del contribuente tra due alternative che in modo strutturale e fisiologico l’ordinamento gli mette a disposizione non potrà essere considerata un “aggiramento” di norme posto che questi, quale soggetto passivo, “ha il di‑ ritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permetta di limitare la contribuzione fiscale”. L’esistenza di un comportamento abusivo potrà essere rilevata solo quando l’abuso della libertà di scelta dia luogo a manipolazioni e stratagemmi che – formalmente legali – di fatto stravolgono i principi informatori del sistema fiscale. Viene superata la tradizionale bipartizione dei comporta‑ menti dei contribuenti in fisiologici (osservanti della norma) e patologici (violativi della norma, quali i casi di evasione/ tributario Gazzetta 122 d i r i t t o frode fiscale) con l’introduzione di un tertium genus, rappre‑ sentato dal comportamento abusivo (ed elusivo) del contri‑ buente, volto a conseguire il solo risultato del beneficio fisca‑ le, senza una reale ed autonoma ragione economica giustifi‑ catrice delle operazioni che risultano eseguite in forma solo apparentemente corretta ma, in realtà, sostanzialmente abu‑ siva ed elusiva È stata quindi introdotta, in via giurisprudenziale, una clausola antielusiva generale: essa è di derivazione comunita‑ ria, e discende dalla sentenza Halifax, per quanto attiene ai c.d. tributi armonizzati (iva, accise e dazi doganali), mentre invece è di origine costituzionale, come affermato dalle Sezio‑ ni Unite del 2008, per i tributi rientranti nella competenza degli ordinamenti nazionali, come le imposte dirette. Questo quindi l’orientamento giurisprudenziale. Resta aperto il problema dell’elusione fiscale che appare ben lungi dall’essere risolto. Proprio sull’origine costituzionale è un recente orienta‑ mento della Cassazione che arriva a considerare l’applicazio‑ ne retroattiva dell’abuso del diritto (Cass., sez. trib., 16 feb‑ braio 2012, n. 2193). Nel caso esaminato, un contribuente, in un ricorso alla Corte di Cassazione, aveva denunciato la violazione e la falsa applicazione dell’art. 37‑bis del d.P.R. n. 600 del 1973 nonché degli artt. 3 e 6 del d.lgs. n. 143 del 2005, lamentando che, nell’affermare il carattere elusivo, (ai sensi del citato art. 37‑bis, lett. f. ter), del riconoscimento, nel 1999, di un parte degli interessi in favore dei soci, la Commissione tributaria regio‑ nale non aveva considerato che tale disposizione è entrata in vigore nel 2005, e si applica agli interessi e canoni maturati a decorrere dal gennaio 2004. Soggiungeva che la disciplina generale in tema di inopponibilità all’amministrazione finan‑ ziaria delle condotte elusive è condizionata all’effettiva ricor‑ renza delle operazioni menzionate al terzo comma, della stessa norma, disposizione che, all’epoca della pattuizione sottoposta a verifica, non contemplava l’ipotesi del pagamen‑ to di interessi in uno stato dell’Unione europea e concludeva, quindi, che la disciplina antielusiva di cui all’art. 37‑bis, (lett. f‑ter), era inapplicabile nella specie, in quanto sia il finanzia‑ mento, in suo favore, da parte di soci sia il riconoscimento degli interessi, in loro favore, erano interamente avvenuti prima dell’entrata in vigore della norma stessa. La Corte di Cassazione, con una recente sentenza, ha ri‑ gettato tale doglianza pur ritenendo di dovere correggere e integrare la motivazione. “La sentenza impugnata – vi si legge – ha ritenuto elusivo il riconoscimento di una parte di interessi nel periodo 1999‑2000 in favore dei soci finanziato‑ ri residenti in USA, riferendosi all’art. 37‑bis, n. 3 lett. f‑ter), del d.P.R.. n. 600/1973, norma che, in effetti, è stata intro‑ dotta dall’art. 1, comma 1, lett. d) del d.lgs. n. 143/2005, con decorrenza dal gennaio 2004 (art. 3 del d.lgs. n. 143/2005, cit.) Ciò non esclude, però, il potere dell’Amministrazione di contestare la deducibilità della componente passiva esposta dalla contribuente, ritenendola inopponibile, in forza del ge‑ nerale principio antielusivo, immanente nell’ordinamento, e la cui fonte va rinvenuta nei principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, di cui all’art. 53, com‑ ma primo e secondo, Cost. Secondo l’orientamento, ormai consolidato di questa Corte (Cass. sez. n. 30055 del 2008, Cass. 4737 del 2010, n. 11236 del 2011), deve infatti ritener‑ t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E si presente nell’ordinamento, come diretta derivazione delle menzionate norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’uti‑ lizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione di strumenti giuridici idonei ad ottenere un ri‑ sparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprez‑ zabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale. La circostanza che siano disciplinate specifiche norme antielusive non contrasta con l’individuazione nell’ordinamento del cennato principio antie‑ lusione, ma, anzi, conferma l’esistenza di una regola generale, in tal senso; per converso, l’espressa previsione di inopponi‑ bilità all’amministrazione finanziaria di una data operazione mediante disposizioni emesse in epoca successiva al suo com‑ pimento – come nella specie, trattandosi di pagamento di interessi a soggetti non residenti in uno Stato dell’Unione europea – è circostanza idonea ad offrire indiretta conferma dell’illiceità fiscale dell’operazione stessa (in tal senso, cfr. Cass. SS.UU. n. 30055 del 2008, cit. in tema di dividend washing)”. In altre parole, secondo il supremo Collegio è irrilevante che il comportamento antielusivo sia stato posto in essere prima della previsione di tale comportamento tra le fattispecie elusive individuate dall’art. 37‑bis del d.P.R. n. 600 del 1973 e ciò in forza della vigenza di un principio generale antielusi‑ vo immanente nell’ordinamento e la cui fonte deve essere rinvenuta nei principi di capacità contributiva e di progressi‑ vità dell’imposizione di cui all’art. 53, e comma, della Costi‑ tuzione. Tanto drastica conclusione comporta che, essendo l’art. 53 della costituzione entrato in vigore il gennaio 1948 (come tutta la Costituzione), dalla stessa data aleggerebbe sull’ordi‑ namento tributario e sarebbe immanente ad esso la clausola antiabuso. Affermazione che non può non stupire i più anzia‑ ni e i più modesti applicati allo studio dei tributi i quali ricor‑ dano gli sforzi che, negli anni “60”, dovettero essere fatti per togliere l’art. 53 Cost. della Costituzione dal limbo delle nor‑ me programmatiche nel quale l’avevano relegato i primi commentatori. Grande era stato l’impegno per inserire nella Costituzio‑ ne il principio di capacità contributiva da parte di chi, da anni, e in anni difficilissimi, aveva negato che “il potere di supremazia basti a spiegare il tributo”, ne aveva contestato la supposta “odiosità” ma aveva anche sentita viva l’esigenza di non abbandonare il singolo all’indiscriminato esercizio del potere di imposizione (2). anche ad ammettere l’operatività nel nostro ordinamento tributario, di un principio antielusivo (dedotto dall’art. 53 Cost.) esso, nella sua applicazione retro‑ attiva, si scontrerebbe non solo con lo stesso art. 53 ma anche con un altro principio generale (questo sì previsto da una legge, lo Statuto) per il quale “le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo”. Chiara è la matrice del precetto statutario ove si ricordi che “l’irretroattività costituisce un principio generale del nostro ordinamento (art. 11 preleggi) che, se pur non elevato, fuori della materia penale, a dignità costituzionale (art. 25, comma Cost.) rappresenta, pur sempre una regola essenziale del sistema, a cui, salva una effettiva causa giustificatrice, il legislatore deve ragionevolmente atte‑ nersi, in quanto la certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquil‑ F O R E N S E m a r z o • a p r i l e lità dei cittadini”(Corte cost. 4 aprile 1990, n. 155). Costituendo l’irretroattività una regola essenziale del si‑ stema (e non solo del sistema fiscale), la giurisprudenza del Supremo Collegio insegna che “proprio perché alle specifiche clausole rafforzative di autoqualificazione dello Statuto deve essere attribuito un preciso valore normativo e interpretativo” “ogni qualvolta una normativa fiscale sia suscettibile di una duplice interpretazione, una che ne comporti la retroattività e una che la escluda, l’interprete dovrà dare preferenza a questa seconda interpretazione come conforme ai criteri ge‑ nerali introdotti con lo Statuto del contribuente e attraverso di essi ai valori costituzionali intesi in senso ampio e interpre‑ tati direttamente dallo stesso legislatore attraverso lo Statuto” (Cass. sez. trib., 12 febbraio 2002, n. 17576). Conclusione che trova ulteriore conferma in una ancora più lata e profonda lettura dello Statuto. Proprio il Supremo Collegio ha ripetutamente sottolinea‑ to che “l’art. 3 dello Statuto del contribuente sul divieto di retroattività delle normative fiscali si inquadra all’interno di un principio più generale di correttezza e di buona fede cui devono essere improntati i rapporti tra amministrazione e contribuente e che trova espressione non solo nell’art. 10 che ha per oggetto la tutela dell’affidamento e della buona fede, ma anche in una serie di altre norme dello Statuto, vale a dire nell’art. 6 sulla conoscenza e la semplificazione degli atti, nell’art. 7 sulla chiarezza e motivazione degli atti stessi, nell’art. 5 sull’informazione e sulla trasparenza delle disposi‑ zioni tributarie” (Cass., sez. trib., 30 marzo 2001, n. 4760). L’esame complessivo di queste disposizioni, è ancora l’in‑ segnamento del Supremo Collegio, chiarisce che la correttez‑ za e la buona fede, nei confronti del contribuente, debbono essere osservate non solo dall’amministrazione finanziaria in fase applicativa, ma anche dallo stesso legislatore tributario all’atto della emanazione delle fonti normative, come emerge in particolare dall’art. 2 che detta i criteri di chiarezza e di trasparenza che debbono essere osservati nelle disposizioni tributarie e dello stesso art. 3 sul divieto di attribuire ad esse efficacia retroattiva” (Cass. sez. trib., 14 aprile 2004, n. 7080). Quindi, sotto la vigenza dello Statuto del contribuente e dei principi generali da esso previsti e sanciti, “deve sempre essere privilegiata, ogni qual volta sia possibile, come lo è nel caso in esame, una interpretazione delle norme tributa‑ rie – anche se preesistenti (allo Statuto) e anche se da applica‑ re a fattispecie verificatesi antecedentemente – che sia confor‑ me ai principi di correttezza e di buona fede che debbono essere osservati reciprocamente da entrambe le parti nei rap‑ porti tra fisco e contribuente” (Cass., sez. trib., 14 aprile 2004, n. 7080). Conclusione che trova conferma autorevole, ancora una volta, nell’insegnamento del giudice delle leggi. E invero questi, nel ribadire che “il divieto di irretroatti‑ vità della legge costituisce fondamentale valore di civiltà giuridica e principio generale dell’ordinamento cui il legisla‑ tore deve, in linea di principio, attenersi” ha anche aggiunto: “Il legislatore ordinario può, quindi, nel rispetto di tale limi‑ te, emanare norme retroattive purché esse trovino adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si ponga‑ no in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente protetti così da incidere arbitrariamente sulle situazioni so‑ 2 0 1 3 123 stanziali poste in essere da leggi precedenti” (Corte cost. 13 ottobre 2000, n. 419). Tra questi (e cioè tra gli interessi costituzionalmente ga‑ rantiti), soggiunge la stessa Corte costituzionale, va annove‑ rato “l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica che, quale essenziale elemento dello Stato di diritto, non può esse‑ re leso da disposizioni retroattive, le quali trasmodino in un regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate su leggi precedenti” (Corte cost., 4 novembre 1999, n. 416). Orbene, se quelli esposti sono gli autorevoli, concordi insegnamenti della Corte costituzionale e della Corte di Cas‑ sazione, facile è trarre la conclusione, e cioè che l’applicazione retroattiva di un principio generale, formulato dalla giurispru‑ denza nel 2008, viola l’affidamento del cittadino nella sicu‑ rezza giuridica. Per decenni, infatti, era stato tenuto per fermo l’insegna‑ mento che una clausola generale antielusiva nel nostro ordi‑ namento non esisteva, e tale principio il Supremo collegio confermava ancora nel 2002. Successivamente è emersa una indicazione che il principio antiabuso era fondato su un principio generale comunitario, ma tale generale indicazione è stata subito ridimensionata nel senso che esso si applica ai tributi “armonizzati”. Solo nel 2008 la comunità nazionale, gli operatori, gli studiosi, gli scrittori di manuali di diritto tributario hanno appreso che anche per i tributi non armonizzati v’è un generale divieto di elusione fondato sull’art. 53 Cost. che nessuno, salvo qualche isolato autore (subito sommerso da un mare di note critiche), aveva mai immaginato si potesse enucleare. Il che ovviamen‑ te non significa che il progresso non possa essere affidato a pensatori solitari e alle conseguenti riflessioni, ma significa solo che “le invenzioni”, anche le migliori non possono trova‑ re applicazione per il passato: la luce (elettrica) la si accende dopo la sua invenzione, non prima. Non a caso, allorquando la giurisprudenza comunitaria ha statuito che il principio del contraddittorio si applica a tutti i procedimenti tributari, la giurisprudenza italiana ha negato l’applicazione generalizzata del principio del contraddittorio agli accertamenti già emana‑ ti quando tale necessità derivi da sentenze della Corte di giustizia UE, fondate su principi generali e si tratti di giuri‑ sprudenza innovativa. Così la Corte di Cassazione (Cass. sez. trib., 9 aprile 2010, n. 8481) ha espresso l’avviso che non è possibile l’applicazio‑ ne dell’interpretazione recata nella sentenza Soprope della Corte UE agli accertamenti già emanati, perché sarebbe irra‑ gionevolmente sorpreso l’affidamento della Amministrazione sulla non necessità del contraddittorio visto che esso non era previsto in materia doganale da alcuna disposizione espressa applicabile in Italia, ma deriva dal principio comunitario del giusto procedimento. Allora coerenza vuole che, per rispetta‑ re l’affidamento (questa volta a favore del contribuente), non possa applicarsi un principio generale antielusivo formulato nel 2008 a una ipotesi verificatasi negli anni antecedenti. Questo quindi l’orientamento giurisprudenziale. Resta aperto il problema dell’evasione fiscale che appare ben lungi dall’essere risolto. Le affermazioni secondo cui è necessario individuare un giusto bilanciamento tra pianificazione fiscale eccessivamen‑ te aggressiva e libertà di scelta delle forme giuridiche se, da una parte, appaiono del tutto corrette risultano, dall’altra, tributario Gazzetta 124 d i r i t t o eccessivamente astratte e ben lungi, comunque, dal risolvere l’ormai risalente problema in parola. E tale problematica non può certamente essere risolta dalla giurisprudenza atteso che l’orientamento della Cassa‑ zione ha registrato, specialmente nell’ultimo triennio, signifi‑ cative divergenze. Uno dei problemi che si pone per una adeguata soluzione è quindi quello relativo alle scelte effettuate dall’impresa che, a parere dell’Amministrazione finanziaria, potrebbero risul‑ tare elusive solo perché dalla loro realizzazione deriva un (qualunque) vantaggio fiscale. L’interferenza da parte degli uffici periferici dell’Ammini‑ strazione finanziaria nelle scelte gestionali potrebbe infatti condizionare l’imprenditore nelle sue politiche aziendali con negativi riflessi sui risultati economici. Tale “potere” equivar‑ rebbe, peraltro, a riconoscere all’amministrazione medesima un illegittimo potere gestionale proprio dell’imprenditore li‑ mitando, conseguentemente, l’iniziativa economica costitu‑ zionalmente protetta (vedi art. 41 Cost.). E ciò si verificherebbe, con ogni probabilità, se l’impresa dovesse sostituire “politiche” meramente fiscali a quelle azien‑ dali; scelte condizionate dal timore di instaurare con l’Ammi‑ nistrazione finanziaria un contenzioso tributario dall’incerto esito. È quindi evidente che se prevalesse la tesi della sindaca‑ bilità sulle scelte imprenditoriali ne deriverebbero decisive implicazioni su numerosi settori della fiscalità che riserbereb‑ bero i loro effetti su delicate questioni di diritto. Entrare nel merito delle scelte imprenditoriali, disconoscendo i benefici tributari conseguenti ad operazioni giuridico‑economiche significherebbe indurre l’impresa a modificare i programmi aziendali con possibile (se non addirittura inevitabile) danno alla gestione dell’impresa e conseguente impoverimento del patrimonio sociale. D’altra parte è innegabile che una eccessiva libertà nelle scelte imprenditoriali potrebbe generare dei veri e propri “salti di imposta” giustificati da argomentazioni che nulla avrebbero a che vedere con una efficiente gestione imprendi‑ toriale. Ed è innegabile che detti indebiti risparmi d’imposta conseguiti per effetto di una eccessiva libertà d’impresa vio‑ lerebbero il richiamato art. 41, comma, Cost. 4. Le garanzie procedimentali contenute nell’art. 37‑bis del d.P.R. n. 600 del 1973. L’aspetto che pare interrompere l’armonia di questo siste‑ ma è rappresentato dalla permanenza, nell’ordinamento ita‑ liano, dell’art. 37‑bis del d.P.R. n. 600 del 1973. Tale disposizione prevede una serie di garanzie procedi‑ mentali per l’accertamento delle operazioni rientranti nell’elen‑ co del comma. Innanzitutto l’Ufficio, in tutti i casi in cui intenda conte‑ stare l’elusività di tali operazioni, ha l’obbligo di instaurare un contraddittorio anticipato con il contribuente, pena la nullità dell’avviso di accertamento emesso (comma L’avviso di accertamento è emanato, a pena di nullità, previa richiesta al contribuente anche per lettera raccomandata, di chiarimen‑ ti da inviare per iscritto entro 60 giorni dalla data di ricezio‑ ne della richiesta nella quale devono essere indicati i motivi per cui si reputano applicabili i commi 1 e 2.); ciò si riflette anche in un più stringente obbligo di motivazione dell’avviso emanato, che, sempre a pena di nullità, deve dar conto delle t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E giustificazioni addotte dal contribuente nel contraddittorio (comma Fermo restando quanto disposto dall’articolo 42, l’avviso d’accertamento deve essere specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alle giustificazioni fornite dal contribuente e le imposte o le maggiori imposte devono esse‑ re calcolate tenendo conto di quanto previsto al comma 2.); infine, l’iscrizione a ruolo della maggiore imposta può avve‑ nire solo in seguito alla sentenza di primo grado (comma Le imposte o le maggiori imposte accertate in applicazione delle disposizioni di cui al comma 2 sono iscritte a ruolo, secondo i criteri di cui all’art. 68 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, concernente il pagamento dei tributi e delle sanzioni pecunia‑ rie in pendenza di giudizio, unitamente ai relativi interessi, dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale.). 4.1. Il regime nei casi di abuso del diritto: assenza di garanzie e rilevabilità d’ufficio. L’applicazione dell’abuso del diritto non è invece accom‑ pagnata da alcuna tutela: pertanto, gli avvisi di accertamento che, in applicazione di tale principio, attribuiscano natura elusiva ad un’operazione, sono legittimi anche in assenza di un preventivo dialogo con il contribuente (di cui, conseguen‑ temente, non si troverà traccia nella motivazione dell’atto). Ed anche la fase della riscossione torna ad assumere le modalità tradizionali, con la possibilità di iscrizione a ruolo della mag‑ giore imposta già in pendenza del primo grado di giudizio. Non solo. Il rango comunitario e costituzionale del prin‑ cipio in esame comporta che il giudice tributario possa rile‑ vare d’ufficio l’abuso del diritto pur in mancanza di una specifica contestazione in tal senso da parte dell’Amministra‑ zione, ed anche per la prima volta nel giudizio di cassazione (da ultimo ribadito nella sentenza n.7393 del maggio 2012; sentenza n.1749 dell’ottobre 2012). L’impostazione della Cassazione ha raccolto molte criti‑ che. La rilevabilità d’ufficio della nullità è infatti strettamen‑ te limitata dalla giurisprudenza civilistica della Cassazione: per il rispetto del principio della domanda, è rilevabile la nullità «solo se sia in contestazione l’applicazione o l’esecu‑ zione di un atto la cui validità rappresenti un elemento costi‑ tutivo della domanda». Non è quindi rilevabile d’ufficio la nullità se la domanda è tesa a far rilevare un altro tipo di in‑ validità del contratto o a far pronunciare la risoluzione per inadempimento. In dottrina si è quindi criticata la tesi della Cassazione per l’assenza di fondamento: il negozio che si ritiene elusivo non elemento costitutivo di una domanda di adempimento. Queste critiche sono condivisibili. Il rilievo d’ufficio dell’abuso si ha in casi in cui l’Ammini‑ strazione muove al contribuente contestazioni diverse dall’abu‑ so: per esempio, il difetto di inerenza di talune spese. Secondo la Cassazione, in questi frangenti, il contratto sarebbe elemen‑ to costitutivo della domanda del contribuente. La tesi costituisce una forzatura inaccettabile, per diversi motivi che si elencano. (a) Suggerisce che il contribuente stia domandando l’adempimento all’Amministrazione (o il con‑ trario), mentre in realtà l’Amministrazione è un terzo che subisce gli effetti di un contratto efficace tra i contraenti. (b) Implica che il contratto sia dedotto dal contribuente, mentre è l’Amministrazione a considerare l’effetto fiscale del contrat‑ to e a rettificare l’imposta dovuta; tanto che il contribuente F O R E N S E m a r z o • a p r i l e potrebbe limitarsi a mere difese in diritto attinenti il motivo originariamente sotteso al provvedimento (p.e. la sussistenza dell’inerenza dei costi), senza ampliare la quaestio facti. Stra‑ volge la posizione sistematica dell’attore sostanziale nel pro‑ cesso tributario e della causa petendi del contribuente. (d) Nasconde, sotto il manto del rilievo d’ufficio, una sostanzia‑ le sostituzione giudiziale della motivazione adotta dall’Uffi‑ cio, se non addirittura una sostituzione proprio della decisio‑ ne amministrativa. Inoltre, la giurisprudenza che si sta criticando si dimostra in netto contrasto con altra, e più controllata giurisprudenza della Sezione tributaria, che ‑fuori dall’ambito dell’abuso‑ ri‑ tiene che la nullità del negozio su cui si appunta la rettifica dell’Ufficio non possa essere rilevata d’ufficio, perché «non incide sul giudizio tributario». In ogni caso, va rilevata la necessità di evitare decisioni «a sorpresa»: se il giudice volesse rilevare ex officio l’abuso del diritto, dovrebbe comunque concedere alle parti il contrad‑ dittorio, il che nel processo tributario si traduce in un rinvio dell’udienza di discussione, con termine per la presentazione di memorie. Questa eccezione al carattere dispositivo del processo tributario ha rilevanti implicazioni sul diritto di difesa: il contribuente, che resta esposto fino al terzo grado di giudizio ad una riqualificazione della transazione in termini di abuso del diritto, potrebbe vedere così frustrata la strategia difensi‑ va adottata nelle fasi precedenti del processo. In altre parole, al di là delle conseguenze sull’obbligo di motivazione dell’avviso e sulla fase esecutiva, è sensibile la distanza tra i due regimi: ai sensi dell’art. 37‑bis del d.P.R. n. 600 del 1973, il contribuente è messo in condizione di contrastare la ricostruzione dell’Amministrazione finanziaria ancor prima che questa emani l’avviso di accertamento, pena la nullità dell’atto stesso; con l’abuso del diritto, lo stesso contribuente potrebbe subire una riqualificazione dell’opera‑ zione anche ad opera del giudice, ed anche solo in sede di giudizio di legittimità. A tal punto parte della dottrina aveva prospettato un estensione dell’art.37 bis a tutto il sistema tributario in caso di abuso del diritto. Questa estensione è stata giustificata adoperando due argomenti differenti: (a) il principio di coerenza ordinamentale; (b) l’applicabilità generale del contraddittorio procedimen‑ tale nell’accertamento. Sulla scorta del primo argomento, si sostiene che ragioni di coerenza e di eguaglianza di trattamento militano a favo‑ re dell’applicazione del medesimo procedimento (di cui all’art. 37‑bis) sia a coloro che realizzano le fattispecie spe‑ cificamente elencate dalla norma, sia a coloro cui viene im‑ putato un comportamento abusivo al di fuori delle fattispecie nominate. Se l’art. 37‑bis ha cristallizzato nel tempo le fatti‑ specie di maggior pericolo per l’ordinamento, è irragionevo‑ le garantire a chi le realizza una miglior tutela procedimen‑ tale e lasciare, per converso, scoperto chi realizza fattispecie diverse. Utilizzando il secondo argomento, si è invece soste‑ nuto che, comunque, l’obbligo di un contraddittorio proce‑ dimentale andrebbe ritenuto vigente nel nostro sistema, come sancito anche da talune decisioni della Corte di cassazione e della Corte di giustizia: ne deriverebbe l’obbligatorietà del 2 0 1 3 125 contraddittorio in ogni fattispecie di rettifica fondata sull’abuso. Le tesi garantiste meritano qualche chiosa. Ritenere necessario un contraddittorio generico nel corso del procedimento di rettifica è ben diverso dal ritenere appli‑ cabile proprio il procedimento di cui all’art. 37‑bis. Esistono molti modi per attuare il contraddittorio proce‑ dimentale, se con tale espressione intendiamo una fase dialo‑ gica, in cui il contribuente ha modo di presentare le proprie osservazioni prima dell’emanazione dell’atto impositivo. L’art. 37‑bis costituisce una di queste esplicazioni del contraddittorio e, di per sé, questa disposizione non è dotata di alcun particolare valore, espressione di principi sistematici, di rango costituzionale o meno. Ciò premesso, sembra che in buona parte delle fattispecie rilevanti ai fini dell’abuso un contraddittorio sia comunque concesso al contribuente. Una rettifica in cui si contesti un’operazione abusiva segue un controllo sostanziale, che, normalmente, si conclude con un processo verbale di chiusura delle operazioni. Ex art. 12 c. 7 l. 212‑2000, il contribuente può, entro sessanta giorni dalla notifica del verbale, presentare osservazioni e l’avviso di accertamento non può essere emanato prima del decorso di tale termine e della (facoltativa) presentazione di osservazioni. Anche questa può essere ragionevolmente considerata un’at‑ tuazione del contraddittorio procedimentale, in particolare se la facoltà di proporre osservazioni viene congiunta alla inva‑ lidità della motivazione che non dia conto dei motivi per i quali le osservazioni presentate dal contribuente sono da ri‑ gettare. In genere, allora, un contraddittorio in materia di abuso viene garantito al contribuente e non si può dire che sussista né una disparità di trattamento (tra chi fruisce del procedi‑ mento di cui all’art. 37‑bis e chi ne è fuori dal campo di ap‑ plicazione), né una diminuzione di tutela in assoluto. Una reale lacuna di tutela sussiste solo per quelle fattispe‑ cie in cui la rettifica per ragioni di abuso emerge per la prima volta nell’atto impositivo, vuoi perché il funzionario che forma l’avviso si discosta dal verbale, vuoi perché per i motivi più vari‑ manca il processo verbale di chiusura delle operazioni, o il contribuente non è stato chiamato a formulare le proprie osservazioni in relazione al negozio che si presume abusivo. Solo in tali fattispecie ci si può interrogare sulla sussistenza dell’obbligo di instaurazione del contraddittorio. Estendere l’art. 37‑bis d.P.R. 600‑1973 sembra, però, poco soddisfacente. In primo luogo perché la lettera della disposizione costru‑ isce una norma ad applicazione tassativa: il comma 3 limita chiaramente l’ambito applicativo della norma. Il che vale ovviamente anche per il procedimento relativo, che la norma limita alle fattispecie considerate. Se, prima delle sentenze Altieri, non vi era dubbio sull’applicazione residuale dell’art. 37‑bis, così per ragioni di coerenza e simmetria inter‑ pretativa non sembra che si possa pretendere oggi di estender‑ ne il procedimento. Né a questo risultato si può giungere per il tramite di una interpretazione adeguatrice che, per rispetto del canone di eguaglianza e razionalità, voglia applicare il procedimento in questione a tutte le fattispecie abusive. Infat‑ ti, se è pur vero che le operazioni abusive e quelle di cui all’art. 37 bis si pongono in un rapporto di genere a specie, e tributario Gazzetta 126 d i r i t t o quindi condividono caratteri comuni, è altrettanto vero che l’interpretazione adeguatrice è possibile con il limite dell’in‑ terpretazione abrogante. L’estensione dell’art. 37‑bis si risol‑ verebbe invece proprio in un’interpretazione di sostanziale abrogazione, perché si priverebbe di senso la norma che ‑in relazione a talune fattispecie ritenute di particolare «perico‑ losità» in un giudizio contingente del legislatore‑ ha voluto legittimare uno specifico potere, circondandolo di apposite cautele. Comporre la clausola generale anti‑abuso con l’estensione del procedimento di cui all’art. 37‑bis significa raggiungere un risultato che seppur coerente logicamente‑ non è consentito all’interprete, che potrà tuttalpiù rilevare l’illegittimità costi‑ tuzionale dell’art. 37‑bis. In secondo luogo, andrebbe giustifi‑ cata l’estensione dell’art. 37‑bis in ambiti tributari non reddi‑ tuali. L’art. 37‑bis è una disposizione dettata ai fini della ret‑ tifica delle imposte sui redditi; il divieto di abuso è configura‑ to dalla Cassazione come principio generale che si applica a qualunque tributo: estendere una norma dettata specificamen‑ te per le imposte reddituali ad altri tributi pare una forzatura interpretativa. Se è vero che l’accertamento delle imposte sui redditi costituisce il modello basilare dell’accertamento tribu‑ tario, è altrettanto vero che le singole disposizioni che lo compongono non hanno di per sé una forza espansiva. Piuttosto, se si ritiene che il principio del contraddittorio possa (e debba) essere implementato a livello interpretativo, anche le rettifiche fondate sul divieto di abuso dovranno contemplare un tale modulo procedimentale. Non tanto per‑ ché tali rettifiche abbiano una qualche specificità, quanto perché qualsiasi rettifica, in questa prospettiva, necessita di un contraddittorio preventivo rispetto all’avviso. Se, invece, non si ritiene che allo stato della legislazione, il contradditto‑ rio sia necessaria espressione dei principi generali dell’ordina‑ mento, o che comunque non sia possibile introdurlo per via interpretativa, non resterà che lamentare la difettosa lacuna della normativa e invocare un intervento correttivo del legi‑ slatore. Stando così le cose e in questo contesto di riferimento, possono ipotizzarsi due diverse ricostruzioni. La prima: la coesistenza dei due regimi potrebbe risolver‑ si in un rapporto di specialità. La norma scritta, e le garanzie in essa contenute, continuerebbero a trovare applicazione per le operazioni elencate nel comma dell’articolo, e limitatamen‑ te alle sole imposte sui redditi. In tutti gli altri casi operereb‑ be l’abuso del diritto, in coerenza con la ragione che ne hanno decretato l’introduzione nel nostro ordinamento, ov‑ vero contrastare l’elusione fiscale nelle ipotesi non coperte dalla legge. Avremmo un procedimento speciale che include un con‑ traddittorio, disciplinato ex lege, e un procedimento generale che non ha alcuna disposizione ad hoc. Questa strada appare difficilmente praticabile: la profon‑ da differenza tra i due regimi introdurrebbe nel sistema un’asimmetria, incostituzionale perché contraria al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. Con una seconda interpretazione si potrebbe ritenere nella sostanza disapplicato l’art. 37‑bis del d.P.R. n. 600 del 1973: l’abuso del diritto, una volta dichiarato principio im‑ manente nell’ordinamento tributario, opererebbe in ogni caso. t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E Quest’ultima prospettiva risponde maggiormente ad esi‑ genze di coerenza interna, lasciando però irrisolte le questio‑ ni di fondo. Se il divieto di abuso è un principio generale, che trova fondamento costituzionale, l’art. 37‑bis diviene un minus specifico, contenuto nel plus dato dal principio generale. In questo senso si è espressa in maniera logicamente ineccepibi‑ le la Corte di cassazione con la sentenza 12042 del 2009. Il che può essere soddisfacente nella considerazione del fonda‑ mento del divieto, ma è problematico nella specificazione del procedimento applicabile. 5. Necessità di estendere all’abuso del diritto le garanzie ex art. 37‑bis d.P.R. n. 600/73. La genesi dell’abuso del diritto in materia tributaria è col‑ legata, si ripete, all’esigenza di colpire le pratiche commerciali e finanziarie non rientranti nell’ambito applicativo dell’art. 37‑bis, ma che tuttavia consentono di aggirare le nor‑ me tributarie e di ottenere un indebito tax benefit: esigenza tanto più sentita nel contesto attuale, caratterizzato da crisi economica, necessità di gettito per gli Stati e conseguente inasprimento della lotta all’evasione e all’elusione d’imposta. Questa spinta, condivisibile perché dettata da obiettivi di maggiore “giustizia fiscale”, può certo condurre alla creazione di una clausola antielusiva generale, ma non anche all’azzera‑ mento delle garanzie predisposte a tutela del contribuente. Tali garanzie trovano giustificazione nella maggiore com‑ plessità dell’attività di accertamento in caso di elusione, ri‑ spetto a quella tradizionale: sono coinvolti giudizi che atten‑ gono alle “ragioni economiche” di un’operazione, e che pre‑ sentano particolari difficoltà per i verificatori. A ciò si aggiun‑ ga che le transazioni potenzialmente elusive sono tutt’altro che lineari, e interessano quasi sempre numerosi soggetti economici. La tortuosità della struttura da accertare, e il rischio di ingerenza nella libertà delle scelte imprenditoriali, sono bilan‑ ciate dalle garazie procedimentali prima citate. Si vuole evi‑ tare un’iscrizione a ruolo immediata, sulla base di un avviso che è frutto di un’errata valutazione: per questo è previsto che la fase esecutiva parta solo dopo la pronuncia in primo grado di un organo giurisdizionale. Ma ancor prima, per scongiu‑ rare accertamenti superficiali, la legge impone agli Uffici un contraddittorio preventivo, a presidio del quale stabilisce un obbligo rafforzato di motivazione dell’avviso. Le tutele predisposte dall’art. 37‑bis del d.P.R. n. 600 del 1973, quindi, non mirano soltanto a proteggere maggiormen‑ te il contribuente nel caso di un accertamento delicato, quale quello sull’elusività di un’operazione: precludendo alla stessa Amministrazione un accertamento unilaterale, esse tentano di prevenire superflue attività istruttorie ed inutili contenziosi. In tal senso, i commi 4°, e della norma non si pongono solo in attuazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost., ma anche dei principi di buon andamento, imparzialità ed econo‑ micità della Pubblica Amministrazione, di cui all’art. 97 Cost. Tali esigenze sono comuni a tutti gli accertamenti in tema di elusione tributaria. Con l’art. 37‑bis del d.P.R. n. 600 del 1973, l’ordinamento italiano aveva scelto di tipizzare le fattispecie elusive, e di limi‑ tarne la rilevanza fiscale alle sole imposte sui redditi. Se oggi, F O R E N S E m a r z o • a p r i l e a causa di una sensibilità nuova verso il fenomeno, si rende preferibile l’introduzione di una clausola generale come l’abu‑ so del diritto, ciò vuol dire soltanto che le precedenti delimita‑ zioni cadono, che ora tutte le operazioni possono essere riqua‑ lificate, e che sono interessate tutte le tipologie di tributi. In altri ordinamenti è già così (Stati Uniti, Germania). Tuttavia, nell’accertamento dell’elusione, quelle esigenze, che abbiamo visto essere di rango costituzionale, restano in‑ variate: pertanto vanno mantenute anche le garanzie proce‑ dimentali poste a loro tutela. Una cosa è ampliare l’oggetto dell’accertamento, altro è sopprimere le garanzie che tale ac‑ certamento accompagnano. Conclusivamente, dal percorso giurisprudenziale sopra tracciato emerge come l’ottica dei rapporti tra abuso del di‑ ritto ed elusione fiscale, da un lato, e norme legislative, dall’al‑ tro, si sia ribaltata con la conseguenza che le singole norme antielusive introdotte nel nostro ordinamento si presentano non più come eccezioni ad una regola, ma come mero sintomo dell’esistenza della stessa, immanente nel nostro ordinamento tributario: cioè non si dubita più della generale applicabilità della clausola antielusione rappresentata dal principio di di‑ vieto dell’abuso di diritto. La sopraindicata evoluzione della giurisprudenza comu‑ nitaria e nazionale indica in modo chiaro come sia necessario l’intervento del legislatore al fine della introduzione nel nostro ordinamento tributario di una generale norma antielusiva ispirata a queste ultime pronunce, ma con la precisazione di una specifica tutela del contribuente. Pur non essendo seriamente contestabile il diritto del Fisco di procedere alla corretta qualificazione dei contratti ed il suo corrispondente dovere a non farsi ingannare dai contribuente, restano di grande attualità i timori che Amministrazione Fi‑ nanziaria e commissioni di merito suppliscano a carenze or‑ ganizzative o a vuoti legislativi con un «abuso dell’abuso». L’abuso del diritto rischia ogni volta di essere stabilito dalle circolari ministeriali (da ultimo, si rinvia alla risoluzio‑ ne n. 446/E del 18 novembre 2008 dell’Agenzia delle Entra‑ te – Direzione centrale normativa e contenzioso) oppure dai giudici tributari, lasciando i contribuenti ed i professionisti nell’assoluta incertezza, con il rischio di paralizzare l’inizia‑ tiva economica privata, tutelata dall’art. 41 della Costituzio‑ ne, nonché compromettere la proprietà privata, anch’essa tutelata dall’art. 42 della Costituzione. La via legislativa rimane sempre quella maestra, per cer‑ care di contrastare fenomeni abusivi che, seppur dilaganti, non sono ovviamente sovrapponibili alla pura e semplice pianificazione fiscale, la cui liceità riposa sugli stessi principi costituzionali della libertà economica. 6. L’evoluzione legislativa. All’opera di costruzione della nozione di divieto di abuso del diritto avviata dalla giurisprudenza di legittimità sembra, almeno in parte, essere ispirato il Disegno di legge delega per la riforma del sistema fiscale. L’art. 3 del disegno di legge (trasmesso dalla Camera (C.5291) il 15 ottobre, attualmente all’esame del Senato S.3519) cerca una formulazione ex novo della clausola gene‑ rale, combinando, come già un primo esame rivela, le indica‑ zioni definitorie fornite dalla giurisprudenza con le garanzie procedurali configurate nell’art. 37‑bis. 2 0 1 3 127 L’articolo è in parte rubricato «disciplina dell’abuso del diritto ed elusione fiscale». In prima battuta, da tale riferimento, si coglie l’intendi‑ mento di provvedere a disciplinare sia l’elusione che l’abuso. Tuttavia, dal testo dell’articolato si ricava che ad essere disci‑ plinato sarà soltanto l’abuso del diritto, il quale verrebbe così a collocarsi come una sorta di species del più generale tema dell’elusione. Questa sorta di «subordinazione» dell’abu‑ so all’elusione si evince chiaramente dalla previsione in base alla quale viene stabilito che «il Governo è delegato ad attua‑ re la revisione delle vigenti disposizioni antielusive ai fine di unificarle al principio generale di divieto dell’abuso del dirit‑ to, esteso ai tributi non armonizzati». Come se, quindi, nel genere dell’elusione venisse ad essere introdotta, come si dice‑ va, la nuova species dell’abuso. Tale scelta non appare affatto condivisibile in quanto la disciplina positiva dell’abuso sarà rivolta necessariamente a qualsivoglia operazione e comparto impositivo, mentre l’elu‑ sione, sempre sotto il profilo del diritto positivo, rimarrà confinata a fattispecie casistiche nell’ambito dell’imposizione diretta. Si avrà così un «genere», quello dell’elusione, discipli‑ nato espressamente nell’ambito di un comparto impositi‑ vo – quello delle imposte dirette – per fattispecie casistiche, cioè per le operazioni elencate nel terzo comma dell’art. 37‑bis del d.P.R. n. 600/1973, mentre la species dell’abuso avrà un’applicazione generale. Il che, evidentemente, non può es‑ sere. Ma analizziamo il testo. La condotta abusiva viene identificata nell’uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna speci‑ fica disposizione. Detti strumenti sono inopponibili all’am‑ ministrazione fiscale alla quale viene riconosciuto il potere di disconoscere il relativo risparmio di imposta. In linea con un indirizzo già espresso dalla Corte di Cassazione (cfr. sent. 25537/2011), oltre che in conformità ai principi della giuri‑ sprudenza della Corte di giustizia europea e alle migliori pratiche europee e internazionali (si ricordano sull’argomento le conclusioni formulate nella celebre sentenza Halifax della Corte di Giustizia C‑255/02 del 21 febbraio 2006), il disegno di legge contempla, dunque, l’introduzione di una norma generale di definizione dell’abuso del diritto, unificandola con quella dell’elusione fiscale e rendendola applicabile a tutti i tributi, anche non armonizzati. L’obiettivo è quello di contra‑ stare operazioni di pianificazione fiscale prive di adeguate autonome finalità economiche, e aventi lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali, scopo questo ritenuto nella delega quale causa prevalente dell’operazione abusiva. Si nota che l’estensione a «tutte le imposte» e a «tutte le operazioni» permette forse di evitare disparità di trattamento, ma non può costituire ex ante una garanzia circa la mancan‑ za del carattere abusivo o elusivo dell’operazione che si vuole realizzare. Tra i principi direttivi la bozza contempla l’ «uso distorto di strumenti giuridici». Chi stabilirà se l’operazione realizzata costituisce un im‑ piego «distorto» di strumenti giuridici? Di volta in volta l’Amministrazione finanziaria oppure il magistrato? Con quali criteri? E con quale impatto sui programmi di investi‑ mento delle società? tributario Gazzetta 128 d i r i t t o La clausola generale è, in astratto, il migliore strumento per garantire l’uguaglianza, ma è, allo stesso tempo, uno strumento assai ingeneroso sul piano della pianificazione se sprovvisto di criteri certi ai quali ancorare l’individuazione della prestazione imposta. Il profilo qui evidenziato (quello della certezza dei criteri sui quali innestare l’individuazione del presupposto d’imposta) è di fondamentale importanza nella prospettiva del giudizio di costituzionalità della dispo‑ sizione per contrasto con l’art. 23 Cost. Aggiungiamo che il riferimento all’uso «distorto» degli strumenti ha poco a che vedere con l’elusione e con l’abuso, perché elusione e abuso si apprezzano sul piano dei risultati conseguiti (vantaggio fiscale), non già sul piano degli schemi operativi utilizzati. Un uso distorto che non garantisce alcun vantaggio fisca‑ le (o che garantisce un vantaggio che possa reputarsi in sinto‑ nia con le finalità della norma) non potrà mai qualificarsi come elusivo o abusivo. Allo stesso modo, il conseguimento di un vantaggio indebito attraverso schemi negoziali lineari e diretti dovrà essere sindacato sul piano elusivo abusivo, anche se lo strumento impiegato non è abnorme o distorto. Il presupposto consistente nello schema negoziale «distor‑ to» rischia di tradursi, pertanto, in un ulteriore elemento di incertezza nella pianificazione dell’attività economiche, per‑ ché, dietro a quell’aggettivo («distorto»), possono collocarsi differenti sensibilità quanto alla scelta delle operazioni eco‑ nomiche da effettuare. Viene poi tutelata la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un diverso carico fisca‑ le e, a tal fine, il legislatore esclude la configurabilità di una condotta abusiva se l’operazione è giustificata da ragioni ex‑ trafiscali non marginali. Sono tali, si legge nell’art. 6 citato, anche quelle che non producono necessariamente una reddi‑ tività immediata dell’operazione ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e consistono in un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente Evidente è la derivazione della definizione che emerge da queste proposizioni da quella fornita dalla Cassazione nelle citate sentenze a Sezioni Unite, e dalla stessa ripetutamente richiamata nelle decisioni successive: l’abuso, secondo la Cor‑ te, consisterebbe nel «trarre indebiti vantaggi fiscali dall’uti‑ lizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un ri‑ sparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprez‑ zabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale» (Cass., Sez. trib., 16 febbraio 2012, n. 2193; Id., 13 maggio 2011, n. 10549; Id., 31 marzo 2011, n. 7343; Id., 12 novembre 2010, n. 22994; Id., 21 gennaio 2009, n. 1465). Il ricorso alla definizione giurisprudenziale, anziché a quella già presente nella legislazione (nel comma 1 dell’art. 37‑bis), è, da una parte, comprensibile: l’utilizzo della seconda avrebbe infatti esposto la clausola al rischio di scavalcamento, laddove la giurisprudenza avesse perseverato nel servirsi della prima, perpetuando, in evidente contrasto con gli obiettivi dell’intervento prefigurato, l’attuale dualismo tra aree normate e aree non normate. Dall’altra, è però indubbio che la definizione giurispruden‑ ziale è assai meno precisa di quella che attualmente si ritrova nel comma 1 dell’art. 37‑bis. Anzi, è decisamente fumosa. t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E L’elemento dell’utilizzo «distorto», al quale è in massima misura affidata la connotazione della condotta abusiva, si manifesta in effetti per nulla agevole da decifrare. Nei pochi casi in cui la Corte ha provato a proporne chia‑ vi di lettura, ha sostenuto che esso implica che le operazioni, «mentre incidono, diminuendolo, sul gettito fiscale, contra‑ stano con l’utilità sociale che costituisce limite alla realizza‑ zione di qualsiasi valida iniziativa economica»(Cass., Sez. trib., 12 novembre 2010, n. 22994). Ma se l’utilizzo «distorto» di un certo atto o di una certa combinazione di atti è l’utilizzo non ricollegabile a valide ragioni economiche, la presenza di questa specificazione ri‑ sulta nella sostanza superflua, perché assorbita dalla seconda parte della definizione considerata: «in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale». Una parte che, nella delega, trova peraltro già espressione nelle condizioni indicate alla lett. b). Ed invero, lo scopo «di otte‑ nere indebiti vantaggi fiscali» deve risultare la «causa preva‑ lente dell’operazione abusiva», la condotta non deve essere «giustificata da ragioni extrafiscali non marginali». Queste condizioni dovrebbero «garantire la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un diverso carico fiscale». La stessa Cassazione osserva, del resto, che «l’impiego di forme contrattuali e/o organizzative che consentono un mi‑ nore carico fiscale costituisce esercizio della libertà di impre‑ sa e di iniziativa economica» (Cass., Sez. trib., 17 ottobre 2008, n. 25374; Id., 21 gennaio 2011, n. 1372). Occorre per‑ tanto che le condizioni di cui trattasi siano intese, e rese nel provvedimento di attuazione, in guisa da dare evidenza alla estraneità all’abuso della scelta, tra soluzioni negoziali avver‑ tite dagli operatori come equivalenti sul piano degli effetti economico‑giuridici, di quella che comporta il minore carico tributario. Occorre, in altre parole, che si riconosca, una volta per tutte, che, laddove un certo assetto economico‑giuridico sia conseguibile mediante una pluralità di strumenti, ritenuti sostanzialmente equivalenti dagli operatori economici (pur nella loro diversità strutturale), la scelta dello strumento fi‑ scalmente meno oneroso, proprio in quanto fiscalmente meno oneroso, è estranea al campo dell’abuso, in quanto il conse‑ guimento di quell’assetto permette di affermare la presenza di «ragioni extrafiscali non marginali» e al contempo di escludere che il risparmio d’imposta costituisca la «causa prevalente dell’operazione abusiva». Un’opzione netta per questa prospettiva consentirebbe forse di superare un’ulteriore perplessità che la disposizione considerata, come la giurisprudenza alla quale si riporta, a prima vista solleva: l’assenza di precisi riferimenti al conflitto tra il godimento del vantaggio fiscale generato dalla scelta di un determinato atto o di una determinata combinazione di atti e la ratiodella normativa coinvolta (di quella che l’adozio‑ ne dell’atto o della combinazione di atti consente di applicare e/o di quella che l’adozione dell’atto o della combinazione di atti consente di non applicare). Questo conflitto rappresenta una componente essenziale della nozione di abuso tanto secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, quanto secondo la clausola di cui all’art. 37‑bis del d.P.R. n. 600/1973. Per la F O R E N S E m a r z o • a p r i l e Corte di giustizia occorre infatti che l’operazione considerata, «nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legi‑ slazione nazionale che la traspone», procuri «un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo per‑ seguito da queste stesse disposizioni» (le sentenze 21 febbraio 2006, C‑255/02, «Halifax», in Banca Dati BIG Suite, IPSOA, seguita poi, tra le altre, dalle sentenze 21 febbraio 2008, C‑425/06, «Part Service», ivi; 22 maggio 2008, C‑162/07, «Ampliscientifica e Amplifin», ivi; 22 dicembre 2010, C‑277/09, «RBS Deutschland Holdings GmbH»; 22 dicembre 2010, C‑103/09, «Weald Leasing».). Per l’art. 37‑bis, che la stessa sia diretta «ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario». Del resto, come configurare un abuso se non è possibile riscontrare alcun contrasto tra la fruizione del predetto van‑ taggio e le intenzioni del legislatore? Detto altrimenti, come configurare un abuso se il risparmio conseguito è espressione di una scelta (presumibilmente) consapevole del legislatore? Nella delega il richiamo a questa condizione può forse ravvisarsi nell’utilizzo dell’aggettivo «indebiti» per accompa‑ gnare i «vantaggi fiscali» nella lett. b), seguendo una discuti‑ bile modalità espressiva diffusasi in relazione all’interpreta‑ zione dell’art. 37‑bis (e precisamente in relazione al ben diver‑ so «altrimenti indebiti»). Se così è, indubbiamente si poteva approfittare dell’occasione per esplicitare e meglio precisare la condizione stessa. La delega ribadisce poi il principio dell’onere della prova sancendo che è a carico dell’amministrazione l’onere di dimo‑ strare il disegno abusivo e le modalità di manipolazione e di alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati nonché la loro non conformità ad una normale logica di mer‑ cato. Grava, invece, sul contribuente l’onere di allegare la esistenza di valide ragioni extrafiscali alternative o concor‑ renti che giustifichino il ricorso a tali strumenti. Nella moti‑ vazione dell’accertamento fiscale, a pena di nullità, deve es‑ sere contemplata una formale e puntuale individuazione della condotta abusiva. In altri termini deve essere spiegato dall’amministrazione perché la forma giuridica dall’operazio‑ ne abbia carattere anomalo o inadeguato rispetto all’opera‑ zione economica intrapresa (cfr. Cass. sent. 1372/2011). Altro elemento non trascurabile è che il legislatore delega‑ to dovrà emanare nuove regole che garantiscano un efficace contraddittorio con l’amministrazione fiscale e salvaguardino il diritto di difesa in ogni fase del procedimento di accerta‑ mento ed in ogni stato e grado del giudizio tributario. Nei vari passaggi viene cassato un ultimo punto che pre‑ vedeva l’ esclusione della la rilevanza penale dei comporta‑ menti ascrivibili a fattispecie abusive. A tal punto è doveroso ricordare che un recente interven‑ to della Corte di cassazione – concretizzatosi nella sentenza n. 7739 del 28 febbraio 2012 – ripropone la questione della rilevanza penale dell’elusione attuata attraverso il ricorso a qualsiasi forma di abuso del diritto. Ancora una volta si è discusso se la condotta incrimina‑ bile del contribuente potesse configurare una violazione – pe‑ nalmente rilevante – ad una specifica disposizione fiscale. E i giudici penali della Cassazione hanno dato risposta affermativa al problema: il reato di dichiarazione infedele è penalmente rilevante anche in presenza di elusione dell’impo‑ 2 0 1 3 129 sta. Si tratta – dice la Cassazione – di «un risultato interpre‑ tativo conforme ad una ragionevole prevedibilità …se si considera la ratio delle norme, le loro finalità e il loro inseri‑ mento sistematico». La Cassazione spiega, così, il proprio indirizzo afferman‑ do che il reato di cui all’art. 4 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (infedele dichiarazione – oltre una certa soglia di imposta non dichiarata) è configurabile quando la condotta del contribuen‑ te, risolvendosi in atti e negozi non opponibili all’Ammini‑ strazione finanziaria, comporti comunque una dichiarazione non veritiera. La sentenza della Cassazione che stiamo considerando non modifica – nell’essenza – l’impianto interpretativo consolida‑ tosi negli anni anche (e soprattutto) con diverse prese di po‑ sizione delle Sezioni Unite, sia pure sul versante non penale. Come si nota la Cassazione ha una linea diversa dalla previsione normativa… e sul punto valga la seguente osserva‑ zione. La Corte di giustizia, che, nella sentenza dalla quale ori‑ gina la giurisprudenza italiana in materia di abuso del diritto (Halifax), afferma il seguente principio (p. 93 della sentenza): «Occorre altresì ricordare che la constatazione dell’esistenza di un comportamento abusivo non deve condurre a una san‑ zione, per la quale sarebbe necessario un fondamento norma‑ tivo». Opinare diversamente, in effetti, costituirebbe violazio‑ ne di principi generali del diritto comunitario. La stessa Corte di Cassazione civile in una precedente sentenza del 2010 (n.22996 del 12 novembre) aveva avuto un orientamento chiaro: il disconoscimento delle operazioni abusive ed elusive come se fossero operazioni fittizie o inesi‑ stenti regge solo quanto agli effetti tributari dell’operazione (disconosciuti sia per le operazioni inesistenti che per quelle fittizie), ma non quando si discuta di «di penalizzare il con‑ tribuente che non abbia commesso violazioni». E l’elusione fiscale (e l’abuso) non è una violazione di norme specifiche e può solo portare al disconoscimento in sede tributaria delle operazioni per contrasto con i principi generali e con la ratio delle disposizioni. La conclusione è, allora, che un ragionevole (e costituzio‑ nalmente obbligato, a nostro avviso) riparto dei doveri e delle responsabilità, di Stato e contribuente, precludono net‑ tamente la possibilità di applicare sanzioni (penali e non) al contribuente. Tale preclusione opera già sul piano oggettivo della inconfigurabilità e inesigibilità del dovere del contri‑ buente di adeguare l’imposizione, in sede di autoliquidazione, a quella che sarebbe prevista per la fattispecie elusa (che non è stata posta in essere). Tale insussistenza, in termini oggetti‑ vi, dell’esistenza di una violazione viene logicamente ancor prima del problema se sussista e come possa accertarsi l’ele‑ mento soggettivo della violazione, dolo (nelle fattispecie pe‑ nali) o colpa (nelle fattispecie amministrative). A ciò si accompagnano ulteriori considerazioni e perples‑ sità, di ordine più generale e squisitamente penalistico, che assumono una particolare pregnanza con riguardo alle ipote‑ si di abuso del diritto, alle ipotesi, cioè, nelle quali l’operazio‑ ne sia ritenuta disconoscibile in sede tributaria, ancorché non oggetto di alcuna norma antielusiva specifica (ma solo in at‑ tuazione della clausola generalissima) di cui all’art. 53 Cost. In queste ipotesi, in effetti, interrogarsi se il contribuente possa essere penalmente sanzionato equivale a domandarsi se tributario Gazzetta 130 d i r i t t o possa essere soggetto a sanzione penale il contribuente che non abbia adempiuto a doveri tributari non previsti dalla legge, ma solo da una integrazione di essa effettuata alla luce della clausola generalissima di cui all’art. 53 Cost. Le norme del diritto penale‑tributario presuppongono la violazione dei doveri previsti dalle norme tributarie: queste ultime sono presupposte dalle norme sanzionatorie in forza di un rinvio. t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E Visto il punto in cui siamo e, in attesa della riforma nor‑ mativa che ci auspichiamo più precisa di quanto non delineato nel disegno di legge delega, per ridare fiducia e coerenza al nostro ordinamento fiscale, non resta che richiamarci ai prin‑ cipi – altrettanto generali e di rango costituzionale – di legali‑ tà, buna fede, ragionevole affidamento, giusto processo, stabi‑ lità nei rapporti giuridici e certezza del diritto, soprattutto sotto forma di predeterminazione delle fattispecie impositive. Diritto internazionale L’incremento dell’efficacia nota quale requisito per la brevettabilità dei nuovi farmaci in India Nota a Corte Suprema Indiana, Novartis AG v. Union of India & Others, 01 aprile 2013 133 Giovanna Sorrentino Rassegna di diritto internazionale 145 internazionale A cura di Francesco Romanelli F O R E N S E m a r z o • a p r i l e ● L’incremento dell’efficacia nota quale requisito per la brevettabilità dei nuovi farmaci in India Nota a Corte Suprema Indiana, Novartis AG v. Union of India & Others, 01 aprile 2013 ● Giovanna Sorrentino Avvocato e Dottore di ricerca in diritto comparato, Facoltà di Studi politici, Seconda Università degli Studi di Napoli 2 0 1 3 133 Brevetti farmaceutici secondari – Requisiti di brevettabilità – Incremento dell’efficacia nota – Rapporto tra sez. 3 d) Indian Patent Act e sez. 2 (j) e (ja) Ai fini della brevettabilità di prodotti chimico-farmaceu‑ tici costituenti una nuova forma di una sostanza già oggetto di tutela brevettuale è necessario che risulti in concreto inte‑ grato il requisito dell’incremento dell’efficacia nota di cui alla sez. 3 d) dell’Indian Patent Act, in aggiunta ai tre requi‑ siti classici della novità, non ovvietà ed applicabilità indu‑ striale di cui alla sez. 2 (j) e (ja). La sez. 3 d) va pertanto in‑ tesa come previsione normativa ex majore cautela ai fini della prevenzione dell’abuso della tutela brevettuale nel set‑ tore chimico-farmaceutico e non come una norma che preclu‑ de in astratto la protezione brevettuale alle innovazioni far‑ maceutiche incrementali. Corte Suprema Indiana, Novartis AG v. Union of India & Others, 01 aprile 2013 Invenzioni Farmaceutiche Incrementali – Nuova Forma – Requisito dell’incremento dell’efficacia nota – Nozione Ai fini della brevettabilità di un’innovazione farmaceutica incrementale, il requisito dell’incremento dell’efficacia nota di una sostanza già oggetto di tutela brevettuale ex sez. 3 d) dell’Indian Patent Act va inteso in un’accezione restrittiva e rigorosa, di guisa che il semplice cambiamento di forma da cui deriva un incremento di efficacia quale proprietà intrin‑ seca a suddetta forma non integra ex se il requisito dell’incre‑ mento di efficacia della sostanza nota, dovendo risultare un incremento di efficacia terapeutica. Corte Suprema Indiana, Novartis AG v. Union of India & Others, 01 aprile 2013 Invenzioni farmaceutiche incrementali – Brevetti farmaceutici secondari – Onere della prova dell’incremento dell’efficacia Grava a carico del patent applicant l’onere di dimostrare l’incremento dell’efficacia nota di una sostanza già oggetto di tutela brevettuale ex sez. 3 d) dell’Indian Patent Act. Non è a tal fine sufficiente la dimostrazione dell’aumento della bio‑ disponibilità del prodotto, dovendosi altresì dimostrare in concreto che da siffatto aumento della biodisponibilità ne derivi un incremento dell’efficacia terapeutica per il paziente, secondo un rapporto di causa-effetto. Corte Suprema Indiana, Novartis AG v. Union of India & Others, 01 aprile 2013 *** Nota a sentenza 1. La brevettabilità dei farmaci nel sistema indiano tra istanze di tutela della salute ed incentivo all’innovazione incrementale La Corte Suprema Indiana con un leading case del 01.04.2013 fornisce uno valido incipit per la disamina della questione inerente la concessione in India di brevetti su farma‑ ci risultanti dall’implementazione di principi attivi già oggetto di tutela brevettuale. Occorre preliminarmente considerare che nel settore far‑ maceutico la tutela brevettuale dell’innovazione assume carat‑ teristiche peculiari, attesa la necessità di trovare un giusto internazionale Gazzetta 134 D i r i t t o I n t e r n a z i o n a l e contemperamento tra i vari interessi coinvolti1. Emerge, infat‑ ti, accanto all’interesse particolare del titolare dell’invenzione ad un periodo di copertura brevettuale tale da garantire un profitto superiore ai costi supportati per gli investimenti ef‑ fettuati in ricerca e sviluppo, il contrapposto interesse della collettività 2 a che i brevetti vengano concessi per un periodo limitato e che il monopolio sia garantito in proporzione al beneficio apportato. Appare, dunque, evidente che nel settore farmaceutico la concessione di brevetti per prodotti e processi non realmente innovativi3 finisce di fatto per interdire il progresso scientifico e tecnologico, nonché per costituire un ostacolo alla concor‑ renza, all’accesso ai farmaci, ritardando l’ingresso sul merca‑ to dei generici. Compete indubbiamente al sistema brevettuale il ruolo di incentivare l’innovazione4, incoraggiando lo sviluppo sequen‑ ziale dei prodotti esistenti e negando la concessione di brevet‑ ti per invenzioni non realmente innovative, dovendo assurge‑ re il brevetto a “product of innovation, not ordinary skill and common sense” 5. Il noto aforisma di Abraham Lincoln “the patent system adds the fuel of interest to the fire of genius” 6, secondo cui sarebbe proprio il sistema brevettuale ad alimentare il fuoco del genio creativo con il combustibile dell’interesse, esprime pienamente la logica sottesa al sistema dei brevetti: le previ‑ sioni legislative devono essere interpretate nel senso che va assicurata alle industrie che operano nel campo della R&D una copertura effettiva dei costi e i brevetti non dovrebbero mai essere utilizzati come strumento per estendere un mono‑ polio in assenza di uno step innovativo, assurgendo altrimen‑ ti ad ostacolo per l’innovazione7. Per quanto concerne in particolare l’innovazione incre‑ mentale, occorre poi evidenziare che si tratta di un fattore rilevante ai fini dello sviluppo economico e sociale dei Paesi in via di sviluppo come l’India. 1 P. M. Danzon - A. Towse, Differential Pricing for Pharmaceuticals: Reconcil‑ ing Access, R&D and Patents, in Int .J. Health Care Finance. Econ., 3, 2003 p. 183. 2 Ahn S., Competition, Innovation and Productivity Growth: a Review of Theory and Evidence, in Economics Department Working Papers n. 317, in Organis. for Ec. Coop. And Develop., 2002, p. 6-7. 3 A. Wertheimer, Too Many Drugs? The Clinical and Economic Value of In‑ cremental Innovations, in Investing In Health: The Social And Economic Benefits Of Healthcare Innovation, 14, 2001, pp. 77-118; W. L. J . Ulcickas - M. E. Lasagna, L. The World Health Organization’s Essential Drug List. The Significance of Me-too and Follow-on Research, in Journal of Clinical Res. and drug Development, 1989, pp.105-115; I. Haracoglou, Competition Law And Patents: A Follow-On Innovation Perspective In The Biopharmaceutical In‑ dustry, 2008, p. 3. 4 J. Cohen, The role of follow-on drugs and indications on the WHO Essential Drug List, in Journal Of Clinical Pharmacy And Therapeutics, 31, 2006, p.6; J. Di Masi- Cherie Paquette, The Economics of follow-on Drug Research and Development: Trends in Entry Rates and Timing of Development, in Phamacoeconomics, 22, 2004, p. 8-9R.Mazzoleni-R.Nelson, Economic Theories about the Benefits and Costs of Patents, in J. of Ec. Issues, 32, 1998, pp.1031-1052; A.Wertheimer, Too Many Drugs? The Clinical and Eco‑ nomic Value of Incremental Innovations, in Investing In Health: The Social And Economic Benefits Of Healthcare Innovation, 14, 2001, pp. 77-118. 5 KSR International v. Teleflex, Inc. 550, US 398, 2007. 6 A. Lincoln, Lecture on Discoveries, Inventions, and Improvements, in The Complete Works of Abraham Lincoln, in John G. Nicolay, John Hay, NewYork, 1905, p.113; K. Idris, Intellectual Property, a Power Tool for Economic Growth, cit.p.7 7 G. Mirandah, War on Pharmaceutical Patents Begins, in Manag. Intell. Prop, 2006, p.135 Gazzetta F O R E N S E Occorre, però, tenerla ben distinta dal fenomeno dell’ever‑ greening, che costituisce un mezzo surrettizio per prolungare l’esclusiva brevettuale consistente nella strategia volta ad ot‑ tenere brevetti multipli riguardanti aspetti differenti dello stesso prodotto, onde ottenere brevetti su miglioramenti o sviluppi di versioni esistenti. Indubbiamente i“secondary patents” hanno una loro di‑ gnità brevettuale nella misura in cui mirano a tutelare quell’innovazione incrementale che costituisce la base dell’evo‑ luzione scientifica e tecnica. Del resto, nessun sistema brevettuale limita la brevettabi‑ lità alle sole innovazioni radicali. Muovendo dall’esigenza di trovare un compromesso tra gli interessi antitetici, in India si sono a lungo ammessi uni‑ camente brevetti di processo: solo a far data dal 2005 è stata introdotta la brevettabilità dei prodotti farmaceutici, in ot‑ temperanza agli obblighi internazionali derivanti dall’adesio‑ ne all’accordo TRIPs, l’accordo internazionale cardine in materia di tutela della proprietà industriale nell’ambito del sistema di commercio internazionale. Per vero, l’approvazione dell’Accordo Trips sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà industriale ha determina‑ to una profonda svolta non solo nel sistema indiano, ma in tutta la legislazione internazionale in tema di brevetti. Nonostante, infatti, la sua negoziazione sia stata larga‑ mente influenzata dai Paesi industrializzati, nel binomio tra sfruttamento esclusivo dell’invenzione e tutela dei diritti es‑ senziali per la collettività siffatto accordo internazionale, specie a seguito della dichiarazione di Doha nel 2001, sembra propendere a favore dei secondi, laddove stabilisce che lo sfruttamento dell’invenzione debba avvenire in modo da con‑ tribuire all’obiettivo primario del trasferimento di tecnologia e subordinatamente alla libertà di ogni Stato di attuare misu‑ re per la protezione di determinati interessi pubblici. In tale ottica s’inserisce la normativa indiana che, supe‑ rando il tradizionale approccio ostile alla protezione brevet‑ tuale in quanto fattore antitetico ed ostativo alla tutela effet‑ tiva della salute pubblica, tenta di bilanciare i due interessi cardine, ossia l’esigenza di garantire l’accesso ai farmaci e la tutela della proprietà industriale, nell’ottica della valorizza‑ zione del ruolo della protezione brevettuale per lo sviluppo dell’economia del Paese. La peculiarietà del sistema brevettuale indiano va, in specie, ravvisata nella sez. 3 d) dell’Indian Patent Act, laddo‑ ve viene previsto ai fini della concessione di un brevetto far‑ maceutico secondario l’incremento dell’efficacia nota, preve‑ dendo di fatto un requisito ulteriore, che si aggiunge ai tre classici dell’innovatività, non ovvietà ed applicabilità indu‑ striale, previsti in tutti regimi brevettuali. Dalla previsione di siffatta misura, che non trova paralle‑ li in nessun altro sistema brevettuale, ne discende che in linea di principio i brevetti in India vengano concessi solo su far‑ maci realmente innovativi, essendo preclusa la possibilità di brevettare semplici miglioramenti apportati a un principio attivo già in commercio, al solo fine di estendere ulteriormen‑ te il monopolio. Per vero, l’individuazione dell’esatta portata del requisito dell’incremento dell’efficacia nota di cui alla sez. 3 d) dell’In‑ dian Patent Act per la brevettabilità di prodotti che costitui‑ scono l’implementazione di sostanze già note è stato oggetto F O R E N S E m a r z o • a p r i l e di un lungo dibattito internazionale che ha visto scontrarsi gli interessi delle multinazionali farmaceutiche con quelli delle più grandi organizzazioni umanitarie mondiali (Organizza‑ zione Mondiale della Sanità e medici senza frontiere). La pronuncia in oggetto rappresenta indubbiamente un leading case in punto di interpretazione di siffatto requisito, negando la concessione di un brevetto secondario alla multi‑ nazionale Novartis sulla base della sez. 3 d), ritenendo, in specie, che il patent applicant non abbia assolto l’onere pro‑ batorio della dimostrazione dell’incremento di efficacia nota, non essendo sufficiente a tal fine l’aumento della biodisponi‑ bilità del prodotto, ma dovendosi dimostrare un incremento di efficacia terapeutica, quindi un beneficio aggiunto per il paziente derivante dall’innovazione apportata al prodotto. Appare chiaro che la sentenza in commento avrà ricadute rilevanti a livello globale, considerato che l’India appartiene al modello di common law, in cui il valore del formante giu‑ risprudenziale è massimo e che costituisce attualmente il più grande produttore di generici a livello globale. Ai fini di una corretta comprensione della sentenza de quo appare pertanto fondamentale effettuare una preliminare esegesi della sez. 3d) dell’Indian Patent Act. 2. Sez. 3 d) dell’Indian Patent Act Muovendo dall’obiettivo di non dare ingresso nell’ordina‑ mento indiano, insieme alla brevettabilità dei prodotti, anche al cd. fenomeno dell’ ”evergreening”8, la sezione 3 d) della Legge indiana sui brevetti, introdotta con la novella del 20059, limita la brevettabilità dei prodotti farmaceutici alle nuove composizioni chimiche ed ai loro derivati (quali sali, eteri e forme cristalline) che presentino rispettivamente il requisito dell’incremento dell’efficacia nota ed una significativa diffe‑ renza delle proprietà in relazione all’efficacia 10. Ai sensi della sezione 3 d) dell’Indian Patents Act non è, infatti, brevettabile la mera scoperta di una nuova forma di una sostanza che non determini l’incremento dell’efficacia nota della stessa o la mera scoperta di una nuova proprietà o di un nuovo uso per una sostanza nota o del mero uso di processo, macchina o apparecchio noti a meno che non ne derivi un nuovo prodotto o un nuovo impiego; sali, esteri, eteri, polimorfi, metaboliti, forma pura, particelle, isomeri, miscele di isomeri, complessi, combinazioni ed altri derivati di sostanze note saranno considerate come la stessa sostanza, a meno che non differiscano significativamente nelle proprie‑ tà in relazione all’efficacia. 8 Ahibhusan De – U. Baskaran, What the New Patent Regime Means In Prac‑ tice, in Manag. Intell. Prop., 2005, p. 63; M. Singh, India’s Patent Law—Is It TRIPS Compliant?, in Manag. Intell. Prop., 2005, p. 67- 69: “ the objective behind section 3(d)’s elaborate explanation is probably to check what the In‑ dian generic drug makers allege as evergreening”; S. Basheer Limiting the Scope of Pharmaceutical Patents and Micro-organisms: A TRIPS compatibility Re‑ view, Intellectual Property Institute, London 2005, p.166; R. Feldman, Re‑ thinking Rights in BioSpace, in S. Cal. L. Rev., 79, 2005, p. 30; A.B. Engelberg, Special Patent Provisions for Pharmaceuticals: Have they Outlived Their Use‑ fulness?, in Idea, 39, 1999, p.389. 9 Patents (Amendment) Act, n.15 del 2005. 10 B.Shamnad - R. Prashant, The Efficacy of Indian Patent law: Ironing out the Creases in Section 3 (d) in Scriped, V, 2, 2008, pp.232-266; Mueller J. M., The Tiger Awakens: The Tumultuous Transformation of India’s Patent System and the Rise of Indian Pharmaceutical Innovation in U. of Pittsburgh L. Rev., 68, 2207, p.111. 2 0 1 3 135 La sezione 3 d) dell’Indian Patents Act, in particolare, muove da un duplice quesito: il primo volto a stabilire se la sostanza in oggetto sia un derivato di una sostanza già nota, il secondo originato dalla risposta affermativa alla prima ed volto a verificare se sussista o meno un incremento di efficacia rispetto alla sostanza esistente. Il sistema indiano prevede, dunque, ai fini della brevetta‑ bilità di prodotti chimico-farmaceutici costituenti una nuova forma di una sostanza già oggetto di tutela brevettuale che risulti in concreto integrato il requisito dell’incremento dell’ef‑ ficacia nota, in aggiunta ai tre requisiti classici della novità, non ovvietà ed applicabilità industriale. 2.1 sez. 3 d) come espressione del fenomeno della circo‑ lazione di modelli giuridici È interessante notare che la previsione dell’Indian Patents Act come novellato nel 2005, pur non trovando paralleli in nessuna altra legislazione sui brevetti, è espressione del feno‑ meno della circolazione di modelli giuridici, ricalcando una direttiva comunitaria11 riguardante la regolamentazione della sicurezza dei farmaci, in specie l’’articolo 10 (2) (b) della di‑ rettiva 2004/27/EC. Tale direttiva definisce un prodotto medicinale generico come: “un prodotto medicinale che ha la stessa composizione qualitativa e quantitativa di sostanze attive e la stessa forma farmaceutica come il prodotto medicinale di riferimento e la cui bioequivalenza con il prodotto medicinale di riferimento è stato dimostrato da studi appropriati di biodisponibilità. I sali differenti, esteri, eteri, isomeri, miscele degli isome‑ ri, complessi o derivati di una sostanza attiva saranno consi‑ derati come la stessa sostanza attiva, a meno che differiscano significativamente nelle proprietà riguardo alla sicurezza e/o efficacia.”. Ciò posto, appare chiaro che la trasposizione di una sif‑ fatta misura nel regime brevettuale possa porre problemi di notevole entità. Il termine efficacia di cui alla direttiva comunitaria opera nel contesto di un regime disciplinante i medicinali e, conse‑ guentemente, appare più arduo da soddisfare nella fase di rilascio del brevetto. Occorre, infatti, considerare che le case farmaceutiche generalmente avanzano la richiesta di brevetto nella fase iniziale della scoperta di un prodotto e solo molto più tardi pervengono al processo di sviluppo di studi clinici, raccoglien‑ do le informazioni pertinenti all’efficacia terapeutica del farmaco. La necessità di soddisfare il requisito dell’incremento di efficacia rispetto alla sostanza già nota, come richiesto dalla sez. 3 d) dell’Indian Patents Act nella fase della presentazione della richiesta di brevetto appare, quindi, particolarmente onerosa. La legislazione indiana è stata percepita con inquietudine nel panorama internazionale, assunto che la sezione 3 d) dell’Indian Patents Act, pur essendo stata introdotta, come emerge dai dibattiti parlamentari, con l’intento di promuove‑ 11 Direttiva 2004/27/EC del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31 marzo 2004 che novella la direttiva 2001/83/EC recante un codice comunitario rela‑ tivo ai prodotti medicinali per uso umano. internazionale Gazzetta 136 D i r i t t o I n t e r n a z i o n a l e re l’innovazione precludendo la brevettabilità di prodotti che non presentino un’efficacia maggiore rispetto a quelli già brevettati, viene tuttora considerata dalle multinazionali farmaceutiche come la norma che consente all’India di poten‑ ziare il mercato di generici. Gazzetta F O R E N S E 2.2 Ratio sottesa alla previsione normativa: indagine diacronica L’analisi della sez.3 d) dell’Indian Patent Act non può prescindere da un’indagine diacronica12 , onde comprenderne la ratio ed evidenziare le peculiari modalità attraverso cui l’India cerca di contemperare le opposte istanze di tutela dell’innovazione e sviluppo nel settore farmaceutico con la necessità di garantire l’accesso ai farmaci attraverso il poten‑ ziamento del mercato dei generici. La ricostruzione del quadro storico di riferimento,13appare, infatti, fondamentale per meglio comprendere la peculiarietà del sistema indiano in materia di tutela brevettuale dei farma‑ ci, posto che lo sviluppo del sistema indiano dei brevetti è lo specchio dello sviluppo storico del Paese, che può essere sud‑ diviso in tre periodi: il primo è quello della colonizzazione inglese14, il secondo è quello della post-indipendenza e l’attua‑ le periodo in cui l’India assurge potenza globale emergente. In particolare, la prima legge sui brevetti in India risale all’India’s Act VI del 1856 “sulla protezione delle invenzioni”, che conferiva privilegi esclusivi agli inventori di nuove mani‑ fatture per un periodo di quattordici anni15. Tale normativa, emendata nel 1859 rubricata “legge per conferire privilegi esclusi agli inventori” (Act for granting exclusive privileges to inventors) ricalcava il British Patent Law del 1852, essendo una normativa imposta dal Regno Unito nel periodo della colonizzazione.16 Nel 1872 veniva promulgato il “Patens and Designs Pro‑ tection Act” che rimaneva in vigore per ben trent’anni, fino all’emanazione del “Protection of Inventions Act “ del 1883, seguito da ultimo dall’Indian Patents and Design Act del 191117che sostituiva tutta la legislazione precedente in materia brevettuale. La legge del 1911 istituiva un sistema di priorità all’inter‑ no dell’impero britannico di guisa che qualora un soggetto avesse richiesto un brevetto in India avendo precedentemente presentato una domanda per la stessa invenzione nel Regno Unito nell’arco di dodici mesi, gli veniva conferito il brevetto tenendo conto della prima data di deposito nel Regno Unito. Ciò faceva sì che pure se fossero intervenute pubblicazio‑ ni o usi dell’invenzione in India durante il periodo di priorità (dodici mesi dalla data di deposito nel Regno Unito) queste non avrebbero potuto in alcun caso ostacolare la concessione del brevetto indiano18. Ai sensi della normativa del 1911 i brevetti venivano con‑ cessi per la durata di sedici anni al termine dei quali era ammissibile un periodo addizionale di estensione fino a sette anni. Nonostante che, al pari della normativa pregressa, il Pa‑ tent Act del 1911 consentiva la brevettabilità dei prodotti farmaceutici, durante la colonizzazione britannica non si è riscontrata in India una crescita del settore farmaceutico, poiché il sistema dei brevetti era sostanzialmente utilizzato come uno strumento di controllo, per impedire che le aziende farmaceutiche indiane riproducessero farmaci inventati all’estero19. Ottenuta l’indipendenza dal Regno Unito nel 1947, l’India con quattrocento milioni di persone rappresentava un quinto della popolazione mondiale ed era tra i Paesi più poveri del mondo. Con un’industria farmaceutica per nulla sviluppata 20, di‑ ventava una sfida fondamentale per i nuovi leader indiani affrontare la sconcertante domanda potenziale di farmaci a basso costo. L’infelice eredità della dominazione britannica consisteva in una legislazione sui brevetti imposta senza tener conto delle reali esigenze di in un Paese con un’economia in gran parte agraria, un sistema in cui venivano importati e commer‑ cializzati al prezzo più alto del mondo i farmaci più moderni fabbricati all’estero21. Solo pochi mesi dopo l’indipendenza, con una risoluzione del governo indiano del 10 Gennaio 1948, veniva nominato un Comitato di esperti incaricato di rivedere le leggi sui bre‑ vetti in India, al fine di introdurre una normativa più consona agli interessi nazionali 22. Il comitato di esperti evidenziava a pieno il fallimento del sistema di brevetti indiano vigente per stimolare l’innovazio‑ ne ed incoraggiare lo sfruttamento delle nuove invenzioni per scopi industriali 23 e raccomandava modifiche radicali delle leggi sui brevetti esistenti onde promuovere il progresso tec‑ nologico e l’industrializzazione24 del Paese. Appariva necessario individuare le tipologie di invenzioni per le quali era ammissibile la tutela brevettuale; prendere una 12 J. M. Mueller, The Tiger Awakens: The Tumultuous Transformation of India’s Patent System and the Rise of Indian Pharmaceutical Innovation, in Univ. of Pittsburgh L. Rev., 68, 2007, p.491-641; J. Chaisse - S. Guennif, Present Stakes around Patent Political Economy: Legal and Economic Lessons from the Pharmaceutical Patent Rights in India, in Asian J. of WTO & Int. Health L. and Policy, 2007, pp. 65-98; S. Vepachedu - M.Rumore, The Pharmaceutical Industry and the New Patent Regime in the Indian Union, in Andhra J. of Indust. News, 10, 2005, p.4 13 m. dragoni, L’India e la Tutela della Proprietà Industriale: la Nuova disciplina delle invenzioni farmaceutiche tra aperture e resistenze, in Diritto del Com‑ mercio Internazionale, 4, 2011, p. 1007-1046 ; D.N. Choudhary, Evolution of Patent Laws, Dehli, 2006, pp.13 e ss. 14 Denis Judd, The Lion And The Tiger: The Rise And Fall Of The British Raj, 1600-1947, 2004, pp. 14-27 15Elizabeth Verkey, Law Of Patents, 15 , 2005 16 Rajesh Sagar, Introduction of Exclusive Privileges/Patents in Colonial India: Why and for Whose Benefit, in Intell. Prop. Q., 2, 2007, p.164, 166. 17 Patents and Design Act, 1911, n. 2 del 1911. 18 § 78A (2), Design Act n. 2 del 1911. 19 S.CChaudhuri,, TThe WTOWTO and India’s Pharmaceuticals Industry: Patent, Protection, Trips and Developing Countries, Oxford, 2005, p.128-132. 20 S. Ragavan, Of the Inequals of the Uruguay Round, in Marquette Intell. Prop. L. Rev., 10, 2006, pp.273-301:“when India became independent, the pharma‑ ceutical sector was dominated by multinational companies.”; S. K. Sahu, Technology Transfer, Dependence, and Self-Reliant Development In The Third World: The Pharmaceutical And Machine Tool Industries In India, Praeger 1998.“[a]lthough the foundation of the modern pharmaceutical industry was laid in 1901 with the 21 V. Sripati, Human Rights in India. Fifty Years After Independence, in Denver J. of Int. L. and Policy, 26, 1997, pp.93-136. 22 N. Rajagopala Ayyangar, Report On The Revision Of The Patents Law, Settembre 1959. 23P. S. Narayanan, Intellectual Property Law in India, Gogia Law Agency, 1, Hyderabad 2005, p.64. 24 S.Krishnaswamy, Intellectual Property and India’s Development Policy, in The Indian J. of L. and Tech., 1, 2005. F O R E N S E m a r z o • a p r i l e decisione in merito alla possibilità di vietare la concessione di brevetti indiani a stranieri o di ammetterla a condizione che tali brevetti avessero un’applicazione industriale in India; stabilire se aderire o meno alle convenzioni internazionali sulla proprietà intellettuale, quali la Convenzione di Parigi. Venne istituito il “Drug Price Control Orders” (DPCO) per il controllo dei prezzi, onde assicurare l’accesso ai farma‑ ci 25, che provvedeva a pubblicare una lista dei farmaci essen‑ ziali con un largo volume di vendita, stabilendone un prezzo ragionevole, tenendo conto della copertura dei costi dei mate‑ riali, formulazione, imballaggio, distribuzione ed assicurando contemporaneamente un margine di profitto ragionevole. In particolare, il prezzo dei farmaci essenziali veniva fis‑ sato in modo da assicurare un margine del 75% tenendo conto dei vari costi di produzione per la casa farmaceutica; il margine per i farmaci non essenziali veniva fissato nel 150%. Dopo dieci anni ed un lungo dibattito parlamentare en‑ trava finalmente in vigore il 20 aprile 1972 l’Indian Patents Act del 1970. Caratteristica peculiare della normativa brevettuale india‑ na del 1970 è stata l’abrogazione della brevettabilità dei prodotti farmaceutici 26. Dunque, a partire dal 1970 l’innovazione farmaceutica è stata protetta solo attraverso brevetti di metodo o processo soggetti ad un termine di sette anni dalla data di concessione del brevetto27, differentemente da tutti gli altri brevetti di processo dove il termine era di quattordici anni. L’india optava, pertanto, per un sistema debole di tutela della proprietà industriale al fine di promuovere la crescita di aziende farmaceutiche locali. Si prevedeva, inoltre, una sorta di compulsory licensing che il governo esercitava selezionando di volta in volta l’azien‑ da farmaceutica nazionale deputata a produrre un determi‑ nato farmaco, ricompensando il detentore del brevetto con esigue royalties. Solo la produzione locale avrebbe validato l’uso effettivo del brevetto: veniva assegnato un termine triennale al titolare del diritto di brevetto per esercitare il suo diritto attraverso la produzione locale. Nella duplice ipotesi in cui in cui al termine di tale perio‑ do il farmaco non fosse stato disponibile o fosse stato dispo‑ nibile ad un prezzo non accessibile, il Governo indiano avrebbe ritenuto non soddisfatto l’interesse pubblico e avreb‑ be di conseguenza concesso una licenza obbligatoria. Qualora, poi, decorsi due anni dalla concessione della li‑ cenza obbligatoria il farmaco non fosse stato ancora disponi‑ bile il governo avrebbe revocato il brevetto per difetto di uso satisfattivo. Escludendo con il Patent Act del 1970 la brevettabilità dei prodotti farmaceutici, l’India riusciva in breve tempo a svi‑ luppare una potente industria di generici, diventando leader mondiale nel settore di alta qualità di fabbricazione di farma‑ ci generici. Essendo, infatti, ammissibili solo brevetti di processo, a 25 The Drugs Control Act, n. 26, 1950. 26 Sez. 5 Patent Act n. 39/70. 27 §53 (a). 2 0 1 3 137 partire dal Patent Act del 1970 le aziende locali avevano la possibilità di copiare le molecole sviluppate dalle multinazio‑ nali farmaceutiche, e dunque, lavorando sulla base del cd. “reverse engineering”, immettere sul mercato farmaci generi‑ ci o versioni meno costose dei farmaci brevettati. In tale periodo, la rapida crescita delle industrie locali farmaceutiche era connessa alla produzione di farmaci gene‑ rici, ma non corrispondeva alla crescita di investimenti in ri‑ cerca e sviluppo. Completamente differente è stato l’approccio indiano alla questione brevetti a partire dal 1986 (cd. periodo della globa‑ lizzazione): la partecipazione dell’India ai dibattiti sull’inclu‑ sione di una proprietà intellettuale nel quadro del GATT e la sua entrata nel l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), nonché la sua adesione alla Convenzione di Parigi per la Protezione della proprietà industriale e al Trattato di cooperazione sui brevetti hanno avuto un influsso notevole sul sistema brevettuale indiano28. In particolare, l’India aderiva all’Uruguay Roud Agree‑ ments il 15.04.1994 e ne diventava membro effettivo in data 01.01.1995. Da tale adesione ne sono derivate riforme che hanno cam‑ biato radicalmente il sistema dei brevetti 29. Tre sono le riforme che progressivamente hanno modifi‑ cato l’impianto della legge del 1970: a) il Patents (Amendment) Act 17/1999 entrato in vigore con efficacia retroattiva al 1° gennaio 1995; b) il Patents (Amendment) Act 38/2002 entra‑ to in vigore il 20 maggio 2003; c) il Patents (Amendment) Act 15/2005 ora in vigore. Con la l. 17/199930 l’India introduceva il primo pacchetto di norme per consentire l’entrata in vigore della regolamenta‑ zione in materia di brevetti prevista dall’accordo TRIPS31. Occorre in primis tenere presente che ai sensi dell’art.65 dell’Accordo TRIPS l’India beneficiava di un lasso di tempo decennale decorrente dall’entrata in vigore dello stesso per implementale la protezione brevettuale dei prodotti farmaceu‑ tici, adempiendo gli obblighi assunti a livello internazionale nel seccore chimico-farmaceutico32. In conformità con suddetto un regime transitorio33veniva, dunque, istituita una “mailbox” per garantire protezione alle richieste di brevetto di prodotto farmaceutico, che venivano archiviate in attesa di essere esaminate al termine di suddetto periodo che durava dieci anni (dal 01.01.95 al 31.12.04). Il Trips prevedeva, inoltre, qualora la richiesta di brevetto 28 R. Wendt, TRIPs in India: an Analysis of WTOs Impact on the Political Proc‑ ess in India and the Wider Institutional Settings in the Indian Society, Roskilde Univ.1999 . 29 R. Otten, The GATT/TRIPS Agreement and Health Care in India, in Nat. Med. J. of India, 8, 1995, pp.1-3; E. Henderson, TRIPS and the Third World: the Example of Pharmaceutical Patents in India, in Eur. Intell. Prop. Rev., 19, 1997, pp. 651-663. 30 Patents (Amendment) Act, n. 17 del 1999. 31 J. Sen, Negotiating the TRIPs Agreement, India’s Experience and some Do‑ mestic Policy Issues, Centre for International Trade, Economics and Environ‑ ment, Jaipur India 2001. 32 P. Banerjee, Beyond the Transition Phase of World Trade Organisation: An Indian Perspective on Emerging Issue, New Delhi, Academic Foundation, 2006; J. Chaise, Ensuring The Conformity of National Law with World Trade Or‑ ganization Law: India as a Case Study, Centre Sciences Humaines Occasional, New Delhi 2005. 33 Art.70.9 TRIPs. internazionale Gazzetta 138 D i r i t t o I n t e r n a z i o n a l e di prodotto presentasse specifici requisiti34, che durante il periodo di transizione, il governo indiano potesse riconoscere un Exclusive Marketing Rights (Emrs), ossia un diritto esclu‑ sivo di commercializzazione (diritto esclusivo di vendita o distribuzione) per la durata massima di cinque anni dalla data del deposito della richiesta di brevetto nella mailbox35. Nel novembre 2001 venne adottata la Dichiarazione di Doha sull’accordo TRIPs e la salute pubblica 36 , con l’obietti‑ vo di negoziare interpretazioni chiarificatrici circa la flessibi‑ lità che gli Stati possono esercitare nel dare applicazione tramite leggi nazionali alle disposizioni dell’accordo Trips, fornendo elementi di chiarezza sui presupposti ed i limiti del compulsory licensing e della liceità dell’importazione paral‑ lela. In tale prospettiva, la Dichiarazione di Doha sembra con‑ fermare la circostanza che gli accordi TRIPs non possono e non devono impedire ai governi degli Stati membri di agire a protezione della salute pubblica, in particolare per i paesi più poveri e con i tessuti sociali più esposti ad emergenze sanita‑ rie. Il Patent (amendment) Act 2002 entrato in vigore il 25 giugno 2002 fu il secondo intervento legislativo volto a con‑ formare la normativa indiana all’accordo Trips, estendendo la tutela brevettuale per un termine ventennale37. Un altro aspetto rilevante dell’emendamento del 2002 è dato dal formale riconoscimento nella legislazione indiana sui brevetti dell’adesione ai due trattati internazionali principali della proprietà intellettuale, facenti capo alle Nazioni Unite e all’organizzazione mondiale della proprietà intellettuale (WTO).38 Occorre, infatti, tenere presente che, in quanto obbligata a conformarsi all’accordo TRIPs, l’India ha modificato la sua legislazione in linea con le disposizioni della Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale, entrata in vigore in India il 7 dicembre, 1998. A partire da tale avvenimento, l’India ha dovuto attener‑ si al principio nazionale di parità trattamento, che vieta il trattamento discriminatorio dei candidati stranieri 39, così come ha dovuto prevedere il relativo diritto di priorità, che permette gli stranieri che precedentemente hanno depositato una richiesta di brevetto nei loro Paesi d’origine la stessa in‑ venzione in India mantenendo la priorità40. Inoltre il 7 dicembre 1998, l’India ha aderito al Trattato di cooperazione sul brevetto (Patent Cooperation Traty). In recepimento dell’art. 27 TRIPs, si introduce nella legi‑ slazione sui brevetti indiana una significativa riformulazione 34 § 24 Patent Act n. 39/70. 35 Art. 70.9 TRIPs. 36 J. T. Gathi, The Doha Declaration on TRIPS and Public Health under the Vienna Convention of the Law of Treaties, 15, in Harv. J. L. & Tech. 2002, pp. 292-308; T. Kongolo, TRIPS, the Doha Declaration and Public Health, in J. World Intell. Prop., 2003, p. 373; . Correa, Implementation of the WTO General Council Decision on Paragraph 6 of the Doha Declaration on the TRIPs Agreement and Public Health, WHO, Geneva, 2004, p.10. 37 §27, Patents (Amendment) Act, No. 38/2002. 38 § 3(b), Patents (Amendment) Act, n.38 del 2002, che introduce la definizione di “convention country”; id. § 3(e) che introduce la definizione di “internatio‑ nal application”; id. § 3(k) che introduce la definizione di “Patent Cooperation Treaty”; §§ 6, 8(b), 58(c). 39 Art.2, Paris Convention for the Protection of Industrial Property. 40 art. 4 TRIPs. Gazzetta F O R E N S E in senso estensivo: posto che ai sensi del I co. dell’art. 27 TRIPs “possono costituire oggetto di brevetto le invenzioni, di prodotto o di procedimento, in tutti i campi della tecnolo‑ gia, che siano nuove, implichino un’attività inventiva e siano atte ad avere un’applicazione industriale”, al termine “inven‑ zione” si attribuisce chiaramente il significato “nuovo pro‑ dotto”. L’enfasi sulla nozione di “nuovo prodotto” è quella che, in maniera più radicale, ispirerà la terza revisione della legi‑ slazione del 1970, ovvero il Patents (Amendment) Act 15/2005, che, recependo e specificando estensivamente la disposizione di cui all’art. 27 TRIPs (laddove fa menzione della nozione di novità’ come presupposto della brevettabili‑ tà), fa gravare sul soggetto che richiede il brevetto l’onere di provare che la sostanza o il prodotto sia nuovo e che tale novità si traduca in un miglioramento della sua efficacia no‑ ta. Il Patents (Amendment) Act 15/2005, in vigore dal primo gennaio 2005, consentendo la brevettabilità dei prodotti farmaceutici, può essere considerato un rilevante input alla promozione dell’innovazione nel settore farmaceutico in India e contemporaneamente un fattore propulsivo per la trasfor‑ mazione delle industrie di generici in compagnie innovative in ricerca in sviluppo, determinando la transizione dell’India da Paese imitatore ad innovatore 41 . Posto, inoltre, che la dichiarazione di Doha del 200142,volta a garantire la preminenza dei diritti umani rispetto a quella dei detentori dei brevetti ha lasciato gli Stati membri liberi di prevedere eccezioni alla brevettabilità dei prodotti43, la legi‑ slazione indiana in tema di proprietà intellettuale ha previsto la Sezione 3 d) che in sostanza impedisce la brevettabilità di nuove forme di sostanze già note qualora non risulti sussisten‑ te un incremento di efficacia nota. 41 Mark A. Dutz , Unleashing India’s Innovation Toward Sustainable And In‑ clusive Growth, World Bank 2007, p. 1-12; National Knowledge Commission Government of India, Innovation in India, in http://knowledgecom‑ mission .gov.in/downloads/documents/NKC_Innovation.pdf , June 2007; S. Finston, India: A Cautionary Tale on the Critical Importance of Intellectual Property Protection, in Fordham Intell. Prop. Media & Ent. L.J.,12, 2002, pp. 887-890: “lack of patent protection has eliminated any incentive for India’s best scientific minds to develop cures for tropical diseases endemic to India, or even to remain in India to work in the domestic industry”; W.A. Kaplan - R. Laing, B.Waning - L. Levison - S. Foster, Is Local Production of Pharma‑ ceutical A Way to Improve Pharmaceutical Access in Developing and Transi‑ tional Countries? Setting a Research Agenda, Boston University School of Public Health, Boston 2003; W. A. Kaplan - R. Laing, Local Production: In‑ dustrial Policy and access to medicines. An Overview of Key Concepts, Issues, and Opportunities for Future Research, The World Bank, Washington DC 2005, p.44. 42S. Bartlelt, Compulsory Licences pursuant to TRIPS Article 31 in the light of the Doha Declaration on the TRIPS Agreement and Public Health, in The J. of World Intell. Prop., 6, 2003, pp. 283-310; J. Bourgeois J – T. J. Burns, Implementing Paragraph 6 of the Doha Declaration on TRIPS and Public Health: the Waiver Solution, in The J. of World Intell. Prop., 6, 2002, pp.835864; J. T.Gathii, The Doha Declaration on TRIPS and Public Health under the Vienna Convention of the Law of Treaties, cit. p.300. 43 B. Baker, Arthritic Flexibilities for Accessing Medicines: Analysis of WTO Action Regarding Para 6 of the Doha Declaration on the TRIPs Agreement and Pubblic Health, in Ind. Int. and Comp. L. Rev., 14, 2004, pp.613-619 ; M. Ducan, WTO Decision on Implementation of Paragraph 6 of the Doha Declaration on the TRIPs Agreement and Pubblic Heath: A solution to the Access to Essential Medicines Problem?, in J. of Int. Ec. L., 7, 2004, p.73. F O R E N S E m a r z o • a p r i l e 3. Concetto di incremento di efficacia Costituendo la sez. 3 d) dell’Indian Patent Act una pre‑ visione normativa sui generis, posto che non si riscontra in nessun altro regime brevettuale l’adozione del requisito dell’in‑ cremento dell’efficacia nota per ammettere la brevettabilità di implementazioni di prodotti, appare fondamentale focalizza‑ re l’attenzione sul concetto di incremento di efficacia nota (“enhancement of known efficacy”) . Ai sensi del dettato legislativo non è da ritenersi un’inven‑ zione ed è dunque esclusa dalla brevettabilità “ la mera sco‑ perta di una nuova forma di una sostanza nota che non presenti un incremento dell’efficacia nota o il mero uso di un processo noto, macchina, apparato, a meno che da tale pro‑ cesso noto non ne derivi un nuovo prodotto o nuovo impie‑ go”. La nota esplicativa chiarisce che “sali, esteri, eteri, poli‑ morfi, metaboliti, forma pura, particelle, isomeri, miscele di isomeri complessi, combinazioni ed altri derivati di sostanze note saranno considerate come la stessa sostanza, salvo che presentino una differenza significativa nelle proprietà con riferimento all’efficacia” Il requisito dell’“incremento dell’efficacia nota” di cui alla sez. principale e la “differenza significativa nelle proprie‑ tà con riferimento all’efficacia” di cui alla nota esplicativa hanno determinato l’insorgere di un contrasto esegetico, de‑ lineandosi sul punto due orientamenti antitetici. Il dibattito trae origine dalla circostanza che non sembra evincersi chiaramente dalla formulazione testuale se il con‑ cetto di incremento dell’efficacia nota debba riferirsi solo all’efficacia terapeutica o se, al contrario, vada interpretato in un significato più ampio, riferendosi a qualsiasi vantaggio derivante dall’implementazione di una sostanza nota come es. l’aumento della biodisponibilità. 3.1 (Segue):implicazioni sul sistema globale L’indagine in merito alla duplice interpretazione del requi‑ sito dell’incremento dell’efficacia nota richiesto dalla 3 d) dell’Indian Patent Act appare, dunque, necessaria al fine di tentare di fornire una risposta alla questione inerente all’esat‑ ta portata di questa normativa innovativa. In specie, secondo un primo e più condivisibile orienta‑ mento 44, rendendo brevettabili solo quei derivati di prodotti che presentino un incremento di efficacia rispetto quella già nota, la sezione 3 d) dell’Indian Patent incentiverebbe lo svi‑ luppo sequenziale dei prodotti (cd.incremental innovation), in modo da soddisfare meglio i bisogni della salute pubbli‑ ca. Si mirerebbe, pertanto, attraverso siffatta previsione legi‑ slativa a prevenire l’evergreening45dei brevetti e ad incoraggia‑ 44 Tale orientamento appare in linea con i dibattiti parlamentari. Mashelkar Committee, Report of the Technical Expert Group on Patent Law Issues,1-56, 2006. 45 A. Ramanujan- R. Sen, Pruning the Evergreen Tree or Tripping up Over TRIPS? Section 3(d) of the Indian Patents Act, 1970, in Int’l Rev. Intell. Prop. e Competition L., 41, 2010, pp 170-186; S. Basheer, Limiting the Scope of Pharmaceutical Patents and Micro-organisms: A TRIPS compatibility Review, Intellectual Property Institute, London 2005, p.166; R. Feldman, Rethinking Rights in BioSpace, in S. Cal. L. Rev., 79, 2005, p. 30; A.B. Engelberg, Special Patent Provisions for Pharmaceuticals: Have they Outlived Their Usefulness?, in Idea, 39, 1999, p.389. 2 0 1 3 139 re l’innovazione in un settore quale è quello farmaceutico in cui, a causa dei vari interessi in gioco, appare necessario as‑ sicurare che tutela brevettuale venga concessa per prodotti realmente innovativi e non sia volta unicamente a garantire un monopolio (che si tradurrebbe esso stesso in un fattore contro R&D e dunque contro il diritto fondamentale alla salute). Rendendo la brevettabilità dei prodotti farmaceutici se‑ condari più onerosa che negli altri campi, la sez.3 d) assurge‑ rebbe a fattore propulsivo per case farmaceutiche ai fini della ricerca di nuove formulazioni di sostanze già oggetto di bre‑ vetto, in grado di apportare reali vantaggi terapeutici al consumatore finale. Ne discende che la protezione brevettuale indiana mira a garantire l’accesso ai farmaci, potenziando al contempo il ruolo dei brevetti come incentivo nel campo della R&D46, in linea con quanto sancito dalla dichiarazione di Doha, a teno‑ re della quale l’accordo TRIPs può e deve essere interpretato nel senso di sostenere il diritto degli Stati aderenti alla salva‑ guardia della salute pubblica. Per contro, si ravvisa l’opinione di quanti hanno eviden‑ ziato che, pur apparendo comprensibile l’esigenza di evitare che i derivati di prodotti farmaceutici privi di novità o di salto inventivo, ottengano protezione brevettuale, appare di‑ scutibile che ciò venga perseguito attraverso l’introduzione di un nuovo ed aggiuntivo requisito non previsto dall’Accordo TRIPS. A tenore di siffatta impostazione il requisito dell’incremen‑ to dell’efficacia richiesto per la concessione di brevetti farma‑ ceutici secondari sarebbe espressione della riluttanza dell’In‑ dia per l’innovazione incrementale e si tratterebbe sostanzial‑ mente di un espediente legislativo per continuare ad incremen‑ tare la produzione di generici in India. Proprio muovendo da tali argomentazioni, nel 20009 una relazione47 pubblicata da U.S.-India Business Council (USI‑ BC) and the Coalition for Healthy India (CHI) faceva appel‑ lo al governo indiano di concedere brevetti per le innovazioni incrementali e auspicava l’abolizione della sezione 3 d dell’In‑ dian Patent Act, essendo l’India l’unico paese nel mondo che escluderebbe, secondo tale orientamento, l’intera categoria delle innovazioni farmaceutiche incrementali dalla brevetta‑ bilità. Le implicazioni derivanti dall’adesione all’una o all’altra 46 A. B. Jaffe - J.Lerner, Innovation and its Discontents: How Our Broken Pat‑ ent System is Endangering Innovation and Progress and what to do about it, London 2004, p. 35; S. Chaudhuri,Is Product Patent Protection Necessary in Developing Countries for Innovation: R&D by Indian Pharmaceutical Com‑ panies After TRIPS, Indian Inst. of Management, Kolkotta, Working Paper n. 614, 2007, p.15; D. Gevais, Intellectual Property, Trade & Development: the State of Play, in Fordham L. R., 74, 2005 p. 505; J.A. Di Masi, The Price of Innovation: New Estimates of Drug Development Costs, in J. Health Econ., 22, 2003 p-151; R. Lenton – A. M. Wright - K. Lewis, Health, Dignity, and Development: What will it take?, London 2005; Kang M., Trade policy mix under the WTO: protection of TRIPS and R&D subsidies, Korea Institute for International Economic Policy, 2000; M. Morgan, Medicines for the Develop‑ ing Word: Promoting Access and Innovation in the Post-TRIPs Environment, in University of Toronto Faculty Law Review, 64, 2006, p. 45;S. Chandran, Implications of New Patent Regime on Indian Pharmaceutical Industry: Chal‑ lenges and Opportunities, in J. Int. Prop. Rts., 10, 2005, p. 269. 47 US India Business Council, The value of incremental Pharmaceutical Innova‑ tion : Benefits for Indian Patients and Indian Business, in http://www.indiaen‑ vironmentportal.org.in/files/USIBCIncrementalInnovationReportFinal.pdf, giugno 2009. internazionale Gazzetta 140 D i r i t t o I n t e r n a z i o n a l e tesi sono rilevanti, incrementando o riducendo la distanza rispetto agli altri sistemi brevettuali mondiali in cui non è prevista una disposizione analoga alla sez. 3 d). Sembra, infatti, evidente che, qualora il requisito dell’in‑ cremento dell’efficacia nota dovesse essere interpretato in un significato restrittivo come incremento di efficacia terapeuti‑ ca, diventerebbe più complesso ottenere in India un brevetto farmaceutico secondario, non essendo ad es. sufficiente la dimostrazione dell’aumento della biodisponibilità del prodot‑ to, ma essendo necessario altresì la dimostrazione che da siffatto incremento della biodisponibilità ne discenda un be‑ neficio per il paziente in termini di efficacia terapeutica. Diversamente opinando, ove si dovesse ritenere sufficien‑ te ai fini dell’integrazione di siffatto requisito qualsiasi van‑ taggio derivante dall’implementazione di una sostanza nota, potrebbe essere sufficiente ad es. l’incremento della biodispo‑ nibilità del prodotto, senza che sia necessaria la dimostrazio‑ ne che da esso ne discenda l’incremento dell’efficacia terapeu‑ tica. Appare chiaro che questa seconda interpretazione del re‑ quisito dell’incremento dell’efficacia ridurrebbe le distanze con gli altri sistemi brevettuali nel mondo, dove non è prevista una normativa come la sez. 3 d) dell’Indian Patent Act. Tale sarebbe senz’altro l’interpretazione più compatibile in una prospettiva globale, ma per vero non sembra essere quella seguita dall’ufficio brevetti indiani né dalle corti india‑ ne, che stanno adottando un’interpretazione restrittiva del requisito dell’incremento di efficacia come incremento dell’ef‑ ficacia terapeutica. Emblematico è il caso 48 da cui trae origine la sentenza in commento, che ha avuto una risonanza mediatica notevole, vedendo scontrarsi gli interessi economici delle multinaziona‑ li con politica indiana di accesso ai farmaci e di potenziamen‑ to dell’industria dei generici49. 3.2 Il caso di specie Il 17 luglio 1998 la multinazionale farmaceutica svizzera Novartis AG presentava all’ufficio brevetti di Madras una richiesta di brevetto per un proprio prodotto, l’imatinib me‑ sylato, ingrediente attivo del farmaco anti-tumorale Glivec utilizzato per il trattamento negli stadi avanzati della leucemia mieloide cronica. In particolare, l’imatinib mesilato appartiene ad una ca‑ tegoria di nuovi farmaci, detti “a bersaglio”, “target specifi‑ co” o “biologici” o ancora “intelligenti” per la loro strategia mirata, utilizzata per colpire selettivamente le cellule tumo‑ rali. Nel gennaio 2006 l’Ufficio brevetti indiano negava la concessione del brevetto sostenendo che non rientrasse nei parametri di cui alla sez. 3d della Legge Indiana sui brevet‑ ti. 48 Novartis AG v Natco Pharma and Others, Indian Patent Office, Application No.1602/MAS/1998. 49 S.Basheer - T.P.Reddy, Ducking TRIPS in India: A Saga involving Novartis and the legality of Section 3(d)”, in Nat. L. School of India Rev., 20, 2008, pp.232-266; T. Gerherdsen, Novartis Persists with Challenge to Indian Patent Law Despite Adversity, in Intell.Prop.Watch, 2006, p.143; J.M. Mueller, Taking Trips to India - Novartis, Patent Law, and Access to Medicines, the New Engl. J. of Medicine, 2007, p.541; J.M. Mueller, Taking Trips to India - No‑ vartis, Patent Law, and Access to Medicines, the New Engl. J. of Medicine, 2007, p.541. Gazzetta F O R E N S E In specie si riteneva che le forme cristalline dell’imatinib mesylate non differivano nelle proprietà riguardo all’efficacia e perciò le varie forme di imatinib mesylate dovessero essere considerate “la medesima sostanza ai sensi della sez.3 (d) della Legge di brevetti. Tali argomentazioni erano basate sul fatto che alla multi‑ nazionale farmaceutica Novartis era già stato concesso un brevetto nel 1993 per la molecola attiva e che la nuova richie‑ sta di brevetto ineriva solo alla specifica forma cristallina. Le forme cristalline di imatinib mesylate non differivano significativamente nelle proprietà riguardo all’efficacia, non venendo ritenuto sufficiente ai fini della dimostrazione dell’in‑ cremento di efficacia rispetto al prodotto noto l’aumento di 30% della biodisponibilità. L’ufficio brevetti indiano ha ritenuto il Glivec solo una nuova formulazione di una sostanza nota, essendo basato su un principio attivo, l’imatinib mesilato, già brevettato in In‑ dia. La seconda versione non veniva, dunque, ritenuta suffi‑ cientemente distinta dalla prima, ai sensi della sezione 3 d). 3.3 Posizione attorea Muovendo dall’assunta incompatibilità della sez. 3 d) della normativa sui brevetti indiana come novellata nel 2005 con le previsioni dell’accordo TRIPS50 nonché dalla sua inco‑ stituzionalità51 la casa farmaceutica Novartis, a fronte del diniego di brevetto 52 in relazione alla forma cristallina dell’imatinib mesilato, intentava un causa53 contro il governo indiano54 per opporsi al diffondersi della versione generica del farmaco. La multinazionale farmaceutica a sostegno dell’asserita innovatività del prodotto, respingendo ogni addebito in tema di diniego di accesso ai farmaci, sottolineava in giudizio la circostanza che ai sensi dell’art.27 dell’accordo TRIPs “pos‑ sono costituire oggetto di brevetto le invenzioni, di prodotto o di procedimento, in tutti i campi della tecnologia, che siano nuove, implichino un’attività inventiva e siano atte ad avere un’applicazione industriale”55 . In particolare, le censure addotte dalla casa farmaceutica avverso la sezione 3d) erano essenzialmente tre. Innanzitutto si evidenziava che tra le eccezioni alla bre‑ vettabilità di cui all’articolo 27 del TRIPs non figurasse il difetto dell’incremento di efficacia delle nuove forme di so‑ stanze note (new forms of known substances lacking enhan‑ ced efficacy), così come previsto dalla legge indiana. In secondo luogo, muovendo dalla premessa secondo cui l’accordo TRIPs contempla un espresso divieto in capo ai 50 A. Gentleman, Novartis Files Suit against India Ruling on Drug Patents, in Int. Herald Trib., 2007, p.13. 51In specie veniva sollevata l’eccezione d’incostituzionalità della sez. 3 d in rela‑ zione all’art. 14 della costituzione Indiana, entrata in vigore il 26/01/50 e da ultimo novellata in data 01.12.07. 52 Novartis AG v Natco Pharma and Others, Indian Patent Office, Application n.1602/MAS/1998 , 25 gennaio 2005. 53 Novartis AG & Anr. v Union of India & Others, 4 High Court of Judicature at Madras (MLJ), 2007 1153. 54 S. Basheer, T – P.Reddy, A Saga involving Novartis and the legality of Section 3 (d), 20 (2) cit. p.235; S. Basheer, India’s Tryst with TRIPS: The Patents (Amendment) Act, 2005, in Indian J. of L.and Tech., 2005 pp. 30-43. 55 K D. Raju, The Debacle of Novartis Patent Case in India: Strict Interpretation of Patentability Criteria Under Article 27 of the Trips Agreement, in Indian J of Intell. Prop. L., 2008, p.1. F O R E N S E m a r z o • a p r i l e Paesi aderenti di rendere maggiormente oneroso la concessio‑ ne di un brevetto in un settore piuttosto che in un altro, se ne faceva discendere la contrarietà allo stesso della sezione 3 d), laddove veniva introdotto un requisito aggiuntivo solo per i prodotti farmaceutici. Infine si evidenziava che il concetto di incremento di effi‑ cacia nota di cui alla sez. 3 d) dell’Indian Patent Act si pre‑ stava ad interpretazioni arbitrarie, non ravvisandosi linee guida o parametri obiettivi di riferimento. 3.4 Posizione del governo indiano Come emerso dall’istruttoria dibattimentale, invece, se‑ condo il governo indiano la normativa brevettuale indiana come riformulata con la L. 15/2005 recepirebbe in pieno le clausole dell’accordo TRIPs sfruttando le flessibilità, di gui‑ sa che le censure avverso la sezione 3 d) apparirebbero del tutto infondate, fondandosi siffatta previsione normativa sulla dichiarazione di Doha ed avente come obiettivo primario la tutela della salute pubblica. La Dichiarazione di Doha ha, infatti, previsto che l’accor‑ do TRPS “può e deve essere interpretato implementato in modo da sostenere il diritto dei Paesi membri di proteggere la salute pubblica e, in particolare, di promuovere l’accesso ai farmaci per tutti”. Secondo il governo indiano la sezione 3 d) è stata inserita proprio per promuovere l’accesso ai farmaci, favorendo la concorrenza fra prodotti brevettati e farmaci generici. In particolare, la sez. 3 d) predispone un vero e proprio test in base al quale l’ufficio brevetti è tenuto a valutare se una determinata sostanza costituisca realmente una nuova inven‑ zione (sebbene derivata da un farmaco precedentemente brevettato), aprendo così la strada all’estensione del godimen‑ to dei diritti di sfruttamento della proprietà intellettuale. 4. La pronuncia della Corte Suprema Indiana La Corte Suprema Indiana nel caso de quo si è pronuncia‑ ta proprio in merito al significato e all’esatta portata della sez. 3 d) dell’Indian Patent Act, chiarendo il rapporto intercorren‑ te tra il requisito dell’incremento dell’efficacia della sostanza nota richiesto per la brevettabilità dei prodotti farmaceutici ed i classici requisiti di brevettabilità di un prodotto (innova‑ tività, non ovvietà ed applicabilità industriale) di cui alla sez. 2. A parere dell’organo giudicante, posto che la sez. 3) d va intesa come previsione normativa ex majore cautela ai fini della prevenzione dell’abuso della tutela brevettuale nel setto‑ re chimico-farmaceutico, è ben possibile che un prodotto chimico-farmaceutico, pur rientrando in astratto nell’ambito di operatività della sez. 2 dell’Indian Patent Act, possedendo i requisiti di innovatività, non ovvietà ed applicabilità indu‑ striale, si veda poi in concreto negare la brevettabilità laddo‑ ve non risulti all’esito dell’istruttoria dibattimentale soddisfat‑ to l’onere probatorio posto a carico del patent applicant di dimostrazione della sussistenza del requisito dell’incremento dell’efficacia terapeutica derivante dall’innovazione. Nel caso de quo, la Suprema Corte è stata, dunque, chia‑ mata a trovare un giusto contemperamento tra l’esigenza di promuovere la ricerca e lo sviluppo scientifico tecnologico e quella di ridurre al minimo il monopolio brevettuale, tenendo in considerazione le istanze antitetiche di quanti evidenziava‑ 2 0 1 3 141 no la necessità che l’India dia fedele esecuzione agli impegni assunti nell’ambito dei trattati internazionali, dall’altro gli argomenti di segno opposto volti ad evidenziare lo status assunto dall’India quale “farmacia del mondo”, tenendo ben presente che una pronuncia errata avrebbe potuto relegare i farmaci salva vita fuori dalla portata della maggior parte della popolazione, non solo di quella indiana ma anche di tutti i Paesi in via di sviluppo e Paesi sotto-sviluppati impor‑ tatori di farmaci generici dall’India. Attraverso una breve ricostruzione del quadro storico, contestualizzando il caso di specie in una prospettiva diacro‑ nica, la corte evidenzia che la domanda di brevetto oggetto di causa era stata presentata nel 1998, periodo in cui vigeva la cd. “mail box-procedure”, antecedentemente alla novella del Patent Act intervenuta nel 2005, che per rendere il sistema brevettuale indiano conforme ai termini dell’accordo Trips ha da un lato introdotto la brevettabilità dei prodotti farmaceu‑ tici, ma ha altresì previsto la necessità della sussistenza del requisito dell’incremento di efficacia rispetto alla sostanza nota ai fini della brevettabilità di un’innovazione incremen‑ tale relativa ad un prodotto farmaceutico. A parere della Corte, per una corretta soluzione ermeneu‑ tica della questione, occorre muovere dalla ratio della riforma del 2005, dovendosi ritenere che un’interpretazione teleologi‑ ca della sez. 3 d) dell’Indian Patent Act debba prevalere su quella letterale. Fungono da ausilio sia indici esterni, quali ad es. oggetto e motivazioni del disegno di legge presentato al Parlamento, relazioni delle commissioni che hanno preceduto il progetto di legge e le relazioni delle commissioni parlamentari, che indici interni, ossia il preambolo, il regime giuridico e le sin‑ gole disposizioni della legge sui brevetti. Proprio ai fini di una corretta comprensione dell’attuale formulazione della sez. 3 d) dell’Indian Patent Act, come novellato nel 2005, delle motivazioni e degli obiettivi di tale scelta legislativa nonché delle modalità attraverso cui si per‑ seguono siffatte finalità, la Corte ha, dunque, effettuato un breve excursus storico del sistema dei brevetti indiano, evi‑ denziandone le tappe fondamentali e sottolineando l’impor‑ tanza dell’adesione dell’India all’accordo Trips, anche attra‑ verso la citazione di autorevole dottrina sul punto56che ha affrontato la tematica dell’ascesa dell’industria farmaceutica indiana all’indomani dell’accordo TRIPs. Nella parte seguente della sentenza la corte indiana evi‑ denzia poi come il legislatore indiano si sia fatto carico della preoccupazioni evidenziate dalle due più grandi organizzazio‑ ni sanitarie internazionali (Organizzazione Mondiale della Sanità e medici senza frontiere) che la previsione di una tu‑ tela brevettuale per i prodotti farmaceutici, agricoli, chimici avrebbero potuto comportare l’effetto di mettere i farmaci salvavita fuori della portata di una fascia molto ampia della popolazione. Giova sul punto considerare che l’India assurge a leader‑ ship nella produzione ed esportazione di farmaci generici antiretrovirali, utilizzati nella lotta all’HIV E AIDS nei Paesi in via di sviluppo. 56 S. Chaudhuri, The WTO and India’s Pharmaceuticals Industry (Patent Protec‑ tion, TRIPS and Developing Countries), cit. internazionale Gazzetta 142 D i r i t t o I n t e r n a z i o n a l e L’opinione della corte è che la normativa sui brevetti in‑ diana, in linea con l’armonizzazione del sistema dei brevetti operato a livello mondiale dall’accordo TRIPs, cerca di bi‑ lanciare gli obblighi discendenti dall’adesione al trattato in‑ ternazionale con l’impegno di proteggere e promuovere la salute pubblica non solo della popolazione indiana, ma anche di paesi in via di sviluppo e sottosviluppati. Proprio a tal fine avrebbero mirato gli emendamenti ap‑ portati rispettivamente nel 1999, 2002 e 2005 al Patent Act del 1970. Del resto la dichiarazione di Doha del 2001 aveva sotto‑ lineato che l’accordo TRIPs può e deve essere interpretato ed applicato in modo da sostenere il diritto dei membri dell’or‑ ganizzazione mondiale della sanità di proteggere la salute pubblica e, in particolare di promuovere l’accesso ai farma‑ ci. La novella del 2005, in specie, si pone nell’ottica della prevenzione del fenomeno dell’evergreening dei prodotti far‑ maceutici e della promozione dell’innovazione incrementale nel settore chimico-farmaceutico. Esaminate le ragioni sottese alla scelta legislativa e le modalità attraverso cui si è perseguito l’obiettivo di confor‑ mare la legislazione brevettuale indiana con gli obblighi as‑ sunti a livello internazionale discendenti dell’adesione all’ac‑ cordo TRIPs, nel tentativo di trovare un giusto contempera‑ mento tra la necessità di garantire l’accesso ai farmaci a tutti a prezzi contenuti e quella di incentivare le industrie locali attraverso una politica di promozione della ricerca e dell’in‑ novazione, la corte procede poi ad un’esegesi del dato norma‑ tivo alla luce di tali considerazioni. La Suprema Corte indiana ha, infatti, chiarito che, ai fini della brevettabilità di prodotti chimico-farmaceutici costi‑ tuenti una nuova forma di una sostanza già oggetto di tutela brevettuale, è necessario che risulti in concreto integrato il requisito dell’incremento dell’efficacia nota di cui alla sez. 3 d) dell’Indian Patent Act, in aggiunta ai tre requisiti classici della novità, non ovvietà ed applicabilità industriale di cui alla sez. 2 (j) e (ja). La sez. 3 d) va, pertanto, intesa come previsione normati‑ va ex majore cautela ai fini della prevenzione dell’abuso della tutela brevettuale nel settore chimico-farmaceutico. Per quanto concerne il requisito dell’incremento dell’effi‑ cacia nota di una sostanza già oggetto di tutela brevettuale ex sez. 3 d) dell’Indian Patent Act, va inteso come efficacia terapeutica in un’accezione restrittiva e rigorosa, di guisa che il semplice cambiamento di forma di un prodotto (con il ri‑ scontro di proprietà inerenti a suddetta forma) non integra il requisito dell’incremento di efficacia della sostanza nota57. Grava pertanto a carico del patent applicant l’onere di dimostrare l’incremento dell’efficacia nota di una sostanza già oggetto di tutela brevettuale ex sez. 3 d) dell’Indian Patent Act. Non è a tal fine sufficiente la dimostrazione dell’aumento della biodisponibilità del prodotto58 (nel caso di specie del 57 § 181. 58 J. Moffitt, Appropriateness of Bioavailability and Bioavailability and Bioequiv‑ alency as Pre-Market Clearance Considerations, 34, Food Drug Cosm, L. J. 640, 1979 : “it is not the intent of a bio-availability study to demonstrate effectiveness, but to determine the rate and extent of absorption. If a drug product is not bio- Gazzetta F O R E N S E 30%), dovendosi altresì dimostrare in concreto che da siffat‑ to aumento della biodisponibilità ne derivi un incremento dell’efficacia terapeutica per il paziente, secondo un rapporto di causa-effetto59. Nel caso di specie, pertanto, si ritiene non soddisfatto l’onere probatorio di cui alla sez. 3 d), non risultando dai fatti di causa e all’esito delle risultanze istruttorie dimostrato l’incremento dell’efficacia terapeutica del nuovo prodotto. La Suprema Corte sembra, pertanto, aver preso una posi‑ zione forte in merito alla sez. 3 d) e, dopo averne chiarita, alla luce di un’interpretazione teleologica, lo scopo di preven‑ zione del fenomeno dell’evergreening dei farmaci, non nega affatto in astratto la possibilità di ottenere brevetti secondari in India, ma ritiene che in concreto debba essere provato l’incremento dell’efficacia terapeutica del nuovo prodotto di cui si chiede la brevettabilità, dovendosi dimostrare non solo una proprietà intrinseca allo stesso, ma un reale beneficio per il paziente. 5. Conclusioni L’analisi della pronuncia resa dalla Corte Suprema India‑ na sul caso Glivec, con cui per la prima volta sette anni fa si è messo in discussione il regime dei brevetti indiano, portan‑ do la sez.3 d) dell’Indian Patent Act all’attenzione della co‑ munità internazionale è apparsa fondamentale per porre l’accento sulla tematica della possibilità di ottenere brevetti secondari sui farmaci anche in un sistema in cui sembra sus‑ sistere uno sbarramento ab origine. Fondamentale appare in proposito una statuizione della Suprema Corte60, laddove si evidenzia che “si è ritenuto che la forma cristallina dell’imatinib mesylate non soddisfi l’one‑ re probatorio di cui alla sez. 3 d) della Legge sui brevetti, ma ciò non significa che la sez. 3 d) debba essere intesa come uno sbarramento alla protezione brevettuale di tutte le invenzio‑ ni incrementali chimiche e farmaceutiche. Sara un grave er‑ rore leggere questa sentenza nel senso che la sez. 3 d è stata modificata con tale intento. Ciò non viene detto in questo giudizio”. La Suprema Corte indiana sembra, dunque, aver preso una posizione inequivocabile in merito alla sez. 3 d) e, dopo aver‑ ne chiarito, alla luce di un’interpretazione teleologica, lo scopo di prevenzione del fenomeno dell’abuso della tutela brevettuale nel settore chimico-farmaceutico, non nega affat‑ to in astratto la possibilità di ottenere brevetti secondari in India. In linea di principio, pertanto, è possibile brevettare un’in‑ novazione farmaceutica incrementale anche in India, a con‑ dizione, però, che risulti in concreto integrato il requisito dell’incremento dell’efficacia terapeutica del nuovo prodotto ottenuto dallo sviluppo di uno già coperto da tutela brevet‑ tuale. L’esito interpretativo cui è pervenuta la corte sembra di‑ mostrare l’assunto secondo cui la legge sui brevetti indiana, come novellata nel 2005, recepisca in pieno clausole dell’ac‑ cordo TRIPs sfruttandone le flessibilità. available, it cannot be regarded as effective. However a determination that a drug product is bio-available is not in itself a determination of effectiveness”. 59 § 173. 60 § 191. F O R E N S E m a r z o • a p r i l e La vicenda giudiziaria è stata espressione della diffusa riluttanza e diffidenza mostrata nei confronti di una previsio‑ ne legislativa sui generis di difficile interpretazione per la comunità internazionale, in quanto non rientrante nel patri‑ monio comune dei sistemi brevettuali. La singolare previsione legislativa dell’Indian Patent Act di cui alla sez. 3 d), laddove subordina la brevettabilità delle innovazioni farmaceutiche incrementali alla dimostrazione dell’incremento dell’efficacia nota del prodotto della cui evo‑ luzione si tratta, è stata guardata con diffidenza nella comu‑ nità internazionale sin dal suo esordio nel panorama giuridi‑ co. Siffatto requisito di brevettabilità, infatti, non trovando corrispondenti negli altri sistemi brevettuali e imponendo in capo al patent applicant un rilevante onere probatorio, si è prestato alle critiche di quanti hanno ravvisato in esso una strategia ideata dall’India al solo fine di potenziare il mercato dei generici, scoraggiando di fatto l’innovazione incrementa‑ le nel settore farmaceutico. Attraverso un’attenta lettura della sez.3 d), improntata alla ratio della scelta legislativa, la Suprema Corte è pervenu‑ ta ad una conclusione di segno opposto, chiarendo che si tratta di una previsione volta non certo ad ostacolare l’inno‑ vazione nel settore farmaceutico, bensì a prevenire il fenome‑ no dell’evergreening dei brevetti, ossia della prassi seguita talvolta dalle case farmaceutiche di apportare minime modi‑ fiche ai farmaci per ottenere un nuovo brevetto e continuare così la produzione e commercializzazione in esclusiva. A tale esito interpretativo la Suprema Corte indiana è pervenuta nella piena consapevolezza dei vari interessi in gioco in un settore inerente al diritto alla salute, dove è evi‑ dente che da un lato deve essere garantito l’accesso ai farma‑ ci e dall’altro si avverte quotidianamente la necessità di far‑ maci innovativi in grado di apportare un reale beneficio te‑ rapeutico ai pazienti. L’equivoco in merito alla portata della sez. 3 d) e al suo esatto significato traeva probabilmente origine dalla non chiara linea di demarcazione tra il fenomeno dell’innovazione incrementale e il fenomeno dell’ingiustificata estensione di un monopolio. Indubbiamente rientra nel ruolo dell’ufficio indiano dei brevetti, nonché delle corti indiane, il compito di chiarire sempre più il significato e l’esatta portata del requisito incre‑ mento di efficacia di cui alla sez. 3 d), eliminando ogni dubbio interpretativo. Siffatto requisito potrebbe risultare eccessivo, considerato che non è previsto negli altri sistemi brevettuali e che la giu‑ risprudenza indiana, come si è sottolineato attraverso la sentenza in commento, è attualmente orientata ad interpre‑ tarlo restrittivamente, ritenendolo integrato solo nell’ipotesi in cui una nuova sostanza è caratterizzata dall’incremento dell’efficacia terapeutica del prodotto noto. Muovendo dall’assunto secondo cui il sistema dei brevet‑ ti indiano non nega in astratto la brevettabilità dell’innova‑ zione incrementale, ma richiede la sussistenza in concreto dell’incremento di efficacia nota come requisito aggiuntivo a quelli classici della novità, non ovvietà ed applicabilità indu‑ striale, occorre evidenziare che, sebbene sia più difficile otte‑ nere un brevetto secondario su un farmaco in India, la sez. 3d) va letta come un mezzo per incoraggiare lo sviluppo di 2 0 1 3 143 farmaci innovativi, in linea con quanto ritenuto dalla Suprema Corte nella pronuncia in commento. Per vero, si potrebbe sostenere che lo stesso obiettivo di incoraggiare l’innovazione incrementale si sarebbe potuto raggiungere con modalità differenti. In una prospettiva comparativa sembra interessante ac‑ cennare all’approccio americano61al requisito di brevettabili‑ tà62della non-ovvietà, come argomento a sostegno della tesi secondo cui un mezzo per prevenire l’evergreening dei farma‑ ci, in un sistema brevettuale caratterizzato dall’assenza di una previsione come la sez. 3 d) dell’Indian Patent Act, è focaliz‑ zare l’attenzione sul requisito della non-ovvietà63. Per vero, si potrebbe addivenire ad esiti interpretativi non molto divergenti rispetto a quelli cui si perviene attraverso un’interpretazione estensiva del requisito dell’incremento dell’efficacia nota di cui alla sez. 3 d), solo laddove si dovesse ritenere sufficiente per l’integrazione di siffatto requisito di brevettabilità qualsiasi vantaggio derivante dall’implementa‑ zione di una sostanza nota (come ad es. l’aumento della bio‑ disponibilità). Tale interpretazione sarebbe stata, indubbiamente, la più compatibile in una prospettiva globale, ma non sembra quel‑ la seguita dall’ufficio brevetti indiano né dalle corti indiane, che stanno, invece, adottando un’interpretazione restrittiva del significato dell’incremento di efficacia come incremento dell’efficacia terapeutica, orientamento confermato dalla sentenza in commento. Basti pensare che in una decisione64 di poco antecedente alla pronuncia de quo l’Intellectual Property Appellate Board ha revocato la concessione di un brevetto concesso alla mul‑ tinazionale Roche sull’assunto secondo cui il richiedente non ha soddisfatto l’onere della prova di cui alla sez. 3d), non avendo dimostrato che dall’implementazione del prodotto sia derivato un beneficio aggiunto per il paziente. Taluno65 aveva atteso la pronuncia della Corte Suprema 61 Pfizer, Inc. v. Apotex, 480 F.3d 1348 (Fed. Cir. 2007). 62 Patent Act of 1952, 35 U.S.C. § 103. 63 A. B. Laakmann, Restoring the Genetic Commons: A “Common Sense” Approach to Biotechnology Patents in the Wake of KSR v. Teleflex, in Mich. Telecomm & Tech. L. Rev., 14, 2007, pp.72-74; A. McTague, Secondary Pharmaceutical Patents Post-KSR: Do They Have A Future?, in Pharm. Law & Industry Rep., 6, 2008, p.15; S. P. Smith – K.R. Van Thomme, Bridge over Troubled Water: The Supreme Court’s New Patent Obviousness Standard in KSR Should Be Readily Apparent and Benefit the Public, in Alb. L.J. Sci. & Tech.17,2007, pp.204-08; J. e M. Mueller, Intellectual Property Issue: Article: Chemicals, Combinations, and Common Sense: How the Supreme Court’s KSR Decision is Changing Federal Circuit Obviousness Determina‑ tions in Pharmaceutical and Biotechnology Cases, in N. Ky. L. Rev., 35, 2008, p. 281; M. J. Meurer – K. J. Strandburg, Patent Carrots and Sticks: A Model of Nonobviousness, in Lewis & Clark L. Rev., 12, 2008, p.547; C. L. 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F..Hoffmann-La Roche AG. 65 k.Grogan, Pharma World Awaits Verdict In Novartis Vs India Patent Case, in http://www.pharmatimes.com/ article/12-12-06/pharma_world_awaits_ verdict_in_novartis_vs_india_patent_case.aspx, December 06, 2012. internazionale Gazzetta 144 D i r i t t o I n t e r n a z i o n a l e indiana sul caso Glivec di cui in commento, confidando in una differente interpretazione del requisito dell’incremento dell’efficacia, di guisa che l’innovativa sez. 3 d) avrebbe avuto un impatto meno rilevante sul sistema globale. Ma a parere dell’organo giudicante “il test dell’efficacia può essere solo quello dell’efficacia terapeutica”66. Dunque si deve ammettere che il sistema indiano rende la brevettabilità dei farmaci più difficile che negli altri sistemi brevettuali. Ciò potrebbe, indubbiamente, accrescere la produzione di generici in India, ma assurge altresì a fattore propulsivo per l’innovazione incrementale, spronando le case farmaceutiche verso la ricerca di nuove formulazioni di sostanze già oggetto di brevetto che apportino reali vantaggi terapeutici al consu‑ matore finale67, ben potendo essere concesso anche in India un brevetto secondario sui farmaci laddove risulti soddisfatto l’onere probatorio di cui alla sez. 3 d), ossia laddove dalla modifica o dall’implementazione del prodotto ne derivi un incremento dell’efficacia terapeutica per il paziente, secondo un rapporto di causa-effetto. Posto che ogni regime di tutela della proprietà intellettua‑ le solleva il problema del difficile contemperamento tra la tutela dell’invenzione e l’accesso ai farmaci,68l’esperienza in‑ diana sembrerebbe dunque mostrare come, contrariamente all’opinione diffusa, i due obiettivi non siano necessariamen‑ te antitetici69. 66 §180. 67 V.K. Unni, Indian Patent Law and TRIPS: Redrawing the Flexibility Frame‑ work in the Context of Public Policy and Health, in Global Business & Devel‑ opment Law Journal, Vol. 25, 2012, p. 342. 68 G.Shaffer, Recognizing Pubblic Goods in WTO Dispute Settlement: Who Partecipates? Who Decides? The Case of TRIPs and Pharmaceutical Patent Protection, in J. of Int. Ec. Law, 7, 2004, pp. 459-462, 2004; O. Agina, Between Life and Profit: Global Governance and Trilogy of Human Rights, Pubblic Health and Pharmaceutical Patents, in North Carolina J. of Int. L.and Comm. Regulation, 31, 2006, p.901. 69 A.Valach, TRIPs: Protecting the Rights of Patent Holders and Addressing Pubblic Health Issues in Developing Countries, in Chicago-Kent J. of Int. Prop., 4, p.156, 2005; B. Mercurio, TRIPs, Patents and Access to Life saving Drugs in the Developing World, in Marquette Intell. Prop. L. Review, 8, 2004 p.211; A. Feroz, The Law of Patents with a Special Focus on Pharmaceuticals in India, India, 2009, p.38; S. Vepachedu -M. Rumore, Patent Protection and the Pharmaceutical Industry in the Indian Union, in Intell. Prop. Today, 4, ottobre 2004, p. 3 S.B. Myers, A Healthy Solution for Patients and Patents: How India’s Legal Victory Against a Pharmaceutical Giant Reconcilies Human Rights with Intellectual Property Rights, in 10 Vanderbilt Journal of Entertain‑ ment and Technology Law, 763, 2008. Gazzetta F O R E N S E F O R E N S E ● Rassegna di diritto internazionale ● A cura di Francesco Romanelli Avvocato e Specilista in Diritto ed Economia delle Comunità europee m a r z o • a p r i l e 2 0 1 3 145 Politica sociale – Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro – Direttiva 2000/78/CE– Articoli 2, paragrafo 2, lettera a), 10, paragrafo 1, e 17 – Divieto di discriminazione fondate sulle tendenze sessuali – Nozione di “fatti sulla base dei quali si può argomentare che sussiste discriminazione” – Adattamento dell’onere della prova – Sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive – Persona che si presenta e viene percepita dall’opinione pubblica come il dirigente di una squadra di calcio professionistica – Dichiarazioni pubbliche con cui si esclude l’ingaggio di un calciatore presentato come omossessuale 1) Gli articoli 2, paragrafo 2, e 10, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che la dichiarazione di un diri‑ gente di una società sportiva professionistica circa l’esclusio‑ ne dell’ingaggio di un giocatore a causa delle di lui omoses‑ sualità possa essere qualificata alla stregua di «fatti sulla base dei quali si può argomentare che sussiste discriminazio‑ ne» per quanto riguarda una squadra di calcio professionisti‑ ca, nel caso in cui le dichiarazioni controverse provengano da una persona che si presenta ed è percepita, nei mezzi di infor‑ mazione e nella società, come il principale dirigente di tale squadra professionistica, senza che sia per questo necessario che essa disponga della capacità di vincolare o rappresentare giuridicamente tale società in materia di assunzioni. 2) L’articolo 10, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che, qualora fatti come quelli che hanno dato origine alla controversia principale siano qualificati come «fatti sulla base dei quali si può argo‑ mentare che sussiste discriminazione» fondata sulle tendenze sessuali in occasione del reclutamento dei giocatori da parte di una squadra di calcio professionistica, l’onere della prova, così come adattato dall’articolo 10, paragrafo 1, della diret‑ tiva 2000/78, non implica che la prova richiesta risulti impos‑ sibile da produrre se non a pena di ledere il diritto al rispetto della vita privata. 3) L’articolo 17 della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale – secondo cui, in caso di accertamento di una discriminazio‑ ne fondata sulle tendenze sessuali, nell’accezione di tale di‑ rettiva, qualora tale accertamento avvenga decorso un termi‑ ne di prescrizione di sei mesi dalla data dei fatti, non è possi‑ bile pronunciare altro che un ammonimento come quello di cui al procedimento principale – se, in applicazione di tale normativa, siffatta discriminazione non è sanzionata secondo modalità sostanziali e procedurali che attribuiscono alla san‑ zione un carattere effettivo, proporzionato e dissuasivo. Spetta al giudice del rinvio valutare se ciò si verifichi nel caso della normativa oggetto del procedimento principale e, all’oc‑ correnza, interpretare il diritto nazionale quanto più possibi‑ le alla luce del testo e dello scopo della direttiva in questione, così da conseguire il risultato perseguito da quest’ultima. Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sez. III, sentenza 25 aprile 2013, Causa C–81/12 avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’ar‑ ticolo 267 TFUE, dalla Curtea de Apel Bucuresti (Romania), procedimento A. contro Consiliul National pentru Combate‑ rea Discriminarii internazionale Gazzetta 146 D i r i t t o I n t e r n a z i o n a l e La direttiva 2000/781 «mira a stabilire un quadro genera‑ le per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessua‑ li, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavo‑ ro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento». La definizione data di parità di trattamento è l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi elencati già nel titolo della norma. La discriminazione diretta si verifica tutte le volte in cui una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga. Sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono met‑ tere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone. Le molestie sono da considerarsi una discriminazione in caso di comportamento indesiderato adottato per uno dei motivi al cui contrasto è diretta la norma avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensi‑ vo. In questo contesto, il concetto di molestia può essere de‑ finito conformemente alle leggi e prassi nazionali degli Stati membri. La direttiva, in campo processuale, impone agli Stati membri di prendere le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento espon‑ gono, dinanzi a un tribunale o a un’altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discrimi‑ nazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della pari‑ tà di trattamento. Convenzione europea dei diritti dell’uomo – divieto di discriminazione, art. 14 – coppie omosessuali – adozione del figlio del partner – diritto austriaco – coppie non sposate - violazione Le norme del diritto civile austriaco in materia di rego‑ lamentazione della vita delle coppie non sposate e di adozio‑ ne del figlio del convivente costituiscono una discriminazio‑ ne ai sensi degli artt. 14 e 8 della Convenzione, nella parte in cui non consentano al membro di una coppia convivente omosessuale non sposata di adottare il figlio dell’altro mem‑ bro della coppia. Corte Europea Dei Diritti Umani, sentenza della Grand Chamber, 19 febbraio 2013, Causa 19010/07, (Omissis) con‑ tro Repubblica Austriaca Il caso trova origine nel ricorso presentato nel 2007 da tre cittadini austriaci che hanno ottenuto l’autorizzazione dalla Corte a rimanere anonimi: la prima e la terza conviventi ed il 1 Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro in GUCE n. L 303 del 02/12/2000 pag. 0016 - 0022 Gazzetta F O R E N S E secondo figlio della terza, all’epoca dei ricorsi interni, minore di età. Il bambino era nato al di fuori del matrimonio. I ricorrenti, temendo che il testo dell’art. 182 § 2 del co‑ dice civile austriaco potesse essere interpretato nel senso di escludere l’adozione del figlio di uno dei partner in una coppia omosessuale da parte dell’altro partner senza che la relazione con il genitore biologico fosse cessata, chiesero alla Corte costituzionale viennese di dichiarare quella norma incostitu‑ zionale nella parte in cui li discriminava a causa del loro orientamento sessuale. Nel caso di coppie eterosessuali, infat‑ ti, detta norma consente l’adozione del secondo genitore, cioè a dire, l’adozione da uno dei partner del bambino dell’altro parte senza che le relazioni giuridiche dei quest’ultimo ne vengano attinte. La Corte Costituzionale dichiarò inammis‑ sibile il ricorso affermando che le ricorrenti avrebbero dovuto sottoporre l’istanza al Tribunale distrettuale competente la cui decisione sarebbe stata eventualmente oggetto di grava‑ me. Fu quindi presentata istanza al giudice di merito perché approvasse l’accordo di adozione per effetto del quale la prima e la terza ricorrente sarebbero divenuti genitori del secondo ricorrente. Nella loro istanza le parti esposero che tra la com‑ pagna della madre e il figlio si erano sviluppati stretti legami affettivi e che il secondo ricorrente traeva beneficio dal vivere in una famiglia con due adulti che se ne prendevano cura. Il loro scopo era quello di ottenere un riconoscimento legale alla loro famiglia di fatto. La prima ricorrente avrebbe quin‑ di sostituito giuridicamente il padre del secondo ricorrente. Le parti sottolinearono che il padre si era opposto all’adozio‑ ne senza fornire alcuna motivazione e che egli avesse mostra‑ to una eccezionale ostilità verso la famiglia e che per tale motivo la corte avrebbe dovuto, ai sensi dell’art. 181 § 3 cod. civ. austr., dichiarare nullo il rifiuto di consenso, giacché l’adozione era nell’interesse della seconda ricorrente2. A soste‑ gno della loro istanza, i ricorrenti produssero una relazione dell’Ufficio per il benessere della gioventù che confermava che la prima e la terza ricorrente condividevano compiti quotidia‑ ni relativi alla cura della seconda ricorrente e la responsabili‑ tà generale della sua formazione e che, pur esprimendo dubbi rispetto alla posizione giuridica, si concludeva considerando opportuno l’affidamento congiunto. Il Tribunale distrettuale rigettò l’istanza di omologazione dell’accordo di adozione, ritenendo che l’art. 182 §2 cod. civ. austr. non prevedesse alcuna forma di adozione produttiva degli effetti desiderati dai ricorrenti. Nelle motivazioni dei giudici di prime cure austriaci si legge che i ricorrenti cerchino l’approvazione del Tribunale per un’adozione a termini della quale la relazione con il padre biologico ed i suoi genitori secondo il diritto di famiglia ces‑ serebbe di esistere mentre la relazione con la madre biologica rimarrebbe intatta. Essi chiedono al Tribunale di superare il rifiuto del padre. “Il ricorso, scrivevano i giudici austriaci, che è diretto di 2Le norme in rilievo del Codice civile austriaco (Allgemeines Bürgerliches Geset‑ zbuch) sono le seguenti: art. 137b, la madre è la donna che ha partorito il bambino. Art. 138, Il padre del bambino è l’uomo 1) che è coniugato con la madre del bambino al momento della sua nascita o, essendo il marito della madre, sia morto non oltre trecento giorni dalla nascita, o 2) che abbia ricono‑ sciuto la paternità, o 3) la cui paternità sia stata riconosciuta giudizialmente. A F O R E N S E m a r z o • a p r i l e fatto ad assicurare la custodia congiunta alla madre biologica ed a quella adottiva – che vive una relazione omosessuale con lei – è giuridicamente infondata”. Secondo l’art. 179 cod. civ. austr., infatti, è possibile l’ado‑ zione da parte di una persona singola o da una coppia sposa‑ ta. Solo in particolari ipotesi una persona sposata può adot‑ tare come singolo. Il Tribunale distrettualeaffermò che il se‑ condo periodo dell’art. 182 § 2 cod. civ. austr. preveda che la relazione giuridica familiare cessi solo rispetto al genitore biologico ed ai suoi parenti se il minore è adottato solo da una sola persona. In tal modo la relazione con l’altro genitore rimane intatta fino a che il tribunale la dichiari cessata – a seguito dell’adozione – con il consenso del genitore stesso. La modifica dell’art. 182 originario sulla base dell’inequi‑ voco testo della norma ha portato i giudici austriaci a ritene‑ re che a seguito dell’adozione da parte di una sola persona, la relazione giuridica con il genitore del medesimo sesso del genitore adottivo cessi mentre la relazione con il genitore di sesso opposto rimanga intatta. Interpretata la norma in tal senso l’adozione da parte di una donna, comportando la ces‑ sazione della relazione genitoriale con il padre, sarebbe in‑ compatibile con le previsioni di legge interpretate in confor‑ mità con la Costituzione austriaca. Appellato il provvedimento, la Corte regionale rigettò il gravame osservando, sotto il profilo processuale, che la madre biologica non poteva agire per il figlio minore essendo in questo caso evidente il conflitto di interessi tra le due posizio‑ ni. La Corte regionale osservò nel merito, comunque, che nel caso in esame il padre biologico aveva contatti regolari con il figlio, con il risultato che il minore manteneva una relazione significativa con entrambi i genitori biologici. In tali circo‑ stanze, ritenne la Corte, non vi è necessità di sostituire uno dei genitori biologici con il partner, dello stesso sesso, dell’al‑ tro genitore autorizzando l’adozione del minore. La giurisprudenza relativa ai diritti di contatto dei geni‑ tori chiaramente riconosce che, secondo quanto risulta dalla psicologia e dalla sociologia, è di particolare importanza per il successivo sviluppo del bambino che un adeguato contatto personale sia mantenuto con il genitore con il quale egli non viva. Coerentemente la legislazione prosegue nel conferire il diritto al bambino di avere contatti personali con il genitore con il quale non conviva. Prosegue la decisione della Corte regionale affermando che “è ugualmente fuori discussione che per la corretta cre‑ scita di un minore, è fortemente desiderabile che egli abbia una relazione personale con entrambi i genitori di sesso op‑ posto, in altre parole, che le cure siano prestate sia da una donna (madre) che da un uomo (padre) e che tutti gli sforzi siano compiuti a questo fine. Il contatto personale, almeno in minimo grado, con entrambi i genitori è altamente desidera‑ bile ed è generalmente riconosciuto nell’interesse del sano sviluppo del bambino. Tali considerazioni militano chiara‑ mente contro l’autorizzazione dell’adozione di un minore dal partner dello stesso sesso dell’altro genitore se ciò comporti la perdita delle relazioni familiari giuridiche con l’altro geni‑ tore. Proposto ricorso per cassazione, questo fu respinto. I giudici viennesi di legittimità ritennero che: “adottare significa dare ad un bambino una famiglia, non dare un bam‑ bino ad una famiglia. Compito dello Stato è di assicurare che 2 0 1 3 147 le persone scelte per l’adozione siano quelle che possano of‑ frire al bambino la migliore accoglienza sotto ogni profilo”. La Corte ha affermato che anche per le ampie differenze nelle opinioni nazionali ed internazionali relative alle possi‑ bili conseguenze per un bambino derivanti dall’adozione da parte di uno o entrambi genitori omosessuali, ricordando la circostanza che non ci sono sufficienti minori da adottare, agli Stati è concesso un largo margine di discrezionalità in tale materia. La mancata autorizzazione all’adozione da par‑ te di un omosessuale – hanno detto i giudici di legittimità viennesi – non costituisce violazione dell’art. 14 della Conven‑ zione, in combinato con l’art. 8 della medesima, se fosse di‑ retta al legittimo scopo della protezione dell’interesse del minore senza parimenti infrangere la proporzionalità tra gli strumenti impiegati e lo scopo perseguito. Ha affermato la Corte Suprema austriaca che l’art. 182 § 2 cod. civ. austr. non può ricevere l’interpretazione estensiva auspicata dai ricorrenti e non esiste lacuna legislativa fortuita alla quale sarebbe opportuno rimediare per analogia. Secon‑ do la giurisprudenza austriaca 3 l’adozione mira prima di tutto a garantire il benessere del minore (principio di tutela). L’adozione deve essere intesa come un mezzo appropriato per affidare a persone idonee e responsabili la custodia e l’educa‑ zione di minori privi di genitori, di minori nati da famiglie disunite, o di minori che, per una qualsiasi ragione, non pos‑ sono ricevere una corretta educazione dai loro genitori o sono rifiutati da costoro. Questo obiettivo può tuttavia essere rag‑ giunto soltanto se l’adozione permette di ricreare per quanto possibile la situazione esistente in una famiglia biologica. Secondo la Suprema Corte viennese risulta altrettanto chiaramente dalla giurisprudenza che il legame tra il minore e il suo genitore adottivo deve essere assimilato, dal punto di vista sociale e psicologico, a quello esistente tra i genitori biologici e i loro figli. Il modello dei rapporti tra genitori e figli in materia di adozione di minori si ispira ai particolari legami sociali e psicologici esistenti tra genitori e giovani vi‑ cini alla maggiore età. Questi rapporti associano ai legami sociali classici di vicinanza fisica e relazionale (convivenza, presa in carico dei bisogni fisici e psicologici del minore da parte dei genitori) delle relazioni affettive analoghe all’amore reciproco tra genitori e figli e conferiscono ai primi un ruolo specifico di mentori e di referenti. L’articolo 182 § 2 del codice civile vieta, come interpreta‑ to dalla corte di legittimità nazionale, in modo generale (e non soltanto alle coppie omosessuali) sia l’adozione da parte di un uomo per il tempo in cui sussista il legame di filiazione tra il minore da adottare e il padre biologico di quest’ultimo che l’adozione di un minore da parte di una donna per il tempo in cui sussiste il legame di filiazione tra quest’ultimo e la madre biologica. Risulta quindi dall’articolo 182 § 2 che la persona che adotta da sola un minore non si sostituisce indif‑ ferentemente a uno o all’altro dei genitori, ma soltanto al genitore del suo stesso sesso. Ne consegue che l’adozione di un minore da parte della compagna della sua madre biologica è giuridicamente impossibile. Preso atto delle motivazioni dei giudici nazionali, la Cor‑ 3Erläuternde Bemerkungen RV 107 Suppl. IX. GP, 21. internazionale Gazzetta 148 D i r i t t o I n t e r n a z i o n a l e te europea, ritenuto che non fosse contestato da alcuna delle parti che i ricorrenti formassero una famiglia godendo quindi della protezione assicurata loro dall’art. 8 della Convenzione, ha precisato, in generale, che l’adozione di un minore da par‑ te di omosessuali può avvenire in tre modi diversi. Il primo è quello dell’adozione da parte di una sola persona (adozione monoparentale); il secondo è quello dell’adozione coparenta‑ le, con la quale uno dei partner di una coppia adotta il figlio dell’altro, affinché a ciascuno dei partner della coppia sia le‑ galmente riconosciuto lo status di genitore; e il terzo è quello dell’adozione congiunta da parte di entrambi i partner della coppia. I casi esaminati in precedenza dalla Corte4 riguardavano richieste di adozione monoparentale presentate da omoses‑ suali5 e una causa avente ad oggetto una richiesta di adozione coparentale da parte di una coppia omosessuale6. Nella prima causa, le autorità francesi avevano rigettato la richiesta di autorizzazione ad adottare in quanto le «scelte di vita» dell’interessato non presentavano garanzie sufficienti per l’adozione di un minore. La Corte rilevò che la legislazio‑ ne francese riconosceva a qualsiasi persona non sposata – uo‑ mo o donna – il diritto di depositare una richiesta di adozio‑ ne, e che le autorità francesi avevano rigettato la richiesta di autorizzazione preventiva presentata dal ricorrente basando‑ si – senza dubbio implicitamente – sul suo orientamento ses‑ suale, e dunque concluse per l’esistenza di una disparità di trattamento basata sull’orientamento sessuale, ritenendo tuttavia che le decisioni adottate dalle autorità interne perse‑ guissero uno scopo legittimo: proteggere la salute e i diritti dei minori che potevano essere interessati da una procedura di adozione riconoscendo alle autorità nazionali, a causa della fase di transizione del diritto europeo in detta questione, un ampio margine di apprezzamento per pronunciarsi in materia. Nella sentenza della Grande Camera che ha reso nella causa E.B. c. Francia, anch’essa esaminata dal punto di vista dell’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8, la Corte è ritornata su tale posizione. Dopo aver proceduto ad un’analisi approfondita dei motivi addotti dalle autorità fran‑ cesi per giustificare il rifiuto di autorizzare l’adozione auspi‑ cata dalla ricorrente, che viveva una relazione stabile con un’altra donna, la Corte ha osservato che le autorità avevano preso in considerazione due motivi principali, ossia l’assenza di un «referente paterno» nel nucleo famigliare della ricorren‑ te o nella sua cerchia famigliare e affettiva più vicina, e la mancanza di coinvolgimento della compagna di quest’ultima. Essa ha considerato che questi due motivi erano emersi nell’ambito di una valutazione globale della situazione della ricorrente e che l’illegittimità di uno di essi aveva prodotto l’effetto di inficiare complessivamente la decisione. La Corte ha ritenuto che il secondo di tali motivi non fosse censurabile, 4L’orientamento sessuale rientra nel campo di applicazione dell’articolo 14. La Corte ha più volte dichiarato che, come le differenze basate sul sesso, quelle basate sull’orientamento sessuale devono essere giustificate da motivi impellen‑ ti o, altra formula utilizzata a volte, da «ragioni particolarmente solide e con‑ vincenti». 5 Fretté c. Francia, n. 36515/97, CEDU 2002-I; E.B. c. Francia ([GC]), n. 43546/02, 22 gennaio 2008. 6Gas e Dubois c. Francia, n. 25951/07, 15 marzo 2012. Gazzetta F O R E N S E ma che il primo fosse implicitamente legato all’omosessualità della ricorrente e che le autorità lo avessero invocato abusiva‑ mente in un contesto in cui la richiesta di autorizzazione ad adottare proveniva da una persona celibe. In definitiva, essa ha considerato che l’orientamento sessuale della ricorrente non avesse cessato di essere al centro del dibattito che la riguarda‑ va e avesse rivestito un carattere decisivo, portando alla deci‑ sione di negare l’autorizzazione richiesta. Essa ha precisato che, quando è giustificata solo da considerazioni relative all’orientamento sessuale della persona interessata, la dispa‑ rità di trattamento deve essere considerata discriminatoria rispetto alla Convenzione. Ha poi rilevato che il diritto fran‑ cese autorizzava l’adozione di un minore da parte di un single, aprendo in tal modo la strada all’adozione da parte di una persona omosessuale celibe o nubile, il che non veniva messo in discussione. Alla luce della sua analisi dei motivi sollevati dalle autorità francesi, la Corte ha ritenuto che, per rigettare la richiesta di autorizzazione ad adottare presentata dalla ricorrente, esse avessero operato una distinzione motivata da considerazioni riguardanti l’orientamento sessuale dell’inte‑ ressata, distinzione che non poteva essere tollerata secondo la Convenzione. Di conseguenza, ha concluso che vi era stata violazione dell’articolo 14 in combinato disposto con l’artico‑ lo 8. La causa Gas e Dubois riguardava due donne che viveva‑ no in coppia avendo concluso il patto civile di solidarietà (PACS) previsto nel diritto francese. Una delle due ricorrenti era la madre di un bambino concepito con la procreazione medicalmente assistita. Rispetto al diritto francese, ne era l’unico genitore. Le interessate lamentavano, dal punto di vista dell’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 8, che il figlio di una di loro non potesse essere adottato dall’altra. Più precisamente, desideravano essere autorizzate ad adottare il minore con il regime dell’adozione semplice ai fini della creazione di un legame di filiazione tra il minore e la compagna della madre, il che avrebbe permesso loro di esercitare congiuntamente la potestà genitoriale su quest’ultimo. Le autorità interne avevano rifiutato di autoriz‑ zare questo progetto di adozione in quanto l’adozione stessa avrebbe comportato, a profitto della compagna della madre del minore, un trasferimento dei diritti di potestà genitoriale non conforme all’interesse del minore. La Corte ha esamina‑ to la situazione delle interessate comparandola a quella di una coppia sposata. Essa ha osservato che nel diritto francese solo le coppie sposate potevano esercitare la potestà genito‑ riale congiunta in caso di adozione semplice. Osservando che gli Stati contraenti non erano tenuti ad aprire il matrimonio alle coppie omosessuali e che il matrimonio attribuiva uno status particolare a coloro che lo contraggono, essa ha ritenu‑ to che i ricorrenti non si trovassero in una situazione giuridi‑ ca assimilabile a quella delle coppie sposate. Osservando che l’adozione coparentale non era aperta nemmeno alle coppie eterosessuali non sposate che, come le ricorrenti, avevano concluso un PACS, la Corte ha concluso per l’assenza di una disparità di trattamento basata sull’orientamento sessuale e per la non violazione dell’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 8. La Corte, esaminando la questione sottoposta al suo esa‑ me, ha ritenuto preliminarmente che la posizione della prima e della terza ricorrente non fossero assimilabile a quella di una F O R E N S E m a r z o • a p r i l e coppia sposata a causa della particolare rilevanza che al ma‑ trimonio è riconosciuta dall’art. 12 della Convenzione. Comparando la situazione delle ricorrenti rispetto a quel‑ la delle coppie eterosessuali non sposate la Corte ha ritenuto che vietando in maniera assoluta l’adozione coparentale alle coppie omosessuali, l’articolo 182 § 2 del codice civile austria‑ co privava di qualsiasi utilità e rilevanza l’esame delle circo‑ stanze specifiche della causa iniziata dai ricorrenti obbligan‑ do le autorità nazionali a eccepire automaticamente l’irricevi‑ bilità della loro domanda di adozione. La Corte ha concluso quindi che il divieto di adozione comminato dalla legislazione austriaca costituisca una discriminazione fondata sull’orien‑ tamento sessuale giacché, a differenza di quanto previsto in Francia – che vieta in assoluto l’adozione coparentale sia per le coppie omosessuali che per quelle eterosessuali – essa è fondata esclusivamente sull’orientamento sessuale dei richie‑ denti. Deve precisarsi che la Corte europea ha ritenuto necessa‑ rio porre in rilievo che sebbene la causa sottoposta al suo giudizio possa essere considerata nell’ambito della problema‑ tica più ampia dei diritti genitoriali delle coppie omosessuali, la Corte non è stata chiamata a pronunciarsi sulla questione specifica dell’adozione coparentale da parte di coppie omo‑ sessuali, e ancora meno su quella generica dell’adozione da parte di coppie omosessuali. Si è trattato invece di decidere su un problema ben definito, ossia quello di stabilire se i ricor‑ renti della presente causa siano stati o meno vittime di una discriminazione tra le coppie eterosessuali non sposate e le coppie omosessuali in materia di adozione coparentale. La Corte ha però osservato che il diritto austriaco sembri mancare di coerenza. Esso autorizza l’adozione da parte di una sola persona, anche omosessuale. Se questa vive con un partner registrato, è necessario il consenso di quest’ultimo ai sensi del comma 2 dell’articolo 181 § 1 del codice civile, come modificato dalla legge sulle unioni registrate. Di conseguenza, il legislatore austriaco ammette che un minore possa crescere in una famiglia basata su una coppia omosessuale, ricono‑ scendo in tal modo che tale situazione non reca pregiudizio al minore. Tuttavia, il diritto austriaco prevede esplicitamente che un minore non debba avere due madri o due padri. Nella giurisprudenza della Corte la coerenza della legislazione na‑ zionale è di preminente rilievo al fine di stabilire la discrimi‑ natorietà di un provvedimento7. La Corte ha ritenuto che l’esistenza della famiglia di fatto costituita dagli interessati, l’importanza che assume per loro il fatto di ottenerne il riconoscimento giuridico, l’incapacità del Governo di stabilire che sarebbe pregiudizievole per un minore essere allevato da una coppia omosessuale o avere legalmente due padri o due madri, e soprattutto il fatto che il Governo riconosca che le coppie omosessuali sono idonee all’adozione coparentale quanto le coppie eterosessuali, faces‑ sero sorgere seri dubbi sulla proporzionalità del divieto asso‑ luto di adozione coparentale che deriva dall’articolo 182 § 2 del codice civile per le coppie omosessuali. In assenza di altri motivi particolarmente solidi e convin‑ centi in favore di tale divieto assoluto, le considerazioni fino‑ 7 Christine Goodwin c. Regno Unito [GC], n. 28957/95, § 78, CEDU 2002– VI. 2 0 1 3 149 ra esposte hanno invece portato la Corte a ritenere che i tri‑ bunali dovrebbero poter esaminare tutte le situazioni caso per caso. Questo modo di procedere sembra anche più conforme all’interesse superiore del minore, principio fondamentale degli strumenti internazionali in materia. La Corte ha quindi ritenuto che vi è stata violazione dell’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 8 se la situazione dei ricorrenti viene confrontata con quella di una coppia eterosessuale non sposata nella qua‑ le uno dei partner avesse voluto adottare il figlio dell’altro. Conseguenza di tale violazione è stata la condanna del Governo austriaco al risarcimento dei danni morali patiti dai ricorrenti nella misura complessiva di € 10.000,00. internazionale Gazzetta Questioni [ A cura di Mariano Valente / Procuratore dello Stato ] Quando l’Amministrazione penitenziaria detiene presso di sé il peculio di un internato, è possibile rivolgere nei suoi confronti un atto di pignoramento che vede l’Amministrazione in qualità di “terzo” debitor debitoris? O piuttosto, è necessario un pignoramento diretto al solo obbliga153 to? / Marianna Falco Se ed entro che limiti sia possibile applicare il regime concessorio-autorizzatorio anche nei confronti degli allibratori stranieri, residenti in altri Stati comunitari e ivi regolarmente abilitati a raccogliere scommesse secondo la legislazione del loro Stato di appartenenza, senza che ciò costituisca contrasto con i principi comunitari di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di cui agli artt. 43 e 49 TCE, nonché, ed in particolare, se sia legittima la mancata indizione di una gara e se il meccanismo della periodicità della stessa possa essere un 154 modo per aggirare i principi comunitari. / Anna Sofia Sellitto In tema di responsabilità della P.a., con riguardo alla materia di appalti pubblici e di informative prefettizie antimafia, può configurarsi una responsabilità oggettiva della p.a.? / Ida Sorrentino 165 questioni Gazzetta m a r z o • a p r i l e 2 0 1 3 153 ● DIRITTO CIVILE Quando l’Amministrazione penitenziaria detiene presso di sé il peculio di un internato, è possibile rivolgere nei suoi confronti un atto di pignoramento che vede l’Amministrazione in qualità di “terzo” debitor debitoris? O piuttosto, è necessario un pignoramento diretto al solo obbligato? ● Marianna Falco Dottoressa in Giurisprudenza La questione in oggetto si è posta in un contenzioso nel quale parte attorea citava in giudizio il suo debitore e, in‑ sieme, il Ministero della Giustizia, Am‑ ministrazione Ospedale Giudiziario di Napoli - Dipartimento di Polizia peni‑ tenziaria, adducendo che quest’ultimo fosse debitore dell’obbligato principale in virtù del fatto che deteneva delle somme di denaro dello stesso. Appare opportuno, al fine di diri‑ mere il quesito di diritto processuale, distinguere le varie forme di peculio. Tale prodromica operazione si rive‑ la fondamentale sia per stabilire tout court se sia possibile intraprendere una procedura esecutiva avente ad oggetto somme di proprietà del detenuto/inter‑ nato, sia per stabilire quale forma di pignoramento il creditore debba sceglie‑ re per soddisfare la propria pretesa. In primis, occorre quindi chiarire quali “sostanze” costituiscano il pecu‑ lio di un condannato. Ciò è esplicitamente stabilito nell’art. 25 della L. 354 del 1975 sull’Ordinamen‑ to Penitenziario per il quale “il peculio dei detenuti e degli internati è costituito dalla parte della remunerazione ad essi riservata ai sensi del precedente articolo, dal denaro posseduto all’atto dell’ingres‑ so in istituto, da quello ricavato dalla vendita di oggetti di loro proprietà o inviato dalla famiglia e da altri o ricevu‑ to a titolo di premio o di sussidio”. Esistono, dunque, varie forme di peculio. In tutti i casi, l’Amministrazione Penitenziaria, rectius, la direzione del carcere, ai sensi dell’art. 25, comma 3 è costituita “depositaria necessaria” di tali somme, di proprietà del detenuto/ internato. Ciò detto, a sgombrare il campo da un primo possibile dubbio interpretati‑ vo, sovviene l’art 24, comma 3, a mente del quale “ La remunerazione dovuta agli internati e agli imputati non è sog‑ getta a pignoramento o a sequestro, salvo che per obbligazioni derivanti da alimenti, o a prelievo per il risarcimen‑ to arrecato a cose mobili o immobili dell’amministrazione ”. La disposizione richiamata, dun‑ que, è chiarissima: il creditore dell’in‑ ternato, non può soddisfare le sue pretese sulle somme a quest’ultimo do‑ vute dall’Amministrazione Giudiziaria per il lavoro svolto all’interno delle strutture ove il debitore stia scontando la sua pena ovvero una misura di sicu‑ rezza personale. Il problema per il creditore, a ben vedere, quindi, si pone esclusivamente nel caso in cui le somme di proprietà dell’internato siano costituite dalle “elargizioni” poste in essere dai fami‑ liari, dalle somme ottenute a seguito della vendita di oggetti di sua proprietà, dalle somme ottenute a titolo di premio o di sussidio, ovvero dalle somme che il detenuto ha portato con sé all’atto del suo ingresso nella struttura. Per tali somme, in altre parole, si pone per il creditore il delicato proble‑ ma di stabilire se esperire il pignora‑ mento presso terzi, nel qual caso l’Am‑ ministrazione Penitenziaria detentrice delle somme del detenuto dovrebbe considerarsi “terzo”, ovvero scegliere la strada del pignoramento mobiliare nei confronti del debitore. Per dirimere tale questione, risulta fondamentale chiarire la natura del rapporto che intercorre tra il detenuto debitore e l’Amministrazione Peniten‑ ziaria detentrice delle somme di danaro di proprietà del debitore. Occorre, aliis verbis, stabilire se l’Amministrazione Penitenziaria possa essere considerata debitor debitoris, se cioè possa ritenersi sussistente un rap‑ porto debito credito tra il soggetto pubblico ed il detenuto e dunque possa essere, l’Amministrazione Penitenzia‑ ria, convenuta dal creditore del condan‑ nato nella procedura disciplinata dagli artt. 543 e ss. c.p.c.. A ben vedere, una lettura sistemati‑ ca della disciplina del pignoramento presso terzi induce a ritenere percorri‑ bile la strada del ppt nell’ipotesi in esame. L’art. 547 c.p.c., infatti, recita: “[…] il terzo deve specificare di quali cose o di quali somme è debitore o si trova in possesso […]”. Tale norma, dunque, almeno prima facie, sembra ritenere sufficiente il mero possesso di somme o di cose di proprie‑ tà del debitore da parte del terzo, per poter esperire la procedura esecutiva del ppt. Altro spunto è offerto dalla lettura dell’art. 549 il quale afferma testual‑ mente: “ […] il giudice, se accerta l’esistenza del diritto del debitore nei confronti del terzo […]”. Il debitore internato, infatti, pur non avendo la materiale ed immediata disponibilità delle somme di sua pro‑ prietà, comunque ha il diritto di chiede‑ re, in qualsiasi momento, le somme costituenti oggetto del peculio, alla di‑ rezione dell’Istituto di pena. Da tali argomenti testuali, in defini‑ tiva, sembrerebbe potersi trarre la con‑ clusione dell’esperibilità, da parte del creditore del detenuto/internato, del pignoramento presso terzi, chiamando in causa, nella procedura di cui agli artt. 543 e ssc.p.c. l’Amministrazione Penitenziaria. Diversamente, e secondo altra tesi interpretativa, residuerebbe, ovviamen‑ te, per il creditore la strada del pignora‑ mento mobiliare diretto nei confronti del detenuto/internato. Nel silenzio della giurisprudenza di legittimità, sul punto è intervenuta una interessante sentenza del Tribunale Civile di Napoli, Sez. V bis, n°2594/13, che, occupandosi del problema della pignorabilità del cd. peculio dei con‑ dannati, l’ha risolto negativamente. Il Giudice di merito napoletano, infatti, ha ritenuto insussistente un rapporto di debito credito tra l’Ammi‑ nistrazione Penitenziaria ed il detenuto avente ad oggetto le somme costituenti oggetto del peculio, in quanto l’Ammi‑ nistrazione, si è detto, è mera “custode” delle somme di proprietà dell’internato e non debitrice delle stesse nei confron‑ ti di quest’ultimo: l’Amministrazione questioni F O R E N S E 154 Penitenziaria, in altri termini, non può in alcun modo considerarsi debitor de‑ bitoris, dal momento che le somme di danaro, nel caso di specie, erano state “elargite” dai parenti dell’internato e non costituivano retribuzione per il la‑ voro svolto da quest’ultimo all’interno del luogo di custodia (nel qual caso, tra l’altro, sarebbe stato possibile esperire una procedura esecutiva solo per credi‑ ti alimentari o per crediti derivanti dal risarcimento per danni a cose mobili o immobili dell’amministrazione, per il disposto dell’art. 24, comma 3). L’ente pubblico, giova sottolinearlo, è ritenuto mero depositario delle som‑ me che l’internato ha ricevuto dai fami‑ liari e pertanto non può considerarsi in nessun caso debitore di tali somme nei confronti dello stesso internato. Le conclusioni cui sembra potersi giungere, dunque, sulla base del dato positivo (costituito dalla disciplina di cui agli artt. 543 e ss. c.p.c. e dalla L. 354/1975) e degli ultimi approdi della giurisprudenza di merito sono le se‑ guenti: quando le somme oggetto di richiesta di accertamento che il pigno‑ rante vorrebbe aggredire con la proce‑ dura azionata nelle forme del pignora‑ mento presso terzi risultano essere di pertinenza esclusiva del detenuto/inter‑ nato, l’Amministrazione non può essere né considerata né equiparata al “terzo” ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 547 c.p.c, pertanto, in casi analoghi, il cre‑ ditore potrà rivalersi solo ed esclusiva‑ mente mediante una procedura di pi‑ gnoramento diretto nei confronti del suo debitore. q u e s t i o n i ● DIRITTO penale Se ed entro che limiti sia possibile applicare il regime concessorio-autorizzatorio anche nei confronti degli allibratori stranieri, residenti in altri Stati comunitari e ivi regolarmente abilitati a raccogliere scommesse secondo la legislazione del loro Stato di appartenenza, senza che ciò costituisca contrasto con i principi comunitari di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di cui agli artt. 43 e 49 TCE, nonché, ed in particolare, se sia legittima la mancata indizione di una gara e se il meccanismo della periodicità della stessa possa essere un modo per aggirare i principi comunitari. ● Anna Sofia Sellitto Dottoressa in Giurisprudenza Nel nostro ordinamento giuridico, il settore delle scommesse è oggetto di una complessa disciplina che trova il suo fon‑ damento in molteplici elementi di rilevanza pubblicistica che vanno dalla tutela degli interessi finanziari dello Stato alle esigenze di ordine pubblico (cfr. Cass. pen., sez. III, 28 marzo 2007, n. 16928). A tal uopo, appare opportuno un breve excursus normativo, avendo come riferi‑ mento i dati legislativi più salienti e rilevan‑ ti in subiecta materia. Il Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza (R.D. n. 773 del 18 giugno 1931), all’articolo 88, prevede che “La licenza per l’esercizio delle scommesse può essere con‑ cessa esclusivamente a soggetti concessio‑ nari o autorizzati da parte di Ministeri o di altri enti ai quali la legge riserva la facoltà di organizzazione e gestione delle scom‑ messe, nonché a soggetti incaricati dal concessionario o dal titolare di autorizza‑ zione in forza della stessa concessione o autorizzazione“. Le concessioni richiamate dal suddetto Gazzetta F O R E N S E articolo 88 sono rilasciate dall’Agenzia Autonoma Monopoli di Stato in seguito ad appositi bandi di gara. In particolare, un primo bando è stato emesso nel 1999 ed un secondo nel 2006 in forza del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasio‑ ne fiscale, convertito dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 (cd. decreto Bersani). Altresì, l’articolo 11 del cit. R.D. n. 773/1931 integra il regime autorizzatorio, prevedendo i requisiti soggettivi delle per‑ sone richiedenti e disciplinando le ipotesi in cui l’autorizzazione può essere negata (sog‑ getti che hanno riportato una condanna per delitto non colposo con pena superiore a tre anni di privazione della libertà personale e non hanno ottenuto riabilitazione; che sono stati sottoposti a misura di prevenzione personale, o che sono stati dichiarati delin‑ quente abituale, professionale o per tenden‑ za; che hanno riportato condanna per al‑ cuni reati, specificamente indicati,quali quelli contro la personalità dello Stato o contro l’ordine pubblico, ovvero per delitti contro le persone commessi con violenza, o per furto, rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione, o per violenza o resistenza all’autorità, e a che non possono provare la loro buona condotta). Il D. Lgs n. 496 del 14 aprile 1948, re‑ cante la disciplina delle attività di giuoco, dispone all’articolo 1 che “L’organizzazio‑ ne e l’esercizio di giuochi di abilità e di concorsi pronostici, per i quali si corrispon‑ da una ricompensa di qualsiasi natura e per la cui partecipazione sia richiesto il paga‑ mento di una posta in denaro, sono riser‑ vati allo Stato”. Da tale architettura normativa può, dunque, evincersi che le attività di raccolta e di gestione delle scommesse sono eserci‑ tabili solo da soggetti che abbiano ottenuto, al termine di una pubblica gara, una delle concessioni disponibili nonché l’autorizza‑ zione di polizia di cui all’articolo 88 del cit. R.D. 773/1931. Rebus sic stantibus, l’autorizzazione di polizia può considerarsi quale strumento finalizzato ad accertare la sussistenza, in capo al soggetto, dei requisiti di affidabilità rilevanti ai fini della tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico. A tal specifico proposito, la giurispru‑ denza ha chiarito che il controllo di pubbli‑ ca sicurezza deve tradursi nella puntuale Gazzetta m a r z o • a p r i l e 2 0 1 3 155 enunciazione di specifici profili di criticità per l’ordine pubblico interno, senza potersi racchiudere nell’affermazione del generico fine di evitare ripercussioni sull’ordine pubblico e sulla sicurezza pubblica (cfr. T.A.R. Puglia – Lecce, sez. I, ordinanza n. 692 del 9 settembre 2009). In tal senso si è espresso anche il supremo consesso della giustizia amministrativa laddove ha ritenu‑ to del tutto legittimo il diniego di autoriz‑ zazione di polizia allo svolgimento di gestio‑ ne e/o raccolta di scommesse nella ipotesi di domande presentate da persone che non rispondano ai requisiti di incensuratezza e moralità previsti dall’ordinamento, consi‑ derando invece illegittimo, perché in con‑ trasto con i principi comunitari, il rifiuto fondato sulla mera mancanza del titolo concessorio (cfr. Cons. stato, sez. VI, ord. 24 novembre 2010, n. 5365). Vexata quaestio in giurisprudenza è quella concernente la possibilità di applica‑ re il regime concessorio-autorizzatorio an‑ che nei confronti degli allibratori stranieri, residenti in altri Stati comunitari e ivi rego‑ larmente abilitati a raccogliere scommesse secondo la legislazione del loro Stato di appartenenza, senza che ciò costituisca violazione dei principi comunitari di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di cui agli artt. 43 e 49 TCE. La questione trae spunto, altresì, da un recente provvedimento emesso dal Tribu‑ nale di Santa Maria Capua Vetere - II Sez. Penale - Collegio B in data 13 novembre 2012: il caso di specie ha ad oggetto la presunta violazione dell’art. 4, comma 4 bis e ter, della Legge n. 401/1989 in quanto l’imputato risultava aver operato senza l’autorizzazione prescritta dall’art. 88 T.U.L.P.S. In base ai principi di mutuo riconosci‑ mento, leale collaborazione ovvero equiva‑ lenza delle normative nazionali, il soggetto legittimato ad operare in base alla disciplina del proprio Stato di appartenenza può prestare i suoi servizi, ed eventualmente anche stabilirsi, in qualsiasi altro Stato membro, senza che quest’ultimo possa pretendere il rispetto pure della sua legge nazionale. Le condizioni imposte dallo Stato di destinazione del servizio, dunque, non de‑ vono aggiungersi a quelle richieste dallo Stato di stabilimento dell’impresa: l’autorità di controllo dello Stato destinatario dell’at‑ tività in questione deve tener conto degli esami e delle verifiche già effettuate nello Stato membro di provenienza. Ne deriva che il controllo dell’attività deve, in linea di principio, essere limitato al rispetto della normativa dello Stato d’origine, la quale deve essere dunque riconosciuta equivalen‑ te negli altri Paesi membri (c.d. home count‑ ry control) (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 22 ottobre 2009, n. 6481). Da quanto sinora esposto, può ricavar‑ si che la regola generale che ispira i rappor‑ ti intracomunitari è quella del mutuo rico‑ noscimento di talchè eccezionali sono le ipotesi che derogano ad esso: così, ad esem‑ pio, nel settore delle scommesse esse sono ammissibili solo quando ciò è importante per scongiurare il rischio di frodi. Di conseguenza, appare lecito subor‑ dinare l’esercizio dell’attività di interme‑ diazione nel gioco al rilascio della licenza di P.S. ex art. 88 T.U.L.P.S. purchè l’esame dei presupposti per il rilascio di quest’ulti‑ ma sia finalizzato esclusivamente ad eser‑ citare gli opportuni controlli circa la mo‑ ralità dell’intermediario e dunque a tutela dell’ordine pubblico contro il pericolo di infiltrazioni criminali nel settore (Tribu‑ nale di Catania, sez. pen. V, ord. 5 marzo 2012, n. 10/12 R). Il sistema italiano, congegnato sulla necessità di ottenere un doppio titolo, è stato al centro di due importanti pronun‑ ce comunitarie che hanno delineato, in particolare, i possibili profili di contrasto del sistema concessorio con il diritto co‑ munitario. La Corte di Giustizia ha, infatti, affer‑ mato, con la nota sentenza Placanica, che una normativa nazionale che vieta l’eserci‑ zio di attività di raccolta, di accettazione, di registrazione e di trasmissione di proposte di scommesse, in particolare sugli eventi sportivi, in assenza di concessione o di au‑ torizzazione di polizia rilasciate dallo Stato membro interessato, costituisce una restri‑ zione alla libertà di stabilimento nonché alla libera prestazione dei servizi previste rispettivamente agli artt. 43 CE e 49 CE. Spetterà ai giudici nazionali verificare se la normativa nazionale, in quanto limita il numero di soggetti che operano nel settore dei giochi d’azzardo, risponda realmente all’obiettivo mirante a prevenire l’esercizio delle attività in tale settore per fini crimina‑ li o fraudolenti (Corte giustizia CE, 06 marzo 2007 n. 228). Inoltre la Corte di Giustizia, sempre con la stessa pronuncia, ha ritenuto contrastan‑ ti con i principi comunitari, di cui agli arti‑ coli 43 e 49 del Trattato, le disposizioni nazionali che escludono dal settore dei giochi di azzardo gli operatori costituiti sotto forma di società di capitali le cui azioni sono quotate nei mercati regolamen‑ tati, ovvero che impongono una sanzione penale a soggetti per aver esercitato un’atti‑ vità organizzata di raccolta di scommesse in assenza della concessione o dell’autoriz‑ zazione di polizia richieste dalla normativa nazionale allorché questi soggetti non han‑ no potuto ottenere le dette concessioni o autorizzazioni a causa del rifiuto di tale Stato membro, in violazione del diritto co‑ munitario, di concederle loro. Con la c.d. sentenza Placanica, quindi, è stato riconosciuto che la libertà di stabili‑ mento e quella di prestazione di servizi non sono state compresse dalla disciplina nazio‑ nale solo per il fatto di aver previsto un re‑ gime concessorio in quanto tale, ma tale regime, sostenuto da ragioni di ordine pubblico e sociale, può considerarsi compa‑ tibile con quelle libertà in quanto risulti ri‑ spondente ai principi di non discriminazio‑ ne, di necessità e di proporzione (Cons. Stato, sez. VI, 22 ottobre 2009 n. 6481). I giudici europei, infatti, hanno evidenziato la contrarietà ai principi comunitari della relativa normativa italiana, solo in relazione alle modalità con cui il regime concessorio è stato disciplinato e, quindi, attuato, e non rispetto al regime dell’autorizzazione di polizia, che, invece, ha come obiettivo giu‑ stificate cautele contro fenomeni criminali, e non si configura, quindi, come incompa‑ tibile con il regime comunitario (Cons. Stato, sez. VI, sent. nn. 7407 e 7414 del 26 novembre 2009). Anche successivamente alla detta sen‑ tenza, dunque, l’attività di raccolta delle scommesse svolta senza il previo rilascio dell’autorizzazione prevista dall’art. 88 T.U.L.P.S. è da ritenersi illegittima, invol‑ gendo, tale regime autorizzatorio, non in‑ giustificate cautele contro fenomeni crimi‑ nali o di frode, e, quindi, non configuran‑ dosi incompatibile con il regime comunita‑ rio (Cons. Stato, sez. VI, del 26 novembre 2009, n. 7407). Anche la giurisprudenza penale si è espressa nello stesso senso affermando che il diniego di autorizzazione ex art.88 T.U.L.P.S., ove fondato non su specifici motivi di ordine pubblico bensì sul solo presupposto che il richiedente operi per un allibratore straniero privo di concessione rilasciata dallo Stato italiano, risulterebbe discriminatorio e pertanto illegittimo, con conseguente necessità di disapplicazione della normativa nazionale. Ed invero attri‑ buire il carattere di condotta penalmente illecita all’attività di intermediazione svolta per conto di società straniere per il solo questioni F O R E N S E 156 fatto che le stesse, pur in possesso di rego‑ lari concessioni nello Stato di appartenenza, non hanno ottenuto il relativo titolo conces‑ sorio anche in Italia (e negando conseguen‑ temente agli intermediari la licenza di P.S. ex art. 88 non perché privi dei necessari requisiti di moralità pubblica ma solo per‑ chè operano per conto di un soggetto non concessionario) costituisce normativa di‑ scriminatoria ed in contrasto con gli artico‑ li 43 e 49 del Trattato CE con la conseguen‑ te necessità di disapplicazione della norma‑ tiva nazionale (Tribunale di Catania, sez. pen. V, ord. 5 marzo 2012, n. 10/12 R). Di recente la Corte di giustizia si è di nuovo pronunciata in merito al sistema concessorio italiano in materia di gioco ed in particolare sulla compatibilità con il di‑ ritto comunitario della normativa naziona‑ le introdotta con il sopra richiamato decre‑ to Bersani. La Corte, con la sentenza Costa-Cifo‑ ne, ha così ritenuto che, in base alle dispo‑ sizioni sulla libertà di stabilimento e sulla libera prestazione di servizi, nonché sulla base dei principi generali dell’ordinamento dell’Unione, la normativa italiana non può proteggere le posizioni commerciali acqui‑ site dagli operatori esistenti prevedendo determinate distanze minime tra gli eserci‑ zi dei nuovi concessionari e quelli di tali operatori esistenti, né può imporre sanzioni per l’esercizio di un’attività organizzata di raccolta di scommesse senza concessione o senza autorizzazione di polizia nei confron‑ ti di persone legate a un operatore che era stato escluso da una gara in violazione del diritto dell’Unione. Per gli stessi motivi, tale normativa deve prevedere nei bandi di concessione condizioni e modalità di gara formulate in modo chiaro, preciso e univo‑ co (cfr. Corte giustizia CE, sez. IV, 16 feb‑ braio 2012 n. 72). La Corte di giustizia ha quindi ricono‑ sciuto che ciò che rende la normativa italia‑ na in tema di concessione incompatibile con i principi comunitari è rappresentato dalle modalità con cui il regime concessorio è disciplinato e, quindi, in concreto attuato. Il caso di specie, esaminato dal Tribu‑ nale di Santa Maria Capua Vetere, pone, altresì, in evidenza una problematica ulte‑ riore su cui appare opportuno indugiare: in particolare, il caso de quo afferisce alla questione della mancata esclusione discri‑ minatoria da una procedura di gara, alla legittimità della mancata indizione di una gara dunque alla legittimità della definizio‑ ne di periodicità della gara nonchè all’in‑ fluenza di eventuali requisiti richiesti in q u e s t i o n i gare precedenti sulla situazione di chi svol‑ ge l’attività senza previa gara. Nel caso di specie, gli avventori dell’at‑ tività commerciale di C.V. erano in collega‑ mento con una società avente il ruolo di bookmaker straniero intermediario per la raccolta di scommesse; in particolare la società risulta costituita nel 2008 ovvero dopo l’espletamento dell’ultima gara indet‑ ta dallo Stato italiano per il rilascio delle concessioni (anno 2006). La società ha presentato richiesta di rilascio di titolo abilitativo ad operare nel mercato italiano nel settembre 2011 senza ottenere risposta dalle competenti autorità ministeriali. Fermi restando i principi espressi dalla Corte di Giustizia e dalla Cassazione (mu‑ tuo riconoscimento, libertà di circolazione di merci e servizi, libertà di stabilimento, equivalenza delle legislazioni nazionali etc.), possiamo constatare come ci troviamo di‑ nanzi ad un caso differente ed ulteriormen‑ te problematico in quanto c’è concretamen‑ te da chiedersi se vi sia stata esclusione da una gara e se il meccanismo della periodi‑ cità possa essere un modo per aggirare i principi comunitari. I punti focali che si evincono dal caso in esame sono i seguenti: in primis, può affermarsi pacificamente che il sistema della gara non è mai stato ritenuto in sé incompatibile con il diritto comunitario; che la società in oggetto non era ancora nata all’epoca dell’ultima gara indetta dallo Stato italiano; che non si può imporre allo Stato di fare una gara ogni volta che una nuova società vuole operare sul mercato; che, sulla base dei dati precedenti, non ri‑ sulta che la mancata indizione di una nuova gara sia stata motivata da ragioni discrimi‑ natorie. Alla luce di tali premesse, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha, pertanto, ritenuto che “Tale situazione [...] non ha determinato l’impossibilità per la società W.P.V. ad aspirare a divenire operatore le‑ gittimamente operante in Italia in quanto non si è verificata alcuna esclusione discri‑ minatoria da una procedura di gara. D’al‑ tra parte, la definizione della periodicità delle gare d’appalto, componente integran‑ te dell’odierno sistema, non è mai stata oggetto di censure quanto alla sua compa‑ tibilità con il diritto comunitario, dato che tutte le pronunce in materia non discutono dell’ammissibilità di tale limitazione. Quel che rileva ai fini della valutazione della contrarietà alle libertà comunitarie è piut‑ tosto il profilo della definizione dei requi‑ siti per la partecipazione alla selezione o per Gazzetta F O R E N S E aspirare al rilascio del titolo abilitativo, impossibile nel caso di specie, non essendo‑ vi alcuna procedura di gara in relazione alla quale effettuare la valutazione. Nè sul punto può aversi riguardo alle caratteristi‑ che delle gare già espletate, non potendo certo sostenersi esservi stata una discrimi‑ nazione, ipotizzando che lo Stato italiano ripeterà gli errori fatti in precedenza in un’ipotetica, futura procedura di gara. In‑ fine, dagli atti non emerge neppure che la mancata indizione di un’altra gara da par‑ te dello Stato italiano sia stata motivata da ragioni discriminatorie e non, piuttosto, da esigenze di ordine e sicurezza pubblica. Sussiste, pertanto, il fumus del reato contestato in quanto V.C. ha operato senza l’autorizzazione prevista dall’art. 88 T.U.L.P.S. quale intermediario di un alli‑ bratore non legittimamente operante nel mercato italiano. Senza alcuna pretesa di esaustività e definitività, anzi partendo proprio dalla potenziale opinabilità di suddetto provve‑ dimento, può solo cogliersi l’occasione per constatare come le nuove problematiche, evidenziate dall’avvento e dalla penetrazio‑ ne sempre più rilevante del diritto comuni‑ tario nel nostro ordinamento interno, me‑ ritino un approfondimento ed una riflessio‑ ne aggiornata ad i rapporti, in continua crescita e trasformazione, tra normativa nazionale e normativa comunitaria. Il dato di fatto con cui il giurista attua‑ le si trova a convivere è, senza dubbio alcu‑ no, l’imprescindibilità del diritto dell’Unio‑ ne Europea e dei suoi principi nell’applica‑ zione e nell’interpretazione del diritto inter‑ no. Tale constatazione che, almeno fino a pochi anni addietro, sembrava non involge‑ re in toto il diritto penale - da sempre con‑ notato e contraddistinto dalla sovranità nazionale dunque dalla potestà punitiva esclusivamente dello Stato -, oggi appare quasi obsoleta e poco rispondente al vero. Fermi restando i principi cardine detta‑ ti dal nostro sistema, il legislatore comuni‑ tario, ad ogni modo, si introduce nella di‑ sciplina interna, compresa quella penalisti‑ ca ed influenza sempre più il nostro corpus normativo (basti pensare, ex multis, alla nota sentenza Pupino). È dunque questa solo l’occasione per rilevare come siano maturi i tempi per un ripensamento del legislatore nazionale che meglio definisca principi e limiti del diritto nazionale in attuazione di quella coopera‑ zione con il diritto comunitario che, ormai, è parte integrante del nostro ordinamento giuridico. F O R E N S E ● DIRITTO AMMINISTRATIVO In tema di responsabilità della P.a., con riguardo alla materia di appalti pubblici e di informative prefettizie antimafia, può configurarsi una responsabilità oggettiva della p.a.? Ida Sorrentino Dottoressa in Giurisprudenza La questione in oggetto trae spunto da una recente sentenza del Tribunale Amministrativo di Napoli n. 866 del 12 febbraio 2013. Essa si sofferma sui termini proces‑ suali per azionare la domanda risarci‑ toria fondata su una sentenza di annul‑ lamento ex. art 30, comma 5, c.p.a., sulla rilevanza della colpa nella respon‑ sabilità della p.a. in materia di appalti pubblici e di informative prefettizie antimafia e sull’onere della prova per il risarcimento dei danni derivanti dalla illegittima esclusione da una gara d’ap‑ palto. Il caso all’attenzione del Tar di Na‑ poli muove da un precedente giudizio di annullamento, conclusosi con esito fa‑ vorevole, con sentenze del Consiglio di Stato nn. 6578 e 6579 del 27 ottobre 2009. Nel caso di cui alle sentenze succi‑ tate, l’impresa ricorrente, società facen‑ te parte di un raggruppamento ATI, era risultata aggiudicatrice di un appalto. A fronte di una informativa prefettizia “atipica” (di cui all’art. 1-septies, D.l. 06 settembre 1982, n. 629), l’ammini‑ strazione aveva espresso l’intento di revocare l’aggiudicazione. Al fine di evitare la revoca dell’aggiudicazione all’ATI, con atto concordato tra la p.a. e la società capogruppo, veniva revoca‑ ta solo l’aggiudicazione all’impresa ri‑ corrente, mentre la società capogruppo restava aggiudicataria dell’appalto. Pertanto, la società esclusa agiva per l’annullamento del provvedimento di revoca e della informativa antimafia della Prefettura di Napoli. Accertata, con le pronunce succita‑ m a r z o • a p r i l e 2 0 1 3 te, l’illegittimità dell’informativa, in quanto basata su vicende datate, non accertate e non collegate a reali influen‑ ze mafiose (il cugino di un socio era stato assolto dal reato di abuso d’ufficio e il direttore tecnico della società era stato condannato nel 1983 per diversi reati tra cui porto abusivo e detenzione d’armi), e l’illegittimità del provvedi‑ mento di estromissione per mancanza di motivazione, la società aveva succes‑ sivamente agito innanzi al Tar di Napo‑ li onde ottenere il risarcimento dei danni per l’illegittimo esercizio dell’at‑ tività amministrativa. Passando al merito del giudizio, appare preliminarmente opportuno in‑ dividuare alcuni concetti chiave in tema di informativa prefettizia per poi proce‑ dere all’analisi della questione risarcito‑ ria. L’art. 247 del codice degli appalti pubblici (D.lgs. 12 aprile 2006 n. 163) espressamente prevede che le disposizio‑ ni della normativa antimafia si applica‑ no alle procedure ad evidenza pubblica di affidamento dei servizi e dei lavori pubblici, al fine di contrastare la crimi‑ nalità organizzata, ed evitare che questa possa finanziarsi attraverso le risorse pubbliche. I referenti normativi in tema di in‑ formativa antimafia ratione temporis rilevanti sono il D.lgs. 08 agosto 1994, n. 490 (integrato dal D.P.R. 3 giugno 1998 n. 252) e il d.lg. 6 settembre 1982 n.629, che individuano come organo competente l’organo prefettizio. L’art. 4 del D.lgs. 08 agosto 1994, n. 490 prevede che, prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti, ovvero prima di rilasciare o consentire le concessioni o erogazioni pubbliche, le pubbliche amministrazio‑ ni devono acquisire le informazioni prefettizie. La prassi amministrativa, sviluppa‑ tasi sull’esegesi della normativa conte‑ nuta nel D.lgs. n. 490 del 1994 e nel D.P.R. n. 252 del 1998 e supportata dalla giurisprudenza, ha delineato tre tipologie di informative prefettizie an‑ timafia: le informative antimafia inter‑ dittive “ope legis”, le informative anti‑ mafia tipiche e le informative antimafia atipiche. La prima tipologia di informativa, interdittiva “ope legis”, è prevista dal comma 7 dell’art. 10 D.P.R. n. 252 del 1998 che individua le situazioni relative 157 ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa desunte: a) da provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una con‑ danna anche non definitiva per taluno dei delitti previsti dagli artt. 629, 644, 648-bis e 648-ter c.p. o dall’art. 51 comma 3-bis c.p.p.; b) dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di taluna delle misure di cui agli artt. 2bis, 2-ter, 3-bis e 3-quater l. n. 575 del 1965. La seconda tipologia di informative prefettizie (cd. informativa tipica), di cui alla lettera c) dell’art. 10, comma 7, riguarda eventuali “tentativi di infiltra‑ zione mafiosa” tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società od imprese interessate. L’efficacia interdit‑ tiva di siffatte informativa discende da una valutazione del Prefetto. Il “tentativo di infiltrazione mafio‑ sa”, per questa seconda tipologia di informativa, può corrispondere a una forma di penetrazione criminale che non presuppone necessariamente il di‑ retto controllo della compagine societa‑ ria da parte di soggetti con precedenti penali di stampo mafioso o comunque implicati nelle attività mafiose, ma an‑ che semplici pressioni esterne influenti sulla società, tali da determinarne un effettivo condizionamento. L’informati‑ va antimafia tipica deve, però, fondarsi su fatti e vicende aventi valore sintoma‑ tico e indiziario sufficienti a dare con‑ tezza dell’esistenza di elementi dai qua‑ li sia deducibile il tentativo di ingerenza mafiosa. (Cons. Stato, sez. VI, 23 ago‑ sto 2006, n. 4737). Le due informative sopra indicate determinano una vera incapacità a con‑ trarre della pubblica amministrazione che non ha alcun potere discrezionale in ordine all’apprezzamento delle informa‑ tive. Sicché, deve ritenersi che queste tipologie di informative siano atti im‑ mediatamente lesivi, che – a differenza dell’informativa c.d. atipica che si vedrà di seguito – possono essere autonoma‑ mente impugnate in sede giurisdiziona‑ le, indipendentemente dall’esito della specifica gara in cui tale informative siano intervenute, non dovendosi atten‑ dere il consequenziale provvedimento sfavorevole adottato dall’amministra‑ zione sulla base dell’informazione. La terza tipologia di informativa prefettizia, nella quale ricade quella esaminata dal Tar Napoli nella sentenza questioni Gazzetta 158 in commento, è relativa alle informazio‑ ni cd. atipiche di cui all’art. 1-septies D.l. 6 settembre 1982, n. 629 che ri‑ guardano il rilascio di provvedimenti amministrativi ampliativi della sfera giuridica dell’interessato (concessioni, autorizzazioni per lo svolgimento di attività economiche). L’effetto interdit‑ tivo dell’informativa è rimesso non ad una valutazione del prefetto, ma ad una valutazione discrezionale dell’ammini‑ strazione destinataria dell’informativa medesima, che dovrà essere sempre motivata. L’informativa atipica ha un valore meramente endoprocedimentale, circo‑ scritto all’amministrazione cui è indi‑ rizzata e, pertanto, è un atto privo di autonoma efficacia lesiva, in quanto non comporta effetti preclusivi imme‑ diatamente incidenti nella sfera giuridi‑ ca dell’impresa, essendo unicamente diretta a fornire all’amministrazione indicazioni utili alla valutazione, nell’ambito della discrezionalità e nell’esercizio dei poteri di autotutela previsti dalla legge, dei requisiti sogget‑ tivi per l’adozione di determinazioni a vari fini, comprese quelle concernenti l’affidamento di lavori pubblici. L’infor‑ mativa atipica è, dunque, un mero atto interno non immediatamente impugna‑ bile di un subprocedimento che potrà eventualmente concludersi con un prov‑ vedimento finale della stazione appal‑ tante di esclusione dalla gara dell’im‑ presa cui si riferisce. Nel caso di cui alla sentenza in commento, il ricorrente aveva agito per il risarcimento dei danni derivati dalla illegittima esclusione dall’aggiudicazio‑ ne determinata in base a una informa‑ tiva prefettizia atipica. L’amministrazione, nell’esercizio del suo potere discrezionale, aveva ritenuto che l’impresa non avesse i requisiti per stipulare il contratto e le aveva dunque revocato l’aggiudicazione. La revoca, essendo basata su infor‑ mativa atipica, doveva essere motivata. Non essendolo, è stata ritenuta dal C.d.S. illegittima. Con l’azione risarcitoria autonoma ex art. 30, comma 5, c.p.a. proposta innanzi al Tar di Napoli, il ricorrente chiedeva il risarcimento dei danni deri‑ vati dalla illegittima informativa prefet‑ tizia e dal provvedimento di revoca dell’aggiudicazione: il danno curricula‑ re e dell’immagine, non avendo potuto q u e s t i o n i l’impresa esclusa contrarre con altre p.a.; il danno emergente (spese sostenu‑ te); il lucro cessante (perdita dell’utile contrattuale). Come è noto, in tema di risarcimen‑ to del danno derivante da responsabili‑ tà della p.a., elementi costitutivi della fattispecie sono l’illegittimità del prov‑ vedimento, la colpa, il nesso causale tra la condotta colposa cha ha dato luogo al provvedimento illegittimo e il dan‑ no. Si è molto discusso, in dottrina e giurisprudenza, sull’ubi consistam della colpa e su come debba essere distribuito l’onus probandi in caso di responsabili‑ tà della p.a. (se debba essere il privato a provare la colpa della p.a. o la p.a. a provare l’assenza della colpa). Secondo un primo orientamento, risalente agli anni successivi alla cele‑ berrima sentenza 500/99, la p.a. può essere condannata al risarcimento del danno soltanto se sia incorsa in una il‑ legittimità grave e manifesta. L’orientamento oggi accolto, disan‑ corando la colpa dalla natura della re‑ sponsabilità (atteso che in caso di re‑ sponsabilità extracontrattuale, a rigore, la prova della colpa incombe sul dan‑ neggiato), distingue l’illegittimità del provvedimento dalla colpa e sostiene che l’illegittimità del provvedimento dà luogo a una presunzione di colpa, supe‑ rabile dalla p.a. La p.a. deve, cioè, provare la scusa‑ bilità dell’errore in cui è incorsa, pro‑ vando che l’illegittimità sia determinata dalla contraddittorietà del quadro nor‑ mativo, dalle novità della norma legisla‑ tiva applicata, dalla contraddittorietà delle posizioni interpretative sulla spe‑ cifica questione (da ultimo Cons. St. sez. IV, 07.01.2013, n.23). Nel nostro sistema, dunque, per ef‑ fetto dell’evoluzione giurisprudenziale, il privato non deve provare la colpa ma è la p.a. a dovere provare l’assenza della stessa per errore scusabile. Il che non equivale ad ammettere un’ipotesi di responsabilità oggettiva, proprio perché l’elemento psicologico resta elemento costitutivo della fattispe‑ cie, sia pur presunto. Occorre, tuttavia, evidenziare che la Corte di Giustizia in una recente sen‑ tenza (30.09.2010, C314/2009), in ma‑ teria di appalti pubblici, con riferimen‑ to al sistema austriaco, ha ritenuto in contrasto con la normativa comunitaria Gazzetta F O R E N S E un sistema di giustizia che subordini il risarcimento del danno da attività ille‑ gittima della p.a. all’accertamento della colpa della p.a. (dovendo il meccanismo risarcitorio funzionare in maniera og‑ gettiva). All’esito di tale pronuncia si è svi‑ luppato un filone intepretativo, allo stato non sostenuto dalla giurispruden‑ za maggioritaria, che sostiene la confi‑ gurabilità della responsabilità della p.a. in chiave oggettiva. Della ammissibilità di una respon‑ sabilità oggettiva della p.a. e della rile‑ vanza della colpa in caso di attività il‑ legittima della p.a. si è occupata la sentenza in commento. Il Tar Napoli distingue la posizione della prefettura, che ha emanato l’infor‑ mativa, da quella della amministrazione che ha promosso la risoluzione del rap‑ porto contrattuale. Per quanto concerne la responsabi‑ lità della prefettura, il Collegio non accoglie i rilievi di parte ricorrente sull’assunta responsabilità oggettiva della prefettura, evidenziando che “la disciplina antimafia concernente la prevenzione della delinquenza di stam‑ po mafioso e le relative comunicazioni e informazioni, si colloca al di fuori della normativa in materia di appalti pubblici”. A parere del Collegio i principi di rilevanza comunitaria, relativi alla tu‑ tela della concorrenza e del libero mer‑ cato presuppongono “a monte” un so‑ strato imprenditoriale e finanziario immune da ingerenze malavitose. “Con‑ correnza e libero mercato non potreb‑ bero sopravvivere e verrebbero alla lunga soffocati a valle di un ambiente inquinato dalla delinquenza organizza‑ ta di tipo mafioso, che per sua natura tende a infiltrarsi nel tessuto produttivo con modalità apparentemente rispetto‑ se della legalità, tenendo tuttavia a piegarlo ed adattarlo, in ogni modo, ai propri interessi illeciti”. All’argomento, ben sostenuto, sulla inapplicabilità della giurisprudenza comunitaria in tema di appalti pubblici alla normativa antimafia si potrebbe obiettare, muovendo dal dato incontro‑ verso che la disciplina antimafia è ri‑ chiamata espressamente dal codice de‑ gli appalti pubblici e che le informative incidono sulla stessa aggiudicabilità dell’appalto, che sarebbe stato più op‑ portuno distinguere a seconda delle F O R E N S E informative antimafia: in caso di infor‑ mativa antimafia tipica, dunque vinco‑ lante per la stazione appaltante, essa non si colloca fuori e a monte della normativa in materia di appalti pubbli‑ ci perché impone alla p.a. di revocare l’aggiudicazione e di non stipulare il contratto. Se si assume ammissibile la responsabilità oggettiva della p.a. in tema di appalti, in caso di informativa antimafia tipica, si deve ammettere la responsabilità oggettiva anche della prefettura in quanto la colpa della p.a. e quella della prefettura coincidono. Diversamente in caso di informativa atipica, si distinguerebbero le responsa‑ bilità. Così argomentando, tuttavia, si fi‑ nirebbe per stabilire ex post la rilevanza della colpa in base alla condotta della stazione appaltante. Se si accogliesse questo assunto non si spiegherebbe l’eventuale responsabilità oggettiva del‑ la prefettura nell’ipotesi in cui all’infor‑ mativa tipica non sia immediatamente seguita la revoca dell’aggiudicazione, considerata la natura immediatamente lesiva dell’informativa tipica e dunque la sua immediata impugnabilità (pre‑ scindendo dunque dal successivo com‑ portamento della p.a.). Appare pertanto pienamente condi‑ visibile la valutazione operata dal Tar sulla inapplicabilità della giurispruden‑ za comunitaria in tema di appalti pub‑ blici alle questioni risarcitorie relative alla illegittimità delle informative anti‑ mafia. Esclusa l’ammissibilità di una re‑ sponsabilità oggettiva della prefettura, il Tar Napoli si sofferma sulla rilevanza della prova dell’elemento soggettivo nella condotta della prefettura. Il Collegio sostiene che “il risarci‑ mento del danno non è una conseguen‑ za diretta e costante dell’annullamento giurisdizionale di un provvedimento amministrativo discrezionale, in quan‑ to richiede la positiva verifica, oltre che della lesione della situazione giuridica soggettiva di interesse tutelata dall’or‑ dinamento e del nesso causale tra l’ille‑ cito e il danno subito, anche della sus‑ sistenza della colpa o del dolo della amministrazione.” A parere del Tar Napoli, la mera illegittimità dell’attività provvedimen‑ tale non può costituire presupposto sufficiente per l’attribuzione di una tu‑ tela risarcitoria, ove non accompagnato m a r z o • a p r i l e 2 0 1 3 dalla dimostrazione della sussistenza dell’elemento psicologico dell’illecito, sub specie (quantomeno) della colpa. Si è detto nella sentenza che “si deve quin‑ di verificare se l’adozione e l’esecuzione dell’atto impugnato sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede alle quali l’esercizio della funzione deve costan‑ temente ispirarsi, con la conseguenza che il giudice amministrativo può affer‑ mare la responsabilità dell’amministra‑ zione per danni conseguenti a un atto illegittimo quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento normativo e giuridico tali da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provve‑ dimento viziato e negarla quando l’in‑ dagine presupposta conduca al ricono‑ scimento dell’errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto”. Sulla base di siffatte argomentazio‑ ni, dopo aver, altresì, evidenziato il ri‑ lievo costituzionale e comunitario della tutela avverso le ingerenze malavitose, il Tar ritiene di non ravvedere la gravità della violazione e quindi la colpevolezza dell’autorità prefettizia, “in quanto vanno considerate le difficoltà e la com‑ plessità delle questioni da affrontare nell’esercizio della funzione ammini‑ strativa di merito, che nella specie im‑ plica accertamenti e verifiche delicate e complesse di una realtà sfuggente”. Sul punto la sentenza in commento, se da un lato fa proprio l’orientamento secondo cui, una volta che il privato abbia provato l’illegittimità provvedi‑ mentale, anche laddove si tratti di re‑ sponsabilità extracontrattuale (come nel caso di specie, non essendoci un diretto “contatto” tra prefettura e im‑ presa privata, attesa la natura di atto endoprocedimentale dell’informativa atipica), spetta alla p.a. provare la scu‑ sabilità dell’errore, dall’altro, nel rinve‑ nire la scusabilità dell’errore nella com‑ plessità degli accertamenti, non tiene conto della circostanza che vi fossero pregresse informative liberatorie, che avevano escluso, sulla base dei medesi‑ mi fatti, il pericolo di infiltrazioni ma‑ fiose. Pertanto, non appare riscontrabi‑ le una complessità e difficoltà tale da giustificare l’errore in cui è incorsa la 159 prefettura. Quanto alla responsabilità della Amministrazione appaltante, il Tar Napoli ha precisato che, trattandosi di informative atipiche “le determinazioni della stazione appaltante costituiscono espressione di una distinta funzione amministrativa”, in ciò conformandosi all’orientamento costante che affida alla discrezionalità della p.a. la valuta‑ zione dell’informativa atipica. Ritiene il Collegio che gli atti adot‑ tati dalla p.a. appaltante siano “risulta‑ ti viziati non solo per l’illegittimità derivata dagli atti prefettizi presuppo‑ sti, ma anche per il difetto di specifici apprezzamenti spettanti alla stazione appaltante. Ne consegue che la respon‑ sabilità dell’ANAS non si sottrae al quadro normativo che disciplina gli appalti pubblici ed all’applicazione dei principi comunitari con riferimento alla tutela risarcitoria delle imprese”. Sotto questo profilo, atteso che la sentenza non si sofferma sul profilo della colpa, ma ritiene applicabili “i principi comunitari con riferimento alla tutela risarcitoria delle imprese” sem‑ brerebbe che il Tar abbia accolto la tesi della responsabilità oggettiva della p.a. E in ciò la pronuncia rappresenta una novità, atteso che sino ad oggi la giurisprudenza maggioritaria è orienta‑ ta per la rilevanza della colpa nella re‑ sponsabilità della p.a. questioni Gazzetta Recensioni Il mutuo bancario, Cedam, 2013 165 recensioni A cura di Gabriele Burlarelli F O R E N S E ● Il mutuo bancario, a cura di Nicola Graziano, Cedam, 2013 ● Gabriele Burlarelli Avvocato La complessa tematica dei finanzia‑ menti bancari risulta essere, ad oggi, argomento di grande attualità ed inte‑ resse, non solo dal punto di vista dog‑ matico ma, anche e soprattutto, sotto il profilo pratico, per gli operatori del di‑ ritto. L’opera in esame si presenta struttu‑ rata in una pluralità di trattazioni, di notevole rilevanza dottrinaria e ricche di spunti giurisprudenziali, tendenti ad analizzare con spirito critico ed analiti‑ co, tutti gli istituti generalmente connes‑ si ai cd. finanziamenti bancari. In particolare, l’attenzione è volta sia alle modalità ‘tipiche’ di erogazione di ricchezza da parte di banche ed istituti di credito, sia alle cd. nuove frontiere contrattuali, di matrice anglosassone, relative al fenomeno in questione, ed oggetto di una sempre più ampia diffu‑ sione nel nostro panorama giuridico (si pensi in primo luogo al leasing finanzia‑ rio, o al factoring). La prima parte dell’Opera è intera‑ mente dedicata all’analisi del contratto di mutuo, sotto ogni profilo di interesse giuridico ed economico. Più in dettaglio, esso è preso in considerazione dall’Auto‑ re, in maniera puntuale e ricca di spunti riflessivi, sotto molteplici angoli visuali, sia in relazione alle fasi genetica ed ese‑ cutiva, sia in relazione alle tipologie di mutuo ad oggi esistenti. Procedendo nell’analisi, si può nota‑ re come sia presente un’ulteriore ed ampia trattazione relativa alla forma del contratto di mutuo, relativamente a tutte le sue possibili varianti: mutuo bancario, mutuo fondiario, mutuo di scopo. L’A. prende poi in considerazione la fase “finale” del contratto, relativa alla restituzione del finanziamento, de‑ m a r z o • a p r i l e 2 0 1 3 dicando peraltro ampio spazio all’anali‑ si dei termini entro i quali essa deve av‑ venire, elemento questo di grande rile‑ vanza pratica per le parti contrattuali. A conferma di ciò, da una preliminare analisi – anche giurisprudenziale – dell’art. 1816 c.c., in relazione al termine ‘legale’ di restituzione, si passa poi ad un approfondimento dei cd. termini con‑ venzionali, nonché di quelli cd. in pote‑ state creditoris. Con specifico riferimen‑ to a questi ultimi, in particolare, l’A. si esprime inizialmente in termini dubita‑ tivi, affermando che “appare piuttosto discussa la compatibilità delle cd. clau‑ sole di ripetibilità ad nutum, a mezzo delle quali al mutuante è attribuito il potere di chiedere in ogni momento la restituzione delle cose mutuate con lo schema causale del contratto di mutuo”, salvo poi concludere nel senso di ricono‑ scerne la liceità: “A ben vedere, infatti, una fattispecie caratterizzata da un termine lasciato alla discrezionalità del creditore non pare contraddire la strut‑ tura e la funzione tipica dell’operazione di mutuo, rilevandosi tuttavia come una simile possibilità non è raro che si veri‑ fichi, ad esempio, nel mutuo gratuito, ove peraltro sarà necessaria una previa richiesta di adempimento da parte del creditore (…)”. A testimonianza dell’interesse non meramente accademico, ma anche e so‑ prattutto pratico, dell’Opera in com‑ mento, non può non menzionarsi l’ap‑ profondita analisi delle cd. fasi patologi‑ che (legali e convenzionali) del contratto di mutuo. Sotto questo punto di vista, ed in specifico riferimento all’ipotesi di ri‑ soluzione contrattuale, l’A. dà atto dei contrasti dottrinari sulla natura corri‑ spettiva o meno del contratto di mutuo, affermando che “Relativamente alla ri‑ soluzione del mutuo si è molto discusso, in dottrina e giurisprudenza, se tale accordo potesse rientrare nella categoria dei contratti a prestazioni corrispettive. La soluzione della problematica ricopre un’enorme importanza sulla possibile applicazione o meno delle norme previ‑ ste esplicitamente per la categoria dei contratti a prestazioni corrispettive”; successivamente, e su tale presupposto, l’A. giunge poi ad abbracciare la tesi del mutuo quale contratto a prestazioni corrispettive, con logica applicabilità dell’istituto della risoluzione per inadem‑ pimento, dando atto che “(…) si può affermare la non configurabilità della 165 risoluzione per inadempimento solo nel caso in cui il mutuo assuma una forma gratuita, a causa dell’assenza di attribu‑ zioni patrimoniali” Strettamente connessa all’analisi generale del contratto di mutuo, v’è an‑ che una trattazione dedicata specifica‑ mente, e con particolare cura, alle varie categorizzazioni che tale figura assume. In particolare, il riferimento è al mutuo di scopo, al mutuo fondiario, e a quello ipotecario. In relazione al primo, l’A. afferma che “l’espressione ‘mutuo di scopo’ in‑ tende generalmente definire il contratto con cui una parte, al fine di realizzare un obiettivo rispondente anche ad un proprio interesse, ma che tipicamente ricade nella sfera giuridico – economica dell’altra parte, si obbliga a fornire, per un certo lasso di tempo, mezzi finanzia‑ ri a quest’ultima, la quale si impegna, a sua volta, a realizzare le attività o le opere convenute, alla eventuale corre‑ sponsione degli interessi ed alla restitu‑ zione del capitale”, ed in relazione alle finalità di esso, fa poi notare come “la destinazione che si imprime al mutuo di scopo, oltre a rappresentare un elemen‑ to idoneo a meglio definire la funzione del mutuo conferendogli una più netta connotazione finalistica in rapporto agli interessi concreti dei contraenti, model‑ la detta funzione su quegli interessi, adeguando la causa del contratto al ri‑ sultato pratico cui aspirano le parti”. Il mutuo fondiario è, viceversa, definito dall’A., come “una forma speciale di mutuo concesso da istituti di credito e diretto al miglioramento, alla costruzio‑ ne o all’acquisto di proprietà immobi‑ liari rurali o urbane, garantito da ipote‑ ca di primo grado sulle stesse”. Infine, con specifico riferimento al cd. mutuo ipotecario, l’A. dà pregevol‑ mente atto, in sede di analisi dell’istituto, che per ovviare al rischio da inadempi‑ mento del debitore “il nostro ordina‑ mento prevede un sistema di norme (…) tese a rafforzare il rapporto obbligatorio mediante la costituzione di garanzie specifiche in favore del creditore”, e che la successiva iscrizione della garanzia ipotecaria deve necessariamente “speci‑ ficare il bene oggetto di ipoteca, nonché l’entità della somma di denaro in rela‑ zione alla quale deve iscriversi il relativo vincolo”. Da queste brevi premesse, è agevole ricavare come tali istituti siano, in realtà, recensioni Gazzetta 166 oggetto di un’ottimale attività di ricerca, che prende in considerazione sia gli aspetti teorici, che i risvolti pratici, con l’aggiunta di una nutrita analisi della giurisprudenza correlata. Come supra anticipato, l’A. riserva altresì una specifica e curata trattazione agli istituti innovativi, e solo recente‑ mente affacciatisi nel nostro panorama giuridico ed economico: su tutti, facto‑ ring, leasing e i cd. contratti a supporto dell’acquisizione di partecipazioni socie‑ tarie (cd. Assets). Tali forme contrattuali, di importan‑ za sempre crescente in relazione alla mutevolezza del mercato ed agli effetti della globalizzazione, risultano infatti essere, allo stato, approfonditi solo par‑ zialmente, e a quest’Opera va quindi riconosciuto un grande contributo in tal senso. L’A. fa puntualmente notare come, in relazione al factoring, molti siano ancora i dubbi persistenti su natura giu‑ ridica e configurazione pratica dell’isti‑ tuto. Viene dato atto della “sostanziale incertezza in ordine alla qualificazione giuridica del negozio, alla sua natura unitaria o plurima, nonché in rapporto alla sua stessa causa (…) che non sarà astratta, e non potrà essere aprioristica‑ mente individuata”, giungendosi poi ad enucleare, con spirito critico, le varie teorie dottrinarie finora succedutesi, nel senso che “la generale constatazione che il trasferimento del credito non esauri‑ sca l’operazione, ha condotto alcuni giuristi a delineare l’istituto non in ter‑ mini unitari, ma distinguendo un accor‑ do quadro iniziale qualificato come contratto preliminare unilaterale o con‑ tratto normativo, distinto dai successivi negozi giuridici posti in essere nel corso del rapporto che ne scaturisce”. Come per il factoring, anche al lea‑ sing è riservata ampia trattazione, dap‑ prima distinguendosi tra leasing opera‑ tivo e leasing finanziario, e passando poi in rassegna tutti i profili di interesse ci‑ vilistico relativi ad esso. In riferimento alla causa del contratto, in particolare, l’A. afferma, condivisibilmente, che “l’operazione di leasing ha una evidente funzione di finanziamento, perché con‑ sente all’utilizzatore il godimento del bene attraverso l’impegno finanziario della concedente. Tuttavia i rapporti contrattuali si strutturano in maniera tale che non vi sia traccia del passaggio r e c e n s i o n i di denaro dal concedente all’utilizzato‑ re, ma soltanto della concessione in go‑ dimento del bene”. Di notevole interesse risulta essere altresì la suddivisione e classificazione delle singole fattispecie ‘interne’ al leasing: automobilistico, immobiliare, della PA, del consumatore, cd. sale and lease back, nonché il rappor‑ to tra l’istituto de quo e il fallimento. Gli argomenti di maggior interesse scientifico, soprattutto da un punto di vista interpretativo, risultano però esse‑ re – almeno ad avviso di chi scrive – quel‑ li relativi al diritto delle società. In particolare, il riferimento è alle forme di finanziamento societario (da intendersi quali finanziamenti in senso stretto da parte dei soci con obbligo di restituzione, cd. apporti spontanei, emis‑ sione di prestiti obbligazionari ordinari o convertibili) nonché ai cd. contratti a servizio delle acquisizioni di partecipa‑ zioni societarie in S.p.A. o S.r.l. (cd. Assets). La tematica, di sicuro interesse e di grandissima attualità, risulta ben analiz‑ zata e strutturata, con ricchi spunti inter‑ pretativi e riferimenti giurisprudenziali, che la rendono agevole alla comprensione e alla lettura, nonostante la complessità degli problematiche ivi insite. In particolare, e con esclusivo riferi‑ mento alle operazioni di cessione (o, come altrimenti qualificate di ‘acquisi‑ zione’ o ‘trasferimento’) di partecipazio‑ ni societarie, l’A. osserva come – in real‑ tà – esse siano pacificamente qualifica‑ bili come compravendite di azioni di S.p.A. o di quote di S.r.l., ed aventi con‑ seguentemente (secondo una terminolo‑ gia fatta propria nell’Opera), natura di “beni di secondo grado”, dovendosi opportunamente scindere tra ‘oggetto immediato’ della vendita (azioni o quote societarie) ed ‘oggetto mediato’ della stessa (assunzione della qualità di socio della cd. società target). Quale problematica intrinsecamente connessa all’operazione de qua, v’è pure quella relativa alle garanzie che il vendi‑ tore è tenuto a prestare in relazione alle azioni o quote compravendute. Ed in effetti, come anche affermato dall’A., le garanzie non debbono risolversi sola‑ mente nella generica dichiarazione della piena ed esclusiva titolarità del bene ce‑ duto ma debbono verosimilmente esten‑ dersi oltre, al fine di rendere edotto l’acquirente circa lo stato economico – Gazzetta F O R E N S E patrimoniale della società di riferimen‑ to, nonché alle sue future prospettive di mercato. Ed è, a ben vedere, questa la garanzia ritenuta più importante relati‑ vamente alla predetta operazione di compravendita. Con grande tecnica di approfondi‑ mento, l’Opera tratta altresì delle fasi preliminari al contratto (cd. due diligen‑ ce), concretizzate in obblighi di informa‑ zione particolareggiata sull’oggetto del contratto e sui suoi risvolti pratici, che le parti vicendevolmente si trasmettono, nonché alle singole fasi della stipulazione e alle forme contrattuali, alternative a quella di vendita, con le quali tali opera‑ zioni possono venire concretamente ad esistenza. Di grande attualità risulta essere anche la l’analisi relativa al trattamento fiscale del contratto di mutuo. In parti‑ colare, viene data trattazione dell’Impo‑ sta di Registro in relazione alle suddette forme di finanziamento, scindendosi opportunamente l’ipotesi di erogazione da parte di un soggetto non agente nell’esercizio della sua attività professio‑ nale da quella, necessariamente diversa, in cui detta operazione sia effettuata da professionisti del settore. Infine, ed a fini esclusivamente pra‑ tici - redazionali, l’A. conclude la tratta‑ zione delle tematiche, con un formulario relativo a tutte le possibili ipotesi di fi‑ nanziamento bancario, così da fornire all’operatore giuridico uno strumento di sicura utilità e facilitazione nella reda‑ zione di simili contratti, e dando corre‑ lativamente all’Opera un’importanza ed un valore ancora maggiori. Un’opera di grande spessore, quindi, atta ad orientare con tutta sicurezza l’interprete nelle scelte connesse alle te‑ matiche trattate, specialmente in un settore – come quello bancario e finan‑ ziario – nel quale si giustappongono spesso interessi contrastanti e, sotto certi aspetti, incompatibili tra loro. Cer‑ cando di offrire le migliori soluzioni giuridiche sia dal punto di vista dell’Isti‑ tuto mutuante, che dal punto di vista del consumatore (mutuatario), gli Autori pongono in essere una pregevole opera‑ zione di elaborazione ragionata degli istituti, dando atto delle potenziali con‑ seguenze concrete derivanti dall’applica‑ zione delle relative discipline, ed in rap‑ porto agli interessi portati in capo da ciascuna controparte contrattuale. Indice delle sentenze Diritto e procedura civile CORTE DI CASSAZIONE Cass. civ., sez. III, 19.02. 2013, n. 4030 (con nota di Sabbatini) Cass. civ., sez. un., 23.01.2013 n. 1521 s.m. Cass. civ., sez. I, 18.01.2013 n. 1237 s.m. Cass. civ., sez. lav., 15.01.2013 n. 809 s.m. Cass. civ., sez. III, 15.01.2013 n. 797 s.m. Cass. civ., sez. II, 14.01.2013 n. 705 s.m. Cass. civ., sez. III, 20.12.2012, n. 23625 s.m. Cass. civ., sez. un, 19.12.2012, n. 23464 s.m. Cass. civ., sez. III, 18.12.2012, n. 23318 s.m. Cass. civ., sez. III, 10.12.2012, n. 22382 s.m. Cass. civ., sez. III, 27.11.2012, n. 20984 s.m. CORTE D’APPELLO App. Napoli, sez. III, ord. 17 aprile 2013, s.m. TRIBUNALE Trib. Nola coll. A), 27.03.2013, n. 715 s.m. Trib. Napoli, G.u.p.,11.03.2013, n. 644 s.m. Trib. Nola, coll. C), 07.03.2013, n. 588 s.m. Trib. Nola, coll. A), 20.02.2013, n. 469 s.m. Trib. Napoli, G.u.p., 08.02.2013, n. 406 s.m. Trib. Napoli, G.u.p., 04.02.2013, n. 339 s.m. Trib. Napoli, G.u.p., 01.02.2013, n. 327 s.m. Trib. Nola, coll C), 31.01.2013 n. 251 s.m. Trib. Nola, coll. A), 30.01.2013, n. 237 s.m. Trib. Napoli, G.u.p., 28.01.2013, n. 264 s.m. Trib. Nola, coll. A), 27.11.2012, n. 2568 s.m. Cass. civ., sez. un.,13.11.2012, n. 19704 s.m. Cass. civ., sez. Un., 04.09.2012, n. 14828 (con nota di Catalano) CORTE D’APPELLO App. Roma, sez. I, sentenza n. 383/2013 (con nota di Scuotto) App. Napoli, sez. III, 24.02.2013 s.m. App. Napoli, sez. Persone e Famiglia, 22.02.2013 s.m. TRIBUNALE Trib. Napoli, sez. X, 28.01.2013, Giud. B. Garcia s.m. Diritto amministrativo CONSIGLIO DI STATO Cons. Stato, sez. V, 15.04.2013, n. 2063 s.m. Cons. Stato, sez. V, 11.04.2013, n. 1974 s.m. Cons. Stato, sez. V, 09.04.2013, n. 1953 s.m. Cons. Stato, sez. V, 27.03.2013, n. 1833 s.m. Cons. Stato, sez. III, 13.03.2013, n. 1494 s.m. Cons. Stato, sez. III, 05.03.2013, n.1328 s.m. Trib. Napoli, sez. X, 28.01.2013, Giud C. Sorrentini s.m. Trib. Napoli, sez. X, 25.01.2013, Giud. C. d’Ambrosio s.m. Diritto e procedura penale CORTE DI CASSAZIONE Cass. pen., sez. I, 20.04.2012, n. 17545 (con nota di Semeraro) Cass. pen., sez. VI, 15.03.2013, n. 14454 s.m. Cass. pen., sez. II, 26.02.2013, n. 11938 s.m. Cass. pen., sez. VI, 25.02.2013, n. 13047 s.m. Cass. pen., sez. VI, 25.02.2013, n. 11944 s.m. Cass. pen., sez. VI, 25.02.2013, n. 11942 s.m. Cass. pen., sez. VI, 11.02.2013, n. 11808 s.m. TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE T.a.r. Campania, sez. I, 18.03.2013, n. 1504 s.m. Diritto internazionale CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA C.G.U.E., sez. III, 25.04.2013, Causa C–81/12, A./Consiliul National pentru Combaterea Discriminarii (con nota di Romanelli) CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI C.E.D.U, Grand Chamber, 19.02.2013, Causa 19010/07 (con nota di Romanelli) Cass. pen., sez. VI, 11.02.2013, n. 12388 s.m. Corte Suprema dell’India Cass. pen., sez. VI, 11.01.2013, n. 16154 s.m. Corte Suprema dell’India, Novartis AG v. Union of India & Others, 01.04.2013 (con nota di Sorrentino) Cass. pen., sez.un., 20.12.2012, n. 14978 (con nota di Pignatelli)