Gazzetta
F O R E N S E
Bimestrale
Anno 7 – Marzo – Aprile 2013
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n. registraz. tribunale
N. 21 del 13/03/2007
finito di stampare da
360o ‑ Roma – nell'aprile del 2013
SOMMARIO
Editoriale
[ A cura di Roberto Dante Cogliandro ]
Diritto e procedura civile
La mediazione civile in Italia: riferimenti giuridici europei e comparati
Pierangelo Bonanno
Il contenuto del testamento apre le porte alla diseredazione espressa
Flora Caputo e Gaetano del Giudice
L’istituzione familiare dall’unità d’Italia alla Costituzione repubblicana
Antonio Bova
9
13
21
Sono leciti gli accordi prematrimoniali?
Nota a Corte di Cassazione, sez. civ. I, 23 dicembre 2012, n. 23713
Giusy Cante e Carmen Pennacchio
32
Rassegna di legittimità [A cura di Corrado d’Ambrosio]
42
Rassegna di merito [A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa]
44
In evidenza
Cassazione Civile, SEZ. I, 14 settembre 2012 n. 15449
46
In evidenza
Corte D’appello di Roma, Sez. I, sentenza n. 383/2013
50
Diritto e procedura penale
La Cassazione alla faticosa ricerca del confine fra induzione e costrizione
61
Raffaele Cantone
La rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nel giudizio di appello alla luce
dell’evoluzione giurisprudenziale di legittimità
68
Rossella Catena
Competenza del giudice dell’esecuzione: scelta definitiva della Corte
di Cassazione per il criterio cronologico?
77
Luca Semeraro
L’utilizzo dei principi della Corte EDU per risolvere i casi di conflitto apparente
di norme
79
Vittorio Sabato Ambrosio
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
84
A cura di Angelo Pignatelli
Rassegna di legittimità [
Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
87
90
Diritto amministrativo
Gli strumenti amministrativi di contrasto alla corruzione. I piani anticorruzione.
97
Carlo Buonauro
La giustiziabilità degli atti politici ex art. 113 Cost.
105
Vittorio Sabato Ambrosio
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture
(d.lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.)
110
A cura di Almerina Bove
Diritto tributario
L’abuso del diritto nel sistema tributario: evoluzione legislativa e giurisprudenziale
115
Clelia Buccico
Diritto internazionale
L’incremento dell’efficacia nota quale requisito per la brevettabilità dei nuovi farmaci in India
Nota a Corte Suprema Indiana, Novartis AG v. Union of India & Others, 01 aprile 2013
133
Giovanna Sorrentino
Rassegna di diritto internazionale
145
A cura di Francesco Romanelli
Questioni
[ A cura di Mariano Valente ]
Quando l’Amministrazione penitenziaria detiene presso di sé il peculio di un
internato, è possibile rivolgere nei suoi confronti un atto di pignoramento che vede
l’Amministrazione in qualità di “terzo” debitor debitoris? O piuttosto, è necessario
153
un pignoramento diretto al solo obbligato? / Marianna Falco
Se ed entro che limiti sia possibile applicare il regime concessorio-autorizzatorio anche
nei confronti degli allibratori stranieri, residenti in altri Stati comunitari e ivi regolarmente
abilitati a raccogliere scommesse secondo la legislazione del loro Stato di appartenenza,
senza che ciò costituisca contrasto con i principi comunitari di libertà di stabilimento e
di libera prestazione dei servizi di cui agli artt. 43 e 49 TCE, nonché, ed in particolare, se
sia legittima la mancata indizione di una gara e se il meccanismo della periodicità della
154
stessa possa essere un modo per aggirare i principi comunitari. / Anna Sofia Sellitto
In tema di responsabilità della P.a., con riguardo alla materia di appalti pubblici e
di informative prefettizie antimafia, può configurarsi una responsabilità
oggettiva della p.a.? / Ida Sorrentino 157
Recensioni
Il mutuo bancario, Cedam, 2013 A cura di Gabriele Burlarelli
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●
Interventi chiari
e concreti per il nuovo
Ministro della Giustizia
● Roberto Dante Cogliandro
Notaio
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5
Cosa il Paese si attende dal nuovo Ministro della Giustizia
del Governo Letta è cosa fin troppo ovvia e soprattutto più
volte predicata negli ultimi mesi se non anni. I cittadini e il
mondo delle imprese si augurano che il nuovo Guardiasigilli
possa in primis mettere mano alle lunga variegata e complessa
macchina della giustizia civile, di solito in secondo piano ri‑
spetto ai più clamorosi e mediatici problemi della giustizia
penale. Soprattutto per esigenze di integrazione europea il
nostro Paese non può più permettersi di esserne uno degli ul‑
timi per durata media dei procedimenti civili e soprattutto in
tema di recupero credito, dove ci assestiamo agli ultimi posti
nelle annuali statistiche redatte dagli organismi internaziona‑
li di referaggio.
Con ciò disincentivando, anche per le scarse garanzie per
la tutela del credito, gli investitori esteri i quali nel momento
in cui decidono di investire in Italia, ben conoscendo le scarse
e poco efficaci tutele giurisdizionali, preferiscono ricorrere
all’uso ove possibili delle clausole arbitrali o conciliative che
anche se più costose garantiscono le parti certamente in ter‑
mini di durata della controversia.
Una revisione organica di tutti i riti del processo civile è
sicuramente uno dei primissimi passi che il nuovo esecutivo
con il sostegno delle relative commissioni parlamentari dovrà
compiere nell’ottica di semplificazione da troppi lacci e lacciu‑
oli che burocraticizzano solo il processo civile. A tal uopo,
basti pensare ai numerosi interventi posti in essere negli ultimi
anni con l’intento di velocizzare ma che in realtà poi anno fi‑
nito solo per problematicizzare l’iter giudiziario; basti pensare
da ultimo al cd Tribunale delle Imprese.
Che ha solo una indicazione terminologica giornalistica e
ad effetto, ma poi nella realtà si è rilevato di scarso impatto
pratico. Vuoi perché ha dovuto fare i conti con la carenza di
giudici, cancellieri e risorse da applicare a queste sezioni spe‑
cializzate, vuoi perché il rito da applicarsi è risultato da subi‑
to vetusto e poco aderente ai tempi della giustizia civile. In‑
somma è giunto il momento in cui il nostro legislatore ponga
in essere una riforma radicale e complessiva della complessa
macchina della giustizia civile, dove i tempi si sono rilevati la
piaga per il sistema impresa.
Per fare ciò certamente un primo passo deve muoversi at‑
traverso il rafforzamento delle strutture giudiziarie esistenti
con l’innesto di nuove risorse umane e tecnologiche ed al tem‑
po stesso la soppressione di strutture giudiziarie nate per fina‑
lità meramente campanilistiche (rectius: Giudici di Pace disse‑
minati a macchi d’olio) che con il tempo hanno finito con
l’assorbire risorse umane e materiali. Una campagna straordi‑
naria per il sistema giustizia deve poi passare attraverso l’as‑
sunzione di personale amministrativo e tecnico giovane che
possa ben supportare l’attività giudiziaria dei magistrati. In‑
fatti, se il numero di questi ultimi è aumentato negli ultimi
anni, lo stesso non lo si può dire per il personale di cancelleria
che anzi andando in pensione non è stato sostituito, creando
un rallentamento della macchina giustizia nel suo complesso.
Diritto e procedura civile
La mediazione civile in Italia: riferimenti giuridici europei e comparati
Pierangelo Bonanno
9
Il contenuto del testamento apre le porte alla diseredazione espressa
Flora Caputo e Gaetano del Giudice
13
L’istituzione familiare dall’unità d’Italia alla Costituzione repubblicana
Antonio Bova
21
Sono leciti gli accordi prematrimoniali?
Nota a Corte di Cassazione, sez. civ. I, 23 dicembre 2012, n. 23713
Giusy Cante e Carmen Pennacchio
32
Rassegna di legittimità [A cura di Corrado d’Ambrosio]
42
Rassegna di merito [A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa]
44
In evidenza
In evidenza
Corte D’appello di Roma, Sez. I, sentenza n. 383/2013
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50
civile
Cassazione Civile, SEZ. I, 14 settembre 2012 n. 15449
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La mediazione civile
in Italia:
riferimenti giuridici
europei e comparati
● Pierangelo Bonanno
Mediatore
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Sommario: 1. L’abrogazione dell’obbligatorietà della media‑
zione civile – 2. La proposta dei “saggi” di reintrodurre
l’obbligatorietà della mediazione per arginare l’arretrato giu‑
diziario – 3. Nuovo impulso normativo del Parlamento euro‑
peo allo sviluppo delle procedure Adr – 4. La mediazione
civile in Romania: l’obbligo della sessione informativa.
1. L’abrogazione dell’obbligatorietà della mediazione civile
La Corte costituzionale con la sentenza n. 272 del 6 dicem‑
bre 20121, ha reso note le motivazioni attraverso le quali ha
dichiarato incostituzionale per eccesso di delega la mediazio‑
ne civile e commerciale obbligatoria, motivazioni che la stessa
Corte aveva anticipato mediante un comunicato successiva‑
mente alla seduta del 24 ottobre 2012. Dalla lettura della
sentenza, in via preliminare, il Giudice Costituzionale sotto‑
linea che nel nostro Ordinamento il Legislatore delegato
mantiene una certa autonomia decisionale nella redazione del
testo normativo, ma deve attenersi alle linee guida delineate
sia in maniera esplicita che implicita del Parlamento. In altri
termini indica che la conformità di un decreto legislativo ri‑
spetto alla legge delega deve essere valutata anche in base alle
finalità con cui è stata adottata la delega ed al contesto nor‑
mativo in cui è nata. Nella sostanza non era necessario che
l’obbligatorietà della mediazione fosse espressamente inserita
nelle legge delega 2 , ma che la si evincesse anche in maniera
implicita. La Corte, quindi, analizza tutta la normativa comu‑
nitaria e nazionale nel cui ambito è nato il d.lgs. 28/20103 per
verificare la sussistenza o meno di un implicito richiamo
all’obbligatorietà della mediazione civile. Dall’esame della
normativa europea4 si denota come questa rimanga neutrale
rispetto alla scelta di un sistema di mediazione obbligatorio o
facoltativo. Scelta che viene demandata all’autonoma decisio‑
ne del legislatore nazionale. Per quanto riguarda la normativa
nazionale, sottolinea il Giudice costituzionale, la legge delega
nasce con un evidente richiamo al previgente modello della
conciliazione societaria su base facoltativa. Tale circostanza
avvalora l’ipotesi che il legislatore delegante aveva in mente
anche per la mediazione civile un analogo carattere facoltativo
e nulla contrasta con tale interpretazione. Appare utile ricor‑
dare che la legge delega, all’art. 60 nel prevedere per gli avvo‑
cati l’obbligo di informare i propri clienti in merito alla me‑
diazione, parla di “…informare l’assistito della possibilità di
avvalersi dell’istituto della conciliazione” e non dell’obbligo.
La Corte, inoltre, respinge l’accostamento della fattispecie in
questione con quella decisa con la sentenza n. 276 del 2000.
In quel caso si trattava di verificare la costituzionalità del
tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie in
materia di lavoro. In maniera inequivocabile la Corte Costi‑
tuzionale sancisce l’incostituzionalità del tentativo obbligato‑
rio di mediazione per eccesso di delega e non si pronuncia su
altri profili.
Ne consegue che dalla motivazione della sentenza non
emerge alcuna censura nei confronti della mediazione obbli‑
gatoria e che, quindi, potrà essere reintrodotta nel nostro or‑
1G.U.R.I., ser. Spec., 12 dicembre 201, n. 49.
2 l., 18 giugno 2009, n. 69 in www.normattiva.it.
3G.U.R.I., 05 marzo 2010, n. 53.
4 Dir. Ce 2008/52/ce, in juris data.
civile
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dinamento in qualsiasi momento, purché con idoneo strumen‑
to normativo.Appare ulteriormente necessario evidenziare
dall’esito della sentenza, come nulla cambi rispetto al passato
in relazione alle procedure di mediazione volontarie, a quelle
delegate, nonché a quelle nascenti da clausola contrattuale, o
statutaria, che continueranno a essere attivate e gestite in
base alle disposizione del d.lgs n. 28 del 2010 andate esenti
dall’intervento del Giudice delle leggi.
L’ampia pronuncia della Consulta, che ricostruisce anali‑
ticamente tutte le numerose ordinanze di rimessione delle
varie questioni di legittimità, partendo da quella del Tar Lazio
del 12 aprile 2011 a quelle dei diversi Tribunali ordinari e dei
Giudici di pace, si incentra e si esaurisce nell’esame di una
questione che diviene immediatamente assorbente. L’articola‑
ta disamina circa la possibilità di ricondurre la previsione
dell’obbligatorietà5 di cui ai principi e criteri direttivi della
legge delega6, anche attraverso una ricostruzione del percorso
comunitario7, spinge la Corte a dichiarare l’ incostituzionali‑
tà proprio sotto il profilo dell’eccesso di delega. La conclusio‑
ne è inevitabile nell’iter argomentativo della Consulta e
quindi all’operatore non resta che prendere atto che il Gover‑
no nell’emanare il d.lgs. 28/2010 in relazione alla condizione
di procedibilità ha ecceduto rispetto alle attribuzioni che allo
stesso erano state conferite dal Parlamento. Per cui con la
sentenza n. 272/2012 la Consulta dichiara l’illegittimità co‑
stituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto legislativo 4
marzo 2010, n. 28 ed altresì in via consequenziale8 anche
l’incostituzionalità, derivata di una serie di norme9. Tra le
norme che cadono a seguito del pronunciamento della Corte
per illegittimità derivata, che peraltro non trova una specifica
motivazione nel corpo della decisione, si deve rimarcare: – la
incostituzionalità dell’art. 8, comma 5, d.lgs. 28/201010 nella
prima norma in base alla quale «Dalla mancata partecipazio‑
ne senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il
giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giu‑
dizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di
procedura civile». Al riguardo si deve rilevare come la dottri‑
na aveva ritenuto di poter ritenere la stessa applicabile a tutti
i procedimenti di mediazione e non soltanto quelli derivanti
dalla condizione di procedibilità ex lege. Appare evidente che
la Consulta assume sulla questione una diversa posizione
dichiarandone l’incostituzionalità. Con riferimento invece
alla seconda norma contenuta nel comma 5 dell’art. 8, Dlgs
28/2010, secondo la quale «Il giudice condanna la parte co‑
stituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipa‑
to al procedimento senza giustificato motivo, al versamento
all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo
corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio»11,
il generico richiamo all’art. 5 del d.lgs. 28/2010 conduce alla
decisione di illegittimità pur dovendo rilevare come la man‑
cata specificazione del comma 1 non consentiva di ricondur‑
5 D.lgs. n. 28 del 2010, art. 5, comma 1, in www.normattiva.it.
6L., 18 giugno 2009, n. 69, art. 60, in www.normattiva.it.
7 Dir. ce 2008/52/CE, in Juris data.
8L., 11 marzo 1953, n. 87, art. 27.
9 Marinaro, Con l’abrogazione dell’obbligatorietà cadono anche le conseguenza
sanzionatorie, in Guida dir., 2012.
10G.U.R.I., 5 marzo 2010, n.53.
11 d.l., 13 agosto 2011, n. 138, art. 2, comma 35‑sexies, in www.normattiva.it.
c i v i l e
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re tale previsione alla sola obbligatorietà legale, ma altresì
anche alle altre modalità di accesso alla mediazione quali
quelle previste dal comma 2, mediazione su invito del giudice,
e dal comma 5, mediazione ex contractu, del medesimo art. 8
d.lgs. 28/2010; – cade l’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 11
in conseguenza della demolizione dell’art. 13 d.lgs. 28/2010.
Anche in questo caso la Corte collega strettamente, ma il
dato è meramente interpretativo e non testuale, queste norme
all’art. 5, comma 1, d.lgs. 28/2010, stabilendo un nesso di
interdipendenza necessaria tra la mediazione obbligatoria, la
proposta del mediatore e le conseguenze sanzionatorie deri‑
vanti dalla mancata accettazione della stessa secondo i para‑
metri ivi fissati12.
2. La proposta dei “saggi” di reintrodurre l’obbligatorietà della
mediazione per arginare l’arretrato giudiziario
Il Presidente della Repubblica ha istituito il 30 marzo 2013
due gruppi di lavoro con il compito di proporre, attraverso due
distinti rapporti, delle misure dirette ad affrontare tanto la
crisi economica quanto la crisi del sistema istituzionale. Ai due
gruppi di lavoro è stato assegnato il compito di misurare, sulle
questioni affrontate, i livelli di convergenza e i punti di diver‑
genza tra i componenti del gruppo di lavoro al fine di facilita‑
re un ampio consenso tra le forze politiche presenti in Parla‑
mento. In particolare, nella relazione finale inerente le riforme
istituzionali presentata il 12 aprile 2013 al Presidente della
Repubblica, si evidenzia quali siano stati i propositi e le meto‑
dologie utilizzate, il gruppo di lavoro“ha concepito se stesso
come organismo non formalizzato e di breve durata, che non
deve interferire né con l’attività del Parlamento, né con le deci‑
sioni che spettano alle forze politiche. Si é posto perciò l’obbiet‑
tivo di formulare alcune brevi proposte programmatiche che
possano divenire, con diverse modalità, terreno di condivisione
tra le forze politiche. Il gruppo di lavoro ha raggiunto un ele‑
vato grado di condivisione sulle proposte raccolte nel rapporto,
salvo pochi casi, specificamente segnalati, nei quali le differen‑
ti opinioni non hanno trovato un punto di mediazione”. Appa‑
re opportuno ricordare che in tema di riforme istituzionali il
gruppo di lavoro è stato composto da Mario Mauro, Valerio
Onida, Gaetano Quagliariello, Luciano Violante. Il capitolo V
della relazione è dedicato all’Amministrazione della Giustizia,
infatti i c.d. saggi ritengono che “i conflitti ricorrenti tra poli‑
tica e giustizia si affrontano assicurando che ciascun pote‑
re – quelli politici, legittimati dal processo democratico, e
quello giurisdizionale, legittimato dal dovere di applicare la
legge in conformità alla Costituzione – operi nel proprio am‑
bito senza indebite interferenze in un quadro di reciproca indi‑
pendenza, di leale collaborazione, di comune responsabilità
costituzionale. Una buona e costante manutenzione dell’ordi‑
namento e una migliore qualità della legislazione favoriscono
la certezza del diritto e prevengono i conflitti”. Nella relazione
gli obiettivi ritenuti prioritari nel campo della amministrazione
della giustizia riguardano principalmente: il rispetto effettivo
di tempi ragionevoli di durata dei processi, oggi carente, come
dimostrato dal moltiplicarsi dei ricorsi in base alla legge “Pin‑
to” nonché alla Corte europea dei diritti, sia sul piano della
12 Marinaro, op. cit., 2012.
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giustizia penale, amministrativa e contabile, sia sul piano della
giustizia civile (dove la lentezza dei procedimenti penalizza lo
sviluppo e la competitività del paese); la riduzione della iper‑
trofia del contenzioso; la maggiore efficacia dell’azione preven‑
tiva e repressiva, oltre che dei fenomeni della criminalità orga‑
nizzata, dei fenomeni di corruzione nella vita politica, ammi‑
nistrativa ed economica; l’esigenza di contenere il fenomeno dei
contrasti fra diversi organi giudiziari, nonché, sul piano pena‑
le e della giustizia contabile, il fenomeno di iniziative che ten‑
dono ad intervenire anche in sostanziale assenza di vere, og‑
gettive e già acquisite notizie di reato o di danno erariale, in
funzione di controllo generalizzato su determinati soggetti o
procedimenti; il perfezionamento del sistema di tutela dei di‑
ritti fondamentali, che si avvale oggi del riconoscimento pieno
del diritto al giudice, dell’ampia apertura agli strumenti di
tutela internazionali, e di organi giudiziari indipendenti, ma
non sempre è effettivo a causa di lacune normative e di carenze
organizzative. Nel dettaglio per la giustizia civile il gruppo dei
saggi propone: “l’instaurazione effettiva di sistemi alternativi
(non giudiziari) di risoluzione delle controversie, specie di mi‑
nore entità, anche attraverso la previsione di forme obbligato‑
rie di mediazione (non escluse dalla recente pronuncia della
Corte costituzionale – sent. n. 272 del 2012 – che ha dichiara‑
to illegittima una disposizione di decreto legislativo che dispo‑
neva in questo senso, ma solo per carenza di delega); questi
sistemi dovrebbero essere accompagnati da effettivi incentivi
per le parti e da adeguate garanzie di competenza, di impar‑
zialità e di controllo degli organi della mediazione”. Si registra
che nessuno dei componenti del gruppo di lavoro ha espresso
osservazioni di senso contrario in riferimento alla proposta
d’inserimento dell’obbligatorietà della mediazione civile nell’or‑
dinamento giuridico.
3. Nuovo impulso normativo del Parlamento europeo allo sviluppo delle procedure Adr
In tema di Adr il Parlamento europeo, il 12 marzo 2013,
ha adottato una nuova direttiva rivolta agli Stai membri. In
particolare all’art. 1 si precisa quale sia l’obiettivo che la diret‑
tiva si prefigge di raggiungere cioè contribuire al corretto
funzionamento del mercato interno garantendo che i consuma‑
tori possano, su base volontaria, presentare reclamo nei con‑
fronti di professionisti dinanzi a organismi che offrano proce‑
dure indipendenti, imparziali, trasparenti, efficaci, rapide ed
eque di risoluzione alternativa delle controversie. Allo stesso
tempo la direttiva comunque non pregiudica la legislazione
nazionale che preveda l’obbligatorietà di tali procedure, a con‑
dizione che tale legislazione non impedisca alle parti di eserci‑
tare il loro diritto di accedere al sistema giudiziario. Base giu‑
ridica della direttiva è il Trattato sul funzionamento dell’Unio‑
ne europea che stabilisce al suo interno che l’Unione deve
contribuire ad assicurare un livello elevato di protezione dei
consumatori13 ed anche la stessa Carta dei diritti fondamenta‑
li dell’Unione europea stabilisce che nelle politiche dell’Unione
deve essere garantito un livello elevato di protezione dei consu‑
matori14. Appare opportuno rimarcare che il fine principale di
questa fonte del diritto comunitario è nei suoi fini generali
13TFUE, articolo 169, paragrafo 1e paragrafo 2, lett. A.
14 CDFUE, articolo 38.
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11
l’avvicinamento degli istituti giuridici riguardanti le procedure
di Adr tra gli Stati dell’Unione. La recente direttiva parlamen‑
tare delinea, inoltre, i limiti entro cui essa vada applicata, cioè
alle procedure di risoluzione extragiudiziale delle controversie,
nazionali e transfrontaliere, concernenti obbligazioni contrat‑
tuali derivanti da contratti di vendita o di servizi tra professio‑
nisti stabiliti nell’Unione e consumatori residenti nell’Unione
attraverso l’intervento di un organismo Adr che propone o
impone una soluzione o riunisce le parti al fine di agevolare
una soluzione amichevole. Il Parlamento europeo sostanzial‑
mente stabilisce nello stesso atto i requisiti armonizzati di
qualità in materia di organismi Adr e di procedure in modo da
garantire che, a seguito della relativa attuazione, i consumato‑
ri abbiano accesso a meccanismi extragiudiziali di ricorso
trasparenti, efficaci, equi e di elevata qualità, a prescindere dal
luogo di residenza all’interno dell’Unione. Comunque gli Stati
membri possono conservare o introdurre norme che prevedano
misure ulteriori rispetto a quanto stabilito dalla direttiva al
fine di assicurare un livello superiore di tutela dei consumatori.
La frammentazione del mercato interno è negativa per la com‑
petitività, la crescita e la creazione di posti di lavoro dell’Unio‑
ne. Per il completamento del mercato interno è essenziale eli‑
minare ostacoli diretti e indiretti al suo corretto funzionamen‑
to e migliorare la fiducia dei cittadini. Secondo le disposizioni
contenute nella direttiva è opportuno che i consumatori trag‑
gano vantaggio dall’accesso a mezzi facili, rapidi e a basso
costo per risolvere le controversie nazionali e transfrontaliere
derivanti da contratti di vendita o di servizi, in modo da raf‑
forzare la loro fiducia nel mercato. Tale accesso dovrebbe va‑
lere sia per le operazioni online che per quelle offline, soprat‑
tutto se i consumatori acquistano oltre confine. In tema di
trasparenza gli Stati membri dovranno garantire che gli orga‑
nismi rendano disponibili al pubblico sui loro siti web, su un
supporto durevole su richiesta e in qualsiasi modo essi ritenga‑
no appropriato, le relazioni annuali d’attività. Tali relazioni
comprenderanno le informazioni relative alle controversie sia
nazionali sia transfrontaliere. Gli Stati membri dovranno ga‑
rantire che le procedure Adr siano efficaci e rispettino soprat‑
tutto determinati requisiti che forniscano garanzia di traspa‑
renza, cioè occorre che: la procedura sia disponibile e facilmen‑
te accessibile online e offline per entrambe le parti, a prescin‑
dere dalla loro ubicazione; le parti hanno accesso alla proce‑
dura senza essere obbligate a ricorrere a un avvocato o consu‑
lente legale senza che la procedura precluda alle parti il loro
diritto di ricorrere al parere di un soggetto indipendente o di
essere rappresentate o assistite da terzi in qualsiasi fase della
procedura; sia gratuita o disponibile a costi minimi per i con‑
sumatori. Nella direttiva il Parlamento non trascura di preci‑
sare come la crescente importanza del commercio elettronico
e, in particolare, del commercio transfrontaliero quale pilastro
dell’attività economica dell’Unione, imponga un’infrastruttura
ADR negli Stati membri, omogenea ed efficace, opportuna‑
mente funzionante per le controversie dei consumatori ed un
quadro opportunamente integrato di risoluzione delle contro‑
versie online per le controversie dei consumatori derivanti da
operazioni effettuate online (ODR) al fine di conseguire l’obiet‑
tivo dell’atto per il mercato unico, di rafforzare la fiducia dei
cittadini nel mercato interno.
La risoluzione alternativa delle controversie appartiene
pienamente al patrimonio giuridico dell’Unione europea poi‑
civile
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
ché garantisce una soluzione semplice, rapida ed extragiudi‑
ziale alle controversie tra consumatori e professionisti. Tutta‑
via, l’ Adr non è ancora sviluppata in maniera sufficiente e
coerente nell’Unione. È un dato incontrovertibile che l’Adr
non sia stato attuato correttamente e non funzioni in modo
soddisfacente in tutte le zone geografiche o in tutti i settori
economici dell’Unione nonostante le raccomandazioni della
Commissione15, riguardante i principi applicabili agli organi
responsabili per la risoluzione extragiudiziale delle controver‑
sie in materia di consumo e sui principi applicabili agli orga‑
ni extragiudiziali che partecipano alla risoluzione consensua‑
le delle controversie in materia di consumo16. La direttiva non
dimentica di ribadire come i consumatori e i professionisti non
siano ancora a conoscenza dei meccanismi extraprocessuali
di ricorso esistenti e soltanto un’esigua percentuale di cittadi‑
ni sa come presentare un reclamo a un organismo. Laddove
le procedure legate all’Alternative dispute resolution sono
disponibili, i loro livelli qualitativi variano notevolmente da
uno Stato membro all’altro e le controversie transfrontaliere
non sono spesso trattate in modo efficace dagli organismi.
4 La mediazione civile in Romania: l’obbligo della sessione informativa
L’istituto della mediazione civile è parte integrante del
sistema giuridico rumeno. In particolare l’attività legislativa
del Parlamento si è caratterizzata per dinamicità ed efficacia
per tentare di arginare l’arretrato giudiziario nazionale. È
utile ricordare che gli strumenti alternativi di risoluzione
delle controversie in Romania sono essenzialmente la conci‑
liazione in materia commerciale1, l’arbitrato tradizionale ed
online e la mediazione. In particolare, la legge 192/2006 re‑
gola la mediazione e la professione del mediatore. La norma‑
tiva disciplina in modo completo la mediazione civile ed in
parte quella familiare e penale17. L’art. 1 della legge stabilisce
che la mediazione è una modalità alternativa di risoluzione
dei conflitti, o una procedura volontaria e confidenziale per
mezzo di una terza persona neutrale, imparziale e senza alcun
potere decisionale, cioè il mediatore che agevola le parti nel
raggiungimento condiviso di un mutuo accordo volto alla
risoluzione del conflitto in essere tra le parti. Ad innovare il
dettame originario è intervenuta la l.370/2010, che ha elimi‑
nato il termine “alternativa”. In questo modo si e’ cercato di
ovviare alla opinione comune secondo cui la scelta di rivol‑
gersi allo strumento di mediazione possa interdire dalla
possibilità di rivolgersi poi anche ad altri metodi di risoluzio‑
ne dei conflitti. La mediazione rappresenta un’attività di
pubblico interesse18. Nell’esercizio delle sue competenze, il
mediatore non ha potere decisionale in termine di contenuti
dell’accordo che le parti possono raggiungere, ma può fornire
direttive per le parti perché possano verificare la legittimità
del loro accordo19.. L’art. 59 prevede che l’accordo possa esse‑
re dotato di efficacia esecutiva mediante l’atto di un notaio
pubblico oppure attraverso il recepimento in una decisione del
15 Racc. CE, 30 marzo 1998, 98/257/CE, in Juris data.
16 Racc. CE, 04 aprile 2001, 2001/310/CE, in Juris data.
17 calcagno, Strumenti di composizione dei conflitti in Romania, in mediaresen‑
zaconfini.org, 2012
18 l., 16 maggio 2006, n.192, art. 4 c. 1.
19 l., 16 maggio 2006, n.192, art. 4 c. 2.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
tribunale. All’uopo la legge 202/10 stabilisce da ultimo che se
le parti si riconciliano il giudice incorporerà il loro accordo
con propria decisione. Le parti possono rappresentare al giu‑
dice che hanno raggiunto un accordo in qualsiasi momento in
udienza e fuori udienza (in tal ultimo caso il giudice decide in
camera di consiglio). L’accordo sarà presentato in forma scrit‑
ta. La decisione che incorpora l’accordo è inappellabile. La
mediazione può avvenire tra due o più parti 20. Le parti hanno
il diritto di scegliere liberamente il proprio mediatore21. La
mediazione può essere effettuata da uno o più mediatori 22.
Anche in Romania come in Italia la mediazione può essere
multi parte ed in relazione a questo tipo di conflitti vi posso‑
no essere anche più mediatori che si occupano dello stesso
conflitto. Rispetto a questa breve introduzione che delinea i
caratteri dell’istituto in Romania è opportuno rimarcare da
subito le recenti innovazioni giuridiche introdotte all’interno
del quadro normativo. In particolare, è stato introdotto l’ob‑
bligo di un sessione informativa di mediazione sia in fase
preventiva, sia in fase di giudizio su impulso del giudice. L’in‑
novazione normativa, entrata in vigore nell’ottobre 201223, è
stata successivamente modificata dall’ordinanza urgente del
Governo, del 12 dicembre 2012, affermando quindi che tran‑
ne che la legge non disponga diversamente, le parti, fisiche o
persone giuridiche, sono tenute a partecipare ad una sessione
informativa sui vantaggi della mediazione, compreso, se ne‑
cessario, il caso di giudizio già instaurato davanti alla Corte,
in modo da risolvere il conflitto in diritto civile, famiglia,
questioni penali ed altro. Da ciò si desume come concretamen‑
te la sessione informativa è prevista per ogni tipo di giudizio24.
Il Legislatore rumeno ha precisato che il mediatore rilasci
alle parti un certificato con cui attesta di aver rilasciato l’in‑
formativa, se non si partecipa o si rifiuta o non si risponde
all’invito del mediatore a partecipare alla sessione informati‑
va obbligatoria questi deposita una relazione in tribunale. Il
giudice dichiarerà il ricorso in giudizio inammissibile sia nel
caso in cui non si sia provveduto a partecipare alla sessione
informativa preventiva, sia a quella su ordine del giudice a
processo instaurato. La grande novità è dunque quella della
inammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio. La sessione
informativa che in Romania deve tenersi entro 15 giorni, non
ritarda in alcun modo il corso del giudizio e non incide sulla
controversia in alcun modo.
20 l., 16 maggio 2006, n.192, art. 5 c. 1.
21 l., 16 maggio 2006, n.192, art. 5 c. 2.
22 l., 16 maggio 2006, n.192, art. 5 c. 3.
23 l., 4 luglio 2012 , n.115, art. 2.
24 Calcagno, op.cit., 2012.
F O R E N S E
●
Il contenuto
del testamento
apre le porte
alla diseredazione
espressa
● Flora Caputo e Gaetano del Giudice
Avvocati
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 3
13
Sommario: 1. Definizione ed origine. – 2. La controversa
ammissibilità della clausola diseredativa – 3. La diseredazio‑
ne dei legittimari – 4. Il nuovo art. 448 bis c.c. e le influenze
sull’istituto della diseredazione – 5. Compatibilità tra disere‑
dazione e legato – 1. Definizione ed origine
La dottrina più diffusa definisce la diseredazione come una
disposizione di carattere patrimoniale a contenuto negativo
con la quale il testatore esclude dalla successione taluno dei
successibili1.
Al fine di comprendere appieno la natura e le finalità
dell’istituto che in questa sede si vuol analizzare, seppur bre‑
vemente e senza ambizione di completezza, è il caso di accen‑
nare al differente impianto normativo vigente all’epoca in cui
germinò l’istituto.
La diseredazione, istituto sconosciuto all’attuale codice
civile, affonda le sue radici nel diritto romano, laddove la sua
funzione precipua era quella di concedere al pater familias uno
strumento di punizione verso i suoi eredi, anche legittimari,
nei cui confronti nutriva sentimenti di astio o riprovazione2.
Dopo un periodo in cui la sua utilizzazione risultava svin‑
colata da qualunque presupposto, connaturando di arbitrarie‑
tà la scelta del capo famiglia, si sentì l’esigenza di limitare la
possibilità di ricorrervi senza freno; a tal fine l’istituto fu in
un primo momento modificato con l’introduzione di una serie
di ipotesi tassative, e successivamente abolito.
Ripercorrendo brevemente le origini e la storia del menzio‑
nato istituto, nel diritto giustinianeo, la diseredazione era re‑
golata dalla Novella 115, ove si prevedeva che i discendenti e
gli ascendenti potessero essere diseredati soltanto laddove
avessero posto in essere gravi atti, tassativamente previsti
dalla legge (iustae causae), fermo restando il potere del testa‑
tore di perdonarli3.
L’istituto della diseredazione veniva già all’epoca affianca‑
to a quello dell’indegnità4 similitudine dovuta non certo ad
una identità di ratio o di natura giuridica, quanto piuttosto in
considerazione dell’affinità di effetti: in entrambi i casi il sog‑
getto destinatario (diseredato o indegno) è escluso dalla suc‑
cessione.
L’istituto dell’indegnità era concepito come esplicazione
della volontà della legge e mirava a tutelare l’interesse pubbli‑
co, in quanto si considerava riprovevole che un soggetto che
avesse commesso atti delittuosi nei confronti di una persona
potesse succedergli5; la diseredazione estrinsecava invece la
volontà del de cuius di escludere taluno dalla propria succes‑
sione per ipotesi di minore gravità ed era diretta a tutelare
l’interesse privato del de cuius.
1 M. Ieva, Manuale di tecnica testamentaria, CEDAM, Milano, 2006, p. 27.
2G. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2009,Tomo I, p. 197; L. Genghini, Le successioni per causa di morte, Milano, 2012, Tomo I, p.445.
3 F. Cancelli, voce: “Diseredazione, a) Diritto romano”, in Enc. Dir., XIII,
Milano, 1964, p.95 e ss.
4 M. Comporti, Riflessioni in tema di autonomia testamentaria, tutela dei legit‑
timari, indegnità a succedere e diseredazione, in Familia, 2003, p.31.
5Studio del Consiglio Nazionale del Notariato n. 339/2012, Clausola di disere‑
dazione e profili di modernità, approvato dalla Commissione Studi Civilistici
del 20 settembre 2012, 2 a firma di S.Monosi; S. Monosi, L’indegnità a suc‑
cedere in Trattato breve delle successioni e donazioni, diretto da Pietro Rescigno,
VOL. I – Le successioni mortis causa. I legittimari. Le successioni legittime e
testamentarie, Padova, 2010, p. 19.
civile
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14
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Se è evidente che diversi sono i presupposti, a ben vedere,
però, diversi sono altresì anche gli effetti.
Il soggetto colpito dalla volontà diseredativa del de cuius
non addiviene alla successione, mentre l’indegno, come spiega
bene la dottrina più accreditata6, potest capere se non potest
retinere 7.
Entrambi gli istituti hanno poi trovato una parziale diffu‑
sione in ambito europeo, sebbene non simultanea. Schematiz‑
zando, i Germani non conoscevano in origine né il testamen‑
to né la diseredazione ed i sistemi giuridici settecenteschi
precedenti alla Rivoluzione Francese confondevano la disere‑
dazione con l’incapacità a succedere per ingratitudine o inde‑
gnità.
Fu nel periodo della Rivoluzione che si manifestò un at‑
teggiamento ostile nei confronti dell’istituto, cosicché nel
Codice Civile Napoleonico del 1804 ci si limitò a disciplinare
l’indegnità8.
Col passare del tempo gli istituti de quibus sono andati
scomparendo dalla scena di molti ordinamenti europei (tra
cui quello Italiano), permanendo, entrambi o solo uno di loro,
in altri9.
Con riguardo all’ordinamento italiano, l’evoluzione nor‑
mativa non è stata benevola con la sorte della disposizione in
commento. La diseredazione infatti, in quanto “sanzione”
particolarmente forte e lesiva dei diritti successori degli eredi,
finanche legittimari, era coerente con la piena ed ampia auto‑
nomia dispositiva dei diritti soggettivi concessa dalla legisla‑
zione romana, ma non più con la moderna impronta solida‑
ristica cui il Legislatore moderno si ispira nella regolamenta‑
zione dei rapporti tra i più stretti congiunti. Già nel codice
civile del 1865, conseguentemente, la diseredazione non tro‑
vava più espressa cittadinanza10.
La rinnovazione codicistica culminata nel codice civile del
1942 consacrò la definitiva scomparsa della disposizione di‑
seredativa dall’ordinamento italiano, in seno al quale una
disposizione tanto punitiva nei confronti di un appartenente
al nucleo familiare del disponente era vista come un’eccessiva
manifestazione di arbitrarietà.
2. La controversa ammissibilità della clausola diseredativa
Come detto, la clausola di diseredazione è lo strumento
idoneo ad escludere alcuno dal novero dei soggetti potenziali
chiamati all’eredità.
In passato fortemente ostacolata da dottrina e giurispru‑
denza tradizionali, alla luce del recente netto renvirement
della Suprema Corte di Cassazione 11 che – condividendo la
6 Ex multis: in dottrina: C. Ruperto, Indegnità a succedere, in Enc. Giur. Roma,
1989 XVI, n. 1.6, 2; P. Schlesinger, Successione (Diritto civile), in Noviss.
Dig. It., XVIII, Torino, 1971, p.755; in giurisprudenza: Cass. Civ. 29 marzo
2006, n. 7266, in Giust civ. mass., 2006, 3; Cass. Civ. 05 marzo 2009, n. 5402,
in Fam. Pers. Succ. 2009, p. 973.
7G. Bonilini, Trattato di diritto delle successioni e donazioni, Milano, 2009,
p. 43.
8L. Albertazzi‑G. Varrasi, La diseredazione, 4 Businessjus 15 2012, p. 3.
9Per una rapida panoramica sugli ordinamenti in cui è prevista e disciplinata la
diseredazione, nonché sui contributi della dottrina straniera, si rinvia allo
Studio del Consiglio Nazionale del Notariato n. 339/2012, cit..
10 A. Torrente, voce Diseredazione, diritto vigente in Enciclopedia del Diritto,
Vol. XIII, Milano, 1964, p.102.
11 Cass. civ, Sez. II, 25 maggio 2012, n. 8352, in Fam. Pers. Succ., 2012, 11, p.763
con nota di V. Barba, La disposizione testamentaria di diseredazione.
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tesi di illuminata dottrina12 – ha superato l’orientamento re‑
strittivo precedente, oggi la clausola diseredativa meramente
negativa sembrerebbe aver trovato finalmente cittadinanza
nell’ordinamento giuridico italiano.
Procedendo con ordine, dottrina e giurisprudenza tradi‑
zionali non ammettono la diseredazione espressa di un suc‑
cessibile. Le ragioni di ciò si rinvengono: a) in primis, in ra‑
gione di quanto disposto dal Legislatore ex art. 587 comma 1
c.c., ove il termine “disporre” si ritiene non possa che essere
interpretato nel senso che il testamento debba necessariamen‑
te contenere previsioni attributive (e non meramente abdicati‑
ve) del patrimonio, e precisamente nelle forme dell’istituzione
di erede e/o di legato13; b) in secundis, si adduce la storica
prevalenza della successione legittima 14 – posta a tutela delle
ragioni della famiglia – su quella testamentaria – che tutela
l’esclusivo interesse del testatore. In quest’ottica, dunque, la
clausola diseredativa, non costituendo contenuto tipico del
testamento nel senso riferito, non è in grado di far prevalere
le disposizioni testamentarie su quelle di legge, giacché il te‑
statore potrebbe impedire l’apertura della successione legitti‑
ma sol creando i presupposti per la devoluzione testamentaria
dell’eredità attraverso una disposizione positiva, di contenuto
attributivo, che abbia la struttura dell’istituzione di erede o di
legato15; c) infine, si sottolinea come, tanto nel codice civile del
1865, quanto in quello del 1942, le ipotesi per cui in passato
era legittimamente configurabile la diseredazione sono state
successivamente assorbite da quelle per le quali oggi è possi‑
bile chiedere una pronuncia di indegnità16.
Alla tesi esposta, fa da pendant, secondo l’opinione di
certa dottrina17, la teoria sostenuta per lungo tempo dalla
12Il riferimento è a M. Bin, La diseredazione. Contributo allo studio del conte‑
nuto del testamento, Torino, 1966.
13Le uniche previste dal Legislatore ex art. 588 comma 1 c.c.
14 Argomentando ex articoli 457 comma 2, 587 comma 1 e 588 comma 1 c.c.; in
tal senso Cicu, Successioni per causa di morte – Parte generale – Delazione ed
acquisto dell’eredità in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da Cicu
e Messineo, Milano 1958, p.100.
15La natura superindividuale degli interessi sottesi alla successione ab intestato
restringe l’operatività della autonomia testamentaria che, operando quale ec‑
cezione alla regola della prevalenza della successione legittima su quella testa‑
mentaria, può esplicarsi solo nel rispetto della tipicità del contenuto del testa‑
mento. Così M. Bin, ibidem.
16In virtù di questo, secondo alcuni la diseredazione non sarebbe ammissibile
(anche) perché finirebbe col rappresentare una implicita ed inammissibile
estensione delle tassative cause di indegnità; in tal senso F. Messineo, Manua‑
le di dir. Civ. e comm., VI, 1962; G. Capozzi, Successioni e donazioni, 1, 1982,
p. 134. In senso contrario si esprimono quanti ritengono che i due istituti re‑
stano comunque profondamente diversi – come si è già avuto modo di dire – e
solo l’indegnità può (pacificamente) colpire anche un legittimario e può riguar‑
dare fattispecie che devono essere accertate successivamente all’apertura della
successione.
Autorevole dottrina, poi, pur non richiamando il rapporto tra indegnità e disere‑
dazione, rileva come unico scopo di quest’ultima sia penalizzare il diseredato,
privandolo della possibilità di adire l’eredità, e ciò basterebbe per tacciare la
disposizione diseredativa di nullità, in quanto diretta a soddisfare un interesse
non meritevole di tutela; cfr.; L. Ferri, L’esclusione testamentaria di eredi, in
Riv. Dir. Civ., 1941, p. 232; C.M. Bianca, Diritto civile. La famiglia, le succes‑
sioni, II, Milano, 1989, p. 554. L’Autore da ultimo citato, però, sottolinea come
sia valida la volontà diseredativa quando sia manifestata (o suscettibile di esse‑
re interpretata) come intento di beneficiare gli altri successibili legittimi.
Fermo ciò, sembra potersi in radice escludere la liceità di una diseredazione resa
attraverso una disposizione infamante che possa ledere il decoro o la rispetta‑
bilità del nominato senza che possa parlarsi di nullità della disposizione per
illiceità della causa o per immeritevolezza di tutela degli interessi perseguiti,
configurandosi semplicemente un illecito commesso per mezzo del testamento
che importa per l’offeso il mero diritto a pretendere dagli eredi (ex art. 752 c.c.)
il risarcimento dei danni patiti.
17G. Bellavia, La Cassazione ammette la clausola di diseredazione esplicita
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giurisprudenza di merito e di legittimità che dal dopoguerra
ad oggi non ha mai ammesso – salvo rare eccezioni18 – la
clausola meramente diseredativa, salvandola solo allorquando
fosse possibile, attraverso un’attenta e complicata opera er‑
meneutica, ricavarvi anche una implicita istituzione di altri
soggetti. L’esclusione testamentaria, dunque, per essere valida
e non inficiare l’intero testamento, doveva valere sotto un
duplice aspetto: da un lato quale dichiarazione tacita (stante
il suo implicito contenuto positivo), e dall’altro quale dichia‑
razione per relationem, permettendo l’individuazione dei
chiamati per rinvio alle regole della successione legittima,
espunto il successibile diseredato19.
Sottoposta a vaglio critico da copiosa dottrina 20, la tesi in
parola ha incontrato il disfavore di quanti hanno sottolineato,
prima di tutto, come ricavare una volontà attributiva certa da
una clausola negativa non sia cosa agevole, anche in relazione
al principio di certezza enunciato dal Legislatore ex art. 628
c.c.
In forza della citata norma, l’implicita volontà istitutiva
deve risultare in modo non equivoco dalla valutazione di
elementi offerti, in base a precise indicazioni, dallo stesso
testatore, e tali da consentire immediatamente l’identificazio‑
ne dei chiamati, benché non indicati nominativamente (cfr.
art. 625 c.c.). Se la chiamata testamentaria implica, invece,
un complesso procedimento interpretativo privo di un sostra‑
to testuale evidente, è più difficile ravvisare detta certezza,
potendosi dubitare delle reali intenzioni del disponente.
La clausola diseredativa, si dice, ha una portata meramen‑
te negativa e non è possibile riconoscerle, nemmeno indiret‑
tamente, alcun significato attributivo. La volontà di disereda‑
zione si giustifica ed esaurisce in sé, non essendo il de cuius
postosi il problema di scegliere ed indicare (implicitamente) i
suoi successori, ma limitandosi ad escludere uno o più poten‑
ziali chiamati alla successione, con conseguente indifferenza,
sia per chi in concreto succederà al posto del diseredato, e sia
per la sorte dei suoi beni, confidando nella legge per la loro
distribuzione tra i non esclusi 21.
meramente negativa, in Famiglia e Diritto, 2013, 2, 146. L’Autore non condi‑
vide l’opinione di chi ritiene che l’esponenda tesi giurisprudenziale si possa
qualificare come tesi “intermedia”, non facendo altro che ammettere una
clausola (istitutiva o comunque dispositiva) positiva accompagnata da una
diseredazione c.d. implicita.
18Si vedano, ad esempio, App. Firenze 9 settembre 1954, in Giur. It., 1955, I, 2,
p.759; App. Napoli 21 maggio 1961, in Foro pad., 1962, I, p. 939; Trib. Parma
3 maggio 1977, in Riv. Not., 1977, II, p. 689; Trib. Catania 21 febbraio 2000,
in Giuri it., 2001, I, p. 70; App. Genova 16 giugno 2000, in Giur. Mer., 2001,
p. 937.
19In dottrina si discute sul tipo di relatio: secondo L. Mengoni, Successione per
causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, in Trattato di diritto civi‑
le e commerciale, già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, Milano, 1993, 24, la relatio non può che essere sostanziale, giacché
dall’analisi della volontà del testatore si rileva il prevalente intento di escludere
un successibile, più che la volontà di esprimere una preferenza per altri; per
altri – F. Bartolozzi: nota a Cass. 18 giugno 1994, n. 5895, in Notariato,
1995, p.16 – si tratterebbe di relatio formale in quanto il rinvio alla fonte
esterna si riferisce alle norme che regolano la successione ab intestato.
20 Ex multis. L. Bigliazzi Geri, A proposito di diseredazione, nota a Cass. Civ.
18 giugno 1994, n. 5895, in Corr. Giur., 1994, 12, 1506; G. Capozzi, op. cit.,
p.203.
21 Così si esprimono L. Bigliazzi Geri, op. cit., 1506; D. Russo, La disereda‑
zione, Torino, 1998, p. 49 ss.; G. Capozzi, op. cit., p. 203, il quale sottolinea
come nel diritto moderno l’erede testamentario sia sostanzialmente un heres
scriptus e che pertanto la sua individuazione non può essere fatta indirettamen‑
te attraverso il ricorso a fonti estranee al contenuto della stessa dichiarazione
testamentaria.
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15
Nulla osta, inoltre, a che il de cuius voglia intanto comin‑
ciare a predisporre un testamento contenente esclusivamente
la diseredazione di alcuno, riservandosi il tempo per decidere
se e quando effettuare – con uno o più successivi testamen‑
ti – un’istituzione o un legato22.
Secondo altra parte della dottrina23, poi, la tesi giurispru‑
denziale in commento pecca di ipervalutazione di quanto
contenuto nell’art. 587 comma 1 c.c. – in relazione all’art. 588
comma 1 c.c. – e di conseguenza assegna al testamento la
funzione di atto necessariamente attributivo di beni. È la fra‑
gilità della convinzione che la diseredazione sia invalida in
virtù della funzione necessariamente attributiva del testamen‑
to a spingere i giudici della Suprema Corte a ricercare a tutti i
costi una volontà positiva in una clausola meramente negativa,
anche a prezzo di una probabile incoerenza 24. Secondo la pro‑
spettata opinione critica, invero, detta incoerenza si rinverreb‑
be innanzitutto nell’ammettere la validità della diseredazione:
a) quando non esaurisca il contenuto del testamento; b) quan‑
do il contenuto dell’atto si esaurisca sì nella clausola in parola,
ma sia comunque possibile ricavare in via interpretativa anche
la non equivoca volontà istitutiva del testatore25. Risulta incon‑
gruente, in tale ultimo caso, tra l’altro, sostenere che nonostan‑
te la diseredazione valga come istituzione implicita di altri al
di là del diseredato, debba poi aprirsi la successione legittima26;
in contrario dovrebbe, invece, comunque ammettersi l’apertu‑
ra della successione testamentaria 27 in favore dei successibili
non esclusi, in considerazione del fatto che se nella clausola
(meramente) diseredativa si vuole individuare per forza una
implicita istituzione, non può negarsi che sia sempre la volon‑
tà del disponente (per quanto implicita) a regolare la devolu‑
zione dei suoi beni per il tempo successivo alla sua morte28.
Come detto, la tesi che riconosce cittadinanza alla clauso‑
la di diseredazione espressa quale clausola autonoma di con‑
tenuto negativo, ha trovato espresso riconoscimento in un re‑
cente pronunciato degli Ermellini, che si fonda sul presupposto
del superamento, da un lato, del dogma della preminenza
della successione legittima su quella testamentaria e, dall’altro,
sulla revisione della funzione causale del negozio testamentario
che non ha necessariamente contenuto attributivo.
Prima di tutto i Giudici del Palazzaccio chiariscono che il
Legislatore, quando all’art. 587 comma 1 c.c. utilizza l’espres‑
22 Così E. Bergamo Brevi note sulla diseredazione, in Giur. It., 2001, p.1.
23L. Bigliazzi Geri, op. cit., p. 1504; L. Mengoni, ibidem.
24 Cfr. quanto sostenuto da G. Bonilini, Disposizione di diseredazione accom‑
pagnata da disposizione modale, in Fam. Pers. Succ., 2007, 8‑9, p. 718 ss.;
P. Rescigno, Recensione a Bin, in Riv. Dir. Civ., 1969, I, p. 95; R. Cimmino,
Diseredazione e ricostruzione causale del negozio testamentario, in Notariato,
2013, 1, p. 25.
25 Così Cass. 20 giugno 1967, n. 1458, in Foro pad., 1967, I, p. 943.
26 Così Cass. 5895/94 cit.
27In tal senso L. Mengoni, op. cit., 24; M. Ieva, op. cit.,p. 29; Cass. 1458/67
cit.; V. Barba, op. cit., p.782, secondo il quale una volta che il testatore abbia
operato l’esclusione dalla sua successione di uno o più soggetti, l’individuazio‑
ne degli altri successibili chiamati non opera in base alla successione legittima,
bensì in base ad alcune regole da questa dettate.. Si tratta, dunque, di vocazio‑
ne testamentaria basata su un meccanismo convenzionale di individuazione dei
successibili legittimi, anche perché – come sottolinea l’Autore – sarebbe singo‑
lare ritenere chiamati per legge coloro che, in assenza di diseredazione, la legge
non avrebbe chiamato o chiamato con un ordine diverso.
28 Così si legge in Cass. 18 giugno 1994, n. 5895, cit.; Trib. Reggio Emilia 27
settembre 2000, in Vita not., 2001, p. 694, con nota di L. Cavandoli, Clau‑
sola di diseredazione e testamento,e con nota di G. Porcelli, Autonomia te‑
stamentaria ed esclusione di eredi in Notariato, 2002, 1, p. 47.
civile
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p r o c e d u r a
sione “dispone”, lungi dal voler assegnare al testamento la ri‑
ferita funzione necessariamente attributiva, avrebbe inteso
solo indicare l’attività “regolamentativa” – quella sì, necessa‑
ria – assegnata all’atto di ultima volontà. In tale accezione,
infatti, non può negarsi che tanto l’espressa attribuzione di
beni ad alcuno, quanto l’espressa dichiarazione di non volerli
attribuire ad uno o più successibili, equivale a “disporre” nel
senso di “regolare”. Non solo chi istituisce espressamente uno
o più eredi o chi predispone uno o più legati sta disponendo
delle proprie sostanze, ma lo sta facendo anche chi – escluden‑
do un successibile – incide sull’operare della successione ab
intestato, consentendo o espandendo la chiamata dei non
esclusi29.
Se, dunque, la diseredazione realizza ex se un atto dispo‑
sitivo nell’accennata accezione, ben può costituire valido (ed
eventualmente anche esclusivo) contenuto della scheda testa‑
mentaria.
Ma vi è di più. Se la causa del testamento si rinviene nella
regolamentazione degli interessi del disponente per il tempo
successivo alla sua morte, nulla esclude che tali interessi non
siano propriamente patrimoniali (come confermato ex
art. 587 comma 2 c.c.) e da ciò non può che conseguirne che
l’istituzione di erede ed il legato sono solo due delle possibili
modalità di manifestazione dell’essenza dell’atto mortis cau‑
sa, ma non possono esaurirne il contenuto30.
La tipicità del testamento quale unico strumento con cui
si può validamente disporre delle proprie sostanze per il pe‑
riodo successivo alla propria morte, invero, non ha nulla a che
vedere con la tipicità del suo contenuto; ed infatti da tempo
la dottrina sottolinea come accanto all’istituzione di erede ed
al legato siano espressamente previste una serie di norme che,
per quanto a contenuto patrimoniale, non siano strictu sensu
attributive31.
29La scelta tra una istituzione esplicita (con esclusione implicita di tutti gli altri
successibili) o la esclusione espressa di alcuni sembra dipendere non solo e non
tanto alla volontà istitutiva ex se, ma dal motivo (manifestato o meno) che
anima il disponente. Istituire o escludere, dunque, dipende dal modo col quale
ciascuno intende perseguire il risultato istitutivo finale, ma giammai può dirsi
che la volontà istitutiva sia presunta o implicita, seppur la disposizione testa‑
mentaria sia negativa. Cfr. V. Barba, op. cit., p.767.
30La riconosciuta autonomia privata, ancor più ampia in materia testamentaria
in considerazione del favor nei confronti di una manifestazione di volontà non
più ripetibile dopo la morte, porta ad ammettere una nozione onnicomprensiva
del contenuto della scheda testamentaria, con l’unico limite, della liceità dei
motivi ed indipendentemente da qualsivoglia giudizio di meritevolezza. Al te‑
stamento, dunque, non può applicarsi il disposto dell’art. 1322 comma 2 c.c.
dettato in materia contrattuale. Questa sembra, allo stato, la tesi della dottrina
prevalente: si vedano, ex multis, G. Bonilini, Autonomia testamentaria e le‑
gato. I legati cosiddetti atipici, Milano, 1990, p. 64 ss.; A. Trabucchi, L’auto‑
nomia testamentaria e le disposizioni negative in Riv. dir. civ., 1970, I, p. 45 ss.;
contra M. Bin:, op. cit., p.185 ss..
31 Quali – ad esempio – i divieti testamentari di divisione ex artt. 713 commi 2 e
3 c.c., la dispensa da collazione ex art. 737 c.c., la deroga alla disciplina della
ripartizione dei debiti ereditari ex art. 752 c.c. etc.
Parte della dottrina, però, non ritiene confacente il richiamo a dette norme per ri‑
conoscere l’ammissibilità della diseredazione, giacché, si dice, le disposizioni de
quibus sono esclusivamente accessorie, e presuppongono per loro stessa natura
una disposizione principale cui accedono. In tal senso cfr. Cass. 20 giugno 1967,
n. 1458, cit. Secondo parte della dottrina, però, tale obiezione non sarebbe
comunque accoglibile in relazione al divieto testamentario di divisione ex
art. 713 commi 2 e 3, o all’assegno divisionale semplice ex art. 733 c.c., che
potrebbero anche esaurire da soli il contenuto della scheda testamentaria. In
quest’ultimo senso si veda M. Bin, op. cit., p. 235, Forchielli – Angeloni,
Della divisione, artt. 713 – 768 c.c., in Comm. C.C. Scialoja – Branca, Bolo‑
gna‑Roma, 2000, p. 289, opinione condivisa da M. Fusco, È valida la clauso‑
la di diseredazione meramente negativa, Giur. It., 2013, 2; Corona, La c.d.
diseredazione: riflessioni sulla disposizione testamentaria, in Riv. not. 1992,
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
Ancora, nessuna norma stabilisce espressamente la preva‑
lenza della successione legittima su quella testamentaria, ed
anzi, ben possono essere considerate pari ordinate32: se la
legge ammette che quest’ultima impedisca del tutto l’operare
della prima, a maggior ragione si deve ammettere una previ‑
sione in forza della quale è solo escluso taluno dal novero dei
potenziali successibili ex lege33. Già da tempo, infatti, la dot‑
trina34 critica l’opinione che ravvisa la ratio della successione
legittima nella tutela degli interessi della famiglia, essendo
invece preordinata alla tutela dei meri interessi individuali e
privati all’acquisto patrimoniale in capo ai singoli chiamati,
nonché all’interesse ad assicurare il fenomeno successorio
usando un criterio certo di individuazione dell’erede (la pa‑
rentela), in un’ottica di concentrazione del nucleo famigliare
che (inevitabilmente) influenza il sistema giuridico nella sua
interezza35.
Infine, si dice, la clausola in commento non è espressa‑
mente vietata dal Legislatore ed è assimilabile ad altri istituti
che determinano una efficacia negativa del testamento, pur
non essendo costruiti in termini di disposizioni negative,
quali una damnosa hereditas, l’esclusione dei legittimari dal‑
la disponibile, l’istituto del legato in sostituzione di legittima
ex art. 551 c.c. 36 o anche l’esclusione (diretta) della rappresen‑
tazione37, nonché di raggiungere effetti simili a quelli che si
ottengono con la preterizione 38.
L’unico limite che sembra ancora oggi sussistere in tema di
diseredazione espressa, riguarda l’impossibilità per il testatore
514 e n. 20; inoltre, secondo R. Cimmino, op. cit., p. 30, l’obiezione dell’ac‑
cessorietà delle varie disposizioni patrimoniali non strettamente attributive non
può reggere oggi quando la dottrina maggioritaria ritiene che l’onere testamen‑
tario non sia più clausola accessoria ma vera e propria disposizione autonoma
che, in forza della sua ambulatorietà (cfr. articoli 676 comma 2 e 677 comma 2
c.c.) ben può fungere esso solo quale strumento di regolamentazione delle so‑
stanze ereditarie, e nulla esclude che possa esaurire l’intero contenuto della
scheda. Lo stesso può dirsi, inoltre, laddove il modus esaurisca l’intero valore
dell’attribuzione testamentaria. Ulteriore conferma della ampia funzione rego‑
lamentare del testamento, come sottolinea anche questo autore, è data dall’am‑
missibilità di una serie di legati obbligatori che pur essendo disposizioni patri‑
moniali, comunque non attribuiscono al beneficiario sostanze già esistenti
nell’asse ereditario, ma si limitano ad attribuire allo stesso un mero diritto di
credito nei confronti dell’onerato.
32In questo senso C. Romano, Le successioni legittime, in AA.VV. Diritto delle
successioni, a cura di R. Calvo e G. Perlingieri, Napoli, 2009, p.575 ss.; D.
Pastore, Riflessioni sulla diseredazione, in Vita not., 2011, 2, p.1204 ss.; G.
Capozzi, op. cit., p.613 ss.; L. Mengoni, op. cit., p.21 ss.
33 Con le precisazioni di cui infra.
34Si vedano M. Bin., op. cit., p. 108 ss.; L. Mengoni, op. cit., p. 710; L. Ferri,
Disposizioni generali sulle successioni (artt. 456 – 511), in Commentario Scia‑
loja – Branca, a cura di F. Galgano, Bologna – Roma, 1997, p. 85 ss.
35Se le norme sulla successione legittima fossero davvero preordinate alla salva‑
guardia di un interesse superiore della famiglia, non sarebbe consentito all’au‑
tonomia privata derogarvi, come invece risulta possibile ex art. 457 comma 2
c.c., a norma del quale il disponente può impedire in tutto od in parte la devo‑
luzione dei suoi averi secondo le norme di legge.
36Si veda più diffusamente infra.
37Per chi l’ammette, comunque, può sempre e comunque essere fatta nei limiti
della disponibile.
38Si osserva che ammettere l’esclusione di certi soggetti mediante disposizioni
positive a favore d’altri – e cioè attraverso il ricorso all’istituto della preterizio‑
ne – e non ammettere che ciò avvenga attraverso una espressa ed apposita di‑
chiarazione con cui si esclude un successibile ex lege mediante una disposizione
negativa dei propri beni, determinerebbe una forte antinomia. Diseredazione e
preterizione, si dice, sono molto differenti giacché solo nella prima l’esclusione
dalla successione discende in via diretta ed esplicita dalla volontà testamentaria,
mentre con la preterizione la privazione della qualità ereditaria è solo indiretta
ed eventuale. Si veda Ungari Trasatti, Rassegna di dottrina e giurisprudenza
in tema di diseredaazione, in Riv. Not., 2003, p.1312; G. Torregrossa, Nota
in tema di diseredazione¸ Giur. It., 2012, p. 12.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
di escludere dalla sua successione tutti gli eredi legittimi – com‑
preso lo Stato – in palese violazione del principio di ordine
pubblico in forza del quale un erede deve pur sempre poter
essere individuabile, onde evitare che i beni del disponente
diventino res nullius 39 .
Dato per assodato che il testatore possa oggi espressamen‑
te diseredare un successibile 40, resta da comprendere cosa
succede quando detta clausola si accompagni ad altre disposi‑
zioni attributive41, ed il discorso cambia a seconda che queste
esauriscano o meno l’asse ereditario.
Nulla quaestio ove il testatore diseredi espressamente
qualcuno e poi proceda con l’istituzione di altri nella totalità
dei suoi averi; in tal caso l’utilità di una espressa diseredazione
risulta meramente soggettiva, raggiungendosi comunque
l’obiettivo finale attraverso la disposizione della totalità delle
sostanze ereditarie in favore d’altri.
Discorso diverso è a farsi, invece, laddove alla espressa
clausola diseredativa si accompagnino altre disposizioni attri‑
butive che non esauriscono l’intero patrimonio. Ai sensi
dell’art. 457 comma 2 c.c. per la parte residua delle sostanze
si apre la successione legittima, e, dunque, la diseredazione
funge da strumento idoneo ad escludere il destinatario anche
da quest’ultima successione, incidendo a monte sul suo diritto
a succedere 42.
Parte della dottrina 43 sottolinea come in realtà non è poi
così scontato che nella fattispecie delineata si apra la succes‑
sione legittima e non quella testamentaria, con rilevanti rifles‑
si circa, ad esempio, l’operatività dell’accrescimento o la pos‑
sibilità di una rinunzia ad una sola delle delazioni (se sono due).
Il riconoscere alla clausola diseredativa la capacità, in concre‑
to, di alterare l’ordine e/o il grado dei successibili spinge a
pensare che questi ultimi non siano chiamati in forza di legge
ma sempre come diretta conseguenza delle scelta operate dal
disponente e tale soluzione, invero, non può non condividersi
se a monte si condivide l’idea che la diseredazione possa dare
un assetto completo alla successione 44.
Escludendo espressamente uno o più soggetti dalla propria
successione si dà comunque l’assetto voluto agli interessi post
mortem, stabilendo, con un rinvio alla legge come modificata
dalla disposizione testamentaria, quale sia l’ordine ed il con‑
corso dei successibili.
3. La diseredazione dei legittimari
Se tutto quanto fin qui detto può pacificamente riferirsi ai
successibili non legittimari (cfr. articoli 536 ss. c.c.), non al‑
trettanto può dirsi per gli eredi necessari 45. Benché ancora
39 A tacer di ciò, inoltre, non si vede a quale ragionevole fine possa essere teleo‑
logicamente indirizzata la disposizione testamentaria di esclusione di tutti gli
eredi legittimi!
40Eccezion fatta per i legittimari, su cui si veda infra.
41 Caso in cui perde quasi del tutto rilevanza la discussione sull’astratta ammissi‑
bilità della clausola di diseredazione, non dovendosi cercare un appiglio per
individuare una istituzione implicita d’altri.
42La disposizione in commento, dunque, finisce con l’alterare la compagine e l’even‑
tuale concorso tra successibili, in dipendenza dell’esclusione del diseredato.
43 Cfr. V. Barba, op. cit., p. 786.
44 A fondamento di tale impostazione vi è l’idea che la diseredazione sia pur
sempre una disposizione istitutiva, benché lo scopo in concreto perseguito non
sia istitutivo ma meramente diseredativo non può lo scopo in sé alterare la
detta funzione istitutiva.
45Salvo a voler ammettere una diseredazione “nei limiti della disponibile”, come
2 0 1 3
17
oggi in dottrina e giurisprudenza possa dirsi prevalente la tesi
che non ammette la configurabilità di una clausola disereda‑
tiva riferita ai più stretti congiunti del disponente, non può
dirsi sopita la querelle riguardante la sanzione ad essa appli‑
cabile, con conseguente riflessi sull’attività notarile in relazio‑
ne al disposto dell’art. 28 legge 16 febbraio 1913, n. 89.
Secondo l’opinione della dottrina che allo stato sembra
ancora prevalere 46, la sanzione configurabile per una dispo‑
sizione diseredativa diretta nei confronti di un legittimario
non può che essere la radicale nullità, in quanto disposizione
in contrasto con norme imperative poste a tutela di interessi
di natura pubblicistica (articoli 457 comma 3 e 549 c.c.), e
perciò stesso inderogabili dall’autonomia privata. Ne deriva,
conseguentemente, che al notaio è fatto assoluto divieto di
ricevere siffatta clausola, pena la sospensione da uno a sei
mesi ex art. 138 legge 13/89.
Secondo alcuni autori e parte della giurisprudenza47, di
contro, la clausola negativa di esclusione dalla successione
eventualmente indirizzata ad un legittimario deve considerar‑
si, al pari di una qualunque altra disposizione lesiva o della
pretermissione totale da un testamento, meramente riducibile
48
. Fino al successivo (eventuale) vittorioso esperimento
dell’azione di riduzione, da esercitarsi entro il termine decen‑
nale di prescrizione, il testamento che la contenga può rite‑
nersi pienamente valido ed efficace. Ne consegue la astratta
possibilità per il notaio di ricevere un testamento pubblico
contenente la disposizione de qua, senza alcuna violazione
dell’art. 28 richiamato riferibile, secondo la tesi oggi pacifica,
esclusivamente ad atti irrimediabilmente nulli e non anche a
quelli (solo potenzialmente) riducibili.
ritiene E. Bergamo, ibidem. Invero, a parer di chi scrive, non potrebbe proprio
parlarsi di “diseredazione” in senso proprio con riguardo alla sola quota dispo‑
nibile del patrimonio del disponente, concretizzandosi la disposizione in paro‑
la in una mera istituzione nella sola legittima, sull’ammissibilità della quale non
è nemmeno dato discutere G. Azzariti, Diseredazione ed esclusione di eredi,
in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1968, p. 1197; M. Bin, ibidem.; L. Bigliazzi
Geri, Il testamento, in Tratt. di dir. priv., diretto da P. Rescigno, VI, Torino,
1982, p. 119; V. Cuffaro, Il testamento in generale: caratteri e contenuto, in
Successioni e donazioni a cura di P. Rescigno, I, Padova, 1994, p. 751; Grosso
e Burdese, Le successioni, Parte generale, in Tratt. di dir. civ., diretto da F.
Vassalli, XII, Torino, 1977, p. 83.
46 Ex multis si veda L. Bigliazzi Geri, A proposito di diseredazione, nota a
Cass. 18 giugno 1994, n. 5895, cit., p. 1503; D. Russo, op. cit., p. 200 ss.; A.
Trabucchi, op. cit., p. 62; G. Azzariti, op. cit., p. 1198; G. Porcelli, op. cit.,
pp. 51 e 59; F. Bertolozzi, op. cit., p.11.
In senso contrario si esprime, invece, L. Mengoni op. cit., p. 22, nota 59 – secon‑
do il quale anche la diseredazione del legittimario, come qualsiasi altro peso
imposto sulla quota ad esso riservata dalla legge, trova la sua sanzione diretta
nell’art. 549 c.c. che riguarda tutte le disposizioni – accessorie o autonome – che
incidono sulla riserva.
Secondo altri, però, tale tesi non è sostenibile, pena una eccessiva dilatazione del
divieto di pesi e condizioni, che dovrebbe comprendere anche una disposizio‑
ne – come quella diseredativa – che invece di limitare (presupponendola)
l’istituzione la esclude tout court. In tal senso E. Bergamo, ibidem.
47 Cfr. in dottrina G. Capozzi, op. cit., p. 198; Azzariti, Diseredazione ed
esclusione di eredi, in Riv. Trim. dir. Proc. Civ., 1968, 1197; V. Porrello, La
clausola di diseredazione, in Il diritto di famiglia e delle persone, 2008, 984 ss.;
in giurisprudenza Cass. 12 marzo 1975, n. 296, in Mass. Giust. Civ., 1975,
p. 418; App. Napoli 21 maggio 1961, in Foro pad., 1962, I, p. 939 ss.; V.
Barba, op. cit., p. 770; tale ultimo Autore, inoltre, ritiene che il trattamento
diseguale di situazioni sostanzialmente uguali – quali devono ritenersi, almeno
quanto allo scopo perseguito dal disponente, la pretermissione e la diseredazio‑
ne di un legittimario – potrebbe essere considerato costituzionalmente illegitti‑
mo in quanto in contrasto con il disposto dell’art. 3 Cost.
48In ragione del fatto che è la riducibilità e non la nullità la sanzione tipica pre‑
vista dal Legislatore a tutela dei legittimari. Non manca chi sottolinea, però, la
palese incongruenza di detta tesi in ragione dell’inesistenza di una disposizione
attributiva lesiva da “ridurre”. In tal senso E. Bergamo, ibidem.
civile
Gazzetta
18
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
La tesi da ultimo esposta si fonda su una serie di conside‑
razioni che, ad opinione di chi scrive, sembrano (almeno in
parte) condivisibili.
Innanzitutto il rilievo per cui la tutela offerta dall’azione
di riduzione poggi necessariamente sull’esistenza di una di‑
sposizione attributiva (lesiva) da ridurre può dirsi solo par‑
zialmente confacente, giacché un legittimario potrebbe in
concreto essere leso nel suo diritto di legittima anche in as‑
senza di testamento, in dipendenza di una serie di donazioni
fatte in vita dal de cuius di valore eccedente la quota disponi‑
bile. Nessuno dubita o esclude che anche in tale circostanza
il legittimario possa tutelarsi agendo in riduzione onde otte‑
nere nei suoi confronti la declaratoria di inefficacia delle do‑
nazioni lesive (cfr. art. 559 c.c.), pur non sussistendo alcuna
disposizione testamentaria attributiva lesiva.
Alla summenzionata tutela basata sull’esperibilità
dell’azione di riduzione è ammesso non solo il legittimario
leso nelle sue ragioni, ma anche chi non è stato affatto men‑
zionato nella scheda testamentaria (c.d. legittimario preter‑
messo); l’unico che non sarebbe ammesso a tale tutela sareb‑
be – a seguire la tesi della nullità della diseredazione del legit‑
timario – uno stretto congiunto espressamente diseredato.
La scelta legislativa di fondare la tutela delle ragioni dei
legittimari sull’azione di riduzione, e non sulla nullità delle
disposizioni lesive49, sembra più funzionale nell’ambito di un
sistema successorio improntato alla salvaguardia – sopra ogni
cosa – dell’autonomia privata e dell’irripetibile volontà del
testatore. Ove l’azione di riduzione non sia attivata o rinun‑
ziata 50 dal legittimario leso/pretermesso (o comunque riget‑
tata dall’autorità giudiziaria), si ottiene l’effetto di mantenere
ferma la volontà del testatore, benché iniqua. Al contrario,
ove la tutela delle ragioni dei soggetti indicati ex articoli 536
ss. c.c. fosse davvero affidata alla sanzione della nullità, la
volontà del disponente difficilmente troverebbe concreta at‑
tuazione, anche laddove – seppur possa sembrare un caso di
scuola – per ipotesi il soggetto leso/pretermesso fosse d’accor‑
do con la scelta testamentaria operata.
Sembra dunque alquanto discutibile affermare inopinata‑
mente che una disposizione diseredativa di un legittimario sia
sempre irrimediabilmente nulla e non meramente riducibile
anche alla luce di altre considerazioni: 1) non può negarsi che
la diseredazione – sotto l’angolo visuale dello scopo in con‑
creto perseguito dal legislatore – non si discosti di molto
dalla pretermissione; 2) ancora, come già sottolineato, la
sanzione della nullità determinerebbe in capo al legittimario
che condivide la scelta diseredativa fatta nei suoi confronti
l’onere di attivarsi per restare estraneo alla successione, diver‑
samente dal caso in cui fosse stato solo pretermesso nella
scheda. La nullità, infatti, ha efficacia retroattiva e pertanto
la clausola affetta da tale patologia si considera tamquam non
49Sanzione che sarebbe stata di difficile attuazione – se non in relazione all’intera
scheda testamentaria – in caso di pretermissione del legittimario.
50La tutela rappresentata dalla riducibilità delle disposizioni lesive della legittima
è assolutamente indisponibile prima dell’apertura della successione (art. 557
comma 2 c.c.) in quanto il legittimario non ha contezza di ciò che quantitati‑
vamente gli spetta se non successivamente all’apertura della successione, ma
dopo tale momento nulla esclude che si rinunzi a tale diritto, senza con ciò ri‑
nunziare, come è ovvio, alla eredità. Ne consegue, tra l’altro, che la mera rinun‑
zia all’azione di riduzione non implica l’attivazione dei meccanismi di devolu‑
zione alternativi che consentono che la quota rifiutata sia delata ad altri.
c i v i l e
Gazzetta
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esset 51 , ed il legittimario per restare estraneo alla successione
si troverebbe costretto ad effettuare un formale ed oneroso
atto di rinunzia all’eredità ex art. 519 c.c. 52.
4. Il nuovo art. 448 bis c.c. e le influenze sull’istituto della diseredazione
È interessante compiere una breve analisi della disposizio‑
ne diseredativa alla luce della recente riforma dell’istituto
della filiazione, avvenuta con l. 10 dicembre 2012, n. 219.
Benché una disamina completa della riforma citata esuli
dall’oggetto del contributo che qui ci occupa, nondimeno è
dato rilevare che la stessa ha significativamente inciso sull’im‑
pianto normativo preesistente, in primo luogo sancendo in
modo definitivo e chiaro il principio secondo il quale “tutti i
figli hanno lo stesso stato giuridico” 53, ed in secondo luogo
introducendo ad opera dell’art. 1 comma 9, nel libro I, titolo
XIII, codice civile, il nuovo art. 448 bis c.c.: “[I]. Il figlio,
anche adottivo, e, in sua mancanza, i discendenti prossimi
non sono tenuti all’adempimento dell’obbligo di prestare gli
alimenti al genitore nei confronti del quale è stata pronuncia‑
ta la decadenza dalla potestà e, per i fatti che non integrano
i casi di indegnità di cui all’articolo 463, possono escluderlo
dalla successione”.
Ai fini della nostra indagine, quindi, risulta evidente come
la reale innovazione introdotta dalla l. 219/12 consista
nell’aver aperto una vera e propria breccia nella normativa a
tutela dei legittimari. È manifesto, infatti, che intento del
Legislatore sia quello di consentire una esclusione piena del
genitore dalla sfera successoria del proprio figlio anche quan‑
do rivesta la qualifica di legittimario ai sensi dell’art. 538 c.c.,
e non solo ove quest’ultimo sia un semplice erede legittimo,
nonché in relazione all’intera quota di eredità ad esso riserva‑
ta e non solo in relazione alla quota disponibile54.
Ciò che non risulta parimenti agevole comprendere è la
portata di tale intervento alla luce della disciplina della dise‑
redazione, esclusivo oggetto di indagine in questa sede; da
una prima (e pertanto necessariamente approssimativa) inter‑
pretazione della lettera della norma non è dato cogliere con
certezza, in effetti, se l’”esclusione” ivi indicata sia da inten‑
dersi quale diseredazione o non sia, piuttosto, una possibilità
concessa astrattamente al figlio e che necessita poi di un quid
pluris (una pronuncia dell’Autorità Giudiziaria) per potersi
validamente concretizzare.
Alla luce della recente sentenza della Suprema Corte di
Cassazione55 che ammette senza mezzi termini la validità di
51 Dopo che sia stata dichiarata dall’autorità giudiziaria. Si ricordi, al riguardo,
che l’azione di nullità è imprescrittibile e la relativa eccezione è anche rilevabi‑
le d’ufficio.
52E si arriverebbe anche all’assurdo di comprimere il diritto del legittimario alla
rinunzia all’azione di riduzione, giacché l’operare della nullità lo collocherebbe
tra i chiamati all’eredità, con ciò escludendolo ipso facto dal novero dei legitti‑
mati sia ad azionare il relativo giudizio che a rinunziarvi.
53 M. Sesta, La riforma della filiazione: profili successori, VIII Congresso giuri‑
dico – forense per l’aggiornamento professionale, Roma, 2012, p. 4 ss.
54 È lecito chiedersi quali possano essere i comportamenti che, sebbene non così
gravi da intergare un caso di indegnità a succedere, legittimino comunque un
figlio ad impedire che il genitore adisca l’eredità, e secondo l’interpretazione di
G. Facci, La responsabilità dei genitori per violazione dei doveri genitoriali, in
Sesta (a cura di), La responsabilità nelle relazioni familiari, Torino, 2008, 203,
questi potrebbero riguardare le violazioni dei doveri familiari che importano
responsabilità del genitore ex art. 2043 c.c.
55 Cass. n. 8352/2012, cit.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
una clausola diseredativa espressa ed a contenuto esclusiva‑
mente negativo – sebbene solo se rivolta verso eredi legittimi
ma non anche legittimari – vi è da chiedersi se il Legislatore,
con il novello art. 448‑bis c.c., abbia inteso intervenire anche
sulla normativa codicistica relativa ai legittimari e consentire
apertis verbis la diseredazione di uno di questi (un genitore),
ovvero se non gli si voglia, così ragionando, far dire più di
quanto abbia voluto (e dovuto).
Invero, la collocazione sistematica della nuova norma,
unitamente all’interpretazione che della stessa ha fornito la
menzionata dottrina che si è tempestivamente occupata dell’ar‑
gomento, induce a ritenere che le intenzioni sottese alla rifor‑
ma in commento non siano state quelle di intaccare la tutela
riservata agli eredi necessari, né di disciplinare una dirompen‑
te ipotesi di diseredazione espressa di un legittimario, quanto
piuttosto di intervenire esclusivamente in tema di alimenti,
seppur con inevitabili riflessi in campo successorio56.
Risulta pertanto coerente concludere per l’estraneità del
recente intervento legislativo rispetto alla normativa succes‑
soria – specie relativa agli eredi necessari – ed al tema della
diseredazione, avvicinandosi di più all’istituto dell’indegnità
nel cui impianto normativo, forse, avrebbe trovato una collo‑
cazione più coerente con la sua ratio ispiratrice e con le sue
finalità, quantomeno in relazione all’ultimo comma della
norma citata57.
Coerentemente si ritiene che l’esclusione citata ex art. 448
bis c.c. debba inevitabilmente passare per un apposito (e mo‑
tivato) provvedimento giudiziario, con ciò riducendosi sensi‑
bilmente la possibile ventata di apertura verso l’ammissibilità
di una diseredazione “secca” di un legittimario58.
5. Compatibilità tra diseredazione e legato
Di particolare interesse è l’analisi del rapporto esistente
tra la disposizione di diseredazione ed il legato, disposizione
patrimoniale con cui il testatore attribuisce al beneficiario uno
o più beni specifici, senza partecipazione alla comunione
ereditaria.
Le fattispecie da prendere in considerazione sono sostan‑
zialmente due, a seconda che la clausola diseredativa sia ri‑
volta verso un legatario beneficiato nella stessa scheda testa‑
mentaria oppure in una precedente.
Argomento poco discusso – ma senza dubbio interessan‑
te – riguarda la possibilità di conciliare, nelle medesima
scheda testamentaria, la volontà del de cuius di diseredare
un soggetto attribuendogli, al contempo, un bene determi‑
nato. A voler ritenere particolarmente ampio il contenuto
56Sia concesso evidenziare, peraltro, che se così non fosse il Legislatore avrebbe
peccato tanto di leggerezza nell’allocazione effettuata, quanto di superficialità,
non avendo predisposto alcuna forma di coordinamento sistematico con l’im‑
pianto normativo in tema di successioni.
57Secondo la poca dottrina che si è occupata dell’argomento la nuova disposizio‑
ne potrebbe rappresentare un mero ampliamento del contenuto dell’art. 463
comma 1 n. 3 bis, che – introdotto nel 2005 – ha previsto un nuovo caso di
indegnità nei confronti di chi ha perso la potestà genitoriale. In tal senso M.
Sesta, op. cit., p. 10.
58 Concludendo, si segnala una curiosità evidenziata in dottrina da M. Sesta,
ibidem, secondo il quale la situazione delineata dalla attuale normativa risulta
esattamente opposta rispetto a quella esistente alle origini dell’istituto: all’epo‑
ca del diritto romano, infatti, era consentito solo al pater familias di diseredare
i propri eredi necessari; oggi, la legislazione vigente, riconosce – seppur in
modo più limitato – solo al figlio detto potere nei confronti dell’ascendente.
2 0 1 3
19
della disposizione oggetto della presente trattazione, intesa
quale previsione capace di eliminare tout court la delazione
ed escludere così a monte sia il titolo legale che quello testa‑
mentario, non può non concludersi che il diseredato non
potrebbe ricevere alcunché – né per legge né per testamen‑
to – in quanto, una volta escluso dalla successione a titolo
universale, non gli sarebbe più consentita nemmeno una
delazione a titolo particolare.
La giurisprudenza è, tuttavia, di diverso avviso, ammetten‑
do la possibilità che un soggetto, benché diseredato, possa co‑
munque essere destinatario di disposizioni a titolo di legato.
Secondo una pronuncia non molto recente59, la volontà di dise‑
redazione non sarebbe incompatibile con quella diretta ad attri‑
buire un determinato bene ad un soggetto rientrante nella cate‑
goria dei successibili ex lege, in quanto pur escludendo la dise‑
redazione la possibilità di succedere, nulla vieta al de cuius di
attribuire un lascito ad uno di essi, senza che ciò implichi ipso
iure la volontà di chiamarlo a succedere in universum ius..
Fattispecie diversa rispetto a quella testé delineata si ha
allorquando il diseredato riceva a titolo di legato una dispo‑
sizione a proprio favore, ma non nella medesima scheda te‑
stamentaria, bensì in un testamento successivo a quello in cui
è consacrata la sua diseredazione. Non sembra peregrino af‑
fermare che la disposizione successiva, per quanto a titolo
particolare, revochi la precedente diseredazione, perché di‑
sposizione ex se foriera di un mutato sentimento del testatore
nei confronti del beneficiario. Sembra possibile affermare che
la revocazione cancelli la chiamata ereditaria esattamente
come la diseredazione. Una differenza, tuttavia, risiede nella
circostanza che mentre la diseredazione impedisce anche la
successione ab intestato, eliminando in radice la possibilità
di succedere sia ex lege sia ex testamento, la revoca di prece‑
denti disposizioni, al contrario, implica per definizione la ri‑
mozione solo di quanto contenuto nel precedente testamento
e sia oggetto di revoca 60, senza che contestualmente compor‑
ti il venir meno, nel destinatario della disposizione revocata,
del titolo a succedere.
Nel caso contemplato, pertanto, sembra potersi affermare,
con maggior conforto rispetto alla fattispecie precedente, che
è ben possibile che un soggetto, diseredato con una scheda
testamentaria, sia poi nominato legatario con un successivo
testamento, benché risulti più che opportuno – ove possibi‑
le – indagare di volta in volta la volontà del de cuius, al fine
di comprendere se con tale disposizione questi abbia voluto
realmente revocare la precedente clausola diseredativa (con
ciò restituendo al diseredato la capacità di essere “delato”)
ovvero abbia inteso semplicemente attribuire allo stesso il
solo cespite oggetto di disposizione, confermando implicita‑
mente gli effetti della disposizione diseredativa61.
59 App. Cagliari del 12.01.1996, in Riv. giur. sarda, 1, 1998, con nota di A. Pinna
Vistoso.
60 A. Trabucchi, op..cit., p. 57.
61Sulla falsariga di ciò che è consentito dal Legislatore nei confronti dell’indegno
ex art. 466 c.c.: se il disponente non intende riabilitarlo espressamente (com‑
ma 1), con ciò eliminando in radice la causa che potrebbe valergli una pronun‑
cia giudiziale di esclusione (ex post) dalla successione, si limita ad attribuirgli
testamentariamente un quid nei cui limiti può succedergli (comma 2).
L’analogia con detto istituto, a ben vedere, si ferma qui: solo la riabilitazione
espressa resta in piedi anche in caso di successiva revoca del testamento in
quanto fondata su di un sentimento irretrattabile di perdono, mentre l’eventua‑
le revocazione di una precedente disposizione ben potrebbe essere a sua volta
civile
Gazzetta
20
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
È solo il caso di precisare che nella previsione di un legato
seguito da diseredazione in una diversa e successiva scheda
testamentaria nei confronti dello stesso soggetto, è decisamen‑
te più semplice intravedere una manifestazione implicita di
revoca della disposizione a titolo particolare, ferma sempre la
possibilità di una indagine concreta volta a stabilire la reale
(e sovrana) volontà del testatore.
rimossa in dipendenza di un’ulteriore ripensamento del testatore. Invero, vi
sarebbe da chiedersi se anche la revoca della precedente diseredazione possa
essere equiparata ad una riabilitazione, rimuovendo una disposizione che si
fonda (principalmente) su di un sentimento di astio o riprovazione, in ragione
di un nuovo sentimento di benevolenza e perdono che dovrebbe non poter es‑
sere messo nuovamente in discussione.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
●
L’istituzione familiare
dall’unità d’Italia alla
Costituzione repubblicana
● Antonio Bova
Dottore di ricerca in Diritto Privato, Seconda Università
di Napoli e Docente a contratto di Diritto Privato presso
Istituto Universitario della Mediazione Academy School
di Roma
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Sommario: 1. Introduzione – 2. La realtà politica ed eco‑
nomica dell’Italia Unita: le condizioni di vita delle fami‑
glie – 3. La famiglia nello specchio del Codice Pisanelli – 4.
La famiglia tra sconvolgimenti sociali e responsabilità dei
governi nella prima guerra mondiale. – 5. La funzionalizza‑
zione statalistica della famiglia nella ideologia fascista. La
vergogna delle leggi razziali. – 6. I Patti Lateranensi del
1929 – 7. La famiglia nell’impianto del codice del 1942. – 8.
Il secondo dopoguerra e l’avvento della Repubblica. La Car‑
ta Costituzionale e la famiglia come formazione sociale: il
“seme” della riforma del 1975 – 9. Il “cuore” della disciplina
della famiglia nel testo costituzionale – 10. Conclusioni.
1. Introduzione
Il centocinquantesimo anniversario dell’avvenuta unità
d’Italia è stato anticipato da polemiche di vario genere, indub‑
biamente favorite dal complesso “mosaico” che oggi ritrae il
nostro Paese dal punto di vista sociale e politico.
Nel corso di questo ampio dibattito sono emersi come
principali fattori causali l’indebolimento della stessa identità
italiana nella sfera pubblica, nonché la mancanza di un pro‑
getto comune, sfilacciandosi così quell’ethos condiviso che
aveva costituito l’elemento portante della ricostruzione nazio‑
nale nell’ultimo dopoguerra.
Senza dubbio non di aiuto è stato, sul versante dell’inde‑
bolimento dell’identità italiana, il fenomeno che ha visto la
dissolvenza del sentimento di appartenenza nazionale in al‑
cune culture politiche, dalle marcate sottolineature separatiste.
Opportuno pertanto appare, anche in relazione a queste ulti‑
me, fare chiarezza. Sia pure nel rispetto delle tradizioni, degli
idiomi locali e di alcuni evidenti riflessi economici e sociali di
segno negativo prodotti dal processo di unificazione, non può
non riconoscersi la rilevanza dei tanti vantaggi economici
portati dall’unità – proprio alle aree territoriali del Paese del‑
le quali queste forze politiche sono esclusivamente espressio‑
ne – sul piano dello sviluppo, e in particolare dell’effettivo
progresso registrato con la conquista di un’identità linguistica
nazionale che, al momento dell’unificazione politica, era sco‑
nosciuta alla maggior parte degli Italiani. Si pensi, come at‑
tentamente osservato, che l’analfabetismo riguardava il 78%
della popolazione e che appena il 2,5 % era in grado di usare
la lingua nazionale per leggere e scrivere. Statistiche che mi‑
glioreranno nel tempo, ma limitatamente, se si arriva alla vi‑
gilia della prima guerra mondiale con un alfabetismo superio‑
re al 50% e 4 Italiani su dieci estranei alla conoscenza e all’uso
della lingua nazionale. Fatta questa breve precisazione, sareb‑
be opportuno, pertanto, alimentare il dibattito in modo co‑
struttivo, con un quesito reale: il principale vulnus del proces‑
so di unificazione sostanziale è rappresentato dalla mancanza
di un senso di nazione oppure dalla carenza di un senso dello
Stato? Questo è indubbiamente il problema principale, rispet‑
to al quale è necessario interrogarsi. Quali sono le responsa‑
bilità della cultura? Quest’ultima avrebbe potuto svolgere
meglio il ruolo decisivo di fattore aggregante? In un quadro
politico caratterizzato da una grave crisi della dimensione
pubblica e dei soggetti sociali, civili e politici, che ormai coin‑
volge l’intero occidente, quali sono le soluzioni possibili e chi
potrebbe effettivamente fornirle? “Come è possibile che de‑
cenni di storia, fatti dalla fatica, dal sudore, ma anche dal
sangue di generazioni di Italiani non risvegli un senso d’iden‑
civile
Gazzetta
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
tità comune? La mancanza di conoscenza è una delle cause?
Vale la pena di riflettere su questo anniversario? A fronte di
tali interrogativi, di certo non incoraggiante appare il dato
che a disinteressarsi dell’ anniversario sia stato, accanto alla
classe dirigente e politica, la stessa opinione pubblica. L’an‑
niversario dell’unità avrebbe potuto costituire un’occasione
per analizzare non tanto il modo in cui si è realizzata l’unifi‑
cazione nazionale quanto “come sia stata vissuta dalle fami‑
glie, ossia dalla cellula più importante della società nel dise‑
gno complessivo della nostra storia, nel tentativo di capire
come si possa uscire dall’attuale fase di transizione, da quel‑
la ‘galassia di schegge sempre più molecolarizzate’ che descri‑
ve il nostro presente: con una cittadinanza debole, con forti
pulsioni individualistiche che si riconoscono anche nell’insor‑
gere di localismi ancora più ingiustificati se si pensa al quadro
europeo e alla visione globale.Da qui la rilevanza e la neces‑
sità di una riflessione sulle vicende storiche dell’istituzione
familiare, in particolare del suo tessuto normativo, nonché del
ruolo svolto da altre istituzioni sociali, politiche o economi‑
che, descrivendo le stesse in modo esaustivo e chiaro le cause
e i riflessi delle problematiche appena descritte. La famiglia,
infatti, incarna un’esperienza umana che si svolge in più for‑
me e modalità e che assume le connotazioni proprie di una
comunità di vita, caratterizzata da comunione spirituale e
materiale tra i partecipanti alla stessa: luogo degli affetti e
della solidarietà, dove si realizza la sintesi delle aspirazioni e
dei diritti individuali e dove l’adempimento dei doveri è av‑
vertito come esplicazione della propria personalità e dunque
della tensione a realizzare una comunità di affetti1. La presen‑
te ricerca, pertanto, tende a delineare e verificare, in occasio‑
ne dei 150 anni dall’Unità d’Italia, un inquietante spaccato
di tale variegata realtà sociale. A tal fine, si propone di attra‑
versare la storia della famiglia nel nostro Paese, alla luce dei
più significativi mutamenti culturali, ideologici, economici e
di costume prodottisi in quest’arco temporale, che l’hanno
attraversata e permeata. Si scorge peraltro come la stessa
istituzione familiare abbia contribuito all’organizzazione
delle strutture sociali ed economiche del Paese, il tutto nel
quadro di una costante sinergia tra modelli economici e as‑
setti familiari, rispecchiando e a un tempo orientando l’orga‑
nizzazione familiare, le cadenze e le strutture dell’attività
produttiva e della vita sociale. Attraverso tale analisi sarà
anche possibile scorgere i fermenti che progressivamente
hanno condotto alla trasformazione epocale del diritto di
famiglia con la fondamentale riforma del 1975. Coerentemen‑
te con il mutare della società, con l’introduzione del divorzio
del 1970 e la riforma del diritto di famiglia del 1975 e ancora
con la legislazione successiva fino ad oggi, il diritto di fami‑
glia si è trasformato più di quanto non sia avvenuto per mol‑
ti secoli. Perciò il presente lavoro analizza le correlazioni tra
società, economia e famiglia dall’unità d’Italia fino agli inizi
1 Sul punto cfr. F. Bocchini, Diritto di famiglia. Le grandi questioni, Torino
2013, pp. 10 ss.; F. Bocchini, E. Quadri, Diritto Privato, Giappichelli, Torino
2009. Secondo Bocchini le vicende umane possono essere artificiosamente e
periodicamente accantonate, ma non definitivamente seppellite: inevitabilmen‑
te continuano ad agitarsi e si ripropongono con analoga emotività e forza
propulsiva nelle varie fasi storiche. Così soprattutto l’istituzione familiare non
può essere riposta nell’oblio e ancor meno può essere costretta in schemi pre‑
determinati e fissi, astratti dalla struttura socio‑economica e dal periodo stori‑
co in cui maturano e si sviluppano.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
degli anni ’70 del XX secolo, concentrandosi sulle condizioni
di vita dell’Italia dell’Ottocento, le relative strutture so‑
cio‑economiche e i suoi costumi, anche alla luce del rapporto
tra Stato e Chiesa e dell’idea di famiglia propugnata dal mon‑
do cattolico. In tale analisi si attraversa anche il modello di
famiglia imposto e plasmato dalla dittatura fascista, cammi‑
nando tra le macerie delle due guerre mondiali e la complessa
opera di ricostruzione, così facendo emergere i valori disegna‑
ti dalla Carta costituzionale, la cui elaborazione ha senza
dubbio favorito un momento di convergenza e di sintesi tra
diverse culture, e non è un caso che proprio questa, oggi,
costituisca il bersaglio principale di quelle culture separatiste
che quotidianamente sferrano attacchi alla storia nazionale e
ostacolano la spinta per un ethos condiviso.
2. La realtà politica ed economica dell’Italia Unita: le condizioni
di vita delle famiglie
Nella prospettiva di una ricostruzione storica si osserva in
primo luogo come il Regno d’Italia sia nato dominato da un
duplice ordine di esigenze: quelle relative al completamento
dell’Unità nazionale (mediante la conquista di Venezia e di
Roma) e quelle derivanti dalla necessità di dare un contenuto
reale all’unificazione. Queste ultime erano destinate a proiet‑
tarsi in un arco di tempo molto lungo, riguardando prospet‑
tive remote di un’unificazione tra regioni che rappresentavano
realtà sociali, economiche e amministrative profondamente
diverse. Sul piano dei costumi e delle condizioni di vita nell’Ot‑
tocento2 si osserva in primo luogo come, a fronte di un quadro
europeo caratterizzato da uno straordinario sviluppo demo‑
grafico, dovuto in particolare ad una graduale discesa della
2 Per un’analisi approfondita dei profili storici e degli aspetti giuridici della fami‑
glia cfr. Campanini (a cura di), Le stagioni della famiglia, CISF Edizioni San
Paolo, Torino 1994, pp. 41‑178; Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia
1796‑1975, Mulino, Bologna 2002. Per una ricostruzione storica del diritto di
famiglia cfr. Vecchio, Profilo storico della famiglia italiana, in G. Campanini
(a cura di), Le stagioni della famiglia, CISF Edizioni San Paolo, Torino 1994,
pp. 41‑178. Sulla nuzialità e instabilità matrimoniale dalla seconda metà
dell’ottocento agli anni sessanta del nostro secolo cfr. Blangiardo, Formazio‑
ne e instabilità matrimoniale prima e dopo il divorzio, in G. Campanini (a
cura di), Le stagioni della famiglia, CISF Edizioni San Paolo, Torino 1994,
pp. 185‑213. Per una ricostruzione del diritto di famiglia in Italia cfr. D’Agostino, Dalla Torre, Per una storia del diritto di famiglia in Italia: modelli
ideali e disciplina giuridica, in G. Campanini (a cura di), Le stagioni della fa‑
miglia, CISF Edizioni San Paolo, Torino 1994, pp. 214‑250. Per un quadro
storico delle politiche familiari in Italia cfr. Matteini, L’evoluzione delle poli‑
tiche familiari in Italia, in G. Campanini (a cura di), Le stagioni della famiglia,
CISF Edizioni San Paolo, Torino 1994, pp. 250‑278. Sul rapporto uomo‑donna
cfr. Di Nicola, Storia delle relazioni uomo‑donna, in G. Campanini (a cura
di), Le stagioni della famiglia, CISF Edizioni San Paolo, Torino 1994,
pp. 279‑310. Sugli effetti del processo di modernizzazione sulla famiglia cfr.
Turchini, Modelli familiari, storia della mentalità e modernizzazione, in G.
Campanini (a cura di), Le stagioni della famiglia, CISF Edizioni San Paolo,
Torino 1994, pp. 311‑328.Sulle vicende del matrimonio civile e del divorzio
nelle varie fasi storiche cfr. Lulli, Il problema del divorzio in Italia dal sec.
XVIII al codice del 1865, in Dir. fam. pers., 1974, 4, pp. 1230‑1247; Galoppini, Profilo storico del divorzio in Italia, in Dir. fam. pers., 1980, 2,
pp. 594‑666. In generale sui rapporti tra Stato e Chiesa dagli Stati preunitari
alla Costituzione repubblicana cfr. Lariccia, Stato e Chiesa cattolica, in Enc.
dir., XLIII, Giuffrè, Milano, pp. 890‑919; Lariccia, Giurisdizione ecclesiastica,
in Enc. dir., XIX, Giuffrè, Milano, pp. 469 ss. Sul codice civile del 1942 e la
famiglia cfr. Rescigno, Il codice civile del 1942 oggi: visto dalla scienza giuri‑
dica, in Riv. dir. civ., 1994, n. 1, pp. 1‑13; Barbiera, L’umanizzazione del di‑
ritto di famiglia, in Rass. dir. civ., 1992, n. 2, pp. 259‑267; Giacobbe, Famiglia:
molteplicità di modelli o unità categoriale?, in Dir. fam. pers., 2006, n. 3,
pp. 1219‑1245. Sulla famiglia nella Carta Costituzionale cfr. Cavana, La fami‑
glia nella Costituzione italiana, in Dir. fam. pers., 2007, n. 2, pp. 902‑921;
Giacobbe, Il modello costituzionale della famiglia nell’ordinamento italiano,
in Riv. dir. civ., 2006, n. 4, pp. 481‑502
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
mortalità e livelli di natalità ancora alti e stabili, in Italia si
registrava un alto tasso di mortalità, soprattutto infantile. Tra
le cause principali: misere condizioni di igiene ed in partico‑
lare la piaga sociale dell’abbandono dell’infanzia. Sia pure con
importanti distinguo tra famiglie contadine, operaie e borghe‑
si, l’elemento comune nell’Ottocento italiano, quindi, sembra‑
va costituito dalle condizioni di estrema precarietà della
maggior parte delle famiglie italiane. Una realtà caratterizza‑
ta dalle delicate condizioni alimentari e abitative, la persisten‑
te carenza di denaro contante e la cronica situazione debito‑
ria, fonte di infinite speculazioni da parte di usurai e proprie‑
tari. Con riferimento ai costumi non si deve poi trascurare la
grande diversità esistente tra i gruppi familiari. Insostenibile
appare, infatti, l’idea di un unico modello familiare, generica‑
mente e approssimativamente definibile come patriarcale, ligio
alle tradizioni e al sentimento religioso, frugale nelle abitudi‑
ni e solida nei legami affettivi. Comune alla maggior parte
delle famiglie, soprattutto quelle contadine, fu però principal‑
mente la drammaticità delle condizioni di vita. Il pessimo li‑
vello di alimentazione e le malattie conseguenti, nonché le
cattive condizioni abitative sono i principali indici della diffi‑
cile situazione in cui si trovavano la maggior parte delle fami‑
glie dell’Italia Unita, nella quale, tra l’altro, il processo di in‑
dustrializzazione fu particolarmente lento, tortuoso e, soprat‑
tutto, relativo solo a poche aree, con conseguente ulteriore
inasprimento della questione sociale.In questo scenario poli‑
tico, economico e sociale appena descritto, si pose subito la
questione dell’uniformità legislativa, fronte sul quale fu pos‑
sibile, soprattutto in materia di famiglia , misurare il contra‑
stato rapporto di forze tra Chiesa e Stato3.
Come vedremo, quest’ultimo approdò ad una linea di
netto separatismo fra nozze civili e nozze religiose, cui fece
seguito, com’era prevedibile, la dura condanna pontificia, con
inconvenienti anche piuttosto gravi: primo fra tutti, la persi‑
stenza di matrimoni celebrati soltanto con rito religioso e
pertanto considerati dallo Stato pure e semplici convivenze.
Alla base della diffusione di tale costume vi erano vari moti‑
vi (come la polemica ideologica cattolica; il desiderio di ri‑
sparmiare le spese per una doppia celebrazione; il tentativo
di sottrarre i figli all’anagrafe e dunque alla futura coscrizio‑
ne obbligatoria). Va detto, però, che, sia pure in un clima di
rottura con la Chiesa, lo Stato liberale non pervenne mai a
misure estreme, quali l’imposizione della precedenza del ma‑
trimonio civile su quello religioso o l’ammissione del divor‑
zio 4 . In questo quadro di rapporti con la Santa Sede, nel 1865
fu approvato, dopo un lungo dibattito, il cosiddetto Codice
Pisanelli, che unificava le normative precedentemente vigenti
e, in tema di famiglia, tentava un “compromesso” fra le ten‑
denze più tradizionaliste e l’eredità lasciata dalla Rivoluzione
francese, senza risolvere però, come di seguito evidenziato,
due grandi questioni di fondo: il rapporto fra matrimonio
civile e matrimonio religioso5 e l’inferiorità giuridica della
donna sposata 6 .
3 Per il rapporto tra Stato e Chiesa cfr. S. Lariccia, Stato e Chiesa cattolica, cit.,
pp. 890‑919
4 Lulli, op. cit., pp. 1230‑1247. In particolare v. p. 1245.
5 Lulli, op. cit., pp. 1241‑1242.
6 Per far fronte alla quale furono posti in atto interventi che, sia pure limitati,
modificarono taluni aspetti, sia in termini di legislazione sociale sia in termini
2 0 1 3
23
3. La famiglia nello specchio del Codice Pisanelli
Il codice Pisanelli7 costituì, quindi, una frattura interna
della società italiana, che rese difficile e stentata la vita dello
Stato post‑unitario, ma rappresentò anche un tassello impor‑
tante nel processo di unificazione sostanziale e non solo
formale della comunità italiana. Una legislazione civile dif‑
ferenziata per regioni, infatti, avrebbe evitato ai lombardi di
perdere qualche posizione8, ma nel breve e anche lungo perio‑
do avrebbe causato fratture ben più radicali. Va considerato,
poi, che alla luce dell’antico mondo di leggi, di giurispruden‑
za e di pratiche commerciali (non privo di elementi nuovi)
proprie dei singoli Stati preunitari9, dal quale il nuovo codice
emerge, è evidente come lo stesso rappresentasse a pieno tito‑
lo un evento rivoluzionario. Tra i suoi meriti vi è senza dubbio
l’immediata ed energica unificazione del diritto civile in uno
Stato, che non aveva di certo alle spalle secoli di monarchia,
trovandosi così non a fondere province ma sistemi statali. Le
vicende della lotta per la nuova codificazione civile fra il 1859
e il 1865 si possono schematicamente riassumere nei termini
seguenti: in una prima fase, l’orizzonte rimane limitato ad una
più o meno profonda revisione del codice albertino10, nella
quale appare dominante l’influenza di giureconsulti e magi‑
strati del Regno sardo. Una seconda fase è caratterizzata
dall’alternativa fra modello francese e modello napoletano:
risolta da ultimo nel senso di un codice nazionale italiano che,
avvicinandosi maggiormente al primo modello, vi innesta
però principi e istituti più aderenti alle tradizioni degli antichi
Stati della penisola.
Valutando il risultato complessivo del lavoro per ciò che
attiene alla famiglia si trova che, toltene alcune soluzioni più
avanzate in senso liberale rispetto allo stesso codice napole‑
onico, la maggior parte si ispirò a prudente contemperamen‑
to fra quanto dei principi rivoluzionari si era in esso mante‑
nuto e lo spirito della tradizionale famiglia italiana delle
classi medie e agricole.Assoluta novità rispetto a tutti gli
Stati preunitari, con ritorno pieno al diritto napoleonico, è
l’affermazione senza riserve del principio separatista. Nel
dibattito sul matrimonio civile, infatti, sia pure di fronte a
tante alternative di diverso contenuto, il Pisanelli ribadiva in
modo forte la tendenza invincibile del tempo a laicizzare le
istituzioni, attuando così nella sua purezza la linea del sepa‑
ratismo cavouriano, respingendo però sia le suggestioni giu‑
risdizionaliste sia quelle della democrazia giacobina. Del re‑
sto, la disciplina del matrimonio teneva ampiamente conto del
costume e delle credenze della maggioranza degli Italiani, e
spesso finiva per ricalcare regole canonistiche non in contra‑
sto con principi di diritto pubblico e principi un tempo pre‑
sidiati dalla giurisdizioni ecclesiastica e ora fatti propri in
base ad una valutazione meramente laica. Contemporanea‑
mente alla promulgazione del codice Pisanelli si apriva in
Roma il Concilio Vaticano I. La condanna al matrimonio
di attività economica. In particolare sul tema del rapporto uomo‑donna nell’Ot‑
tocento cfr. Di Nicola, op. cit., pp. 279‑310.
7 Per tutti cfr. Ungari, op. cit., pp. 151‑17
8 Si pensi alla rafforzata condizione giuridica riconosciuta alla donna e ai figli
legittimi.
9 Sul punto cfr. Lulli, op. cit., pp. 1230‑1238; Galoppini, op. cit., pp. 594‑666.
In particolare sul principio di indissolubilità v. pp. 594‑601.
10 Sul punto per tutti cfr. Biscaretti di Ruffia, Statuto albertino, in Enc. dir.,
XLIII, Giuffrè, Milano.
civile
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D i r i t t o
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p r o c e d u r a
civile fu rinnovata, dopo la codificazione, nel Concistoro se‑
greto del 29 ottobre 1866 e di nuovo, sempre con riferimento
alla nefanda legge in un’allocuzione del 22 giugno 1868 apren‑
do una polemica destinata a durare, per parte della Chiesa,
fino agli Accordi Lateranensi del 1929. Nettissimo fu il ripu‑
dio di tutta una serie di impedimenti canonici al matrimo‑
nio11. È evidente quindi come il codice del 1865 si presentasse
con lineamenti assai caratteristici, sia pure con una chiara
influenza francese. Nonostante le numerose opposizioni fu
mantenuta da ultimo l’autorizzazione maritale, dando vita
così ad un regime durato fino al 1919, che precludeva alle
donne coniugate donazioni, alienazioni di immobili, ipoteche,
cessioni o riscossioni di capitali; nonché le relative transazio‑
ni e azioni giudiziarie e di conseguenza, come ribadì la legi‑
slazione successiva, l’autonoma gestione dei conti bancari. Fu
del pari mantenuto il divieto di ricerca della paternità, sia
pure aggiungendo all’eccezione del ratto quella dello stupro
violento. Sempre ammessa, invece, la ricerca della maternità.
L’adozione12 fu introdotta da ultimo. La patria potestà13 era
attribuita ad entrambi i genitori ma esercitata dal marito.
Molto accuratamente organizzata per contro la tutela con una
serie di obblighi di pubblicità. Lo stesso valeva per il curato‑
re. Quanto al regime patrimoniale della famiglia, a differenza
di quanto previsto dagli ordinamenti preunitari, respinta la
comunione universale dei beni, ritenuta estranea ai costumi
italiani, si accettava, in via di libera pattuizione tra i nubendi,
la mera comunione degli acquisti, anche alla luce della netta
prevalenza dell’istituto della dote14 . Questo complesso impor‑
tante di principi organizzativi aveva un puntuale riscontro in
sede successoria, laddove i figli naturali riconosciuti erano
ammessi a succedere nella metà della quota dei legittimi, ma
con facoltà a questi ultimi di soddisfarli in denaro o in beni
ereditari a giusta stima, nel preciso intento di preservare
l’unità dell’azienda familiare; a sua volta la moglie succedeva,
ma solo in una quota di usufrutto a quota legittima fissata in
una misura uniforme. Coerentemente con la prevalenza
dell’interesse pubblico e sociale sulla volontà privata del te‑
statore furono vietate le sostituzioni fidecommissarie15 di ogni
genere e cancellato l’istituto della diseredazione16 .Quanto
all’impatto prodotto dal nuovo codice, va sottolineato come,
nonostante la non radicale rottura con la preesistente tradi‑
zione giuridica, l’adeguamento della famiglia italiana agli
11 Sul punto cfr. Ungari, op. cit., p.161.
12 Sul punto cfr. Vismara, Adozione (diritto intermedio), in Enc. dir., I, Giuffrè,
Milano, pp. 581‑584.
13 Ciccarello, Patria potestà, in Enc. dir., XXXII, Giuffrè, Milano, p. 255‑ 262.
In particolare v. p. 256.
14 Istituto antichissimo che si ritrova in diritto romano fin da epoca arcaica ed in
tutto il camminodel diritto intermedio, da cui è passato come regime conven‑
zionale in Francia, oltre che in Italia e, con varia disciplina, in Belgio, Spagna,
Portogallo, Austria ecc. Sul punto cfr. Funaioli, Dote, in Enc. dir., XIV, Giuf‑
frè, Milano, pp. 32‑48.
15 Ricca, Fedecommesso, in Enc. dir., XVII, Giuffrè, Milano, pp. 114‑142. In
particolare pp.115‑116.
16 Per certi aspetti il codice civile del 1865 recepiva le istanza che giuristi e filoso‑
fi dell’età illuministica avevano espresso per liberare l’individuo non solo
dall’autoritarismo dello stato, ma anche da quello dell’istituzione familiare a
esso funzionalmente collegata. Si pensi al superamento di ogni forma di mag‑
giorascato, fedecommesso, diseredazione. Istituti tutti con i quali, in passato, si
era assicurata la soggezione dei componenti la grande famiglia patriarcale
all’autorità del capofamiglia. Sul tema della diseredazione nelle legislazioni
preunitarie, fino al codice del 1865 cfr. Marongiu, Diseredazione, in Enc. dir.,
XIII, Giuffrè, Milano, pp. 99‑102. In particolare p. 101.
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istituti del nuovo diritto sia apparsa nel complesso assai lento..
Nella consapevolezza che la storia degli istituti familiari vada
condotta con riferimento non solo allo schema legale, né solo
in base alle vicende giurisprudenziali, è evidente come non
bastasse, almeno nell’immediato, la individuazione di una
linea di diritti indisponibili e di norme imperative, a sradica‑
re dalla coscienza giuridica collettiva degli Italiani quel vasto
e complesso tessuto di consuetudini e credenze giuridiche, di
prassi contrattuali ed usi di fatto, che non solo è parte della
legge vivente, ma dà poi ragione di molte norme.
4. La famiglia tra sconvolgimenti sociali e responsabilità dei governi nella prima guerra mondiale: l’avvento del fascismo
Dall’unità d’Italia un lungo periodo di pace o di guerre li‑
mitate, di progresso tecnico, di riforme e nuovi equilibri poli‑
tici aveva diffuso in tutta Europa la convinzione che fosse
possibile evitare o comunque circoscrivere i conflitti tra i mag‑
giori Paesi.
Il problema della responsabilità di popoli e governi nello
scoppio della prima guerra mondiale fu sentito e dibattuto
negli anni del conflitto e nel successivo ventennio con un’inten‑
sità lacerante.
Il carattere totale rapidamente assunto dalla conflagrazio‑
ne scoppiata nell’agosto 1914 e la conseguente mobilitazione
di tutte le risorse nazionali provocarono perciò reazioni pro‑
fonde, mentre i governi, per convincere i rispettivi popoli della
“santità” della propria causa cercavano di riflettere sull’avver‑
sario tutta la responsabilità del conflitto e dei suoi orrori.
Nel 1919, a guerra mondiale conclusa, l’Europa era pro‑
strata come prima di allora, in età moderna, lo era stata solo
la Germania dopo la terribile guerra dei 30 anni, conclusasi nel
1648.
In Italia la crisi del dopoguerra tra il 1919 e il 1922, con la
pesante situazione economica e gli acuti conflitti politici e
sociali, aveva portato al potere il fascismo, che aveva così chiu‑
so un periodo segnato da momenti di vera e propria guerra
civile.
È in questa fase che tale movimento, grazie alla sua indeci‑
frabilità e difficoltà di analisi, neutralizzò e disorientò l’intel‑
ligenza stessa dei suoi avversari, arrivando velocemente al
potere.
5. La funzionalizzazione statalistica della famiglia nella ideologia
fascista. La vergogna delle leggi razziali.
In questa cornice e dopo quasi mezzo secolo senza rifor‑
me, emergeva gradualmente, con l’affermazione del regime
fascista, una nuova concezione della famiglia, intesa come
realtà sottratta al volere delle parti. In una logica di funzio‑
nalizzazione statalistica della famiglia il fascismo fa sì che le
libertà individuali debbano piegarsi a superiori interessi
dell’istituzione familiare e della società politica, e che gli in‑
teressi collettivi debbano prevalere su quelli individuali. Da
qui l’accentuazione in senso istituzionalistico del matrimonio,
come realtà sottratta al volere delle parti: la libertà individua‑
le si esaurisce nella libertà di contrarre matrimonio, sicché
una volta che questo è stato contratto, l’uniformazione al
modello precostituito dal legislatore è giuridicamente dovero‑
sa. I segni di tale inversione di tendenza si manifestano chia‑
ramente nella dottrina giuridica: basterebbe soltanto ricorda‑
re le teorizzazioni della dottrina civilistica del tempo, per cui
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il matrimonio doveva considerarsi come atto complesso, il
quale veniva a formarsi grazie al concorso della volontà dei
nubendi con quella dello Stato, espressa dal pubblico ufficia‑
le, che con la sua dichiarazione li univa in matrimonio.
Tuttavia è in taluni interventi della legislazione speciale,
benché fossero confluiti nel periodo fascista non pochi postu‑
lati di riforma già propri dell’età liberale (che giungono ora
ad attuazione) ed un indirizzo generale di politica legislativa
intesa alla restaurazione della famiglia (come ad esempio
nell’opposizione al divorzio17), che tale inversione di tendenza
si manifestò con estrema chiarezza.
Si pensi agli interventi legislativi volti a favorire sia i ma‑
trimoni (l. n. 2132 del 19 dicembre 1926, introduttiva della
c.d. “tassa sul celibato”), sia la procreazione e la formazione
di famiglie numerose (l. n. 1312 del 14 giugno 1928; l. n. 1024
del 6 giugno 1929; l.1047 del 27 giugno 1929; l. n. 404 del 19
gennaio 1937), nei quali la ragion di Stato, espressa nella
politica d’incremento demografico, veniva a prevalere sugli
interessi dei singoli. E si pensi, ancora, ad alcuni interventi
settoriali per determinate categorie di cittadini, chiaramente
a favore della famiglia: si pensi, ad esempio, alla l. 10 dicem‑
bre 1925, n. 2277, istitutiva dell’Opera nazionale maternità
e infanzia (Onmi), cui seguirono il regio decreto l. 22 marzo
1934, n. 654 (che promuoveva una più ampia tutela della
maternità della lavoratrice), la l. 26 aprile 1934, n. 653 (che
predisponeva garanzie a tutela della donna e del fanciullo nel
rapporto di lavoro) e il regio decreto n. 636 del 14 aprile 1939
(che introduceva l’assicurazione obbligatoria di maternità).È
innegabile, quindi, che l’attrazione di matrimonio e famiglia
nella sfera pubblicistica abbia avuto, a prescindere dalle logi‑
che politiche e propagandistiche sottese, anche una ricaduta
positiva sulla stessa istituzione familiare.
In questo scenario – anticipato in qualche modo dall’ado‑
zione di prassi di repressione legale, chiaramente riconduci‑
bili nel quadro di un perfezionamento e rafforzamento del
tradizionale Stato di polizia, che non è ancora il moderno
Stato autoritario e tantomeno quello totalitario, ma che co‑
stituisce un necessario ingrediente sia dell’uno che dell’altro18 –
si inseriscono interventi di legislazione speciale che segneran‑
no l’inizio di un periodo di terrore e morte per molte famiglie
italiane, condizionate dalla legge nel modo di vivere e nei
costumi, semplicemente a causa del loro credo religioso.
Immane, infatti, fu la tragedia prodotta dalla “vergogna”
della legislazione razziale sul matrimonio, e in particolare del
r. d. n. 1728 del 17 novembre 1938 relativamente agli impe‑
dimenti matrimoniali derivanti dalla razza, in forza dei
17 La proposta Marangoni‑Lazzari sul divorzio incontrò dapprima fortuna a
Montecitorio, ma soggiacque al destino finale di tutte le altre da un cinquan‑
tennio a quella parte. Non si videro ora petizioni di massa paragonabili a
quelle dell’inizio di secolo: ma c’era, invece, da un anno, solidamente attestato
e vigilante al centro dello schieramento parlamentare il nuovo partito popolare
sorto dall’appello ai “liberi e ai forti” di Don Sturzo. Successivamente, l’oppo‑
sizione al divorzio fu vanto del governo Mussolini. Nella campagna elettorale
del 1924 il guardasigilli Oviglio non mancò di elencare tra le benemerenze del
nuovo governo nei confronti della Chiesa anche quella di aver posto termine ai
divorzi fiumani”.
18 Vanno collocati in questa cornice i provvedimenti contro la libertà di stampa
iniziati con il R.D. 15 luglio 1923, n. 3288 (che dava ai prefetti la facoltà di
diffidare e revocare i gerenti dei giornali) e perfezionati, poi, con la l. 31 dicem‑
bre 1925, n. 2307 (premesse all’uso della stampa come veicolo della propagan‑
da di massa)
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quali non poteva essere celebrato un matrimonio fra un aria‑
no e un ebreo, o un appartenente da altra razza non ariana
(né poteva conseguire effetti civili il matrimonio religioso
contratto fra di loro) 19.
Fra la pubblicazione dei due codici, quindi, norme, pur‑
troppo vergognose perché relative alla tutela della razza e
all’avvio della legislazione antisemita, andarono a toccare la
vita della famiglia italiana, innescando, fra l’altro, un conflit‑
to giuridico con la Santa Sede, dal momento che esse, proi‑
bendo la trascrizione civile dei matrimoni religiosi celebrati
in dispregio delle norme razziali, colpivano anche le già ana‑
lizzate intese concordatarie del 1929 20.
Il fascismo colpì gli Ebrei con un numero infinito di divie‑
ti che ebbero per oggetto tutti gli aspetti di una vita di un
essere umano: furono espulsi dalla scuola pubblica, dallo
spettacolo, dalle associazioni sportive, dall’editoria, dalle
cooperative, dal lavoro pubblico, e, in misura progressiva, dal
lavoro privato. Questi provvedimenti da un lato realizzavano
la politica di persecuzione degli ebrei e dall’altro quella della
loro separazione dai non ebrei. Entrambe erano condizioni
essenziali per il successo dell’azione di espulsione. Il fascismo
italiano aveva l’obiettivo di arianizzare la società italiana.
Come nell’Italia del 1922, così in Germania la crisi giocò a
favore non già della sinistra rivoluzionaria ma del nazismo.
La partita si chiuse nel gennaio del 1932 con l’avvento al
potere di Hitler, il quale rapidamente stabilì e consolidò la
dittatura nazista, segnando la catastrofe sia dei partiti demo‑
cratici sia di quello comunista. Da qui l’inizio di un tragico
percorso, innescato il 1 settembre del 1939 dall’invasione te‑
desca della Polonia e conclusosi con la resa di quest’ultima nel
1945. Una guerra che, sia pure con paradossali contraddizio‑
ni, seminò morte e dolore in una cornice di annientamento
della persona in nome della razza.
6. I Patti Lateranensi del 1929
Prodromo in una certa misura, sul piano del ruolo affida‑
to all’elemento religioso, fu la stipulazione (11 febbraio 1929)
del Concordato21 con la Santa sede, con la quale si pose fine
alla c.d. questione romana22 .
Per comprendere le ragioni ad esso sottese occorre, come
attentamente sottolineato, “richiamarsi a quella che era la
situazione anteriore esistente in Italia nei confronti della
Chiesa cattolica e alla peculiarità che la caratterizzavano ri‑
spetto a quella degli altri Stati. Come è notorio, il problema
19 Così, D’Agostino, Dalla Torre, op. cit., pp. 235‑236. Significative, d’altra
parte, furono anche le determinazioni del nuovo codice penale del 1930: sotto
la discutibilissima intitolazione dei “Delitti contro la integrità e la sanità della
stirpe”, in cui si riflettevano gli orientamenti ideologici del tempo, furono pe‑
raltro contemplate le fattispecie criminose dell’aborto, della procurata impoten‑
za, dell’incitamento a pratiche contraccettive e della propaganda delle stesse.
20 Così, D’Agostino, Dalla Torre, op. ult. cit., pp. 233‑234.
21 Sul tema specifico dei rapporti tra Stato e Chiesa cfr. Lariccia, Stato e Chiesa,
cit., pp. 890‑919; d’Avack, Patti Lateranensi, in Enc. dir., XXXII, Milano,
Giuffrè, pp. 456‑472; Tedeschi, Fascismo e Chiesa cattolica in Italia, in Dir.
eccl., 1987, n. 3‑4, pp. 1074‑1097; Fedele, I rapporti fra lo Stato e la Chiesa
e il Concordato Lateranense, in Dir. eccl., 1994, n. 1, pp.49‑63.
22 In tal senso, in ordine alla tematica specifica della discriminazione religiosa
operata dal fascismo Margiotta Broglio, Discriminazione razziale e discri‑
minazione religiosa, in Quad. Dir. Pol. Eccl., 2000, n. 1, pp. 269‑279, secondo
il quale la legislazione razziale antisemita ha rappresentato anche uno sviluppo
della discriminazione religiosa introdotta dopo i Patti lateranensi con la l. 1159
del 1929 e con la normativa 1930‑1931 sulle comunità israelitiche.
civile
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che si presentava per la soluzione dei rapporti tra Stato e
Chiesa era duplice: l’uno rifletteva la situazione giuridica
della Chiesa cattolica italiana, che il nostro Stato aveva pre‑
teso regolare sovranamente con norme proprie, quale una
comunità ad esso soggetta. L’altro, invece, rifletteva la posi‑
zione giuridica della Santa Sede (ente centrale della Chiesa),
che il nostro Stato, dopo avere spodestato del potere tempo‑
rale, aveva regolato unilateralmente con la famosa legge
delle guarentigie.
Di per sé i due problemi erano indipendenti l’uno dall’altro
e potevano essere risolti separatamente, ma di fatto, però, gli
stessi finivano per essere strettamente connessi e interdipen‑
denti fra loro e non risolubili quindi che contemporaneamen‑
te. La Santa Sede, infatti, si rifiutava di discutere il problema
religioso finché non fosse stata sistemata la sua stessa posi‑
zione personale in modo soddisfacente, affermando di man‑
care altrimenti della necessaria libertà e indipendenza di
fronte allo Stato italiano per potere trattare un qualunque
accordo con lui e si rifiutava insieme di sistemare la propria
posizone indipendentemente dalla soluzione del problema
religioso, sostenendo di non potere entrare in rapporti con
uno Stato, che informava il suo comportamento e la sua legi‑
slazione religiosa a presupposti e indirizzi condannati dalla
Chiesa e contrari ai suoi dogmi”23.
Le ragioni 24, a parte quelle di rafforzamento del regime
fascista 25, che nel 1929 presiedettero alle profonde modifiche
del sistema matrimoniale,soprattutto in relazione alle ampie
e sostanziose concessioni a favore della Chiesa cattolica, fu‑
rono, quindi, molteplici: anzitutto la volontà dello Stato di
tener conto delle tradizioni cattoliche del popolo italiano; in
secondo luogo, l’opera di riconfessionalizzazione dell’ordina‑
mento giuridico, approntata con i patti lateranensi; infine,
una certa sensibilità alle esigenze della libertà religiosa. Fra
tali ragioni, però, un ruolo importante ebbero soprattutto
quelle più direttamente connesse con l’ideologia allora domi‑
nante (la concezione dello Stato di derivazione hegeliana),
profondamente incidente sulle determinazioni del Legislatore:
in particolare, nella concezione del matrimonio come istituto
etico, come forma di eticità dello Stato; nella teoria che pog‑
giava famiglia e Stato su basi di un ordine necessario, sottra‑
endo l’una e l’altro al capriccio della volontà individuale;
nella tesi per cui il matrimonio non fosse puro istituto roman‑
tico, bensì vincolo etico. In questo contesto si comprende, fra
l’altro, l’obiettivo di politica legislativa perseguito dallo Stato
col Concordato: evitare la duplicità di vincoli matrimoniali,
civili e religiosi, fra le stesse persone degli sposi, ovvero fra
ciascuno di costoro e terzi, in ragione proprio del fondamen‑
to etico del principio monogamico, inteso nella sua più rigida26
accezione27. Insomma, la stipulazione del Concordato fra la
Santa Sede e l’Italia l’11 febbraio 1929, a chiusura della c.d.
questione romana, non solo introdusse alcune innovazioni
23 d’Avack, op. cit., pp. 456‑472.
24 Ungari, op. cit., pp. 209‑211.
25 Consapevole dell’influenza che la Chiesa esercitava sulla popolazione italiana,
Mussolini mirò a trasformare il Cattolicesimo in un autorevole fondamento del
nuovo regime politico.
26 Così, D’Agostino, Dalla Torre, op. cit., pp. 233‑234.
27Per questo, nel 1929, mentre era Papa Pio XI, il Governo stipulò con la Santa
Sede i Patti Lateranensi, che sancirono la conciliazione tra Stato italiano e
Chiesa Cattolica.
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sostanziali28 nel regime dei presupposti e della forma di cele‑
brazione del matrimonio, ma influì anche su quella che sareb‑
be stata la linea di politica legislativa in tema di indissolubi‑
lità del vincolo.
Non a caso, infatti, nel corso di questa generale riforma
del regime matrimoniale ereditato dalla prima legislazione
unitaria si parlò pochissimo del divorzio, e solo per dire che
esso non aveva titolo ad esistere nella nostra legislazione:
così nelle trattative con la Santa Sede per la formazione del
Concordato, così nei lavori della commissione mista, incari‑
cata di predisporre le norme di esecuzione del medesimo29.
7. La famiglia nell’impianto del codice civile del 1942
Solo alla fine della sua parabola storica il fascismo inter‑
venne, varando nel 1942 il nuovo codice civile 30, che superava
il vecchio codice Pisanelli. In realtà, però, alla legislazione
ottocentesca erano già state apportate da tempo, come sotto‑
lineato in precedenza, numerose modifiche.
Si pensi alla cancellazione della norma relativa all’auto‑
rizzazione maritale per le attività della donna. Vani, invece,
i tentativi di introdurre il divorzio31 e la ricerca giudiziale
della paternità nel caso delle procreazioni fuori del matri‑
monio.
Nei lunghi tempi di elaborazione dei nuovi codici – pena‑
le (1930) e civile (1942) – era stata gradualmente introdotta,
come sottolineato, una diversa visione della famiglia, che ri‑
gettava l’individualismo della legislazione liberale, per far
passare una concezione più organica, capace oltretutto di
dare alla famiglia stessa un peso speciale maggiore, natural‑
mente entro la visione totalizzante del regime.
Era dunque l’interesse generale dello Stato e della società
a essere anteposto alla centralità della persona, coerentemen‑
te con una concezione fascista dello Stato come educatore del
cittadino e fine primario della persona.
Le poche novità introdotte nel codice civile andarono a
cristallizzare quanto di autoritario era già presente nel vecchio
codice liberale. Si pensi alla possibilità di sottrarre un minore
ad una famiglia ritenuta incapace di svolgere il proprio com‑
pito educativo; l’ampio spazio dato alla regolazione dei rap‑
porti di adozione e affiliazione, diffusisi in seguito alla prima
guerra mondiale; l’imposizione della ricerca della paternità,
ora dichiarabile giudizialmente non soltanto nei casi di ratto
o stupro, ma anche laddove vi fosse stata notoria convivenza
oppure essa fosse rintracciabile tramite precise documenta‑
zioni o dichiarazioni.
28 L’art. 34 del Concordato attribuiva effetti civili “al sacramento del matrimonio,
disciplinato dal diritto canonico (comma 1), riservava alla giurisdizione eccle‑
siastica “le cause concernenti la nullità del matrimonio rato e non consumato”
(comma 4), lasciando, infine, all’autorità giudiziaria civile le cause di separa‑
zione personale (ult. comma).
29 In questi termini, in ordine ai Patti del Laterano e la nuova disciplina del ma‑
trimonio, nonché la problematica del divorzio Galoppini, op. cit.,
pp. 654‑656.
30 Su tali aspetti cfr. Vecchio, op. cit., pp. 114‑117; Giacobbe, Famiglia: molte‑
plicità di modelli o unità categoriale?, cit., pp. 1219‑1228; Barbiera, op. cit.,
p. 260.
31 Per un’analisi approfondita del divorzio nei lavori preparatori del codice civile
del 1942 v. Galoppini, op. cit. pp. 656‑658 il quale osserva: “che, all’atto di
una riforma giuridica come quella di una nuova codificazione, non si avvertis‑
se l’esigenza di rimeditare, almeno per il matrimonio civile, la questione dell’in‑
dissolubilità del vincolo durante la vita dei coniugi, destò una certa sorpresa in
chi seguiva dall’estero le vicende italiane”
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Il codice civile del 1942, però, era segnatoda una profon‑
dacontraddizioneai postulati ideologici dello Stato etico,
secondo i quali la famiglia era di fondamentale rilevanza
pubblica per le sue finalità eccedenti l’interesse sia individua‑
le sia dello stesso gruppo familiare, si contrapponeva la tra‑
dizione giuridica, specie quella consolidata nella codificazio‑
ne del 1865 e nell’esperienza giuridica successiva. Da un lato,
dunque, vi era l’insieme delle disposizioni codiciali, ispirato
al proposito di accentuare la vigilanza dello Stato sull’eserci‑
zio dei poteri nella famiglia in ragione del carattere pubblici‑
stico dell’istituto familiare: basti pensare, tanto per portare
un esempio significativo, che in forza dell’art. 145 del codice
civile l’opera educativa doveva avere come scopo quello di
elevare i minori in conformità al sentimento nazionale fasci‑
sta. Sicché un’educazione difforme dalla direttiva del codice
avrebbe potuto configurare un abuso di patria potestà. Con‑
seguentemente molteplici attribuzioni erano conferite alla
pubblica autorità, e segnatamente all’autorità giudiziaria, in
materia di tutela e di esercizio della patria potestà. Dall’altro
lato la tradizione giuridica appariva evidente nell’insieme di
norme che intendevano consolidare l’unità del gruppo fami‑
liare, garantendo e rafforzando l’autorità del marito‑padre,
capo della famiglia. Così la donna risultava essere ancora in
una condizione di inferiorità: sottoposta alla potestà marita‑
le (artt. 144‑245), poteva essere oggetto di ritorsioni econo‑
miche nel caso in cui si allontanasse ingiustificatamente dalla
residenza familiare (art. 146); ella aveva la titolarità, ma non
l’esercizio della potestà sui figli 32 (art. 316), pienamente nelle
mani del marito; anche in ciò che atteneva ai rapporti fra i
coniugi, la moglie era mantenuta in uno stato di sudditanza
rispetto al marito. Per quanto concerneva poi la posizione dei
figli 33 , sostanzialmente immodificata era quella dei figli legit‑
timi, mentre si registrava una certa apertura a favore del ri‑
conoscimento dei figli naturali e della ricerca della paternità;
anche la disciplina dell’adozione risultava migliorata Ferma
restando l’indissolubilità del matrimonio, il codice del 1942
mantenne gli istituti della separazione consensuale e della
separazione per colpa del coniuge, distinguendo i reati tipica‑
32 “Un ulteriore aspetto che merita di essere analizzato per definire l’ambito di
operatività della preminenza del marito nella determinazione dell’indirizzo fa‑
miliare, si riscontra nel rapporto tra genitori e figli. Anche secondo il codice
civile nella sua originaria formulazione il rapporto di filiazione all’interno del
matrimonio impone ad entrambi i coniugi l’obbligo di istruire, mantenere ed
educare i figli. Tuttavia, ricollegandosi l’originario testo dell’art. 147 c.c. con la
disciplina della patria potestà secondo l’originaria formulazione dell’art. 316
c.c., emerge, come si è già accennato, un ulteriore profilo di supremazia del
marito, laddove si distingue, rispetto alla potestà il profilo della titolarità da
quello dell’esercizio. Sembra di intuitiva evidenza che, avuto riguardo alla na‑
tura della potestà genitoriale codesta dissociazione che si esprime qualificando‑
si il relativo potere come patria potestà sostanzialmente rende priva di qualsia‑
si rilevanza giuridica la titolarità congiunta del potere, sottolineandosi, anche
per questo fondamentale profilo dei rapporti familiari, la preminenza del ma‑
rito rispetto alla moglie”. Così Giacobbe, Famiglia: molteplicità di modelli o
unità categoriale?, cit., p. 1225.
33 “La concezione gerarchica dei rapporti familiari si riflette anche nel regime
della filiazione. La contrapposizione tra filiazione legittima e filiazione illegitti‑
ma è espressiva di una concezione della famiglia secondo la quale l’esigenza di
tutela del’ambito familiare è destinata a prevalere rispetto alla garanzia dei
diritti fondamentali della persona umana. La prevalenza assoluta della filiazio‑
ne legittima si giustifica, nel sistema della codificazione, avuto riguardo alla
ideologia che ne costituisce il fondamento, non soltanto sotto il profilo della
qualificazione giuridica, e quindi, della individuazione dello status soggettivo
del figlio, a seconda che la procreazione sia avvenuta all’interno del rapporto
matrimoniale ovvero al di fuori di esso, ma anche e si direbbe soprattutto sul
piano dei rapporti patrimoniali”. Così Giacobbe, op. ult. cit., pp. 1219‑1245
2 0 1 3
27
mente maschili (eccessi, sevizie) da quelli propriamente fem‑
minili (adulterio, ingiurie gravi). Era sulla base della loro
accertata sussistenza che, di volta in volta, l’autorità giudizia‑
ria poteva concedere la separazione per colpa. Nel complesso
si deve rilevare che, mentre nella legislazione speciale erano
prevalenti gli orientamenti del tempo, incisivamente indicati
nei “principi fascisti”, nel nuovo codice civile sembravano
invece prevalere, nonostante tutto, le concezioni tradizionali
in materia familiare34. In definitiva, un codice civile dal cui
moderno “impianto” emerge un diritto di famiglia che si
presenta come sistema chiuso, autoritario e rigido, fondato,
come sottolineato, sui seguenti principi: Statuto privilegiato
per la famiglia di sangue legittima; marito‑padre come capo
di famiglia investito di funzioni e connessi poteri‑doveri, con
soggezione passiva degli altri componenti la famiglia; indis‑
solubilità del matrimonio.
Un microsistema, questo appena descritto, rappresentati‑
vo, quindi, di un modello di famiglia unitario, che non ebbe
possibilità di consolidarsi nell’esperienza applicativa della
codificazione, a causa delle vicende – seconda guerra mondia‑
le, caduta del fascismo e successivo mutamento istituzionale
con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana – che,
come vedremo, caratterizzarono l’evoluzione estremamente
veloce della società italiana.
8. Il secondo dopoguerra e l’avvento della Repubblica. La Carta
Costituzionale e la nuova concezione della famiglia come formazione sociale: il “seme” della riforma del 1975
Gli interventi del legislatore fascista sulla famiglia aveva‑
no segnato, come evidenziato in precedenza, un’inversione di
tendenza rispetto al moto che aveva caratterizzato l’età libe‑
rale: l’istituzione familiare era stata progressivamente attrat‑
ta nella sfera pubblicistica, ove l’ingerenza statuale si era
fatta penetrante e continua. È difficile individuare la data
precisa in cui gli Italiani videro svanire le residue speranze nel
regime fascista e se ne allontanarono in modo definitivo. Si
trattò con ogni probabilità di un processo che avvenne per
tappe successive e sempre più determinanti.Il 2 giugno 1946
gli Italiani scelsero la Repubblica. Importante fu il lavoro di
elaborazione della Carta fondamentale da parte dell’Assem‑
blea Costituente tra il giugno 1946 e il dicembre 1947.Non ci
furono modelli, ma, senza dubbio, l’esperienza della Costitu‑
zione di Weimar, nel bene e nel male ebbe un suo peso, come
l’ebbe la Costituzione della Repubblica francese varata nel
1947. Mentre i costituenti elaboravano la nuova Carta costi‑
tuzionale, giungendo a frequenti compromessi, che permet‑
tevano di contemperare esigenze in origine contrapposte e
accantonando scelte che avrebbero determinato una crisi tra
i maggiori partiti, la politica italiana evolveva verso nuovi
equilibri, influenzati dal quadro internazionale, ma anche dai
rapporti tra le forze economiche e tra le Istituzioni tradizio‑
nali della società, a cominciare dalla Chiesa cattolica che
sotto la guida di Pio XII guardava con crescente preoccupa‑
zione ai successi elettorali dei comunisti e dei socialisti.
Il periodo che va dal 1943 al 1947 pone le basi, quindi, di
quella che sarà la revisione radicale di un impianto normati‑
vo fondato, fin dalla costituzione dello Stato Unitario, su una
34 Così, D’Agostino, Dalla Torre, op. cit., pp. 235‑237.
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concezione patriarcale della famiglia. Tale revisione avviene
in particolare sotto l’impulso dei nuovi problemi posti dal
conflitto bellico mondiale e dal nuovo ruolo assunto dalla
donna in una società attraversata da gravissime tragedie e da
inimmaginabili sconvolgimenti della vita civile. Per compren‑
dere il nuovo orientamento del legislatore, sempre più sensi‑
bile al nuovo contesto socio‑politico che si andava afferman‑
do nel Paese, possiamo far riferimento a due provvedimenti
emblematici varati nell’estate del 1944: il primo avente ad
oggetto la soppressione del divieto per le donne di impartire
insegnamenti e di assumere uffici direttivi negli istituti di
istruzione media; il secondo conduce all’estensione alle don‑
ne del diritto di voto.
Da questo momento una serie di provvedimenti consacra‑
no il pieno ingresso femminile nella cittadinanza. La parifi‑
cazione giuridica delle donne in tema di diritti politici non
rappresenta solo un termine ad quem, ma l’esito di un lungo
e contrastato movimento di emancipazione, come pure un’or‑
mai improcrastinabile adeguamento della situazione italiana
a quella europea. Si apre nel contempo la strada per una rivi‑
sitazione dei diritti civili e di quelli sociali riconosciuti nel
quadro di un nuovo sistema di libertà. Il percorso che condu‑
ce all’Assemblea Costituente e alla “non scontata” scelta di
inserire la famiglia nel testo costituzionale aveva riportato
all’attenzione problematiche antiche come il divorzio è costel‑
lato proprio da tali provvedimenti che annunciano un rinno‑
vamento nel diritto di famiglia 35 , ma anche dibattiti su pro‑
blematiche antiche. Si pensi, ad esempio, al divorzio36 , ancora
una volta ostacolato, per ragioni di natura diversa, dalle cul‑
ture allora dominanti (quella cattolica, quella liberale e, infi‑
ne, quella marxista) dal cui felice compromesso nacque la
stessa Costituzione. Un’esemplificazione di questo bilancia‑
mento tra culture diverse si rinviene, come correttamente
osservato37, nell’art. 2 del testo costituzionale, in base al qua‑
le ‘la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si
svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale’. Sarà,
questo, uno dei cardini della giurisprudenza degli anni Ot‑
tanta sulla famiglia di fatto. Il valore della persona umana,
contenuto nella clausola generale di tutela di cui all’art. 2
Cost., rappresenterà, peraltro, un elemento fondante del di‑
ritto di famiglia in generale. L’art. 3 Cost., invece – nella
molteplicità dei contenuti che il termine “eguaglianza” è ca‑
pace di assumere nel linguaggio giuridico non meno che in
quello filosofico, e come tale causa della varietà dei sensi che
esso esprime nello stesso diritto positivo – servirà, come ve‑
dremo, di base al legislatore e alla giurisprudenza sia per le
pari opportunità sia per il sostegno all’infanzia e all’adole‑
scenza. Nei lavori dell’Assemblea Costituente, e dunque nel
testo della Costituzione, la questione dei diritti della famiglia
s’intreccerà sempre con quella dei diritti dell’uomo. All’art. 7
Cost. 38, infine, è affidato il difficile compito di trattare i rap‑
porti fra Stato e Chiesa, sanzionando l’indipendenza di
quest’ultima e collocando i già analizzati Patti Lateranensi
del 1929 quale strumento diretto a regolare tali rapporti.
Insomma, la valorizzazione della tutela della persona
umana e il principio di solidarietà costituzionale permeeran‑
no di per sé i rapporti familiari”, rappresentando il “seme”
dal quale “germoglierà” successivamente la riforma del dirit‑
to di famiglia del 1975.
9. Il “cuore” della disciplina della famiglia nel testo costituzionale
L’attenzione del Costituente ai problemi della famiglia
emergente, come sottolineato, dall’art. 2 Cost. trova specifi‑
cazione concreta negli artt. 29, 30 e 31, attraverso i quali
viene definito il modello di famiglia39 che, costituendo ogget‑
to della scelta costituzionale, acquisisce il ruolo di inderoga‑
bile di definizione precettiva, vincolante per il Legislatore
ordinario. L’art. 29 Cost., infatti,recita: “La Repubblica rico‑
nosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul
matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza mora‑
le e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a
garanzia dell’unità familiare”. È evidente come il primo com‑
ma di tale disposizione sarà, da un lato, il fondamento di gran
parte della legislazione a favore della famiglia, dall’altra uno
dei punti di forza delle argomentazioni contrarie al ricono‑
scimento della famiglia di fatto. Il secondo comma, invece,
costituirà la base di tutta la legislazione a favore della parità
dei coniugi in merito ai loro diritti e ai loro doveri, sia reci‑
proci sia nei confronti della prole.L’istituzione familiare, in‑
fatti, viene riconosciuta come “società naturale” fondata sul
“matrimonio”, a sua volta basato sull’eguaglianza dei coniu‑
gi. La famiglia, quindi, è presa in considerazione nella sua
natura di formazione sociale (società), diversa, data il rilievo
che assume in relazione al “divenire” della persona, oltre che
della sua rilevanza sociale, da altre formazioni sociali suppor‑
tate solo da una generalissima, seppur fondamentale, garanzia
posta dall’art. 2 Cost.; ma diversa anche da quelle altre for‑
mazioni sociali oggetto di disciplina tipizzata, in quanto
considerata “società naturale”.
Su questa espressione la dottrina si è soffermata a lungo,
con interpretazioni diverse e spesso contraddittorie 40 , fino a
concludere nel senso che il riferimento alla famiglia come
“società naturale” ha quale proprio e unico significato il ri‑
conoscimento che l’istituto familiare è, nella sua essenza,
realtà preesistente allo Stato, che la sua struttura non è so‑
cio‑culturale (pur essendo inevitabilmente soggetta agli in‑
flussi sociali e culturali di un determinato momento storico),
ma antropologica, nel senso che essa riflette un’esigenza
strutturale dell’essere dell’uomo. Da qui la conseguenza,
voluta dalla Costituzione con quel riferimento, della irrefor‑
35 “Non si trattava di una scelta scontata, anzi essa andava contro tutta la nostra
tradizione costituzionale legislativa. Lo Statuto Albertino (1848) che per oltre
un secolo aveva rappresentato la Costituzione del Regno d’Italia, aveva sempre
ignorato la famiglia”. Così Cavana, op. cit., p. 902.
36 Su famiglia e divorzio all’Assemblea Costituente cfr. Galoppini, op. cit.,
pp. 658‑659.
37 Così Giacobbe, Il modello costituzionale della famiglia nell’ordinamento ita‑
liano, cit., p. 483.
38 Sul tema specifico del rapporto tra Stato e Chiesa cfr. Musselli, Chiesa e
Stato all’assemblea costituente: l’art. 7 della Costituzione italiana, in Il Politico,
1988, n. 1, pp. 69‑97.
39 Sul tema specifico cfr. Cavana, op. cit., pp. 902‑921; Giacobbe, Il modello
costituzionale della famiglia nell’ordinamento italiano, cit., pp. 481‑502.
40 Soprattutto i giuristi legati a una concezione positivistica o storicistica del di‑
ritto hanno cercato di esorcizzare – o, quantomeno, di attenuare – la valenza
giusnaturalistica della norma, avanzando ipotesi interpretative tendenti a ren‑
dere sostanzialmente inutile e inoperante l’aggettivo naturale”
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
mabilità delle basi naturali dell’istituto – come tali eguali
sempre e ovunque – da parte delle leggi dello Stato. Per la
Costituzione, infine, non c’è famiglia senza matrimonio.
Nella misura in cui questa formazione sociale è produttiva di
fitte trame di relazioni interpersonali, dalle quali derivano
precisi diritti e doveri di fondamentale rilievo per il divenire
della persona e per il bene della società, si richiede un atto
formale, solenne, per la sua costituzione, col quale coloro che
intendono costituire una nuova famiglia si assumono non
soltanto reciprocamente ma davanti alla società tali diritti e,
soprattutto, tali doveri. Al comma, inoltre, pone il principio
della parità non soltanto morale, ma anche giuridica dei co‑
niugi , innovando rispetto all’intera tradizione giuridica,
fondata sul concetto del primato dell’uomo e incardinata
negli istituti della potestà maritale e della patria potestà. Si
pongono così le premesse per una rivoluzione delle norme
riguardanti il governo della famiglia, nella misura in cui si
abbandona quella plurisecolare concezione modellata sulle
monarchie assolute che si esprimeva, anche sul piano norma‑
tivo, nell’affermazione di essere il marito‑padre il capo della
famiglia. Ora, invece, si dà attuazione ad un’idea della fami‑
glia che – volendo continuare sulle analogie – potrebbe defi‑
nirsi, come attentamente osservato, “democratica”, postulan‑
te cioè un governo collegiale della famiglia, in forza del
quale le scelte riguardanti la vita familiare e i figli sono frut‑
to di una convergenza d’intenti e di volontà da parte di ma‑
rito e moglie.
Questa scelta profondamente innovativa è da collegarsi
immediatamente al generale principio di eguaglianza, senza
distinzione di sesso, sancito da quell’art. 3 della Costituzione
che rappresenta, come abbiamo visto, uno dei principi supre‑
mi e inderogabili della stessa, ma può anche leggersi, come
sottolineato, come uno sviluppo ulteriore di un altro principio
costituzionale qualificabile come supremo: il principio demo‑
cratico 41. Solo se si rapporta, infatti, la disposizione sull’egua‑
glianza dei coniugi al riconoscimento dei diritti fondamenta‑
li e all’affermazione della famiglia come società naturale, si
riesce a cogliere la ragione profonda e il senso della disposi‑
zione stessa. Difatti la parità nella condizione giuridica dei
coniugi è nient’altro che il riconoscimento della struttura
propria, sul piano naturale, del coniugio, cioè di quella rela‑
zione fra due soggetti che reciprocamente si riconoscono
nella propria dignità di persona. Altrettanto innovative le
disposizioni che, nell’art. 30 della Cost., sono poste in materia
di filiazione. Sul presupposto che la famiglia, società natura‑
le, è il luogo naturalmente atto alla procreazione ed educazio‑
ne dei figli, l’articolo in questione pone due principi fonda‑
mentali: che il mantenimento, l’allevamento, l’educazione dei
figli costituiscono compito proprio della famiglia, per cui, in
ragione del principio di sussidiarietà, lo Stato può interveni‑
re sostituendosi a essa solo nei casi accertati di incapacità
della famiglia allo svolgimento delle sue funzioni; che il do‑
vere‑diritto dei genitori in merito esprime una funzione volta
a garantire il “divenire” della personalità dei figli, nell’inte‑
41 Nel senso che nella Costituzione Repubblicana esso spira ben oltre i tradizio‑
nali confini delle istituzioni politiche (democrazia rappresentativa, democrazia
diretta), per svolgersi fin nell’interno del corpo sociale (si pensi alla democra‑
tizzazione, nel loro interno e nel loro agire, che gli artt. 39 e 49 Cost. richiedo‑
no a sindacati e partiti).
2 0 1 3
29
resse primario e preminente di costoro, non in quello dei
genitori né, addirittura dello Stato. Si coglie qui chiaramente
come la Costituzione venga a distinguersi tanto dalle idee
dominanti nell’età liberale che piegavano l’educazione all’in‑
teresse del padre, quanto da quelle dell’età del fascismo, che
piegavano l’educazione agli interessi dello Stato.
La Costituzione d’altra parte, sempre nell’art. 30, miglio‑
ra notevolmente la condizione dei figli nati fuori dal matri‑
monio, in ragione del principio di eguaglianza, che fa divieto
di distinzioni basate sulle condizioni personali, essa assicura
ai figli naturali una tutela giuridica pari a quella dei figli le‑
gittimi, con l’unico limite della tutela dei membri della fami‑
glia legittima. Sono inoltre ampliate notevolmente le possibi‑
lità di accertamento della paternità, ponendo di conseguenza
il principio che, in linea generale, nessuno possa sottrarsi alle
gravi responsabilità che si è assunte mettendo al mondo una
nuova vita: si tratta, anche qui, di una incisiva innovazione
rispetto al passato, la quale fonda il diritto di ciascuno a co‑
noscere le proprie origini e, quindi il diritto alla propria
identità”.
Il sostegno alla famiglia viene approfondito, poi, all’art. 31
Cost., laddove si statuisce che: “la Repubblica agevola con
misure economiche e altre provvidenze la formazione della
famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare
riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’in‑
fanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale
scopo.
Una norma tipicamente programmatica – nella quale, cioè,
il Costituente ha conferito allo Stato, nelle sue diverse artico‑
lazioni, il compito di perseguire costantemente, nel tempo,
determinati obiettivi – che pone le basi per una politica della
famiglia. Si tratta di una disposizione che raccoglie e sviluppa
la linea di politica sociale affermatasi soprattutto negli anni
trenta, sia pure con finalità naturalmente diverse, in quanto
riconducibili a quel principio di sussidiarietà che, come si è
visto, ispira le disposizioni costituzionali sulle formazioni
sociali in genere e segnatamente, sulla famiglia”.
All’art. 37 Cost., infine, si stabilisce che “la donna lavo‑
ratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retri‑
buzioni che spettano al lavoratore”, riconoscendo, però, anche
quella che si usa definire la “specificità” della figura femmi‑
nile: “le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimen‑
to della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla
madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. In
definitiva, la Costituzione ha delineato un istituto familiare
fondato sull’autonomia e sulla libertà, nella riscoperta di
valori giusnaturalistici (la famiglia come “società naturale
fondata sul matrimonio”) che appaiono un’estensione di quel‑
li relativi all’ “uomo” in quanto tale espressi nell’art. 2 della
Costituzione. Una svolta, per molti aspetti radicale, nell’espe‑
rienza normativa. Anche ad una lettura superficiale degli
artt. 29‑31Cost. riguardanti il matrimonio e la famiglia, in‑
fatti, è dato cogliere immediatamente, rispetto al codice del
1942, un salto qualitativo notevole, sia dal punto di vista dei
modelli ideali sia da quello dei contenuti normativi. Ed è
sorprendente rilevare come, nonostante i pochissimi anni che
separavano la codificazione dal processo costituente, si fosse
prodotto in materia un mutamento qualitativo di tanta evi‑
denza. Mentre i pregressi interventi del Legislatore italiano,
dal 1865 al 1942, erano stati fortemente condizionati dalle
civile
Gazzetta
30
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
mutevoli fondamenta dell’ideologia e da una concezione
positivistica del diritto, la Costituzione della Repubblica, con
il suo forte impianto giusnaturalistico e con lo sguardo sul
futuro, venne a porre, anche per la materia familiare, basi42
stabili alla disciplina dell’istituto, aderenti alla sua immute‑
vole realtà naturale e cristallizzate nelle disposizioni costitu‑
zionali analizzate: logici sviluppi dei principi supremi posti
dagli artt. 2 e 3 Cost.43 e “cuore vero” della disciplina della
famiglia.
10. Conclusioni
Dall’ analisi fin qui delineata si evincono in modo suffi‑
cientemente chiaro alcuni tratti fondamentali dell’evoluzione
della famiglia italiana. I caratteri dei più recenti sviluppi
della normativa su matrimonio e famiglia sono invece da
cogliere nella disciplina del divorzio e nella grande riforma
del diritto di famiglia, la quale venne a modificare profon‑
damente le disposizioni del codice civile, nonché nel comples‑
so delle leggi speciali, più o meno attinenti alla materia, che
si svilupparono soprattutto negli anni Settanta44, di seguito
attentamente analizzate. Accanto a questi interventi legisla‑
tivi sono poi da ricordare quelli, assai numerosi, relativi alla
promozione della donna – con particolare riguardo alla sua
condizione nel mondo del lavoro – ordinariamente ispirati,
insieme al riconoscimento della parità femminile nel lavoro,
alla compatibilità con le funzioni familiari, alla legge sull’in‑
terruzione volontaria della gravidanza45. Un rinnovamento
legislativo 46 anticipato, da evoluzioni della giurisprudenza
nel tentativo di armonizzare con il dettato costituzionale
norme ereditate dal passato, e non più compatibili con i
principi della Carta fondamentale 47. Dal lungo divenire della
legislazione italiana su matrimonio e famiglia si desume
chiaramente, pertanto, come i successivi interventi del Legi‑
slatore non abbiano risposto né alle regole di un’evoluzione
graduale né a quelle di una rivoluzione, bensì, come è stato
osservato, a quelle di un moto ellittico che, poco alla volta,
riconduce alle posizioni iniziali. Infatti, a ben guardare, la
storia del diritto di famiglia presenta, quanto a modelli sot‑
tesi alle diverse soluzioni normative, “corsi e ricorsi”. Già il
legislatore dell’età napoleonica era stato costretto ad inter‑
venire per restringere l’applicazione, nel loro assoluto rigore,
42 Il riconoscimento di diritti inviolabili dell’uomo; la centralità della persona
umana titolare di tali diritti; i doveri inderogabili di solidarietà; la pari dignità
sociale e l’eguaglianza davanti alla legge, senza distinzione – fra l’altro – di
sesso.
43 Riassumibili nel principio personalista, nel principio pluralista e nel principio
di eguaglianza.
44 Si pensi alla legge sull’abolizione della menzione nei certificati anagrafici della
nascita illegittima (l. n. 1064 del 31 ottobre 1955), a quella introduttiva del
divorzio (l. n. 898 del 1 dicembre 1970); a quella che provvide ad abbassare
dai 21 ai 18 anni la maggiore età (l. n. 38 dell’8 marzo 1975) etc.
45 Basti qui ricordare la l. n. 7 del 9 gennaio 1963, che vieta il licenziamento
della lavoratrice a causa del matrimonio, la l. n. 66 del 9 febbraio 1963, che
elimina ogni divieto di accesso a cariche, professioni e uffici pubblici, la l.
n. 1024 del 30 dicembre 1971 per le lavoratrici madri.
46 Intervenuto soprattutto negli anni Settanta, che ha progressivamente investito
l’istituto familiare e non può, d’altra parte, essere giudicato appieno restringen‑
done la rilevanza al solo diritto privato di famiglia, giacché, come è stato giu‑
stamente osservato, deve essere valutato nel contesto dei settori del diritto
pubblico dove sono organizzate le garanzie pubbliche della famiglia.
47 In particolare, la Corte Costituzionale – con la sua opera di cassazione delle
norme ritenute illegittime – è divenuta la “levatrice saggia” del generale rinno‑
vamento della disciplina privatistica e pubblicistica della famiglia.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
dei principi individualistici di derivazione illuministica. A
una concezione individualistica, rispondeva invece la codi‑
ficazione del 1865. Nell’età del fascismo, poi, l’individuo si
era ancora una volta piegato a interessi superiori, con eviden‑
te attrazione del diritto di famiglia nell’orbita del pubblico.
L’esperienza repubblicana, infine, ha ricondotto a un prima‑
to dell’individuo tanto sul gruppo familiare quanto sugli
interessi generali, con una nuova attrazione del diritto di
famiglia nel privato. Due modelli, dunque, si sono alternati
nel tempo, anche se non di rado, di epoca in epoca. Al pri‑
mato dell’uno si è affiancata una certa convivenza con l’altro.
In questo quadro la Costituzione repubblicana ha rappresen‑
tato un’eccezione. Essa si è posta al di fuori del moto rivolu‑
zionario fra pubblico e privato, e viceversa: con il suo im‑
pianto giusnaturalistico, è uscita dalla contrapposizione
pubblico‑privato per attingere alla realtà naturale dell’istitu‑
zione familiare, nella quale i diversi interessi individuali e
collettivi sono mediati e armonizzati4849.
In questo lungo percorso storico caratterizzato da “corsi
e ricorsi” è stato possibile, però, individuare50 anche della
“costanti” fisse nel tempo. Si pensi alla indiscutibile presenza
di diverse “famiglie” italiane nel corso della storia anche re‑
cente; alla carenza di rapida e tempestiva analisi delle trasfor‑
mazioni socio‑economiche e culturali; al forte condiziona‑
mento di una totale assenza di una politica efficace; ad una
eccessiva ideologizzazione degli interventi; alla lunga soprav‑
vivenza di norme anacronistiche, discriminatorie e superate
(come quelle nei confronti della donna); all’apparente prote‑
zione delle ideologie che, pur nelle loro diversità, permette‑
vano a fascisti, cattolici e comunisti di sfuggire al duro con‑
fronto con il moderno, salvo poi farli ritrovare in un mondo
molto diverso da quello “sognato e descritto”; e infine al
continuo ripiegamento dei cittadini su se stessi e su una ri‑
sposta “privata”, in una monotona e infinita ricerca di vitto,
abitazione, sicurezza, senza una reale né incisiva capacità di
guida delle grandi centrali educative, scuola, Chiesa o partiti
che fossero.
Ciò che soprattutto si perdeva di vista era che i mutamen‑
ti sociali connessi allo sviluppo economico potevano e dove‑
vano essere governati e che i rapporti tra lo Stato e la Socie‑
tà da un lato, lo Stato e il Mercato dall’altro, in un Paese
maturo e divenuto complesso, richiedevano di venire conti‑
nuamente ridefiniti e comunque non andavano abbandonati
a se stessi. Le spinte conflittuali che nascono da questo con‑
testo sono molto forti e pervasive . È in questo quadro di
mobilitazione sociale e civile che verrà svolgendosi il con‑
fronto referendario sul divorzio e la relativa disciplina. In
tema di diritti civili si avranno, inoltre, altre successive cam‑
pagne, come quella che porterà all’introduzione dell’aborto
e dell’obiezione di coscienza, tutte volte a innovare profon‑
damente il costume e la vita sociale 51. In questa cornice di
48 D’altra parte, i due modelli di matrimonio e di famiglia si sono allontanati nel
tempo, più o meno accentuatamente, dall’archetipo sotteso alla disciplina ca‑
nonistica, cioè dal modello da cui, storicamente, la disciplina civilistica di ma‑
trimonio e famiglia ha tratto origine, e dal quale si è sviluppata per processo di
.
secolarizzazione
49 Così D’Agostino, Dalla Torre, op. cit., pp.248‑250.
50 Così Vecchio, op. cit., p. 178‑179.
51 Sul punto Cfr. Blangiardo, op. cit., pp. 200 ss.
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m a r z o • a p r i l e
mutamenti sociali anche la Chiesa del Concilio Vaticano II
mostrò una certa disponibilità all’ “ascolto” di quel bisogno
di cambiamento che proveniva dalla società alla cui emersio‑
ne contribuì senza dubbio la Costituzione, che rappresenta
2 0 1 3
31
però anche il limite cronologico della nostra ricostruzione,
al di là del quale vi sono altre problematiche, che riguardano
il nostro “presente”, ma sono altresì “figlie” della “storia”:
quella dell’Italia unita.
civile
Gazzetta
32
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
c i v i l e
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●
Corte di Cassazione, sez. civ. I
sentenza 23 dicembre 2012, n. 23713
Pres. Carnevale; Est. Dogliotti
Sono leciti gli accordi
prematrimoniali?
Famiglia e Matrimonio – Nubendi – Negozio giuridico per eventuale fallimento – Qualificazione – Contratto atipico con condizione sospensiva lecita e non accordo prematrimoniale – Autonomia
negoziale ex art. 1322 c.c. – Liceità
È valido l’impegno negoziale assunto dai nubendi in
caso di “fallimento” del matrimonio, in quanto qualificabile non come accordo prematrimoniale in vista del divorzio,
ma come contratto atipico con condizione sospensiva lecita,
espressione dell’autonomia negoziale dei coniugi diretto a
realizzare interessi meritevoli di tutela, ai sensi dell’art. 1322,
secondo comma c.c.
Corte di Cassazione, sez. civ. I, sent.23 dicembre 2012,
n. 23713
Pres. Carnevale; Est. Dogliotti
Nota a Corte di Cassazione, sez. civ. I,
23 dicembre 2012, n. 23713
● Giusy Cante
dottoressa in Giurisprudenza, praticante Notaio
e Carmen Pennacchio
docente presso Università degli Studi di Napoli Federico II
(Omissis)
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente sostiene che la scrittura
privata in questione trarrebbe il proprio titolo genetico dal
matrimonio e integrerebbe violazione dell’art. 160 c.c., ove si
precisa che i coniugi non possono derogare ai doveri e diritti
nascenti dal matrimonio.
Con il secondo lamenta la ricorrente insufficiente e con‑
traddittoria motivazione della sentenza impugnata sull’inter‑
pretazione della predetta scrittura.
La scrittura privata, sottoscritta dai nubendi il giorno prima
della celebrazione del matrimonio, prevede che, in caso di suo
fallimento (separazione o divorzio), la P. cederà al marito un
immobile di sua proprietà, quale indennizzo delle spese soste‑
nute dallo stesso per la ristrutturazione di altro immobile, pure
di sua proprietà, da adibirsi a casa coniugale; a saldo, comun‑
que, l’O. trasferirà alla moglie un titolo *** di lire ***.
È evidente che la ricorrente inquadra la predetta scrittura
tra gli accordi prematrimoniali in vista del divorzio, molto
frequenti in altri Stati, segnatamente quelli di cultura anglo‑
sassone, dove essi svolgono una proficua funzione di deflazio‑
ne delle controversie familiari e divorzili.
Come è noto, in Italia, la giurisprudenza è orientata a ri‑
tenere tali accordi, assunti prima del matrimonio o magari in
sede di separazione consensuale, e in vista del futuro divorzio,
nulli per illiceità della causa, perché in contrasto con i princi‑
pi di indisponibilità degli status e dello stesso assegno di di‑
vorzio (per tutte, Cass. n. 6857 del 1992). Tale orientamento
è criticato da parte della dottrina, in quanto trascurerebbe di
considerare adeguatamente non solo i principi del sistema
normativo, ormai orientato a riconoscere sempre più ampi
spazi di autonomia ai coniugi nel determinare i propri rappor‑
ti economici, anche successivi alla crisi coniugale. È assai
singolare che invece siano stati ritenuti validi accordi in vista
di una dichiarazione di nullità del matrimonio, perché sareb‑
bero correlati ad un procedimento dalle forti connotazioni
inquisitorie, volto ad accertare l’esistenza o meno di una causa
di invalidità del matrimonio, fuori da ogni potere negoziale di
disposizione degli status: tra le altre, Cass. n. 248 del 1993).
Giurisprudenza più recente di questa Corte ha invece
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
sostenuto che tali accordi non sarebbero di per sé contrari
all’ordine pubblico; più specificamente il principio dell’indi‑
sponibilità preventiva dell’assegno di divorzio dovrebbe
rinvenirsi nella tutela del coniuge economicamente più debo‑
le, e l’azione di nullità (relativa) sarebbe proponibile soltanto
da questo (al riguardo, tra le altre, Cass. n. 8109 del 2000;
n. 2492 del 2001; n. 5302/2006).
Va peraltro precisato che la sentenza impugnata, sorretta
da motivazione ampia, articolata e non illogica, ha fornito
un preciso inquadramento e non illogica, ha fornito un pre‑
ciso inquadramento della scrittura privata in esame. Si trat‑
ta, all’evidenza, di valutazione di merito, in suscettibile di
controllo in questa sede, ove immune da errori di diritto.
L’impegno negoziale della P., una sorta di datio in solu‑
tum, viene collegato alle spese affrontate dall’O. per la siste‑
mazione di altro immobile adibito a casa coniugale, e il fal‑
limento del matrimonio non viene considerato come causa
genetica dell’accordo, ma è degradato a mero “evento condi‑
zionale”. Prosegue la Corte di merito precisando che, ove
causa genetica fosse il matrimonio (e il suo fallimento), l’im‑
pegno predetto, una sorta di sanzione dissuasiva volta a
condizionare la libertà decisionale degli sposi anche in ordi‑
ne all’assunzione di iniziative tendenti allo scioglimento del
vincolo coniugale, sarebbe sicuramente nullo. Ma indice di
tale ipotesi potrebbe essere soltanto una notevole spropor‑
zione delle prestazioni, al contrario non provata.
L’argomentazione è censurata dalla ricorrente, ma, al
contrario, la Corte territoriale ha fatto buon uso delle regole
di ermeneutica contrattuale, in particolare con riferimento
all’art. 1353 c.c., per cui le clausole del contratto si interpre‑
tano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il
senso che risulta dal complesso dell’atto.
Si tratterebbe in definitiva – si può aggiungere – di un
accordo tra le parti, libera espressione della loro autonomia
negoziale, estraneo peraltro alla categoria degli accordi pre‑
matrimoniali (ovvero effettuati in sede di separazione con‑
sensuale) in vista del divorzio, che intendono regolare l’inte‑
ro assetto economico tra i coniugi o un profilo rilevante
(come la corresponsione di assegno), con possibili arricchi‑
menti e impoverimenti. Nella specie, dunque un accordo
(rectius: un vero e proprio contratto) caratterizzato da pre‑
stazioni e controprestazioni tra loro proporzionali, secondo
l’inquadramento effettuato dal giudice a quo.
Come si è detto, una motivazione adeguata e non illogica,
e immune da errori di diritto.
Come è noto, ai sensi dell’art. 1197 c.c. il debitore non
può liberarsi eseguendo una prestazione diversa da quella
dovuta, salvo che il creditore vi consenta; l’obbligazione si
estingue quando la diversa prestazione è eseguita. Nella
specie, il trasferimento di immobile può sicuramente costitu‑
ire adempimento, con l’accordo del creditore, rispetto all’ob‑
bligo di restituzione delle somme spese per la sistemazione
di altro immobile, adibito a casa coniugale.
La condizione, nella specie sospensiva (il “fallimento” del
matrimonio) non può essere meramente potestativa ai sensi
dell’art. 1355 c.c., e cioè dipendere dalla mera volontà di uno
dei contraenti (ciò che, nella specie, non potrebbe verificarsi,
considerando, evidentemente, le parti tale “fallimento”, come
fattore oggettivo, indipendentemente da eventuali responsa‑
bilità addebitabili all’uno o all’altro coniuge).
2 0 1 3
33
La condizione neppure può porsi in contrasto con norme
imperative, l’ordine pubblico, il buon costume (in tal caso
renderebbe nullo il contrasto, ai sensi dell’art. 1354 c.c.).
Dunque nulla sarebbe una condizione contraria all’art. 160
c.c., sopra indicato. E tuttavia, nella specie, essa appare pie‑
namente conforme a tale disposizione, ove si consideri che in
costanza di matrimonio (e prima della crisi familiare) opera
tra i coniugi il dovere reciproco di contribuzione di cui
all’art. 143 c.c.; il linguaggio comune spiega il significato ad
esso attribuito dal legislatore, è la parte che ciascuno conferi‑
sce, con cui si concorre, si coopera ad una spesa, al raggiun‑
gimento di un fine. Con la contribuzione, si realizza dunque
il soddisfacimento reciproco dei bisogni materiali e spirituali
di ciascun coniuge, con i mezzi derivati dalle sostanze e dalle
capacità di ognuno di essi.
Può sicuramente ipotizzarsi che, nell’ambito di una stretta
solidarietà tra i coniugi, i rapporti di dare ed avere patrimo‑
niale subiscano, sul loro accordo, una sorta di quiescenza, una
“sospensione” appunto, che cesserà con il “fallimento” del
matrimonio, o con il venir meno, provvisoriamente con la
separazione, e definitivamente con il divorzio, dei doveri o
diritti coniugali.
Condizione lecita, dunque, nella specie, di un contratto
atipico, espressione dell’autonomia negoziale dei coniugi, si‑
curamente diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela, ai
sensi dell’art. 1322, secondo comma c.c. Vanno pertanto ri‑
gettati i due motivi, in quanto infondati e, conclusivamente, il
ricorso stesso.
P.Q.M.
(Omissis)
• • • Nota a sentenza
1. La fattispecie.
Il caso muove da una negoziazione stipulata da una cop‑
pia, prima della celebrazione del matrimonio, mediante la
quale i contraenti si impegnano reciprocamente, ossia la fu‑
tura moglie (ricorrente), a séguito della scrittura privata, in
caso di separazione o divorzio, avrebbe ceduto un di lei im‑
mobile al marito in pectore, come indennizzo delle spese so‑
stenute dallo stesso per la ristrutturazione di altro immobile,
pure di sua proprietà, altresì, quest’ultimo si era impegnato a
trasferire alla moglie un titolo BOT di un dato importo.
L’esposizione in questi termini potrebbe apparire promet‑
tere scenari non contemplati dall’attuale materia codicistica1,
1 In materia, la giurisprudenza nazionale (ad esempio, Cass. 11 giugno 1981,
n.3777 in Foro italiano, 1981, 1, 184; in Giurisprudenza italiana 1981, 1, 1,
1553, con nota di Trabucchi) considera nulli gli accordi cosiddetti prematri‑
moniali, esperienza giuridica – invece – contemplata e consolidata in visioni
ordinamentali diverse dalle nostre, per illiceità della causa ritenuta contraria ai
principi di indisponibilità degli status e dell’assegno divorzile. A ben vedere, si
tratta in realtà di un orientamento molto criticato in dottrina (Oberto, Sulla
natura disponibile degli assegni di separazione e divorzio, in Famiglia e diritto,
5, 2003, 496 ss.) e smentito dalla giurisprudenza più recente (Cass., 3 maggio
1984 n. 2682, in Rivista Diritto Internazionale Privato, 1985, 579), della Corte
“che ha invece sostenuto che tali accordi non sarebbero di per sé contrari
all’ordine pubblico: più specificamente il principio dell’indisponibilità preven‑
tiva dell’assegno di divorzio dovrebbe rinvenirsi nella tutela del coniuge eco‑
civile
Gazzetta
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
per cui è meglio scandire temporalmente le fasi evolutive del
rapporto litigioso e ripercorrere le tappe del ragionamento
giuridico che rassegna il binario percorso dagli ermellini.
Il matrimonio successivamente attraversa una fase critica
e, nel relativo contenzioso, il giudicante di primo grado, nel
dichiarare la cessazione degli effetti civili del matrimonio, af‑
fida alla madre i figli minori, ponendo a carico del padre una
partecipazione contributiva periodica per il loro mantenimen‑
to, rigettando, al contempo, la domanda riconvenzionale dell’ex
marito, volta all’ottenimento di una sentenza costitutiva (ex
art. 2932 c.c.), per la esecuzione in forma specifica dell’impegno
assunto con il sopra menzionato accordo.
L’impegno successivo in Corte d’Appello, invece, a parziale
riforma della sentenza di primo grado, vede riconosciuto valido
ed efficace, nei confronti del marito, l’impegno negoziale as‑
sunto dalla moglie nella negoziazione privata, omettendo pe‑
raltro di pronunciarsi ex art. 2932 c.c., ed invitando la parte
interessata ad attivarsi, al riguardo, in separata sede.
Contro questa statuizione propone ricorso per Cassazione
la ex moglie, ma la Corte di legittimità, come visto, ritiene
valido l’impegno negoziale assunto dai nubendi prima del
matrimonio qualificandolo come contratto atipico con con‑
dizione sospensiva lecita.
2. Definizione dei rapporti fra coniugi: spinte emozionali o ragionate certezze?
La sentenza in commento2 – innovativa tanto da sembrare
in discontinuità con il passato – offre il destro ad una discus‑
sione circa uno dei temi più spinosi del diritto di famiglia,
nomicamente più debole, e l’azione di nullità (relativa) sarebbe proponibile
soltanto da questo (al riguardo, tra le altre, Cass. n. 8109 del 2000; n. 2492 del
2001; n. 5302 del 2006)”. Solo una volta, la Corte di Cassazione si è pronunciò
positivamente riguardo i patti prematrimoniali, ma il caso era relativo a due
cittadini americani abitanti in Italia, Cass. Civ., 3 maggio 1984, n. 2682:
«L’accordo, rivolto a regolamentare, in previsione di futuro divorzio, i rap‑
porti patrimoniali fra coniugi, che sia stato stipulato fra cittadini stranieri …
sposati all’estero e residenti in Italia, e che risulti valido secondo la legge nazi‑
onale dei medesimi … è operante in Italia, senza necessità di omologazione o
recepimento delle sue clausole in un provvedimento giurisdizionale, tenuto
conto che l’ordine pubblico, posto dall’art. 31 delle citate disposizioni come
limite all’efficacia delle convenzioni fra stranieri, riguarda l’ordine pubblico
cosiddetto internazionale, e che in tale nozione non può essere incluso il prin‑
cipio dell’ordinamento italiano, circa l’invalidità di un accordo di tipo preven‑
tivo fra i coniugi sui rapporti patrimoniali successivi al divorzio, il quale attiene
all’ordine pubblico interno e trova conseguente applicazione solo per il matri‑
monio celebrato secondo l’ordinamento italiano e fra cittadini italiani».
2 Essa ha fatto séguito ad un’altra recente sentenza, resa dalla VII sezione del
Tribunale di Torino in data 20 aprile 2012, nella quale viene stabilito che
“L’accordo concluso sui profili patrimoniali tra i coniugi in sede di separazione
legale ed in vista del divorzio non contrasta né con l’ordine pubblico, né con
l’art. 160 c.c.”. (Nella specie le parti, pochi mesi prima della pronuncia di
separazione «a conclusioni congiunte», avevano convenuto che l’erogazione
dell’importo a titolo di assegno di mantenimento a carico del marito sarebbe
venuta a cessare all’atto dell’inizio della causa per la pronunzia della cessazione
degli effetti civili del matrimonio, con impegno della moglie a «nulla pretender[e]
[dal marito], né a titolo di una tantum né di mantenimento». In sede di udi‑
enza presidenziale di divorzio la suddetta intesa è stata ritenuta valida e vincol‑
ante, con conseguente rigetto della domanda della moglie volta ad ottenere un
assegno). Diversa opinione giurisprudenziale la ritroviamo in Cass., 11 giugno
1981, n. 3777; Cass., 5 dicembre 1981, n. 6461; Cass., 11 dicembre 1990,
n. 11788; Cass., 2 luglio 1990, n. 6773; Cass., 1 marzo 1991, n. 2180; Cass.,
6 dicembre 1991, n. 13128; Cass., 4 giugno 1992, n. 6857; Cass., 11 agosto
1992, n. 9494; Cass., 28 ottobre 1994, n. 8912; Cass., 7 settembre 1995,
n. 9416; Cass., 20 dicembre 1995, n. 13017; Cass., 20 febbraio 1996, n. 1315;
Cass., 11 giugno 1997, n. 5244; Cass., 20 marzo 1998, n. 2955; Cass., 18
febbraio 2000, n. 1810; Cass., 9 maggio 2000, n. 5866; Cass., 12 febbraio
2003, n. 2076; Cass., 9 ottobre 2003, n. 15064; Cass., 25 gennaio 2012,
n. 1084; Trib. Varese, 29 marzo 2010.
c i v i l e
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riguardante la possibilità per i nubendi3 di definire, conven‑
zionalmente, i rapporti personali4 e patrimoniali5, scaturenti
dal negozio matrimoniale, in previsione della crisi coniugale6,
in omaggio ad un principio di comune buon senso, riassunto
dall’aforisma Prevenire è meglio che curare7.
È noto, infatti, come in una fase patologica, quale quel‑
la tendente allo scioglimento del vincolo matrimoniale8, ri‑
sulti difficile raggiungere accordi in merito alla sistemazio‑
ne degli assetti patrimoniali tra i coniugi 9, dato l’elevato
3 Badiali, sv. Coniugi (rapporti personali e patrimoniali tra coniugi) (diritto
internazionale privato processuale), in EG. Treccani, Roma, 1988, 8, 1 ss.,
secondo il quale la nuova convenzione tra i coniugi poteva modificare solo un
regime precedente di tipo convenzionale, ma non un regime legale, che sarebbe
stato quindi immutabile.
4 Pazzeschi, L’eguaglianza tra coniugi, in Studi Senesi, 1981, 214 ss.
5 Garofalo, I rapporti patrimoniali tra coniugi nel diritto internazionale
privato, Torino, 19972, 108, secondo il quale, in sostanza, il legislatore della
novella del 1975 ha eletto a regime legale quello della comunione regolata
dagli artt. 177 ss. c.c. perché lo riteneva rispettoso dell’assetto patrimoniale
tipico della famiglia media italiana, trasferendo sulle frange minoritarie l’onere
di un rifiuto o di una diversa regolamentazione. La scelta di una certa soluzione
di conflitto non è meccanicamente condizionata all’adozione di un certo regime
dei rapporti patrimoniali tra coniugi, bensí dunque, come sempre avviene,
dalla “qualificazione” dell’istituto che è frutto, a sua volta, del modo in cui la
singola disciplina sostanziale ha avuto origine e si è evoluta e, con riferimento
al problema dell’opponibilità, (159 s.). S. Patti, Regime patrimoniale della
famiglia e autonomia privata, in Familia, 2002, 285 ss.
6 Fino agli ultimi decenni del secolo scorso la dottrina italiana non offriva un
panorama sensibile allo studio dei contratti tra coniugi in vista di una possibile
crisi dell’unione. Studi e soluzioni giurisprudenziali circa le intese di carattere
preventivo apparivano essenzialmente dirette a disciplinare i consensi sul futuro
divorzio tra coniugi già separati (ad esempio, cfr., Gabrielli, Indisponibilità
preventiva degli effetti patrimoniali del divorzio: in difesa dell’orientamento
adottato dalla giurisprudenza, in Rivista di diritto civile, 1996, 1, 699 ss.; Sorrentino, Convenzioni preventive di divorzio, diritto agli alimenti e diritto al
mantenimento, Tribunale di Terni, 10 maggio 2005, in il Corriere del Merito,
8‑9, 2005, 910 ss., in particolare note 1 e 2; in altro senso, Brignone, Tardia,
Gratuità e accordi patrimoniali tra coniugi in vista del divorzio, in a cura di A.
Palazzo, S. Mazzarese, I contratti gratuiti, Milano, 2008, 557, in particolare
nota 81 ss.) profilo del quale si apprezzano alcune caratteristiche sue proprie.
Sul punto, una volta dimostrata la piena disponibilità delle attribuzioni patri‑
moniali postmatrimoniali (cfr., di recente, Romano, Sgroi, Gli accordi preven‑
tivi in vista della crisi coniugale. Come disciplinare i rapporti patrimoniali tra
le parti, in a cura di Oberto, Gli aspetti patrimoniali della famiglia. I rap‑
porti patrimoniali tra coniugi e conviventi nella fase fisiologica ed in quella
patologica, Padova, 2011, 25 ss.), va subito detto che il riconoscimento della
possibilità per i nubendi di accordarsi in vista di una presumibile crisi coniugale
trova riscontro, oltre che nell’assenza di ostacoli in seno alla legislazione vigente,
anche in alcune riflessioni di carattere storico, sociologico e comparatistico,
operate in dottrina e di cui rende notizia Oberto, I patti prematrimoniali nel
contesto della negozialità familiare, in a cura di Oberto, Gli aspetti di sepa‑
razione e divorzio nella famiglia, Milano, 2012, 1 ss., in particolare note 2 ss.
7 Esso può anche essere considerato come una generalizzazione moderna del
principio (di precauzione) ascrivibile ad Ippocrate Primum non nocere. In realtà
bisogna considerare che vi è differenza tra prevenzione (limitazione di rischi
oggettivi e provati) e precauzione (limitazione di rischi ipotetici o basati su in‑
dizi). Il principio di precauzione si applica cioè non a pericoli già identificati,
ma a pericoli potenziali, di cui non si ha ancora conoscenza certa.
8 Cfr., E. Al Mureden, Il divorzio di Paul McCartney ed Heather Mills. I diritti
del coniuge debole in una emblematica decisione inglese e nella prospettiva del
diritto italiano, in Famiglia e diritto, 2008, 843 ss.; inoltre, Oberto, Gli ccordi
preventivi sulla crisi coniugale, Relazione presentata al Convegno sul tema «La
crisi coniugale tra contratto e giudice», organizzato dal Comitato Regionale
Notarile Toscano in collaborazione con i Consigli Notarili della Toscana, a La
Biodola (Isola d’Elba), il 28 e 29 settembre 2007, in particolare nt. 7, con
l’indicazione di accordi famosi e storia dell’istituto= in Familia, 2008, 25 ss.
9 È bene, comunque, sottolineare che il matrimonio determina l’obbligo recip‑
roco, per i coniugi, di assistenza materiale. Questo dovere non cessa con la
separazione, ma si trasforma, per il coniuge economicamente più forte,
nell’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento eventualmente pre‑
visto dal giudice. Analogo regime è previsto durante il divorzio e dopo di esso.
Sotto il profilo economico, pertanto, il matrimonio non si dissolve automatica‑
mente con il divorzio, ma può continuare a determinare effetti, come se fosse
ancora “indissolubile”. L’insieme di tali effetti dà luogo al fenomeno della
solidarietà post coniugale, di cui sono importante espressione, ad esempio, la
pensione di reversibilità e l’indennità di fine rapporto. Cfr., de Filippis,
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
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35
grado di conflittualità che connota la crisi del rapporto
coniugale10.
Per comprendere la portata (forse innovativa?) della sen‑
tenza non si può prescindere dalla situazione delle due parti
del negozio e del ruolo da loro stessi rivestito nella fattispecie.
Ne mettiamo in evidenza i punti: nubendi e sottoscrizione
scrittura privata con impegni, ora per allora, reciproci (la
futura moglie avrebbe ceduto al prossimo marito un bene
immobile di sua proprietà, in caso di divorzio, quale inden‑
nizzo delle spese che egli stesso avrebbe affrontato per ri‑
strutturare la casa da adibire a residenza familiare, dal suo
canto il futuro marito avrebbe corrisposto una somma di
danaro).
La delicata e controversa questione giuridica prescinde,
per un attimo, dalla contingente soluzione ed attiene ad un
più algido ragionamento per genus e species11, volto, allora,
alla collocazione o meno di questa espressione contrattuale
nell’ampia categoria degli accordi prematrimoniali12 , impli‑
cando un risvolto positivo, teso alla valutazione della sua
ammissibilità; oppure, negativo, ad accellerarne la coloritura
causale, tanto da inserirlo nelle scelte categoriali ordinamen‑
tali, già operate dal legislatore.
Il nodo essenziale da sciogliere – in una indagine di questo
tipo, è rappresentato dalla definizione di un accordo prema‑
trimoniale, figura giuridica cara alle culture giuridiche anglo‑
sassoni13.
3. Uno sguardo al passato.
Il tema, come abbiamo già avuto sentore dalle prime
battute del nostro discorso, declina due aspetti di una proble‑
matica complessa e intrisa di umori passionali, quali sono
l’autonomia coniugale e la crisi della famiglia. Per poter, al
meglio, analizzare il nostro tema è necessario dare uno sguar‑
do alle fonti alle quali l’istituto si appella, per poi analizzarne
i risvolti e le possibili, o probabili, attuazioni in un ordina‑
mento come il nostro, nel quale, i patti prematrimoniali, non
sono esplicitamente contemplati, anche se rappresentano una
realtà negli ordinamenti stranieri14.
Alla base della differenza tra gli ordinamenti che non
sanzionano negativamente tali istituti e sistemi, e quelli, come
l’italiano, che li ignorano, vi è certamente la diversa conside‑
razione (ed ampiezza) riconosciuta all’autonomia privata nei
rispettivi contesti giuridici, nonché della concezione della
familia15 con conseguente possibilità di incisione sugli status
l’indennità di fine rapporto, in a cura di de Filippis, Lettieri, Chiarito,
Saddi, Manzo, Mencarini, Rauty, De la Ville sur Illon, La solidarietà
post‑coniugale, Pensione di reversibilità ed indennità di fine rapporto, Milano,
2012, 111 ss.
10 Con la Legge denominata Fortuna‑Baslini (n. 898/1970, disciplina dei casi di
scioglimento del matrimonio, con successive integrazioni, L. 74/1987) il legis‑
latore ha previsto che, qualora venga meno la comunione materiale (beni ed
intenti) e spirituale (elezione del coniuge a proprio compagno di vita e procre‑
azione), il tribunale possa, su richiesta di uno o di entrambi i coniugi, pronun‑
ciare lo scioglimento del matrimonio civile o la cessazione degli effetti civili del
matrimonio religioso. Cfr., Pellecchia, Separazione, divorzio, interdizione e
inabilitazione, Flussi processuali, Milano, 2008, 42 ss. Con la L. 6 marzo 1987
n. 74 intervenuta a rivedere l’istituto introdotto dal legislatore del ’70, sono
state apportate sensibili modifiche alla disciplina dello scioglimento del matri‑
monio, snellendolo in tema di procedimento, anche in armonia con l’ampliamento
delle cause di scioglimento, inserendo la previsione di un procedimento per
“direttissima” allorquando la domanda di divorzio sia inoltrata di comune
accordo dalle parti: in tal caso, la legge prevede il rito camerale e così le parti
compariranno innanzi al tribunale in camera di consiglio per la prima (e unica)
udienza.
11 La prima descrizione e utilizzazione del metodo diairetico (distinctio come
strumento conoscitivo di carattere generale) risaliva a Platone, che aveva affi‑
dato alla διαρεσις un ruolo essenziale al fine di realizzare una piena cono‑
scenza dello scibile umano. L’utilità del meccanismo della διαρεσις – in latino
divisio o distinctio – si reggeva sull’efficacia conoscitiva della suddivisione di
un concetto in due categorie distinte e opposte. L’antitesi si radica sulla indi‑
viduazione di una differenza, che rende incompatibile l’appartenenza contem‑
poranea degli elementi che compongono il genere ad entrambe le specie anti‑
nomiche. Si pensi, ad esempio, alla contrapposizione tra mortale ed immortale.
Cfr., Errera, Lineamenti di epistemologia giuridica medievale. Storia di una
rivoluzione scientifica, Torino, 2006, 5 ss., in particolare nntt.11 ss.
12 Non appare possibile, in questa sede, procedere ad una indicazione, seppure
per linee generali, del panorama storico/evolutivo che rappresenta la base dei
moderni istituti familiari, nel settore patrimoniale. Per gli approfondimenti e
per i richiami dottrinali, si rinvia agli scritti di Oberto, La promessa di matri‑
monio tra passato e presente, Padova, 1996, 67 ss., 107 ss., 250 ss.; I doni
prenuziali e la loro restituzione nella storia e nel diritto vigente, in Scuola di
Notariato A. Anselmi di Roma (cur.), La volontaria giurisdizione. Casi e
materiali. Contributi in onore di Daniele Migliori, Milano, 1997, 362 ss.; Gli
accordi sulle conseguenze patrimoniali della crisi coniugale e dello sciogli‑
mento del matrimonio nella prospettiva storica, nota a Cass., 20 marzo 1998,
n. 2955, in Foro italiano, 1999, I, c. 1306 ss.; Simulazioni e frodi nella crisi
coniugale (con qualche accenno storico ad altri ordinamenti europei), nota a
Cass., 5 marzo 2001, n. 3149, in Familia, 2001, 774 ss.; I precedenti storici del
principio di libertà contrattuale nelle convenzioni matrimoniali, in Diritto di
famiglia e delle persone, 32.2,, 2003, 535 ss.; Il regime di separazione dei beni
tra coniugi. Artt. 215‑219, Milano, 2005, 265 ss.; La comunione legale tra
coniugi, Milano, 2010, 3 ss., 225 ss., 408 ss., 518 ss., 651 ss., 711 ss., 929 ss.,
1393 ss. e 1605 ss.
13 Ricordiamo l’accordo tra Aristotele Onassis e Jacqueline Lee Bouvier Kennedy,
antesignani delle nozze personalizzate. L’avvocato André Meyer, incaricato
della stesura dei prenuptial agreement, svolse il suo lavoro dal 1967 al 1968,
in poche parole impiegò un anno per redigere le 22 pagine e le 170 clausole in
cui vennero stabiliti l’appannaggio annuale, la liquidazione in caso di rottura,
il testamento, le modalità del regime di non convivenza e persino la frequenza
degli incontri sessuali. Riportiamo alcune opinioni dottrinarie più recenti, Cfr.,
F. Cerri, Gli accordi prematrimoniali, Milano, 2011, 81 ss. con bibliografia; E.
Al Mureden, “Nuove prospettive di tutela del coniuge debole”. Funzione
perequativa dell’assegno divorzile e famiglia destrutturata, Milano, 2007, pas‑
sim; dello stesso Autore, Le rinunce nell’interesse della famiglia e la tutela del
coniuge debole tra legge e autonomia privata, in Familia, 2002, 4, 991 ss., in
particolare 1003 ss.; dello stesso Autore, I prenuptial agreements negli Stati
Uniti e nella prospettiva del diritto italiano, in Famiglia e diritto, 2005, 543
ss.; F. Angeloni, La cassazione attenua il proprio orientamento negativo nei
confronti degli accordi preventivi di divorzio: distinguishing o prospective over‑
ruling?, in Contratto e impresa, 2000, 1136 ss.;· T. Auletta, Gli accordi sulla
crisi coniugale, in Familia, 2003, 1, 45 ss.; ·C. M. Bianca, Diritto civile, 3, Il
contratto, Milano 2000; dello stesso Autore, Diritto civile, 2, La famiglia e le
successioni, Milano, 2005, passim; V. Di Gregorio, Programmazione dei
rapporti familiari e libertà di contrarre, Milano, 2003; M. Guarini, La Cas‑
sazione conferma la nullità dei “patti” anteriori al divorzio, nota Cass. 14
giugno 2000 n. 8109, in Giustizia civile, 2001, 51, 457 ss.; C. Murgo,
L’autonomia negoziale nella crisi della famiglia, Milano, 2006, passim; G.
Oberto, I contratti della crisi coniugale, Milano, 1999; dello stesso Autore,
“Prenuptial agreements in contemplation of divorce” e disponibilità in via
preventiva dei diritti connessi alla crisi coniugale, in Rivista diritto civile, 1999,
2, 171 ss.; M.D. Panforti, Gli accordi paramatrimoniali fra autonomia dis‑
positiva e disuguaglianza sostanziale. Riflessioni sul Family Law Amendment
Act australiano, in Familia, 2002, 1, 156 ss.; F. Patti, Accordi patrimoniali tra
coniugi connessi alla crisi del matrimonio.Autonomia negoziale e ruolo del
notaio, in Vita notarile, 3, 2004, 1381 ss.; D.G. Ruggero, Gli accordi premat‑
rimoniali, Napoli, 2005, passim; F. Ruscello, Accordi sulla crisi della famiglia
e autonomia coniugale, Padova, 2006, passim.
14 È d’uopo avvertire che anche se presenti nei paesi di Common Law, le dette
negoziazioni non ottengono, in tutte le realtà giuridiche (ad esempio, inglese,
australiana o statunitense) ove sono contemplati, la stessa disciplina e configu‑
razione. Cfr. E. Al Mureden, Nuove prospettive di tutela del coniuge debole,
Funzione perequativa dell’assegno divorzile e famiglia destrutturata, Milano,
2007, 181 ss., in particolare nntt. 41 ss.
15 Le costruzioni giuridiche della famiglia, nella civiltà europea, posseggono
radici profonde nel diritto romano e nella sua esperienza odinamentale. C’è,
comunque, da dire che quanto questo “lontano passato” sia tutt’ora attivo o
potrebbe influenzare la visione e la disciplina della famiglia è ancora contro‑
verso. Da più parti si ipotizza che l’esperienza romana sia fuori tempo e non sia
suscettibile di richiamo, poiché nutriamo aspettative della civiltà tecnologica
lontane dalla visione della società agricolo‑pastorale romana. Il nodo è intri‑
cato e già da tempo la dottrina si è dedicata a dirimere simili controversie. In
questa sede, poco opportuna per digressioni di tal genere, possiamo solo sof‑
civile
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D i r i t t o
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p r o c e d u r a
generati dal vincolo matrimoniale16. Sappiamo, infatti, che
negli ordinamenti quale quello degli Stati Uniti, che tra i
primi, a partire dagli anni 70, ha accolto e riconosciuto valo‑
re giuridico ai prenuptial agreements, emerge un’impostazio‑
ne liberale dei rapporti di diritto privato, secondo cui anche
quelli di natura familiare sono contrattualizzabili17; in Italia,
invece, prevalendo una concezione pubblicistica del matrimo‑
nio e dei procedimenti di separazione e divorzio, è difficile
ammettere l’ingresso di tali istituti18.
Già l’etichetta apposta ad un atteggiamento negoziale
siffatto (prenuptial agreements) si presta ad indicare quei
patti stipulati da coppie, prima di contrarre matrimonio, fi‑
nalizzati a gestire vari aspetti, patrimoniali e non, dello stes‑
so nonché l’eventuale crisi coniugale19.
Ad un attento esame non sfugge che la soluzione negozia‑
le dei problemi posti dalla crisi della coppia e, più in generale,
dallo scioglimento del vincolo matrimoniale non costituisce
una novità; è interessante ricordare come gli ordinamenti
giuridici abbiano già avvertito questa necessità – in un passa‑
to talora anche assai remoto –, cercando di risolverla con
escogitazioni dirette a definire contrattualmente le questioni
economiche aperte a causa della fine del rapporto coniugale.
fermarci su aspetti meno evidenziati, nel loro insieme e nei collegamenti reci‑
proci, i quali possano rivelare quali apporti alcune costruzioni del diritto ro‑
mano possano contribuire alla elaborazione di concetti e soluzioni per la
famiglia moderna, conferendole profili di grande respiro ed attualità. La rifles‑
sione su queste realtà potrebbe evidenziare non solo l’attualità degli ereditati
principii del diritto romano, ma anche quanto siano lontane dalle radici della
nostra civiltà le pretese di potere fondare la famiglia partendo da visioni ed idee
individualistiche ed egoistiche. Nello linguaggio giuridico il polisemico termine
familia indicava realtà molteplici e meno univoche rispetto a quelle espresse
oggi con ‘famiglia’. Su di esse le fonti giuridiche ed in particolare gli escerti dei
Digesta giustinianei appaiono numerose e circostanziate (cfr., ad esempio, D.
50.16.195.1‑4, Ul 46 ad ed.)
16 Non a caso Cicerone (de off. 1.54: Nam cum sit hoc natura commune anim‑
antium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio est,
proxima in liberis, deinde una domus, communia omnia; id autem est princi‑
pium urbis et quasi seminarium rei publicae.) afferma che era la famiglia il
nodo di ogni organizzazione e dell’intera umanità. Vale la pena, velocemente,
di riflettere sull’espressione quasi seminarium rei publicae ed occorre tener
presente che il quasi latino non corrisponde al nostro ‘quasi’. Nel linguaggio
giuridico romano, quasi realizzava l’introduzione di un discorso di tipo ana‑
logico e stava ad indicare che una situazione doveva essere considerata alla
stessa maniera di un’altra. Cfr., Vaihinger, La filosofia del «come se», tr. it.,
Roma, 1967; Kerber, Die quasi‑Institute als Methode der Römischen Rechts‑
findung, 1970; Steinwenter, Prolegomena zu eine Geschichte der Analogie,
II, Das Recht der kaiserlichen Konstitutionen, in Studi Arangio‑Ruiz 2, Na‑
poli, 1953, 170; Wesener, Zur Denkform der «quasi» in der römische Juris‑
prudenz, in Studi Donatuti, 3, Milano, 1973, 1387 ss.; Quadrato, Sulle tracce
dell’annullabilità. Quasi nullus nella giurisprudenza romana, Napoli, 1983, 23
ss.; Tafaro, Famiglia e matrimonio: le radici romanistiche, in Rodzina i spolec‑
zenstwo. Wczoraj i Dzis, Bialystok, 2002, 20 ss., al quale si rinvia sia per la
dottrina sia per la restante riflessione.
17 Jessep, Gli accordi prenuziali negli ordinamenti di common law, in www.
corsodirittofamiglia.it/contributi.html, 2006, 3.
18 Cfr., Maietta, Gli accordi prematrimoniali e gli accordi di convivenza. Nel
diritto italiano e negli altri ordinamenti, in Uniese, 12 gennaio 2010, disponi‑
bile on line http://www.uniese.it/pubblicazioni/gli‑accordi‑prematrimonia‑
li‑e‑gli‑accordi‑di‑convivenza‑nel‑diritto‑italiano‑e‑negli‑altri‑ordinamenti.
html; in particolar modo per l’avvertita bibliografia oltre le questioni rilevanti
trattate, cfr., Turchetti, I contratti prematrimoniali, in Santini (cur.), I con‑
flitti patrimoniali della separazione e del divorzio,questioni economiche e pat‑
rimoniali; Milano, 2012, 287 ss., in particolare per la normativa di riferimento
285; Oberto, Premessa, I patti prematrimoniali nel contesto della negozialità
familiare, in Idem (cur.), Gli aspetti di separazione e divorzio nella famiglia,
Profili Sostanziali, Processuali di Mediazione, di Previdenza, di Tutele con
riferimento al coniuge Debole, e ai Minori, le Nuove Frontiere del Risarci‑
mento del Danno, Milano, 2012, 3 ss.
19 Basta inserire in qualsiasi motore di ricerca la locuzione prenuptial agreements
oppure premarital agreement per vedersi comparire siti (in particolar modo
americani)
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
Inoltre, siffatto regolamento negoziale di interessi veniva
addirittura perfezionato preventivamente rispetto alla crisi
coniugale e cioè al momento della conclusione degli accordi
che accompagnavano la celebrazione delle nozze.
Nell’ottica prospettata ed accettata nell’ambito del nostro
lavoro, basterà ripercorrere brevemente le tappe di un simila‑
re percorso, già battuto da altra (e più antica) esperienza
giuridica. Potremmo prendere in considerazione, ad esempio,
l’attenzione ed il livello d’approfondimento con cui l’antica
giurisprudenza romana, a noi forse più vicina, disciplinava le
questioni patrimoniali endofamiliari, a partire dagli sponsa‑
lia, all’istituto dotale20, dai patti nuziali 21 stipulati anche ante
nuptias22 , alle donazioni tra fidanzati23 o coniugi, dal divorzio,
allo status dei figli, alle tutele ecc. 24. In poche parole, indos‑
seremo la veste di colui che vuole “vedere come è andata a
finire, dal momento in cui il diritto romano, in formato giu‑
stinianeo, si è offerto generosamente al saccheggio da parte
dei giuristi di tutta Europa”.25
La vivacità della casistica e delle soluzioni attestate dalle
fonti antiche, in particolare, la previsione di forme di nego‑
ziazioni che consentivano di regolare ex ante questioni patri‑
moniali derivanti da un’eventuale crisi coniugale, consentono
di comprendere la plasticità del fenomeno ed i suoi risvolti non
solo in campo sociale, ma anche giuridico‑economico. Pre‑
ponderante è l’interesse dei giuristi verso l’istituto della dote26
(cfr., D. 23.3.3, Ulp. 63 ad ed.)27, cioè quel certo complesso di
beni che, apportati dalla moglie (o dalla sua famiglia) al ma‑
20 Cfr., ad esempio, Casola, Dote ed interesse pubblico, in Diritti@Storia, 6, 2007,
Tradizione romana, on line http://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione‑romana/
Casola‑Dote‑interesse‑pubblico.htm. Nicotri, De dote quantitate, in Teoria
e Storia del Diritto Privato, 4, 2011, 33 ss. con bibliografia.
21 Sembra interessante notare, per gli accordi postnuziali, che il diritto romano
sembrava a tal punto vedere con favore una liquidazione globale delle pen‑
denze in fase di divorzio, tanto da rappresentare una espressa deroga al divieto
di donazioni tra coniugi (cfr. D. 24.1.60.1: Divortii causa donationes inter virum
et uxorem concessae sunt: saepe enim evenit, uti propter sacerdotium, vel etiam
sterilitatem; ancora D. 24.1.11.10; D. 24. 1.26.1; D. 24.1.53).
22 Alcuni servivano poi a scandire il tempo della restituzione degli apporti, una
volta sciolto il matrimonio, stabilendone anche le modalità. Ad esempio, in D.
23.4.17, Proculus 11 epist., si ipotizza la maturazione del diritto alla ripetizione
di quanto dato solo decorso un certo tempo, a far data dal divorzio. Proprio in
questo caso, il termine fissato dalle parti non poteva eccedere quello determinato
dalla legge, ed in tale regola sembra emergere addirittura un principio di tutela
della moglie, quasi come coniuge debole, ante litteram. Cfr., Giunti, Il modus
divortii nella legislazione augustea, Aspetti problematici, ipotesi di lettura, in
Studi in onore di Remo Martini, 2, Milano, 2010, 345 ss. Il favor verso nego‑
ziazioni concluse in vista dello scioglimento delle nozze, possiamo leggerlo
negli accordi transattivi conclusi, D. 23.4.20 (Paul. 35 ad ed.).
23 Ferretti, Le donazioni tra fidanzati nel diritto romano, Milano, 2000, passim;
dello stesso Autore, Doni fatti a causa della promessa di matrimonio. Prospet‑
tiva storico‑comparatistica, in Labeo, 45, 1999, 76 ss., ora in AA.VV., Con‑
tributi romanistici, Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche, 8, Trieste,
2003, 5 ss.; ancora, Donazioni e sponsali nella politica costantiniana, in Philia.
Scritti per Gennaro Franciosi, 2, Napoli, 2007.
24 Si confrontino i libri del Digesto dal 23 al 27 ed il quinto libro del Codex Ius‑
tinianus. In relazione alle opinioni dottrinarie, si confronti Fayer, La familia
romana, Aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia, matrimonio, dote, 2, Roma,
2005, 682 ss. nntt. 30 ss.
25 Manfredini, “Chi caccia e chi è cacciato…”. Cacciatore e preda nella storia
del diritto, Ferrara, 2006, 6.
26 Fayer, La familia romana, Aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia, matrimo‑
nio, dote, cit., 376 ss., in particolare nntt. 161 ss., sulle tabulae nuptiales si
legga nota 162 con fonti e bibliografia. Sulla causa dotis ed i negozi attuativi,
cfr., Cannata, sv. Dote (diritto romano), in ED., 1965, 1 ss., Fayer, La fa‑
milia romana, Aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia, matrimonio, dote, cit.,
675 ss.
27 Dotis appellatio non refertur ad ea matrimonia, quae consistere non possunt:
neque enim dos sine matrimonio esse potest. Ubicumque igitur matrimonii
nomen non est, nec dos est.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
rito ad onera matrimonii ferenda, andavano da quest’ultimo
(o dai suoi eredi) restituiti alla cessazione del rapporto28.
Queste tendenze evolutive, inclini ad un rassicurante al‑
largamento della libertà negoziale circa gli assetti patrimo‑
niali familiari, acquistarono forza e conferma nei secoli suc‑
cessivi, pur in assenza dello strumento del divorzio, quale
diretta conseguenza dell’affermazione del principio dell’indis‑
solubilità del matrimonio imposto dalla Chiesa cattolica.
Neanche questo, comunque, sortì l’effetto di far evitare alle
parti dei pacta nuptialia di premunirsi contro le conseguenze
di una situazione di crisi coniugale che fosse dovuta eventual‑
mente sopravvenire29.
Orbene, secondo una calzante definizione30, si tratta di un
accordo con il quale si disciplinano ex ante gli effetti dello
scioglimento del vincolo matrimoniale con particolare riguar‑
do all’assegno di mantenimento, all’assegnazione della casa
familiare, all’affidamento dei figli, e in generale all’assetto
patrimoniale dei coniugi.
La giurisprudenza sul punto è pressoché univoca nel con‑
siderare nulli gli accordi prematrimoniali31, per le ragioni in
seguito esaminate, mentre in dottrina si registrano posizioni
diametralmente opposte: taluni autori, infatti, avallando
l’orientamento giurisprudenziale tuttora prevalente, negano
la cittadinanza di tali pattuizioni32 , mentre altri autori pro‑
28 Fayer, La familia romana, Aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia, matrimo‑
nio, dote, cit., 81 ss., in particolare nota 98 con bibliografia. Alla restituzione
della dote conseguente allo scioglimento del vincolo coniugale è dedicato il ti‑
tolo terzo del libro ventiquattresimo dei Digesta (Soluto matrimonio quemad‑
modum dos petatur). In questo, così come nel quarto dello stesso libro (De
pactis dotalibus, anche, sullo stesso argomento, C. 5.18 e C. 5.14) emergono
tracce di accordi stipulati al momento della costituzione della dote, disci‑
plinanti la tempostica e le modalità di restituzione della medesima nell’ipotesi
di scioglimento dell’unione per morte o per divorzio. In questi casi, nelle fonti
(D. 23.4.17, Proculus 11 epist, pactum conventum ante nuptias; inoltre D.
23.4.28, Paul. 5 quaest.; post nuptias) ritroviamo l’impiego di termini ed espres‑
sioni destinate a transitare quasi inalterate nei sistemi di common law, per
designare, successivamente, proprio quegli accordi preventivi (o successivi) alle
nozze riguardanti, tra l’altro, la regolamentazione ex ante dei rapporti econo‑
mici tra gli ex coniugi soluto matrimonio.
29 Si veda la giurisprudenza rotale sulla separatio tori, sulla dotis restitutio, così
come le sentenze degli altri «Grandi Tribunali» italiani (dal Senato Piemontese,
alla Rota Genovese ecc.) sulle doti, sui patti matrimoniali e così via. Proprio la
disamina della messe di decisioni in tal senso prospetta i tratti di soluzioni
moderne ed ardite (cfr., ad esempio, la decisione Bononien, restitutionis dotis,
16 maggio 1595, con la quale la Rota Romana accreditò la validità del patto
nuziale per la restituzione della dote come una clausola penale per il caso di
mancata solutio della somma periodica prevista a carico del marito a titolo di
alimenta nell’ipotesi di un’eventuale separatio tori.
30 Cfr., Fusi, Accordi prematrimoniali, convivenza more uxorio e trust, in Trust
opinioni a confronto, Atti dei congressi dell’associazione italiana, Il trust in
Italia, Roma 21‑23 ottobre 2005, I trust per la famiglia, Firenze 15 gennaio
2005, 2006, 556 ss.
31 Cass., 11 giugno 1981, n. 3777, in Foro it., 1981, I, c. 184; in Giur it., 1981,
I, 1, c. 1553 con nota di Trabucchi; in Dir. fam. pers., 1981, 1025; in Giust.
civ., 1982, I, 724; Cass., 20 maggio 1985, n. 3080, in Giur. it., 1985, I, 1, c.
1456, con nota di Di Loreto; in Dir. fam. pers., 1985, 876; in Foro it., 1986,
I, 747, con nota di Quadri; in Giust. civ., 1986, I, 188; Cass., 11 dicembre
1990, n. 11788, in Arch. civ., 1991, 417; in Giur. it., 1991, I, 1, c. 156; in Giur.
it., 1992, I, 1, c. 156, con nota di Cecconi; Cass., 2 luglio 1990, n. 6773; Cass.,
1 marzo 1991, n. 2180; Cfr. Cass., 11 agosto 1992, n. 9494, in Giur. it., 1993,
I, 1, c. 1495, con nota di De Mare; Cass., 28 ottobre 1994, n. 8912, in
Rivista Famiglia e Diritto, 1995, 14 con nota di Uda; Cass., 7 settembre 1995,
n. 9416, in Dir. fam. pers., 1996, 931; Cass., 20 dicembre 1995, n. 13017, in
Giust. civ., 1996, I, 1694; Cass., 20 febbraio 1996, n. 1315; Cass., 11 giugno
1997, n. 5244, in Giur. it., 1998, 218, con nota di Ermini; in Vita not., 1997,
848; Cass., 20 marzo 1998, n. 2955, in Corr. giur., 1998, 513. Cass., 18 feb‑
braio 2000, n. 1810 in Corriere giuridico, 2000, 8021; Cass., 9 maggio 2000,
n. 5866; Cass., 12 febbraio 2003, n. 2076, in Dir. Fam., 2003, 344.
32 Negano l’ammissibilità degli accordi in previsione di un futuro divorzio Bianca, Diritto civile, 2, La famiglia. Le successioni, Milano, 20054, 230; Ga-
2 0 1 3
37
pendono per una maggiore apertura verso le esperienze dei
paesi di common law, ove gli accordi prematrimoniali costi‑
tuiscono una realtà ormai consolidata. 33
4. Le ragioni della nullità: la lesione della libertà dei coniugi.
Il primo argomento addotto a sostegno della tesi negativa
attiene alla possibile influenza che siffatti accordi potrebbero
spiegare sulle determinazioni dei coniugi inerenti al proprio
status: il coniuge, infatti, conoscendo le condizioni contrat‑
tuali testualmente previste in sede di accordo prematrimonia‑
le, potrebbe essere indotto a non chiedere una pronuncia di
divorzio se non avesse la possibilità di ottemperare gli obblighi
ivi convenuti34.
Tale motivazione emerge costantemente nelle pronunce
giurisprudenziali, come ad esempio può leggersi in una recen‑
te sentenza del Tribunale di Varese che, richiesto di pronun‑
ciarsi sulla validità di una transazione dirimente ogni questio‑
ne economica passata e futura tra i coniugi, ne nega l’ammis‑
sibilità asserendo che “si tratta di “illiceità della causa” in
quanto accordi del genere hanno ad oggetto non tanto meri
aspetti patrimoniali, conseguenti ad un determinato status
«di coniuge divorziato», ma lo stesso status di «coniuge» con
«lo scopo o, quanto meno, l’effetto di condizionare il compor‑
tamento delle parti nel futuro giudizio di divorzio… viziando,
o quanto meno limitando la libertà di difendersi nel giudizio
di divorzio, con irreparabile compromissione di un obiettivo
di ordine pubblico”35.
Come può osservarsi, il timore avvertito dalle nostre cor‑
ti concerne l’interferenza tra due piani insuscettibili di inter‑
secarsi, quali quello delle relazioni personali e sessuali e
quello economico; in particolare, il pericolo di condiziona‑
mento sussiste quando un comportamento personale (il divor‑
zio) viene elevato a rango di causa, di titolo delle attribuzioni
traslative. Ma in tempi recentissimi quest’argomento è stato
sottoposto a revisione critica in una pronuncia di merito36 che
brielli, Indisponibilità preventiva degli effetti patrimoniali del divorzio: in
difesa dell’orientamento adottato dalla giurisprudenza, in Rivista di diritto
civile, 1996, 695 ss.; Ieva, Trasferimenti mobiliari ed immobiliari in sede di
separazione e divorzio, in Rivista notarile, 1995, 465.
33 Per la tesi positiva: Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi
sulla crisi coniugale, in Rivista Famiglia e Diritto, 2012, 1, 69 ss.; Idem, “Pre‑
nuptial agreements in contemplation of divorce” e disponibilità in via preven‑
tiva dei diritti connessi alla crisi coniugale, in Rivista di diritto civile, 1999, 2,
171 ss.; dello stesso Autore, Contratto e famiglia, in Roppo (cur.), Trattato
del contratto, 6, Interferenze, Milano, 2006, 253 ss.; Idem, Gli accordi preven‑
tivi sulla crisi coniugale, in Familia, 2008, 25 ss. V. inoltre Giaimo, I contratti
paramatrimoniali in Common Law, Palermo, 1997, 31 ss.; Comporti, Auto‑
nomia privata e convenzioni preventive di separazione, divorzio, di annulla‑
mento del matrimonio, in Foro italiano, 5, 1995, c. 111 s. c. Per una maggiore
bibliografia vedi Bonilini, Tommaseo, Lo scioglimento del matrimonio,
Milano, 2010, 725.
34 Cass., 11 giugno 1981, n. 3777, cit., sostiene che l’accordo avrebbe l’effetto di
condizionare il comportamento processuale inducendo “a seconda dei casi il
contraente più debole a non difendersi nel giudizio di divorzio pur di percepire
al più presto un vantaggio economico […] oppure il contraente effettivamente
più motivato […] a subire anche odiosi riscatti concedendo sul piano eco‑
nomico molto più del giusto. Cass., 20 maggio 1985, n. 3080, cit., secondo cui
“gli accordi preventivi tra i coniugi sul regime economico del divorzio prima
che esso sia pronunciato hanno sempre lo scopo o, quanto meno, l’effetto di
condizionare il comportamento delle parti nel giudizio concernente uno status,
limitandone la libertà di difesa.
35 Tribunale Varese 29 marzo 2010
36 Tribunale Torino, sez. VII, ord. 20 aprile 2012, in Famiglia e diritto 8‑9/2012,
con nota di Oberto, secondo il quale “Sembra, anzi, che il nostro ordinamen‑
to, per così dire, solleciti il soggetto, all’atto del matrimonio, a “costruire” le
proprie prospettive matrimoniali attraverso la stipulazione delle convenzioni
civile
Gazzetta
38
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
ha ammesso la validità di un accordo concluso sui profili
patrimoniali tra i coniugi in sede di separazione legale ed in
vista del divorzio in quanto non contrastante né con l’ordine
pubblico, né con l’art. 160 c.c.
Il Giudice torinese, infatti, ribadendo un concetto già
avanzato in dottrina37 ha sottolineato la distinzione tra obbli‑
go a tenere un determinato comportamento e determinazione
convenzionale delle conseguenze patrimoniali di un evento, il
divorzio, che si pone quale condizione38.
A sostegno della sopradetta argomentazione viene richia‑
mato nella motivazione della sentenza l’istituto della donazio‑
ne obnuziale, di cui all’art. 785 c.c. quale negozio giuridico
unilaterale nel quale l’attribuzione traslativa è subordinata
alla condizione sospensiva della celebrazione del matrimonio,
l’evento (forse) più rilevante per quanto attiene alla sfera per‑
sonale ed affettiva.
5. Il contrasto con l’art. 160 c.c.
La norma di cui all’art. 160 c.c. nello statuire che “gli spo‑
si non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla
legge per effetto del matrimonio” inibisce espressamente ai
coniugi di stipulare ogni patto che disciplini in modo difforme
al dettato legislativo i doveri che informano la vita coniugale
regolati agli articoli 143, 147 e 148 c.c.39.
Sulla base di tale premessa si è aperto un dibattito giuri‑
sprudenziale concernente l’estensione del disposto della norma
in commento alla fase terminale del rapporto coniugale e, se‑
gnatamente, alla possibilità di convenire l’an e il quantum
dell’assegno di divorzio. Sul punto è possibile isolare quattro
diversi orientamenti che si snodano da una decisa incompati‑
bilità degli accordi de quibus con l’assegno divorzile fino ad
arrivare ad ammetterne finanche una rinunziabilità preventi‑
va.
Secondo la tesi che ha avuto nel corso dell’ultimo trentennio
maggior seguito in giurisprudenza, un accordo tra i coniugi
volto a determinare preventivamente le conseguenze economi‑
che della rottura dell’unione coniugale si pone in netto contra‑
sto con l’indisponibilità dei diritti che sorgono con la pronuncia
di divorzio40 .
Questa tesi si fonda sull’analisi dei diritti sui quali potrebbe
focalizzarsi l’attenzione dei coniugi al momento di redazione
del patto, quali l’assegno di mantenimento e l’assegnazione
della casa adibita a residenza coniugale.
Orbene, secondo tale orientamento, dalla lettura dell’art. 5
comma 6 legge dicembre 1970 n. 898, come sostituito dall’art. 8,
(pre)matrimoniali più idonee alla tutela dei suoi interessi in relazione alle cir‑
costanze e alle esigenze di vita, stabilendo espressamente che le convenzioni
matrimoniali possano essere stipulate in ogni tempo”.
37 Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale,
cit. 83.
38 Tribunale Torino, sez. VII, ord. 20 aprile 2012, cit., in cui è detto: “fermo re‑
stando che altro è porre a base del sinallagma negoziale l’impegno sullo status
(mi obbligo a divorziare/ a non divorziare), e ben altro è prestabilire le mere
conseguenze economiche dell’eventuale mutamento di status”.
39 Cian, Trabucchi, Commentario al codice civile, 2011, sub art. 160 c.c. al quale
si rimanda per l’ulteriore bibliografia ove a titolo esemplificativo si ritiene
nullo un patto che esoneri totalmente un coniuge dal contributo che sia in
grado di fornire ai bisogni della famiglia.
40 Cassazione civile 18 febbraio 2000 n. 1810, cit.,; Cassazione civile 9 maggio
2000, n. 5866 cit.; Cassazione civile 12 febbraio 2003, n. 2076 cit.; Cassazione
civile, sez. I, 10 agosto 2007, n. 17634; Cassazione civile, sez.I, 25 gennaio
2012, n. 1084.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
L. 6 marzo 1987, n. 7441, emerge una preponderante funzione
assistenziale dell’assegno divorzio che si fonda sulla solidarietà
tra i coniugi che permane anche a seguito della cessazione degli
effetti civili del matrimonio42 .
Anche per l’assegnazione della casa adibita a residenza fa‑
miliare eventuali accordi preventivi sarebbero ontologicamente
incompatibili con una pronuncia dell’autorità giudiziaria con‑
dotta sulla scorta di una valutazione dell’interesse dei figli mi‑
nori a non vedersi allontanare dal luogo nel quale hanno vissu‑
to come “famiglia” 43 .
Ciò posto, se questi sono i principi cardine che informano
la materia, si segnalano talune sentenza di legittimità che di‑
stinguono una negoziazione del contenuto degli obblighi di
mantenimento, tacciata di nullità, dalla possibilità di qualifi‑
care un’attribuzione traslativa quale corresponsione una tantum
dell’assegno, senza però privare il coniuge economicamente più
debole di ottenere una revisione della misura dell’assegno 44 .
Altra giurisprudenza recente,invece, pur continuando ad
asserire la nullità degli accordi in vista del divorzio, ha mutato
i termini del discorso e, segnatamente, la natura dell’interesse
tutelato. Non di tratterebbe, infatti, della violazione di una
norma di ordine pubblico, quale l’art. 160 c.c., ma della lesione
di un interesse privato consistente nell’esigenza di tutela del
coniuge economicamente più debole45.
41 La norma dispone che “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la
cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle
condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale
ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione
del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valu‑
tati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, di‑
spone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore
dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque
non può procurarseli per ragioni oggettive”.
42 Fusi, Accordi prematrimoniali, convivenza more uxorio e trust, cit,, 556. Vedi,
in giurisprudenza, Cassazione I sez civile 4 novembre 2010, n. 22505, ove si
legge: “sarebbe stata preclusa dalla nullità per illiceità della causa di un tale
tipo di abdicazione, interferente sul diritto indisponibile all’assegno di divorzio,
di carattere assistenziale, ed inerente a materia nella quale le decisioni del giu‑
dice, collegate anche ad interessi di ordine generale, sono svincolate dal potere
dispositivo dei contendenti.
43 Fusi, Accordi prematrimoniali, convivenza more uxorio e trust, cit,, 558 ss.
44 Cassazione, I sez. civile, 9 ottobre 2003, n. 15064, secondo cui “Ogni patto
stipulato in epoca antecedente al divorzio volto a predeterminare il contenuto
dei rapporti patrimoniali del divorzio stesso deve ritenersi nullo; è consentito,
invece, che le parti, in sede di divorzio, dichiarino espressamente che, in virtù
di una pregressa operazione (ad es. trasferimento immobiliare) tra di esse,
l’assegno di divorzio sia già stato corrisposto una tantum, con conseguente
richiesta al giudice di stabilire conformemente l’assegno medesimo, ma in as‑
senza di tale inequivoca richiesta è inibito al giudice di determinare l’assegno
riconoscendone l’avvenuta corresponsione in unica soluzione. Del tutto diversa
è l’ipotesi in cui le parti abbiano già regolato i propri rapporti patrimoniali e
nessuna delle due richieda un assegno (tale regolamento, infatti, non neces‑
sariamente comporta la corresponsione di un assegno una tantum, potendo le
parti avere regolato diversamente i propri rapporti patrimoniali e riconosciuto,
sulla base di ciò, la sussistenza di una situazione di equilibrio tra le rispettive
condizioni economiche con conseguente non necessità della corresponsione di
alcun assegno), nel qual caso l’accordo è valido per l’attualità, ma non esclude
che successivi mutamenti della situazione patrimoniale di una delle due parti
possa giustificare la richiesta di corresponsione di un assegno a carico dell’altra
(nella fattispecie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale, escluso
che i coniugi avessero dichiarato l’avvenuta corresponsione una tantum
dell’assegno di divorzio in virtù di una precedente operazione di trasferimento
immobiliare, aveva proceduto alla determinazione dell’assegno medesimo su
richiesta di modifica delle condizioni di cui alla sentenza di divorzio presentata
da uno degli ex coniugi)”. Vedi anche Cassazione, I sez. civile, 10 agosto 2007,
n.17634
45 Cassazione civile, sez. I, 10 marzo 2006, ove si legge che “deve rilevarsi che ciò
che entra in giuoco con riguardo alla problematica sollevata dalla questione
all’odierno esame, non è propriamente il carattere indisponibile in sè dei diritti
patrimoniali dei coniugi, ma, piuttosto, la esigenza di tutela del coniuge econo‑
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
Logico corollario di tale impostazione è che l’invalidazione
di siffatta contrattazione può essere ottenuta solo su domanda
della parte nel cui interesse è disposto il precetto normativo,
dando così luogo alla cosiddetta “nullità relativa” (Cassazione
civile 15349/2000)46 .
Secondo l’orientamento possibilista, la norma in commento
non è afferente alla fase patologica del rapporto coniugale ma
a quella dell’ordinario svolgimento della vita coniugale47, tenu‑
to conto di significativi indici sistematici e letterali.
L’art. 160 c.c. è collocato, infatti, all’interno del Capo VI
del Titolo VI del Libro I del codice civile, dedicato al regime
patrimoniale della famiglia, con un esplicito riferimento alla
fase fisiologica dell’unione coniugale, e, per di più, indica qua‑
li soggetti della convenzione gli sposi, cioè coloro i quali danno
una coloritura ai propri doveri prima di iniziare una vita di
coppia.
E ancora si afferma che se all’esito della pronuncia di divor‑
zio vengono meno tutti i diritti e doveri nascenti dal matrimo‑
nio, non potrebbe sopravvivere il dovere di contribuzione che
si fonda su un principio di solidarietà tra i coniugi conseguente
all’affectio che li lega.48
6. La soluzione offerta la sentenza in commento: continuità o
rottura?
Al termine di questa breve analisi del panorama giuri‑
sprudenziale italiano in materia di accordi prematrimoniali è
opportuno domandarsi se la sentenza numero 23713 del 21
dicembre 2012 si pone in una posizione di continuità o di
rottura con il prevalente orientamento, volto, come si è visto,
a stigmatizzare pattuizioni in vista del divorzio.
Dalla lettura della motivazione emerge che la Corte di
legittimità abbia confermato la nullità degli accordi prema‑
trimoniali per illiceità della causa, ma abbia anche delimitato
un perimetro all’interno del quale le attribuzioni patrimonia‑
li tra coniugi “in vista del divorzio” possano essere sorrette
da una valida giustificazione causale.
I tre elementi che inducono nello scrivente tale considera‑
zione sono la natura giuridica del trasferimento, la sua colo‑
ritura causale e la diversa considerazione che assume il divor‑
zio nell’ambito della pattuizione.
7. La natura di contratto e non di accordo.
È di grande impatto la circostanza che nella sentenza in
commento si nega in maniera decisa l’ammissibilità degli ac‑
micamente più debole, l’attribuzione al quale dell’assegno divorzile potrebbe
essere messa in discussione dagli accordi di cui si tratta”.
46 Barbalucca, Gallucci, L’autonomia negoziale dei coniugi nella crisi matri‑
moniale, Milano, 2012, 28.
47 Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale,
cit., 86; Idem, Accordi preventivi di divorzio: la prima picconata è del Tribu‑
nale di Torino, nota a Ord. 20 aprile 2012, Tribunale Torino, cit.
48 Tribunale Torino, sez. VII, ord. 20 aprile 2012, cit., ove è detto:”come è noto
a seguito della separazione, nella fase c.d. “patologica” del rapporto coniugale,
cessano la maggior parte dei diritti doveri discendenti dal matrimonio (come il
dovere di fedeltà, di coabitazione…) onde non si ravvisano ragioni per ritenere
che, al contrario, il diritto‑dovere di contribuzione al mantenimento debba
invece, necessariamente, permanere intatto e nulla, in relazione ad esso, possa
essere convenuto tra le parti. Inoltre, con riferimento all’ipotesi di assegno ex
art. 5, l. div., affermare la vigenza dell’art. 160 c.c. presupporrebbe l’estensione
analogica della suddetta norma al divorzio, così postulando una “similitudine
di casi” (v. art. 12 cpv. prel.) tra la materia degli effetti del matrimonio e quella,
opposta, degli effetti del suo venir meno.
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cordi assunti prima del matrimonio o magari in sede di sepa‑
razione consensuale, ma si prevede la liceità di un contratto
atipico con il contenuto in seguito esaminato.
È nota, infatti, la distinzione tra contratto, accordo e
convenzione, che si incentra sulla patrimonialità o meno
delle prestazioni49, con la conseguenza che giammai potranno
essere costituire oggetto della pattuizione de qua regole in
merito all’affidamento dei figli, o norme di comportamento
da osservare all’esito della pronuncia di divorzio.
8. La coloritura causale delle attribuzioni.
Per comprendere la reale portata della pronuncia in esame
non si può non ricordare la questione che ha dato adito alla
controversia tra i coniugi e, cioè, che a fronte dell’esborso
economico effettuato da uno solo di essi per ristrutturare la
casa adibita a residenza familiare, l’altro coniuge aveva assun‑
to l’impegno di trasferirgli un bene immobile, quale presta‑
zione in luogo dell’adempimento dell’obbligazione pecuniaria
su di esso gravante, il tutto in caso di divorzio.
Il fatto concreto aiuta a comprendere come nell’ipotesi de
qua non sorgano quelle istanze analizzate in precedenza in
merito al pericolo di lesione del diritto di difesa del coniuge
più debole o dell’intangibilità dell’assegno divorzile con con‑
seguente mercificazione dello status coniugale.
Le parti, infatti, come affermato chiaramente nella pro‑
nuncia, per regolare una pregressa situazione debitoria ante‑
riore alla domanda di divorzio, stipulano una datio in solu‑
tum, ai sensi dell’art. 1197 c.c. 50, come del resto dimostrato
dalla proporzionalità tra le due prestazioni.
È proprio siffatta proporzionalità che deve aiutare l’ope‑
ratore pratico nel discernere pattuizioni valide in quanto ri‑
entranti nel perimetro operativo delimitato dalla pronuncia
da quelle che potrebbero rappresentare manovre elusive volte
a celare diversi intenti delle parti.
Ad ogni modo il riferimento espresso al negozio di datio
in solutum va salutato con favore in quanto, nella sua incisi‑
vità, evita di creare negli operatori imbarazzo nell’interpreta‑
re le parole della Corte. Si osserva, infatti, che già nel 2000
la Corte si era espressa, in maniera più sibillina, sulla possi‑
bilità di contratti in vista del divorzio con i quali regolare
rapporti pregressi tra i coniugi, dando però adito a diverse
posizioni in dottrina in merito alla sua portata51.
49 Sulla nozione di convenzione quale negozio giuridico che, pur avendo la strut‑
tura del contratto ha ad oggetto rapporti non patrimoniali, Diener, Il contrat‑
to in generale, manuale e applicazioni pratiche delle lezioni di Guido Capozzi,
Milano, 2002, 28; Messineo, Dottrina generale del contratto, Milano, 1948,
30; per la non riconducibilità alle convenzioni è possibili avvalersi delle acqui‑
sizioni dottrinarie e giurisprudenziali che negano la natura di convenzione agli
accordi assunti in sede di separazione, in particolare: Oberto, accordi preven‑
tivi di divorzio: la prima picconata è del Tribunale di Torino, cit. 807 ove si
legge: “le convenzioni matrimoniali, le quali postulano “il normale svolgimen‑
to della convivenza coniugale” hanno riferimento ad una generalità di beni
anche di futura acquisizione e non l’esigenza di assetto dei rapporti personali e
patrimoniali dei coniugi separati”; cfr. Cass., 11 maggio 1984, n. 2887; Cass.,
11 novembre 1992, n. 12110; Cass., 12 settembre 1997, n. 9034; per la giuri‑
sprudenza di merito v. App. Bologna, 29 gennaio 1980, in C.E.D. – Corte di
cassazione, Arch. Merito, pd. 820052;
50 Norma secondo la quale “il debitore non può liberarsi eseguendo una presta‑
zione diversa da quella dovuta, anche se di valore uguale o maggiore, salvo che
il creditore consenta. In questo caso l’obbligazione si estingue quando la diver‑
sa prestazione è eseguita”.
51 Cass., 14 giugno 2000, n. 8109, in Dir. fam., 2000, 429; in Corr. giur., 2000,
1021, con nota di Balestra; in Riv. notar., 2000, II, 1221, con nota di Zanni,
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D i r i t t o
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Secondo una prima opzione ermeneutica, infatti, l’inter‑
vento avrebbe testimoniato questi accordi tra i coniugi pre‑
ventivi rispetto al divorzio ma volti a definire pendenze pre‑
gresse, fossero validi52; secondo, invece, la prospettiva di di‑
versi autori quella pronuncia non aveva costituito un’inversio‑
ne di rotta della giurisprudenza, posto che in realtà, l’emolu‑
mento periodico corrisposto da uno dei coniugi transattiva
operava come indice per quantificare l’assegno e valutare la
posizione dei coniugi53.
Il merito ascrivibile alla pronuncia in esame è quello,
quindi, di individuare la figura giuridica alla quale l’operato‑
re pratico può rivolgersi senza timore e, cioè, come detto, la
datio in solutum.
9. Il divorzio non come causa, ma come condizione
Elemento chiave nel ragionamento della Corte di Cassa‑
zione è configurare il divorzio non già come titolo dell’attri‑
buzione traslativa ma come sua condizione sospensiva.
In altre parole, il divorzio non penetra nello schema cau‑
sale elevandosi a rango di elemento essenziale, ma si pone
come evento estrinseco, accidentale alla vicenda negoziale54.
In tale prospettiva si osserva come la sentenza in esame si
pone in una posizione di continuità con il recente provvedi‑
mento del Tribunale di Torino, ove il giudice merito aveva
qualificato la rottura del rapporto coniugale alla stregua di
una condizione sospensiva, ammessa espressamente dal Legi‑
slatore in rapporto alle donazioni sottoposte a condizione
sospensiva della celebrazione delle nozze55.
Una prima obiezione mossa alla soluzione offerta potreb‑
be fondarsi si un’asserita presenza di una condizione mera‑
mente potestativa, vietata dall’art. 1355 c.c., in quanto sareb‑
be rimessa alla volontà del coniuge la possibilità di determi‑
nare il suo operare proponendo domanda di divorzio56.
Un attento esame della fattispecie posta al vaglio del giu‑
dizio della Corte denuncia, però, la mancanza di questo ele‑
mento proprio perché, come si legge nella pronuncia, il divor‑
zio è considerato come un fattore oggettivo, a prescindere
dalla responsabilità o meno di uno dei coniugi nella frattura
del rapporto coniugale.
Trent’anni di giurisprudenza in tema di autonomia negoziale e assegno divor‑
zile; in Giust. civ., 2000, I, 2217, con Osservazioni di Giacalone; in Giur. it.,
2000, 2249, con nota di Barbiera, Un incerto revirement della Cassazione in
favore della validità degli accordi sui rapporti patrimoniali fra i coniugi da
valere anche dopo il divorzio; in Nuova giur. civ. comm., 2000, 1, 704, con
nota di Bargelli; in Foro it., 2001, 1, c. 1318, con note di Russo, Il divorzio
“all’americana”; ovvero l’autonomia privata nel rapporto patrimoinale e di
Ceccherini, I contratti tra i coniugi in vista del divorzio: regole operative e
limiti di liceità; in Giust. civ., 2001, I, 457, con nota di Guarini, La Cassazio‑
ne conferma la “nullità”dei patti anteriori al divorzio; in Familia, 2001, 243,
con nota di Ferrando, Crisi coniugale e accordi intesi a definirne gli aspetti
economici.
52 Bonilini, Tommaseo, Lo scioglimento del matrimonio, cit. 723.
53 Brignone, Tardia, Gratuità e accordi patrimoniali tra i coniugi, in Palazzo,
Mazzarese, I contratti gratuiti, Milano, 2008, 553.
54 In ambito successorio la dottrina e la giurisprudenza hanno ritenuto che la
donazione cum moriar e si premoriar siano valide in quanto la morte si eleva
a rango di condizione sospensiva e non di elemento essenziale, Capozzi, Auciello, Successioni e donazioni casistica, Milano, 2004, 10‑12; Torrente, La
donazione, in Tratt. dir. civ. e comm., diretto da Cicu e Messineo, Milano,
1956, 314; Cass. 16 giugno 1966, n. 1547; Cass. 9 luglio 1976, n. 2619;
Cass. 11 novembre 1988, n. 6083.
55 Oberto, Accordi preventivi di divorzio: la prima picconata è del Tribunale di
Torino, nota a ord. 20 aprile 2012 Tribunale Torino, cit.
56 Giacobbe, Le persone e la famiglia, 2, Il matrimonio, Milano, 2012.
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La seconda critica che potrebbe muoversi al ragionamen‑
to seguito nella sentenza in commento, è la possibile coarta‑
zione del coniuge debole nella stipulazione del contratto di
datio in solutum.
Anche questa seconda obiezione può essere superata se si
analizza il percorso logico seguito dalla pronuncia de qua.
Una volta che viene contratto il matrimonio tra i coniugi
sorge, reciprocamente, un dovere di solidarietà inderogabile
ed irrinunciabile, come si desume dal combinato disposto
degli articoli 143 c.c. e 160 c.c.; di conseguenza, tutte le spe‑
se che vengono compiute da uno dei coniugi per provvedere
ai bisogni della famiglia, come, ad esempio, quelle per la ri‑
strutturazione dell’immobile adibito a residenza familiare,
sono realizzate nell’interesse della famiglia.
Il corollario di quest’affermazione è che nel corso dello
svolgimento della vita matrimoniale i rapporti di dare e avere
tra coniugi versano in una fase di quiescenza, proprio perché
si tratta di sacrifici che ciascuno sopporta per il fabbisogno
della famiglia.
Quando, però, si assiste alla disgregazione di quel nucleo
familiare questo dovere di solidarietà viene meno irrimedia‑
bilmente per cui, fermo restando il dovere di assistenza del
coniuge economicamente debole, non c’è più un vincolo di
solidarietà che avvince i coniugi57.
Conclusioni
Dall’esame delle diverse pronunce giurisprudenziali che si
sono susseguite negli ultimi trent’anni emerge un costante e
progressivo mutamento di vedute delle nostre Corti in relazio‑
ne al concetto di “solidarietà” tra i coniugi quale emerge
dall’art. 143 comma 3 c.c.
Nelle prime sentenze risalenti agli anni immediatamente
successivi all’entrata in vigore della Riforma del diritto di fa‑
miglia, il vincolo di solidarietà tra i coniugi ha avuto un rilievo
così pregnante da permanere anche nella fase patologica del
rapporto.
In altre parole, quando uno dei coniugi, per contribuire ai
bisogni della famiglia, corrispondeva l’intera somma per i la‑
vori di ristrutturazione dell’abitazione adibita a residenza fa‑
miliare, nessun credito avrebbe mai maturare verso l’altro co‑
niuge: si trattava, infatti, di un sacrificio compiuto per realiz‑
zare un interesse superiore, un sacrificio che restava tale anche
se fosse venuta meno una comune residenza.
Questa assolutezza del vincolo si è andata attenuando fino
a giungere alla sentenza in esame che ha recepito gli avvenuti
mutamenti del costume sociale e delle relazioni personali degli
ultimi anni. Dalle motivazioni della corte emerge, infatti, una
maggiore evidenziazione dei contributi del singolo nell’ambito
della coppia, dell’importanza di un apporto che non perde ir‑
reversibilmente il legame con il suo autore, ma anche, anzi, è a
lui riconducibile.
Quando il coniuge, allora, paga l’intero importo dei lavori
di ristrutturazione dell’abitazione ove si svolgerà la vita fami‑
liare, esso, in quanto soggetto giuridico, vanta un credito nei
57 Bonilini, Tommaseo, Lo scioglimento del matrimonio, cit. 723 e secondo la
riflessione contenuta nello scritto, “tale ripologia di intese realizza, a ben vedere,
quella compensazione convenzionale dei sacrifici affrontati nell’interesse della
famiglia”.
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confronti dell’altro coniuge, perché è un esborso che ha realiz‑
zato con propri mezzi. Questo credito, come è scritto nella
sentenza, subisce una sorta di quiescenza, una “sospensione”,
durante il matrimonio proprio perché ogni singolo ha il dovere
di contribuire per il mantenimento della famiglia e ogni suo
sacrificio si presume sorretto dalla volontà di garantire una
serena prosecuzione della vita familiare.
Quando, però, si ha quello che viene definito dalla Corte il
“fallimento” del matrimonio, l’agire dei coniugi non è più
orientato dai doveri di cui agli artt. 143 e ss cc. e tornano at‑
tuali quegli originari rapporti di credito‑debito.
Ciò posto, il compito dell’operatore pratico è consentire
l’emersione e la definizione di questi rapporti in un momento
anteriore alla crisi coniugale che, per l’elevato tasso di conflit‑
tualità che la connota, renderebbe difficile trovare un accordo.
In altre parole, all’esito di un divorzio, mai un coniuge ricono‑
scerebbe che i lavori di ristrutturazione sono stati pagati inte‑
ramente dall’altro obbligandosi alla restituzione della som‑
ma.
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Per tale motivo, è opportuno operare prima della crisi, ed
anzi, ancor prima della celebrazione delle nozze e del sorgere
del vincolo di solidarietà, consentendo l’emersione dell’indivi‑
dualità dell’apporto con un negozio di riconoscimento di debi‑
to.
In tale negozio il nubendo riconosce che un esborso è stato
effettuato interamente dall’altro per assolvere ai doveri contri‑
butivi discendenti dal matrimonio e si obbliga così alla restitu‑
zione della somma quando, col divorzio, verrà meno quella
quiescenza dei rapporti creditori.
Ma c’è di più. In tale contratto è possibile, alla luce della
pronuncia in esame, definire in anteparte le modalità di adem‑
pimento dell’obbligazione, convenendo anche, a titolo di datio
in solutum, il trasferimento di un immobile da parte del futuro
sposo debitore, sotto condizione sospensiva dell’avvenuto di‑
vorzio.
La condizione de qua è di imprescindibile apposizione
perché armonizza un sistema nel quale esiste un rapporto giu‑
ridico ma ad esso non può essere data immediata attuazione.
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D i r i t t o
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Rassegna di legittimità
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A cura di Corrado d’Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
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Fallimento e procedure concorsuali – Amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi – Decreto di inammissibilità
della domanda di dichiarazione dello stato di insolvenza – Reclamo alla corte d’appello – Ammissibilità – Requisito dimensionale – Accertamento in ordine alla singola impresa pur inserita in un
“gruppo” – Necessità
Intervenendo in tema di amministrazione straordinaria
delle grandi imprese in crisi, la Suprema Corte ha sancito la
reclamabilità alla Corte di Appello del decreto con cui sia ri‑
tenuta inammissibile, per difetto dei requisiti indicati dall’art. 2,
lettere a) e b), del d. lgs. 8 luglio 1999, n. 270, la domanda di
dichiarazione dello stato di insolvenza senza la contestuale
dichiarazione di fallimento della stessa impresa, riconoscendo
la legittimazione a proporlo a quest’ultima, e precisando, al‑
tresì, che il requisito dimensionale indicato nell’art. 2, lettera
a), del citato decreto va accertato con riferimento alla singola
impresa richiedente e non con riguardo al gruppo del quale
essa eventualmente faccia parte, escludendosi, inoltre, dal
computo dei dipendenti occupati nell’ultimo anno quelli che
lavorano nelle aziende cedute in affitto a terzi.
Cass. civ., sez. I, sentenza 15 marzo 2013, n. 6648
Pres. Vitrone, Est. Ceccherini
Fallimento e procedure concorsuali – Cooperativa mutualistica – Dichiarazione d’insolvenza – Limite di euro trentamila dei
debiti scaduti e non pagati – Applicabilità – Esclusione
La dichiarazione d’insolvenza di una società cooperativa
esclusivamente mutualistica, a norma dell’art. 195 della legge
fallimentare, non è impedita dalla circostanza che l’ammon‑
tare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti
dell’istruttoria prefallimentare sia complessivamente inferio‑
re a euro trentamila, non applicandosi in tal caso l’art. 15,
ultimo comma, della legge medesima.
Cass. civ., sez. I, sentenza 22 aprile 2013, n. 9681
Pres. Rordorf, Est. Ceccherini
Fallimento e procedure concorsuali – Dichiarazione di fallimento – Istanza del P.M. a seguito di segnalazione del Tribunale – Ammissibilità
Le Sezioni Unite, pronunciandosi su questione di massima
di particolare importanza, hanno enunciato il principio di
diritto secondo cui è legittima la dichiarazione di fallimento
intervenuta su istanza del pubblico ministero, inoltrata a se‑
guito di segnalazione compiuta dal tribunale nell’ambito di
procedura prefallimentare.
Cass. civ., sez. un., sentenza 18 aprile 2013, n. 9409
Pres. Preden, Est. Piccininni
Famiglia – Decreto del Tribunale di revisione delle disposizioni
sullo scioglimento del matrimonio – Esecutività immediata – Sussistenza
Le Sezioni Unite hanno affermato il principio di diritto
secondo cui il decreto pronunciato dal tribunale in materia di
revisione delle disposizioni sui figli e sui contributi da corri‑
spondere in caso di scioglimento e cessazione degli effetti del
matrimonio, previsto dall’art. 9 della legge n. 898 del 1970, è
immediatamente esecutivo, in conformità alla regola generale
desumibile dall’art. 4 della stessa legge, che è incompatibile
con la disposizione comune dell’art. 741 c.p.c. in tema di
procedimenti camerali, il quale subordina l’efficacia esecutiva
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al decorso del termine per la proposizione del reclamo.
Cass. civ., sez. un., sentenza 26 aprile 2013, n. 10064
Pres. Preden, Est. Ceccherini
Impugnazioni civili – Appello – Atto di appello – Avvertimento ex
art. 163, comma 3, n. 7, c.p.c. – Necessità – Esclusione
Le Sezioni Unite, risolvendo un contrasto, hanno enuncia‑
to il principio secondo cui l’art. 342 c.p.c., nel testo derivante
dall’art. 50 della legge n. 353 del 1990 e prima delle modifiche
apportate dall’art. 54 d.l. n. 83 del 2012 (conv. nella l. n. 134
del 2012), non richiede anche lo specifico avvertimento pre‑
scritto dal terzo comma dell’art. 163, n. 7, c.p.c., per il quale
la costituzione del convenuto oltre i termini previsti implica le
decadenze di legge nel giudizio di primo grado.
Cass. civ., sez. un., sentenza 18 aprile 2013, n. 9407
Pres. Preden, Est. Amoroso
Obbligazioni – Adempimento del terzo – Efficacia – Opposizione
del debitore – Rifiuto del creditore – Rilevanza – Condizioni
L’adempimento del terzo è efficace, qualora né l’opposi‑
zione del debitore, né il rifiuto del creditore, siano giustifica‑
bili alla luce del principio di correttezza.
Cass. civ., sez. II, sentenza 30 gennaio 2013, n. 2207
Pres. Felicetti, Est. Carrato
Procedimento civile – Domanda di risarcimento del danno – Chiamata in causa del proprio assicuratore della responsabilità civile
da parte del convenuto – Intempestiva riassunzione della domanda di garanzia – Estensione dell’effetto estintivo anche alla domanda principale
Le Sezioni Unite, pronunciandosi su questione di massi‑
ma di particolare importanza, hanno enunciato il seguente
principio di diritto: “Nel processo con pluralità di parti cui
dà luogo la chiamata in causa dell’assicuratore prevista
dall’art. 1917, quarto comma, c. c., l’evento interruttivo che
in primo grado colpisca l’assicuratore determina la sola in‑
terruzione del giudizio relativo alla domanda di indennità,
ancorché il processo debba essere mantenuto in stato di rinvio
sino alla scadenza del termine per la prosecuzione da parte
dei successori del chiamato o della riassunzione da parte del
chiamante; conseguentemente, l’onere della riassunzione
grava sul convenuto che ha eseguito la chiamata in causa e,
mancata ad opera di alcuna delle parti attività processuale
utile alla prosecuzione del relativo giudizio, il processo di
estingue solo per la parte che riguarda la domanda proposta
con la chiamata in causa”.
Cass. civ., sez. un., sentenza 22 aprile 2013, n. 9686
Pres. Preden, Est. Spirito
Procedimento civile – Questione di legittimità costituzionale
sollevata in altro giudizio – Sospensione – Riassunzione – Termine – Decorrenza
Il termine per la riassunzione del giudizio, sospeso in
ragione della questione di legittimità costituzionale sollevata
nell’ambito di un diverso giudizio, decorre dalla pubblicazio‑
ne della sentenza della Corte costituzionale sulla Gazzetta
Ufficiale e non dalla notificazione operata dalla parte inte‑
ressata alle controparti.
Cass. civ., sez. I, sentenza 26 marzo 2013, n. 7580
Pres. Vitrone, Est. Bernabai
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Procedimento civile – Richiesta di informazioni alla p.a. ex art. 213
c.p.c. – Utilizzabilità per acquisire documenti cui le parti hanno
diritto di accedere – Esclusione – Conseguenze – Rapporti di sinistri
stradali redatti dalle forze di polizia – Acquisibilità ai sensi della
suddetta norma – Esclusione
Con una importante decisione (la prima espressamente
pronunciata sul punto), la Corte di cassazione ha stabilito che
l’art. 213 c.p.c., il quale consente al giudice di richiedere atti
ed informazioni alla pubblica amministrazione, non può esse‑
re utilizzato come uno strumento per sollevare le parti dall’one‑
re probatorio su di esse incombente e che, pertanto, le parti
stesse non possono sollecitare l’esercizio, da parte del giudice,
di tale potere officioso per acquisire documenti che potevano
ottenere direttamente dall’amministrazione. Da questo princi‑
pio generale, si fa discendere l’importante corollario che, nel
caso di controversie risarcitorie scaturenti da sinistri stradali,
le parti non possono pretendere che sia il giudice a disporre
l’acquisizione d’ufficio, ai sensi della menzionata disposizione,
del rapporto eventualmente redatto in occasione del sinistro
dalle forze di polizia, giacché tale documento può essere diret‑
tamente acquisito dalle parti, giusta l’espressa previsione in tal
senso dell’art. 11 Codice della Strada
Cass. civ., sez. III, sentenza 12 marzo 2013, n. 6101
Pres. Finocchiaro, Est. Carleo
Processo civile – Notificazione a persona giuridica – Notifica a
mezzo posta a convivente del legale rappresentante
La notificazione a persona giuridica è validamente effet‑
tuata a mezzo posta al legale rappresentante della stessa, la
cui qualità e residenza siano indicati nell’atto, in caso di
consegna a mani di un familiare convivente con il destinata‑
rio, dovendo presumersi che l’atto sia giunto a conoscenza
dello stesso e restando irrilevante ogni indagine sulla ricon‑
ducibilità del luogo di detta consegna fra quelli indicati
dall’art. 139 c.p.c.
Cass. civ., sez. lav., sentenza 13 marzo 2013, n. 6345
Pres. Roselli, Est. Stile
Proprietà – Domanda di costituzione coattiva di servitù di passaggio su fondi appartenenti a diversi proprietari – Proposizione nei
confronti di uno solo di essi – Conseguenze
Le Sezioni Unite, risolvendo il contrasto rimesso dalla
Seconda sezione con ordinanza n. 6764 del 2012, hanno
affermato che la domanda di costituzione coattiva di servitù
di passaggio deve essere contestualmente proposta nei con‑
fronti dei proprietari di tutti i fondi che sia necessario attra‑
versare per il collegamento con la strada pubblica, dovendo,
in mancanza, essere respinta, perché diretta a far valere un
diritto inesistente.
Cass. civ., sez. un., sentenza 22 aprile 2013, n. 9685
Pres. Preden, Est. Bucciante
Stranieri – Straniero regolarmente soggiornante – Capacità all’acquisto dell’abitazione – Condizione di reciprocità – Irrilevanza
Lo straniero, titolare del permesso di soggiorno, ha la
capacità negoziale per l’acquisto dell’immobile da destinare
a propria abitazione, senza che rilevi la condizione di reci‑
procità di cui all’art. 16 delle preleggi.
Cass. civ., sez. II, sentenza 21 marzo 2013, n. 7210
Pres. Oddo, Est. Giusti
civile
Gazzetta
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D i r i t t o
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Rassegna di merito
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A cura di Mario De Bellis
e Daniela Iossa
Avvocati
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Gazzetta
F O R E N S E
Attribuzione dello status di rifugiato politico e/o del diritto di
asilo – Impossibilità parziale – Interposizione di appello ad ordinanza di rigetto – Procedimento ordinario – Domanda di asilo e
domanda di rifugiato – Connessione oggettiva
1. L’appello avverso l’ordinanza emessa dal giudice di
prime cure soggiace alla disciplina di cui all’art. 702 quater
c.p.c. e, quindi, esso va introdotto con atto di citazione. Ciò
in quanto se è pur vero che l’art. 702 quater c.p.c., nel disci‑
plinare il giudizio di impugnazione contro l’ordinanza emes‑
sa all’esito del procedimento sommario di cognizione, non
contiene nessuna disposizione sul rito da applicare, è altret‑
tanto vero che dottrina e giurisprudenza (Corte Appello
Roma, sez. III 11.05.2011 n. 2089) hanno ritenuto che l’as‑
senza di specifiche disposizioni al riguardo, comporta la
soggezione del gravame alle regole ordinarie (cfr. combinato
disposto dell’art. 342 e art. 359 c.p.c.). La ratio di siffatta
interpretazione va rinvenuta nel rilievo che, in mancanza di
espressa volontà legislativa, non sarebbe consentito estende‑
re i tratti di sommarietà previsti per il primo grado anche al
giudizio di appello, dovendosi al contrario ritenere che il ri‑
chiamo contenuto nell’art. 359 c.p.c, lungi dall’omologare,
nei tratti di sommarietà previsti, i due gradi di giudizio, si‑
gnifica invece applicazione nel giudizio di appello della
normativa prevista in materia di cognizione ordinaria (cfr.
Corte di Appello di Reggio Calabria, 1 marzo 2012).
2. Asilo e rifugio politico, pur avendo connotazioni diver‑
se, sono tuttavia accomunati sotto il profilo procedimentale,
posto che la domanda di asilo deve essere assistita dalle me‑
desime formalità previste per il riconoscimento dello status di
rifugiato… tra le due figure – quella dell’asilante e quella del
preteso rifugiato – vi è in via di principio una connessione
oggettiva, data dal vincolo di diretta strumentalità della prima
rispetto alla seconda, con l’effetto che (cfr. Cass. n. 25028/05,
Cass. n. 26278/05, Cass. n. 18353/06 e Cass. n. 18549/06) il
diritto di asilo deve intendersi come diritto di accedere nel
territorio dello Stato al fine di esperire la procedura per otte‑
nere lo status di rifugiato, sicché, una volta negativamente
risolto in sede processuale il tema della sussistenza dei presup‑
posti per il riconoscimento dello status di rifugiato, non vi è
spazio residuo per l’apprezzamento della (subordinata e/o
alternativa) istanza di asilo, di talché il permesso di soggiorno
temporaneo a tal fine rilasciato non può che essere immedia‑
tamente, e del tutto legittimamente, revocato. Ne consegue
che respinta la domanda di protezione del preteso rifugiato
non può essere accolta quella di asilo politico.
App. Napoli, sez. Persone e Famiglia, sentenza 22 febbraio
2013
Pres. C. Montella, Rel. A. Cocchiara
Medici specializzandi – Danni da omessa o tardiva trasposizione
di direttive comunitarie non auto esecutive – Legittimazione
passiva – Prescrizione ordinaria del diritto
1. Il diritto al risarcimento dei danni per omessa o tardiva
trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine
prescritto delle direttive comunitarie non autoesecutive, va
ricondotto allo schema della responsabilità contrattuale per
inadempimento dell’obbligazione “ex lege” dello Stato, di
natura indennitaria. Ne consegue che, essendo lo Stato italia‑
no l’unico responsabile di detto inadempimento e, dunque,
l’esclusivo legittimato passivo in senso sostanziale, non è
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
configurabile una responsabilità degli altri Ministeri conve‑
nuti (in tal senso cfr. 23558/11).
2. In tema di responsabilità dello Stato per mancato re‑
cepimento di direttive comunitarie, la norma introdotta
dall’art. 4, comma 43, della L. n. 183 del 2011, secondo la
quale la prescrizione del diritto al risarcimento del danno
soggiace al termine quinquennale ex art. 2947 c.c., vale
soltanto per i fatti verificatisi successivamente alla sua entra‑
ta in vigore, poiché essa non evidenzia i caratteri della norma
interpretativa, idonei a sottrarla al principio di irretroattivi‑
tà; ne consegue che, per i fatti anteriori alla novella, opera la
prescrizione decennale, secondo la qualificazione giurispru‑
denziale nei termini dell’inadempimento contrattuale.
Trib. Napoli, sez. X, sentenza 28 gennaio 2013
Giud. B. Garcia
Procura contenuta in foglio separato – Validità – Esclusione dalla
qualità di socio della cooperativa – Diritto alla restituzione delle
somme anticipate – Rivalutazione monetaria – Esclusione
1. La procura si considera apposta in calce anche se rilascia‑
ta su foglio separato che sia però congiunto all’atto cui si riferi‑
sce. Tale congiunzione si sostanzia in fatti e circostanze dalle
quali desumere con ragionevole certezza la provenienza dalla
parte del potere di rappresentanza conferito all’avvocato.
2. Gli esborsi effettuati per il conseguimento dei singoli
beni o servizi prodotti dalla società pongono il socio nella
posizione di creditore della cooperativa. Pertanto, una volta
avvenuto lo scioglimento del rapporto sociale o per recesso
del socio o per la sua esclusione, egli ha diritto alla restitu‑
zione delle somme anticipate (Cass. 6 dicembre 2000
n. 15489). Quando a seguito della risoluzione del contratto
sorge l’obbligo della restituzione delle somme già versate, per
essere venuta meno la causa giustificatrice dell’attribuzione
patrimoniale, tale obbligazione è debito di valuta e, come
tale, insensibile alle variazioni del potere d’acquisto della
moneta ed insuscettibile, quindi, di rivalutazione.
App. Napoli, sez. III, sentenza 24 febbraio 2013
Pres. R. Giordano, Rel. C. Gabriele
Provvedimento illegittimo – Responsabilità della pubblica amministrazione – Insufficienza mero dato obiettivo – Lesione di diritti riflessi – Sussistenza del diritto al risarcimento dei danni non
patrimoniali dei prossimi congiunti
1. Ai fini dell’imputazione a responsabilità della P.A. di
un evento dannoso, non è sufficiente il mero dato obiettivo
dell’illegittimità del provvedimento, richiedendosi una più
penetrante indagine in ordine alla valutazione della colpa che,
unitamente al dolo, costituisce requisito essenziale della re‑
sponsabilità aquiliana (cfr. Cass. 27.05.2009, n. 12282;
Cass. 15.03.2007, n. 6005).
2 0 1 3
45
2. Nell’ipotesi in cui il fatto illecito abbia comportato, in
via diretta e immediata, la lesione dei c.d. diritti riflessi di
cui siano portatoli soggetti diversi dalla vittima iniziale del
fatto ingiusto, spetta agli stessi, in proprio, il diritto al risar‑
cimento dei danni non patrimoniali, in quanto prossimi
congiunti del soggetto leso. Vengono in questione in tal caso
molteplici profili, quali il diritto del coniuge a regolari rap‑
porti coniugali, nell’ambito dei reciproci doveri di assistenza
materiale e morale, che trova riscontro nell’art. 143 c.c.,
ovvero in caso di azione dei figli il diritto all’educazione e ad
un sano sviluppo psicofisico, imposto dall’art. 147 c.c. a
carico di entrambi i genitori (Cass. 17.09.1996, n. 8305).
Trib. Napoli, sez. X, sentenza 28 gennaio 2013
Giud C. Sorrentini
Reddito di cittadinanza – Diritto soggettivo perfetto – Giurisdizione del giudice ordinario – Natura assistenziale del beneficio – Incompetenza del Giudice di pace
1. Sono devolute alla cognizione del Giudice ordinario le
controversie dirette al riconoscimento ed alla corresponsione
del reddito di cittadinanza (cfr. Cass., sez.un. 09.07.2010,
n. 18460). Trattasi della prestazione di un diritto sociale fon‑
damentale che spetta, nei limiti delle risorse disponibili, ai
soggetti che, in presenza delle condizioni previste, “ne fanno
richiesta”. Si configura, pertanto, in capo a tali soggetti, un
diritto soggettivo perfetto che trova la sua fonte direttamente
nella legge ed il cui riconoscimento non presuppone alcun
potere discrezionale della Pubblica Amministrazione, la quale
è tenuta, unicamente, a verificare la sussistenza delle condi‑
zioni reddituali e l’inserimento degli aventi diritto negli appo‑
siti elenchi predisposti dai Comuni sulla base delle domande
ricevute. La conseguenza che ne deriva è che tali controversie
rientrano senz’altro nella giurisdizione del Giudice ordinario,
configurandosi una cognizione su diritti soggettivi perfetti.
2. Le controversie concernenti tale beneficio appartengo‑
no alla competenza del Tribunale in funzione di giudice del
lavoro in quanto il reddito di cittadinanza costituisce una
prestazione di natura sicuramente assistenziale per la quale
trova applicazione l’art. 442 c.p.c. Infatti, ha sottolineato la
Corte come i provvedimenti legislativi in materia di reddito
di cittadinanza evidenzino la sussistenza di un nesso funzio‑
nale tra i servizi sociali, quali che siano i settori di intervento,
(famiglia, minori, anziani, emarginati, indigenti) e la rimo‑
zione o il superamento di situazioni di svantaggio o di biso‑
gno, per la promozione del benessere fisco o psichico della
persona, a prescindere dalla sua occupazione lavorativa o
dalla costituzione di un rapporto assicurativo e dalla natura
temporanea della prestazione.
Trib. Napoli, sez. X, sentenza 25 gennaio 2013
Giud. C. d’Ambrosio
civile
Gazzetta
46
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
In evidenza
CASSA ZIONE CIVILE , SEZ . I, 14 settembre 2012
n. 15449
Pres. C. Carnevale, Rel. A. Scaldaferri
Obbligazioni e contratti – Requisiti essenziali – Causa del contratto – Indagine in astratto – Inconfigurabilità – Indagine in concreto – Necessità
L’indagine sulla obiettiva funzione economico‑sociale di
un contratto va svolta non “in astratto” ma “in concreto”,
Nota redazionale a cura di Pietro d’Alessandro (Avvocato)
(1) La Corte di Cassazione conferma l’orientamento, sino a poco tempo fa pacifi‑
co, secondo cui la causa consiste nella funzione economico – sociale del con‑
tratto, in contrasto con il diverso avviso di recente affermato in numerose
massime – che rappresenta un superamento della tradizionale nozione di causa
tipica – per il quale la causa va considerata come lo scopo pratico del negozio
(causa cd concreta), cioè come funzione economico individuale della singola e
specifica negoziazione quale emerge dalla sintesi degli specifici interessi che il
contratto è volto a realizzare [Cass., 01.04.2011, n. 7557, Guida al Dir., 2011,
23,72; Cass. 12 novembre 2009, n. 23941, Guida al Dir., 2009, 50, 55; Cass. 8
maggio 2006, n. 10490, Riv. Not., 2007, 1, 184].
Abbandonata la concezione soggettiva della causa come scopo per il quale la
parte assume l’obbligazione ed interpretata la figura in termini di oggettiva
funzione del contratto, secondo l’opinione che ha avuto a lungo maggior for‑
tuna la causa consiste nella ragione e funzione economico‑sociale del contratto
che ne caratterizza il tipo (tipica in questo senso) e ne determina il contenuto
minimo necessario [Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1960,
pp 184 e ss; Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli,
1966, 170; Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1985, 166; Mirabelli, Comm. Cod Civ, 1980, Torino, 156].
In questa prospettiva, la causa coincide con il tipo legale, cioè con l’astratta
descrizione che di ciascun contratto viene di volta in volta data dal legislato‑
re.
La teoria, almeno nella sua formulazione originaria, rispondeva all’esigenza di
tipo politico di sottrarre all’autonomia privata la delimitazione del contenuto
minimo indispensabile del negozio giuridico, di modo che non fosse consentito
alle parti di stralciarne elementi che costituiscono parte integrante della sua
funzione tipica o di conferire efficacia ad atti che non risultano idonei a creare
vincoli giuridici (Betti, op. cit., p. 185) e costituiva, per molti versi, il riflesso
nella regolamentazione dei rapporti privati delle concezioni dei rapporti tra
cittadino e Stato propri della filosofia idealista (Galgano, Recensione a G.B.
Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Riv. dir. civ., 1969, I,
p.424).
Si trattava della medesima scelta ideologica che ha portato il legislatore a scin‑
dere artificiosamente e regolare separatamente due elementi, il contenuto e gli
effetti del contratto che rappresentano invece solo momenti distinti della me‑
desima realtà, ossia il regolamento contrattuale; tale scissione risponde alla
particolare visione secondo la quale il ruolo dell’autonomia privata sarebbe
limitato alla determinazione del contenuto del contratto, mentre gli effetti
giuridici sarebbero dominio esclusivo della legge sottratto ad ogni competenza
dispositiva dei privati (Roppo, Digesto delle Discipline privatistiche, Sezione
civile, voce “contratto”, Torino, sd ma 1989, p.114).
Della concezione della causa tipica hanno tenuto conto i compilatori del codi‑
ce civile che dichiararono espressamente di preferirla.
Si legge nella relazione al codice civile che la causa “è la funzione economico‑so‑
ciale che il diritto riconosce rilevante ai suoi fini e che sola giustifica la tutela
dell’autonomia privata.” (n. 613).
Il fine politico del legislatore viene espressamente enunciato dal relatore, per il
quale la funzione del contratto deve essere “non soltanto conforme ai precetti
di legge, all’ordine pubblico e al buon costume ma anche, per i riflessi diffusi
dall’art 1322 cc secondo comma, rispondente alle necessità che il fine intrinse‑
co del contratto sia socialmente apprezzabile e come tale meritevole della tute‑
la giuridica” (n. 613); l’impostazione risente della particolare concezione
dell’autonomia privata del legislatore dell’epoca, per il quale se “si traggono le
logiche conseguenze dal principio corporativo che assoggetta la libertà del
singolo all’interesse di tutti, si scorge che, in luogo del concetto individualistico
di signoria della volontà, l’ordine nuovo deve accogliere quello più proprio di
autonomia del volere. L’autonomia del volere non è sconfinata liberà del pote‑
re di ciascuno, non fa del contratto un docile strumento della volontà privata;
ma, se legittima nei soggetti un potere di regolare il proprio interesse, nel con‑
tempo impone ad essi di operare sempre sul piano del diritto positivo, nell’or‑
bita delle finalità che questo sanziona e secondo la logica che lo governa”
(n. 603).
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
onde verificare la conformità alla legge dell’attività negoziale
posta in essere dalle parti e, quindi, la riconoscibilità nella
specie della tutela apprestata dall’ordinamento giuridico. [1]
Cass. civ., sez. I, 14 settembre 2012 n. 15449
Svolgimento del processo
1. Con contratto del 18 luglio 1996 la s.p.a. S. – S. f. f. i.
concesse in mutuo alla s.r.l.F. F. la somma di lire 100 milioni
con piano di ammortamento in rate bimestrali per ventiquattro
mesi, garantito dalla dazione in pegno di una quota pari
all’84,21% del capitale sociale della C.P. s.r.l., per un valore di
lire 80 milioni, della quale la mutuataria era titolare. Nell’ago‑
La predisposizione ad opera del legislatore della causa per ogni tipo di contrat‑
to aveva allora lo scopo di approntare un controllo preventivo ed astratto
della corrispondenza del contratto alle finalità garantite dall’ordinamento
giuridico, cioè di verificare se il risultato pratico che i soggetti si propongono
di perseguire “sia ammesso dalla coscienza civile e politica, dall’economia na‑
zionale, dal buon costume e dall’ordine pubblico” (Relaz., n. 603).
Venute meno le ragioni di stampo ideologico sottese a tale interpretazione, la
dottrina ha iniziato a ritenere insoddisfacente la teoria della causa tipica che
priva il requisito di ogni concreta utilità con riferimento ai contratti tipici; solo
nel campo della atipicità [che peraltro si presenta marginale nell’esperienza
giuridica: Rescigno, Introduzione al codice civile, Laterza, 1991, 513] essa
conserverebbe un ruolo attivo perché manca l’astratta descrizione legislativa
dell’operazione economica.
L’impostazione soprattutto porta a limitare l’ipotesi della illiceità della causa ai
contratti atipici; per i contratti tipici il fatto stesso della previsione normativa
ne attesterebbe la liceità (Trabucchi, op. cit., 168; Mirabelli, op. cit.,
p.161).
Per il Relatore al codice “un controllo sulla corrispondenza obbiettiva del
contratto alle finalità garantite dall’ordinamento giuridico è inutile se le parti
utilizzano i tipi contrattuali, legislativamente nominati e specificamente disci‑
plinati: in tal caso la corrispondenza stessa è stata apprezzata e riconosciuta
dalla legge con disciplinare il tipo particolare di rapporto, e resta allora da in‑
dagare, come si dirà più avanti (n. 614), se per avventura la causa considerata,
non esista in concreto o sia venuta meno.
Quando il contratto non rientra in alcuno degli schemi tipici legislativi, essendo
mancato il controllo preventivo ed astratto della legge sulla rispondenza del
tipo nuovo di rapporto alle finalità tutelate, si palesa invece necessaria la valu‑
tazione del rapporto da parte del Giudice, diretta ad accertare se esso si adegui
ai postulati dell’ordinamento giuridico” (n. 603).
Il legislatore ha probabilmente avvertito la necessità di regolare l’ipotesi del
contratto in frode alla legge – peraltro con disposizione (art 1344 c.c.) che
pone gravi problemi di concretizzazione e di inserimento nella teoria generale
del contratto, non contenendo una definizione della figura [Morello, “Frode
alla legge”, in Digesto delle Discipline Privatistiche, Sez. Civ., Vol VIII, Torino,
sd ma 2001, p.501] – perché costrettovi dal fatto di aver prescelto una nozione
della causa coincidente con il tipo legale; se il contratto tipico non può mai
avere, per definizione, causa illecita, è stato necessario approntare un rimedio
per colpire l’atto che, pur presentando una astratta liceità, persegua un risulta‑
to economico in contrasto con un divieto di legge. A ciò si deve la terminologia
della legge: la causa “si reputa” illecita non potendo ammettersi che essa “sia”
illecita.
Sul piano sistematico, la teoria della causa tipica non riesce a spiegare come
l’art 2126 cc abbia potuto prevedere l’illiceità della causa di un contratto tipico,
quale quello di lavoro.
L’impostazione è stata ritenuta anche fuorviante e fonte di inutili equivoci
perché confonde concetti che operano su piani diversi e pongono problemi
diversi.
Il tipo fa nascere un problema di qualificazione del contratto per risolvere il
quale si deve in primo luogo verificare l’esistenza di una pattuizione che rispon‑
da in astratto ai requisiti posti da uno schema tipico, al fine di stabilire la
normativa applicabile; in secondo luogo, si deve verificare se quel determinato
schema tipico sia o meno presente in concreto; in terzo luogo, si deve verificare
l’esistenza o meno di un accordo in ordine al contenuto tipico del contratto
perché, in caso di assenza, è inesistente lo stesso schema vincolante [Gazzoni,
Manuale di diritto privato, Napoli 2004, p.791]
Nessuno di questi problemi può essere risolto facendo riferimento alla funzio‑
ne assolta dal contratto.
La causa pone invece il diverso problema della valutazione dei concreti interes‑
si che le parti intendono perseguire con la concreta operazione economica per
stabilirne la liceità o illiceità.
L’indagine sul tipo, che serve a stabilire la configurabilità dell’operazione è
necessariamente astratta e statica, poiché richiede un raffronto tra lo schema
costruito dai privati e lo schema delineato dal legislatore mentre il giudizio
sulla causa è concreto e dinamico poiché implica un raffronto tra interessi
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 3
47
sto 1997, non avendo la F. F. – nel frattempo posta in liquida‑
zione – provveduto al pagamento dei primi due ratei di rimbor‑
so, la S. s.p.a. la convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di
Milano per sentir disporre l’assegnazione ad essa mutuante, in
pagamento dell’intero debito restitutorio, della quota sociale
data in pegno dalla mutuataria, in attuazione della espressa
clausola contrattuale che prevedeva tale diritto.
La società convenuta si costituì deducendo che aveva
inutilmente tentato il versamento della somma dovuta, prov‑
vedendo anche ad offerta reale; chiese quindi l’accertamento
dell’avvenuto adempimento e della liberazione di essa debitri‑
ce – oltre allo svincolo della quota sociale data in pegno – con
condanna della controparte al risarcimento dei danni. Nel
giudizio, riunito ad altro promosso dalla F. F. per la convalida
dell’eseguita offerta reale di lire 112 milioni, intervennero
volontariamente C.G. – acquirente delle quote corrisponden‑
ti all’intero capitale sociale della C.P.srl – per aderire alla
posizione della F. F., e la s.r.l. B. F. di r., cessionaria del cre‑
dito fatto valere da S. s.p.a..
Il Tribunale, espletata c.t.u. ai fini della determinazione
della somma dovuta e del valore della quota sociale data in
pegno, ritenne inammissibile la questione di nullità del con‑
tratto di mutuo – in quanto sollevata tardivamente dalla F. F.
e dal C., peraltro sulla base di documentazione tardivamente
perseguiti nel caso concreto dai privati ed interessi ritenuti leciti e protetti
dall’ordinamento, quindi il giudizio sulla causa implica un’attività valutativa,
a differenza di quello sul tipo, che richiede un’attività conoscitiva (Gazzoni,
Atipicità del contratto, giuridicità del vincolo e funzionalizzazione degli inte‑
ressi, Riv. dir. civ., 1978, I, 955, nt 61]
Frutto di tale commistione concettuale tra giudizi diversi, secondo alcuni, è la
previsione normativa della nullità del contratto per mancanza di causa (Gazzoni, Atipicità, cit, 948 e 954).
La causa, si afferma, non può mai mancare se il tipo è individuabile; le ipotesi
comunemente ricondotte al difetto causale si risolvono invece in mancanza del
tipo e quindi costituiscono ipotesi di inconfigurabilità dello schema regolamen‑
tare e quindi di impossibilità di procedere positivamente alla qualificazione
dell’operazione economica: la compravendita di cosa già di proprietà dell’ac‑
quirente non presenta il requisito dello scambio che è elemento costitutivo del
tipo legale, non già in concreto ma in astratto; non è configurabile un contrat‑
to di assicurazione contro il rischio dell’incendio, quando il bene è già bruciato,
per difetto di danno; non è configurabile il tipo per l’inutilità (e quindi impos‑
sibilità) della garanzia fideiussoria rilasciata dal socio illimitatamente respon‑
sabile di una società di persone.
Per tutti i limiti che manifesta la ricostruzione della causa in termini di funzio‑
ne economico‑sociale la dottrina ha elaborato una diversa teoria.
In base a detta impostazione, la causa non è la ragione astratta ma la funzione
concreta che il singolo contratto è diretto ad attuare (GB Ferri, Causa e tipo
nella teoria del negozio giuridico, Milano 1966, 345; Id, Il codice italiano del
1942 e l’ideologia corporativa fascista, in Europa e dir. priv., 2012, 02, 319;
Id., Motivi, presupposizione e l’idea di meritevolezza, in Europa e dir. priv,.
2009, 02 331, dove l’autore chiarisce che l’interpretazione della causa in una
dimensione economico‑individuale viene consentita anche da un passaggio
della Relazione al cod. civ. (n. 613) laddove si sottolinea come la causa, nella
sua dimensione funzionale, debba corrispondere «alla necessità che il fine in‑
trinseco del contratto sia socialmente apprezzabile e come tale meritevole di
tutela»; il fine intrinseco del contratto per l’A. non può che consistere nello
scopo pratico individuale perseguito dai contraenti).
Ricercare l’effettiva funzione pratica del contratto vuol dire avere riguardo
all’interesse concretamente perseguito dalle parte e che, pure tacitamente, rien‑
tra tra le finalità dell’operazione economica.
La teoria risulta ormai maggioritaria, se non unanime, in dottrina (Bianca,
Diritto Civile, Il Contratto, Milano, 2000, 452 e ss; Gazzoni, Manuale di
diritto privato, Napoli, 2004, 788; Roppo, Il Contratto, Trattato di diritto
privato a cura di Iudica e Parri, Milano 2001, 364; Id, voce “Contratto”, Di‑
gesto Discipline Privatistiche, Sezione Civile, vol IV, Milano, sd ma 1987, 114;
Gabrielli, L’operazione economica nella teoria del contratto, in Riv. trim. dir.
proc. civ. 2009, 03, 905).
L’opinione muove dal presupposto che la tipizzazione di una struttura negozia‑
le individua solo l’interesse che essa normalmente realizza, nel senso che nor‑
malmente quando si richiama un tipo di attività si richiama anche il tipo di
interesse che essa persegue. Tale corrispondenza non è però necessaria, perché
ben può sussistere l’ipotesi in cui il privato, pur utilizzando uno schema tipiz‑
zato, lo modifichi per perseguire un interesse nuovo e diverso, purché merite‑
vole di tutela.
La causa allora non può essere fatta coincidere con il tipo se ad una struttura
tipica può corrispondere un interesse tipico, come normalmente accade, ma
anche un interesse extratipico.
La valutazione dell’atto negoziale deve quindi incentrarsi sulla natura dell’in‑
teresse che le parti perseguono.
La causa non è dunque la funzione economico‑ sociale ma, poiché anche il
negozio ha come atto individuale un valore, è la sua funzione economico‑indi‑
viduale, in quanto riguarda un’operazione che esprime esigenze ed interessi di
uno o più individui
La giurisprudenza per lungo tempo – e nonostante l’ampio dibattito dottrina‑
rio – ha mantenuto fermo il proprio convincimento sul fatto che la causa sia
l’astratta funzione‑economico sociale del contratto [Cass. 22 ottobre 2012,
n. 17478; Cass. 13 dicembre 2010, n. 25159; Cass. 5 giugno 2012,
n. 9046Cass. 20 agosto 2003 n. 12216; Cass. 4 aprile 2003 n. 5324; Cass. 19
marzo 1999 n. 2526; Cass. 15 luglio 1993 n. 7844, in Giur. it., 1995, I, 1, 734;
Cass. 15 giugno 1991 n. 6771; Cass. 18 febbraio 1983 n. 1244; Cass. 29
gennaio 1983 n. 826; Cass. 11 agosto 1980 n. 4921; Cass. 22 gennaio 1976
n. 185; Cass. 13 ottobre 1975 n. 3300; Cass. 7 aprile 1971 n. 1025, in Foro it.,
I, 2574; Cass. 16 ottobre 1968 n. 3317; Cass. 15 febbraio 1963 n. 331, in
questa Rivista, 1963, I, 736; Cass. 7 maggio 1955 n. 1299, ivi, 1955, I, 1075;
Cass. 28 febbraio 1946 n. 217].
In realtà la giurisprudenza ha spesso ribadito, come nella sentenza in esame,
che la nozione di causa come astratta funzione economico sociale non fa venir
meno la necessità di un giudizio sulla concreta utilizzazione di uno strumento
negoziale se, con esso, le parti perseguano uno scopo illecito [Cass. 5 aprile
2003, n. 5324, Gius civ mass, 2003, 4; Cass. 29 gennaio 1983, Giust civ mass,
1983 1; Cass. 11 agosto 1980, Giut civ, rep, 29].
In questo modo il richiamo alla causa nella sua connotazione astratta è dive‑
nuto sempre più un omaggio alla tradizione privo di incidenza effettiva nel
processo di qualificazione del contratto [Izzi, La causa del contratto come
funzione economico‑individuale, Giust. Civ. 2007, 1988].
Resta solo da accennare ad un ulteriore rilievo in tema di causa del contratto.
Dottrina [Giorgianni, Causa, Enciclopedia del diritto, Torino, sd ma 1961,
p. 565; Gazzoni, Manuale cit, 806/807; Mariconda, Il pagamento traslativo,
in Contratto e Impresa, 1988, p. 735] e giurisprudenza (Cass., sez. un., 18
marzo 2010, n. 6538, in Giur. Comm., 2011, 3,2,561 in motivazione) rilevano
che talvolta la giustificazione causale di uno spostamento patrimoniale non è
desumibile dal contesto dell’atto ma da elementi ad esso esterni e dunque si
atteggia diversamente.
Ciò accade, in particolare nelle ipotesi di pagamento traslativo, che si configu‑
ra quando il trasferimento della proprietà avviene in adempimento di un obbli‑
go preesistente.
L’esempio tipico è l’obbligo del mandatario di ritrasferimento immobiliare al
mandante ex art 1706 cc: l’atto traslativo, in questo caso, non ha una propria
causa ma adempie alla funzione gestoria ad esso esterna del contratto di man‑
dato.
Gli esempi sono comunque numerosi: l’obbligo di dare può discendere dalla
legge (art 746 quando il bene è reso in natura), da testamento (art 651 cc se il
dante causa conosceva l’altruità del bene), da regole morali o sociali (art 2034
cc quando si adempie col trasferimento di proprietà) o da contratto [es. di so‑
cietà (artt 2253 e 2254 per i conferimenti in proprietà; contratto fiduciario (per
il trasferimento dal fiduciante al fiduciario), mandato (art 1706 cc)].
La causa in questa tipologia di atti dunque è in realtà esterna al negozio attri‑
butivo che, pertanto, deve contenere l’indicazione dello scopo per il quale si
adempie (cd expressio causae) e dunque del negozio fondamentale.
La necessità di distinguere negozi fondamentali e negozi di attribuzione patri‑
moniale discende dal diverso modo di atteggiarsi della giustificazione causale e
dalla diverse conseguenze dei vizi della causa.
Nel caso di negozio fondamentale l’illiceità o il difetto di causa non potranno
che determinare un difetto strutturale che porta alla nullità dell’atto.
Nel negozio di attribuzione patrimoniale deve invece distinguersi. La mancan‑
za della expressio causae, quando cioè non viene indicato lo scopo del trasferi‑
mento, determina la nullità perché rende l’atto astratto.
L’assenza o il venir meno del rapporto esterno giustificativo, invece, non si ri‑
flette sul piano strutturale perché, come detto, la causa è esterna e dunque
l’atto è di per sé idoneo a creare effetti; l’assenza dell’elemento soggettivo che
costituisce il momento di imputazione dell’attribuzione (fondamento), allora
inciderà non sulla produzione degli effetti, poiché la fattispecie è completa, ma
sulla loro conservazione, nel senso che l’attribuzione diventa indebita ed il
solvens potrà agire in ripetizione (Giorgianni, op. cit., p. 570).
Le conseguenze disciplinari sono notevoli.
Nel caso di nullità per vizio o difetto di causa di contratti con causa interna il
disponente potrà agire l’azione di rivendica che ha natura reale e dunque è
esperibile erga omnes e non è soggetta ai limiti di cui all’art. 2038 nei confron‑
ti dei terzi subacquirenti.
Nel diverso caso in cui il trasferimento è divenuto indebito perché il negozio
attributivo è privo di fondamento, il solvens potrà agire solo con l’azione di
ripetizione dell’indebito che ha natura personale.
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depositata ‑, ma rigettò la domanda della S. s.p.a. (e della
cessionaria B. s.r.l.) per avere la stessa abusato del suo diritto,
ponendo in essere una condotta volta ad impedire alla debi‑
trice l’adempimento. Rigettò anche la domanda di convalida
dell’offerta reale della F. F. perché la somma offerta era, sia
pure in misura lieve (poco più di un milione di lire), inferiore
al dovuto.
Interposto appello da parte sia della B. s.r.l. sia della F. F.
s.r.l., e riuniti gli appelli, la Corte di Milano, con sentenza
depositata il 15 febbraio 2006, ha ammesso la questione di
nullità del contratto di mutuo pignoratizio in questione ed i
documenti prodotti al riguardo, ed ha accertato tale nullità,
per illiceità della causa. In tal senso, premesso che il contrat‑
to era intercorso in sostanza tra M.M., quale amministratore
della società mutuataria, ed il medesimo, quale mandante (e
fornitore della provvista) della fiduciaria mutuante S. in base
a scrittura privata in atti, ha osservato che tale contratto non
era diretto a svolgere l’obiettiva funzione sociale che lo con‑
traddistingue (anche perché non risultava neppure prospetta‑
ta la ragione del finanziamento, in un contesto nel quale la
società era priva di qualsiasi operatività e dei mezzi per resti‑
tuire la somma mutuata), bensì la diversa funzione, persegui‑
ta dal M., di sottrarre alla proprietaria F. F. la quota sociale
data in pegno, finalità vietata dall’ordinamento perché in
violazione tanto degli obblighi propri dell’amministratore di
società di capitali quanto della funzione propria del pegno,
che non è quella di acquisizione diretta della proprietà del
bene dato in garanzia. Obiettivo, questo, che risultava perse‑
guito nella specie attraverso una condotta, tenuta da S. s.p.a.
(evidentemente conforme alle direttive ricevute dal mandante
M.), di astensione dall’intimare alla debitrice il pagamento del
debito, negandole poi ogni collaborazione per consentirle di
provvedervi.
Avverso tale sentenza, notificata il 27 marzo 2006, hanno
proposto distinti (ancorché di identico contenuto) ricorsi a
questa Corte la S. s.p.a. e la cessionaria B. s.r.l. Resistono con
controricorsi la F. F. s.r.l. e C.G., il quale ha altresì proposto
ricorso incidentale.
Motivi della decisione
1. Deve, innanzitutto, disporsi la riunione dei ricorsi in
esame, in quanto proposti avverso la medesima sentenza.
2. Quanto ai due ricorsi principali, essi si basano su quat‑
tro motivi, tutti diretti a censurare le statuizioni della senten‑
za di appello aventi ad oggetto l’illiceità del contratto di mutuo
pignoratizio in questione. Con il primo motivo si denuncia la
violazione delle norme di diritto in materia di nullità dei
contratti per illiceità della causa, sostenendo che la Corte
avrebbe disapplicato il principio secondo cui i motivi o mo‑
venti soggettivi (nella specie del M., dominus effettivo
dell’operazione), che non siano esteriorizzati in una condizio‑
ne o patto, sono elementi estranei al contratto e ininfluenti ai
fini del giudizio sulla illiceità dello stesso, salva l’ipotesi di‑
stinta di illiceità dei motivi. Con il secondo motivo si denun‑
cia l’omissione, insufficienza e/o contraddittorietà della mo‑
tivazione: la Corte avrebbe tratto il suo convincimento in
merito alla illiceità della causa presupponendo, senza consi‑
derare alcune circostanze di segno contrario, che la mutuata‑
ria non avesse alcuna valida ragione per chiedere un finanzia‑
mento. Con il terzo motivo si denuncia la violazione e/o falsa
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applicazione di norme di diritto, per avere la Corte identifi‑
cato nella violazione dei doveri in capo agli amministratori di
società una ragione di nullità del contratto per illiceità della
causa: si sostiene che non esiste nell’ordinamento una norma
che preveda in via generale l’invalidità del contratto stipulato
in frode ai terzi, bensì norme che accordano diversi rimedi
specifici, correlati alle varie ipotesi di pregiudizio (azione re‑
vocatoria, azione di responsabilità nei confronti dell’ammini‑
stratore, azione di annullamento del contratto per conflitto
di interessi del rappresentante), salve ipotesi di particolare
disvalore, sanzionate anche penalmente (art 2642 c.c.).
Con il quarto motivo, si denuncia l’omissione, insufficien‑
za e/o contraddittorietà della motivazione circa la esistenza
di un preordinato inadempimento della F. F. al piano di am‑
mortamento, con conseguente trasferimento della quota della
C. alla S. quindi al M..
3. Con il ricorso incidentale, il C. censura, sotto il profilo
dell’insufficienza e contraddittorietà della motivazione, la
conferma da parte della Corte della statuizione (negativa per
il ricorrente) sulle spese del giudizio di primo grado, nono‑
stante l’accoglimento del gravame da lui proposto e la con‑
danna delle controparti al rimborso in suo favore delle spese
del giudizio di secondo grado.
4. Le doglianze espresse con i ricorsi principali, attesa la
loro connessione, possono essere esaminate congiuntamente,
e meritano accoglimento, nei limiti delle considerazioni che
seguono.
4.1. Invero, il tema su cui focalizzare l’attenzione non at‑
tiene alla pacifica distinzione tra i motivi soggettivi, o inten‑
dimenti particolari che ciascuna parte si propone di realizza‑
re, e la causa quale obiettiva funzione economico – sociale del
contratto. Posto che l’indagine su tale elemento essenziale del
contratto va svolta non “in astratto” ma “in concreto”, onde
verificare – secondo il disposto degli artt. 1343 e 1344 cc – la
conformità a legge dell’attività negoziale posta in essere dalle
parti e quindi la riconoscibilità nella specie della tutela appre‑
stata dall’ordinamento giuridico (cfr. ex multis Sez. 1
n. 1898/2000; Sez. 3 n. 5324/03; Sez. 1 n. 3646/09), una
siffatta indagine in ordine alla funzione obiettiva del negozio
posto in essere non può prescindere dall’apprezzamento degli
interessi che lo stesso è destinato a realizzare, quali emergono
dalle circostanze obiettive (pregresse, coeve e successive alla
sua conclusione) secondo la valutazione, riservata al giudice
del merito, del materiale probatorio acquisito. E, ove da tale
indagine risulti che le parti abbiano utilizzato un determina‑
to modello negoziale per realizzare una funzione obiettiva che
sia non solo diversa da quella per la quale tale strumento
giuridico è previsto dalla legge ma anche in contrasto con
norme imperative (ciò che caratterizza l’illiceità della causa),
il giudice deve negare al negozio posto in essere dalle parti la
tutela apprestata dall’ordinamento.
4.2. Tuttavia in tale prospettiva – nella quale sembra
muoversi la Corte milanese – riveste rilevanza decisiva la
chiara indicazione delle norme imperative la cui violazione
risulti perseguita nel contratto in esame: ed è su questo punto
che la motivazione della sentenza impugnata si mostra caren‑
te, atteso che in essa è dato solo rinvenire alcuni generici ri‑
ferimenti del tutto inidonei a sostenere la conclusione cui la
Corte è giunta.
Ciò vale, in primo luogo, per il riferimento alla violazione
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m a r z o • a p r i l e
(che sarebbe realizzata dalla appropriazione da parte del M.
della partecipazione in C.) degli obblighi, gravanti sugli am‑
ministratori delle società di capitali, di conservazione del pa‑
trimonio sociale, violazione che è piuttosto fonte di responsa‑
bilità a carico degli amministratori, per la quale la legge ap‑
presta in favore dei soggetti titolari degli interessi lesi mezzi
tipici di reazione. Analogamente, deve ritenersi inidoneo ad
individuare una violazione di norma imperativa la elusione
della norma che vieta al rappresentante di acquistare beni del
rappresentato, atteso che anche per tale condotta in conflitto
di interessi l’ordinamento appresta in favore del rappresentato
uno specifico rimedio, costituito dall’azione di annullamento
del contratto concluso dal rappresentante. Quanto, poi, alla
evidenziata deviazione dalla funzione di garanzia propria del
pegno, con attribuzione a tale negozio della diversa funzione
di strumento di acquisizione diretta da parte del creditore
della proprietà del bene dato in garanzia, va osservato che, ove
in tal modo si intendesse far riferimento alla violazione del
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divieto del patto commissorio previsto dall’art 2744 cc, tale
riferimento sarebbe nella specie inappropriato, attesa la spe‑
cifica clausola del contratto che, contrariamente all’automati‑
smo traslativo che caratterizza il patto commissorio, prevede‑
va il ricorso al giudice (del quale la S. si è per l’appunto avval‑
sa) per l’assegnazione al creditore del bene dato in garanzia.
4.3. In definitiva, l’impianto motivazionale sulla illiceità
della causa concreta perseguita con il negozio in esame risul‑
ta vulnerato dal difetto di una chiara e specifica individua‑
zione ed esplicazione circa l’elemento decisivo costituito dal
contrasto tra lo scopo obiettivamente perseguito con il nego‑
zio in esame ed il disposto di norme imperative. La cassazio‑
ne sul punto della sentenza impugnata si impone dunque
(restando assorbito il ricorso incidentale), con il rinvio della
causa alla Corte territoriale, la quale provvederà anche a re‑
golare le spese di questo giudizio di cassazione.
(Omissis)
civile
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In evidenza
CORTE D’APPELLO DI ROMA, SEZ. I,
sentenza n. 383/2013
Termine di prescrizione del danno derivante da trasfusione di
sangue infetto – Prescrizione quinquennale – Decorrenza dalla
notifica del verbale CMO – Sussistenza
In caso di trasfusione di sangue infetto, il termine prescri‑
zionale per la proposizione dell’azione risarcitoria decorre
dalla notifica del verbale CMO e non dalla domanda volta
all’ottenimento della legge 210/90, in ragione del fatto che
solo all’esito della visita presso la commissione medica ospe‑
daliera il danneggiato è posto nella piena consapevolezza
della malattia e relativo nesso causale trasfusione‑contagio
malattia.[1]
App. Roma, sez. I, sent. N. 383/2013
(Omissis)
Svolgimento del processo
I signori (Omissis) convennero in giudizio dinanzi al Tri‑
bunale di Roma il Ministero della Salute con la citazione
notificata il 20.4.2004, chiedendone la condanna al risarci‑
mento del danno in proprio, rispettivo, favore, previa affer‑
mazione della responsabilità del convenuto per l’infezione da
virus dell’epatite C contratta dal sig. (Omissis) a seguito di
somministrazioni di sangue infetto.
Esposero gli attori che quest’ultimo, nel dicembre 1981,
era stato ricoverato presso la clinica pediatrica dell’Ospedale
di Torino per “leucoencefalite acuta virale” e che durante il
ricovero aveva ricevuto trasfusioni di sangue e plasma intero.
Nota redazionale a cura di Gaetano Scuotto (Avvocato)
(1) La sentenza in oggetto si inserisce nel vivace dibattito in cui sono da anni
coinvolti gli operatori del diritto, riguardante il dies a quo della prescrizione
nelle ipotesi di azioni risarcitorie derivante da somministrazione di sangue
infetto.
La problematica riguarda sia spetti di carattere giuridico che medico scienti‑
fico. In relazione a quest’ultimo le difficoltà derivano dal fatto che l’HCV è
una malattia silente, vale a dire che tra la contrazione e la manifestazione
chiara, palese, sintomatologica, i tempi possono variare da soggetto a sog‑
getto in relazione alla carica virulenta del virus. In questo difficile meccanismo
si inserisce la questione giuridica. La suprema Corte di Cassazione con Sen‑
tenza a Sezioni Unite del 2008 n. 576 arretrava il dies a quo al momento
della domanda “amministrativa” volta all’ottenimento dei benefici previsti
dalla L. 210/90, muovendo dal presupposto che il danneggiato per richiede‑
re il benefici assistenziali aveva già piena conoscenza e consapevolezza della
sussistenza del nesso causale trasfusione‑contagio malattia “…il diritto al
risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto tali patologie
per fatto doloso o colposo di un terzo è soggetto al termine di prescrizione
quinquennale che decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947, primo comma,
cod. civ., non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa
del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, bensì da
quello in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita, quale danno
ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l’ordinaria diligen‑
za e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche (a tal fine
coincidente non con la comunicazione del responso della Commissione me‑
dica ospedaliera di cui all’art. 4 della legge n. 210 del 1992, bensì con la
proposizione della relativa domanda amministrativa” (Cassa con rinvio
Appello Napoli, 5 Aprile 2002)”(Cass. Civ. Sez. Unite Sent. 11.01.2008,
n. 576). La Corte di Appello di Roma, invece, riprende un vecchio orienta‑
mento del Tribunale capitolino che già nel 2003 in argomento affermava
“Posto che il giorno della verificazione del fatto illecito quale dies a quo
della prescrizione del diritto al risarcimento del danno s’identifica con quello
in cui la condotta illecita ha inciso nella sfera giuridica del danneggiato con
effetti esteriorizzati e conoscibili, nel senso che la persona abbia avuto reale
e concreta consapevolezza dell’esistenza e della gravità del danno, la prescri‑
zione del diritto al risarcimento del danno conseguente al contagio da Hcv
c i v i l e
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In seguito, esami clinici avevano fatto emergere aumento
di transaminasi, sinché, nel 1991, gli era stata diagnosticata
l’epatite “C”, da porsi in relazione causale con le trasfusioni
ricevute.
Il plasma, secondo gli attori, non era stato controllato dal
Ministero, che aveva consentito l’utilizzazione di plasma in‑
fetto.
Il Ministero della Salute, costituendosi in giudizio dinan‑
zi al Tribunale, ha eccepito – per quanto rileva nel presente
giudizio d’appello – il proprio difetto di legittimazione passi‑
va e l’avvenuto decorso del termine prescrizionale.
Nel merito, ha contestato la domanda.
La causa è stata istruita con documenti con conferenti e
con c.t.u. medico‑legale sulla persona degli attori.
Con la sentenza impugnata il Tribunale ha riconosciuto il
Ministero legittimato passivo, poiché dalla domanda si traeva
che era censurata la sua condotta omissiva delle prescrizioni
delle regole adeguate a tutela della salute pubblica, venendo
meno ai doveri di vigilanza e regolamentazione che la legge
imponeva in capo ad esso.
La ricostruzione del contesto legislativo operata dal Giu‑
dice consentiva invece di riconoscere in capo al convenuto un
preciso dovere di vigilanza e controllo in materia di raccolta,
preparazione e conservazione del sangue umano destinato
alle trasfusioni.
Il Tribunale ha inoltre respinto l’eccezione di prescrizione,
poiché, applicata quella decennale di cui all’art. 2947 III
comma c.c., essa non era maturata al tempo della citazione,
dovendo la prescrizione decorrere dal 1995, tempo in cui era
stata inoltrata la richiesta dell’indennizzo previsto dalla legge
del 1992 n. 210.
Nel merito il Giudice ha accolto la domanda, condannan‑
da parte di un soggetto, che assuma di essere stato contagiato in occasione di
una trasfusione, prende a decorrere dal giorno in cui quest’ultimo ha ricevu‑
to notizia, da parte delle commissioni mediche ospedaliere di cui alla l. 210/92,
della certificazione relativa all’esistenza del nesso causale tra le trasfusioni o
la somministrazione di emoderivati ed il contagio, non rilevando a tal fine,
in mancanza di prova contraria, la circostanza che, anteriormente a tale
certificazione, il soggetto sia venuto a conoscenza di aver contratto il virus in
esito ad accertamenti laboratoristici” (Trib. civ. Roma, sent. 08.01.2003).
Le conclusioni a cui sono giunti prima il Tribunale di Roma, poi la Corte di
Appello, trovano conferma nella incognita che pone il giudizio medico della
commissione ospedaliera all’esito del quale il portatore del virus potrebbe
anche non essere ritenuto idoneo a beneficiare dell’indennizzo previsto dalla
L. 210/90 in quanto non sussistente il nesso causale.
La sentenza in commento ci conduce anche ad un altro tipo di ragionamento:
il nesso causale richiesto ai fini indennitari (L. 210/90) è, o meglio dovrebbe
essere valido, anche per la successiva azione risarcitoria. In questa ottica
troverebbe ingresso la c.d. exceptio interruptae praescrizionis. L’eccezione di
prescrizione è considerata, infatti, eccezione in senso stretto, mentre quella
di interruzione della prescrizione è considerata in senso lato. La “exceptio
interruptae praescrizionis”, è stata rivisitata dalla Corte di Cassazione con
Sentenza a Sezioni Unite del 27 luglio 2005, n. 15661, la quale definisce la
eccezione di interruzione della prescrizione come eccezione in senso lato, e
pertanto rilevabile d’ufficio dal giudice, in qualunque stato e grado del giu‑
dizio, sulla base della documentazione e delle prove ritualmente allegate al
processo. L’interruzione della prescrizione pone altresì il suo fondamento
anche nell’art. 2944 CC “La prescrizione è interrotta dal riconoscimento del
diritto da parte di colui contro il quale il diritto stesso può essere fatto valere”.
Per sollevare l’eccezione di interruzione della prescrizione è essenziale che nel
riconoscimento su cui essa si fonda, sussistano contestualmente i requisiti
della volontarietà, consapevolezza, inequivocità ed esternazione (Cass., sez.
I, 16 giugno 2000, n. 8248). Tutti gli atti e/o fatti posti in essere per l’otteni‑
mento del riconoscimento nesso causale trasfusioni praticate – contagio
malattia, valgono come atti interruttivi della prescrizione come la visita
presso la CMO, giusta convocazione proveniente dal Ministero per il trami‑
te della ASL (ecco così concretizzati, ai fini della interruzione della prescri‑
zione, i requisiti della volontarietà, consapevolezza, inequivocità ed esterna‑
zione) e successivamente la notifica del verbale CMO.
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m a r z o • a p r i l e
do il ministero al pagamento in favore dell’attore (omissis)
della somma di euro 726.223,50 oltre interessi come indicati
in sentenza; in favore di (omissis) dell’attrice della somma di
euro 60. 518,62 ciascuno, oltre interessi come indicati in
sentenza ed oltre spese processuali.
L’importo è stato riconosciuto a titolo di risarcimento del
danno permanente all’integrità psico‑fisica e di danno mora‑
le per (omissis) a titolo di solo risarcimento del danno mora‑
le in favore degli altri attori, suoi genitori.
Con atto di citazione notificato il 15.6.2007 il Ministero
della Salute ha proposto appello avverso questa sentenza,
insistendo nella eccezione di carenza di legittimazione passiva;
di prescrizione del diritto vantato dagli attori; nonché chie‑
dendo il rigetto della domanda proposta da questi ultimi.
In subordine, ha chiesto la riforma della sentenza impu‑
gnata nella parte in cui aveva riconosciuto il danno morale.
I motivi saranno esaminati nella motivazione della presen‑
te sentenza.
Tutti gli appellanti si sono tempestivamente costituiti di‑
nanzi a questa Corte e il 26.11.2007 (rispetto alla prima
udienza indicata in citazione nel 18.12.2007), chiedendo re‑
spingersi l’appello.
Quale appello incidentale, hanno censurato a propria
volta la sentenza, chiedendo che fosse riconosciuto il danno
patrimoniale ed esistenziale in favore di (omissis), che fosse
riconosciuto il danno biologico, esistenziale e patrimoniale in
favore della sig.ra. (omissis) ed il danno esistenziale in favore
di (omissis).
Anche i motivi dell’appello incidentale saranno esaminati
nella motivazione della presente sentenza.
All’udienza collegiale del 22.5. 2012 la causa è stata riser‑
vata in decisione.
Motivi della decisione
1. L’amministrazione impugnante ha sostenuto di essere
estranea alla materiale esecuzione della trasfusione, poiché i
compiti amministrativi in tema di salute erano stati trasferiti
alle regioni con il d.lgs. n. 112/1998, contrariamente a quan‑
to ritenuto nella sentenza impugnata.
Il motivo, ad avviso della Corte, è infondato.
La Corte di Cassazione a sezioni unite, proprio con rife‑
rimento alla raccolta, preparazione, conservazione e distribu‑
zione del sangue umano destinato a scopi terapeutici, ha af‑
frontato il tema dell’omesso o negligente o errato esercizio da
parte del Ministero della salute dei compiti ad esso attribuiti
dalla legge ed ha enunciato i seguenti principi di diritto: “La
L. n. 592 del 1967, (art. 1) attribuisce al Ministero le diret‑
tive tecniche per l’organizzazione, il funzionamento ed il
coordinamento dei servizi inerenti alla raccolta, preparazio‑
ne, conservazione, e distribuzione della sangue umano per
uso trasfusionale, alla preparazione dei suoi derivati e ne
esercita la vigilanza, nonché (art. 21) il compito di autoriz‑
zare l’importazione e l’esportazione di sangue umano e dei
suoi derivati per uso terapeutico. Il D.P.R. n. 1256 del 1971,
contiene norme di dettaglio che confermano nel Ministero la
funzione di controllo e vigilanza in materia (artt. 2, 3,
103,112).
La L. n. 519 del 1973, attribuisce all’Istituto superiore di
sanità compiti attivi a tutela della salute pubblica.
La L. 23 dicembre 1978, n. 833, che ha istituito il Servizio
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sanitario Nazionale conserva al Ministero della Sanità, oltre
al ruolo primario nella programmazione del piano sanitario
nazionale ed a compiti di indirizzo e coordinamento delle
attività amministrative regionali delegate in materia sanitaria,
importanti funzioni in materia di produzione, sperimentazio‑
ne e commercio dei prodotti farmaceutici e degli emoderivati
(art. 6 lett. b, c), mentre l’art. 4, n. 6, conferma che la raccol‑
ta, il frazionamento e la distribuzione del sangue umano co‑
stituiscono materia di interesse nazionale.
Il D.L. n. 433 del 1987, stabilisce la sottoposizione dei
medicinali alla c.d. “farmacosorveglianza” da parte del Mi‑
nistero della Sanità, che può stabilire le modalità di esecuzio‑
ne del monitoraggio sui farmaci a rischio ed emettere provve‑
dimenti cautelari sui prodotti in commercio.
Ne consegue che, anche prima dell’entrata in vigore della
L. 4 maggio 1990, n. 107, contenente la disciplina per le atti‑
vità trasfusionali e la produzione di emoderivati, deve ritener‑
si che sussistesse in materia, sulla base della legislazione vi‑
gente, un obbligo di controllo, direttiva e vigilanza in materia
di sangue umano da parte del Ministero della sanità, anche
strumentale alla funzione di programmazione e coordinamen‑
to in materia sanitaria.
L’omissione da parte del Ministero di attività funzionali
alla realizzazione dello scopo per il quale l’ordinamento attri‑
buisce il potere (qui concernente la tutela della salute pubbli‑
ca) lo espone a responsabilità extracontrattuale, quando,
come nella fattispecie, dalla violazione del vincolo interno
costituito dal dovere di vigilanza nell’interesse pubblico, il
quale è strumentale ed accessorio a quel potere, siano deriva‑
te violazioni dei diritti soggettivi dei terzi…
La responsabilità del Ministero della Salute per i danni
conseguenti ad infezioni da HIV e da epatite, contratte da
soggetti emotrasfusi per l’omessa vigilanza esercitata dall’Am‑
ministrazione sulla sostanza ematica negli interventi trasfu‑
sionali e sugli emoderivati appare inquadrabile nella viola‑
zione della clausola generale di cui all’art. 2043 c.c.”
(Cass. S.U. 11 gennaio 2008, n. 576).
Questa Corte condivide appieno quanto affermato dalla
Corte di Cassazione.
Va pertanto affermato che per i fatti narrati nell’atto di
citazione introduttivo del giudizio di primo grado il Ministe‑
ro della salute è passivamente legittimato rispetto all’azione
di responsabilità extracontrattuale spiegata dagli odierni
appellati.
2. Con il successivo motivo, il Ministero ha eccepito l’av‑
venuta prescrizione dei diritti fatti valere, in quanto essa era
quinquennale, pur volendo considerare l’illecito imputato al
Ministero quale astratto fatto‑reato.
Essa inoltre decorreva dal 1981, tempo della trasfusione
o, al più tardi, dal 1989, tempo in cui furono approntati a test
diagnostici
Il motivo è, ad avviso della Corte, infondato.
Dalla sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite
n. 576/2008 si traggono i principi di diritto in base ai quali
giudicare la fondatezza della stessa.
La S.C., proprio con riferimento alle domande di risarci‑
mento dei danni causati dall’omesso o negligente o errato
esercizio da parte del Ministero della Salute dei compiti allo
stesso attribuiti dalla legge in tema di raccolta, preparazione,
conservazione e distribuzione del sangue umano destinato a
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scopi terapeutici ha enunciato i seguenti principi di diritto,
che, peraltro, ribadiscono principi generali già ripetutamente
espressi con riferimento ad altre materie:
“Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del
danno di chi assume di aver contratto per contagio una ma‑
lattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma
dell’art. 2935 c.c., e art. 2947 c.c., comma 1, non dal giorno
in cui il terzo determina la modificazione che produce il
danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta
all’esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può
essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al com‑
portamento doloso o colposo di un terzo, usando l’ordinaria
oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle co‑
noscenze scientifiche”.
La prescrizione è quinquennale, ai sensi dell’art. 2947 I
comma c.c.
Nel caso di specie, a (omissis) è stata diagnosticata il
24.6.1991 la positività al virus HCV, per la prima volta;
mentre il 7.9.1996 egli è stato dimesso dall’Ospedale di Ge‑
nova con la diagnosi di epatite cronica HCV correlata di
modesta entità.
Non vi è, ad avviso della Corte, alcun dato sicuro, ricava‑
bile dalla storia clinica del danneggiato (cfr. la c.t.u.) e nep‑
pure alcun dato scientifico certo – non indicato peraltro ne‑
anche dal Ministero – tale da convincere la Corte che il
(omissis), o per meglio dire i suoi genitori (essendo egli nato
nel 1978), utilizzando l’ordinaria diligenza di paziente affetto
da epatite e valutando le notizie apprese dalla vasta diffusio‑
ne di conoscenze scientifiche, già a partire dal 1991 o dal
1996, cioè da quando è stata effettuata la diagnosi, avrebbe
potuto porre in relazione l’epatite riscontrata con le trasfusio‑
ni ricevute circa dieci anni addietro.
È evidente infatti che non può farsi riferimento alle cono‑
scenze del virus e della sua trasmissibilità quali erano in
possesso della comunità scientifica internazionale e naziona‑
le (di cui si dirà in seguito) e quali invece potevano essere
conosciute e comprese dall’uomo di media diligenza che, in
occasione di altra patologia sofferta, sia sottoposto a trasfu‑
sioni di plasma.
Nella specie, la Corte ritiene quanto segue.
In base alle conoscenze scientifiche, applicate alla pecu‑
liare storia clinica e patologica di (omissis), egli ha verosimil‑
mente e più probabilmente acquisito certezza del nesso cau‑
sale tra l’epatite diagnosticata e le trasfusioni del 1981 solo
nel 1998, allorché la C.M.O., adita per ottenere l’indennizzo
di cui alla l. n. 210 del 1992, si è pronunciata nel senso della
sussistenza di tale nesso causale.
Questa Corte è ben consapevole che in precedenti senten‑
ze, al pari di quanto ritenuto dal Tribunale nella sentenza
impugnata, ha ritenuto raggiunta tale consapevolezza nel
momento in cui viene di norma inoltrata la domanda per il
riconoscimento dell’indennizzo ex lege n. 210 del 1992; ciò
che nella specie, comporterebbe la conclusione che tale con‑
sapevolezza era stata raggiunta già dal 1995, tempo della
domanda.
Tuttavia, la pregressa patologia sofferta dal (omissis) ed i
suoi riflessi pregiudizievoli anche sulla funzionalità del fegato,
a prescindere dalle trasfusioni, fanno ritenere che solo il re‑
sponso della C.M.O. abbia indotto nel danneggiato e nei suoi
genitori la certezza del nesso causale tra epatite e trasfusioni.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
È bene riassumere infatti che (Omissis), a soli tre anni di
età, nel dicembre 1981, è stato ricoverato presso la clinica
pediatrica dell’Università di Torino per “sindrome apallica in
leucoencefalite virale acuta”, in stato di coma ed in gravi
condizioni generali.
Nei giorni successivi le transaminasi sono aumentate ed il
paziente ha mostrato anche insufficienza epatica ed anemia,
tanto è vero che anche dopo le dimissioni egli ha assunto, tra
gli altri, il farmaco Thiola, a causa della pregressa sofferenza
epatica.
Il trattamento con emoderivati vari, ha osservato il c.t.u.,
si era reso necessario anche per far fronte alla “gravissima
compromissione della funzionalità epatica”, all’incapacità del
fegato di produrre le sostanze proteiche necessarie alla coa‑
gulazione del sangue ed a depurare il sangue dai metabolici
tossici.
Sebbene sia la C.M.O., sia il c.t.u. hanno concluso, in
modo concorde, nel senso che l’epatite cronica contratta sia
dipesa dalle trasfusioni, mentre la sofferenza epatica manife‑
statasi durante il primo ricovero è stata verosimilmente dovu‑
ta allo stesso virus che ha provocato la leucoencefalite, vi è da
osservare che la stessa certezza scientifica, in un quadro di
pregressa sofferenza epatica in occasione della leucoencefali‑
te, non può all’evidenza attribuirsi anche al (omissis) ed ai
suoi genitori, i quali potevano attribuire alla malattia mani‑
festatasi nel 1981 anche la probabile fonte dell’epatite in se‑
guito riscontrata.
In tale quadro, l’aver proposto, nell’anno 1995, domanda
per il riconoscimento dell’indennizzo ai sensi della l. n. 210
del 1992, non può automaticamente interpretarsi quale cono‑
scenza certa, acquisita ed indubbia, del nesso causale tra
epatite e trasfusioni.
L’indennizzo, che ha natura giuridica diversa rispetto al
risarcimento del danno, ben può essere stato richiesto quale
misura solidaristica ed indennitaria di sostegno, non essendo
necessario allegare la conoscenza di tutti gli elementi dell’il‑
lecito lamentato ed in particolare del nesso causale tra le
trasfusioni e l’epatite C.
Se quindi, di norma è sostenibile che la proposizione del‑
la domanda colta al riconoscimento del suddetto indennizzo
comporta conoscenza o conoscibilità, in capo al danneggiato,
del nesso causale tra l’epatite e la pregressa trasfusione; nel
caso di specie è legittimo dubitare che il danneggiato avesse
la piena consapevolezza di ciò, ben potendo ritenere solo la
mera possibilità di tale nesso causale, bastevole per la doman‑
da di indennizzo, ma insufficiente per intraprendere un’azio‑
ne giudiziaria fondata sull’art. 2043 c.c. e, quindi sul ben più
gravoso onere della prova a carico del danneggiato circa l’esi‑
stenza del nesso causale tra le trasfusioni e l’epatite C.
Invece, deve concludersi che solo con il responso della
C.M.O. (assunto peraltro non all’unanimità, ma con il dis‑
senso del Presidente, dott. (Omissis), il che denota ancor più
la oggettiva difficoltà, per l’uomo di media diligenza, di ac‑
quisire informazioni certe sul nesso causale, nella specie, tra
epatite C e trasfusioni, prima di intraprendere un’azione giu‑
diziaria), il (Omissis) abbia acquisito siffatta chiara contezza
dell’esistenza del nesso causale tra epatite C e trasfusioni e
che, quindi, solo da tale responso, emesso il 14.11.1998, sia
stato nelle condizioni di esercitare il diritto al risarcimento
del danno.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
Anche la Corte di Cassazone, nella sentenza n. 576/2008,
ha osservato, a tal proposito: “occorre che il giudice proceda
ad un’accurata disamina, puntualmente motivata, per sot‑
trarsi al sindacato di legittimità, della diligenza che ha con‑
trassegnato l’atteggiamento della vittima a fronte della sua
sofferenza, ovvero alla verifica, avuto riguardo alle partico‑
larità della fattispecie, della diligenza impiegata dalla vittima
nell’accedere alle informazioni necessarie per risalire alla
malattia esteriorizzatasi, alle sue cause e, infine, al respon‑
sabile del danno”.
Alla luce di quanto sin qui osservato, deve considerarsi
che solo dal 1998 è iniziata la decorrenza della prescrizione,
ai sensi dell’art.2947 c.c.
La prescrizione è stata interrotta nel 2002, con la lettera
di diffida del 20.6.2002.
Essa risulta prodotta, visto l’indice degli atti in calce alla
citazione in primo grado, il cui contenuto è incontestato tra
le parti.
Pertanto, essendo la citazione notificata nel 2004, la pre‑
scrizione quinquennale non si è maturata.
3. Con il successivo motivo il Ministero ha censurato la
sentenza, con lunghe argomentazioni che possono così rias‑
sumersi:
a) in base alle ancor scarse conoscenze scientifiche
dell’epoca era sostanzialmente inesigibile una condotta del
Ministero volta concretamente ad impedire la trasmissione di
patologie quali l’epatite attraverso il plasma;
b) il Ministero aveva sempre adempiuto tempestivamente
ai propri doveri e rispettato le normative in vigore, così da
svolgere correttamente le proprie attività di controllo e vigi‑
lanza sull’attività sanitaria, che non poteva qualificarsi quale
controllo minuzioso su ciascuna singola attività sanitaria;
c) erroneamente era stato riconosciuto il nesso causale tra
la trasfusione e l’epatite.
Deve essere qui ricordato che in tema di plasma umano e
derivati, fu emanato il D.M. 18 giugno 1971, contenente di‑
rettive tecniche per la determinazione dei requisiti, fra gli
altri, del sangue umano e dei suoi derivati, il decreto del Pre‑
sidente della Repubblica 24 agosto 1971, n. 1256, recante il
regolamento di esecuzione della l. n. 592/67 (le norme del
titolo III, artt. 44 e ss., riguardano specificamente la raccolta,
la distribuzione e la conservazione del sangue); nonché il D.M.
15 settembre 1972, relativo alle modalità di importazione e
di esportazione del sangue, che subordina l’autorizzazione
all’importazione all’accertamento della sussistenza, nel san‑
gue, degli stessi requisiti stabiliti dal D.P.R. n. 1256/71
(art. 1).
Soltanto con D.M. 21 luglio 1990 furono però imposte,
su ogni singola unità di sangue e di plasma donato, la ricerca
degli anticorpi HCV (virus dell’epatite C) e la determinazione
del livello di ALT (enzima capace di rivelare patologie epati‑
che).
È notorio che il test per l’individuazione del virus dell’epa‑
tite C venne messo a punto nel 1989, mentre l’anno preceden‑
te era stato perfezionato il trattamento per la sua innocuizza‑
zione (cd. Termotrattamento).
Ciò tuttavia non comporta alcun esonero del Ministero
da responsabilità.
Gli studi scientifici (già esaminati da questa Corte in
precedenti pronunce, tra cui quella (Omissis) c/ Ministero
2 0 1 3
53
della Salute, decisa nella camera di consiglio del 7.12.2010)
consentono di concludere che dal 1965, anno in cui è citata
una prima pubblicazione sull’epatite post‑trasfusionale, sino
al 1983 erano stati pubblicati 52 articoli scientifici sull’argo‑
mento.
In particolare l’ipotesi che virus diversi da quelli conosciu‑
ti potessero determinare l’epatite post‑trasfusionale era stata
avanzata nel 1974 da Prince ed al., ponendo la diagnosi di
epatite non A non B, per esclusione.
Le epatiti post trasfusionali erano note in Italia non solo
agli studiosi, ma anche agli operatori sanitari del settore: il
14.10.1967 il Medico Provinciale di Firenze con lettera prot.
n. 5482 aveva invitato il Centro per la trasfusione del sangue
Arcispedale S.M. Nuova Firenze ad attenersi alle disposizioni
emanate dal Ministero della Salute con circolare n. 50 del
28.3.1966 “in cui si vietava l’uso di sangue umano per trasfu‑
sione da soggetti con transaminasi GOT superiori a 40 unità
internazionali e GPT superiore a 30 unità internazionali, nel
fondato sospetto che il donatore potesse essere portatore di
virus epatitico”.
Invero, questa Corte ha ritenuto, in precedenti sentenze,
che costituisse fatto notorio la circostanza per cui già dalla
metà degli anni ‘70 si era acquisita – nella comunità scienti‑
fica – consapevolezza dell’esistenza di un tipo di epatite non
identificabile con quelli fino ad allora conosciuti (A e B),
tanto che veniva genericamente individuata come epatite non
A – non B (NANB): si trattava di casi di ipotizzata epatite A,
perché privi dell’antigene dell’epatite di tipo B, ma che non
presentavano, però, neppure i marcatori propri dell’epatite
A.
Gli studi scientifici in materia hanno posto in luce che
l’infezione HCV è responsabile della maggioranza dei casi
(oltre l’80%) di epatite NANB post‑trasfusionale e non
post‑trasfusionale.
Con riguardo alla trasmissione delle infezioni virali per
via parenterale, cioè attraverso lo scambio di sangue infetto,
la consapevolezza era acquisita già fin dall’inizio degli anni
‘70, tanto vero che il D.P.R. n. 1256/71 espressamente esclu‑
de dalla donazione il soggetto che “sottoposto a visita medi‑
ca generale, risulti…affetto da epatite virale” (art. 46, lett. a)
e prevede la non ammissione temporanea alla donazione del
soggetto che “negli ultimi sei mesi abbia(no) ricevuto una
trasfusione di sangue, plasma, fibrinogeno o altri derivati che
possono trasmettere l’epatite” (art. 47, lett. g) ovvero abbia
avuto “negli ultimi sei mesi…contatti con epatici” (art. 47,
lett. h); risulta, inoltre, che controlli sul sangue o sul plasma
prelevato furono imposti, anche se con ingiustificato ritardo,
con la circolare ministeriale 24 luglio 1978 n. 68, che rese
obbligatoria la ricerca dell’antigene dell’epatite B.
Né va dimenticato che la determinazione dell’enzima ALT
(alanina transaminasi) costituiva idoneo metodo di rilevazio‑
ne, sia pure indiretta, di infezioni da virus, essendo noto che
questo enzima si presenta alterato, con valori superiori alla
media, nei soggetti con patologie epatiche; della sua ricerca
fu proposta l’introduzione già nel 1974 al fine di escludere
dalla donazione coloro i cui valori erano alterati, a il metodo
fu reso obbligatorio solo con il D.M. del 1990 cit.
È certo poi che controlli del genere di quelli appena indi‑
cati, tanto sul sangue quanto sui donatori, furono completa‑
mente omessi sul sangue di importazione (attesa la assoluta
civile
Gazzetta
54
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
carenza dei quantitativi raccolti in Italia e il ritardo nell’ese‑
cuzione del c.d. piano nazionale del sangue, volto al raggiun‑
gimento dell’autosufficienza nazionale), proveniente anche da
aree geografiche, come l’America e l’Africa, ove notoriamen‑
te alto era il rischio di infezioni.
Ed infatti il Ministero si limitò ad un mero controllo sui
documenti che accompagnavano le varie partite di sangue e
di derivati acquisite dall’estero (cfr., in proposito, Trib. Roma
27 novembre 1998, in Foro italiano, 1999, I, 313, spec. C.
328, il quale ha sottolineato l’omissione colpevole del Mini‑
stero per mancato controllo e mancato ritiro degli emoderi‑
vati non trattati al calore anti‑virucidico), così venendo meno
al suo compito istituzionale di vigilanza.
In sostanza, ben prima dell’individuazione del metodo di
rilevazione del virus dell’epatite C o dell’introduzione di effi‑
caci sistemi per il suo annientamento (peraltro va ricordato
che il termotrattamento non può essere praticato sul sangue
intero, perché ne distrugge la parte corpuscolata, ma solo sui
derivati), le conoscenze scientifiche raggiunte erano tali da
consentire l’adozione di specifiche cautele, sulla scelta dei
donatori e sul sangue prelevato, capaci di ridurre in misura
assai apprezzabile il rischio di contagio da trasfusione.
Tali cautele vennero invece omesse per moltissimi anni:
sia perché la loro adozione fu imposta dal Ministero con
colpevole ritardo, sia perché non venne posta in essere un’ade‑
guata azione di vigilanza sul rispetto delle disposizioni ema‑
nate (compito certamente compreso fra quelli istituzionali: art
1, comma primo, n. 4 l. n. 296/58).
Dunque, ben avrebbe potuto il Ministero, almeno dai
primi anni ‘70 (ma va ricordata ancora la circolare dello
stesso Ministero n. 50 del 28.3.1966, già richiamata) dispor‑
re l’effettuazione da parte degli operatori del settore di rigo‑
rosi controlli sui donatori e sul sangue raccolto ed assicurarsi
che tali controlli fossero concretamente eseguiti, per impedi‑
re che soggetti affetti dal virus dell’epatite C fossero ammes‑
si alla donazione ovvero che sangue infettato da quel virus
venisse reso disponibile per le trasfusioni.
D’altro canto, sull’argomento, è chiara l’osservazione
delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza
n. 576 del 2008:
Dai principi sopra esposti in tema di nesso causale da
comportamento omissivo, emerge anche il criterio per la
delimitazione temporale della responsabilità del Ministero.
Questa Corte, con sentenza 31/05/2005, n. 11609, osserva‑
va che, finché non erano conosciuti dalla scienza medica
mondiale, i virus della HIV, HBC ed HCV, proprio perché
l’evento infettivo da detti virus era già astrattamente invero‑
simile, in quanto addirittura anche astrattamente sconosciu‑
to, mancava il nesso causale tra la condotta omissiva del
Ministero e l’evento lesivo, in quanto all’interno delle serie
causali non poteva darsi rilievo che a quelle soltanto che, nel
momento in cui si produsse l’omissione causante e non suc‑
cessivamente, non apparivano del tutto inverosimili, tenuto
conto della norma comportamentale o giuridica, che impo‑
neva l’attività omessa. La corte di legittimità, quindi, rite‑
neva esente da vizi logici la sentenza della Corte di appello,
che aveva ritenuto di delimitare la responsabilità del Mini‑
stero a decorrere dal 1978 per l’ HBC (epatite B), dal 1985
per l’HIV e dal 1988 per l’HCV (epatite C), poiché solo in
tali rispettive date erano stati riconosciuti dalla scienza
c i v i l e
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F O R E N S E
mondiale rispettivamente i virus ed i tests di identificazio‑
ne.
7.2. Ritengono, invece, queste S.U. (in conformità a
quanto ritenuto da una parte della giurisprudenza di merito
e della dottrina) che non lo sussistono tre eventi lesivi, come
se si trattasse di tre serie causali autonomi ed indipendenti,
ma di un unico evento lesivo, cioè la lesione dell’integrità
fisica (essenzialmente della fegato), per cui unico è il nesso
causale: trasfusione con sangue infetto – contagio infetti‑
vo – lesione dell’integrità. Pertanto già a partire dalla data di
conoscenza dell’epatite B (la cui individuazione, costituendo
un accertamento fattuale, rientra nell’esclusiva competenza
del Giudice di merito) sussiste la responsabilità del Ministe‑
ro anche per il contagio degli altri due virus, che non costi‑
tuiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di mani‑
festazioni patogene dello stesso evento lesivo dell’integrità
fisica da virus veicolati dal sangue infetto, che il Ministero
non aveva controllato, come pure era obbligato per legge.
Non può, invece, ritenessi la responsabilità del Ministero a
norma dell’arte. 1225 c.c., per cui il responsabile risponde
anche dei danni imprevedibili. Infatti tale norma attiene,
secondo la condivisibile dottrina prevalente, non al nesso di
causalità materiale, ma a quella giuridica, relativa alla valu‑
tazione e determinazione dei danni.”
Stabilito che il Ministero è venuto meno, con colpa, ai
doveri su di esso incombenti, occorre ora esaminare la dedu‑
zione per cui non vi sarebbe nesso causale tra la predetta
violazione e la malattia contratta dall’odierno appellato.
Il motivo, sul punto, non è fondato.
La verifica della sussistenza del nesso causale va condotta
sulla base dei principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione nella sentenza sopra citata, la qua‑
le, come già detto, riguarda proprio un caso di infezione
epatica (HIV, anziché HCV, ma la sostanza non cambia) che
si assume essere stata contratta proprio in conseguenza dell’as‑
sunzione di farmaci emoderivati.
Afferma la Suprema corte che nel processo civile “vige la
regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile
che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo
penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel
processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da
attenta dottrina che ha esaminato l’identità di tali standards
delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta
differenza tra processo civile e penale (in questo senso vedasi:
la recentissima Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007,
n. 9238; Cass. 5.9.2006, n. 19047; Cass. 4.3.2004, n. 4400;
Cass. 21.1.2000 n. 632). Anche la Corte di Giustizia CE è
indirizzata ad accertare che la causalità non possa che poggiar‑
si su logiche di tipo probabilistico (CGCE, 13/07/2006, n. 295,
ha ritenuto sussistere la violazione delle norme sulla concor‑
renza in danno del consumatore se “appaia sufficientemente
probabile” che l’intesa tra compagnie assicurative possa avere
un’influenza sulla vendita delle polizze della detta assicurazio‑
ne; Corte giustizia CE, 15/02/2005, n. 12, sempre in tema di
tutela della concorrenza, ha ritenuto che “occorre postulare le
varie concatenazioni di causa – effetto, al fine di accogliere
quelle maggiormente probabili”).
Detto standard di “certezza probabilistica” in materia
civile non può essere ancorato esclusivamente alla determi‑
nazione quantitativa – statistica delle frequenze di classi di
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che po‑
trebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verifica‑
to riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli
elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri
possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concre‑
to (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema gene‑
rale della probabilità come relazione logica va determinata
l’attendibilità delle ipotesi sulla base dei relativi elementi di
conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosas‑
soni).
5.11. Le considerazioni sopra esposte, maturate in rela‑
zione alla problematica del nesso di causalità, portano a
denunciare il seguente principio di diritto della decisione del
caso concreto, attinenti alla responsabilità del Ministero
della Sanità (oggi della Salute), da omessa vigilanza:
“Premesso che sul Ministero gravava un obbligo di con‑
trollo, direttive e vigilanza in materia di impiego di sangue
umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di
emoderivati) anche strumentale alle funzioni di programma‑
zione e coordinamento in materia sanitaria, affinché fosse
utilizzato sangue non infetto e proveniente da donatori con‑
formi agli standards di esclusione di rischi, il Giudice, accer‑
tata l’omissione di tale attività, accertata, altresì, con riferi‑
mento all’epoca di produzione del preparato, la conoscenza
oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazio‑
ne di virus attraverso sangue infetto ed accettata – infi‑
ne – l’esistenza di una patologia da virus HIV o HBV O HCV
in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ri‑
tenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissio‑
ne sia stata causa dell’insorgenza della malattia, e che, per
converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata
tenuta, avrebbe impedito la verificazione dell’evento”.
6. Ne consegue che nella fattispecie va rigettata la prima
censura del primo e del secondo motivo di ricorso attinente
alla natura della responsabilità del Ministero, come respon‑
sabilità da attività pericolosa o come responsabilità contrat‑
tuale, mentre va accolta la seconda censura, relativa alla ri‑
tenuta mancata sussistenza del nesso causale.
Poiché il Ministero aveva obblighi di farmaco sorveglian‑
za in materia di produzione, commercializzazione e consumo
di sangue umano e dei suoi derivati, sull’intero territorio
nazionale, avendo ritenuto il Giudice di appello che il conta‑
gio da HIV sia dovuto ad una trasfusione di sangue infetto,
è irrilevante, ai fini della responsabilità del Ministero se tali
trattamenti sanitari siano avvenuti presso strutture della Usl
42 di Napoli o presso altre strutture nazionali. In questi
termini, quindi, è irrilevante la censura del ricorrente, secon‑
do cui la corte di merito non avrebbe conferito valore proba‑
torio all’accertamento della Commissione medica ospedalie‑
ra, che aveva riconosciuto tale nesso eziologico con le trasfu‑
sioni effettuate presso l’ospedale Nuovo Pellegrini. Il Giudi‑
ce di rinvio in applicazione dei suddetti principi di diritto
dovrà valutare se esista nesso eziologico tra il comportamen‑
to omissivo di controllo e vigilanza sul sangue utilizzato per
emotrasfusioni o emoderivati e la patologia infettiva, ripor‑
tata dall’attore a seguito della sottoposizione a tali trattamen‑
ti sanitari.”
Peraltro, sull’esistenza del nesso causale si sono pronun‑
ciati, in modo concorde, sia la C.M.O., sia il c.t.u.
In ordine alla questione dei controlli rimessi al Ministero
2 0 1 3
55
sulla materia, anch’essi fatti oggetto del motivo di appello in
esame, si osserva quanto segue.
È vero che i compiti nel tempo affidati al Ministero hanno
sempre avuto carattere generale e sono consistiti nell’impar‑
tire direttive a carattere generale alle quali tutti i soggetti, a
qualunque titolo impegnati nel settore sanitario erano obbli‑
gati ad attenersi.
Non si vede, però, anche alla luce della lettura delle dispo‑
sizioni legislative elencate nella sentenza della Corte di legit‑
timità sopra citata, come tale caratteristica delle attribuzioni
del Ministero sia compatibile con l’omessa rilevazione di un
problema grave, noto e diffuso (e, quindi, a carattere genera‑
le) e con l’omessa emanazione di direttive a carattere genera‑
le, dirette a rendere obbligatoria per tutti i soggetti operanti
nel settore l’adozione dei protocolli sanitari messi a punto
dalla scienza medica prima per risolvere questo problema o,
almeno, per attenuarne la gravità.
Del resto anche per quanto riguarda questo argomento
vale quanto affermato dalle Sezioni Unite della Corte di cas‑
sazione nella sentenza sopra citata: “ne consegue che, anche
prima dell’entrata in vigore della L. 4 maggio 1990, n. 107,
contenente la disciplina delle attività trasfusionali e la pro‑
duzione di emoderivati, deve ritenersi che sussistesse in ma‑
teria, sulla base della legislazione vigente, un obbligo di
controllo, direttive e vigilanza in materia di sangue umano
da parte del Ministero della sanità, anche strumentale alla
funzione di programmazione e coordinamento in materia
sanitaria.
L’omissione da parte del Ministero di attività funzionali
alla realizzazione dello scopo per il quale l’ordinamento at‑
tribuisce il potere (qui concernente la tutela della salute
pubblica) lo espone a responsabilità extracontrattuale, quan‑
do, come nella fattispecie, dalla violazione del vincolo inter‑
no costituito dal dovere di vigilanza nell’interesse pubblico,
il quale è strumentale ed accessorio a quel potere, siano de‑
rivati violazioni dei diritti soggettivi dei terzi…”.
In altre parole, la S.C. ha chiaramente esposto che il Mi‑
nistero era obbligato per legge ad eseguire i controlli su de‑
scritti.
Ebbene, quello che si imputa al Ministero è proprio man‑
cato assolvimento di tale controllo. L’esame nel merito della
condotta del Ministero, su esposto, conduce ad affermare che
lo stesso non ha svolto con la dovuta tempestività, diligenza
e competenza i doveri di controllo e vigilanza posti a suo
carico dalla legge.
4. Con il successivo motivo di impugnazione si è censura‑
to il capo di sentenza che ha liquidato il danno morale, in
assenza di alcun fatto‑reato.
Il motivo è infondato.
L’evoluzione conosciuta dalla giurisprudenza di legittimi‑
tà, anche a seguito di alcune pronunce della Corte Costitu‑
zionale, ha recentemente condotto ad escludere che l’astratta
configurabilità di un reato sia un presupposto indispensabile
per la risarcibilità del danno non patrimoniale:
“L’onore e la reputazione, la quale si identifica con il
senso della dignità personale in conformità all’opinione di
gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico, costi‑
tuiscono diritti della persona costituzionalmente garantiti e,
pertanto, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente
orientata degli artt. 2043 e 2059 cod. civ.; la loro missione è
civile
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e
p r o c e d u r a
suscettibile di risarcimento del danno non patrimoniale, a
prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo costituisca o
meno reato.” (Cass. 20 ottobre 2009, n. 22190).
Il danno non patrimoniale è comunque risarcibile quando
deriva dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come
tali costituzionalmente garantiti, ed a condizione che l’inte‑
resse leso – e non il pregiudizio sofferto – abbia rilevanza
costituzionale, che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso
che l’offesa superi la soglia minima di tollerabilità imposta
dai doveri di solidarietà sociale, e che il danno non sia futile,
ovvero non consista in meri disagi o fastidi ossia nella lesione
di diritti del tutto immaginari (vedi Cass. 13 novembre 2009
n. 24030).
Il diritto alla salute è costituzionalmente garantito e nel
caso di specie la sua lesione ha assunto connotati di partico‑
lare gravità attesa l’entità della riduzione della complessiva
validità psico‑fisica del danneggiato.
Anche sotto questo profilo, la sentenza appellata è immu‑
ne da censure.
5. Con il successivo motivo, il Ministero ha censurato la
sentenza, laddove aveva fatto decorrere gli interessi compen‑
sativi dal 1981, tempo delle trasfusioni, sebbene avesse fatto
decorrere la prescrizione dal 1995, attraverso un ragionamen‑
to ritenuto contraddittorio dall’appellante.
Il motivo è infondato.
Va premesso che nella motivazione della sentenza appel‑
lata gli interessi sono indicati come decorrenti dal 15.12.1981;
mentre nel dispositivo sono indicati come decorrenti dal
15.12.2001 per i soli genitori del (omissis.)
Tuttavia gli appellati hanno dedotto che vi è stato il pro‑
cedimento di correzione di errore materiale e che il dispositi‑
vo della sentenza è stato corretto dal giudice nel senso che la
data del 15.12.2001 dovesse intendersi 15.12.1981.
La Corte osserva quanto segue.
Nel caso di illecito extracontrattuale, qual è quello di
specie, gli interessi compensativi decorrono dall’illecito, ai
sensi dell’articolo 1219 n. 1 c.c., trattandosi di “mora ex re”
e avendo essi la funzione di reintegrare il patrimonio del cre‑
ditore, come se gli avessi ricevuto il risarcimento per equiva‑
lente subito dopo la commissione dell’illecito.
L’art. 2935 c.c. dispone invece che la prescrizione decorre
“da quando il diritto può essere fatto valere”, che cioè il di‑
ritto può ben preesistere nel patrimonio del creditore, ma
tuttavia, per ragioni legali, non può essere fatto valere attual‑
mente; cosicché la prescrizione, nelle more, non decorre.
Non vi è quindi alcun automatismo tra il sorgere del di‑
ritto e la possibilità legale che esso possa essere esercitato: è
quindi ben possibile che gli interessi, nella specie, sull’impor‑
to del risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. decorrano da
un tempo anteriore rispetto a quello in cui il diritto possa
essere esercitato.
6. Con il successivo motivo, il Ministero ha sostenuto che
il Tribunale, nella liquidazione del danno, avrebbe proceduto
a duplicazione delle voci di danno.
È bene riassumere che il Tribunale ha riconosciuto in fa‑
vore di (omissis) il danno biologico e quello morale; in favore
di ciascuno di suoi genitori il solo danno morale.
La Corte osserva quanto segue.
La materia inerente al risarcimento del danno alla perso‑
na è stata rivisitata di recente dalla giurisprudenza di legitti‑
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
mità, successivamente alla sentenza impugnata (Cass. S.U.
11.11.2008 n. 26972).
La Corte di Cassazione ha adottato un’interpretazione
unitaria della nozione di danno non patrimoniale, nel quale
rientrano la lesione alla salute (comprensiva del danno esteti‑
co e del danno alla vita di relazione, ecc.) ed il danno morale
inteso quale sofferenza soggettiva, che costituisce una com‑
ponente della prima.
Tuttavia, ciò che rileva, nella specie, è che sia riconosciuto
il danno alla persona ed il danno morale, i quali non costitu‑
iscono duplicazione dello stesso pregiudizio: il primo concer‑
ne la lesione dell’integrità psico‑fisica complessivamente inte‑
sa, il secondo la sofferenza fisica e morale.
Si tratta di voci che, pur nella visione unitaria del danno
non patrimoniale attualmente fatta propria dalla S.C., sono
ontologicamente differenti e concorrono al risarcimento, non
già si escludono a vicenda (come avverrebbe se si trattasse di
pubblicazione della stessa voce).
La sentenza impugnata è, quindi, anche sul punto immu‑
ne da censure.
7. Con il penultimo motivo, il Ministero ha sostenuto che
il Tribunale avrebbe dovuto detrarre la somma ottenuta dal
danneggiato a titolo di indennizzo ai sensi della l. n. 210 del
1992.
Osserva la Corte, al pari di quanto osservato dal Tribuna‑
le, che l’impugnante non ha offerto alcuna prova circa il paga‑
mento di tale indennizzo e della sua misura; cosicché non è
possibile argomentare in alcun modo sul motivo di appello, non
potendosi in ogni caso pervenire ad alcuna compensazione.
8. Con l’ultimo motivo, il Ministero ha sostenuto che – con‑
traddittoriamente – il Tribunale aveva riconosciuto la percen‑
tuale di invalidità permanente in capo a (omissis) pari al 71%,
pur avendo escluso che tale danno incidesse sulla capacità
lavorativa.
Il motivo è infondato, perché non è assolutamente chiari‑
ta la contraddittorietà o erroneità della sentenza laddove, da
un lato, ha riconosciuto tale alta percentuale del danno alla
persona, sulla scorta della c.t.u. (non contestata neppure
dall’impugnante) e, dall’altro, ha escluso il danno patrimo‑
niale, in quanto il (omissis) svolgeva (e, deve ritenersi, svolge,)
un’attività lavorativa.
Non è infatti sostenibile giuridicamente che il danno alla
persona in percentuale elevata non sussiste o deve essere sen‑
sibilmente diminuito allorché una persona lavori.
Il pregiudizio alla integrità psico‑fisica di un soggetto,
ogni qualvolta esso sia accertato, prescinde ed è autonomo
rispetto alla capacità lavorativa o al fatto che il danneggiato
lavori in concreto, cosicché anche in tal caso non è possibile
alcun parallelismo tra il danno alla persona e quello patrimo‑
niale, al fine di diminuire l’entità del primo.
Nel caso di specie, del tutto correttamente, alla stregua
della c.t.u., il Tribunale ha riconosciuto l’alta percentuale di
invalidità permanente al (omissis) derivata dall’aver contratto
l’epatite C.
Invero, con argomentazioni sorrette scientificamente e del
tutto immuni da vizi logico‑giuridici, il consulente d’ufficio
ha accertato che il (omissis) non può curare l’epatite C con i
farmaci tipici, quale l’interferone, poiché quest’ultimo agisce
negativamente sul sistema nervoso centrale, che è compromes‑
so dagli esiti neurologici dell’encefalite contratta a tre anni;
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
con la conseguenza che l’epatite “ha un’elevata percentuale di
progressione verso la cirrosi epatica e del carcinoma epatico
primitivo”.
Ha pertanto indicato non solo la predetta alta percentua‑
le di invalidità permanente, ma anche i parametri di riferi‑
mento adoperati: le tabelle allegate al D.M. della Sanità del
5.2.1992 (emesse cioè dallo stesso;inistero odierno impugnan‑
te), riviste nel 1994, indicano la percentuale invalidante fissa
delle 51% per l’epatite cronica attiva, in accordo con l’indica‑
zione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Tale percentuale aumenta però tra il 71% e l’80% per
l’epatite cronica attiva nell’infanzia.
9. Venendo a questo punto ad esaminare l’appello inciden‑
tale, tempestivamente proposto dagli appellati si osserva
quanto segue.
9.1. (Omissis) ha lamentato che il Tribunale non avesse
riconosciuto in suo favore il danno patrimoniale ed esisten‑
ziale.
Il motivo è, ad avviso della Corte, infondato.
Quanto al danno patrimoniale, correttamente il Tribuna‑
le non lo ha ritenuto sussistente, poiché il (omissis) svolgeva
attività lavorativa presso la società (omissis) partecipata dal
Comune di Roma.
L’appellante ha lamentato che fosse stata sottovalutata dal
Tribunale la sua condizione psico‑fisica, la quale gli consen‑
tiva solo lavori manuali, per poche ore al giorno.
Sul punto, va rilevato quanto segue.
La c.t.u. ha osservato come il danno subito a causa
dell’epatite abbia determinato una “una generica riduzione
complessiva della attitudine lavorativa”, che allo stato è so‑
stanzialmente superata dal fatto che il (omissis) ha una stabi‑
le attività lavorativa.
Quanto al limitato numero di ore lavorative che egli riesce
a svolgere e quanto al fatto che si tratta di attività manuali,
non è certo che siano conseguenze riconducibili all’epatite.
Occorre invero rilevare che dall’encefalite sono derivati
esiti neurologici che compromettono le capacità intellettive
del paziente, cosicché dall’accertamento peritale d’ufficio non
emergono riscontri che consentano con la dovuta certezza di
ricondurre all’epatite le allegate difficoltà nello svolgere lavo‑
ri per tempi più lunghi o lavori non solo manuali.
Quanto al danno esistenziale, la Corte di Cassazione,
nella sentenza su richiamata (Cass. S.U. 11.11.2008 N. 26972)
ha negato l’autonoma risarcibilità di tale danno, mentre la
congrua e motivata liquidazione del danno alla persona fa
2 0 1 3
57
ritenere alla Corte che il danno non patrimoniale del (omissis)
sia stato riconosciuto “personalizzandolo” in base all’entità
della patologia sofferta, dei suoi postumi e del lungo tempo
in cui si è manifestata.
9.2. La sig.ra (omissis) ha impugnato la sentenza di primo
grado, la quale erroneamente non le aveva riconosciuto il
diritto al risarcimento del danno biologico e di quello patri‑
moniale e neppure del danno esistenziale.
Lo stato d’ansia sofferto a seguito dell’ulteriore danno
alla salute del proprio figlio si è invece tradotto in un’auten‑
tica patologia invalidante ed inoltre l’aveva costretta a lascia‑
re la professione di insegnante, con risvolti pregiudizievoli
sulla pensione e sulla indennità di fine rapporto.
Ritiene la Corte alla luce della c.t.u., che il danno non
patrimoniale liquidato dal Tribunale costituisca un equo ri‑
storo per l’aggravamento della sindrome ansioso‑depressiva
già sorta in capo alla odierna appellata dopo l’encefalite che
colpì nel 1981 il proprio figlio.
Nel resto, la sentenza impugnata è immune da censure
laddove ha osservato che non vi è prova del nesso causale tra
la patologia e la lamentata circostanza di aver lasciato il lavoro,
né vi è prova di aver lasciato il lavoro per accudire il figlio.
Inoltre, non risulta documentazione medica o farmacolo‑
gica che descriva la “storia” di tale patologia e che consenta
quindi di istituire una relazione causale certa tra la patologia
epatica di (omissis) ed un danno non patrimoniale della madre
maggiore di quello già liquidato.
9.3. (Omissis) ha chiesto la riforma della sentenza impu‑
gnata, laddove non ha riconosciuto il danno esistenziale sof‑
ferto.
Come si è detto, il danno esistenziale autonomamente
inteso non può riconoscersi; mentre la sentenza è immune da
censure, laddove ha liquidato il danno non patrimoniale del
padre del danneggiato da trasfusioni in guisa tale da costitu‑
ire un serio ristoro per la sofferenza le preoccupazioni da ciò
derivate.
10. Conclusivamente, l’appello principale quello inciden‑
tale devono essere respinti.
La sentenza di primo grado deve essere interamente con‑
fermata.
Il rigetto di entrambe le impugnazioni rende equa la com‑
pensazione tra le parti le spese dell’appello.
P.Q.M.
(Omissis)
civile
Gazzetta
Diritto e procedura penale
La Cassazione alla faticosa ricerca del confine fra induzione e costrizione
61
Raffaele Cantone
La rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nel giudizio di appello alla luce
dell’evoluzione giurisprudenziale di legittimità
68
Rossella Catena
Competenza del giudice dell’esecuzione: scelta definitiva della Corte
di Cassazione per il criterio cronologico?
77
Luca Semeraro
L’utilizzo dei principi della Corte EDU per risolvere i casi di conflitto apparente
di norme
79
Vittorio Sabato Ambrosio
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
84
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Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
87
90
penale
Rassegna di legittimità [
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
●
La Cassazione
alla faticosa ricerca
del confine fra induzione
e costrizione *
● Raffaele Cantone
Magistrato presso la Suprema Corte di Cassazione
2 0 1 3
61
Sommario: Premessa - 1. Le ragioni della riforma. - 2. La
divisione in due della precedente fattispecie di concussione.
– 3. Le questioni di diritto intertemporale – 4. Il delitto di
concussione;la condotta di costrizione - 5. La condotta di
induzione nel delitto di cui all’art. 319-quater c. p. – 6. Il
momento consumativo del delitto di cui all’art. 319-quater c.
p. - 7. Il confine fra induzione indebita e corruzione.
Premessa
Sono passati poco più di quattro mesi dall’entrata in vigo‑
re della legge 6 novembre 2012 n. 1901 e già la sesta sezione
penale della Suprema Corte di Cassazione, competente per
materia sui reati contro la pubblica amministrazione, ribolle
di questioni ermeneutiche di grande delicatezza.
Un punto, in particolare, è oggetto di incandescente dibat‑
tito; l’individuazione del discrimen fra le due nuove fattispecie
di concussione ed induzione indebita, gemmate entrambe
dall’unica norma di cui all’art. 317 c.p.
Problema che si è posto subito all’attenzione per individua‑
re, in assenza di norme transitorie, quale fosse la disposizione
applicabile, lì dove in passato era stata contestata la concus‑
sione.
La soluzione del quesito passa, ovviamente, attraverso una
complessa actio finum regundorumfra le due nuove fattispecie,
ancora ad oggi non riuscita e che certamente avrà bisogno
dell’intervento dirimente delle Sezioni Unite.
1. Le ragioni della riforma
La legge n. 190, intitolata “disposizioni per la prevenzio‑
ne e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pub‑
blica amministrazione”, affronta, forse per la prima volta
nella storia della Repubblica, il fenomeno corruzione in modo
organico, sia sul piano della prevenzione amministrativa che
su quello della repressione penale.
Era una legge attesa e considerata indispensabile sia per
aggiornare le norme ai mutamenti strutturali che, nel corso
degli anni, avevano interessato le concrete forme di manife‑
stazione dell’illegalità amministrativa sia per adempiere agli
obblighi internazionali.
In particolare, l’Italia aveva aderito alla Convenzione
dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione
del 31 ottobre 2003, (nota come convenzione di Merida) e
alla Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo del 17
gennaio 1999, che richiedevano, oltre che la ratifica2 , anche la
adozione di più norme attuative e di adeguamento.
Le scelte, quindi, anche sul piano della normativa squisi‑
tamente penalistica avrebbero dovuto muoversi nel duplice
obiettivo indicato.
E, così, a titolo esemplificativo, se la modifica della dispo‑
sizione della corruzione per l’esercizio delle funzioni di cui
all’art. 318 c.p. appare finalizzata, in particolar modo, a tener
* Rielaborazione dell’intervento al convegno del 17 aprile 2013, tenutosi
presso l’Aula Magna della Corte di Cassazione, su “Il contrasto alla corru‑
zione: le prospettive aperte dopo la legge 6 novembre 2012, n. 190”
1 La legge è stata pubblicata nella G.U. del 13 novembre 2912 e, di conseguenza,
entrata in vigore il successivo 28 novembre
2 Le convenzioni sono state ratificate in notevole ritardo dall’Italia, in modo
“secco” e cioè senza la previsione di norme di adeguamento, proprio in attesa
dell’adozione della normativa organica poi varata nel novembre del 2012; in
particolare la Convenzione di Meridaè stata ratificata con legge 3 agosto 2009,
n. 116 e quella di Strasburgo con legge 28 giugno 2012, n. 110.
penale
Gazzetta
62
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
conto di come il rapporto corruttivo si è in concreto evoluto,
senza più incentrare l’illecito sulla compravendita di un atto
specifico del pubblico agente3, quella sul traffico di influenze,
prevista oggi dall’art. 346 bis c. p., sembra rispondere soprat‑
tutto a precisi auspici internazionali4.
Anche in materia di concussione, dall’ambito internazio‑
nale erano giunte indicazioni o meglio raccomandazioni per
una modifica del testo in precedenza vigente5.
Si era, in particolare, rilevato come nelle indagini sulla cd
corruzione internazionale, gli imprenditori italiani erano so‑
liti utilizzare quale argomento difensivo la circostanza di es‑
sere stati costretti o indotti al pagamento.
In questo senso, il Working group on Bribery, istituito
presso l’OCSE, nel rapporto sull’Italia adottato il 16 dicembre
2011, ribadendo i rilievi già avanzati quattro anni prima,
aveva invitato il nostro paese “a modificare senza indugio la
sua legislazione, escludendo la configurabilità della concus‑
sione come possibile esimente per la corruzione internazio‑
nale” 6
In termini analoghi si era espresso il GRECO (acronimo
di GRoup d’Etats contre la COrruption) nel rapporto adot‑
tato a Stasburgo il 23 marzo 2012, osservando, al punto 108,
come “il potenziale rischio di un uso improprio del reato di
concussione come meccanismo di difesa da parte di privati
cittadini che commettono la corruzione nell’ambito delle
transazioni commerciali internazionali è stato ripetutamente
evidenziato come fonte di preoccupazione da parte del grup‑
po di lavoro dell’OCSE”7.
2. La divisione in due della precedente fattispecie di concussione
Le raccomandazioni internazionali - che come si è visto
non riguardavano tanto il diritto penale interno ma le ricadu‑
te sul piano della corruzione internazionale, e che comunque
non avevano carattere vincolante per il nostro paese – non
rappresentavano un’assoluta novità nel vivace dibattito giu‑
ridico che da anni si era sviluppato sul tema corruzione.
Nel corso degli anni, in più occasioni, erano già state
presentate proposte, che in qualche caso si erano tradotte
anche in disegni di legge, con l’obiettivo di modificare il de‑
litto di concussione.
3 Ex plurimis, Pulitanò, Legge anticorruzione, in Cass. p., 2012, suppl al vol.
11,7; Bartoli, Il nuovo assetto della tutela a contrasto del fenomeno corrutti‑
vo, in Dir. p. e proc. 2013350 e ss; Garofoli, La nuova legge anticorruzione,
tra prevenzione e repressione, in www.p.alecontemporaneo.it, 14. Spadaro –
Pastore, Legge anticorruzione (l. 6 novembre 2012, n. 190), in Il P.alista,
speciale riforma, 2013, 41.
4 Così, Maiello, Il traffico di influenze indebite, in La legge anticorruzione, a
cura di Mattarella- Pellissero, Torino, 2013, 419, secondo cui la disposi‑
zione dell’art. 346 bis tra origine da un duplice titolo; uno di fonte sopranazio‑
nale, costituito dalle Convenzioni di Merida e Strasburgo, l’altro espressivo di
valutazioni politico-criminali, maturate nell’esperienza di funzionamento del
sistema p.aleitaliano.
5Le raccomandazioni conseguono alle attività di valutazione che sono previste
dagli stessi strumenti convenzionali; esse non hanno, però, la medesima natu‑
ra vincolante degli strumenti pattizi; così, Salazar, Contrasto alla corruzione
e processi internazionali di mutua valutazione:l’Italia davanti ai suoi giudici, in
Cass. p. 2012, 4271.
6 Così, Phase 3 Report on Implementino the OECD Anti-Bribery Convention
in Italy, - December 2011.
7 Così, Rapporto Greco di valutazione dell’Italia – Tema I incriminazioni – Ter‑
zo ciclo di valutazioni, n. 108; il tema era stato affrontato anche nelle prece‑
denti raccomandazioni del GRECO; sulle raccomandazioni adottate a seguito
del monitoraggio del 2009, si v. Bonfigli, L’Italia valutata dal GRECO, in
Cass. p. 2011, 1167.
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
Nel 1994, ad esempio, nel pieno delle indagini cd di tan‑
gentopoli, un gruppo di magistrati milanesi e di professori
universitari sposò l’idea dell’eliminazione totale della fattispe‑
cie di concussione; i fatti costrittivi sarebbero confluiti nella
norma, considerata generale, di estorsione aggravata dall’abu‑
so dei pubblici poteri; quelli induttivi riassorbiti dalla incri‑
minazione della corruzione8.
In questa stessa direzione si sono mossi anche alcuni di‑
segni di legge presentati al Parlamento, nel corso di questi
anni, nell’ambito proprio dell’attuazione delle disposizioni
internazionali di cui si è detto9.
In dottrina, invece, si erano segnalate voci autorevoli di
diverso segno; tendenzialmente contrarie, in particolare,
all’idea della totale eliminazione di una figura delittuosa che,
appartenente alla nostra tradizione giuridica, aveva avuto
l’importante merito di operare una specifica stigmatizzazione
del fatto, quando commesso da un pubblico agente10
Il legislatore della legge n. 190 ha scelto una posizione per
certi versi mediana; non l’abolizione tout court dell’ipotesi
della concussione, ma un suo sdoppiamento o, come ormai è
invalso nel linguaggio giurisprudenziale, un suo spacchetta‑
mento, che dovrebbe, però soddisfare le richieste provenienti
dagli organismi internazionali11.
Dall’unica norma dell’art. 317 c. p. sono, infatti, gemma‑
te due fattispecie.
L’articolo ante riforma rubricato “concussione” puniva “il
pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abu‑
sando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe o induce
taluno a dare o promettere indebitamente a lui o a un terzo
denaro o altra utilità”.
L’attuale art. 317 c. p. che mantiene la dizione di “con‑
cussione”, punisce, invece, con una pena maggiore nel mini‑
mo di quella precedente (oggi da “sei a dodici anni di reclu‑
sione”; ieri da quattro a dodici anni di reclusione”) “il pub‑
blico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi po‑
8 Durante un convegno, tenutosi a Milano il 14 settembre 1994, venne formu‑
lata e presentata all’opinione pubblica una proposta normativa il cui profilo
qualificante, oltre ad un generale inasprimento sanzionatorio e la formulazio‑
ne di una fattispecie unitaria di corruzione, era costituto dalla contestuale
soppressione della figura della concussione, ricondotta quanto all’ipotesi co‑
strittiva nella fattispecie di estorsione, e dalla previsione di una causa di non
punibilità per il corrotto ed il corruttore che “prima che la notizia di reato sia
stata iscritta a suo carico nel registro generale e comunque entro tre mesi
dalla commissione del fatto, spontaneamente lo denunci, fornendo indicazio‑
ni utili per la individuazione degli altri responsabili” e ponendo a disposizione
dell’autorità giudiziaria una somma pari a quanto ricevuto o versato. Sull’ar‑
gomento, ex plurimis,Seminara, La riforma dei reati di corruzione e concus‑
sione come problema giuridico e culturale, in Dir. p. e proc. 2012, 1239 a cui
si rinvia anche per i riferimento al vasto dibattito dottrinale che intorno ad
essa si sviluppò. Il testo della proposta può leggersi in Riv. trim. dir. p. econ.
1994, 1025.
9 Alla soppressione della figura della concussione, con conseguente spostamen‑
to dell’ipotesi costrittiva all’interno della fattispecie di estorsione facevano rife‑
rimento il ddl C 3380, presentato dall’On Di Pietro ed altri, il ddl. C 3850,
presentato dall’on. Ferranti ed altri, il ddl C 4516 presentato dall’On Garavinied
altri.
10 Così, Palazzo, Concussione, corruzione e dintorni: una strana vicenda, in www.
penalecontemporaneo.it, 4. Alle stesse conclusioni, Pellissero, Le istanze di
moralizzazione dell’etica pubblica e del mercato nel “pacchetto” anticorruzio‑
ne: i limiti dello strumento p.ale, in Dir. p. e proc. 2008, 282.
11 Così pronostica, Salazar, Contrasto alla corruzione e processi internazionali,
cit., 4287, secondo cui la previsione della punizione dell’indotto fornisce risposta
alla richiesta OCSE di non lasciare impunita la condotta di colui che era sotto‑
posto ad una semplice attività di induzione. Per una valutazione in termini po‑
sitivi della scelta legislativa si v. pure Pulitanò, Legge anticorruzione, cit., 10,
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 3
63
teri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a
lui o a un terzo denaro o altra utilità”.
La condotta di induzione, invece, è finita nell’app.a intro‑
dotto art. 319-quater, primo comma, c.p. la cui rubrica reci‑
ta “induzione indebita a dare o promettere utilità”; sanziona,
con una p.a inferiore sia rispetto all’attuale che alla pregressa
concussione (la reclusione da “tre ad otto anni”) “il pubblico
ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando
della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a
promettere indebitamente, a lui o a un terzo denaro o altra
utilità”
La novità più rilevante è, però, contenuta nel capoverso di
essa, laddove prevede che “nei casi previsti dal primo comma,
chi dà o promette denaro o altra utilità, è punito con la reclu‑
sione fino a tre anni”.
Come è stato efficacemente evidenziato in dottrina, la
riforma non comporta “un semplice riassestamento sul piano
sanzionatorio, costituendo piuttosto il frutto di una scelta
politico criminale volta ad una ridefinizione degli ambiti di
illiceità” 12.
La punibilità, infatti, del soggetto indotto nel delitto di
cui all’art. 319-quater c. p. vorrebbe, nelle intenzioni del le‑
gislatore, fungere da norma propulsiva di un nuovo modo di
porsi del privato nel rapporto con la pubblica amministrazio‑
ne; costui non può più cedere nei confronti di una blanda
spinta a pagare, se non vuole essere anche lui punito13.
Già ad una rapidissima lettura risulta evidente come, nel
confronto delle disposizioni precedente ed attuali, non si è
proceduto ad una scissione pura e semplice; nell’attuale con‑
cussione è “scomparso” il riferimento, quale possibile sogget‑
to attivo del reato, all’incaricato di pubblico servizio14; nella
nuova ipotesi di induzione è “apparsa” la punibilità di quel‑
la che, fino al 28 novembre 2012, era soltanto la parte offesa
del delitto.
Le evidenti differenze delle norme incriminatici, in assenza
di disposizioni transitorie, rimbalzano sull’interprete e sulla
giurisprudenza il compito di stabilire se le modifiche normati‑
ve hanno modificato l’area del penalmente rilevante.
parti, in quanto i principi indicati nell’art. 2 c. p., soprattutto
si verifica un’abolitio criminis, vanno applicati anche di uffi‑
cio.
La risposta fornita dalla Corte è stata sostanzialmente
univoca; le novità legislative non hanno comportato alcuna
eliminazione di condotte in precedenza punite.
In primo luogo, i supremi Giudici hanno ritenuto che la
costrizione per farsi dare o promettere denaro o altra utilità,
posta in essere da un incaricato di pubblico servizio, sarà
anche in futuro suscettibile di sanzione penale.
Non più, evidentemente, come concussione ma come
estorsione (aggravata ex art. 61, n. 9 c.p. dall’abuso di quali‑
tà), essendo quest’ultima norma generale rispetto alla prima
e, quindi, idonea a riassorbire quei comportamenti in passato
sanzionati ex art. 317 c. p.15.
Nell’individuazione di quale sarà, ex art. 2, comma 4, c.p.,
la disciplina applicabile per i fatti commessi prima del 28
novembre dovrà, però, necessariamente tenersi conto della
non perfetta coincidenza delle due fattispecie; la concussione
si consuma, infatti, con la mera promessa dell’utilità; l’estor‑
sione richiede che l’ingiusto profitto sia conseguito.
Le pene, inoltre, appaiono alquanto diverse; l’estorsione,
rispetto alla pregressa ipotesi di concussione, ha una pena più
bassa nel massimo, ma maggiore nel minimo; rispetto all’at‑
tuale, è punita meno gravemente nel minimo e nel massimo,
anche se la pena dell’estorsione diventa di gran lunga superio‑
re se scattano l’aggravante ordinaria dell’art. 61, n. 9 c. p. o
quella speciale di cui all’art. 628 c. p., e, quindi, anche se il
reato venga commesso da più persone riunite 16.
Ed, inoltre, non si può dimenticare come il diritto vivente
giurisprudenziale aveva ritenuto inquadrabile nell’utilità con‑
seguibile dal pubblico agente con la costrizione o con l’indu‑
zione anche una prestazione sessuale, mentre quest’ultima
difficilmente potrà integrare l’evento dell’ingiusto profitto del
delitto di estorsione 17.
Sarà, in conclusione, compito del giudice verificare, rispet‑
3. Le questioni di diritto intertemporale
Il tema della successione nel tempo si è posto da subito
all’attenzione della Cassazione; si tratta, infatti, di una que‑
stione che non necessita, nemmeno di essere rilevata dalle
15 A questa conclusione Cass., sez. VI, 25 febbraio 2013, n. 13047, Piccino,
CED Cass. n. 254466 secondo cui “A seguito dell’entrata in vigore della l. n.
190 del 2012, la minaccia, di qualsivoglia tipo o entità, di un danno ingiusto,
finalizzata a farsi dare o promettere denaro o altra utilità, posta in essere con
abuso della qualità o dei poteri, integra il delitto di concussione se proveniente
da pubblico ufficiale ovvero di estorsione se proveniente da incaricato di pub‑
blico servizio …”; negli stessi termini, anche Relazione n. III/11/2012 del 15
novembre del 2012 dell’Ufficio del Massimario presso la Corte di Cassazione,
10, in Italgiureweb, servizio novità.
16 Critici sul fatto che vi la costrizione posta in essere dall’incaricato di pubbli‑
co servizio sia punita più gravemente di quella posta in essere dal pubblico
ufficiale, ex plurimis, Balbi, Alcune osservazioni in tema di riforma dei de‑
litti contro la pubblica amministrazione, in www.p.alecontemporaneo.it, 8;
Palazzo, Concussione, corruzione e dintorni: una strana vicenda, ivi, 5;Pisa,
Una nuova stagione di “miniriforme”, in Dir. p. e proc. 2012, 1422. In
senso diverso, invece, Severino, La nuova legge, cit., secondo cui la circo‑
stanza aggravante comune sarebbe comunque soggetta a bilanciamento ed i
suoi effetti potrebbero essere neutralizzati con il riconoscimento delle circo‑
stanze attenuanti generiche.
17Nel senso che in caso di attività di costrizione posta in essere da pubblico
agente, finalizzata ad ottenere una prestazione sessuale, vi sia concorso forma‑
le fra concussione e violenza sessuale è orientata la giurisprudenza assolutamen‑
te consolidata; da ultimo Cass., sez. VI, 04 novembre 2010, n. 8894 , G, CED
Cass., n. 249652; anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 190 la posizione
risulta essere stata confermata dalla Cassazione; in questo senso Cass., sez. VI,
21 febbraio 2013, n. 18372, S. inedita; secondo Seminara, La riforma dei re‑
ati di corruzione e concussione, cit., 1240 in futuro tali comportamenti se posti
in essere da incaricato di pubblico servizio potranno integrare solo il delitto di
violenza sessuale ex art. 609 bisc. p.
12 A questa conclusione, Seminara, I delitti di concussione ed induzione indebita,
in La legge anticorruzione, a cura di Mattarella- Pellissero, Torino, 2013,
384.
13In questo senso, Pellissero, La nuova disciplina della corruzione tra repres‑
sione e prevenzione, in La legge anticorruzione, a cura di Mattarella- Pellissero, Torino, 2013, 350.
14La scelta si fonda sull’assunto che solo il pubblico ufficiale è in grado di inge‑
nerare il metus pubblicae potestatis; su punto si vedano le illuminanti indica‑
zioni che vengono dallo stesso Ministro della giustizia in carica al momento
dell’approvazione della l. n. 190; secondo, infatti, Severino, La nuova legge
anticorruzione, in Dir. p. e proc. 2013, 9 la scelta di estendere la soggettività
attiva del reato di concussione all’incaricato di pubblico servizio mal si attaglia
“alla struttura soggettiva della fattispecie, incentrata su forme di coazione
psicologica riportabili esclusivamente ai poteri coercitivi tipici della pubblica
funzione”. In senso critico rispetto alle ragioni di fondo della scelta, Seminara,
I delitti di concussione ed induzione indebita, cit., 388 secondo cui la scelta
normativa non tiene conto della circostanza he, in seguito alla progressiva di‑
latazione giurisprudenziale della categoria degli incaricati di pubblico servizio
risulta difficilmente sostenibile l’idea di un metuslegato esclusivamente ai pote‑
ri coercitivi propri della pubblica funzione.
penale
Gazzetta
64
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
to al caso concreto, (se e) quale fattispecie sarà applicabile; in
linea di massima se non vi sia stata alcuna dazione, sarà più
favorevole la disposizione sull’estorsione, applicabile nella
forma del tentativo; in caso contrario più favorevole sarà
quella pregressa sulla concussione
La Corte di legittimità ha anche precisato che le condotte
induttive commesse in passato resteranno ancora punibili; vi
è, infatti, un rapporto di continuità fra la disposizione di cui
all’art. 317, vigente ante 28 novembre, e quella attuale ex art.
319-quater c. p.18.
La novità, rappresentata dall’essere nella disposizione
incriminatrice introdotta dalla legge n. 190 punito anche
l’indotto, non può condurre, infatti, all’opposta conclusione;
il comportamento sanzionato nei confronti del pubblico agen‑
te resta, oggi come ieri, identico, si punisce, cioè, sempre
l’attività di induzione; e del resto la struttura del reato anche
in passato era già naturalisticamente plurisoggettiva, anche
se ad essere punito era solo l’appartenente alla pubblica am‑
ministrazione 19.
In un unico caso la Corte sembra avere espresso qualche
minimo dubbio sulla posizione da ultimo esposta; lo ha fatto
quando, in un suo arresto, ha evidenziato, che la continuità
normativa fra le due fattispecie medesima presuppone neces‑
sariamente che l’“induzione” che, oggi rappresenta l’elemento
oggettivo della fattispecie di cui all’art. 319-quater c. p., sia
definita negli stessi identici termini di quando era vigente il
pregresso testo dell’art. 317 c. p. 20.
Una volta esclusa l’abolitio criminis, per i pregressi fatti
di induzione, per i quali non sia intervenuta sentenza passata
in giudicato, il condannato ha diritto a beneficiare del tratta‑
mento sanzionatorio più favorevole e, di conseguenza anche
del regime più favorevole dei termini di prescrizione exart.
157 c. p.
Quanto all’applicazione concreta della disposizione più
favorevole, la Suprema CorteCassazione in uno dei suoi arre‑
sti sembra essersi orientata nel ritenere che l’inquadramento
della condotta sotto il profilo della costrizione oppure sotto
quello dell’induzione non è questione attinente alla qualifica‑
zione giuridica del fatto ma è questione di merito sottratta
alla cognizione della Corte di Cassazione, fuori del caso di
mancanza o di manifesta illogicità della motivazione costi‑
18 Anche la dottrina sembra concordare su questa soluzione; così Palazzo, Gli
effetti <preterintenzionali> delle nuove norme p.ali contro la corruzione, La
legge anticorruzione, a cura di Mattarella- Pellissero, Torino, 2013, 18
secondo cui l’art. 319 quater non presenta novità strutturali, risultando da una
semplice operazione di distacco, di separazione dalla vecchia concussione; in
senso problematico, Relazione n. III/11/2012 del 15 novembre del 2012
dell’Ufficio del Massimario presso la Corte di Cassazione, cit., 8.
19 A questa conclusione sono, ad oggi, giunte, Cass., sez. VI, 03 dicembre 2012,
n. 3251, Roscia, CED Cass.n. 253935;
Cass., sez. VI, 11 febbraio 2013, n. 12388 , Sarno, ivi, n. 254441; Cass.,
sez. VI, n. 11792 del 11 febbraio 2013 (dep. 12 marzo 2013 ), Castelluzzo,
ivi, n. 254437; in termini anche Cass., sez. VI, 11 gennaio 2013,n. 17285,
Vaccaro, ivi n. 254620, sia pure però negando la natura bilaterale del reato di
induzione di cui all’art. 319 quaterc. p., considerato una fattispecie con due
condotte che si consumano autonomamente.
20 Così, Cass., sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 16154, Pierri, CED Cass. n. 254539che
in motivazione, testualmente afferma “se la induzione dovesse essere definita
… quale unico e nuovo elemento strutturale del delitto di <induzione indebita>,
saremmo in presenza di un fenomeno di successione di norme che non potreb‑
be che comportare ex art. 2, comma 2, c.p. una vera e propria abolitio crimi‑
nisper coloro che sono stati condannati per il delitto di concussione mediante
induzione.”.
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
tuente oggetto di specifica deduzione. Ne deriva che la ricon‑
duzione della condotta stessa, operata dal giudice di merito,
all’una piuttosto che all’altra delle due ipotesi non può essere
affrontata dal giudice di legittimità ove non espressamente
dedotta dal ricorrente in forza di un apprezzabile interesse; e
che la stessa non può, in difetto di ciò, essere autonomamen‑
te presa in esame ai fini della riconduzione della condotta
alla previsione del nuovo art. 317 c. p., che trova ora applica‑
zione alla sola ipotesi di costrizione, o non piuttosto a quella
dell’art. 319-quater c. p. che trova la sua applicazione nell’ipo‑
tesi di induzione, dovendo aversi riguardo esclusivo a tal fine
nell’inquadramento già operato dal giudice di merito, sempre
che esso non sia stato specificamente posto in questione sulla
base di motivi ammissibili 21.
Quando, però, il giudice di merito non ha proceduto alla
qualificazione giuridica del fatto ma quest’ultimo risulta
precisamente ricostruito, in modo che sia chiaro il comporta‑
mento materiale del pubblico agente incriminato, la Corte, in
più di un’occasione, ha operato direttamente la riconduzione
della fattispecie concreta all’ipotesi di concussione o di indu‑
zione. E in quest’ultimo caso ha annullato con rinvio al giu‑
dice di merito, per le determinazioni quoad poenam 22 o
senza rinvio quando ha considerato decorsi i termini di pre‑
scrizione 23; se, invece, la riconduzione nella fattispecie neces‑
sitava di attività valutative tipiche del giudice di merito, ha
annullato con rinvio anche perché venissero effettuati i neces‑
sari accertamenti 24.
4. Il delitto di concussione; la condotta di costrizione
Il delitto di concussione così come previsto dal nuovo testo
dell’art. 317 c. p., è, come si è già poco sopra evidenziato,
integrato quando, con abuso di funzioni o di poteri, il pub‑
blico ufficiale pone in essere una condotta di “costrizione”.
In base anche al linguaggio comune, “costrizione” indica
quell’azione attraverso cui ad un soggetto è impedito realmen‑
te di scegliere; l’azione posta in essere, quindi, presuppone
l’utilizzo di forme di violenza, finalizzate ad imporre un’azio‑
ne o un’omissione (nel caso di specie una promessa o una
dazione).
La violenza nel diritto penale può, però, avere natura o
morale (e quindi essere di fatto una minaccia) o fisica (violen‑
za vera e propria, come estrinsecazione di forza fisica che si
abbatte sulla vittima).
Secondo le pronunce esaminate ai fini del delitto di con‑
cussione, il concetto di costrizione non può che far riferimen‑
to alla sola violenza morale e cioè alla minaccia; la violenza
fisica, infatti, è assolutamente incompatibile con l’esercizio
– anche se in forma di abuso - delle funzioni e dei poteri; il
pubblico ufficiale che ne dovesse fare uso agirebbe, quindi,
certamente al di fuori di funzioni e poteri ed il suo compor‑
21 Cass., sez. VI, 8 febbraio 2013, Breccia, la cui motivazione non risulta ancora
depositata ma il principio anticipato da un’ informazione provvisoria della
Corte; da essa si evince anche come, nel caso di specie, sia stata ricondotta alla
previsione del nuovo art. 319 quater c. p. una condotta espressamente qualifi‑
cata in sentenza come induzione, con conseguente dichiarazione di estinzione
del reato per prescrizione intervenuta già prima della sentenza di appello.
22 Così, Cass., sez. VI, 25 febbraio 2013, n. 13047, Piccino, cit.
23 Così, Cass., sez. VI, 04 dicembre 2012, n. 8695, Nardi, CED Cass. n.
254114.
24 Così Cass., sez. VI, 03 dicembre 2012, n. 3251, Roscia, cit.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
tamento sarebbe qualificabile come quello di un comune cit‑
tadino.
L’eventuale violenza fisica finalizzata a farsi dare danaro
o utilità qualificherebbe il comportamento del pubblico uffi‑
ciale, di conseguenza, in termini di estorsione o persino di
rapina 25.
Nell’ambito, però, della violenza morale il punto contro‑
verso riguarda l’individuazione precisa della tipologia di mi‑
naccia che possa considerarsi idonea ad integrare l’elemento
materiale del delitto di cui all’art. 317 c. p.
Per la Corte, sembra fuori discussione che è costrizione
quella minaccia che non lascia margini di autodeterminazio‑
ne a colui che la riceve; il destinatario di essa dà o promette
perché non ha di fatto scelta alcuna; utilizzando l’espressione
civilistica coniata per indicare il vizio della volontà della
violenza morale, può dirsi etsi coatctus tamen voluti 26.
In alcuni arresti, però, si ritiene che non sono necessarie
minacce espresse del pubblico ufficiale, ma possono bastare
anche soltanto modi bruschi e stressanti, accompagnati da
comportamenti idonei a creare nel destinatario una condizio‑
ne di soggezione27; ed in questa stessa prospettiva sembra
muoversi la Cortequando ritiene che anche la artata prospet‑
tazione da parte dell’agente pubblico al privato di difficoltà e
rischi di non riuscire ad ottenere un diritto, integra la costri‑
zione rilevante ex art. 317 c. p. e ciò anche se l’utilità che si
cerca di ottenere è una prestazione sessuale28.
Discusso è, invece, se possa considerarsi “costrizione”
anche una minaccia che si manifesti in forme più blande che
sfocino, ad esempio, in comportamenti allusivi o quando la
minaccia venga posta in essere attraverso la prospettazione al
destinatario di un male giusto, cioè di una conseguenza sfa‑
vorevole, connessa, però, all’applicazione della norma.
Questi ultimi casi in passato erano stati fatti rientrare
dalla giurisprudenza nell’alveo della fattispecie di cui all’art.
317 c. p. senza porsi nemmeno interrogativi su come qualifi‑
carli: essendo punita nell’unico contesto sia la costrizione che
l’induzione le esigenze classificatorie avevano avuto un minor
peso pratico.
Oggi però che l’induzione è divenuta l’ elemento materia‑
le di un altro delitto, la questione assume un ruolo centrale;
l’individuazione del quid consistam di quest’ultima consenti‑
25In questi termini, Cass., sez. VI, 03 dicembre 2012 n. 3251, Roscia, CED Cass.
n. 253936 e Cass., sez. VI, 03 dicembre 2012, n. 7495, Gori, ivi n. 254020;
nel senso, però, che integrerebbe concussione l’esercizio della violenza fisica
qualora il soggetto attivo sia investito di poteri di coercizione sulla persona e a
questa residui una libertà di scelta, si v. Seminara, I delitti di concussione e
induzione indebita, cit. 390.
26 Così, Cass., sez. VI, 25 febbraio 2013, n. 11942 , Oliverio, CED Cass.,
n. 254444; sostanzialmente alla stessa conclusione – per cui è costrizione anche
la mera prospettazione di un male ingiusto che finisce per coartare in modo
assoluto la volontà del destinatario della pretesa economica – perviene anche
Cass., sez. VI, 25 gennaio 2013, n. 6578 , Piacentini, ivi n. 254544
27In questo senso, Cass., sez. VI, 21 febbraio 2013, n. 10891, Fazio, CED Cass.
n. 254443 secondo cui “Anche a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 1,
comma 75 della l. n. 190 del 2012, commette il delitto di concussione di cui
all’art. 317 c. p. il pubblico ufficiale che, nella sua interazione con il privato,
utilizzi modi bruschi e stressanti, accompagnati da comportamenti di abusi
della qualità e/o dei poteri, preordinati a creare nel destinatario una condizione
di riduzione dello “spatium deliberandi”, idonea a determinare quest’ultimo a
promettere o dare un’indebita utilità . (Nella specie, il pubblico ufficiale utiliz‑
zando i modi indicati e prospettando al privato il potere di incidere sulla
emissione di mandati di pagamento, connessi ad un contratto di fornitura con
la p.a., si faceva consegnare un fax).”
28 Così, sez. VI, 21 febbraio 2013, S. inedita
2 0 1 3
65
rà, di conseguenza, di delimitare con maggiore precisione
anche l’elemento oggettivo della vigente disposizione dell’art.
317 c. p.
5. La condotta di induzione nel delitto di cui all’art. 319-quater
c. p.
L’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 319-quater c.
p. è costituito dall’attività di induzione posta in essere con
abuso di funzioni o di poteri dal pubblico ufficiale o dall’in‑
caricato di pubblico servizio.
La parola che descrive il comportamento incriminato è
caratterizzata da un’efficacia di selettività linguistica molto
minore rispetto a quella poco sopra analizzata con riferimen‑
to al delitto di concussione. Ed almeno su questo punto sem‑
bra in linea di massima sostanzialmente concordare la Corte
di Cassazione.
Sul significato della stessa, però, e soprattutto su quale
debba essere l’azione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di
pubblico servizio che la integri vi sono, invece, posizioni di‑
varicate.
Ad oggi possono individuarsi nelle pronunce della Sesta
sezione della Corte, competente ratione materiae, tre diverse
opzioni interpretative29.
Una prima posizione parte proprio dalle difficoltà di ri‑
costruire il significato della parola “induzione”; afferma, in‑
fatti, in premessa che già sul piano squisitamente linguistico
“costringere … è un verbo descrittivo di un’azione e del suo
effetto, mentre indurre connota soltanto l’effetto e non il
modo in cui questo effetto venga raggiunto”.
Evidenzia, poi, sul piano sistematico, come nel codice
penale la parola induzione sia presente in più fattispecie de‑
littuose (art. 377 bis, 507, 558), ma sempre accompagnata da
specificazioni verbali che individuano le modalità dell’azione
e, quindi, in funzione più di indicare il risultato raggiunto che
il modo attraverso il quale si è riusciti ad ottenerlo.
L’ambiguità semantica della parola impone all’interprete
di spostare l’attenzione sulla fattispecie così come complessi‑
vamente costruita dal legislatore del 2012, evidenziando, in
particolare, la più importante novità che la caratterizza e cioè
la punibilità dell’indotto.
La norma letta da questa prospettiva deve trovare una
giustificazione, sul piano dei principi generali, della punibili‑
tà di un soggetto che, fino al 28 ottobre 2012, era a tutti gli
effetti una parte offesa.
Se si ritenesse l’induzione come una minaccia più blanda,
si finirebbe per punire un soggetto che comunque si è piegato
ad una attività di pressione; significherebbe “richiedere al
soggetto virtù civiche ispirate a concezioni di stato etico pro‑
prie di ordinamenti che si volgono verso concezioni antisoli‑
daristiche ed illiberali”.
Ed allora, si conclude, intanto l’indotto può essere punito
perché, pur sottoposto ad una pressione connessa al metus
pubblicae potestatis, persegue un proprio interesse ed ottiene
un proprio vantaggio. Dal punto di vista dell’agente, l’azione
di costui consiste nella prospettazione, anche in forma minac‑
29 Alle stesse conclusioni, nel senso che sarebbero tre ad oggi le opzioni inter‑
pretative della giurisprudenza, Garofoli, La nuova legge anticorruzione,
cit., 17.
penale
Gazzetta
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
ciosa, di una conseguenza sfavorevole, ma comunque connes‑
sa all’applicazione della legge. La pressione del funzionario
pubblico non avendo ad oggetto “un male ingiusto” tecnica‑
mente non dovrebbe nemmeno considerarsi una minaccia. In
conclusione, la linea di discrimine fra le due ipotesi delittuose
sta nell’oggetto della prospettazione; danno ingiusto e contra
ius nella concussione; danno legittimo e secundum ius nella
nuova fattispecie dell’art. 319-quater 30.
In altre pronunce, la Cortegiunge alla stessa conclusione
anche con ulteriori argomenti; in un caso si richiama al prin‑
cipio costituzionale di colpevolezza: l’indotto può essere pu‑
nito a condizione che tenga una condotta che sia “rimprove‑
rabile” ed esigibile”. Situazione questa che si verifica, in pre‑
senza di una prevaricazione del pubblico agente, solo se il
comportamento adesivo del privato si muova in una logica di
perseguire un proprio interesse 31; in altro prova a trovare un
aggancio normativo all’implicito requisito che caratterizze‑
rebbe la condotta dell’indotto, cioè la necessità di perseguire
un proprio tornaconto o vantaggio, nella collocazione topo‑
grafica scelta dal legislatore per la nuova disposizione incri‑
minatrice 32.
Una seconda opzione ricostruisce l’induzione in termini
di una minaccia blanda o di un comportamento di persuasio‑
ne o di suggestione che sia tale da non far venir meno la
possibilità di opporsi da parte del destinatario della pretesa.
Non è, quindi, rilevante cosa il pubblico agente prospetti
al privato, ma l’intensità della pressione prevaricatrice.
A questa opzione la sesta sezione della Corte aderisce con
la sua prima decisione intervenuta in argomento, dopo la
pubblicazione della legge n. 190 in Gazzetta ufficiale, ma
prima persino che essa sia entrata in vigore.
A sostegno della tesi, la Corte evidenzia soprattutto l’as‑
senza di un univoco significato del termine induzione, che può
sul piano semantico essere letto come compatibile sia con un
contegno implicito o blando, ma comunque in grado di deter‑
minare uno stato di soggezione, sia con una condotta più o
meno subdolamente persuasiva33.
In successivi arresti, viene, però, meglio precisata la rico‑
struzione ermeneutica.
Si parte dalla premessa secondo cui l’art. 319-quater c. p.
nasce dal distacco di uno dei comportamenti che integravano
l’elemento oggettivo della fattispecie delittuosa, in preceden‑
za punita dall’art. 317 c. p.
Nel vigore del precedente testo sanzionatorio della con‑
cussione, seppure la giurisprudenza non si era particolarmen‑
te impegnata a distinguere l’induzione dalla costrizione per
30 In questo senso, per prima, Cass., sez. VI, 3 dicembre 2012, n. 3251, Roscia,
CED Cass., n. 253938; in termini sovrapponibili Cass., sez. VI, 3 dicembre
2012, n. 7495, Gori, ivi n. 254021; secondo Cass., sez. VI, 15 febbraio 2013,
n. 17943, Sammatrice, inedita il vantaggio che l’indotto vuole perseguire con
l’accettazione della richiesta, può essere anche parziale o essere ottenuto in
forma diretta o indiretta.
31 Così, Cass., sez. VI, 25 febbraio 2013, n. 13047, Piccino, CED Cass.
n. 254466.
32Nella motivazione di Cass., sez. VI, 14 gennaio 2013, n. 17593, Marino, CED
Cass., n. 254622, evidenzia la circostanza che “il legislatore abbia previsto non
un articolo 317 bis ma un articolo 319-quater, accostando cioè la fattispecie in
disamina al fenomeno della corruzione, in cui entrambe le parti agiscono in
vista di un vantaggio”.
33 Così, Cass., sez. VI, 18 dicembre 2012, n. 3093, Aurati, CED Cass., n.
253947.
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
essere le due condotte entrambe integrative della fattispecie,
non erano mancate, in alcune occasioni, precise indicazioni
in tal senso.
L’induzione era stata ritenuta sussistente quando il pub‑
blico agente, per creare una posizione di soggezione nei con‑
fronti del privato, abusando della propria qualità o della
propria funzione. faceva leva su suggestione, persuasione o
convincimento a dare o promettere qualcosa per evitare un
male peggiore 34.
Non vi è, quindi, nessuna ragione plausibile per dover
abbandonare la pregressa impostazione, oggi che l’induzione
è assurta ad elemento oggettivo di un nuovo reato.
In questa ricostruzione, del resto, la punizione dell’indot‑
to trova una sua legittima ragion d’essere; il carattere più
blando della pressione postagli gli consente di resistere e se
non lo fa, è giusto venga punito in modo ovviamente meno
grave del corrotto perché comunque è sottoposto ad una ves‑
sazione 35.
Fra le due posizioni interpretative, così brevemente deli‑
neate, si è posto anche un terzo orientamento che prova ad
individuare una soluzione di mediazione.
Il punto di partenza del ragionamento è sostanzialmente
identico a quello esplicitato da ultimo; la fattispecie dell’art.
319-quaterc. p. nasce per scissione della precedente norma
dell’art. 317 c. p. per cui non possono che essere recuperati
quegli approdi esegetici che, in passato, avevano consentito
di qualificare l’induzione come una minaccia più blanda o
come una suggestione posta in essere, abusando della qualità
o dei poteri, dal pubblico ufficiale.
Bisogna, però, - secondo i supremi giudici - prendere atto
che il criterio adottato in passato per distinguere induzione e
costrizione, fondato sul minore grado di coartazione morale,
ha dato luogo a difficoltà interpretative ed ha finito per am‑
pliare la portata applicativa della precedente disposizione
codicistica.
Quel criterio oggi può essere rivisto alla luce del fatto
nuovo introdotto dalla norma dell’art. 319-quater e cioè la
punibilità dell’indotto. E’ necessario, quindi, individuare una
ragione ulteriore per spiegare perché colui che fino al 28 no‑
vembre era solo vittima oggi comunque diventa compartecipe
del reato, sia pure con una p.a ben diversa e minore di quella
prevista per colui che induce ma anche per il corruttore.
Tale ragione può essere reperita nella possibilità che egli
ha di opporsi alla pretesa illegittima e tale possibilità va indi‑
viduata nella conservazione di un margine di autodetermina‑
zione, che esiste sia quando la pressione del pubblico agente
è più blanda sia quando egli ha un interesse a soddisfare la
34 Ex plurimis, Cass., sez. VI, 19 giugno 2008, n. 33843, Lonardo, CED Cass.,
n. 240795; Cass., sez. VI, 11 gennaio 2011, n. 25694 , De Laura, ivi n.
250468
35 Cosi, Cass., sez. VI, 04 dicembre 2012, n. 8695, Nardi, CED Cass. n. 254114;
l’affermazione è ribadita negli stessi termini in altro arresto di poco successivo
con una decisione redatta dal medesimo estensore; in essa è interessante rileva‑
re come, forse anche nell’obiettivo di addivenire ad una soluzione di compro‑
messo con l’orientamento precedentemente esposto, si prova comunque a va‑
lorizzare l’eventuale vantaggio perseguito dall’indotto; esso non sarebbe un
elemento costitutivo del reato ma soltanto “elemento indicatore” che consen‑
tirebbe di individuare l’induzione, distinguendola dalla costrizione; così, Cass.,
sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 16154, Pierri, ivi n. 254539; alle medesime con‑
clusioni, anche Cass., sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 17285 Vaccaro, ivi, n.
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F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
pretesa del pubblico funzionario, perché ne consegue per lui
un indebito beneficio.
In questa prospettiva, l’induzione avrebbe carattere biva‑
lente; sussisterebbe, cioè, sia in presenza di pressione blanda
sia quando ciò che viene minacciato è un male giusto 36.
6. Il momento consumativo del delitto di cui all’art. 319-quater
c. p.
La Cassazione ha affrontato anche il tema dell’individua‑
zione del momento consumativo del delitto di cui all’art.
319-quater c. p.
Coerente con l’idea che la nuova fattispecie si ponga in
continuità con la pregressa ipotesi di concussione e che essa
nasca per gemmazione/scissione di quella, ha mutuato dai
precedenti approdi i riferimenti per individuare quanto il re‑
ato è ormai perfetto.
Tale situazione si verifica quando la richiesta del pubblico
agente è accolta anche con la sola promessa da parte dell’in‑
dotto, nessun rilievo potendosi riconoscere alla circostanza
che, subito dopo la promessa, il privato si rivolga alla polizia
perché la consegna dell’utilità avvenga sotto il controllo di
essa o la promessa sia stata fatta con la riserva mentale, ab
origine, di non volere poi effettuare la dazione 37.
Seppure in questa fase la giurisprudenza si sta occupando
di fatti di induzione originariamente nati sotto l’egida della
concussione, non ha potuto far a meno di anticipare quale
sarà uno dei possibili temi su cui, in un prossimo futuro, il
dibattito sarà di certo molto animato.
E cioè sulla punibilità o meno dell’indotto che prometta
l’utilità al funzionario pubblico, ma ciò faccia o con l’inten‑
zione fin dal primo momento di non adempiere e di avvertire
la polizia o cambi opinione dopo avere aderito all’illecita
proposta e decida di allertare le forze dell’ordine.
In una sorta di obiter dictum contenuto nella motivazione
di una delle sentenze edite la Corte sembra anticipare una
possibile opzione ermeneutica futura; una volta aderito alla
richiesta anche con la semplice promessa il reato di cui al
comma 1 dell’art. 319-quater c. p. si intende consumato;
l’atteggiamento originario o successivo dell’indotto potrebbe
rilevare, invece, sul piano della desistenza o del recesso attivo;
afferma, infatti,
..[non si può escludere].. “in prospettiva
il ricorso agli istituti della desistenza o del recesso attivo i
quali potrebbero operare non soltanto nell’ipotesi di tentati‑
vo, ma anche là dove alla promessa, che di per sé sola perfe‑
ziona il reato, faccia seguito la dazione e prima che tale
evento si verifichi” 38.
36 Così, Cass. sez. VI, 11 febbraio 2013, n. 11794 , Melfi, CED Cass. n. 254440
e Cass. sez. VI, 25 febbraio 2013, n. 11944, De Gregorio, ivi n. 254446.
37 Così, Cass. sez. VI, 25 febbraio 2013, n. 13047, Piccinno, CED Cass.n.
254467; in termini, con riferimento specifico alla riserva mentale di non voler
poi adempiere, Cass., sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 16154, Pierri, ivi n.
254541.
38 Cass., sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 16154, Pierri, cit., Sembrerebbe giungere
alla stessa conclusione in dottrina, Seminara, I delitti di concussione ed inde‑
bita induzione, cit., 397; secondo l’autore, infatti, il tentativo certamente
configurabile si strutturebbe in senso diverso a seconda che il reato sia commes‑
so dal pubblico agente o dal privato: nel primo caso esso richiede il compimen‑
to di atti di abuso idonei e diretti in modo non equivoco ad indurre a taluno a
dare o promettere indebitamente l’utilità; nel secondo caso è necessario che gli
atti diretti a dare o promettere siano stati preceduti dall’altri induzione.
2 0 1 3
67
7. Il confine fra induzione indebita e corruzione
Un tema su cui è opportuno, in conclusione, fare solo un
breve cenno: l’individuazione dei confini fra il delitto di cui
all’art. 319-quater e la corruzione.
La nuova fattispecie, per quanto si è anche sino a questo
momento evidenziato, si pone al centro fra la concussione - i
cui caratteri distintivi oggi con la corruzione dovrebbero es‑
sere più chiari, atteso che l’azione dell’agente è particolarmen‑
te marcata dall’utilizzo di una forma di violenza morale - e
corruzione 39.
Ed è pronostico fin troppo semplice quello che in un pros‑
simo futuro, quando sarà definitivamente chiaro il quid
consistamdell’induzione, sull’individuazione di questa mal‑
certa linea di demarcazione saranno moltissimi gli arresti
giurisprudenziali che si dovranno cimentare.
Ad oggi, la Corte ha chiarito quale sono gli ambiti diffe‑
renziali fra il delitto di induzione e quello di istigazione alla
corruzione; quest’ultima presuppone un rapporto partitario
fra i soggetti che manca nella fattispecie di nuovo conio, in
quanto questa resta sempre un delitto che si caratterizza per
un rapporto di prevaricazione del pubblico agente 40.
La distinzione fra i delitti di cui all’art. 322 (o 319) e
319-quaterc. p. appare, almeno in astratto, chiara anche
quando la condotta del pubblico agente abbia la forma della
sollecitazione; il discrimen è da individuarsi nella preesisten‑
za all’azione sollecitatoria di un abuso di funzioni o di poteri
da parte del pubblico agente 41.
Nella prospettiva di delineare il confine fra corruzione ed
induzione può essere anche utile ricordare quanto affermato
in altra decisione: il delitto di induzione si distinguerebbe
dalla corruzione perché la nuova norma non delineerebbe
un’unica fattispecie di “reato contratto” (come avviene per la
corruzione) ma due diverse ipotesi delittuose una del pubblico
agente, l’altra dell’indotto; così si esprime in motivazione la
decisione citata: “La nuova fattispecie, rubricata, come detto,
“Induzione indebita a dare o promettere utilità”, pur facen‑
do partitamente riferimento alla condotta di due soggetti,
non integra propriamente un reato bilaterale, come nel caso
della corruzione, perché le due condotte del soggetto pubbli‑
co e del privato si perfezionano autonomamente. Il soggetto
pubblico continua ad essere punito perché “induce taluno a
dare o a promettere indebitamente” denaro o altra utilità; il
soggetto privato è (ora) punito perché, essendo stato in tal
modo indotto, “dà o promette” denaro o altra utilità. Invece,
nella corruzione, tipico reato bilaterale, il soggetto pubblico
“riceve” denaro o altra utilità, o “ne accetta la promessa”,
sulla base di un accordo che intercorre necessariamente con
il privato. Dunque, in base all’art. 319-quater, i due soggetti
si determinano autonomamente, e in tempi almeno idealmen‑
te successivi: il soggetto pubblico avvalendosi del - e il priva‑
to subendo il - metus publicae potestatis; mentre la fattispecie
corruttiva si basa su un accordo, normalmente prodotto di
una iniziativa del privato.”42
39 Così, Relazione n. III/11/2012 del 15 novembre del 2012 dell’Ufficio del Mas‑
simario presso la Corte di Cassazione, cit., 7.
40 Cass., sez. VI, 3 dicembre 2012, n. 3251, Roscia, CED Cass. n. 253937.
41 Cass., sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 16154 , Pierri, CED Cass. n. 254540.
42 Brano tratto dalla motivazione di Cass., sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 17285,
Vaccaro, cit.
penale
Gazzetta
68
D i r i t t o
●
La rinnovazione
dell’istruttoria
dibattimentale
nel giudizio di appello
alla luce dell’evoluzione
giurisprudenziale
di legittimità
● Rossella Catena
Presidente della III Sezione Corte Appello Penale di Napoli
e
p r o c e d u r a
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
1. La sentenza emessa dalla V sezione penale della Corte
di Cassazione, n. 1798 del 5 luglio 2012, avente ad oggetto i
fatti svoltisi a Genova nel luglio 2001, allorquando in città si
teneva il vertice di Capi di Stato e di Governo del G8, oltre ai
numerosissimi spunti di interesse giuridico e di ricostruzione
storica di quegli avvenimenti, offre argomenti di riflessione
estremamente interessanti nella parte in cui, tra le questioni
preliminari, esamina l’eccezione di incostituzionalità, solleva‑
ta dalla Difesa, dell’art. 603 c.p.p. in relazione all’art. 117,
comma 1, della Costituzione.
La sentenza analizza anzitutto il riferimento alle pronunce
della Corte Costituzionale, n. 348 e n. 349 del 2007, che han‑
no affermato come l’art. 117, comma 1, della Costituzione
abbia introdotto nel sistema delle fonti normative, quale nor‑
ma di rango costituzionale, l’obbligo del legislatore ordinario
di rispettare le norme internazionali pattizie; da ciò consegue
che la norma nazionale che risulti incompatibile con quella
della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, e quindi con
gli obblighi internazionali della citata norma costituzionale,
viola per ciò stesso detto parametro costituzionale.
La Cassazione evidenzia poi come il meccanismo di inte‑
grazione tra la norma convenzionale e l’art. 117, comma 1,
della Costituzione sia assicurato dall’art. 32, par. 1, C.E.D.U.,
che attribuisce alla Corte Europea del Diritti dell’Uomo di
Strasburgo l’interpretazione centralizzata, con la conseguenza
che il giudice nazionale è obbligato ad interpretare le norme
interne in conformità della disposizione internazionale, non
potendo fare da esse derivare contenuti divergenti dall’interpre‑
tazione fornita dalla Corte di Strasburgo, per cui allorquando
il risultato sfoci in un contrasto insanabile in via interpretativa,
sarà compito della Corte Costituzionale accertare il conflitto
tra la norma interna e le disposizioni della Convenzione.
Nel caso di specie la Difesa aveva citato la sentenza 5 luglio
2011 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, definitiva il
5 ottobre 2011, nel caso Dan versus Moldavia, al fine di di‑
mostrare che il giudizio innanzi alla Corte di Appello di Ge‑
nova si era svolto in contrasto con quanto previsto dall’art. 6,
par. 1, CEDU, come interpretato dai giudici di Strasburgo,
secondo cui “Ogni persona ha diritto che la sua causa sia
esaminata imparzialmente ... da parte di un tribunale indi‑
pendente ed imparziale, costituito dalla legge che deciderà...
sul fondamento di ogni accusa elevata contro di lui”.
Nel caso esaminato dalla Corte di Strasburgo il ricorrente
era stato dapprima assolto dall’accusa di aver accettato, quale
preside di una scuola, una tangente per favorire il trasferimen‑
to di uno studente presso l’istituto da lui diretto, in quanto in
primo grado i testimoni avrebbero offerto versioni contrastan‑
ti dei fatti, mentre la sentenza di appello, pronunciata a segui‑
to di impugnazione del P.G., aveva ribaltato il giudizio, con‑
dannando l’imputato, senza però escutere nuovamente i testi
ma solo dando una diversa valutazione delle testimonianze
rese in primo grado, ritenute tutte attendibili, e non rilevando
essenziali discordanze tra le stesse.
I giudici di Strasburgo, con la citata decisione, hanno rite‑
nuto che l’essersi la Corte di Appello basata sulle dichiarazio‑
ni dei testi, come verbalizzate in atti, senza udire nuovamente
i testi medesimi, e ciò nonostante pervenire ad una sentenza
di condanna, costituiva una violazione dell’art. 6, par. 1 della
Convenzione, e ciò perché “la valutazione dell’attendibilità di
un testimone è un compito complesso che generalmente non
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue
parole verbalizzate”.
La Corte europea, pertanto, come osservato dalla Cassa‑
zione, àncora la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU, con ri‑
ferimento al giudizio di appello, al duplice requisito della
decisività della prova testimoniale e della rivalutazione di
essa da parte della Corte di Appello in termini di attendibili‑
tà, effettuata in assenza di un nuovo esame dei testimoni
dell’accusa; ciò in quanto la diversa valutazione di attendibi‑
lità era stata eseguita non direttamente, ma solo sulla base
della lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dai testi.
Secondo la valutazione della Cassazione nel caso della
sentenza di appello per i fatti di Genova, accaduti la notte del
21 luglio 2001 presso la scuola Diaz e la scuola Pascoli, non
ricorreva nessuno dei due predetti requisiti. Non il primo, dai
momento che il compendio probatorio a carico degli imputa‑
ti, che supporta la sentenza di condanna di secondo grado, è
costituito non solo da prove testimoniali, ma anche da prove
documentali, audio e video, dalla documentazione sanitaria,
dalla documentazione del traffico telefonico, dalle registra‑
zioni di conversazioni telefoniche, oltre che dalle dichiarazio‑
ni rese contra se dagli stessi imputati e quelle, sempre prove‑
nienti dagli imputati, giudicate in evidente contrasto con la
documentazione audiovisiva acquisita agli atti. Non il secon‑
do, poiché, nel pervenire alla condanna degli imputati assolti
in primo grado, la Corte genovese non ha operato una diver‑
sa valutazione delle varie testimonianze, pervenendo ad un
differente giudizio di attendibilità dei testi di accusa, ma ha
invece tratto dalle dichiarazioni di alcuni testimoni conse‑
guenze in termini di responsabilità, con riferimento alle di‑
verse imputazioni elevate a carico di alcuni dei ricorrenti,
sulla base della interpretazione delle dichiarazioni testimo‑
niali che non è andata ad involgere quel giudizio di valore
delle stesse dichiarazioni, ritenuto precluso dalla Corte euro‑
pea ai giudici di appello ove con esso intendano ribaltare la
sentenza assolutoria di primo grado, a ciò potendo invece
pervenire solo in seguito all’esame diretto delle medesime
fonti testimoniali.
Sulla base di queste premessa la S.C. ha concluso per la
conseguente irrilevanza della dedotta questione di legittimità
costituzionale.
2. Dal contenuto di detta sentenza si potrebbe quindi
desumere che il giudice di appello, tutte le volte in cui abbia
elementi desumibili dagli atti, ovvero eventualmente emersi
nel corso del giudizio di appello, per ritenere ragionevolmen‑
te dubbia l’attendibilità di uno o più testimoni escussi nel
corso del primo giudizio, la cui deposizione sia stata determi‑
nante nell’economia processuale al fine di pervenire alla
sentenza, debba necessariamente disporre l’esame del teste o
dei testi attraverso il meccanismo della rinnovazione del di‑
battimento, non potendosi limitare a formulare un nuovo
giudizio involgente l’attendibilità del teste sulla scorta dei
soli atti processuali, senza alcuna discrezionalità, quindi, nel
decidere se rinnovare o meno l’esame dei testi.
Detta necessità, quindi, deriverebbe non solo nelle ipotesi
in cui il giudice di appello si trovi di fronte ad una testimo‑
nianza sopravvenuta, in quanto del tutto nuova o scoperta
dopo il giudizio di primo grado, purché si tratti di prove che
rispondano ai requisiti di ammissibilità e rilevanza, secondo
2 0 1 3
69
quanto previsto dall’art. 603, comma 2, in relazione agli artt.
495, 190 e 190 bis, c.p.p., ma anche nei casi previsti dall’art.
603, comma 1, c.p.p., ossia quando la parte abbia fatto richie‑
sta di riassumere prove già acquisite nel dibattimento di primo
grado o di assumere prove nuove.
Detta lettura implica l’esigenza di chiarire, quindi, come
possano coordinarsi tra loro il requisito previsto dalla norma
di cui al comma primo dell’art. 603 c.p.p. – allorquando pre‑
vede che alla richiesta riassunzione delle prove o all’assunzio‑
ne di nuove prove il giudice provveda solo allorquando non
possa decidere allo stato degli atti – ed il requisito richiesto
dalla lettura operata dai giudici di Strasburgo, secondo cui la
riassunzione sarebbe doverosa in ogni caso, a fronte di prove
già assunte in primo grado, purché si tratti di prove decisive
ai fini del giudizio e purché vi siano fondati elementi per ri‑
valutare l’attendibilità della prova testimoniale decisiva.
Il problema appare più apparente che reale, posto che se
ricorrono entrambi i requisiti richiesti dai giudici di Strasbur‑
go è chiaro che il giudice di appello si trova nella impossibili‑
tà di poter decidere allo stato degli atti, per cui le situazioni
esaminate appaiono del tutto sovrapponibili.
Altrettanto evidente, a parere di chi scrive, è la circostan‑
za che i seri dubbi circa l’attendibilità della prova testimonia‑
le non devono necessariamente essere posti o allegati dalla
Difesa, potendo essere lo stesso giudice di appello ad enucle‑
arli dalla complessiva valutazione del materiale probatorio e
dovendo, in tal caso, far ricorso alla rinnovazione dell’istrut‑
toria dibattimentale ai sensi dell’art. 603, comma 3, c.p.p.
3. La sentenza esaminata offre inoltre lo spunto per ana‑
lizzare alcuni aspetti delle possibili opzioni che si presentano
al giudice di appello in relazione all’istituto della rinnovazio‑
ne dell’istruttoria dibattimentale, tradizionalmente residuale
nella prassi applicativa, anche per la scarsa considerazione del
giudizio di appello come giudizio di merito secondo la più
risalente giurisprudenza di legittimità e parte della meno re‑
cente dottrina.
Quanto emerge dalla sentenza citata in precedenza, infat‑
ti, costituendone un aspetto estremamente attuale e rilevante,
è il dato che la giurisprudenza della Corte di Cassazione,
sulla scorta anche di quanto statuito dai giudici di Strasburgo,
stia tendenzialmente abbandonando l’interpretazione dell’isti‑
tuto della rinnovazione del dibattimento come quella di un
istituto di residuale applicazione, sul presupposto non più
condivisibile di una completezza dell’attività di istruttoria
dibattimentale in primo grado.
E che si possa parlare, in tal senso, di una vera e propria
inversione di tendenza, può essere dimostrato attraverso una
rapidissima analisi di alcune pronunce della giurisprudenza
di legittimità negli ultimi dieci anni.
Nel senso della residualità della rinnovazione del dibatti‑
mento in grado di appello si era espressa la sentenza della IV
sezione penale della Cassazione in data 5.12.2003, n. 1634,
laddove aveva escluso la sussistenza di un vero e proprio di‑
ritto alla rinnovazione del dibattimento in grado di appello,
affermando che l’istituto della rinnovazione è governato dal‑
la regola prevista dall’art. 603 c.p.p. che, al comma 1, la
consente solo allorquando non sia possibile decidere allo
stato degli atti, a richiesta di parte, e qualora sia assolutamen‑
te necessario, se viene disposta d’ufficio, ai sensi del terzo
penale
Gazzetta
70
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
comma. In particolare in detta sentenza veniva affermato che
non si ricade nella previsione di prove scoperte o sopravvenu‑
te dopo il dibattimento di primo grado qualora si richieda
l’assunzione come teste di un coimputato assolto in primo
grado. La Corte osservava altresì che una conferma dell’am‑
bito di applicazione del diritto alla prova nel giudizio di ap‑
pello la si ottiene dall’analisi del combinato disposto dell’art.
495, comma 2, c.p.p. e dell’art. 606, comma 1, lett. d), c.p.p.,
secondo cui le parti possono ricorrere in Cassazione solo
contro la mancata assunzione di una prova decisiva a disca‑
rico (o a carico se si tratta del pubblico ministero), e non per
altre ragioni attinenti al diritto alla prova.
Ancora la Cassazione, I sezione penale, con la sentenza
del 24 marzo 2004, n. 415, aveva ribadito, in materia di rin‑
novazione del dibattimento in sede di giudizio di rinvio a se‑
guito di annullamento da parte della Cassazione che “la rin‑
novazione del dibattimento in appello è un evento che, con‑
trapponendosi alla presunzione della completezza della
istruzione dibattimentale compiuta in primo grado, ha carat‑
tere assolutamente eccezionale, e l’esercizio del potere di di‑
sporla da parte del giudice è vincolato alla condizione che
quest’ultimo ritenga che gli elementi probatori raccolti in
primo grado non gli consentano di pervenire ad una decisio‑
ne”, confermando il precedente indirizzo giurisprudenziale
secondo cui la prova da assumersi nella eccezionale ipotesi di
nuova istruttoria dibattimentale, oltre che indispensabile per
la decisione ai sensi dell’art. 603 c.p.p., deve anche essere ri‑
levante, come prescritto dall’art. 627, comma II, c.p.p.
Anche nella motivazione della sentenza della III sezione
penale della Cassazione in data 2 marzo 2004, n. 382, si
legge che l’istituto della rinnovazione dell’istruttoria dibatti‑
mentale in appello ha carattere eccezionale e, a sostegno di
tale affermazione, si citava la sentenza delle SS.UU. del 15
marzo 1996, n. 2780; tuttavia detta motivazione apriva una
breccia nella precedente giurisprudenza laddove, esaminando
le conseguenze prodotte dalla legge 479/1999 sul giudizio
abbreviato – che non costituiva più un rito alternativo vinco‑
lato allo stato degli atti, essendo stata ammessa in primo
grado l’integrazione probatoria - riteneva che potrebbero
considerarsi ammissibili le così dette prove nuove, ossia quel‑
le non potute proporre in primo grado anche se anteriori alla
decisione, citando a sostegno le SS.UU. del 9 gennaio 2002,
n. 624, in materia di giudizio di revisione.
In realtà appare illuminante e significativa, ai fini della
individuazione dei limiti del significato concettuale di “prove
nuove” proprio quanto stabilito dalla III sezione penale della
Cassazione con la sentenza n. 22061 del 5 maggio 2010 che,
ammettendo la possibilità della revisione a seguito di giudizio
abbreviato, ha affermato che per prove nuove ai sensi dell’art.
630 lett. c), c.p.p., devono intendersi anche quei mezzi di
prova che l’imputato avrebbe potuto indicare come integra‑
zione probatoria nella richiesta di giudizio abbreviato, in
quanto “La circostanza che l’imputato, seguendo una sua
strategia difensiva, abbia in ipotesi rinunciato a subordinare
la sua richiesta di giudizio abbreviato all’espletamento di una
determinata prova, non gli preclude, dopo la condanna, di
far valere in sede di domanda di revisione questa prova, se
idonea a dimostrare che l’imputato avrebbe dovuto esser
prosciolto ai sensi dell’art. 631 c.p.p. Infatti in generale la
nozione di “prove nuove” ex art. 630 c.p.p., comma 1, lett.
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
c), va intesa in senso ampio in ragione del favor libertatis:
tali devono intendersi non solamente quelle “sopravvenute”
- e quindi acquisite o rinvenute dopo la sentenza di condan‑
na - ma anche quelle successivamente “scoperte”, ossia di‑
svelate, nel senso di non valutate, neppur implicitamente, dal
g i u d i c a n t e , a n c o rc hé c o n o s c i u t e o c o n o s c i b i l i .”
Estremamente interessante ed evidentemente significativa di
una diversa concezione dell’istituto della rinnovazione del
dibattimento in appello, appare, invece, l’affermazione con‑
tenuta nella sentenza della VI sezione penale della Cassazione,
n. 1487 del 2 novembre 2004, la quale non solo ha affermato
che il potere del giudice di disporre anche d’ ufficio l’ assun‑
zione di nuovi mezzi di prova previsto dall’art. 507 c.p.p. può
essere esercitato anche con riferimento a quelle prove che le
parti avrebbero potuto richiedere e non hanno richiesto o
dalle quali siano decadute, richiamando le Sezioni Unite del
6 novembre 1992, Martin, e specificando che tale norma ha
natura sostanziale, in quanto diretta alla ricerca della verità,
indipendentemente dalle vicende processuali che determinano
la decadenza della parte al diritto alla prova, ma ha afferma‑
to espressamente come il giudice di appello, che in sede di
rinvio proceda alla rinnovazione dell’ istruttoria dibattimen‑
tale, ha il potere di disporre d’ ufficio, ai sensi dell’art. 507
c.p.p., l’ammissione di nuove prove, atteso che l’ art. 627,
comma 2, non costituisce norma derogatoria rispetto a quel‑
la, ordinaria, di cui all’art. 603, comma 3, c.p.p., riguardante
la rinnovazione ufficiosa dell’ istruttoria dibattimentale pro‑
pria del giudizio di appello (sez. VI, 14 febbraio 2001,
Enea).
In senso sostanzialmente analogo si è espressa altresì la
sentenza della I sezione penale del 22.1.2008, n. 60, che ha
equiparato la funzione dell’art. 603 c.p.p. in grado di appello
a quella dell’art. 507 c.p.p. prevista per il dibattimento di
primo grado.
4. Appare quindi evidente come, anche attraverso ripen‑
samenti e timide aperture, la giurisprudenza della Cassazione
abbia finito per attribuire all’istituto della rinnovazione del
dibattimento nel giudizio di appello quel carattere di centra‑
lità caratterizzante la natura stessa del giudizio quale giudizio
di merito e la sua funzione fondamentale proprio in quanto
ultimo grado in cui il merito possa essere non solo valutato
e/o rivalutato, ma anche diversamente inquadrato dal punto
di vista probatorio, con tutte le conseguenze sulla valutazione
di merito.
La strada veniva percorsa, come visto, attraverso la so‑
stanziale equiparazione della natura e della funzione degli
artt. 507 e 603 c.p.p., il che implica il riconoscimento mani‑
festo al giudice di appello delle funzioni e dei poteri di un
giudice di merito a tutti gli effetti e della qualificazione del
giudizio di appello quale secondo grado di merito pieno, e non
più grado di giudizio minusvalente quanto a finalità, facoltà
e poteri istruttori.
Sotto altro profilo appare evidente, anche per un principio
di economia di mezzi processuali che se una prova nuova le‑
gittima il giudizio di revisione, a maggior ragione essa debba
essere assunta nel giudizio di appello, indipendentemente
dalla scelta del rito con cui è stato concluso il giudizio di
primo grado, posto che il giudizio di appello deve essere co‑
munque e sempre inteso come giudizio di merito. Ciò com‑
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
porta che il giudice dell’impugnazione in appello non può
essere considerato come un giudice i cui poteri siano circo‑
scritti o limitati rispetto a quello di primo grado, ostando a
tale interpretazione il semplice richiamo alla norma di cui
all’art. 598 c.p.p.
In relazione all’art. 598 del codice di rito bisogna infatti
intendersi in ordine alla portata dell’inciso secondo cui le
disposizioni del giudizio di primo grado si osservano in grado
di appello, in quanto applicabili, nel senso che certamente
esso non autorizza attualmente una lettura del giudizio di
appello come caratterizzato da una fase dibattimentale neces‑
sariamente ed ontologicamente contratta. A tali conclusioni
si può agevolmente pervenire se si esamina la giurisprudenza
relativa al divieto di reformatio in peius ed ai poteri del giu‑
dice di appello in relazione ai casi disciplinati dall’art. 521
c.p.p., per comprendere la portata ed i limiti dell’inciso con‑
tenuto nella norma citata.
Come già detto, anche le più recenti conclusioni della dot‑
trina appaiono coerenti con detta impostazione1, e tuttavia
proprio alla luce delle precedenti considerazioni appare interes‑
sante rileggere le significative riflessioni contenute in un artico‑
lo di Elvio Fassone avente ad oggetto il giudizio di appello.
Nello scritto si seguiva un percorso argomentativo in
un’ottica di riforma del giudizio di appello e, non a caso, si
esaminavano proprio le ambiguità insite nella rinnovazione
dibattimentale. 2
Fassone osservava come ogni questione concernente l’isti‑
tuto della rinnovazione del dibattimento in appello non po‑
tesse non inserirsi in un più ampio discorso sull’inquadramen‑
to della funzione effettiva del giudizio di appello. Sin dall’or‑
mai lontana entrata in vigore del nuovo codice di procedura
penale era stata, infatti, avviata una riflessione complessiva
sul problema delle impugnazioni3 e, in particolare sull’appel‑
lo, di cui si sottolineava l’eterogenesi dei fini, ossia il progres‑
sivo mutamento della funzione del giudizio di appello, da ri‑
medio all’errore della decisione a strumento per dilazionare
l’esecutività della sentenza ovvero per lucrare la prescrizione
dei reati.
Detta considerazione, per la verità, conserva la sua piena
attualità, come dimostrato dalla sostanziale inammissibilità
di molte impugnazioni in grado di appello da punto di vista
contenutistico; ed infatti l’esperienza insegna che se si dispo‑
nesse del tempo sufficiente per un serio vaglio preliminare dei
motivi di appello, non vi è dubbio che si perverrebbe ad argi‑
nare la celebrazione di numerosissimi giudizi in grado di ap‑
pello manifestamente dilatori attraverso l’immediata emissio‑
ne di un’ordinanza di inammissibilità.
Se si ritiene che la risposta alla drammatica inefficienza
della giustizia non sia necessariamente la discrezionalità
dell’azione penale, con tutte le conseguenze che essa implica,
non vi è dubbio che si debbano prendere in considerazione altri
rimedi possibili alla luce del sistema attualmente vigente.
1 D. Chinnici, La rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nel giudizio di
appello, relazione tenuta per il CSM nel corso di formazione su “Il giudizio di
appello”, in Roma, 10 – 12 ottobre 2011.
2 E. Fassone, L’appello: un’ambiguità da sciogliere, in Questione Giustizia, n. 3
del 1991.
3 A. Nappi, Il nuovo processo penale: un’ipotesi di aggiornamento del giudizio
di appello, in Cass. pen., 1990, p. 974.
2 0 1 3
71
Uno di questi sistemi è, appunto, un serio vaglio dell’am‑
missibilità dei motivi di appello. D’altro canto si tratterebbe
semplicemente di applicare al giudizio di appello un filtro
analogo a quello che viene utilizzato in Cassazione, come
peraltro previsto per tutte le forme di impugnazione dall’art.
591 c.p.p., e quindi espressamente consentito per il giudizio
di appello.
Ciò renderebbe da un lato possibile al giudice di appello
lo svolgimento effettivo del suo ruolo di giudice di merito,
sgombrando il campo immediatamente da tutte le impugna‑
zione prima facie dilatorie, anche se va evidenziato come
l’effettiva realizzazione pratica di detta opzione implichereb‑
be un atteggiamento un po’ più realistico da parte della stes‑
sa Corte di Cassazione, che in taluni casi, attraverso il succes‑
sivo annullamento delle ordinanze declaratorie di inammissi‑
bilità dell’appello, finisce per perpetuare inconsapevolmente
la prassi che assicura un diritto a prescindere dagli abusi
dello stesso, senza neanche tenere presente che non si può
sacrificare sistematicamente la giustizia del singolo processo
con il complessivo, ormai del tutto teorico, miglior funziona‑
mento del sistema nel suo complesso.
E quanto ciò sia vero è dimostrato semplicemente dalla
considerazione della elevatissima pendenza di processi giacen‑
ti nelle cancellerie delle sezioni di molte Corti di Appello, se‑
gnatamente quelle, prima tra tutte la Corte di Appello di Na‑
poli, afflitte da una sistemica criminalità diffusa su tutto il
territorio nelle sue più diverse e disparate forme di manifesta‑
zione, dalla microcriminalità alla criminalità organizzata.
Sotto altro profilo osservava Elvio Fassone come sin dagli
albori dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura
penale4si era rilevato che se l’appello costituisce una garanzia,
detta garanzia per poter essere effettiva rende necessario che
in entrambi i gradi di giudizio si pervenga alle conclusioni
attraverso un’analisi condotta con i medesimi strumenti co‑
noscitivi, il che non avviene quando si considera o si costrin‑
ge il giudice dell’appello ad essere un mero ed acritico ratifi‑
catore della decisione adottata in primo grado, per tacere
delle distorsioni costituite dalla diffusa considerazione e
dall’accettazione conseguente, da parte di alcuni giudici
dell’appello, del loro ruolo come quello di giudici di benefi‑
cenza.
Né appare possibile ritenere che in un modello processua‑
le improntato alla logica del contraddittorio si affidi la paro‑
la definitiva sulla ricostruzione del fatto ad un giudice che
detto contraddittorio sperimenta assai di rado e, soprattutto,
sconta una logica di presunta completezza del giudizio di
primo grado, nei fatti spesso del tutto contraddetta, come
l’esperienza di molti processi insegna, segnatamente di quelli
conclusi con giudizio abbreviato.
A ciò si deve aggiungere una ulteriore considerazione,
basata non su una scelta processuale, ma su un dato ontolo‑
gico: la centralità del dibattimento non dipende dal fatto che
la prova si deve formare davanti al giudice in contraddittorio,
ma dipende dal fatto che la prova non può formarsi due volte.
Se, infatti, principio ispiratore del rito accusatorio è che cia‑
scuna parte scelga il materiale formato ed acquisito nel corso
4 P. Ferrua, Il sindacato di legittimità sul vizio di motivazione nel nuovo codice
di procedura penale, in Cass. pen., 1990, p. 969.
penale
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delle indagini, in base al quale far emergere gli elementi di
prova favorevoli alla propria tesi, presentando detto materia‑
le al giudice che non è solo terzo, ma è anche ignaro, e questa
attività viene contestualizzata in un’unica sequenza, attraver‑
so meccanismi quali, ad esempio, la cross – examination,
appare di tutta evidenza che detta sequenza non è suscettibi‑
le di replica.
Con queste premesse, proseguiva Fassone, appare eviden‑
te come il concetto di rinnovazione del dibattimento si ponga
in stridente contrasto, e ciò emerge evidente proprio dall’ana‑
lisi dell’art. 603 c.p.p., in quanto esso contempla, a ben vede‑
re, due distinte ipotesi: la prima è costituita dai casi in cui si
richiede la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimen‑
to di primo grado, ovvero l’assunzione di nuove prove, ai
sensi dell’art. 603, comma 1, c.p.p., e la seconda è costituita
da casi in cui si chiede l’assunzione di prove sopravvenute o
scoperte dopo il giudizio di primo grado ovvero si renda ne‑
cessario ovviare alla menomazione del diritto di difesa dell’im‑
putato rimasto contumace, secondo quanto previsto dall’art.
603, commi 2 e 4, c.p.p.
Ma, a ben vedere, esaminando accuratamente i casi della
prima ipotesi, ossia quelli contemplati dall’art. 603, comma
1, c.p.p., ci si rende conto che essi si pongono in aperto con‑
trasto con i cardini fondamentali del rito accusatorio, in
quanto non dovrebbe essere consentito alla parte appellante
di chiedere ed ottenere la riassunzione delle prove già acqui‑
site in primo grado, salvo il caso di violazione di regole pro‑
cessuali nell’assunzione delle prove stesse, così come un dibat‑
timento di primo grado basato su un obbligo di discovery,
sanzionato da scansioni di inammissibilità e decadenze non
può consentire alla parte, in grado di appello, di far valere
prove storicamente preesistenti di cui, però, aveva scelto di
non avvalersi nel primo grado di giudizio. In quest’ultimo
caso, infatti, ciò deve essere ritenuto ammissibile solo se le
prove siano anche storicamente sopraggiunte o scoperte ri‑
spetto al giudizio di primo grado ma, in tal caso, si ricade
nell’ipotesi delle prove inedite, ossia delle prove contemplate
dall’art. 603, comma 2, c.p.p.
Questa ipotesi, in sostanza, corrisponde peraltro alle
ipotesi di revisione, mentre ontologicamente estraneo al con‑
cetto di rivalutazione della prova è il caso previsto dall’art.
603, comma 4, c.p.p., in cui in realtà si tratta di recuperare
delle facoltà che avrebbero dovuto essere già esercitate nel
grado precedente.
Peraltro ci si dovrebbe chiedere, come si è chiesto Fassone
e come sembra attualmente affermare la giurisprudenza più
sensibile, ivi inclusa quella comunitaria, come possa il giudice
di appello, senza la riassunzione delle prove già svolte in primo
grado, giungere a conclusioni nel merito difformi da quelle del
primo giudice, posto che il giudice di secondo grado, non es‑
sendo dotato di una maggiore autorevolezza conoscitiva, non
potrebbe giungere a conclusioni diverse, a meno che non rav‑
visi l’omissione, da parte del giudice di primo grado, di elemen‑
ti di prova di senso contrario evidentemente influenti, ovvero
ravvisi, da parte del giudice di primo grado, l’uso di criteri
manifestamente irragionevoli, ovvero l’utilizzazione di pseudosillogismi probatori manifestamente inaccettabili. Appare di
tutta evidenza, quindi, che in tali casi l’ambito in cui opera il
giudice dell’appello tende a sovrapporsi con quello del giudizio
di cassazione, consistendo, in maniera abbastanza evidente, in
p e n a l e
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un giudizio su questioni di diritto ovvero sulla manifesta irra‑
gionevolezza del percorso argomentativi e valutativo.
D’altra parte, venendo a considerazioni basate su quanto
emerso dall’analisi delle esperienze successive, va detto chia‑
ramente che si leggono sempre più spesso, soprattutto di re‑
cente, motivazioni di sentenze di legittimità contenenti vere e
proprie ricostruzioni del fatto.
Sembra quasi che il giudice di legittimità più o meno con‑
sapevolmente o volontariamente scivoli verso una vocazione
di merito, mentre, corrispondentemente, il giudice del grado
di appello, obliando o abdicando alla sua funzione di giudice
di merito, perviene a conclusioni difformi da quelle del primo
giudice sulla base di valutazioni che prescindono dall’assun‑
zione diretta di mezzi di prova.
Se quindi ciò dimostra quella che da più parti, ed anche
sotto il vigore del codice abrogato, veniva definita l’ambigui‑
tà di fondo del giudizio di appello5, l’esperienza giudiziaria
continua ad insegnare come appaia necessario implementare
i poteri del giudice di appello nel suo ruolo di giudice di me‑
rito, al di là di ogni finzione di completezza del giudizio di
primo grado.
Detta considerazione, tra l’altro, si basa sull’esperienza dei
processi per delitti associativi e relativi reati fine, conclusi
prevalentemente con il rito abbreviato, in cui le sentenze rap‑
presentano sempre più spesso su una sorta di reiterazione
tralaticia delle argomentazioni contenute nella richiesta di
misura cautelare, riprodotta pedissequamente nella motiva‑
zione dell’ordinanza di custodia cautelare e, quindi, nella
sentenza di primo grado, corredata invariabilmente da pagine
e pagine di citazioni della giurisprudenza di legittimità sulla
chiamata di correo e sulla sua valutazione, oltre che sulla
natura del delitto associativo contestato, cui si accompagna‑
no, in una sorta di perversa corrispondenza, argomentazioni
spesso insufficienti se non apparenti circa la valutazione delle
singole chiamate di correo in relazione alla singole posizioni
processuali ovvero alle singole ipotesi di reato. Da ciò conse‑
gue che spesso il giudice di appello finisce per essere sempre
più il primo vero giudice del merito, colui che potrebbe valu‑
tare approfonditamente la vicenda processuale delimitata e
circoscritta dai motivi dell’impugnazione.
Ciò a meno che il giudice dell’appello non decida di voler
abdicare al proprio ruolo fondamentale e, nascondendosi
dietro la presunta funzione di completezza del giudizio di
primo grado, svolgere il proprio ruolo di controllore fittizio
del primo giudice, ossia ratificarne, spesso del tutto acritica‑
mente, l’operato.
A ben vedere il codice offre al giudice di appello tutti gli
strumenti processuali per poter approfondire gli aspetti pro‑
batori che risultino carenti o lacunosi.
In tal senso il potere di iniziativa, non certamente residua‑
le del giudice di appello, si basa non solo sull’ipotesi contem‑
plata dall’art. 603, comma 2, c.p.p., ma soprattutto sulla
norma dell’art. 603, comma 3, c.p.p., che rappresenta una
vera e propria norma di chiusura del sistema, idonea a colma‑
re tutte le eventuali lacune processuali e probatorie, oltre alle
manifeste incongruità nei processi inferenziali, consentendo
al giudice di appello di poter svolgere un ruolo di controllore
5 F. Cordero, Procedura penale, 1982, pag. 484.
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non solo formale, ossia di verificatore e ratificatore della de‑
cisione di primo grado, ma di riappropriarsi del suo ruolo di
titolare di una fase processuale in cui può essere celebrato un
nuovo giudizio per quegli aspetti essenziali e non manifesta‑
mente infondati che si palesino necessari ed indispensabili
all’accertamento della verità processuale.
5. Detto percorso è tracciato, ancora una volta, da alcune
pronunce della Corte di Cassazione.
Già con la sentenza della I sezione penale del 2 febbraio
2007, n. 192, i giudici di legittimità hanno annullato una
sentenza della Corte di Assise di Appello di conferma della
condanna dell’imputato, in relazione alla circostanza che la
Corte di Assise in primo grado aveva respinto la richiesta del
P.M. di acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali
rese dai testi ex art. 500, comma 4, c.p.p.; detta ordinanza
successivamente non era stata impugnata dal P.M. che, essen‑
do stata pronunciata una sentenza di condanna dell’imputato,
non ne avrebbe avuto interesse. Sulla circostanza che la Cor‑
te di Assise di Appello aveva dichiarato inammissibile la ri‑
chiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, i giu‑
dici di legittimità hanno osservato che - non valendo il prin‑
cipio della immodificabilità delle ordinanze dibattimentali,
ed essendo la facoltà di revoca delle ordinanze ammissive
della prova esplicitamente previste dall’art. 595, comma 4,
c.p.p., in relazione all’art. 598 c.p.p. - il giudice di appello ben
avrebbe potuto, in sede di rinnovazione dell’istruttoria dibat‑
timentale, da disporre eventualmente d’ufficio ex art. 603
comma 3, c.p.p., modificare o revocare la suddetta ordinanza
emessa dal giudice di prime cure; all’opposto il giudice di
appello aveva, da un lato, scelto di non pronunciarsi ex pro‑
fesso, sostenendo di non poter esprimere alcuna certezza in
ordine a presunte pressioni o minacce che i testi avrebbero
ricevuto dall’imputato e, dall’altro, aveva in tal modo assunto
una posizione di sostanziale anche se non formale adesione
alla tesi dell’accusa, osservando che l’esistenza di tali pressio‑
ni o minacce sembrava aver trovato conferma in altri fonti
probatorie.
La Corte di Cassazione aveva qualificato la scelta del
giudice di appello come illogica, contraddittoria, per certi
versi ambigua, tale da non consentire affatto di fare chiarezza
in una situazione connotata da non poche incertezze, nella
quale qualsiasi aspetto avrebbe dovuto essere scandagliato ed
esplorato con tutto lo scrupolo e l’attenzione che il caso ri‑
chiedeva.
Detta pronuncia appare paradigmatica del riconoscimen‑
to, da parte della più sensibile giurisprudenza di legittimità,
del ruolo fondamentale del giudizio di appello come giudizio
di merito e non di mera convalida del giudizio di primo grado,
e della sussistenza di fondamentali strumenti offerti al giudi‑
ce di secondo grado per svolgere detto ruolo, attraverso la
rielaborazione non solo del percorso logico ed argomentativo
sotteso all’adozione delle ordinanze in materia di ammissione
dei mezzi di prova in primo grado, ma della possibilità di
colmare tutte le eventuali lacune ed illogicità che lo svolgi‑
mento del giudizio di primo grado possa palesare, anche a
prescindere dalle istanze di parte, ossia facendo ricorso a
poteri di iniziativa che mal si concilierebbero con un ruolo del
giudice di appello limitato ad una semplice rivalutazione
cartolare del primo giudizio.
2 0 1 3
73
Ritornando al discorso relativo al giudizio di appello av‑
verso sentenze concluse con il rito abbreviato, si ritiene che
proprio la giurisprudenza della Cassazione abbia ulteriormen‑
te sottolineato l’ampiezza dei poteri istruttori del giudice di
appello anche in relazione a detto rito alternativo. Basti, in tal
senso, ripercorrere le articolatissime argomentazioni della
sentenza della I sezione della Corte di Cassazione, nr. 555 del
23.5.2012 (P.M. in processo Andali), pronunciata a seguito
di appello del P.G. avverso una sentenza della Corte di Appel‑
lo di Catanzaro con cui era stata confermata la sentenza di
assoluzione emessa a seguito di giudizio abbreviato.
La sentenza della Corte di Appello aveva giustificato la
mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale richiesta
dal P.G. ai sensi dell’art. 603, comma 3, c.p.p., ritenendo la
stessa non assolutamente necessaria ai fini del decidere, risul‑
tando l’istruttoria celebrata in primo grado esaustiva, la ri‑
chiesta del P.G. avendo ad oggetto fonti dichiarative generiche
al pari di quelle già acquisite agli atti.
Avverso la sentenza aveva interposto ricorso in Cassazio‑
ne il P.G. ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., in
relazione all’ordinanza reiettiva della richiesta di assunzione
di nuove prove costituite da fonti dichiarative che avevano
avviato la collaborazione dopo la sentenza di primo grado,
argomentando che, trattandosi di prove sopravvenute, il cri‑
terio che avrebbe dovuto essere seguito, ai fini dell’ammissio‑
ne dell’istanza di rinnovazione, avrebbe dovuto essere quello
dell’utilità di dette fonti di prova, con la conseguenza che
esse avrebbero potuto essere escluse solo se manifestamente
superflue o irrilevanti; il P.G. aveva citato giurisprudenza
della Cassazione in tal senso, peraltro avente ad oggetto sen‑
tenze emesse a seguito di dibattimento ordinario e non di
giudizio abbreviato (sez. V. n. 552 del 13.3.2003; sez. III, n.
230 del 9.11.2006; sez. I, n. 43373 del 14.10.2010).
Sul punto osserva la Corte che la sentenza citata dal ricor‑
rente non affermava esplicitamente la sussistenza di un dirit‑
to delle parti discendente direttamente dall’art. 495 c.p.p.,
quindi con applicazione piena dell’art. 603, comma 2, c.p.p.,
indicando piuttosto un differente criterio di valutazione che
il giudice di appello deve adottare in caso di prova nuova
sopravvenuta, nel provvedere sulle sollecitazioni delle parti
ad una integrazione probatoria di ufficio.
Appare evidente da queste premesse come, nella ricostru‑
zione della vicenda processuale descritta dalla sentenza in
esame, si contrapponga la concezione del giudizio di appello
come giudizio meramente di controllo con la concezione di
segno opposto, che attribuisce al giudice di appello tutt’altro
ruolo, salvo verificare le modalità esplicative di detto ruolo in
relazione alla scelta processuale effettuata in primo grado.
Sotto questo profilo la Corte rileva come l’art. 603, com‑
ma 2, c.p.p., non si applichi al giudizio di appello instaurato
avverso una sentenza definita con rito abbreviato, citando in
tal senso la sentenza a sez.un., n. 930 del 13.12.1995, Clarke,
che aveva escluso qualsiasi potere di iniziativa delle parti in
ordine all’assunzione delle prove, poiché esse, prestando il
consenso all’adozione del rito abbreviato, avevano definitiva‑
mente rinunciato al diritto alla prova, mentre, per converso,
al giudice di appello era consentito, a differenza del giudice
di primo grado, disporre d’ufficio i mezzi di prova ritenuti
assolutamente necessari per l’accertamento dei fatti, ai sensi
dell’art. 603, comma 3, c.p.p. Con la sentenza Clarke la Cor‑
penale
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D i r i t t o
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p r o c e d u r a
te aveva sottolineato che alla parti rimane in ogni caso la
possibilità di sollecitare i poteri suppletivi di iniziativa proba‑
toria che spettano al giudice di secondo grado, e che l’acqui‑
sizione delle prove ammesse d’ufficio non faceva perdere
all’imputato il beneficio della diminuzione della pena ex art.
442, comma 2, c.p.p.
Non si può negare, quindi, che già la sentenza Clarke
avesse riconosciuto al giudice di appello, chiamato a pronun‑
ciarsi in relazione ad una sentenza emessa a seguito di giudi‑
zio abbreviato, i poteri istruttori tipici del giudice di merito,
a maggior ragione necessari a compensare la limitazione dei
poteri officiosi del giudice di primo grado derivanti dalla
scelta del rito.
In realtà, come osservato dalla S.C. con la sentenza del
2012 in commento, il quadro normativo sussistente al mo‑
mento delle pronuncia delle Sezioni unite nel 1995 era del
tutto diverso, atteso che era necessario il consenso del P.M.
per procedere con il rito alternativo, requisito non più richie‑
sto all’esito della riforma introdotta dalla legge n. 479 del
1999. Si riteneva quindi, anche in riferimento alla parte pub‑
blica, che il negozio processuale abdicativo alla base del giu‑
dizio abbreviato consistesse nella disposizione del diritto alla
prova, per cui, una volta scelto il rito abbreviato, l’imputato
ed il pubblico ministero rinunciassero ad avvalersi della facol‑
tà di richiedere l’ammissione dei mezzi di prova ai sensi
dell’art. 190, comma 1, c.p.p., il che, ovviamente, può riguar‑
dare i soli poteri rientranti nella sfera di disponibilità delle
parti, e non anche i poteri di iniziativa ex officio di cui il
giudice è direttamente investito dalla legge in vista del supe‑
riore interesse alla ricerca della verità.
La differenza sul piano della estensione e delle connotazio‑
ni funzionali tra i poteri delle parti ed i poteri del giudice in
ordine alle prove implica che l’inerzia e la rinuncia delle prime
restano prive di negativa incidenza sui poteri del giudice, fina‑
lizzati questi ultimi al conseguimento di una giusta decisione
indipendentemente dalla condotta processuale delle parti.
Detta affermazione, che trova puntuale riscontro nella
sentenza a Sezioni unite della Cassazione del 6.11.2002,
Martino, oltre che nelle pronunce della Corte Costituzionale
del 26.3.1993 n. 111 e del 3 giugno 1992, n. 225, restituisce
al giudizio di appello la sua piena funzione di giudizio fina‑
lizzato all’accertamento del merito della vicenda e non al
mero controllo di regolarità della decisione altrui, con la
conseguenza che il giudice di appello, proprio in quanto or‑
gano necessario alla pronuncia di una decisione giusta, deve
essere munito di tutti i poteri funzionali ad un accertamento
dei fatti, a prescindere dalla tipologia di rito prescelta.
La scelta operata ai sensi dell’art. 438 c.p.p., quindi, avrà
necessariamente conseguenze sul potere dispositivo delle
parti in ordine alla prova, ma non potrà avere alcun riflesso
in termine di preclusioni sui poteri del giudice, come dimo‑
strato dall’istituto della rinnovazione del dibattimento in
grado di appello che, esaminato specificamente dal punto di
vista dell’organo giudicante, non soffre alcuna imitazione
rispetto ai poteri allo stesso attribuiti rispetto al giudizio di
appello instaurato a seguito di dibattimento ordinario.
La sentenza analizza poi l’evoluzione del giudizio abbre‑
viato attraverso i successivi interventi normativi, con argo‑
mentazioni che, in ultima analisi, non fanno che confermare
la natura di giudizio di merito del processo di appello in tut‑
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
te le sue forme di manifestazione.
A seguito della riforma del 1999 la Corte Costituzionale
aveva tenuto ben presente il possibile sbilanciamento tra i
poteri delle parti - già in precedenza paventato con la senten‑
za n. 442 del 1994 e n. 92 del 1992, nonché con l’ordinanza
n. 33 del 1998 - in quanto la eliminazione del presupposto del
consenso del P.M. avrebbe potuto determinare ulteriori disar‑
monie di dubbia costituzionalità, posto che alla perdita per
l’accusa della facoltà di interloquire sulla scelta del rito avreb‑
be dovuto accompagnarsi una nuova disciplina sull’esercizio
del diritto alla prova ed una modifica delle limitazioni alla
facoltà di impugnazione.
Con la sentenza n. 320 del 1997 – che dichiarava l’illegit‑
timità costituzionale della norma che escludeva la possibilità
di appello da parte del P.M. avverso le sentenze di prosciogli‑
mento emesse a seguito di giudizio abbreviato - la Corte
aveva infatti osservato che gli auspici di riforma manifestati
nelle pronunce precedenti alla riforma del 1999 non avevano
trovato integrale attuazione, in quanto alla soppressione pura
e semplice del consenso del P.M. non era seguita alcuna revi‑
sione, funzionale ad un riequilibrio interno dell’istituto, del
diritto alla prova del P.M. e dei limiti all’appello del medesi‑
mo, atteso che i limiti posti alle facoltà del P.M. erano giusti‑
ficabili solo se collegati al consenso.
Con la legge n. 479 del 1999, osserva la Cassazione, gli
auspici della Corte Costituzionale erano stati in parte recepi‑
ti in quanto, privato il P.M. del potere di interloquire sulla
scelta del rito, la novella ha configurato l’accesso al rito ab‑
breviato come un vero e proprio diritto dell’imputato, non più
subordinato ad un vaglio giudiziale circa la possibilità di
decidere o meno il processo “allo stato degli atti”, essendosi
previsto come rimedio alle eventuali carenze degli organi in‑
vestigativi un ampio potere di integrazione probatoria officio‑
sa da parte del giudice; si è stabilito altresì che l’imputato
possa condizionare la propria richiesta ad una specifica inte‑
grazione probatoria, purché compatibile con le finalità di
economia processuale proprie del procedimento, circoscriven‑
do i poteri del P.M. alla prova contraria, ferma restando la
preclusione dell’appello della pubblica accusa ai sensi dell’art.
443, comma 3, c.p.p.
La Cortedi Cassazione, con la citata sentenza Clarke, de‑
scriveva lo sbilanciamento dei poteri delle parti a seguito
dell’evoluzione dell’istituto, indicando come la scelta dell’im‑
putato venisse in un certo qual modo subita dal P.M., che
perdeva la possibilità di coltivare le prospettive dell’accusa in
dibattimento, con un conseguente ridimensionamento del suo
ruolo quale parte processuale che finirebbe solo per fornire un
contributo dialettico in sede di discussione, salvo il diritto
alla prova contraria rispetto alle integrazioni probatorie chie‑
ste dall’imputato, mentre la decisione del giudice può appro‑
dare a ricostruzioni del fatto anche totalmente alternative ri‑
spetto a quelle desumibili dagli atti di indagine raccolti dallo
stesso pubblico ministero, non solo per effetto delle integra‑
zioni probatorie officiose o richieste dall’imputato, ma anche
per effetto degli apporti delle investigazioni difensive, i cui
risultati sono anch’essi utilizzabili nel giudizio abbreviato.
Tuttavia, come osservato dalla medesima Corte di Cassa‑
zione con la sentenza in esame, nonostante una delle fonda‑
mentali argomentazioni della sentenza Clarke sia venuta
meno – ossia la rinuncia del diritto alla prova da parte del
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
P.M. correlata al consenso al rito alternativo - non necessa‑
riamente la situazione che si prospetta è asimmetrica a svan‑
taggio del P.M., nel senso che il diritto alla prova da parte
della pubblica accusa non è certamente pretermesso, potendo
il P.M. farlo valere ai sensi dell’art. 603, comma 2, c.p.p. in
caso di prove nuove sopravvenute o scoperte, potendo il pote‑
re d’ufficio del giudice tutelare adeguatamente gli interessi di
cui la pubblica accusa è portatrice. Infatti ciò che il P.M. subi‑
sce a seguito della richiesta dell’imputato di accedere al giudi‑
zio abbreviato è comunque un dato favorevole per la parte
pubblica, concretizzandosi nell’utilizzabilità da parte del giu‑
dice di tutti gli atti di indagine compiuti prima dell’esercizio
dell’azione penale, con la sola eccezione di quelli affetti da
inutilizzabilità patologica, senza alcun vaglio derivante dal
contraddittorio dibattimentale; in realtà avendo il P.M. chiesto
il rinvio a giudizio, gli elementi dovrebbero essere, secondo il
suo giudizio, sufficienti ed idonei a sostenere l’accusa in giudi‑
zio, come si evince, a contrariis, dall’art. 425, comma 3, c.p.p.,
per cui l’eliminazione del consenso del P.M. alla celebrazione
del rito abbreviato, in definitiva, non comporta affatto una
situazione deteriore per l’accusa rispetto alla difesa.
In secondo luogo, l’eventualità che le indagini difensive
non conosciute dal P.M. ed introdotte nel giudizio abbreviato
mettano la parte pubblica nell’impossibilità di contrastare le
prove addotte dalla difesa dell’imputato, in ragione del rito
alternativo scelto, è neutralizzata dalla possibilità per il P.M.
di compiere ulteriori indagini e di sollecitare i poteri officiosi
del giudice.
La stessa Corte di Cassazione, infatti, aveva già ritenuto
manifestamente infondata la questione di legittimità costitu‑
zionale dell’art. 442,comma 1 bis, c.p.p., per contrasto con
gli artt. 3 e 111, commi secondo, terzo e quinto, Cost., nella
parte in cui consente, nel giudizio abbreviato, l’utilizzabilità
delle indagini difensive anche in difetto del consenso del P.M.,
poiché il diritto di quest’ultimo al contraddittorio può essere
assicurato disponendo un congruo differimento dell’udienza,
onde consentire lo svolgimento delle contro-investigazioni
suppletive eventualmente necessarie, ovvero attivando - anche
su sollecitazione dello stesso P.M. - i poteri officiosi di cui
all’art. 441, comma 5, c.p.p., per le necessarie integrazioni
probatorie. (vedi Corte Cost. n. 115 del 2001, n. 57 del 2005
e n. 245 del 2005, n. 16 del 1994, nonché Cassazione, sez. VI,
n. 31683 del 31/03/2008 - dep. 29/07/2008, P.M. in proc.
Reucci, Rv. 240779).
Infine, prosegue la Corte, soprattutto la previsione del
potere officioso del giudice di integrazione probatoria, ai
sensi dell’art. 441, comma 5, c.p.p., consente adeguatamente
di superare i problemi derivanti dalle limitazioni del diritto
alla prova del P.M., così da rispondere al fine primario del
processo penale che, pur essendo processo di parti, deve ten‑
dere alla “ricerca della verità”, “fine primario ed ineludibile
del processo penale”, come sottolineato dalla sentenza della
Corte Costituzionale, n. 111 del 1993.
La Corte prosegue poi ricordando l’insegnamento delle
Sezioni unite sulla funzione dell’art. 507 cod. proc. pen. (Sez.
unite, n. 41281 del 17/10/2006 - dep. 18/12/2006, P.M. in
proc. Greco, Rv. 234907), che merita di essere ricordato in
quanto valido anche per la norma qui in esame, ossia l’art.
603, comma 2, c.p.p.: “l’art. 507 ha un diverso ambito di
applicazione e, soprattutto, un diverso scopo: quello di con‑
2 0 1 3
75
sentire al giudice - che non si ritenga in grado di decidere per
la lacunosità o insufficienza del materiale probatorio di cui
dispone - di ammettere le prove che gli consentono un giudi‑
zio più meditato e più aderente alla realtà dei fatti che è
chiamato a ricostruire. Senza neppure scomodare i grandi
principi (in particolare quello secondo cui lo scopo del pro‑
cesso è l’accertamento della verità) può più ragionevolmente
affermarsi che la norma mira esclusivamente a salvaguarda‑
re la completezza dell’accertamento probatorio sul presup‑
posto che se le informazioni probatorie a disposizione del
giudice sono più ampie è più probabile che la sentenza sia
equa e che il giudizio si mostri aderente ai fatti. (...) Una li‑
mitazione dei poteri probatori officiosi del giudice sarebbe
idonea a vanificare il principio dell’obbligatorietà dell’azione
penale e si porrebbe in palese contraddizione con l’esistenza
degli amplissimi poteri del giudice in tema di richiesta di
archiviazione del pubblico ministero. (...)
V’è ancora, in questa sentenza (sez.un., Martin), un’im‑
portante precisazione che consente di evitare che l’esercizio
del potere in esame avvenga in modo troppo esteso o addirit‑
tura arbitrario: l’iniziativa deve essere “assolutamente neces‑
saria” (sia l’art. 507 che il 603 usano questa espressione) e la
prova deve avere carattere di decisività (altrimenti non sareb‑
be “assolutamente necessaria”), diversamente da quanto
avviene nell’esercizio ordinario del potere dispositivo delle
parti in cui si richiede soltanto che le prove siano ammissibi‑
li e rilevanti.
Può ancora aggiungersi che questo potere andrà esercita‑
to nell’ambito delle prospettazioni delle parti e non per
supportare probatoriamente una diversa ricostruzione che il
giudice possa ipotizzare”.
Quindi, così come nel dibattimento l’art. 507 c.p.p. con‑
sente al giudice di disporre d’ufficio l’assunzione dei mezzi di
prova se ciò risulta assolutamente necessario ai fini della de‑
cisione, analogo potere riconosce il codice di rito al giudice
del giudizio abbreviato: il potere, cioè, di assumere, anche di
ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione; paralle‑
lamente, detto potere viene attribuito al giudice di appello con
la norma dell’art. 603, comma 3, c.p.p.
Nel giudizio abbreviato, i poteri di integrazione probatoria
del giudice di appello corrispondono a quelli descritti dall’art.
441, comma 5, c.p.p. (come rilevato da sez. I, n. 31686 del
26/4/2010, dep. 11/8/2010, Sestito, Rv. 248011; sez. IV, n.
10795 del 14/11/2007, dep. 11/03/2008, Pozzi, Rv. 238956;
sez. V, n. 19388 del 09/05/2006, dep. 06/06/2006, Biondo,
Rv. 234157).
Il potere di integrazione probatoria del Giudice, prosegue
la Corte, proprio in quanto diretto a garantire le finalità
primarie del processo anche in una fase in cui le parti (anche
quella pubblica, nonostante non abbia espresso alcuna rinun‑
cia) non hanno più la disponibilità della prova, non può,
tuttavia, essere eccessivamente limitato: esso, quindi, deve
ritenersi sussistente indipendentemente dal fatto che le prove
assunte possano risultare a favore o contro l’imputato. In ef‑
fetti, quando il legislatore ha voluto limitare i poteri officiosi
del giudice alla sola assunzione delle prove favorevoli per
l’imputato, lo ha esplicitato come nell’ipotesi disciplinata
dall’art. 422, comma 1, c.p.p. (cfr., Cassazione, sez. I, n.
31686 del 26/4/2010, dep. 11/8/2010, Sestito, Rv. 248011).
La Corte osserva di aver certamente e ripetutamente affer‑
penale
Gazzetta
76
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
mato, che “anche dopo la riforma contenuta nella legge 16
dicembre 1999, n. 479, nel giudizio abbreviato l’integrazione
probatoria in appello non è esclusa in modo assoluto, ma è
ammessa compatibilmente con le esigenze di celerità del rito,
per cui può essere disposta, anche d’ufficio, solo per le acqui‑
sizioni documentali assolutamente indispensabili ai fini del
decidere ed attinenti la capacità processuale dell’imputato o
i presupposti stessi del reato o della punibilità, dovendo esclu‑
dere che possa farsi ricorso all’integrazione per far fronte a
ordinarie lacune probatorie nel merito, ovvero per acquisire
prove a carico dell’imputato, essendo possibile l’integrazione
solo in bonam partem, dal momento che l’acquisizione di
elementi a carico dell’imputato potrebbe incidere sulla origi‑
naria determinazione di richiedere il rito alternativo, scelta
non più modificabile” (Cass., sez. III, n. 33939 del 16/6/2010,
dep. 21/9/2010, Anzaldo, Rv. 248229; Cass., sez. VI, n. 45240
del 10/11/2005, dep. 13/12/2005, Spagnoli, Rv. 233506); tut‑
tavia i benefici cui l’imputato accede con il rito abbreviato - e
che gli vengono garantiti anche in caso di integrazione proba‑
toria - sono in realtà diversi da quello di conoscere preventiva‑
mente il materiale probatorio su cui il Giudice fonderà la sua
decisione: sono la riduzione di un terzo della pena in caso di
condanna e la celebrazione non pubblica del processo.
L’interesse dell’imputato a vedersi giudicato sulla base di
materiale probatorio non del tutto completo e a “bloccare”
ogni integrazione di detto materiale in senso a lui sfavorevo‑
le, magari opponendo esiti positivi di investigazioni difensive,
non può che soccombere rispetto all’interesse dello Stato alla
ricerca della verità, interesse, quest’ultimo, in base al quale,
da parte sua, lo Stato può ben rinunciare a quello alla rapida
definizione del processo, base dello “scambio” intervenuto in
conseguenza della richiesta dell’imputato di essere giudicato
con il rito alternativo.
Ciò è ancora più valido con riferimento alle nuove prove
sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, ri‑
spetto alle quali - se davvero tali sono - la posizione della
pubblica accusa è “incolpevole”, non potendosi ad essa adde‑
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
bitare la mancata presentazione delle stesse nel giudizio ab‑
breviato di primo grado.
Si aggiunga che l’imputato ha la garanzia del contraddit‑
torio di fronte all’ampliamento del materiale probatorio: in‑
fatti, qualora, nel giudizio abbreviato, celebrato in appello a
seguito di impugnazione del P.M. avverso decisione assoluto‑
ria, il giudice, valendosi dei suoi poteri officiosi, anche se
sollecitati dalla parte pubblica, abbia disposto nuovi mezzi
istruttori potenzialmente pregiudizievoli alla posizione
dell’imputato, sussiste, a suo carico, l’obbligo di far seguire
l’ammissione anche delle eventuali prove contrarie, che pos‑
sono non essere assunte solo ove si rivelino superflue o irrile‑
vanti. (cfr. sez. I, n. 31686 del 26/4/2010, dep, 11/8/2010,
Sestito, Rv. 248011).
Il giudice di appello nel giudizio abbreviato, in definitiva, di
fronte a prove nuove sopravvenute, deve adeguatamente e logi‑
camente motivare sulla necessità di assumerle ai fini della deci‑
sione, tenuto conto che, di fronte ad esse, viene meno la presun‑
zione di completezza del materiale probatorio: la “assoluta ne‑
cessità”, quindi, altro non è che la valutazione da parte del
giudice della possibilità di giungere ad una decisione di colpe‑
volezza o di innocenza con un giudizio più meditato e più ade‑
rente alla realtà dei fatti che è chiamato a ricostruire, perché “se
le informazioni probatorie a disposizione del giudice sono più
ampie è più probabile che la sentenza sia equa e che il giudizio
si mostri aderente ai fatti” (Sezioni Unite, Greco, cit.).
Sulla scorta delle esaminate argomentazioni la Corte di
Cassazione annullava, quindi, la sentenza emessa dalla Corte
di Appello di Catanzaro con rinvio per nuovo giudizio ad
altra sezione della Corte d’appello.
6. Quanto sin qui considerato suggerisce, quindi, la ne‑
cessità di operare una profonda rivalutazione del giudizio di
secondo grado come giudizio di merito pieno e non come
semplice giudizio di controllo critico della sentenza di primo
grado, il che appare ancor più ragionevole alla luce dei prin‑
cipi sul giusto processo.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
●
Competenza del giudice
dell’esecuzione: scelta
definitiva della Corte
di Cassazione
per il criterio cronologico?
● Luca Semeraro
Giudice per le indagini preliminari
presso il Tribunale di Perugia
2 0 1 3
77
Cassazione penale, sezione 1ª, sentenza 20 aprile 2012, n. 17545
La competenza in fase esecutiva a decidere sulla richiesta di
restituzione di beni oggetto di confisca, avanzata dal terzo estra‑
neo, spetta al giudice che ha pronunciato il provvedimento dive‑
nuto irrevocabile per ultimo nei confronti dell’imputato, anche se
la questione proposta non riguarda la decisione da lui emessa.
Nel risolvere il conflitto di competenza tra il giudice mo‑
nocratico del Tribunale di Ascoli Piceno, sezione distaccata di
S. Benedetto del Tronto, - che aveva emesso la sentenza dive‑
nuta definitiva per ultima - ed il Tribunale di Camerino – che
aveva pronunciato il provvedimento oggetto dell’incidente di
esecuzione, la Corte di Cassazione ha fatto una scelta di cam‑
po, privilegiando la tesi del cd. criterio cronologico.
La Corte di Cassazione ha dichiarato la competenza del
giudice monocratico del Tribunale di Ascoli Piceno, sezione
distaccata di S. Benedetto del Tronto, affermando che “… In
presenza di più sentenze o decreti di condanna da eseguire,
pronunciati da giudici diversi, la competenza spetta, per tutti,
al giudice la cui decisione è divenuta irrevocabile per ultima,
anche se la questione proposta riguardi decisione emessa da
altro giudice”.
La Corte ha fatto riferimento anche alla giurisprudenza
formatasi sull’applicazione dell’indulto, richiamando la sen‑
tenza n. 2151/12 del 20 dicembre 2011 della Cass. sez. 1ª:
“in tema d’esecuzione, il giudice competente a provvedere
sull’applicazione dell’indulto in favore di un soggetto raggiun‑
to da più condanne emesse da giudici diversi è sempre quello
che ha pronunciato il provvedimento divenuto irrevocabile
per ultimo, anche se la questione non riguarda la sentenza da
lui emessa”.
La prima sezione ha quindi aggiunto che questo principio
si applica anche nel caso “… in cui il giudice dell’esecuzione
sia chiamato alla restituzione all’avente diritto dei beni in
sequestro, dal momento che il provvedimento richiesto non
esula dalle attribuzioni dal giudice dell’esecuzione …”.
Dunque, secondo l’orientamento espresso nella sentenza n.
17545, nel caso, purtroppo frequente, del giudice che con la
sentenza non provveda sui beni in sequestro, ad es. non revo‑
cando i provvedimenti di sequestro e non restituendo i beni
all’avente diritto, la restituzione dei beni compete, nel caso di
più sentenze di condanna emesse nei confronti dello stesso
imputato, sempre e comunque al giudice che ha emesso la
sentenza divenuta definitiva per ultima.
Il criterio cronologico risolve certamente con maggiore
semplicità i conflitti di competenza, individuando con esattez‑
za il giudice competente; ma l’adesione al criterio cronologico
di interpretazione dell’art. 665 c.p.p. non è condivisibile, anche
perché determina conseguenze irrazionali.
In tema di esecuzione il principio da cui partire è sempre
quello previsto dal comma 1 dell’art. 665 c.p.p., per il quale
competente a conoscere dell’esecuzione di un provvedimento
è il giudice che lo ha emesso.
Il legislatore, tra le varie soluzioni possibili, ha scelto quel‑
la di attribuire la risoluzione dei problemi sorti sull’attuazione
del titolo definitivo al giudice “della cognizione” e ciò anche
affinché tali questioni fossero risolte con efficienza e rapidità,
tanto da conservare tale competenza funzionale anche nelle
ipotesi di conferma o di riforma non sostanziale del provvedi‑
mento in sede di impugnazione.
penale
Gazzetta
78
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Il criterio cronologico è previsto dal comma 4 dell’art. 665
c.p.p.: il giudice che ha emesso il provvedimento divenuto
irrevocabile per ultimo è competente se l’esecuzione concerne
più provvedimenti emessi da giudici diversi.
L’interpretazione corretta però è quella che volge verso un
criterio cronologico non assoluto, nel senso che è sempre
competente “l’ultimo giudice”, ma “temperato” o “sistemati‑
co”: quando la decisione in sede di esecuzione riguardi un
solo provvedimento definitivo, e non incide su gli altri titoli
neppure in via indiretta, allora la competenza è sempre, ai
sensi del comma 1 dell’art. 665 c.p.p., del giudice che ha
emesso il provvedimento. Ciò anche se l’imputato risulti con‑
dannato in via definitiva successivamente.
La competenza funzionale cronologica sussiste solo se la
questione esecutiva riguardi e coinvolga più titoli esecutivi:
solo se vi sia un collegamento funzionale tra l’esecuzione del
provvedimento e gli altri successivamente emessi.
Il criterio puramente cronologico produce anche irrazio‑
nalità nel sistema, laddove sono preferibili le ragioni di “eco‑
nomia processuale” poste a fondamento del comma 1 dell’art.
665 c.p.p.
L’imputato o il terzo estraneo al processo, che può pro‑
porre incidente di esecuzione (“Il terzo rimasto estraneo al
processo non è legittimato all’impugnazione della sentenza
con cui è stata ordinata la confisca di somme di denaro e può
far valere i propri diritti su detta somma per mezzo dell’inci‑
dente di esecuzione”; cfr. Cass. penale, sez. III, 19 marzo
2009, n. 12117), già privato a monte del suo diritto alla resti‑
tuzione dal giudice competente per il merito, che non ha
provveduto in sentenza, nel caso di più provvedimenti defini‑
tivi si troverebbe costretto, ove definitivamente accolto l’orien‑
tamento della prima sezione, a migrare verso altri lidi, non
potendo più il giudice del merito, quanto meno, rimediare
all’errore in fase esecutiva, attivando la procedura de plano
prevista in questi casi.
Il fascicolo processuale dovrà essere trasmesso all’ “ultimo
giudice”, il quale, fra l’altro, ove disponga il dissequestro di
un bene sottoposto ad onerosa custodia, dovrà anche proce‑
dere alla liquidazione di quanto spetti al custode, quale giu‑
dice che procede e che ha provveduto sul dissequestro.
Il criterio cronologico puro non può essere adottato anche
in altre ipotesi.
Si pensi al caso in cui l’istante lamenti la mancata forma‑
zione del giudicato, ad es. per vizi di notifica dell’estratto
contumaciale. Anche qui la valutazione da parte del giudice
che ha emesso il provvedimento (e non dell’ultimo giudice),
consente una decisione certamente più rapida, perché la valu‑
tazione dovrà essere fatta dal giudice che è anche fisicamente
in possesso degli atti del processo.
O ancora al caso della dichiarazione in esecuzione della
falsità di documenti (art. 675 c.p.p.): anche in tal caso il fa‑
scicolo processuale dovrebbe “viaggiare” verso l’ultimo giu‑
dice. Soprattutto, la dichiarazione di falsità dovrebbe essere
pronunciata da un giudice del tutto estraneo al processo,
laddove tale dichiarazione è proprio strettamente collegata al
merito.
Ciò che conta, per l’applicazione del comma 4 dell’art. 665
c.p.p., invece è il “coinvolgimento” di più titoli esecutivi nella
decisione: qui il quadro finale è in mano proprio all’ultimo
giudice.
p e n a l e
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F O R E N S E
Questa interpretazione è stata affermata in passato, ri‑
chiamando altre sentenza della suprema corte, da Cass., sez.
1ª, sent. 4 luglio 2000 – 9 agosto 2000, n. 4825: “In tema di
determinazione del giudice competente per l’esecuzione di una
sentenza di condanna, non si rende sufficiente, ai fini dell’ap‑
plicazione dell’art. 665, comma quarto, c.p.p., il fatto che vi
sia coesistenza di più sentenze a carico di una stessa persona,
essendo invece necessaria, a tal fine, una pluralità di provve‑
dimenti di giudici diversi, dai quali derivi la stessa questione
da delibare in sede esecutiva. Ne discende che, quando, pur
nella sussistenza di giudicati emessi da diversi giudici, sorga
questione concernente l’esecuzione di uno solo di essi per
fatto non incidente in modo assoluto sull’esecutività degli
altri, va applicata la disciplina di cui all’art. 665 c.p.p., secon‑
do cui competente a conoscere dell’esecuzione di un provve‑
dimento è il giudice che lo ha deliberato”.
Va osservato che in realtà proprio il richiamo alla giuri‑
sprudenza della Corte di Cassazione in tema di indulto con‑
ferma l’interpretazione sistematica proposta, ove si consideri
che l’indulto opera sulla pena inflitta e, in caso di più condan‑
ne, sul cumulo delle pene; il giudice dovrà verificare se l’in‑
dulto sia già stato concesso ed in che limiti; se sussistano
cause che impediscano l’applicazione dell’indulto.
Va infatti ricordato che la Corte di Cassazione ha affer‑
mato che la sentenza di condanna, ove sia prevista quale
causa di revoca del beneficio dell’indulto già concesso, ne
impedisce ancor prima l’applicazione1.
In tali casi quindi l’ “ultimo giudice” è in grado di valu‑
tare la sussistenza di tutte le condizioni applicative o ostative
dell’indulto.
Si auspica dunque il ritorno ad una interpretazione più
ragionevole.
1 “nei casi di indulto soggetto a revoca per successiva condanna, la già verifica‑
tasi condizione risolutiva rende l’indulto inapplicabile anche nelle ipotesi in cui
il beneficio non sia stato ancora formalmente concesso” (sez. 1, 24 gennaio
1996, n. 467, Di Giovanni, massima n. 204011; cui adde: sez. 1, 1 dicembre
1993, n. 5244/1994, Lupo, massima n. 196138 e sez. 1, 24 febbraio 2005, n.
1146, Arrighini, massima n. 201023);
“la giuridica ed, ancor prima, logica impossibilità di dichiarare giudizialmente
l’applicazione di un condono in relazione al quale si sia già verificata una
causa di revoca del beneficio” (sez. 1, 27 aprile 1994, n. 1877, Vecchi, massima
n. 198184); la Corte di Cassazione con la sentenza della sez. 1ª, n. 15462 del
31 marzo 2010, ha affermato che tali principi devono essere tenuti fermi
anche in relazione al condono di cui alla l. 31 luglio 2006, n. 241, affermando
altresì che “… sarebbe, comunque, inutiliter data la eventuale declaratoria del
condono, seguita dalla doverosa, contestuale revoca del beneficio in presenza
della condizione di legge” (in massima: Fattispecie in tema di indulto previsto
dalla l. n. 241 del 2006).
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●
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I contrasti tra la Corte Edu e le Corti nazionali
● Vittorio Sabato Ambrosio
Avvocato
Corte EDU: (02 novembre 2006, ric. Milazzo c. Italia;
Grande Camera 17 febbraio 2004, ric. Maestri contro Italia;
17 febbraio 2005, ric. K.A. ET A.D. contro Belgio; 21 gennaio 2003, ric. Veeber c. Estonia; 08/07/1999, ric. Baskaya e
Okcuoglu c. Turchia; 15 novembre 1996, ric. Cantoni c. Francia; 22 settembre 1994, ric. Hentrich c. Francia; 25 maggio
1993, ric. Kokkinakis c. Grecia; 08 luglio 1986, ric. Lithgow
e altri c. Regno Unito)
“Il dato decisivo da cui dedurre il rispetto del principio di
legalità è la prevedibilità del risultato interpretativo cui per‑
viene l’elaborazione giurisprudenziale, tenendo conto del
contenuto della struttura normativa, prevedibilità che si ar‑
ticola nei due sotto principi di precisione e di stretta interpre‑
tazione”.
Corte Giustizia: (26 febbraio 1991, C-119/89, ric. Commissione c. Spagna; Tribunale CE, 05 aprile 2006, T-279/02,
ric. Degussa AG; Corte Giustizia, 28 giugno 2005, cause riunite C-189/02 P, C-202/02 P, C-205/02 P a C-208/02 P e C213/02 P; Corte Giustizia, 08 ottobre 1987, C-80/86, ric.
Kolpinghuis Nijmegen)
“la normativa degli Stati membri deve avere una formu‑
lazione non equivoca, in modo da consentire agli interessati
di conoscere i propri diritti e ai giudici di garantirne l’osser‑
vanza e che il principio di legalità delle pene costituisce
un’emanazione del principio di certezza del diritto onde ga‑
rantire principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo
affidamento”.
Cass. pen., Sezioni unite, sentenza, 19 gennaio 2011, n.
1235
“Non può trascurarsi, inoltre, di considerare che il prin‑
cipio di legalità trova fondamento anche nell’art. 7 della
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (oltre che nell’art.
15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e nell’art.
49 della Carta dei diritti fondamentali di Nizza, oggi espres‑
samente richiamata nel corpus comunitario attraverso l’art.
6, par. 1, del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007).
Nella giurisprudenza della Corte EDU al suddetto principio
si collegano i valori della accessibilità (accessibility) della
norma violata e della prevedibilità (foreseeability) della san‑
zione, accessibilità e prevedibilità che si riferiscono non alla
semplice astratta previsione della legge, ma alla norma “vi‑
vente” quale risulta dall’applicazione e dalla interpretazione
dei giudici; pertanto, la giurisprudenza viene ad assumere un
ruolo decisivo nella precisazione del contenuto e dell’ambito
applicativo del precetto penale. Il dato decisivo da cui dedur‑
re il rispetto del principio di legalità, sempre secondo la
Corte EDU, è, dunque, la prevedibilità del risultato interpre‑
tativo cui perviene l’elaborazione giurisprudenziale, tenendo
conto del contenuto della struttura normativa, prevedibilità
che si articola nei due sotto principi di precisione e di stretta
interpretazione”.
Cass. pen., Sezioni unite, 19 gennaio 2011, n. 1963
“Il concorso tra norme penali è disciplinato dall’art. 15
c.p., in virtù del quale, stante il cd. principio di specialità, al
fine di evitare il cd. ne bis in idem sostanziale, le legge o la
penale
L’utilizzo dei principi
della Corte EDU
per risolvere i casi
di conflitto apparente
di norme
m a r z o • a p r i l e
80
D i r i t t o
e
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disposizione di legge speciale deroga a quella generale, salvo
che sia altrimenti stabilito. Qualora ci si trovi di fronte alla
cd. specialità unilaterale, che può assumere il carattere di
specificazione, o per aggiunta, a seconda che la norma spe‑
ciale vada a specificare o ad aggiungere requisiti alla fattispe‑
cie generale, si concretizza di certo un concorso apparente,
per cui deve ritenersi applicabile soltanto la fattispecie spe‑
ciale”.
****
S ommario: Premessa; 1. Il concorso di norme nel codice
penale; 2. Il concorso apparente di norme: principio di spe‑
cialità; 3. I recenti interventi giurisprudenziali sul tema; 4.
L’applicazione del principio specialità nei casi concreti; 5.
Brevi considerazioni conclusive.
Premessa
Nel complesso e dinamico processo di globalizzazione del
diritto si registra una tutela multilivello per il cittadino
nell’ambito della quale le istanze protezionistiche di quest’ul‑
timo, laddove non dovessero trovare tutela nell’ordinamento
interno, sono certamente protette dagli ordinamenti sovra‑
nazionali. Onde realizzare una più proficua difesa dei diritti
riconosciuti al singolo, sovente, gli interpreti nazionali devo‑
no attingere dal patrimonio normativo ed ermeneutico pro‑
dotto dagli organi extraterritoriali, al fine di rileggere gli
istituti disciplinati dal diritto interno in un’ottica evolutiva.
Questa è la base del ragionamento effettuato dalle Sezio‑
ni unite per risolvere la questione problematica relativa
all’esatta norma da applicare nel caso in cui un’azione crimi‑
nosa sia astrattamente riconducibile a più reati. Nel caso che
ci occupa, l’opera interpretativa del supremo organo di No‑
mofilachia, avvalendosi dei principi di prevedibilità e chiarez‑
za della sanzione penale espressi nella Convenzione EDU,
coglie l’occasione per individuare un criterio certo da utiliz‑
zare per risolvere i casi di superfetazione del diritto penale,
con riferimento alle ipotesi di concorso apparente di reati.
Il caso, seppur non recentissimo, presenta interessanti
spunti di riflessione, poiché siamo in presenza di un vero e
proprio dialogo a distanza tra le corti interne e le corti inter‑
nazionali ed europee, in cui i giudici nazionali mostrano, li‑
mitatamente al caso di specie, una evidente volontà di aprirsi
a nuovi fronti interpretativi ed “abbracciare” concetti mag‑
giormente protettivi per il cittadino.
1. Il concorso di norme nel codice penale
La persistente difficoltà di tracciare un netto discrimen
con il concorso di reati, l’irriducibile contrasto, mai definiti‑
vamente sopito, tra i fautori delle teorie moniste ed i sosteni‑
tori delle più “eccentriche” teorie pluraliste, unitamente ai
numerosi progetti di riforma prospettati al fine di superare
l’asfitticità della quanto mai scarna disciplina codicistica,
fanno del concorso apparente di norme uno dei più affasci‑
nanti e problematici terreni di scontro per i teorici ed i prati‑
ci del diritto, fucina di problemi interpretativi ed esegetici di
grande attualità.
Il corretto inquadramento sistematico della fattispecie in
esame richiede la preliminare distinzione con il concorso di
reati, ravvisabile allorquando un soggetto compia più reati
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
con un pluralità di azioni od omissioni, nel caso di concorso
materiale di reati, o ponga in essere più reati con una sola
azione od omissione, nel caso di concorso formale di reati.
Il concorso materiale, a sua volta, può essere definito omo‑
geneo nell’ipotesi in cui il soggetto violi più volte la stessa
fattispecie incriminatrice, mentre può essere qualificato etero‑
geneo allorquando le norme violate siano diverse; negli stessi
termini la violazione reiterata e contestuale della stessa norma
incriminatrice consente di configurare il concorso formale
omogeneo, mentre la contemporanea violazione di norme
differenti apre la strada al concorso formale eterogeneo.
La distinzione tra concorso formale e materiale rileva non
solo sul piano della diversa configurazione della fattispecie,
ma anche per quanto concerne il versante sanzionatorio, ri‑
servando il codice un più severo trattamento al concorso
materiale, per il quale è previsto, in ossequio a spiccate esi‑
genze di carattere repressivo-retributive oltre che specialpreventive, il regime del cumulo materiale (sommatoria delle
pene previste per i singoli crimini in concorso espressa nel
noto brocardo latino “tot crimina tot poenae”) appena miti‑
gato dalla previsione dei limiti di cui all’art. 78 e 79 c.p.,
mentre al concorso formale è riservato il più lieve regime
sanzionatorio del cumulo giuridico dato, in base a quanto
disposto dall’art. 81, c. 1, c.p., dalla pena prevista per il reato
più grave aumentata fino al triplo.
2. Il concorso apparente di norme: principio di specialità
Pur nella profilata distinzione tra materiale e formale,
l’elemento distintivo del concorso di reato, considerato come
unitaria categoria, è dato dalla plurima violazione della leg‑
ge penale da parte di un soggetto: circostanza, quest’ultima,
che comporta l’inevitabile assoggettamento dell’autore dei
reati alle pene previste per le diverse fattispecie criminose.
E’ proprio tale tratto qualificante a differenziare il con‑
corso di reati dal concorso apparente di norme.
Nel primo vi è una effettiva violazione di più norme pena‑
li, nel secondo il soggetto viola una specifica e determinata
norma penale: si crea tuttavia l’apparenza di un concorso per‑
ché più norme sembrano prima facie essere applicabili ad un
medesimo fatto, di guisa tale che il vero problema pare essere
quello, di carattere squisitamente interpretativo, di individua‑
zione della norma effettivamente applicabile al caso concreto.
Pluralità di norme penali incriminatrici disciplinanti la
stessa materia, tali da determinare l’apparenza di un concor‑
so tra le norme astrattamente applicabili, e unicità del reato
concretamente realizzatosi: questi gli elementi qualificanti
del concorso apparente di norme.
L’unico appiglio normativo lo si rinviene nella disposizio‑
ne codicistica dell’art. 15 c.p. che risolve il problema dell’ap‑
parenza del concorso ricorrendo al criterio della specialità, in
virtù del quale, quando più leggi penali o più disposizioni
della medesima legge penale regolano la stessa materia, la
legge o disposizione di legge speciale deroga alla disposizione
di legge generale.
Il riferimento alla pluralità di leggi penali o disposizioni
di una medesima legge penale è da intendere come riferimen‑
to al diritto penale comune e al diritto penale speciale: il di‑
ritto penale speciale deroga al diritto penale comune.
Lo stesso può dirsi nell’ipotesi di apparente concorso tra
una norma che commina una sanzione penale e una norma
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m a r z o • a p r i l e
che prevede una sanzione amministrativa: l’art. 9 l. 689/1989
sancisce la prevalenza della norma da considerarsi speciale.
Il riferimento alla stessa materia, a fronte dei diversi ap‑
procci interpretativi, oscillanti tra l’identità del bene giuridico
e l’identità della situazione di fatto, pare implicare il riferi‑
mento alla stessa fattispecie astratta, ovverosia allo stesso
fatto tipico nel quale si realizza l’ipotesi di reato, seguendo
l’orientamento sostenuto dalla giurisprudenza dominante e
avallato, da ultimo, dalle Sezioni unite della Suprema Corte
di Cassazione con sentenza 16568/2007.
I giudici di Piazza Cavour evidenziano, in tale pronuncia,
l’inopportunità dell’identità del bene giuridico a qualificare
l’ambito applicativo del concorso apparente, atteso che si può
avere identità di bene giuridico tra fattispecie totalmente
eterogenee, mentre fattispecie in evidente relazione di specia‑
lità possono tutelare beni giuridici ben distinti.
Per quanto concerne, invece, il riferimento al criterio
della specialità è da sempre estremamente problematica la
sua esatta qualificazione e delimitazione. Invero, si ha spe‑
cialità, in generale, quando una norma, speciale, presenta
tutti gli elementi di un’altra norma, generale, con qualche
elemento in più: tale elemento può essere meramente aggiun‑
tivo (in tal caso si avrà rapporto di specialità unilaterale per
aggiunta) o specificativo di un elemento della fattispecie
generale (in tal caso si parlerà di specialità unilaterale per
specificazione).
Se questa nozione di specialità non pare creare problemi
sul piano applicativo, maggiori perplessità hanno sempre
sollevato i tentativi della dottrina e di una certa giurispruden‑
za di ampliare l’ambito di applicazione del criterio di specia‑
lità con riferimento alla specialità in concreto e alla specialità
bilaterale o reciproca.
La specialità in concreto presupporrebbe la riconducibili‑
tà di un dato fatto commesso in concreto a due distinte pre‑
visioni incriminatrici, non poste in astratto in relazione di
genere a specie.
La specialità bilaterale implicherebbe, invece, una relazio‑
ne di specialità reciproca tra le fattispecie coinvolte nel con‑
corso: ciascuna presenterebbe un elemento specializzante ri‑
spetto ad un nucleo comune, come accade, ad esempio, tra il
reato di aggiotaggio societario (caratterizzato dalla qualifica
soggettiva dell’agente) e il reato di aggiotaggio comune (qua‑
lificato dal dolo specifico richiesto al fine dell’integrazione
della fattispecie).
Invero, entrambi i criteri su enunciati comportano dei
problemi di compatibilità con il principio di legalità.
Il primo, oltre a porsi in evidente contrasto con il principio
costituzionale di legalità, per quanto concerne la tassatività
della previsione legislativa, non pare riconducibile alla dispo‑
sizione dell’art. 15 c.p. che richiede l’esistenza di un effettivo
rapporto di genere a specie tra le fattispecie incriminatrici
astrattamente coinvolte nel concorso.
Il secondo, invece, non sembra neanche latamente ascrivi‑
bile alla previsione dell’art. 15, posto che le norme coinvolte
sono tutte speciali. Si porrebbe in tal caso l’esigenza, invero
difficilmente realizzabile, di individuare quale tra le norme
speciali coinvolte nel concorso sia effettivamente la “più spe‑
ciale”.
L’inidoneità dei criteri alternativi appena enunciati non ha
tuttavia persuaso taluni della esaustività della nozione di
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81
specialità unilaterale quale desumibile da una interpretazione
stricto iure dell’art. 15 c.p.
Essa è parsa insufficiente a soddisfare le ragioni di equità
e giustizia sostanziale che spingono, da più parti, ad una va‑
lutazione del complessivo disvalore penale del fatto posto in
essere.
Per tali ragioni, rifiutando il rigoroso riferimento al rap‑
porto strutturale tra le fattispecie astratte propugnato vigo‑
rosamente dai fautori della cd. teoria monista, fedeli ad una
interpretazione letterale dell’art. 15, parte della dottrina e
della giurisprudenza, richiamandosi al principio del ne bis in
idem sostanziale che vieta di addossare più volte lo stesso
fatto al suo autore, hanno individuato ulteriori criteri ricon‑
ducibili all’ambito del concorso apparente di norme.
Sussidiarietà, consunzione ed assorbimento: questi i prin‑
cipali criteri elaborati, tutti complementari rispetto a quello
di specialità e fondati sull’apprezzamento del disvalore del
fatto concreto.
Il principio di sussidiarietà implica l’esistenza di un rappor‑
to di complementarietà, tale per cui la norma sussidiaria si
applica solo qualora la norma primaria non sia applicabile. In
tali termini è ormai pacificamente ricostruito il rapporto tra la
fattispecie di cui all’art. 640 bis e quella di cui all’art. 316 ter,
secondo quanto statuito dai giudici della Corte di Cassazione
con la pronuncia a Sezioni unite cui prima si è fatto cenno: il
delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato
è in rapporto di sussidiarietà, non specialità, rispetto a quello
di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbli‑
che, risultando dunque invocabile solo qualora difettino, nel
caso in concreto esaminato, i presupposti della truffa.
Il principio di consunzione implica la preminenza della
norma consumante su quella consumata, intendendo per
consumante quella il cui fatto comprende in sé il fatto previsto
dalla norma consumata.
Non dissimile è il principio di assorbimento, in virtù del
quale una determinata fattispecie criminosa comporta, secon‑
do l’id quod plerumque accidit, l’integrazione di una diversa
fattispecie che, nell’ambito di una complessiva valutazione del
fatto posto in essere, finisce con l’essere assorbita dalla prima.
Il fatto assorbente pare, detto altrimenti, esaurire per intero
il disvalore penale del fatto assorbito.
3. I recenti interventi giurisprudenziali sul tema
Malgrado l’ecletticità dei tentativi di l’ampliare l’ambito
applicativo del concorso apparente di norme, la giurispruden‑
za dominante, da sempre ostile all’utilizzo di criteri suppleti‑
vi rispetto a quello di stretta specialità delineato dall’art. 15
c.p., si è espressa perentoriamente con una pronuncia a Sezio‑
ni unite della Suprema Corte di Cassazione, nel dicembre del
2005, sostenendo l’inaccettabilità delle teorie pluralistiche.
Invero, a giudizio della Corte, i giudizi di valore che i
criteri di assorbimento e consunzione, in particolare, richie‑
derebbero, si pongono tendenzialmente in contrasto con il
principio di legalità, di tassatività e determinatezza per un
duplice ordine di motivi.
Innanzitutto perché i criteri di cui sopra risultano privi di
fondamento normativo, dal momento che l’inciso finale
dell’art. 15 c.p. fa riferimento alle clausole di riserva espres‑
samente previste dalle singole norme incriminatrici, ma non
fa riferimento alcuno a situazioni fortemente generiche e non
penale
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82
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
previamente identificate, quali quelle riconducibili ai criteri
stessi.
Inoltre, in mancanza di un espresso appiglio normativo,
l’applicazione del criterio di assorbimento e di consunzione
resta affidata prevalentemente alla valutazione intuitiva del
giudice, incontrollabile ed inevitabilmente sottoposta all’ar‑
bitrio del giudicante.
E’ evidente la carica elusiva del principio di determinatez‑
za e tassatività della fattispecie penale insita nei giudizi di
valore che tali criteri richiedono, facendo dipendere l’applica‑
zione di una norma penale da determinazioni individuali as‑
solutamente discrezionali.
Per risolvere in maniera definitiva la questione problema‑
tica, onde abiurare dal nostro ordinamento i fumosi criteri
alternativi al criterio di specialità, le Sezioni unite nella sen‑
tenza n. 1235 del 19 gennaio 2011 si avvalgono dei principi
enunciati dalla Corte EDU per rafforzare il principio di auto‑
determinazione del soggetto agente, il quale deve essere ga‑
rantito in modo chiaro e prevedibile sulle conseguenze san‑
zionatorie e sulla fattispecie concreta da applicare all’azione
criminosa posta in essere.
Emblematico è il passaggio in cui il Supremo Consesso di
giustizia penale afferma: “si comprende, pertanto, la necessi‑
tà del rigoroso rispetto del principio di legalità e dei conse‑
guenti principi di determinatezza e tassatività, anche con ri‑
ferimento alla materia del concorso apparente di norme in‑
criminatrici. Certamente, non può trascurarsi l’esigenza
sottesa alla giurisprudenza che fa ricorso al criterio della
consunzione, cioè il rispetto del principio del ne bis in idem
sostanziale, ma tale rispetto è assicurato da una applicazione
del principio di specialità, secondo un approccio strutturale,
che non trascuri l’utilizzo dei normali criteri di interpretazio‑
ne concernenti la ratio delle norme, le loro finalità e il loro
inserimento sistematico, al fine di ottenere che il risultato
interpretativo sia conforme ad una ragionevole prevedibilità,
come intesa dalla giurisprudenza della Corte EDU. D’altro
canto, anche quella giurisprudenza che fa riferimento al cri‑
terio di consunzione (sez. un., n. 23427 e n. 22902 del 2001,
cit.) lo utilizza ad integrazione o a conferma delle conseguen‑
ze applicative del principio di specialità e in funzione garan‑
tistica rispetto al destinatario della norma penale”.
4. L’applicazione del principio specialità nei casi concreti
Relativamente al rapporto esistente tra il reato di cui
all’art. 334 c.p. e l’illecito di cui all’art. 213 del Codice della
Strada, si sono da sempre fatti largo due distinti orientamen‑
ti giurisprudenziali: uno minoritario, per il quale il soggetto
sorpreso alla guida di un’automobile sottoposta a sequestro
risponde soltanto dell’illecito di cui all’art. 213 C.d.S..; l’altro,
maggioritario, che profila l’esistenza di un concorso tra la
fattispecie codicistica e l’illecito amministrativo.
La questione, molto delicata, concerne la configurabilità
del concorso di reati o del concorso apparente di norme, con
le implicazioni che la diversa soluzione comporta, con riguar‑
do al custode del veicolo oggetto di sequestro amministrativo
che circoli abusivamente con lo stesso.
A porre termine ai perduranti contrasti giurisprudenziali
è intervenuta la Suprema Corte di Cassazione che, con la
pronuncia a Sezioni unite, n. 1963/2011, ha concluso per la
specialità della fattispecie di cui all’art. 213 C.d.S.
p e n a l e
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Invero, tra le due norme considerate pare porsi un rappor‑
to di genere a specie: l’illecito amministrativo disciplinato
dall’art. 213 C.d.S. possiede evidenti elementi specializzanti
rispetto al reato di sottrazione o danneggiamento di cose
sottoposte a sequestro, previsto dall’art. 334 c.p., dati dalla
circostanza che l’art. 213 non si riferisce ad una qualsivoglia
tipologia di sequestro (come accade per l’art. 334 c.p.) ma al
sequestro amministrativo previsto dallo stesso articolo, non‑
ché dalla circostanza di fatto che non ogni condotta prevista
dall’art. 334 integra gli estremi dell’illecito amministrativo
ma solo la condotta di chi “circola abusivamente”.
Data l’esistenza di una effettiva relazione di specialità tra
le fattispecie coinvolte, la controversia interpretativa andrà
risolta alla luce di quanto statuito dall’art. 9 l. 689/1981, che
prevede l’applicazione della norma disciplinante l’illecito am‑
ministrativo, se speciale rispetto alla norma relativa al reato.
Detto altrimenti, il concorso con la fattispecie di cui
all’art. 334 c.p. deve essere ritenuto apparente e, in quanto
speciale, si deve concludere per l’applicazione esclusiva
dell’art. 213 C.d.S. in presenza dei requisiti specializzanti
concretizzanti la fattispecie stessa.
A soluzioni analoghe sembrano giungere le Sezioni unite
della Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 1235/2011
relativamente al rapporto tra frode fiscale e truffa aggravata
ai danni dello Stato.
Con tale pronuncia il Supremo Consesso, risolvendo un
annoso contrasto giurisprudenziale, ha statuito che sia il de‑
litto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o
altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2 d.lgs. 74/2000)
che quello di emissione di fatture o altri documenti per opera‑
zioni inesistenti (art. 8 d.lgs. 74/2000) si pongono in rapporto
di specialità rispetto al delitto di truffa aggravata ai danni
dello Stato, di cui all’art. 640, comma secondo, n. 1, c.p.
Il raffronto tra le fattispecie astratte evidenzia, infatti, che
la frode fiscale si connota per uno specifico artifizio, costitu‑
ito da fatture e documenti per operazioni inesistenti.
Non può considerarsi rilevante il mancato riferimento
alla verificazione dell’evento di danno, posto che, come già
evidenziato in una precedente pronuncia del 2008 della stessa
Corte, il realizzarsi dell’evento di danno è posto al di fuori
della fattispecie oggettiva.
Invero, la dichiarazione fraudolenta, in quanto supporta‑
ta da un impianto contabile, risulta particolarmente insidiosa,
perchè in grado di ostacolare la successiva attività di accerta‑
mento dell’amministrazione finanziaria: trattasi di una con‑
dotta connotata di particolare disvalore, per la quale il legi‑
slatore, intervenendo nel 2000, ha ritenuto opportuno proce‑
dere anticipando la soglia di tutela del bene protetto non ri‑
chiedendo la necessaria verificazione dell’evento di danno.
Non è da escludersi, d’altra parte, che il danno possa es‑
sere comunque astrattamente configurabile: la presentazione
di una dichiarazione non veridica si accompagna normalmen‑
te al versamento di un minor tributo e genera un danno im‑
mediato quanto meno nel senso del ritardo nella percezione
delle entrate tributarie.
La negazione del rapporto di specialità si porrebbe in
contraddizione con la ratio che ha ispirato il legislatore
nella riforma di cui al d.lgs. n. 74/2000, il quale ha inteso
con tale intervento disciplinare una particolare fattispecie
criminosa, di tipo commissivo e di mera condotta, che,
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
seppur teleologicamente diretta all’evasione d’imposta, ha
natura istantanea e si consuma con la mera presentazione
della dichiarazione annuale.
Ragioni di politica criminale inducono quindi a ritenere
che i reati in materia fiscale di cui agli artt. 2 e 8 del d.lgs.
74/2000 si pongono in rapporto di specialità rispetto al delit‑
to di truffa aggravata ai danni dello Stato di cui all’art. 640
c.p.: il loro concorso apparente determinerà l’applicazione
della norma speciale in presenza dei presupposti di applica‑
zione della stessa.
I recentissimi arresti pretori cui si è fatto cenno testimo‑
niano, ancora una volta, il tenace tentativo della giurispru‑
denza dominante di risolvere il fenomeno del concorso appa‑
rente di norme alla luce dell’esclusivo principio di specialità.
D’altra parte, a fronte degli approcci più tradizionalisti,
non va sottaciuto il ritorno alle teorie pluralistiche da parte di
una certa giurisprudenza anche recente, con riferimento, ad
esempio, al rapporto tra art. 423 c.p. e art. 434 c.p. o al rap‑
porto tra truffa e millantato credito, evidenziando in tal modo
la vivacità di un confronto mai compiutamente attenuatosi.
Il dibattito, invero, non può dirsi definitivamente risolto
né in giurisprudenza nè tanto meno tra i teorici del diritto,
che continuano vivacemente a significare l’angustia concet‑
2 0 1 3
83
tuale e dogmatica della categoria di specialità auspicando di
continuo un intervento risolutore di tipo legislativo che possa
recepire normativamente quei criteri di globale valutazione
del disvalore penale del fatto ormai pienamente compenetra‑
ti nella sensibilità giuridica ed utilizzati già da tempo nelle
elaborazioni delle teorie pluralistiche.
5. Brevi considerazioni conclusive
Il dibattito oggetto della presente trattazione si differen‑
zia dai casi trattati nei precedenti numeri di questi rubrica. In
particolare, mentre nelle ipotesi già compiutamente esamina‑
te abbiamo rilevato l’esistenza di un effettivo contrasto, in
ordine al medesimo istituto, tra la Corte EDU e le Corti in‑
terne, nel caso di specie la Cassazione si serve di taluni prin‑
cipi generali espressi dalla giurisprudenza sulla Convenzione
EDU al fine di risolvere l’annosa querelle interpretativa rela‑
tiva all’ammissibilità di criteri alternativi al principio di spe‑
cialità per la risoluzione dei conflitti apparenti di norme. È
peculiare che in tale contesto la Corte di Cassazione abbia
attuato i principi della CEDU incondizionatamente, senza
effettuare quel margine di apprezzamento che la Corte Co‑
stituzionale impone, quasi come se la Convenzione si appli‑
casse in maniera diretta nel nostro ordinamento.
penale
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●
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CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza
29 marzo 2012 (ud. 20 dicembre 2012), n. 14978
I contrasti risolti
dalle Sezioni unite penali
●
e
A cura di Angelo Pignatelli
Avvocato
La sentenza di appello priva della sola firma del Presidente
La sentenza di appello sottoscritta dal Giudice estensore
ma priva della firma del Presidente, integra una nullità rela‑
tiva, la cui tempestiva deduzione ne comporta l’annullamen‑
to senza rinvio, con contestuale restituzione degli atti al
giudice a quo affinché si provveda alla redazione di nuovo
provvedimento, munito delle sottoscrizioni prescritte.
La questione di diritto devoluta alle Sezioni unite può es‑
sere riassunta nei seguenti termini: «Se la sentenza di appello
mancante della sottoscrizione del presidente del collegio e
firmata dal solo giudice estensore configuri:
a) una mera irregolarità rimediabile con il procedimento
di correzione dell’errore materiale anche dopo l’impugnazione
della sentenza;
b) una nullità relativa che comporti l’annullamento con
rinvio al medesimo collegio affinché provveda alla sanatoria
mediante nuova redazione della sentenza-documento;
c) una nullità che investe l’intero giudizio, tale da compor‑
tare l’annullamento con rinvio ad altro collegio per la rinno‑
vazione del giudizio medesimo».
***
Sulla questione si rinviene un contrasto nella Giurispru‑
denza di legittimità che ha espresso una pluralità di indirizzi
riguardanti sia la natura della patologia che il rimedio consequenziale.
Un primo indirizzo sostiene la tesi della mera irregolarità
rimediabile con il procedimento di correzione dell’errore ma‑
teriale anche dopo l’impugnazione della sentenza. In tal senso
si legga la Sesta Sezione sentenza n. 36158 del 12 maggio 2008,
Campolo secondo cui «Tale interpretazione appare quella più
aderente al disposto dell’art. 546 c.p.p., comma 3, il quale, nel
prescrivere che la sentenza è nulla se manca la sottoscrizione
del giudice, fa evidente riferimento alla sola ipotesi di mancan‑
za assoluta della sottoscrizione. Al contrario, quando manca
la firma del presidente o quella del giudice estensore, la sotto‑
scrizione risulta incompleta ma non totalmente mancante;
sicchè si verte in ipotesi di vizio emendabile con la correzione,
a norma dell’art. 547 c.p.p.». Anche la Terza Sezione - con la
sentenza n. 44657 del 16 novembre 2001 Ferrara aderisce a
questo primo indirizzo interpretativo laddove è lo stesso art.
546 c.p.p., comma 3, che prevede la nullità della sentenza se
manca o è incompleto il dispositivo e se manca la sottoscrizio‑
ne del giudice (e non se è incompleta la sottoscrizione). Aderi‑
scono anche Sesta Sezione, con ordinanza n. 49886 del 09
dicembre 2009, Legname, nonché Prima Sezione, con la sen‑
tenza n. 23445 del 16 aprile 2003, Agozzino.
Un secondo orientamento prospetta, invece, la tesi della
mera irregolarità rimediabile con il procedimento di correzione dell’errore materiale soltanto fino all’impugnazione della
sentenza. In tal senso la Quinta Sezione con la sentenza n.
6246 del 20 gennaio 2004, Attinà - ha rilevato testualmente
che la correzione a norma dell’art. 547 c.p.p., «può avvenire
solo da parte del giudice che ha emesso il provvedimento da
correggere e non anche da parte del giudice dell’impugnazione,
come è invece generalmente previsto dall’art. 130 c.p.p., com‑
ma 1, ultima parte; perciò deve ritenersi che la correzione sia
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se: la Terza Sezione, n. 40025 del 13 ottobre 2011, Quispe
Huamani; la Prima Sezione, sentenza n. 429 del 24 gennaio1997,
Triglia e sentenza n. 12723 del 04 ottobre 1995, Nicoletti.)
Un isolato orientamentointerpretativo rappresentato dal‑
la sentenza della Seconda Sezione n. 5223 del 17 ottobre 2000,
Pavani ha cavalcato la tesi dell’inesistenza della sentenza
priva della sottoscrizione dell’estensore. Tale inesistenza non
può, tuttavia, comunicarsi al dispositivo, nel quale risulta già
espressa la decisione del giudice. Ne consegue che, dovendosi
ritenere senza effetti nel mondo giuridico un atto privo di
sottoscrizione e perciò non attribuibile ad alcun soggetto,
detta sentenza deve essere riprodotta con la data di pronuncia
del dispositivo, nonchè sottoscritta e depositata dallo stesso
giudice persona fisica che l’ha pronunciata (nella specie era
stata annullata, pertanto, la sentenza impugnata e disposta la
trasmissione degli atti al giudice a quo per una nuova reda‑
zione della sentenza-documento).
A fronte del contrastante quadro interpretativo dianzi
delineato, le Sezioni unite hanno affermato il seguente prin‑
cipio di diritto: « La sentenza di appello mancante della
sottoscrizione del Presidente del collegio non giustificata
espressamente da un suo impedimento legittimo e firmata dal
solo giudice estensore configura una nullità relativa che com‑
porta l’annullamento senza rinvio e la restituzione degli atti
affinchè si provveda alla sanatoria mediante nuova redazio‑
ne della sentenza-documento».
CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza
18 aprile 2013
All’esito dell’udienza pubblica del 18 aprile 2013 le Sezio‑
ni unite hanno affrontato la seguente questione: « se il giudi‑
ce di appello, dopo aver escluso una circostanza aggravante
in accoglimento del motivo proposto dall’imputato, possa
confermare la pena applicata in primo grado ribadendo il
giudizio di equivalenza tra le residue circostanze».
Secondo l’informazione provvisoria diffusa, al quesito è
stata data risposta « affermativa »
La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena
sarà depositata la motivazione.
CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza
28 marzo 2013
All’esito dell’udienza pubblica del 28 marzo 2013 le Se‑
zioni unite hanno affrontato la seguente questione: «se, nei
delitti contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità possa applicarsi anche al
delitto tentato».
Secondo l’informazione provvisoria diffusa, al quesito è
stata data risposta « affermativa »
La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena
sarà depositata la motiva- zione.
CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza
28 marzo 2013
All’esito dell’udienza pubblica del 28 marzo 2013 le Se‑
zioni unite hanno affrontato la seguente questione « se nel
procedimento di riesame di un provvedimento di sequestro
sia applicabile per la trasmissione degli atti al tribunale il
termine perentorio di cinque giorni previsto dall’art. 309,
comma 5, c.p.p., con la conseguente perdita di efficacia del
penale
possibile fino a quando gli atti non vengono trasmessi al giu‑
dice dell’impugnazione e che successivamente l’omissione
della sottoscrizione non possa più essere emendata e diventi
causa di annullamento della sentenza».
Una terza tesi giurisprudenziale disconosce l’operatività
della correzione dell’errore materiale e configura un’ipotesi di
nullità relativa, ai sensi dell’art. 546 c.p.p., comma 3, com‑
portante l’annullamento con rinvio al medesimo collegio per
la sanatoria mediante nuova redazione della sentenza-docu‑
mento. Si legga sul punto la Quinta Sezione - con la sentenza
n. 3544 del 10 luglio 2002, dep. 24 gennaio 2003, Severini
che ha osservato come «la sottoscrizione del presidente del
collegio immedesima il riscontro dell’espleta- mento della
funzione essenziale e sostanziale, demandatagli dalle previ‑
sioni ordinamentali, di controllare la conformità della moti‑
vazione a quanto deliberato in camera di consiglio. Per modo
che la mancanza correlativa non consente di verificare se tale
funzione di garanzia sia stata effettivamente espletata e non
realizza, per ciò, fattispecie di mera omissione materiale
emendabile ex art. 130 c.p.p.».
In ordine agli effetti dell’annullamento, una prima posi‑
zione afferma che in sintesi che la sottoscrizione attiene al
momento formativo della documentazione e non a quello
della decisione, sicchè il processo deve regredire nel grado in
cui l’atto nullo è stato compiuto - fase degli atti successivi
alla deliberazione, in cui la sentenza-documento è stata redat‑
ta e sottoscritta - mentre, in base al fondamentale principio
dell’autonomia funzionale degli atti, la detta declaratoria di
nullità della sentenza non può invalidare anche la precedente
fase del dibattimento. Aderiscono a tale imposta- zione la
Terza Sezione, sentenza n. 10629 del 22 gennaio 2003, Lom‑
bardo; Seconda Sezione - sentenza n. 43788 del 09 dicembre
2010, Franzè; Sezione 3, n. 3018 del 16 gennaio 1997, Di
Marco; Sezione 1, n. 12754 del 27 settembre 1999, Federici e
Sezione 5, n. 1171 dell’11 marzo 1999, Vivallos Cruces.
Una lieve variante all’indirizzo precedente è rappresentata
da quelle sentenze che sostengono la tesi della nullità relativa
comportante l’annullamento senza rinvio con trasmissione
degli atti per la sanatoria mediante nuova redazione della
sentenza-documento. (cfr. Quinta Sezione, con la sentenza n.
7094 del 29 ottobre 2010, dep. 23 febbraio 2011, Cassano e,
con riferimento al giudice monocratico, si sono espresse la
Sesta Sezione, con la sentenza n. 23738 del 19 marzo 2010,
Cascino, nonché la Quarta Sezione, con la sentenza n. 34293
del 13 luglio 2007, Mancino.)
Un secondo orientamento radicalmente diverso sostiene
la tesi della nullità riguardante l’Intero giudizio in quanto la
sentenza mancante della sottoscrizione del Presidente del
collegio è affetta da nullità e va annullata con rinvio ai fini
della celebrazione di un nuovo giudizio e non al solo fine di
integrare la relativa omissione. (cfr. Terza Sezione sentenza n.
7959 del 13 gennaio 2011, Pacilli; Quinta Sezione, con le
sentenze n. 19506 del 28 aprile 2006, Guggiari e n. 35769 del
19 maggio 2004, Prestifilippo; Prima Sezione, con la senten‑
za n. 8077 del 26 giugno 1996, D’Avena.)
Una variante rispetto all’orientamento che precede, si riscon‑
tra in quelle sentenze che sostengono la tesi della nullità riguar‑
dante l’intero giudizio e comportante l’annullamento senza
rinvio ma con trasmissione degli atti ad altro collegio per la
rinnovazione del giudizio medesimo. (In tal senso si sono espres‑
86
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
provvedimento in caso di inosservanza del termine ».
Secondo l’informazione provvisoria diffusa, al quesito è
stata data la seguente soluzione: «negativa».
La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena
sarà depositata la motivazione.
CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza
28 marzo 2013
All’esito dell’udienza pubblica del 28 marzo 2013 le Sezio‑
ni unite hanno affrontato le seguenti e collegate questioni:
« Se l’art. 10 ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, introdot‑
to dall’art. 35, comma 7, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, conv.
con mod. dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 ed entrato in vi‑
gore il 4 luglio 2006, si applichi anche agli omessi versamen‑
ti dell’Iva per l’anno 2005, da effettuarsi nel corso del 2005,
e non versati alla scadenza del 27 dicembre 2006, prevista dal
citato art. 10 ter, oppure se in tale ipotesi l’illecito debba rite‑
nersi comunque consumato alle singole scadenze del 2005 e
sia quindi punibile con le sole sanzioni amministrative previ‑
ste dall’art. 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471» (proc.
42955/11, ric. Romano)
« Se l’art. 10 bis del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, introdot‑
to dall’art. 1, comma 414, della legge 30 dicembre 2004, n.
311 ed entrato in vigore il 1° gennaio 2005, si applichi anche
agli omessi versamenti delle ritenute relative all’anno 2004,
da effettuarsi nel corso del 2004 e non versati alla scadenza
prevista per la presentazione della dichiarazione annuale di
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
sostituto di imposta relativa all’anno 2004 (nel caso di specie,
31 ottobre 2005), oppure se in tale ipotesi l’illecito debba ri‑
tenersi comunque consumato alle singole scadenze del 2004
e sia quindi punibile con le sole sanzioni amministrative pre‑
viste dall’art. 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471». (proc.
n. 7087/2012, ric. Favellato)
Secondo l’informazione provvisoria diffusa, per entrambi i
quesiti è stata ritenuta «penalmente rilevante l’omesso versamento sia delle ritenute effettuate nel corso del 2004, sia
dell’IVA incassata nel corso del 2005»
La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena
sarà depositata la motivazione.
CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza
28 febbraio 2013
All’esito dell’udienza pubblica del 28 febbraio 2013
le Sezioni unite hanno affrontato la seguente questione
«se, in tema di reato continuato, l’individuazione della vio‑
lazione più grave ai fini di computo della pena debba essere
effettuata in concreto oppure con riguardo alla valutazione
compiuta in astratto dal legislatore ».
Secondo l’informazione provvisoria diffusa, l’individuazione della violazione più grave ai fini di computo della pena
in tema di reato continuato si individua con riferimento alle
previsioni edittali.
La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena
sarà depositata la motivazione.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
●
Rassegna di legittimità
●
A cura di
Alessandro Jazzetti
Andrea Alberico
Assegnista di Ricerca in Diritto Penale
Avvocato
Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello
di Napoli
2 0 1 3
87
Impugnazioni - Provvedimenti impugnabili - Provvedimenti abnormi - Giudice del dibattimento - Dichiarazione di nullità del
decreto di citazione a giudizio - Abnormità - Esclusione
Non è abnorme, e quindi non è ricorribile per cassazione,
a prescindere dall’esattezza della decisione, il provvedimento
con cui il giudice del dibattimento, ritenuta la nullità dell’av‑
viso di conclusione delle indagini preliminari nonché del de‑
creto di citazione a giudizio per l’indeterminatezza o l’omes‑
sa indicazione della data del commesso reato, dichiara la
nullità del decreto, atteso che la dichiarazione di invalidità,
se pure insussistente, costituisce esercizio dei poteri propri del
giudice e dunque non colloca l’atto fuori dal sistema proces‑
suale.
Cass., sez. II, sentenza 26 febbraio 2013, n. 11938
(dep. 14 marzo 2013) Rv. 254272
Pres. Esposito, Est. Iannelli, Imp. P.M. in proc. Nannei, P.M.
Geraci (Conf.)
(Dichiara inammissibile, Trib. Savona, sez. dist. Albenga, 07
maggio 12)
Procedimenti speciali - Giudizio abbreviato - In genere - Erronea
declaratoria di inammissibilità o rigetto del rito - Riconoscimento
all’esito del dibattimento della diminuente del rito - Utilizzazione
delle prove assunte nel giudizio ordinario - Legittimità
Il giudice che all’esito del dibattimento - di primo grado
o di appello- ritenendo erronea una precedente declaratoria
di inammissibilità o di rigetto della richiesta di giudizio ab‑
breviato riconosca all’imputato il diritto ad ottenere la ridu‑
zione della pena, ex art. 442 c.p.p., può legittimamente uti‑
lizzare le prove assunte nel giudizio ordinario. (In motivazio‑
ne, la Corte ha precisato che il riconoscimento della riduzio‑
ne ex art. 442 c.p.p. all’esito del dibattimento non ha come
effetto di far regredire il processo, affinché si svolga nelle
forme camerali del rito speciale).
Cass., sez. VI, sentenza 15 marzo 2013, n. 14454
(dep. 27 marzo 2013) Rv. 254542
Pres.Agro’, Est.:Aprile, Imp. Lomazzi, P.M. D’Angelo
(Conf.)
(Rigetta, App. Roma, 01 giugno 2012)
Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei privati Millantato credito - Delitto di traffico di influenze ex art. 346 bis
c.p. - Natura propedeutica al delitto di corruzione - Configurabilità - Conseguenze.
Il delitto di traffico di influenze di cui all’art. 346 bis c.p.,
così come introdotto dall’art. 1, comma 75, della l. n. 190 del
2012, è una fattispecie che punisce un comportamento pro‑
pedeutico alla commissione di una eventuale corruzione e non
è, quindi, ipotizzabile quando sia già stato accertato un rap‑
porto, partitario o alterato, fra il pubblico ufficiale ed il
soggetto privato.
Cass., sez. VI, sentenza 11 febbraio 2013, n. 11808
(dep. 12 marzo 2013) Rv. 254442
Pres. Milo, Est. Aprile, Imp. Colosimo, P.M. Lettieri (Diff.)
(Rigetta, Trib. Roma, 29 novembre 2012)
Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei Pubblici
Ufficiali - Concussione - Elemento oggettivo (materiale) - Modifiche introdotte dalla legge n. 190 del 2012 - Condotta di costrizione
- Indicazione
penale
Gazzetta
88
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Nel delitto di concussione di cui all’art. 317 c.p., così
come modificato dall’art. 1, comma 75 legge n. 190 del 2012,
la costrizione consiste in quel comportamento del pubblico
ufficiale che, abusando delle sue funzioni o dei suoi poteri,
agisce con modalità o con forme di pressione tali da non la‑
sciare margine alla libertà di autodeterminazione del desti‑
natario della pretesa illecita che, di conseguenza, si determi‑
na alla dazione o alla promessa esclusivamente per evitare il
danno minacciato.
Cass., sez. VI, sentenza 25 febbraio 2013, n. 11942
(dep. 14 marzo 2013) Rv. 254444
Pres. Di Virginio, Est. Gramendola, Imp. Oliverio, P.M. Ge‑
raci (Conf.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Reggio Calabria, 22 feb‑
braio 2012)
Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei Pubblici
Ufficiali - Concussione - Elemento oggettivo (materiale) - Modifiche introdotte dalla legge n. 190 del 2012 - Condotta di costrizione - Pressioni tali da non lasciare margine di scelta nel destinatario - Differenze con la condotta di induzione di cui all’art. 319
quater
La costrizione, che costituisce l’elemento oggettivo del
reato di concussione di cui all’art. 317 c.p., così come modi‑
ficato dall’art. 1, comma 75 della l. n. 190 del 2012, sussiste
quando il pubblico ufficiale agisca con modalità ovvero con
forme di pressioni tali da non lasciare margine alla libertà di
autodeterminazione del destinatario della pretesa, il quale
decide, senza che gli sia stato prospettato alcun vantaggio
diretto, di dare o promettere un’utilità, al solo scopo di evi‑
tare il danno minacciato; essa si distingue dall’induzione, che
integra il reato di cui all’art. 319 quater c.p., che si verifica,
invece, quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico
servizio agisca con modalità o forme di pressione più blande,
tali da lasciare un margine di scelta al destinatario della
pretesa, che concorre nel reato perché gli si prospetta un
vantaggio diretto.
Cass., sez. VI, sentenza 25 febbraio 2013, n. 11944
(dep. 14 marzo 2013) Rv. 254446
Pres. Di Virginio, Est. Gramendola, Imp. De Gregorio, P.M.
Geraci (Conf.)
(Annulla in parte senza rinvio, App. Bologna, 06 febbraio
2012)
Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei Pubblici
Ufficiali - In genere - Delitto di induzione indebita, ex art. 319
quater c.p. - Accoglimento della promessa - Riserva mentale di non
adempiere - Consumazione del reato - Configurabilità
Ai fini della consumazione del delitto di induzione indebi‑
ta di cui all’art. 319 quater c.p., come introdotto dall’articolo
1, comma 75 della l. n. 190 del 2012, è sufficiente la promes‑
sa di denaro o altra utilità fatta dall’indotto al pubblico uffi‑
ciale o all’incaricato di pubblico servizio, senza che abbia ri‑
levanza alcuna né la riserva mentale di non adempiere nè
l’intendimento di sollecitare l’intervento della polizia giudizia‑
ria affinché la dazione avvenga sotto il suo controllo.
Cass., sez. VI, sentenza 11 gennaio 2013, n. 16154
(dep. 08 aprile 2013) Rv. 254541
Pres. De Roberto, Est. Carcano, Imp. Pierri, P.M. Spinaci
(Conf.)
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
(Annulla in parte con rinvio, App. Messina, 17 giugno
2011)
Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei Pubblici
Ufficiali - In genere - Delitto di induzione indebita, ex art. 319
quater c.p. - Promessa della prestazione - Successiva richiesta di
intervento alla polizia giudiziaria - Configurabilità del delitto
consumato - Sussistenza
È consumato il delitto di indebita induzione, di cui all’art.
319 quater c.p., quando dopo aver promesso il pagamento di
una somma di denaro, si sollecita l’intervento della polizia
giudiziaria affinché l’effettiva dazione avvenga sotto il con‑
trollo della stessa.
Cass., sez. VI, sentenza 25 febbraio 2013, n. 13047
(dep. 21 marzo 2013) Rv. 254467
Pres. Di Virginio, Est. Di Stefano, Imp. Piccinno e altro, P.M.
Geraci (Conf.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Milano, 04 gennaio
2012)
Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei Pubblici
Ufficiali - In genere - Modifiche introdotte dalla legge n. 190 del
2012 - Minaccia di un danno ingiusto del pubblico ufficiale o
dell’incaricato di pubblico servizio - Finalizzata a farsi dare o promettere denaro o altra utilità - Delitti configurabili - Concussione
o estorsione - Prospettazione da parte di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico di servizio di adottare atti legittimi ma dannosi
- Finalizzata a farsi dare o promettere denaro o altra utilità - Delitto di induzione indebita - Configurabilità - Fattispecie
A seguito dell’entrata in vigore della l. n. 190 del 2012, la
minaccia, di qualsivoglia tipo o entità, di un danno ingiusto,
finalizzata a farsi dare o promettere denaro o altra utilità,
posta in essere con abuso della qualità o dei poteri, integra il
delitto di concussione se proveniente da pubblico ufficiale
ovvero di estorsione se proveniente da incaricato di pubblico
servizio; sussiste, invece, il delitto di induzione indebita, di
cui all’art. 319 quater c.p., qualora il pubblico ufficiale o
l’incaricato di pubblico servizio, abusando della qualità o dei
poteri, per farsi dare o promettere il denaro o l’utilità pro‑
spetti, con comportamenti di persuasione o di convinzione,
la possibilità di adottare atti legittimi, ma dannosi o sfavore‑
voli. (Nella specie, la Corte ha qualificato come induzione
indebita, ex art. 319 quater c.p., la condotta di un sottuffi‑
ciale della guardia di finanza che, nell’esercizio di attività di
verifica, aveva prospettato al titolare di un’azienda il rilievo
di gravi irregolarità fiscali, effettivamente sussistenti, e si era,
quindi, fatto promettere una consistente somma di danaro).
Cass., sez. VI, sentenza 25 febbraio 2013, n. 13047
(dep. 21 marzo 2013 ) Rv. 254466
Pres. Di Virginio, Est. Di Stefano, Imp. Piccinno e altro, P.M.
Geraci (Conf.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Milano, 04 gennaio
2012)
Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei Pubblici
Ufficiali - In genere - Reato di cui all’art. 319 quater c.p. - Continuità normativa con la precedente fattispecie di concussione per
induzione - Configurabilità - Ragioni
La fattispecie di cui all’art. 319 quater c.p., come intro‑
dotta dall’art. 1, comma 75 della legge n. 190 del 2012, si
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Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei Pubblici
Ufficiali - In genere - Reato di cui all’art. 319 quater c.p. - Elemento oggettivo - Attività di induzione - Significato.
La induzione, richiesta per la realizzazione del delitto
previsto dall’art. 319 quater c.p., così come introdotto
dall’art. 1, comma 75, della legge n. 190 del 2012, non è
diversa, sotto il profilo strutturale, da quella che già integra‑
va una delle due possibili condotte del previgente delitto di
concussione di cui all’art. 317 c.p. e consiste, quindi, nella
condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico
servizio che, abusando delle funzioni o della qualità, attra‑
verso le forme più varie di attività persuasiva, di suggestione,
anche tacita, o di atti ingannatori, determini taluno, consa‑
pevole dell’indebita pretesa e non indotto in errore dalla
condotta persuasiva svolta dal pubblico agente, a dare o
promettere, a lui o a terzi, denaro o altra utilità. (In motiva‑
zione, la Corte ha evidenziato che la prospettazione di con‑
seguenze sfavorevoli da parte del pubblico agente per ottene‑
re l’indebita promessa o pagamento può essere considerato
un indice sintomatico della induzione indebita).
Cass., sez. VI, sentenza 11 gennaio 2013, n. 16154
(dep. 08 aprile 2013) Rv. 254539
Pres. De Roberto, Est. Carcano, Imp. Pierri, P.M. Spinaci
(Conf.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Messina, 17 giugno
2011)
Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei Pubblici
Ufficiali - In genere - Sollecitazione del pubblico ufficiale a dare o
promettere denaro o altra utilità - Delitto configurabile - Indicazione
La sollecitazione del pubblico ufficiale o dell’incaricato
di pubblico servizio rivolta al privato a dare o promettere
denaro o altra utilità, pure se espressa con la prospettazione
di evitare un pregiudizio derivante dall’applicazione della
legge, mediante un atto contrario ai doveri di ufficio integra,
nel caso sia rifiutata, il delitto di istigazione alla corruzione
punito dall’art. 322 c.p., o, se accolta, quello di corruzione
punito dall’art. 319 c.p.; la medesima sollecitazione integra,
invece, il delitto induzione, punito dall’art. 319 quater c.p.,
quando sia preceduta o accompagnata da uno o più atti che
costituiscono estrinsecazione del concreto abuso della qua‑
lità o del potere dell’agente pubblico.
Cass., sez. VI, sentenza 11 gennaio 2013, n. 16154
(dep. 08 aprile 2013) Rv. 254540
Pres. De Roberto, Est. Carcano, Imp. Pierri, P.M. Spinaci
(Conf.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Messina, 17 giugno
2011)
penale
pone in termini di continuità normativa rispetto alla prece‑
dente fattispecie concussiva per induzione, essendo stata,
nella nuova norma, descritta in termini identici la condotta
del pubblico ufficiale.
Cass., sez. VI, sentenza 11 febbraio 2013, n. 12388
(dep. 15 marzo 2013) Rv. 254441
Pres. Milo, Est. Capozzi, Imp. Sarno, P.M. Lettieri (Conf.)
(Rigetta, Trib. lib. Milano, 12 novembre 2012)
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diritto penale
Rassegna di merito
●
e
A cura di
Alessandro Jazzetti
Giuseppina Marotta
Avvocato
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
Calunnia: ritrattazione della denunzia - Irrilevanza
(art. 368 c.p.)
La spontanea “ritrattazione” della denuncia non esclude la
punibilità del reato di calunnia, integrando un “post factum”
irrilevante rispetto all’avvenuto perfezionamento del reato,
eventualmente valutabile quale circostanza attenuante ai
sensi dell’art. 62 n. 6 cod. pen., purché effettuata prima che
1’autorità giudiziaria acquisisca la prova della falsità dell’
incolpazione.
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 27 marzo 2013, n. 715
Pres. Aschettino, Est. Imparato
Circostanze attenuanti generiche: finalità
(art. 162 bis c.p.)
Le circostanze attenuanti generiche hanno lo scopo di
estendere le possibilità di adeguamento della pena in senso
favorevole all’imputato in considerazione di situazioni e
circostanze che effettivamente incidano sull’apprezzamento
dell’entità del reato e della capacità a delinquere dello stesso,
sicché il riconoscimento di esse richiede la dimostrazione di
elementi di segno positivo (Cass. sez. 3, sentenza n. 19639 del
27/01/2012 Ud. (dep. 24/05/2012) rv. 252900).
Tribunale Napoli, G.u.p. Giordano
sentenza 8 febbraio 2013, n. 406
Confisca: sentenza di assoluzione – Previsione
(art. 240 c.p.)
La confisca facoltativa può essere disposta anche d’ufficio.
dal giudice di cognizione di primo grado il quale, nel
pronunciare sentenza di assoluzione o di condanna, può ben
applicare le eventuali misure di sicurezza, ai sensi degli artt.
205, comma 1 e 236, comma 2. cod. pen. nonché degli art.
530, comma 4 e 533, comma 1, cod. proc. pen., trattandosi di
pronunzie necessariamente conseguenziali al principale thema
decidendum riguardante l’imputazione (Cass. pen., sez. I, n.
10069/2002).
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 30 gennaio 2013, n. 237
Pres. Aschettino, Est. De Majo
Peculato d’uso: elementi costitutivi – Condotta occasionale
(art. 314 c. 2 c.p.)
Non è configurabile il reato di peculato d’uso laddove l’uso
del bene della P.A. sia “episodico ed occasionale” e quando “la
condotta abusiva non abbia leso la funzionalità della P.A. e
non abbia causato un danno patrimoniale apprezzabile”. ( cfr.
sul punto tra le altre sez. 6. sentenza n. 5006 del 12/01/2012).
La giurisprudenza di legittimità ha invero affermato, con un
orientamento ormai consolidato, che l’uso temporaneo del
bene pubblico per finalità, reali o supposte, non corrispondenti
a quelle istituzionali non sempre è destinato ad integrare la
fattispecie del peculato d’uso. Non certamente nei casi in cui un
siffatto temporaneo uso si è rilevato, come nel caso in oggetto,
del tutto episodico ed occasionale e non risulti caratterizzarsi,
quanto a consistenza (distanze percorse) e durata dell’uso,
in fatti di effettiva “appropriazione” delle autovetture di
servizio, suscettibili di recare un concreto e significativo danno
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Peculato d’uso: ratio legislativa – Punibilità
(art. 314 co. 2 c.p.)
La ragione fondamentale della fattispecie del peculato
d’uso va individuata nell’esigenza del legislatore di sottrarre
alla estensione del più grave peculato comune ( art. 314
c.p.,comma 1) l’appropriazione di cose di specie (e non anche
di quelle fungibili) per un circoscritto periodo di tempo, cui
faccia seguito la loro pronta restituzione con coevo pieno
ripristino della situazione precedente (cfr. Cass. Sez. 6,
1.2.2005 n. 9216, Triolo, rv. 230940). Nel caso in esame
l’autovettura di servizio è sempre rimasta nella sfera della P.A.
e della funzionale disponibilità degli agenti della Polstrada
giammai essendosene consentito il più temporaneo impiego
a soggetti terzi, pubblici ufficiali o privati, non aventi diritto
all’uso di veicolo di servizio ( v. Cass. sez. 6, 13.5.2003 n.
27007, P.M. in proc. Grassi, rv. 225759).
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 27 novembre 2012, n. 2568
Pres. Est. Aschettino
Pornografia minorile: accesso al programma Emule - Divulgazione
– Nozione - Elemento soggettivo - Presupposti
(art. 600 ter c.p.)
Il dolo richiesto dalla norma può sussistere sia nella
sua forma diretta che nella forma di dolo eventuale come
accettazione del rischio della divulgazione. In entrambi i casi è
però necessario che il soggetto agente si sia rappresentato tutti
gli elementi del fatto reato oggetto di contestazione e nel caso
di specie che sia rappresentato che i files erano allocati in una
cartella condivisa accettando quanto meno il rischio che altri
li potessero vedere. Sul punto soccorre la giurisprudenza di
legittimità che ha affermato che non è ravvisabile anche il reato
divulgazione per il solo motivo (e sulla base della sola prova)
che i files illeciti siano procuratia attraverso un programma
di condivisione del tipo di quello EMULE in quanto per
ravvisare l’elemento soggettivo del reato è necessaria la prova
di una volontà consapevole del soggetto diretta a divulgare
o diffondere il file. Invero, se l’utente in ragione della sua
limitata conoscenza tecnico-informatica ignora che i “files”
detenuti sono di fatto nella disponibilità dio altri utenti perché
inserito in una “cartella condivisibile” incorre in un evidente
errore sul fatto che costituisce reato, così come disciplinato
dall’art. 47 cp, e tale errore ricadendo su uno degli elementi
essenziali del reato incide sul profilo psichico elidendo il dolo
di divulgazione che costituisce elemento soggettivo tipico della
fattispecie in contestazione.
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 20 febbraio 2013, n. 469
Pres. Est. Aschettino
procedura penale
Termini di custodia cautelare: diversa qualificazione del reato in
sentenza rispetto a quello del titolo cautelare – Inefficacia della
misura – Esclusione
(art. 303 c.p.p.)
Deve ritenersi che il titolo cautelare per il capo di
imputazione X, permanga pur a fronte della diversa
qualificazione giuridica della condotta operata in sentenza,
dovendosi ritenere, argomentando diversamente, del tutto
vanificato il titolo cautelare emesso per la stessa condotta
ancorché originariamente qualificata ex art. 378 c.p., 7 l.
203/1991, opzione quest’ultima non condivisibile, in quanto
in tal modo si determinerebbe un’ipotesi di inefficacia della
misura cautelare non prevista dal codice di rito; si deve
pertanto ritenere che il termine di cui all’art. 303, comma 1,
lett. c), c.p.p., non sia decorso, atteso che nel caso di specie
detto temine deve essere calcolato in relazione all’intera
pena attribuita all’imputato per i reati per i quali è in atto la
custodia cautelare.
Corte Appello Napoli, sez. III
ordinanza 17 aprile 2013, n. 6662/12
Pres. Est. Catena
Udienza preliminare: potere e limiti del G.u.p.
(art. 425 c.p.p.)
Sotto un profilo teorico deve rilevarsi che la nuova
formulazione dell’art. 425, comma 3, c.p.p. ha ampliato la
funzione di “filtro” dell’ udienza preliminare, assegnando al
Gup un potere di controllo “sostanziale” ossia una attenta
valutazione dei risultati delle indagini al fine di determinare,
con un giudizio attinente il merito, l’effettiva fondatezza dell’
ipotesi accusatoria. In tale ottica si impone la emissione della
sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 , comma 3,
c.p.p. ogni qualvolta risulti l’inadeguatezza del materiale
probatorio raccolto a sostenere l’accusa e ciò anche quando
esiste un principio di prova della responsabilità penale ma non
in misura tale da supportare una pronuncia di condanna in
sede dibattimentale (Cass. 687/98; 45275/200l).
Tribunale Napoli, G.u.p. Colucci
sentenza 28 gennaio 2013, n. 264
Valutazione della prova: deposizione della persona offesa – Criteri e differenze rispetto al testimone
(art. 192 c.p.p.)
La persona offesa, pur essendo considerata dal legislatore,
anche quando si costituisce parte civile, alla stregua di un
qualunque testimone, viene collocata, dalla giurisprudenza in
una posizione diversa rispetto a quella del teste - e ciò proprio
per il ruolo che assume nell’ambito del processo. Sia quando
si costituisce parte civile nel processo penale, sia quando non
eserciti tale facoltà. Se. infatti, il testimone, è per definizione
una persona estranea agli interessi in gioco del processo, che
si limita a rendere una deposizione su fatti a cui ha assistito
personalmente, senza altre o diverse implicazioni, la persona
offesa è per definizione in posizione di antagonismo nei
confronti dell’imputato, finalizzata ad ottenere giustizia con
la condanna di questi.
Tribunale Nola, coll. C)
sentenza 7 marzo 2013, n. 588
penale
economico all’ente pubblico (in termini di carburante utilizzato
e di energia lavorativa degli autisti addetti alla guida) ovvero
di pregiudicarne l’ordinaria attività funzionale. Del resto
l’autovettura non fu neppure distolta dal suo uso istituzionale
atteso che lo straordinario programmato era previsto che si
dovesse svolgere con le motociclette e non con l’auto di talchè
la stessa doveva rimanere parcheggiata nel distretto.
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 27 novembre 2012, n. 2568
Pres. Est. Aschettino
92
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Pres. Di Iorio, Est. Cervo
Valutazione della prova: deposizione della persona offesa – Unica
fonte di prova - Criteri
(art. 192 c.p.p.)
Quando la persona offesa rappresenta il principale (se non
il solo) testimone che abbia avuto la percezione diretta del
fatto da provare e sia, quindi sostanzialmente, l’unico soggetto
processuale in grado di introdurre tale elemento valutativo o
nel processo, affinchè la sua deposizione possa essere posta
a fondamento del giudizio di colpevolezza dell’imputato,
occorre sottoporla ad una puntuale analisi critica, mediante la
comparazione con il rimanente materiale probatorio acquisito
(laddove ciò sia possibile) utilizzabile per corroborare la sua
dichiarazione, ovvero, laddove una verifica ab estrinseco non
sia possibile. attraverso un esame attento e penetrante della
testimonianza.
Tribunale Nola, coll. C)
sentenza 7 marzo 2013, n. 588
Pres. Di Iorio, Est. Cervo
LEGGI PENALI SPECIALI
Bancarotta: prestanome – Concorso nel reato – Presupposti
(art. 216 L.F.)
Invero, se, per costante giurisprudenza, il mero prestanome
può concorrere con l’amministratore di fatto nella bancarotta
commessa da quest’ultimo in seno alla società solo fiscalmente
riconducibile al primo, anche solo per non aver impedito
l’evento che aveva l’obbligo di impedire (cfr. sul punto, Cass.
Pen. Sez. V n°7208\2006) , diverso è il caso, come quello di
specie, in cui, attraverso una società “cartiera”, formalmente
amministrata da terzi, si realizza una distrazione ai danni di
altra società.
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 27 marzo 2013, n. 715
Pres. Aschettino, Est. Imparato
Bancarotta fraudolenta: soggetti responsabili – Differenze tra
bancarotta documentale per sottrazione e quella per distrazione
(art. 216 L.F.)
In tema di bancarotta fraudolenta, mentre con riguardo
a quella documentale per sottrazione delle scritture contabili,
ben può ritenersi la responsabilità del soggetto investito
solo formalmente del’amministrazione dell’ impresa fallita
(cosiddetto “testa di legno”), atteso il diretto e personale
obbligo dell’amministratore di diritto di tenere e conservare
le suddette scritture, non altrettanto può dirsi con riguardo
alle ipotesi della distrazione, relativamente alla quale non
può, nei confronti dell’ amministratore apparente, trovare
automatica applicazione il principio secondo il quale, una volta
accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità
dell’imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in
assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi
data, legittima la presunzione della dolosa sottrazione, dal
momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di
amministratore apparente non necessariamente implica la
consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall’amministratore
di fatto. (Cass. pen., sez. V, sent. 28007 del 2004).
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 27 marzo 2013, n. 715
Pres. Aschettino, Est. Imparato
Bancarotta fraudolenta patrimoniale: differenze con la ricettazione prefallimentare
(art. 216 co. 1 e 223 co. 1 L.F.)
Sussiste il concorso in bancarotta fraudolenta patrimoniale,
ex artt. 216 comma primo e 223 comma primo, legge fall.,
e non la cosiddetta ricettazione prefallimentare (art. 232,
comma secondo n. 3) quando la distrazione di beni sociali
prima del fallimento sia operata dall’estraneo in accordo con
1 ‘amministratore della società fallita” (Cass. pen., sez. V,
n°12824 del 2005).
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 27 marzo 2013, n. 715
Pres. Aschettino, Est. Imparato
Bancarotta fraudolenta: elemento soggettivo - Presupposti
(art. 216 L.F.)
In tema di bancarotta fraudolenta per distrazione
od occultamento ad integrare 1’elemento soggettivo è
sufficiente il dolo generico, dal momento che è necessario che
1’agente, perseguendo un interesse proprio o di terzi estranei
all’impresa, abbia coscienza e volontà di porre in essere atti
incompatibili con gli interessi della stessa, in quanto aventi
quale conseguenza la lesione del patrimonio aziendale, la
diminuzione delle garanzie patrimoniali e 1 ‘indebolimento
della posizione dei creditori” (Cass. Pen. Sez. V n°2876 del
1998).
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 27 marzo 2013, n. 715
Pres. Aschettino, Est. Imparato
Bancarotta fraudolenta: concorso dell’extraneus – Presupposti e
condizioni
(art. 216 L.F.)
In materia di reati fallimentari, nell ‘ipotesi di fatti di
bancarotta fraudolenta per distrazione, e con riferimento
alla partecipazione dell’”extraneus” in reato proprio dell
‘amministratore di società deve ritenersi che il soggetto
esterno alla società può concorrere nel reato proprio,
mediante condotta agevolativa di quella dell’”intraneus”, nella
consapevolezza della funzione di supporto alla “distrazione”,
intesa quest’ultima come sottrazione dal patrimonio sociale
e suo depauperamento ai danni della classe creditoria, in
caso di fallimento. Nel caso in cui, la “distrazione” venga
realizzata mediante l’azione “combinata” di più soggetti, la
consapevolezza del partecipe “extraneus” deve abbracciare le
varie condotte ed i reciproci loro nessi protesi al raggiungimento
dell ‘evento conclusivo” (Cass. Pen. Sez. V n°6470 del 1999)
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 27 marzo 2013, n. 715
Pres. Aschettino, Est. Imparato
Bancarotta semplice: comportamento punibile – Presupposti
(art. 216 L.F.)
Il reato di bancarotta semplice documentale sanziona
il comportamento omissivo del fallito che non ha tenuto
le scritture contabili, trattandosi di reato di pericolo che,
Gazzetta
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 3
93
F O R E N S E
Imposte: emissione fatture per operazioni inesistenti – Configurabilità
(art. 8 d.lgs 74/2000)
In tema di reati finanziari e tributaria il reato di emissione
di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8,
d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74) è configurabile anche in caso di
fatturazione solo soggettivamente falsa, sia per 1 ‘ampiezza
della norma che si riferisce genericamente ad “operazioni
inesistenti”, sia perché anche in tal caso è possibile conseguire il
fine illecito indicato dalla norma in esame, ovvero consentire a
terzi l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto.
Tribunale Nola, colla. A)
sentenza 27 marzo 2013, n. 715
Pres. Aschettino, Est. Imparato
Stupefacenti: idoneità della sostanza a produrre effetto drogante – Accertamento – Necessità ai fini della condanna
(art. 73 d.P.R. 309/90)
Ai fini della configurabilità di un reato è necessario
accertare la concreta offensività della condotta, e cioè,
l’effettiva capacità della stessa a ledere i beni giuridici tutelati
dalla norma incriminatrice. Con riferimento al reato previsto
dall’art. 73 d.P.R. n. 309/90 occorre verificare l’idoneità della
sostanza a produrre un effetto drogante; è, cioè, necessario
accertare se la sostanza contenga un minimo di principio
attivo. Nel caso esaminato non è stato possibile procedere a
questo accertamento perché la sostanza era completamente
deteriorata al punto da non poter essere analizzata. Orbene,
il predetto stato della sostanza riscontrato ad appena un mese
dal sequestro, induce a ritenere che la sostanza non fosse
marijuana. E’ vero che le sostanze stupefacenti col passare
del tempo si deteriorano; ma di certo, un deterioramento
così veloce, appare francamente inusuale. Lo stesso narcotest
effettuato dalla PG ha dato esito incerto e al momento del
sequestro la sostanza si presentava “umida”. Sulla base di tali
elementi è stata pronunciata sentenza di assoluzione perché
non è certo che la sostanza detenuta fosse stupefacente.
Tribunale Napoli, G.u.p. Carola
sentenza 1 febbraio 2013, n. 327
Stupefacenti: consumo di gruppo – Irrilevanza penale – Presupposti
(art. 73 d.P.R. 309/90)
La giurisprudenza di legittimità in ordine alla possibile
irrilevanza penale del ‘cd. consumo di gruppo’ (Cass. 26.1.20Il,
sez. VI, n. 3162) chiarisce come la causa di giustificazione
possa concretamente operare solamente se si raggiunga la
piena prova di alcune circostanze quali:
a)Il consumo della sostanza anche da parte del soggetto che
ha proceduto all’acquisto (mandatario); b)La certezza dei
componenti del gruppo sin da quando è conferito il mandato
con l’intesa circa il tempo e il luogo dell’ assunzione;c)Unicità
del comportamento del gruppo al fine del consumo della
sostanza. Ne consegue che in assenza di prova di alcuna delle
ultime circostanze descritte, e la dimostrata presenza della
quantità di sostanza -stupefacente unitamente alle modeste
condizioni reddituali dell’imputato - non consentono di
ritenere che la droga fosse destinata unicamente al consumo
personale.
Tribunale Napoli, G.u.p. Pilla
sentenza 4 febbraio 2013, n. 339
Stupefacenti: circostanza aggravante dell’ingente quantità – Presupposti e condizioni
(art. 73, 80 d.P.R. 309/90)
In tema di produzione, traffico e detenzione di sostanze
stupefacenti, L’aggravante della ingente quantità dio cui
all’art. 80, comma secondo, d.P.R. n. 309/1990, non è di
norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a 2mila
volte il valore massimo, in milligrammi (valore-soglia),
detenuto per ogni sostanza nella tabella allegata al d.m. 11
aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del
giudice di merito, quando tale quantità sia superata.
Tribunale Napoli, G.u.p. Piccirillo
sentenza 11 marzo, n. 644
penale
mirando ad evitare che sussistono ostacoli all’attività di
ricostruzione del patrimonio aziendale dei movimenti che
l’hanno costituito, persegue la finalità di consentire ai
creditori l’esatta conoscenza della consistenza patrimoniale
sulla quale possono essere soddisfatti. Di tale ipotesi di reato
risponde l’imprenditore dichiarato fallito o l’amministratore
della società fallita il quale non ha esercitato la necessaria
sorveglianza sul puntuale adempimento di obblighi di legge in
quanto il reato è punibile anche a titolo di colpa.
Tribunale Nola, coll. C)
sentenza 31 gennaio 2013, n. 251
Pres. Est. Di Iorio
Diritto amministrativo
Gli strumenti amministrativi di contrasto alla corruzione. I piani anticorruzione
97
Carlo Buonauro
La giustiziabilità degli atti politici ex art. 113 Cost.
105
Vittorio Sabato Ambrosio
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture
(d.lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.)
110
amministrativo
A cura di Almerina Bove
Gazzetta
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
●
97
● Carlo Buonauro
Magistrato amministrativo*
Premessa
La legge 6 novembre 2012 n.19, sotto il nomen “Disposi‑
zioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e
dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, si sviluppa in
due articoli, di cui il primo, formato da 83 commi, contenen‑
te tutta la disciplina sostanziale ed il secondo recante la
consueta clausola di invarianza finanziaria.
Con tale riforma - collocantesi nella più ampia ottica
della lotta all’illegalità nella pubblica amministrazione anche
in ossequio alle istanze di matrice internazionale che più
volte hanno sollecitato l’Italia ad un intervento in materia,
garantendo un completo e pieno adeguamento dell’ordina‑
mento interno agli obblighi internazionali1 -, il legislatore ha
inteso, da un lato, introdurre misure di stampo amministra‑
tivo a carattere sia preventivo sia repressivo della corruzione
e, dall’altro, delineare misure di stampo penale più incisive sia
sul piano applicativo e sia sul piano sanzionatorio . Quest’ul‑
timo aspetto si è realizzato mediante una complessiva modi‑
fica della disciplina del Codice Penale relativa ai reati contro
la pubblica amministrazione .
Sul versante amministrativo, il complessivo architrave
delineato dalla nuova normativa - accanto ad un rafforzamen‑
to della trasparenza amministrativa, attraverso un perentorio
richiamo alla cultura dell’integrità ed all’ennesima modifica
alla legge 241/1990 - si regge su due pilastri fondamentali:
• sul piano macro-organizzativo, viene delineata la nuova
struttura dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, cui, sul
versante micro - organizzativo, si affianca, nei singoli enti, la
figura del responsabile della prevenzione della corruzione;
• sul versante operativo, vengono in linea di conto, anco‑
ra una volta nella medesima logica binaria di rapporto tra
centro e periferia, gli innovati strumenti di pianificazione, nel
duplice livello del Piano nazionale anticorruzione e dei piani
triennali di prevenzione della corruzione, approvati da tutte
le amministrazioni pubbliche2.
1
∗ Componente del Nucleo Tecnico Scientifico del Progetto “Inter‑
venti mirati al contrasto della corruzione nella Pubblica Ammi‑
nistrazione Locale e Centrale”, nell’abito della cui esperienza è
maturata gran parte del presente contributo.
Cfr. Camera dei Deputati, sezione “Temi di attività parlamentare”, 25 ottobre
2012, in http://www.camera.it/misure-anticorruzione. A tal fine basti pensare
alla Convenzione penale di Strasburgo sulla corruzione del 1999 che impegna
gli Stati a prevedere l’incriminazione : di fatti di corruzione attiva e passiva
tanto di funzionari nazionali quanto stranieri; di corruzione attiva e passiva nel
settore privato; del c.d. traffico di influenze illecite; del c.d. autoriciclaggio.
Si pensi ancora alla Convenzione civile sulla corruzione di Strasburgo del 1999
che è diretta ad assicurare che negli Stati aderenti siano garantiti rimedi giudi‑
ziali efficaci in favore delle persone che hanno subito un danno risultante da un
atto di corruzione. Entrambe le Convenzioni Internazionali suddette, sono
state oggetto di ratifica da parte dell’Italia rispettivamente con Legge 28 giugno
2012, n. 110 e con Legge 28 giugno 2012, n.112.
2 Sul punto si segnale come, rispettivamente il 12 e 19 marzo 2013. sono state
approvate e pubblicate sul sito della Funzione Pubblica (http://www.funzione‑
pubblica.gov.it/la-struttura/anticorruzione.aspx) le “Linee di indirizzo” del
Comitato interministeriale (d.p.c.m. 16 gennaio 2013) per la predisposizione,
da parte del Dipartimento della funzione pubblica, del PIANO NAZIONALE
ANTICORRUZIONE di cui alla legge 6 novembre 2012, n. 190”. Peraltro
l’attività del citato Nucleo Tecnico Scientifico del Progetto “Interventi mirati al
contrasto della corruzione nella Pubblica Amministrazione Locale e Centrale”
ha avuto, come primo compito, proprio il supporto a tale elaborazione.
amministrativo
Sommario: Premessa - 1. L’Autorità Nazionale Anticorruzio‑
ne - 2. Il Responsabile della prevenzione della corruzione 3. Il Piano Nazionale Anticorruzione ed i piani triennali di
prevenzione della corruzione.
Gli strumenti amministrativi
di contrasto alla corruzione.
I piani anticorruzione
2 0 1 3
98
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
1. L’Autorità Nazionale Anticorruzione
La legge anticorruzione individua all’articolo 1 comma 1
nell’Autorità nazionale anticorruzione il soggetto incaricato
di svolgere attività di controllo, di prevenzione e di contrasto
della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministra‑
zione. 3
A tal fine si specifica al comma 2 che è la Commissione per
la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazio‑
ni pubbliche ad operare quale Autorità nazionale anticorruzio‑
ne. In realtà la Commissione per la valutazione, la trasparenza
e l’integrità delle amministrazioni pubbliche, era già stata
istituita in forza dell’ articolo 13 del decreto legislativo 27 ot‑
tobre 2009, n. 150 in materia di ottimizzazione della produt‑
tività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle
pubbliche amministrazioni. Tale commissione in forza della
legge istitutiva è chiamata a svolgere funzioni di indirizzo e
coordinamento delle funzioni delle amministrazioni pubbliche
e, più in generale, ad essa spetta il compito di sovraintendere
all’esercizio delle funzioni pubbliche affinché venga garantita
la trasparenza e l’efficienza dell’attività pubblica e la qualità
dei servizi resi ai cittadini; a tal fine alla Commissione è garan‑
tito la piena indipendenza e autonomia di giudizio.
In forza della previsione della Legge Anticorruzione, si
aggiunge a quanto su detto l’ulteriore e più ampio compito per
la Commissione di operare nell’ottica di garantire la traspa‑
renza totale delle amministrazioni favorendo a tal fine un
controllo partecipato dei cittadini e delle istituzioni sul modo
di gestione delle “cosa pubblica” attraverso la messa in rete
dei dati più importanti e utili relativi al funzionamento delle
amministrazioni e garantendone la relativa accessibilità .
In particolare, la Commissione:
a) collabora con i paritetici organismi stranieri, con le
organizzazioni regionali ed internazionali competenti;
b) approva il Piano nazionale anticorruzione predisposto
dal Dipartimento della funzione pubblica, di cui al comma 4,
lettera c);
c) analizza le cause e i fattori della corruzione e individua
gli interventi che ne possono favorire la prevenzione e il con‑
trasto;
d) esprime pareri facoltativi agli organi dello Stato e a
tutte le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma
2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive
modificazioni, in materia di conformità di atti e comporta‑
menti dei funzionari pubblici alla legge, ai codici di compor‑
tamento e ai contratti, collettivi e individuali, regolanti il
rapporto di lavoro pubblico;
e) esprime pareri facoltativi in materia di autorizzazioni,
di cui all’articolo 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.
165, e successive modificazioni, allo svolgimento di incarichi
esterni da parte dei dirigenti amministrativi dello Stato e
degli enti pubblici nazionali;
3 Tale specifica previsione si pone sul piano più generale dell’adeguamento della
nostra normativa agli obblighi che il nostro paese ha assunto sul piano inter‑
nazionale obblighi che vincolano il nostro legislatore ai sensi dell’art. 117
comma 1 Cost. Il riferimento è alla Convenzione ONU contro la corruzione
del 31 ottobre 2003 (c.d. Convenzione di Merida) ratificata dal nostro paese
in forza della legge 3 agosto 2009 n. 116, ed alla Convenzione penale sulla
corruzione del Consiglio d’Europa del 27 gennaio 1999 (Convenzione di Stra‑
sburgo) ratificata dal nostro paese in forza della legge 28 giugno 2012 n. 110.
Gazzetta
F O R E N S E
f) esercita la vigilanza e il controllo sull’effettiva applica‑
zione e sull’efficacia delle misure e dei piani anticorruzione
adottate dalle pubbliche amministrazioni ai sensi dei commi
4 e 5 dell’articolo1 Legge Anticorruzione sul rispetto delle
regole sulla trasparenza dell’attività amministrativa previste
dai commi da 15 a 36 dell’articolo1 Legge Anticorruzione e
dalle altre disposizioni vigenti. In particolare al comma 3 del
medesimo articolo 1si specifica che per l’esercizio di queste
funzioni la Commissione esercita poteri ispettivi mediante
richiesta di notizie, informazioni, atti e documenti alle pub‑
bliche amministrazioni, e ordina l’adozione di atti o provve‑
dimenti richiesti dai piani anticorruzione e dalle regole sulla
trasparenza dell’attività amministrativa previste dai commi
da 15 a 36 del medesimo articolo e dalle altre disposizioni
vigenti, ovvero la rimozione di comportamenti o atti contra‑
stanti con i piani e le regole sulla trasparenza citati.
La Commissione e le amministrazioni interessate danno
notizia, nei rispettivi siti web istituzionali, dei provvedimenti
adottati ai sensi del presente comma.
g) riferisce al Parlamento, presentando una relazione entro
il 31 dicembre di ciascun anno, sull’attività di contrasto della
corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione e
sull’efficacia delle disposizioni vigenti in materia.
Inoltre la legge risponde alla più ampia necessità di ga‑
rantire un’azione coordinata e netta nella lotta alla corruzio‑
ne che coinvolga tutto l’apparato centrale dello Stato: a tal
fine si pone accanto alla Commissione un ulteriore soggetto
pubblico con competenze nella lotta alla corruzione, il Dipar‑
timento della Funzione Pubblica cui i commi 4 e 5 dell’arti‑
colo 1 Legge Anticorruzione affidano ulteriori e rilevanti
prerogative.
In particolare il Dipartimento della Funzione Pubblica :
a) coordina l’attuazione delle strategie di prevenzione e
contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica am‑
ministrazione elaborate a livello nazionale e internazionale;
b) promuove e definisce norme e metodologie comuni per
la prevenzione della corruzione, coerenti con gli indirizzi, i
programmi e i progetti internazionali;
c) predispone il Piano nazionale anticorruzione, anche al
fine di assicurare l’attuazione coordinata delle misure di cui
alla lettera a);
d) definisce modelli standard delle informazioni e dei
dati occorrenti per il conseguimento degli obiettivi previsti
dalla presente legge, secondo modalità che consentano la loro
gestione ed analisi informatizzata;
e) definisce criteri per assicurare la rotazione dei dirigenti
nei settori particolarmente esposti alla corruzione e misure
per evitare sovrapposizioni di funzioni e cumuli di incarichi
nominativi in capo ai dirigenti pubblici, anche esterni.
2. Il Responsabile della prevenzione della corruzione
Figura peculiare delineata dal legislatore della riforma al
comma 7 dell’art. 1 Legge Anticorruzione è il responsabile
della prevenzione della corruzione, individuato dall’organo di
indirizzo politico, possibilmente tra i dirigenti amministrati‑
vi di ruolo di prima fascia in servizio e la cui ratio è eviden‑
temente data dalla necessità di individuare all’interno delle
amministrazioni stesse i primari referenti anticorruzione.
Negli enti locali, il responsabile della prevenzione della
corruzione è individuato, di norma, nel segretario, salva di‑
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
versa e motivata determinazione: ai Segretari comunali e
provinciali è quindi demandato il compito di svolgere la reda‑
zione del piano per le rispettive amministrazioni locali con il
supporto delle Prefetture e tali piani andranno poi approvati
dagli organi politici di indirizzo, quale è la Giunta.
In definitiva i Segretari comunali e provinciali assumono
la responsabilità della prevenzione della corruzione.
Il comma 8 poi specifica che è compito dell’organo di in‑
dirizzo politico adottare entro il 31 gennaio di ogni anno, su
proposta del responsabile della prevenzione della corruzione
, il piano triennale di prevenzione della corruzione, curando‑
ne la trasmissione al Dipartimento della funzione pubblica.
Il legislatore inoltre specifica che l’attività di elaborazione
del piano non può essere affidata a soggetti estranei all’am‑
ministrazione, con ciò sottolineando la delicatezza e impor‑
tanza di una simile operazione che come tale va compiuta dai
soggetti facenti parte della stessa pubblica amministrazione.
Il comma in esame poi specifica che entro lo stesso termi‑
ne suddetto , il responsabile deve definire procedure appro‑
priate per selezionare e formare i dipendenti destinati ad
operare in settori particolarmente esposti alla corruzione.
Inoltre è di fondamentale importanza la previsione secon‑
do cui la mancata predisposizione del piano e la mancata
adozione delle procedure per la selezione e la formazione dei
dipendenti costituiscono elementi di valutazione della respon‑
sabilità dirigenziale. Quest’ultima attiene sia all’aspetto eco‑
nomico sia all’aspetto disciplinare.
Più in generale il responsabile del procedimento, oltre ai
rilevanti compiti su menzionati, provvede ai sensi del comma
10 dell’ articolo 1 Legge Anticorruzione anche:
a) alla verifica dell’efficace attuazione del piano e della sua
idoneità, nonché a proporre la modifica dello stesso quando
sono accertate significative violazioni delle prescrizioni ovve‑
ro quando intervengono mutamenti nell’organizzazione o
nell’attività dell’amministrazione;
b) alla verifica, d’intesa con il dirigente competente, dell’ef‑
fettiva rotazione degli incarichi negli uffici preposti allo
svolgimento delle attività nel cui ambito è più elevato il rischio
che siano commessi reati di corruzione;
c) ad individuare il personale da inserire nei programmi
di formazione sull’etica e sulla legalità tenuti dalla Scuola
Superiore della Pubblica Amministrazione.
Infine al comma 14 dell’articolo1 Legge Anticorruzione si
specifica che entro il 15 dicembre di ogni anno, il dirigente
responsabile della prevenzione della corruzione pubblica nel
sito web dell’amministrazione una relazione recante i risulta‑
ti dell’attività svolta e la trasmette all’organo di indirizzo
politico dell’amministrazione. Nei casi in cui l’organo di in‑
dirizzo politico lo richieda o qualora il dirigente responsabile
lo ritenga opportuno, quest’ultimo procederà a riferire circa
l’attività posta in essere per la prevenzione alla corruzione.
Il punto centrale della disciplina è senz’altro costituito
dalla puntuale definizione della responsabilità disciplinare e
giudiziale del responsabile della prevenzione della corruzione.
Al riguardo, di rilievo notevole risulta essere la previsione
fortemente afflittiva e deterrente di cui all’articolo 1 comma
12 della Legge Anticorruzione: quest’ultima prevede che,
qualora sia accertato con sentenza passata in giudicato la
commissione di un reato di corruzione all’interno dell’ammi‑
nistrazione, il responsabile della prevenzione della corruzione
2 0 1 3
99
sarà chiamato a rispondere sia ai sensi dell’articolo 21 del
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 rubricato respon‑
sabilità dirigenziale, sia sul piano disciplinare, nonché per il
danno erariale e all’immagine della pubblica amministrazio‑
ne, salvo che provi tutte le seguenti circostanze:
a) di avere predisposto, prima della commissione del fatto,
il piano di prevenzione della corruzione nell’osservanza dei
requisiti minimi richiesti dalla Legge Anticorruzione e di aver
provveduto alla verifica dell’efficace attuazione del piano e
della sua idoneità, nonché a proporre la modifica dello stesso
quando sono accertate significative violazioni delle prescri‑
zioni ovvero quando intervengono mutamenti nell’organizza‑
zione o nell’attività dell’amministrazione; alla verifica, d’in‑
tesa con il dirigente competente, dell’effettiva rotazione degli
incarichi negli uffici preposti allo svolgimento delle attività
nel cui ambito è più elevato il rischio che siano commessi re‑
ati di corruzione; ad individuare il personale da inserire nei
programmi di formazione sull’etica e sulla legalità tenuti
dalla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione.
b) di aver vigilato sul funzionamento e sull’osservanza del
piano.
In particolare occorre distinguere, ai fini in esame, la re‑
sponsabilità disciplinare dalla responsabilità innanzi la Cor‑
te dei Conti cui il responsabile della prevenzione della corru‑
zione è chiamato a rispondere.
Infatti, in quest’ultimo caso se da un lato l’amministrazio‑
ne danneggiata deve procedere alla segnalazione dei fatti
dannosi alla competente Procura della Corte dei Conti, dall’al‑
tro la titolarità dell’azione di responsabilità spetterà sempre
ed unicamente al Pubblico Ministero contabile, il quale pro‑
cederà all’esercizio dell’ azione suddetta solo qualora ritenga
che ve ne siano i presupposti.
Alla luce di quanto sopra esposto, si vede come da un lato
il giudice non potrà procedere d’ufficio e dall’altro l’ammini‑
strazione, non essendo titolare dell’azione di responsabilità
amministrativa, non potrà sostituirsi al P.M. nell’attivazione
del giudizio nei confronti dei presunti responsabili e quindi
qualora il P.M. decida di non procedere il processo non avrà
inizio. L’azione andrà proposta nel termine di prescrizione di
cinque anni che decorrono dalla data in cui il fatto dannoso
si è verificato o dalla data della sua scoperta qualora ricorra
l’ipotesi di occultamento doloso del danno .
Diversa è l’ipotesi della responsabilità disciplinare cui è
esposto il responsabile della prevenzione della corruzione:
infatti, spetta alla sola amministrazione la decisione di atti‑
varsi e di concludere autonomamente il relativo procedimento
disciplinare. In particolare il comma 13 dell’articolo 1 Legge
Anticorruzione prevede che la sanzione disciplinare non può
essere inferiore alla sospensione dal servizio con privazione
della retribuzione da un minimo di un mese ad un massimo
di sei mesi.
Inoltre il successivo comma 14 prevede che in caso di ri‑
petute violazioni delle misure di prevenzione previste dal
piano, il responsabile della prevenzione della corruzione ri‑
sponde ai sensi dell’articolo 21 del decreto legislativo 30
marzo 2001, n. 165, cioè a titolo di responsabilità dirigenzia‑
le oltre che per omesso controllo, sul piano disciplinare. La
violazione, da parte dei dipendenti dell’amministrazione,
delle misure di prevenzione previste dal piano costituisce ille‑
cito disciplinare.
amministrativo
Gazzetta
100
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
Il decreto legislativo27 ottobre 2009, n. 150 ha riconosciu‑
to in capo ai dirigenti pubblici un’ampia autonomia gestiona‑
le ed organizzativa cui si ricollega una conseguente integrale
responsabilizzazione degli stessi per i risultati conseguiti e per
la realizzazione dei programmi e progetti loro affidati. Infat‑
ti, in caso di risultati negativi, si avranno delle immediate
conseguenze sul piano retributivo e sullo stesso rapporto di
lavoro complessivamente inteso. Più precisamente il dirigen‑
te potrà subire, il mancato rinnovo del contratto, il recesso
dal rapporto di lavoro da parte dell’amministrazione e la
decurtazione della retribuzione.
Anche i semplici dipendenti dell’amministrazione saranno
tenuti al rispetto delle misure di prevenzione previste dal
piano e l’inosservanza delle stesse costituisce fonte di illecito
disciplinare.
In quest’ultimo caso tuttavia non sono previste tipologie
specifiche o sanzioni disciplinari minime, potendo, quindi,
l’amministrazione operare con la più ampia discrezionalità,
prevedendo all’occorrenza anche un mero rimprovero orale o
un semplice richiamo scritto all’assolvimento degli obblighi
di legge.
3. Il Piano Nazionale Anticorruzione ed i piani triennali di prevenzione della corruzione
Portata centrale, nella struttura assiologica della nuova
Legge, assumono i piani anticorruzione, nel duplice ambito
ivi individuato: la legge n. 190 del 2012 prevede due livelli di
piani di prevenzione della corruzione: il Piano nazionale an‑
ticorruzione, P.N.A., previsto all’articolo 1, ai commi 2, let‑
tera b) e 4, lettera c); i piani triennali di prevenzione della
corruzione, approvati da tutte le amministrazioni pubbliche
(commi 5, 9 e 60)4
4 La legge n. 190 individua le amministrazioni tenute alla definizione del piano
triennale. Queste sono, da un lato, le «amministrazioni centrali» (comma 5);
dall’alto, le amministrazioni «delle regioni e delle province autonome di Trento
e Bolzano e degli enti locali, nonché degli enti pubblici e dei soggetti di diritto
privato sottoposti al loro controllo» (comma 60, lettera b). Le amministrazio‑
ni regionali e locali e gli enti in loro controllo definiscono i loro piani triennali
secondo adempimenti «con l’indicazione dei relativi termini» stabiliti attraver‑
so intese in sede di Conferenza unificata, entro 120 giorni dalla data di entrata
in vigore della legge. Per gli enti locali è anche previsto il «supporto tecnico e
informativo» del Prefetto «anche al fine di assicurare che i piani siano formu‑
lati e adottati nel rispetto delle linee guida contenute nel piano nazionale ap‑
provato dalla Commissione» (comma 6). Sempre nell’ottica della predisposi‑
zione del piano di prevenzione della corruzione, il comma 9 dell’articolo 1
Legge Anticorruzione, riconosce un ruolo di grande rilievo al prefetto. Infatti,
quest’ultimo è tenuto a fornire su richiesta il necessario supporto tecnico e in‑
formativo agli enti locali, anche al fine di assicurare che i piani siano formula‑
ti e adottati nel rispetto delle linee guida contenute nel Piano nazionale appro‑
vato dalla Commissione. La valorizzazione delle Prefetture deriva dalla consa‑
pevolezza del ruolo strategico che le stesse possono svolgere data la vicinanza
al sistema delle autonomie locali. I Prefetti in quanto titolari in proprio delle
funzioni di coordinamento degli uffici periferici delle amministrazioni statali,
sono chiamati a fornire un supporto tecnico e informativo alle Amministra‑
zioni locali in sede di elaborazione dei piani di prevenzione della corruzione e
a vigilare che gli stessi siano adottati e formulati nel rispetto delle direttrici del
Piano nazionale anticorruzione In particolare la Commissione, nel Rapporto
del 22 ottobre 2012 sulla “Corruzione in Italia. Per una politica di prevenzio‑
ne” sottolinea l’importanza che assume il Piano di prevenzione della corruzio‑
ne nella vita politico- amministrativa dell’ente stesso ed a tal fine afferma che
“va valutata la possibilità di prevedere l’attuabilità di poteri sostitutivi ovvero
che la stessa mancata adozione sia equiparata alla mancata adozione di altri
atti amministrativi di fondamentale importanza ,come il bilancio annuale, con
conseguente estensione – per l’ipotesi di reiterato inadempimento- del mecca‑
nismo contemplato dall’art. 141, lett. c), del Testo unico degli enti locali”.
Dalle indicazioni, pur non perfettamente coordinate, della legge n. 190 si deve
ricavare che sono tenute alla definizione dei piani tutte le amministrazioni
Gazzetta
F O R E N S E
Anche da questo punto di vista il contesto internazionale
aveva più volte sollecitato l’Italia ad adottare tale misura
specifiche per la prevenzione ed il contrasto della corruzione;
il Piano Nazionale Anticorruzione si pone, infatti, quale spe‑
cifica attuazione degli obblighi internazionali assunti dal
nostro Paese con la Convenzione ONU contro la corruzione
del 2003, ratificata con la legge 3 agosto 2009, n. 116. Più
precisamente nella Convenzione si afferma la necessità per i
paesi aderenti di prevedere delle buone pratiche di prevenzio‑
ne della corruzione5.
Inoltre anche il GRECO (Gruppo di Stati contro la corru‑
zione ), quale organismo costituito nell’ambito del Consiglio
d’Europa di cui l’Italia fa parte dal 2007, aveva più volte
sollecitato il nostro Paese ad adottare un Piano nazionale per
la prevenzione ed il contrasto della corruzione e riferire in
merito innanzi allo stesso Consiglio d’Europa. Inoltre nel
quadro europeo la maggior parte degli stati già da tempo
hanno adottato piani e strategie anticorruzione sulla base
della suddetta Convenzione ONU.
La legge anticorruzione specifica che il Piano Nazionale
Anticorruzione va redatto, sulla base dei piani di azione di
prevenzione della corruzione delle singole amministrazioni
centrali, ad opera del Dipartimento della Funzione Pubblica
che poi procederà a trasmetterlo alla Commissione per la
definitiva approvazione.
Alla luce di quanto suddetto il comma 5 precisa che le
pubbliche amministrazioni centrali definiscono e trasmettono
al Dipartimento della funzione pubblica:
a) un piano di prevenzione della corruzione che fornisce
una valutazione del diverso livello di esposizione degli uffici
al rischio di corruzione e indica gli interventi organizzativi
volti a prevenire il medesimo rischio;
b) procedure appropriate per selezionare e formare, in
collaborazione con la Scuola superiore della pubblica ammi‑
nistrazione, i dipendenti chiamati ad operare in settori parti‑
colarmente esposti alla corruzione, prevedendo, negli stessi
settori, la rotazione di dirigenti e funzionari. Il comma 9
dell’articolo 1 Legge Anticorruzione specifica il contenuto
minimo dei piani di prevenzione precisando a tal fine che :
Il piano di cui al comma 5 risponde alle seguenti esigen‑
ze:
pubbliche di cui all’ articolo 1, comma 2, del d. lgs. n. 165 del 2001.
Tra le amministrazioni rientrano, quindi, da un lato gli enti pubblici costituiti e
vigilati dalle amministrazioni a livello centrale, regionale e locale e i soggetti
privati in controllo pubblico (società di capitali, fondazioni associazioni) da
parte della amministrazioni ai diversi livelli di governo. Che il piano debba
essere adottato da tutti gli enti di diritto privato in controllo pubblico si ricava
in primo luogo dalla esplicita previsione contenuta con riferimento a tali sog‑
getti controllati da amministrazioni regionali e locali, dall’altro dalla costante
estensione della nozione di amministrazioni pubbliche a tali soggetti anche per
altri contenuti fondamentali della legge anticorruzione, dalla disciplina in ma‑
teria di trasparenza a quella in materia di inconferibilità e incompatibilità di
incarichi dirigenziali (si vedano al proposito i relativi decreti legislativi).
5 L’art. 15 della Convenzione ONU contro la corruzione del 31 ottobre 2003
(c.d. Convenzione di Merida) – ratificata dall’Italia con la legge 3 agosto 2009,
n. 116 e quindi già oggi vincolante per il nostro legislatore – impone l’incrimi‑
nazione del fatto di “promettere, offrire o concedere a un pubblico ufficiale,
direttamente od indirettamente, un indebito vantaggio, per se stesso o per
un’altra persona o entità, affinché compia o si astenga dal compiere un atto
nell’esercizio delle sue funzioni ufficiali” (lett. a), nonché il fatto del pubblico
ufficiale consistente nel “sollecitare o accettare, direttamente od indirettamen‑
te, un indebito vantaggio, per se stesso o per un’altra persona o entità, affinché
compia o si astenga dal compiere un atto nell’esercizio delle sue funzioni uffi‑
ciali” (lett. b).
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
a) individuare le attività, nell’ambito delle quali è più
elevato il rischio di corruzione, anche raccogliendo le propo‑
ste dei dirigenti, elaborate nell’esercizio delle competenze
previste dall’articolo 16, comma 1, lettera a-bis), del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165;
b) prevedere, per le attività individuate ai sensi della lette‑
ra a), meccanismi di formazione, attuazione e controllo delle
decisioni idonei a prevenire il rischio di corruzione;
c) prevedere, con particolare riguardo alle attività individua‑
te ai sensi della lettera a), obblighi di informazione nei confron‑
ti del responsabile, individuato ai sensi del comma 7, chiamato
a vigilare sul funzionamento e sull’osservanza del piano;
d) monitorare il rispetto dei termini, previsti dalla legge o
dai regolamenti, per la conclusione dei procedimenti;
e) monitorare i rapporti tra l’amministrazione e i soggetti
che con la stessa stipulano contratti o che sono interessati a
procedimenti di autorizzazione, concessione o erogazione di
vantaggi economici di qualunque genere, anche verificando
eventuali relazioni di parentela o affinità sussistenti tra i tito‑
lari, gli amministratori, i soci e i dipendenti degli stessi sog‑
getti e i dirigenti e i dipendenti dell’amministrazione;
f) individuare specifici obblighi di trasparenza ulteriori
rispetto a quelli previsti da disposizioni di legge.
Conseguenzialmente, quanto agli obiettivi che esso mira
a conseguire, il Piano di prevenzione della corruzione rappre‑
senta uno strumento attraverso il quale l’amministrazione
sistematizza e descrive un “processo”- articolato in fasi tra
loro collegate concettualmente e temporalmente- che è fina‑
lizzato a formulare una strategia di prevenzione e di contrasto
del fenomeno.
In esso si delinea un programma di attività derivante da
una preliminare fase di analisi che in sintesi consiste nell’esa‑
minare l’organizzazione, le sue regole e le sue prassi di fun‑
zionamento in termini di “possibile esposizione” al fenomeno
corruttivo. Ciò deve avvenire ricostruendo il sistema dei pro‑
cessi organizzativi con particolare attenzione alla struttura
dei controlli ed alle aree sensibili nel cui ambito possono,
anche solo in via teorica, verificarsi episodi di corruzione o
ad essa assimilabili.
Attraverso la predisposizione del Piano, in sostanza, l’Am‑
ministrazione è tenuta ad attivare azioni ponderate e coeren‑
ti tra loro capaci di ridurre significativamente il rischio di
comportamenti corrotti. Ciò implica necessariamente una
“misura” probabilistica di tale rischiosità e l’adozione di un
sistema di gestione del rischio medesimo.
Sul piano concretamente operativo e contenutistico, la
struttura dei piani viene a delinearsi lungo una duplice, pa‑
rallela previsione precettiva:
da un lato, l’individuazione delle attività nell’ambito del‑
le quali è più elevato (comma 5 lett. a) il rischio di corruzione
(cc.dd. “aree di rischio”). Al riguardo, la previsione si traduce
nella identificare delle stesse, delle loro caratteristiche, delle
azioni e degli strumenti per prevenire il rischio, dando indi‑
cazioni in merito agli obblighi di trasparenza e di informazio‑
ne nei confronti del responsabile6.
6 Sul punto si è notato come il grado di rischio di corruzione è sicuramente col‑
legato a diverse variabili, tra le quali a titolo di esempio: le dimensione dell’Am‑
ministrazione, le caratteristiche socio-economiche del territorio, la tipologia di
2 0 1 3
101
dall’altro lato, vengono in rilievo le misure e gli strumen‑
ti di prevenzione, procedendo, per ciascuna area di rischio,
alla loro identificazione, all’indicazione delle modalità e dei
tempi della loro attuazione, nonché dei vari soggetti interni
che sono responsabili dell’attuazione di ciascuna misura7.
In via esemplificativa e mutuando dall’esperienza matu‑
rata nell’ambito del Nucleo Tecnico Scientifico del Progetto
Interventi mirati al contrasto della corruzione nella Pubblica
Amministrazione Locale e Centrale, quanto all’area di rischio
costituita dalla pianificazione territoriale ed attività edilizia,
da un lato si potrebbe procedere, in primo luogo, ad operare
a) la descrizione generale dell’area di rischio
Le tradizionali definizioni di “urbanistica” (pianificazio‑
ne volta all’individuazione dei suoli destinati all’edificazione
ed alla precisazione delle opere di urbanizzazione primaria e
secondaria) e di “edilizia” (realizzazione degli obiettivi co‑
struttivi di interesse privato secondo gli strumenti urbanisti‑
attività presidiate, la tipologia dei soggetti esterni con i quali l’Amministrazione
entra in relazione, la complessità delle procedure e dell’articolazione organiz‑
zativa.
Tuttavia, l’esperienza internazionale e nazionale mostrano che vi sono delle aree
di rischio ricorrenti rispetto alle quali potenzialmente tutte le pubbliche ammi‑
nistrazioni sono esposte. Tali aree devono essere analizzate ed indicate nel
Piano da parte di tutte le Amministrazioni, seguendo la struttura riportata
nelle relative Linee Guida; qui le aree di rischio sono raggruppate in quattro
macro-categorie (personale, esternalizzazioni e rapporti con soggetti privati,
rapporti con cittadini e imprese, area finanziaria), con la precisazione che cia‑
scuna delle quattro macro-categorie raggruppa delle aree ad elevato rischio di
corruzione, rispetto alle quali sono delineate la descrizione generale, l’elenco
esemplificativo dei rischi specifici, l’elenco degli strumenti di prevenzione che
ogni Amministrazione deve garantire per prevenire il rischio.
7 Gli strumenti in questione per lo più richiamano misure ordinamentali già
previsti nella normativa, compresa la stessa L. 190/2012, che ne individua
puntualmente una serie (si veda ad es. quanto previsto dai commi 17, 28, 32).
Correttamente si è rilevato come la strategia anticorruzione di per sé ruota in‑
torno ad alcuni cardini fondamentali: integrità dell’azione amministrativa, buon
andamento, etica. Tutti questi principi sono già ampiamente presenti nell’ordi‑
namento e trovano un riscontro in strumenti che già da tempo sono stati o
dovrebbero essere stati adottati dalle amministrazioni pubbliche. Di qui la
conclusione, nelle richiamate Linee Guida, per cui, nell’affrontare un’adeguata
strategia di prevenzione della corruzione, innanzitutto occorre giungere al
perfezionamento di tutti quegli strumenti che orientano l’azione dell’ammini‑
strazione pubblica verso quei principi (si pensi esemplificativamente agli stru‑
mentari in tema di trasparenza, di controllo dei risultati, di procedimenti am‑
ministrativi, di regole e norme nella gestione degli affidamenti all’esterno,
nonché nella selezione del personale e della sua valorizzazione).
Da questo punto di vista vengono identificate alcune categorie di strumenti
ricorrenti, i quali possono rispondere adeguatamente ad una strategia di pre‑
venzione alla corruzione per la maggior parte dei rischi potenziali cui un ente
pubblico può essere esposto (atti organizzativi interni, quali ad esempio i rego‑
lamenti, mediante i quali individuare le regole, i criteri, i confini entro i quali si
esplica l’autonomia decisionale dell’Ente e del soggetto titolare dell’esercizio
della funzione; procedure di controllo interno, eventualmente sostenute da
adeguati sistemi informativi, protetti da potenziali manomissioni, e in grado di
garantire la tracciabilità di chi ha compiuto l’irregolarità, mirate a controllare
i tempi dei procedimenti, i risultati, i costi di produzione, la presenza di irrego‑
larità; queste procedure devono essere; azione di trasparenza, quali pubblica‑
zione sui siti web, procedure di evidenza pubblica, individuazione dei procedi‑
menti, dei loro termini e responsabili; sistemi di segnalazione dei casi di irrego‑
larità, che garantiscano ai dipendenti la certezza di non subire ritorsioni o pe‑
nalizzazioni di sorta, nei casi di segnalazione non manifestamente infondata;
codici di comportamento, nell’ambito dei quali esplicitare norme di comporta‑
mento specifiche per ogni fase dei procedimenti, definendo un dettagliato siste‑
ma di sanzioni con riferimento specifico ai casi di condotta non conforme a
quanto stabilito, nonché i soggetti responsabili di attivare il procedimento di‑
sciplinare e i tempi di conclusione dello stesso; percorsi di formazione specifica
dei funzionari pubblici in materia di anticorruzione (analisi del rischio, stru‑
menti di prevenzione), trasparenza, etica, integrità, rivolti in particolare, ma
non solo, ai responsabili delle aree a maggiore esposizione al rischio di corru‑
zione.
amministrativo
Gazzetta
102
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
ci precostituiti), nonché la loro “saldatura” attraverso il rila‑
scio di un provvedimento amministrativo ampliativo per
l’esercizio dello jus aedificandi, rendono evidente l’elevato
rischio corruttivo che tali settori presentano.
Poiché controllare la pianificazione e consentire l’edifica‑
zione significa controllare il valore della terra non è sorpren‑
dente che l’uso, a livello amministrativo, della stessa attra‑
verso atti normativi (i.e. regolamenti edilizi), atti amministra‑
tivi generali (strumenti urbanistici di vario livello) e provve‑
dimenti amministrativi (permessi, licenze, autorizzazioni)
appaiano generatori di considerevoli opportunità di corru‑
zione politica ed amministrativa: in altri termini, quando un
diritto di proprietà è nella decisiva disponibilità dell’ente
pubblico (e, più in generale, quando un’attività a rilevanza
economica risulta conformata dalla previa decisione ammi‑
nistrativa: si pensi all’attiguo settore del commercio con ri‑
guardo all’apertura di centri commerciali o anche di struttu‑
re di media vendita; nonché al più lato ambito delle conces‑
sioni amministrative nei settori del demanio, dei servizi
pubblici, ecc.), il rischio di corruzione cresce, essendo gene‑
ralmente riconosciuto che i pericoli di abuso aumentano ogni
volta che un determinato assetto ordinamentale (sia a livello
di normativa che di applicazione amministrativa) impedisce
transazioni volontarie e quindi crea le condizioni di fondo
per la crescita di mercati illegali.
La pianificazione dell’uso del territorio e le modalità di
esercizio dell’attività costruttiva, che sono i due livelli deci‑
sionali attraverso cui viene allocato e conformato lo jus ae‑
dificandi, costituiscono di conseguenza un settore ad alto
rischio di corruzione, atteso che la grande dimensione degli
interessi economici che l’edilizia muove in ogni luogo crea
una forte pressione.
Ancoro di recente sia la letteratura in materia, anche in
chiave comparativista, che i contributi statistico-ricostrutti‑
vi del fenomeno in questione evidenziano, da un lato, come
i proprietari di terra (soprattutto di grande estensione, ma
anche di singoli lotti) così come gli operatori edilizi più in
generale (agenti e agenzie di sviluppo) scoprono che la loro
terra, lottizzata per permettere edilizia residenziale ad alta
densità, vale molto di più che se fosse stata lottizzata per
sviluppo industriale o abitativo a bassa intensità., di tal che
la pianificazione e la conformazione dello jus aedificandi
vengono ad essere soggetti ad enormi pressioni da parte dei
funzionari pubblici, proprietari di terra e sviluppatori e che
si verifichino frequenti casi di corruzione. Dall’altro, pongo‑
no in rilievo il rilevantissimo problema della cd. “corruzione
ambientale”, atteso che, sempre più spesso, attività illegali
come il traffico illecito di rifiuti o l’abusivismo edilizio, ma‑
gari “rivestito” con il rilascio di concessioni illegittime, sono
accompagnate da un sistematico ricorso alla corruzione di
amministratori pubblici e rappresentanti politici, funzionari
incaricati di rilasciare autorizzazioni o di effettuare control‑
li: le inchieste analizzate hanno riguardato il ciclo illegale dei
rifiuti (dai traffici illeciti agli appalti per la raccolta e la ge‑
stione dei rifiuti fino alle bonifiche); il ciclo illegale del ce‑
mento (dall’urbanistica alle lottizzazioni, dalle licenze edilizie
agli appalti pubblici); le autorizzazioni e la realizzazione di
impianti eolici e fotovoltaici; le inchieste sulle grandi opere,
le emergenze ambientali e gli interventi di ricostruzione.
A conferma dell’importanza del settore nel contesto del‑
Gazzetta
F O R E N S E
le reti di corruzione viene un dato della situazione italiana,
laddove si è censito, anche attraverso l’esame della relativa
casistica giurisprudenziale, che l’insieme delle procedure che
riguardano l’uso del territorio - licenze edilizie, piani regola‑
tori, varianti di destinazione - copre oltre un sesto del nume‑
ro totale dei casi di corruzione registrati, così collocandosi al
secondo posto dietro solo gli appalti pubblici.
b) quindi delineare i rischi specifici dell’area in questione:
In termini generali vengono in rilievo fenomeni di impro‑
prio utilizzo, anche per effetto di un abuso quali-quantitati‑
vo delle stesse, di forme alternative e derogatorie rispetto
alle ordinarie modalità di esercizio del potere pianificatorio
o di autorizzazione all’attività edificatoria, quali, a titolo
esemplificativo,:
- adozione di varianti al piano o strumento urbanistico
con adeguamento delle previsioni volumetriche e le possibi‑
lità edificatorie cui conseguano plusvalenze garantite dalla
semplice concessione di edificabilità, a prescindere dalla ef‑
fettiva edificazione;
- procedure anomale (quanto a passaggi procedimentali:
i.e omissione e pretermissione di apporti consultivi) o acce‑
lerate (quanto a “modalità semplificate” o ricorso a modelli
“provvedimenti amministrativi impliciti”) di approvazione
di piani di governo del territorio o strumento equivalente,
con riferimento alle quali possono essere stati conclusi, per
il tramite di alcuni professionisti, accordi corruttivi tra espo‑
nenti politici, funzionari amministrativi e diversi imprendi‑
tori per ottenere il mutamento della destinazione urbanistica
delle aree di proprio interesse;
- rilascio di sanatorie, accertamento di conformità e
permessi, anche in variante, a costruire illegittimi, con par‑
ticolare riguardo al riutilizzo a fini abitativi o di grande di‑
stribuzione o alberghieri di edifici, talora a seguito di proces‑
si di dismissione o riqualificazione;
- eccessiva frequenza e distorto utilizzo del ricorso al
permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici:
trattasi di istituto di carattere eccezionale giustificato dalla
necessità di soddisfare esigenze straordinarie rispetto agli
interessi primati garantiti dalla disciplina urbanistica gene‑
rale e, in quanto tale, applicabile esclusivamente entro i limi‑
ti tassativamente previsti dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 14,
e mediante la specifica procedura (Cassazione penale, sez.
III, 31/03/2011, n. 16591, anche sul prevalente indirizzo per
cui per tale sua particolare natura si tende ad escludere che
possa essere rilasciato “in sanatoria” dopo l’esecuzione delle
opere.);
- assenso di lottizzazioni attraverso irregolari atti dell’en‑
te e indebite «sponsorizzazioni», grazie anche a legami di
amicizia o parentela con politici e amministratori;
- adozione di atti e provvedimenti atipici o sui generis,
quali rilascio di un permesso di costruire in sanatoria con
effetti temporanei o relativo soltanto a parte degli interventi
abusivi realizzati od. ancora, subordinato all’esecuzione di
opere (cfr. in tema Cassazione penale, sez. III, 27/04/2011,
n. 19587 con riguardo al rilascio un titolo abilitativo in sa‑
natoria con “validità di mesi sei dalla data del rilascio”,
prevedendosi, alla scadenza, la necessità di una richiesta di
rinnovo);
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
- approvazione di progetti edilizi, da realizzarsi su terre‑
ni sottoposti a vincolo paesaggistico-ambientale, in cui, per
rendere più celere e sicuro l’iter di approvazione del piano
urbanistico, si ammorbidiscono i controlli (in primis degli
organi tecnici con competenza paesaggistica) per evitare in‑
toppi per ottenere il necessario nulla osta paesaggistico;
- anomale velocizzazioni per il rilascio dei titoli abilita‑
tivi (sia ordinari che a sanatoria) o altre certificazioni (i.e.
agibilità) anche per fare in modo di sistemare, con documen‑
ti falsificati, le pratiche di condono edilizio;
- gestione molto disinvolta degli iter amministrativi da
parte dell’apparato amministrativo-politico (alterazione di
protocolli, retrodatazione di atti amministrativi, produzione
di false attestazioni di collaudo);
- mancato seguito alle ordinanze di demolizione (accer‑
tamento di inottemperanza, esecuzione in danno, acquisizio‑
ne al patrimonio dell’ente) ed improprio utilizzo della revoca
delle stesse (ammessa solo quando risulti assolutamente in‑
compatibile con atti amministrativi della competente autori‑
tà, intervenuti successivamente all’irrevocabilità della sen‑
tenza di condanna, che abbiano conferito all’immobile altra
destinazione ovvero abbiano provveduto alla sua sanatoria,
dovendo deve sussistere una incompatibilità insanabile e non
meramente futura o eventuale con i concorrenti provvedi‑
menti della p.a. che abbiano conferito all’immobile una di‑
versa destinazione o ne abbiano sanato la abusività: Cassa‑
zione penale , sez. III, 11 maggio 2005, n. 37120);
- omessa vigilanza su situazioni de-provvedimentalizza‑
te (dia, superdia, D.I.A. in sanatoria, ecc; cfr. (Cassazione
penale, sez. III, 29/09/2011, n. 41425 con riguardo ad una
fattispecie relativa alla realizzazione di un muro di conteni‑
mento) con specifico riguardo a fattispecie di incerta e non
univoca definizione (i.e. inclusione dell’attività di demolizio‑
ne e ricostruzione dell’opera con la stessa volumetria e sago‑
ma di quella preesistente nell’ambito degli interventi di ri‑
strutturazione edilizia) o dalla opinabile classificazione (i.e.
pertinenze, strutture amovibili, ecc.);
- ulteriori prassi omissive ed apparentemente meno signi‑
ficative, quali evitare di dare adeguata notizia dei cambiamen‑
ti di pianificazione o evitare di tenere pubbliche audizioni sulla
questione;
c) infine, porre in rilievo sia le misure di prevenzione che
ogni amministrazione deve garantire
- Monitorare, all’interno dei procedimenti delle varie
amministrazioni interessate, tutte le applicazioni di norme/
prassi/regolamentazioni interne che consentano deroghe/ec‑
cezioni/varianti rispetto a soluzioni ordinarie e normali.
L’intervento corruttivo tende ad annidarsi proprio in quella
zona grigia in cui non c’è piena fisiologia (qui il pactum sce‑
leris sarebbe quasi inutile) o evidente patologia (il rischio qui
è, di regola, troppo elevato): le parti del progetto criminoso
tendono cioè a dilatare la norma fino alla sua estrema elasti‑
cità, sfruttando la possibilità di interpretazioni estensivoanalogiche, forzando l’ammissibilità di varianti per eventua‑
lità straordinarie, snaturando l’opportunità di procedure
semplificate ed asistemiche.
- Implementare la soglia dei controlli (soprattutto attra‑
verso sia il rafforzamento dei controlli di gestione, finalizza‑
2 0 1 3
103
ti a valutare il rapporto costi-benefici dell’azione amministra‑
tiva; sia il perfezionamento ed il miglioramento del collega‑
mento tra il controllo interno e quello esterno), nei vari set‑
tori dell’azione amministrativa inerenti la pianificazione ur‑
banistica e la regolazione dell’attività costruttiva, il
ricorrere,da parte dei vari uffici, a siffatte deroghe ordina‑
mentali, soprattutto quando la frequenza statistica della
loro utilizzazione ne tradisce l’ordinaria natura di eccezione
al sistema
- Verificare e rafforzare il puntuale rispetto del principio
di separazione tra politica e amministrazione, in base al qua‑
le gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo
politico-amministrativo mentre ai dirigenti spetta il compi‑
mento dell’attività amministrativa, della gestione e realizza‑
zione dei risultati, per cui è impedito ai titolari degli organi
di governo, che sono espressione di una determinata volontà
politica, di ingerirsi anche nell’adozione di decisioni attuati‑
ve a valle del piano, che non comportano variante, e che pur
tuttavia vengono frequentemente percepite come se siano
sempre assunte, di fatto, dagli organi politici.
- Stimolare forme di accordi interamministrativi (art. 15,
L. 241/1990) in forza dei quali assicurare assistenza da par‑
te di altre amministrazioni qualora gli enti competenti non
siano in grado di assicurare la necessaria qualificazione pro‑
fessionale, in ragione delle dimensioni territoriali e per man‑
canza di risorse
- Individuare, anche mediante incroci di dati, eventuali
pratiche indebite e/o illecite, prevedendo obblighi di porre in
essere atti di puntuale e sindacabile stima del valore econo‑
mico dei diritti edificatori riconosciuti al privato e dell’impe‑
gno finanziario dallo stesso sostenuto in favore dell’ammini‑
strazione, nonché verificando, in caso di intervento pianifi‑
catorio od autorizzatorio in variante, l’assunzione di una
decisione obiettiva e diligente, giustificata con motivazioni
pubbliche.
c-bis) sia ulteriori misure di prevenzione
- prevedere, anche in sede regolamentare, che in caso si
realizzino situazioni di conflitto di interessi, anche qualora
non vi sia un obbligo giuridico in tal senso, si debba rendere
pubblica tale condizione e astenersi da qualsiasi atto nel
procedimento di formazione della decisione.
emanare disposizioni per regolamentare la rotazione pe‑
riodica del personale,con particolare riguardo a quello che
svolge le proprie mansioni nei settori più esposti al rischio
corruttivo, tra io quali la gestione di pratiche concernenti
interventi abitativi, l’edilizia, l’urbanistica.
- promuovere forme di partecipazione procedimentale
anche in capo a enti esponenziali di interessi diffusi e aumen‑
tare la soglia di pubblicità e trasparenza delle determinazioni
amministrative in materia (i.e. nel caso di varianti urbanistiche
prevedere la pubblicazione, sul sito del Comune, anche della
domanda dell’interessato, le risultanza, anche tecniche, della
successiva fase istruttoria, le varie delibere con i relativi appor‑
ti consultivi, le loro motivazioni anche per relationem, tutte le
norme utilizzate, le ragioni del credito bancario, ecc.).
- adottare percorsi formativi per prevenire tentativi e
fenomeni di infiltrazione corruttiva all’interno del ramo
amministrativo di propria competenza; siglare specifiche
amministrativo
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convenzioni, anche con le realtà associative anti-corruzione,
al fine di istituire delle strutture per la formazione obbliga‑
toria e continuativa del proprio personale operante nei set‑
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tori strategici quali quelli dell’urbanistica e dell’edilizia
- sviluppare strumenti di gestione dei rischi e svolgimen‑
to di percorsi di formazione in materia di principi etici
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●
La giustiziabilità
degli atti politici
ex art. 113 Cost.
● Vittorio Sabato Ambrosio
Dottore in Giurisprudenza Specializzato
in Professioni Legali
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Sommario: Premessa: la giustiziabilità degli atti amministra‑
tivi – 1. L’atto politico e le differenze con l’atto di alta ammi‑
nistrazione – 2. La natura dell’atto di revoca di un assesso‑
re – 3. L’evoluzione giurisprudenziale dell’atto politi‑
co – 4. Brevi considerazioni conclusive
Premessa: la giustiziabilità degli atti amministrativi
La portata precettiva dell’art. 113 della Costituzione è di
fondamentale importanza per il nostro sistema costituziona‑
le, in quanto mira a realizzare le garanzie che sono ricono‑
sciute al singolo cittadino di fronte all’estrinsecazione del
potere da parte della p.a. Esso prevede che “contro gli atti
della Pubblica Amministrazione è sempre ammessa la tutela
giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli
organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tu‑
tela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a parti‑
colari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di
atti.La legge determina quali organi di giurisdizione possono
annullare gli atti della Pubblica Amministrazione nei casi e
con gli effetti previsti dalla legge stessa”.
Tale norma va letta in combinato disposto con l’art. 24
della Costituzione, il quale, a sua volta, riconosce a tutti i
cittadini il diritto all’azione a tutela dei propri diritti sogget‑
tivi ed interessi legittimi. Ne consegue che il singolo ha il di‑
ritto di impugnare tutti gli atti della p.a. che incidono in
modo illegittimo nella sua sfera giuridica sostanziale. Per ef‑
fetto del combinato disposto di tali articoli si evince che tutti
gli atti amministrativi, diretti a regolare l’interesse pubblico,
sono suscettibili di impugnazione giurisdizionale davanti agli
organi di giustizia amministrativa.
Bisogna specificare che non tutti gli atti, emanati da sog‑
getti che governano i pubblici poteri, sono soggetti ad impu‑
gnativa.
Per atti amministrativi si intendono tutti quelli emanati
sulla base di una legge attributiva del potere, la quale vincola
l’amministrazione nel fine di cura dell’ interesse pubblico da
perseguire. Tale atto deve essere emanato a seguito di un
procedimento amministrativo, regolato dalla l. 241/90 e sue
successive modifiche, diretto ad inverare i principi metagiuri‑
diciai quali deve attenersi l’amministrazione onde realizzare
il buon andamento e l’imparzialità dell’azione amministrativa
ex art. 97 Cost. Il riferimento è ai parametri di efficienza,
efficacia, economicità e trasparenza e tempestività che devono
orientare l’esercizio del potere amministrativo. L’atto, che
viene adottato nel rispetto della disciplina del procedimento
amministrativo, deve contemperare tutti gli interessi, pubbli‑
ci e privati, dei quali la p.a. deve tener conto per realizzare la
cura dell’interesse pubblico.
Può considerarsi, di conseguenza, tramontata l’idea secon‑
do cui la p.a. nell’ esercizio delle proprie funzioni sia dotata
di una speciale “supremazia” nei confronti dei governati. Di
contro, si è innescato un vistoso spostamento del baricentro
in un’ottica più vicina al diritto comunitario, seguendo la
quale la p.a., nel realizzare l’interesse collettivo, deve consi‑
derare tutte le posizioni giuridiche soggettive sulle quali va ad
incidere onde non determinare sacrifici irragionevoli attraver‑
so misure attuative/provvedimentali che siano proporzionate
agli scopi da raggiungere. A tale scopo è garantita la possibi‑
lità per i privati di partecipare al procedimento amministra‑
tivo in una prospettiva di collaborazione, unitamente alla
amministrativo
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possibilità di presentare istanze o osservazioni al fine di indi‑
care all’amministrazione una soluzione che meglio contempe‑
ri la propria posizione sostanziale. Tale potere è garantito
anche all’eventuale controinteressato, il quale può ricevere
effetti pregiudizievoli dall’ adozione di un determinato atto.
Ancora, l’atto amministrativo deve essere adottato sulla
base di una istruttoria completa dell’autorità competente,
nella quale vengono ponderati tutti gli interessi in gioco.
In ultimo, l’atto amministrativo suscettibile di impugna‑
zione, deve essere adeguatamente motivato:questo permette
di verificare se la scelta della p.a. risulti coerente con l’iter
procedimentale e se gli interessi in esso contemperati siano
ragionevoli e proporzionati con il soddisfacimento dell’inte‑
resse collettivo.
Ne consegue che sono giustiziabili, ex art. 113 Cost.,
tutti gli atti della p.a. emanati in ossequio alle norme proce‑
dimentali dettate dalla legge 241 del 90. Per effetto di tale
legge si evince che il cittadino ha un potere di controllo sulla
correttezza dell’esercizio del potere amministrativo che gli
consente di impugnare gli atti che sacrificano i propri diritti
soggettivi ed interessi legittimi ex art. 24 e 113 Cost.
1. L’atto politico e le differenze con l’atto di alta amministrazione
Dagli atti impugnabili dinanzi agli organi di giustizia
amministrativa ex art. 113 Cost. vanno esclusi gli atti politi‑
ci. Tali atti sono espressamente riservati dalla Costituzione
agli organi supremi dello stato, in quanto diretti ad individua‑
re la funzione generale di indirizzo politico per la soddisfa‑
zione di esigenze unitarie ed indivisibili.
Gli atti politici si differenziano dagli atti amministrativi
per il fatto che sono liberi nell’individuare il fine da persegui‑
re, per cui sono caratterizzati da una forte discrezionalità in
quanto emanati sulla base di ragioni di opportunità politica.
L’adozione di un atto politico richiede sia un requisito sogget‑
tivo, ovverosia che l’atto venga emanato da organi costituzio‑
nalmente previsti ai quali è attribuita la funzione di indirizzo
politico(es. Presidente della Repubblica, Governo, Parlamen‑
to, Corte Costituzionale), sia un requisito oggettivo, ovverosia
il fatto che esso sia finalizzato alla vigilanza e salvaguardia
della cosa comune onde garantire il funzionamento dei pub‑
blici poteri nella loro struttura organica.
Caratteristica principale è la loro inimpugnabilità.
Dal punto di vista legislativo ciò è confermato dal com‑
ma 1 dell’ art. 7 del c.p.a., il quale dispone che “non sono
impugnabili gli atti emanati o i provvedimenti emanati dal
governo nell’esercizio del potere politico”. Dal dato normati‑
vo si evince chiaramente che, a differenza degli atti ammini‑
strativi, l’adozione degli atti politici non richiede l’attivazione
di tutte le garanzie previste per il cittadino dalla legge 241/90.
Infatti, non è richiesta la motivazione in quanto sono ampia‑
mente discrezionali nei fini da perseguire, ed escludono ob‑
blighi di comunicazione nei confronti dei terzi perché sono
dotati di generalità ed astrattezza. Da ciò deriva che gli atti
politici non ledono in maniera immediata la posizioni giuri‑
diche sostanziali vantate dai cittadini, poiché sono diretti a
regolare le Supreme funzioni di uno Stato democratico
nell’ambito, ad esempio, delle relazioni internazionali o dei
rapporti tra organi costituzionali.
Si è discusso sulla ampiezza della categoria degli atti po‑
litici da sottrarre al sindacato giurisdizionale ex art. 113 Cost.
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Sia in dottrina che in giurisprudenza è prevalsa una lettura
restrittiva, diretta a limitare la categoria degli atti politici
solo a quelli espressamente previsti dalla Costituzione, sot‑
traendoli così all’impugnativa ex art.113 al solo scopo di
evitare un’indebita interferenza del potere giudiziario nell’eser‑
cizio del potere amministrativo.
In realtà ciò che giustifica la non impugnabilità degli atti
politici è la mancanza di parametri da utilizzare per verifica‑
re la loro legittimità in sede di giurisdizione. Invero, le uniche
limitazioni cui l’atto politico soggiace sono costituitedall’os‑
servanza dei precetti costituzionali, la cui violazione può
giustificare un sindacato dilegittimità della Corte costituzio‑
nale sulle leggi e gli atti aventi forza di legge o in sede di
conflitto di attribuzione su qualsivoglia atto lesivo dicompe‑
tenze costituzionalmente garantite (si pensi, a titolo esempli‑
ficativo, alla legge e agli atti aventi forza di legge; alla nomina
dei senatori a vita e dei giudici costituzionali; agli atti di con‑
cessione di grazia e di commutazione delle pene; alle pronun‑
ce della Corte costituzionale; all’elezione del presidente della
Repubblica, dei giudici costituzionali e dei membri del
C.S.M.; alla presentazione di disegni di legge; allo scioglimen‑
to delle Camere; alla promulgazione delle leggi; alla nomina
dei ministri; alla firma dei trattati; alle mozione di fiducia e
di sfiducia delle Camere al Governo).
Tali fattispecie, afferendo ai rapporti internazionali o alle
relazioni politiche tra organi costituzionali, investono interes‑
si e funzioni prioritari della Repubblica, con la conseguenza
che un assoggettamento degli atti che li esprimono al control‑
lo giurisdizionale minerebbe alla base le stesse dinamiche
democratiche e l’operatività dei pubblici poteri.
Dall’atto politico si differenzia la categoria degli atti di
alta amministrazione che afferisce all’attività con la quale si
pongono in essere le scelte amministrative di fondo della p.a.,
caratterizzate da una discrezionalità di massima estensione (si
consideri l’atto con cui vengono nominate le supreme cariche
o i vertici di stampo non politico quale, ad esempio, il Primo
Presidente della Corte di Cassazione, le decisioni dei Comita‑
ti Interministeriali, le nomine dei più alti dirigenti o funziona‑
ri, le decisioni dei ricorsi straordinari al Capo dello Stato in
difformità del parere reso dal Consiglio di Stato). Trattasi di
atti che si collocano, in definitiva, in una posizione intermedia
tra gli atti politici, quali atti di indirizzo volti alla scelta dei
fini da perseguire, ed i provvedimenti stictosensu amministra‑
tivi, diretti all’attuazione concreta delle opzioni stabilite a li‑
vello governativo, rappresentando il primo grado di attuazio‑
ne dell’indirizzo politico nel campo amministrativo.
Ne consegue che, a differenza dell’atto politico, l’atto di
alta amministrazione esprime una potestasvincolata nel fine
e soggetta al principio di legalità. Per questa peculiare natura
è evidente che essi, rappresentando un species del più ampio
genus degli atti amministrativi, in quanto tali soggiacciono
al relativo regime giuridico, ivi compreso il sindacato giuri‑
sdizionale, sia pure con talune peculiarità connesse allanatu‑
ra spiccatamente discrezionale degli stessi.
Infatti, il controllo del giudice non è della stessa ampiezza
di quello esercitato in relazione ad un qualsiasi attoammini‑
strativo, ma si appalesa meno intenso e circoscritto alla rile‑
vazione di manifeste illogicità formali e procedurali.La stessa
motivazione assume connotati di semplicità e il sindacato del
giudice risulta complessivamente meno intensoed incisivo.
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2. La natura dell’atto di revoca di un assessore
Strettamente collegata all’impugnabilità degli atti politici
è la problematica relativa alla natura giuridica ed all’esatta
qualificazione degli atti adottati dagli organi politici degli
enti locali, nello specifico, se siano da considerarsi atti politi‑
ci o amministrativi, con particolare riferimento all’atto
di revoca dell’assessore.
Prima di tentare di sciogliere tale nodo gordiano bisogna
individuare la natura delle funzioni attribuite agli enti locali
all’interno del nostro ordinamento. Tali coordinate vanno
ricercate nell’evoluzione del sistema costituzionale a seguito
della riforma costituzionale n.3 del 2001. Per effetto di tale
riforma, si è passati da una impostazionestatocentrica alla
costituzionalizzazione di un progressivo decentramento delle
funzioni legislative ed amministrative alle regioni ed agli enti
locali che compongono la Repubblica Italiana.
Sulla base di tali linee generali, si è riconosciuta l’autono‑
mia legislativa alle regioni ex art. 117 cost. (sia pur differen‑
ziata, a seconda della materie, in potestà legislativa esclusiva
o concorrente) nonché, in omaggio al principio di sussidiarie‑
tà, la devoluzione delle funzioni amministrative agli enti lo‑
cali ex art.118 Cost.
Di maggiore importanza è stata l’introduzione del princi‑
pio di equiordinazione previsto dall’art.114, il quale prevede
che i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni
sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni se‑
condo i principi fissati dalla Costituzione.
Dalla combinazione di tali disposizioni si evince che viene
abiurata la struttura verticale di Stato accentrato, realizzan‑
dosi un organizzazione statuale orizzontale nella quale regio‑
ni, comuni, provincie e città metropolitane sono dotati di at‑
tribuzioni proprie capaci di generare una pluralità di ordina‑
menti giuridici. Questo tipo di organizzazione non determina
la nascita di uno stato anarchico, in quanto vanno considera‑
ti una serie di indici costituzionali dai quali si desume l’esigen‑
za di difendere l’unità dell’ordinamento della repubblica.
In primis, l’art. 5 della Costituzione riconosce l’unità e
l’indivisibilità della Repubblica e promuove le autonomie lo‑
cali al fine di garantire il decentramento amministrativo.
In secundis, si riconosce l’operatività del principio di sus‑
sidiarietà all’art. 118 cost., in base al quale laddove l’azione
amministrativa dell’ente locale fosse inidonea ad inverare il
soddisfacimento degli interessi della collettività, è consentito
all’ente gerarchicamente sovraordinato di intervenire onde
realizzare in modo adeguato le attività di interesse generale.
In terzo luogo, lo Stato ha comunque un posizione premi‑
nente nell’ambito dell’attuazione dei vincoli derivanti dall’or‑
dinamento comunitario e dagli obblighi internazionali ex
art.117 cost.
I principi costituzionali affermatisi a seguito della riforma
sono stati inverati dal legislatore ordinario nella disciplina
deltesto unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali
approvato con decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, che
contribuisce a delineare il sistema dei compiti funzionali at‑
tribuiti agli enti locali.
Dalla disciplina contenuta nel TUEL deriva che gli organi
degli enti locali non sono dotati di rilevanza costituzionale in
quanto titolari di funzioni amministrative, con la conseguen‑
za che l’esercizio dei poteri a loro attribuiti è vincolato nel
fine della migliore gestione dell’ente pubblico.
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107
Poste queste premesse essenziali, è chiaro desumere quale
sia la natura giuridica ed il regime dell’atto sindacale di revo‑
ca dell’assessore comunale ex. art 46 TUEL. La giurispruden‑
za amministrativa del Consiglio di Stato, 23 gennaio 2007
n. 209, ritiene tali atti suscettibili di impugnazione davanti
agli organi giurisdizionali ex art. 113 cost. In particolare, in
ossequio alla lettura restrittiva degli atti politici, tali atti si
considerano di natura amministrativa con la conseguente
applicazione del regime giuridico proprio degli atti ammini‑
strativi, in quanto gli organi degli enti locali non sono chia‑
mati ad adottare atti di indirizzo politico aventi la funzione
di salvaguardare esigenze unitarie, bensì ad attuare le funzio‑
ni amministrative di cura concreta dell’interesse pubblico che
gli sono attribuite dalla Costituzione.
Dalla disciplina legislativa si ricava che il Sindaco o Pre‑
sidente di Provincia, nell’esercizio delle loro funzioni, non
emanano atti di indirizzo politico a tutela della vigilanza
delle istituzioni edi esigenze unitarie, in quanto non sono
organi di rilevanza costituzionale, bensì pongono in essere
azioni concrete di cura dell’interesse collettivo.
Allo stesso modo anche nella nomina dei membri della
giuntaessi esercitano un potere amministrativo, giacché no‑
minano un organo di natura tecnica con competenze specifi‑
che nel settore cui è preposto. Gli organi della giunta hanno
una funzione diretta a coadiuvare l’organo politico apicale ed
hanno una competenza sussidiaria: infatti, gli sono attribuite
tutte quelle attività amministrative che non sono espressamen‑
te attribuite agli organi democraticamente eletti.
Ne deriva che l’atto di revoca di un assessore, anche se
altamente discrezionale, è vincolato nel fine, in quanto deve
essere diretto a migliorare i rapporti tra gli organi dell’ente
locale ed a potenziare il funzionamento della giunta.
Proprio come un qualsiasi atto amministrativo, l’atto
sindacale di revoca necessita di motivazione ex art. 3 l.
241/90, sia per la presentazione dell’atto al consiglio, sia per
il controllo della legittimità dell’atto che può essere fatto
dall’assessore revocato. In particolare, attraverso la motiva‑
zione il soggetto può comprendere le ragioni che sono alla
base della propria revoca e controllare la ragionevolezza
dell’iter argomentativo dell’atto che sacrifica la propria posi‑
zione giuridica sostanziale. L’ermeneutica giurisprudenziale
ha sottolineato che, quantunque questo atto abbia un elevato
tasso di discrezionalità, si deve riconoscere la possibilità al
soggetto leso di un controllo di legalità sia sui profili di forma,
sia in merito all’accertamento dell’arbitrarietà della scelta.
Per quanto riguarda la comunicazione dell’avvio del pro‑
cedimento, si ritiene che tale comunicazione non sia necessa‑
ria ai fini del perfezionamento dell’atto di revoca. Infatti,
tale prerogativa deve essere realizzata nei confronti di quel
soggetto che, in un’ottica collaborativa, apporta il proprio
contributo onde consentire alla p.a. una migliore ponderazio‑
ne degli interessi in gioco. Tale peculiarità è esclusa qualora
l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato ex art. 21 octies l. 241/90. Per le stesse
ragioni, anche per l’atto di revoca dell’assessore si ritiene non
necessaria la comunicazione dell’avvio del procedimento di
adozione dell’atto, in quanto non possono essere presentati
elementi idonei a far escludere le discrezionali ragioni della
revoca del rapporto fiduciario tra sindaco e assessore.
amministrativo
Gazzetta
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d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
Da tale sentenza in poi si è aperta una nuova stagione per
gli atti politici nella quale si è, in parte, erosa la loro tradizio‑
nale inimpugnabilità riconoscendo maggiori margini di sin‑
dacato per quegli atti che, seppur emanati da organi di gover‑
no per dare attuazione ad indirizzi politici, risultano vincola‑
ti negli scopi concreti da perseguire.
3. L’evoluzione giurisprudenziale dell’atto politico
Di recente il dibattito si è posto con grande attualità edau‑
torevolezza – specie ove si consideri che su tale questione si
sono pronunciati ilTAR Campania, il Consiglio di Stato,
nonché la Corte Costituzionale – in relazione alla clausola di
salvaguardia prevista dallo Statuto della Regione Campania,
la quale pone un vincolo alla potestà di nomina degli asses‑
sori riconosciuta al Presidente di Regione che deve essere
esercitata «nel pieno rispetto del principio di un’equilibrata
presenza di donne e uomini».
Sostanzialmente la sentenza del Consiglio di Stato n. 4502
del 27 luglio 2011, confermando in toto le statuizioni conte‑
nute nella sentenza del TAR Campania n.1985 del 7 aprile
2011, arriva alla conclusione secondo cui non può considerar‑
si politico un atto che lede o può ledere le posizioni individua‑
li, in quanto potenzialmente lesivo di posizioni individuali
rilevanti. Un atto con tale contenuto pregiudizievole, sebbene
adottato nell’esercizio di un potere politico promanante da un
organo politico, è comunque sottoposto a vincoli giuridici dal
legislatore.
Se il legislatore o la fonte che ne disciplina l’eserciziopone
vincoli giuridicamente rilevanti, non c’è dubbio che un sinda‑
cato sui quei vincoli rilevanti debba esserci. Per cui, ogniqual‑
volta c’è un limite giuridicamente vincolante all’esercizio del
potere, l’atto adottato nell’esercizio del potere non può consi‑
derarsi atto politico.
Il caso problematico riguardava la possibilità di sindacare
i decreti di nomina degli assessori che violavano ad es. i prin‑
cipi delle quote rosa o della rappresentanza paritaria e pro‑
porzionata uomo‑donna. Ci si è chiesti: quello della rappre‑
sentanza tendenzialmente paritaria è un vincolo giuridica‑
mente rilevante? La questione si è posta poiché lo statuto re‑
gionale della Campania pone un vincolo giuridicamente rile‑
vante all’esercizio del potere di nomina della giunta, con la
precipua conseguenza che l’atto adottato nell’esercizio di quel
potere non può essere considerato atto politico e quindi esen‑
te da qualsiasi sindacato.
Sulla base di tali coordinate ermeneutiche i Giudici di
Palazzo Spada arrivano alla conclusione che “all’atto di no‑
mina di un assessore regionale non può riconoscersi natura
di atto politico; da un lato non è libero nella scelta dei fini,
essendo sostanzialmente rivolto al miglioramento della com‑
pagine di ausilio del Presidente della Regione nell’ammini‑
strazione della Regione stessa, dall’altro è sottoposto a crite‑
ri strettamente giuridici come quello citato dell’art. 46,
comma 3, dello Statuto campano, con riguardo al rispetto
dell’equilibrata composizione dei due sessi. Di conseguenza,
deve ritenersene ammissibile l’impugnativa davanti al giudi‑
ce amministrativo, in quanto posto in essere da un’autorità
amministrativa e nell’esercizio di un potere amministrativo,
sia pure ampiamente discrezionale”.
Sul tema, poi, si è pronunciata anche la Corte costituzio‑
nale, investita del ricorso per conflitto di attribuzione pro‑
Gazzetta
F O R E N S E
mosso dalla Regione Campania nei confronti dello Stato. La
Corte Costituzionale, con sentenza 5 aprile 2012 n. 81, ha
dichiarato inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzio‑
ne proposto dalla Regione Campania che aveva sostenuto che
la sentenza del T.A.R. Campania, confermata in grado di
appello dal Consiglio di Stato, aveva finito per non tener con‑
to del fatto che l’atto di nomina degli assessori, da parte del
Presidente della Regione, sarebbe un atto politico (come tale
insindacabile in sede giurisdizionale). Ha osservato il Giudice
delle Leggi che, in materia, il legislatore regionale della Cam‑
pania, nell’esercizio dell’autonomia politica ad esso accordata
dall’art. 123 della Costituzione, ha ritenuto di dover delimi‑
tare il libero apprezzamento del Presidente della Giunta regio‑
nale nella scelta degli assessori, stabilendo nello statuto regio‑
nale alcuni vincoli di carattere generale, prescrivendo in par‑
ticolare che gli assessori siano nominati «nel pieno rispetto
del principio di un’equilibrata presenza di donne e uomini»
(art. 46, comma 3), di talché la discrezionalità spettante al
Presidente risulta arginata dal rispetto di tale canone, stabili‑
to dallo statuto, in armonia con l’articolo 51, primo comma,
e 117, settimo comma, della Costituzione.
D’altra parte, la circostanza che il Presidente della Giunta
sia un organo politico ed eserciti un potere politico, che si
concretizza anche nella nomina degli assessori, non compor‑
ta che i suoi atti siano tutti e sotto ogni profilo insindacabili.
Né, d’altra parte, la presenza di alcuni vincoli altera, di per
sé, la natura politica del potere esercitato dal Presidente con
l’atto di nomina degli assessori, ma piuttosto ne delimita lo
spazio di azione. L’atto di nomina degli assessori risulterà,
dunque, sindacabile in sede giurisdizionale, se e in quanto
abbia violato una norma giuridica. Se, infatti, l’insindacabi‑
lità dell’atto politico si giustifica in relazione alla mancanza
di un parametro normativo da assurgere ai fini della sua va‑
lidità è evidente come nel caso di specie sussista un vincolo
legislativo idoneo a conformare la scelta dell’organo di gover‑
no e, pertanto, controllabile in sede giurisdizionale.
Ciò posto afferma la Corte che“deve essere dichiarato
inammissibile il ricorso relativo al conflitto di attribuzione,
proposto dalla Regione Campania nei confronti del Presiden‑
te del Consiglio dei ministri, in relazione alla sentenza con‑
fermativa del Consiglio di Stato, sezione V, con cui è stato
annullato l’atto del Presidente della Giunta regionale di no‑
mina di un assessore, per violazione dell’art. 122, quinto
comma, della Costituzione, perché sembra un improprio
mezzo di gravame avverso le sentenze del giudice ammini‑
strativo”.
In definitiva, la natura politica dell’atto deve escludersi
ogniqualvolta sostanzialmente ci sia un atto da un lato lesivo
e dall’altro sottoposto a vincoli giuridicamente rilevanti per‑
ché proprio l’esistenza di vincoli giuridicamente rilevanti, di
vincoli cogenti, esclude una delle principali caratteristiche
dell’atto politico, cioè la sua libertà nel fine che tradizional‑
mente giustifica l’esclusione del sindacato.Si diceva tradizio‑
nalmente che l’atto politico non è sindacabile anche perché
non si saprebbe come sindacarlo, in quanto frutto di valuta‑
zioni politiche che non sono sottoposte a vincoli da parte del
legislatore o dell’ordinamento. Ma laddove l’ordinamento
sottopone la valutazione a vincoli cogenti, non c’è dubbio che
non ci sono gli aspetti propri dell’atto politico e quindi
quell’atto diventa sindacabile.
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4. Brevi considerazioni conclusive
L’erosione della categoria dell’atto politico segna un ulte‑
riore passo avanti nell’evoluzione chela giurisdizione ammi‑
nistrativasta attuando nell’ultimo decennio.
I giudici amministrativi, in un’ottica sempre più attenta
alle istanze comunitarie, si stanno sganciando progressiva‑
mente da una valutazione meramente formale dell’atto andan‑
do ad esaminare, in una prospettiva di maggiore sensibilità,
i rapporti sociali e personali che sottostanno all’esercizio del
potere autoritativo.
In questo modo si sta notevolmente ampliando la sfera dei
soggetti legittimati ad esercitare i propri diritti ed interessi
dinanzi agli organi della giustizia amministrativa. Infatti, la
legittimazione ad agire sfugge da posizioni giuridiche stan‑
dardizzate o condizionate per raggiungere, in un’ottica comu‑
nitaria, ampie categorie di soggetti che sul piano concreto
risentono, nella propria sfera giuridica, i pregiudizi delle scel‑
te amministrative. Ciòanche quando queste ultime sono
frutto di una evidente spersonalizzazione o di una eccessiva
discrezionalità a fronte della quale non si pongono destinata‑
ri determinati ma intere categorie di soggetti lesi dall’agere
amministrativo.
Riferimenti bibliografici:
Francesco Caringella, Manuale di diritto Amministrati‑
vo, 2010, Roma;
R. Chieppa e R. Giovagnoli, Manuale di diritto Ammini‑
strativo, 2012, Milano;
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2 0 1 3
109
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Riferimenti giurisprudenziali:
Tar Calabria, 17 febbraio, 2009, n. 154, www.pluris‑cedam.it;
Tar Puglia, 18 maggio 2009, n. 1183www.pluris‑cedam.it;
Tar Lazio, 16 febbraio 2010, n. 2255 www.pluris‑cedam.it;
Consiglio di Stato, 23 gennaio 2007, n. 209 www.pluris‑cedam.it;
Consiglio di Stato Sentenza, Sez. V, 08/03/2005, n. 944 www.plu‑
ris‑cedam.it;
Consiglio di Stato, Sez. V, 25/11/1999, n. 1983 www.plu‑
ris‑cedam.it;
TAR Valle d’Aosta, 14/05/1999, n. 88 www.pluris‑cedam.it;
Consiglio di Stato, Sez. V, 06/09/1999, n. 1017 www.pluris‑ce‑
dam.it;
TAR Basilicata, 14/02/2000, n. 84 www.pluris‑cedam.it;
Consiglio di Stato, 14 aprile 2001, n. 340 www.pluris‑cedam.it;
Cass. SSUU 13 novembre 2000, n. 170 www.pluris‑cedam.it.
amministrativo
Gazzetta
110
d i r i t t o
●
Rassegna di giurisprudenza
sul Codice dei contratti
pubblici di lavori, servizi
e forniture
(d.lgs. 12 Aprile 2006,
n. 163 e ss. mm.)
●
A cura di Almerina Bove
Dottore di ricerca e Avvocato presso l’Avvocatura
Regionale della Campania
a m m i n i s t r at i v o
Gazzetta
F O R E N S E
Anomalia dell’offerta – Sussiste ove manchi un significativo margine di utile delle imprese a tutela del sistema concorrenziale
Va considerata anomala l’offerta della concorrente che
permetta un margine di utile solo simbolico, come quello
pari all’1%. Merita, invero, condivisione l’orientamento,
ormai consolidato nella giurisprudenza amministrativa, se‑
condo cui il procedimento di verifica dell’anomalia dell’of‑
ferta è finalizzato a consentire che gli appalti vengano affi‑
dati ad un prezzo che consenta un adeguato margine di
guadagno per le imprese, nella convinzione che le acquisizio‑
ni in perdita portino gli affidatari ad una negligente esecu‑
zione, oltre che ad un probabile contenzioso; infatti, il con‑
sentire la presentazione di offerte senza adeguato utile fini‑
rebbe con l’alterare il sistema di libera concorrenza del mer‑
cato, permettendo la sopravvivenza alle sole imprese fornite
di maggiori risorse economiche, che possono consentirsi
contratti in perdita.
Consiglio di Stato, sez. V, 15 aprile 2013, n. 2063
Pres. Carmine Volpe, Est. Antonio Amicuzzi
Danno da mancata aggiudicazione - Non costituisce un’ipotesi di
responsabilità per “contatto sociale qualificato”
Premesso ache la violazione di quegli obblighi procedi‑
mentali che incombono sull’amministrazione a tutela del
privato determina la c.d. responsabilità da “contatto sociale
qualificato”, deve escludersi la ricorrenza della suddetta re‑
sponsabilità ove si avanzi istanza di ristoro patrimoniale a
tutela del proprio interesse legittimo all’aggiudicazione della
gara d’appalto. In questo senso il presunto danneggiato non
si duole dell’inottemperanza ad un obbligo gravante in capo
all’amministrazione, quanto dello scorretto esercizio del
potere amministrativo. Occorre, quindi, distinguere la re‑
sponsabilità della p.a. che discende dal cattivo esercizio del
potere da quella che può derivare dal mancato adempimento
di un obbligo.
Pertanto, va respinta la tesi secondo la quale nel caso si
avanzi richiesta di risarcimento del danno per la mancata
aggiudicazione si è in presenza di un contatto sociale che ge‑
nera una responsabilità latu sensu contrattuale. Diversamen‑
te ragionando, si giungerebbe ad un’inaccettabile sovrapposi‑
zione delle posizioni di interesse legittimo e di diritto sogget‑
tivo, ricostruendo la prima categoria alla stregua di un inte‑
resse alla legittimità dell’attività amministrativa, immediata‑
mente leso dalla mera presenza di un vizio di legittimità.
Consiglio di Stato, sez. V, 27 marzo 2013, n. 1833
Pres. FF Manfredo Atzeni; Est. Luigi Massimiliano Tarantino
Divieto di modificazione soggettiva dei partecipanti alla gara, in
forma di RTI ovvero di Consorzio ordinario - Ai sensi del Codice dei
Contratti pubblici e della normativa comunitaria vige soltanto dal
momento della presentazione dell’offerta, e non anche nella fase
di prequalifica - Il diverso tipo di rapporto intercorrente tra i
partecipanti al RTI e al Consorzio non è idoneo a fondare una diversa disciplina di gara
Dagli articoli 37 (co.9 e 12) e 51 del codice dei contratti,
oltre che dalla normativa comunitaria di riferimento, emerge
la indifferenza dell’ordinamento, alla veste giuridica a mezzo
della quale gli operatori concorrono alle procedure di gara
ed alle eventuali modifiche della veste assunta inizialmente,
quanto meno fino alla presentazione delle offerte.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
In particolare l’articolo 37 co.9 e 12 del codice degli ap‑
palti consente espressamente che l’operatore prequalificatosi
modifichi il proprio profilo soggettivo in vista della gara,
sempre che detta modifica intervenga prima della presenta‑
zione delle offerte e sempre che la stessa non risulti preordi‑
nata a sopperire ad una carenza di requisiti intervenuta medio
tempore o esistente ab origine (Cons. Stato, sez. IV,
n. 4327/2010 e n.4327/2010). In specie l’art. 37 co.9 denun‑
zia la volontà del legislatore di individuare nella presentazio‑
ne dell’offerta il momento a partire dal quale sorge il divieto
di modificazione soggettiva della composizione dei parteci‑
panti alla gara, l’art. 37 co.12 consente la possibilità di mu‑
tare forma giuridica tra prequalifica e gara là dove consente
che il concorrente prequalificatosi nella veste di operatore
singolo, possa poi partecipare in forma associata e dunque in
una forma giuridica diversa da quella originaria.
L’articolo 51 del codice dei contratti ha rafforzato l’indi‑
cats autonomia organizzativa dei concorrenti per la parteci‑
pazione alle gare sancendo la configurabilità di fenomeni di
successione nella titolarità della posizione del concorrente,
offerente o aggiudicatario a fronte di specifiche vicende sog‑
gettive.
Identiche, se non più pregnanti indicazioni, si rinvengono
nella normativa comunitaria (art. 4 co.2 Dir. CE 18/2004)
che prevede espressamente che: “Ai fini della presentazione
di una offerta o di una domanda di partecipazione le ammi‑
nistrazioni aggiudicatrici non possono esigere che i raggrup‑
pamenti di operatori economici abbiano una forma giuridica
specifica”.
Gli indicati principi valgono con riferimento tanto alla
figura del rti che del consorzio ordinario - cui a mente
dell’art. 34 co. 1 lett. e) del codice degli appalti, si applicano
le disposizioni dell’art. 37 - le quali sono in rapporto di con‑
tiguita’ sostanziale e condividono la stessa ratio diretta a
cumulare i requisiti di qualificazione dei diversi operatori
raggruppati o consorziati in vista della partecipazione ad una
specifica gara, consentendo il cumulo dei requisiti di qualifi‑
cazione. Il differente tipo di rapporto che lega gli operatori
raggruppati e consorziati non è idoneo a fondare una diversa
disciplina di gara e a differenziare il trattamento da destina‑
re all’una o all’altra figura.
Consiglio di Stato, sez. III, 5 marzo 2013, n.1328
Pres. Pier Giorgio Lignani; Est. Roberto Capuzzi
Offerta tecnica – Valutazione - Elemento fiduciario - Non è suscettibile di alcuna valutazione
Nell’ambito dei procedimenti selettivi rigorosamente di‑
sciplinati dalla lex specialis e dalla pertinente disciplina legi‑
slativa, l’elemento fiduciario non si presta ad essere liberamen‑
te valutato dalla stazione appaltante, in quanto trova ogget‑
tiva concretizzazione nelle regole disciplinatrici della gara, il
cui puntuale rispetto consente di individuare l’impresa che
oggettivamente offra, per i requisiti posseduti e l’offerta pre‑
sentata, le migliori garanzie di realizzazione dell’interesse
pubblico perseguito dall’amministrazione aggiudicatrice.
Consiglio di Stato, sez. V, 11 aprile 2013, n. 1974
Pres. Carmine Volpe; Est. Paolo Giovanni Nicolò Lotti
Operazioni di gara - Ordine inderogabile di apertura delle buste
Secondo un principio pacifico in materia di appalti pub‑
2 0 1 3
111
blici- recepito nel regolamento attuativo del codice all’art.120
dpr n.207/2010 (cfr. C.d.S., sez. VI, 22 novembre 2012
n. 5928) - la commissione di gara ha il dovere di aprire in
primo luogo la busta contenente la documentazione ammi‑
nistrativa e solo in un secondo momento può procedere ad
aprire le buste dell’offerta economica. Il comportamento
tenuto dalla stazione appaltante che si attenga all’oggetto
indicato in ciascuna sottobusta senza neanche aprire quella
inerente la documentazione amministrativa è di per sè suffi‑
ciente ad inficiare l’esito dell’intera procedura di gara.
Tar Campania sez. I, 18 marzo 2013, n. 1504
Pres. FF Fabio Donadono, Est. Michele Buonauro
Requisiti di idoneità tecnico-economica - Devono valutarsi con
esclusivo riferimento al dato oggettivo del servizio erogato, con
conseguente idoneità anche del servizio svolto in assenza di
contratto, ove remunerato
Il requisito di idoneità tecnico-economica va valutato con
riferimento esclusivo al dato oggettivo del servizio erogato e
della sua attinenza all’oggetto del contratto. Anche la mera
prestazione di fatto, remunerata in quanto tale, rappresenta
titolo per l’acquisizione di esperienza e causa di produzione
del fatturato idoneo a comprovare il requisito. Un argomen‑
to in tal senso si trae dall’art. 42, co. 1, lett. a) del codice dei
contratti che parifica, in sede di disciplina legale dei requisi‑
ti soggettivi di partecipazione a gare per l’aggiudicazione di
appalti pubblici, le pregresse esperienze maturate dalle im‑
prese concorrenti nel settore pubblico e in quello privato.
Consiglio di Stato, sez. III, 13 marzo 2013, n. 1494
Presidente Gianpiero Paolo Cirillo; Est. Paola Alba Aurora
Puliatti
Requisiti di moralità – L’obbligo di fornire le dichiarazioni di cui
all’art. 38 grava, in caso di trasferimento d’azienda o di un suo
ramo, sia sugli amministratori della società cessionaria che di
quella cedente, a prescindere dalla concreta conoscenza dei loro
nominativi
In caso di trasferimento d’azienda o di un suo ramo,
l’obbligo di rendere le dichiarazioni di cui all’art. 38, comma
1, lett. c), del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, si riferisce, oltre
che agli amministratori della società cessionaria, partecipan‑
te alla gara, anche a quelli delle società cedenti l’azienda o il
ramo di azienda in favore dell’impresa partecipante alla gara.
Non costituisce esimente da tale obbligo il fatto che la socie‑
tà cessionaria non conosca i nominativi degli amministrato‑
ri della società cedente e dei loro precedenti penali, ove gli
stessi non risultino dai certificati del casellario giudiziale.
Tale inconveniente può difatti essere agevolmente superato
dal cessionario attraverso l’adozione di opportune cautele,
quali pretendere dall’impresa che si intende acquisire l’atte‑
stazione circa intervenute condanne o indagini penali già in
corso sui rispettivi vertici amministrativi e tecnici per reati
che incidono sull’affidabilità morale e professionale, nonché
prevedendo penali o garanzie o risoluzione della cessione al
verificarsi di tali fatti, suscettibili di risolversi negativamente
per tali soggetti entro il successivo triennio (ora entro il suc‑
cessivo anno).
Consiglio di Stato, sez. V, 09 aprile 2013, n. 1953
Pres. Stefano Baccarini; Est. Carlo Saltelli
amministrativo
Gazzetta
112
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
Risarcimento danni da perdita di chance di aggiudicazione - Presupposti, condizioni e limiti quantitativi
La domanda risarcitoria infondata sotto il profilo della
mancata aggiudicazione per mancato raggiungimento della
prova di resistenza e quindi di valida prognosi di vantaggio‑
sità dell’offerta presentata in gara può essere apprezzata
unicamente con riguardo alla perdita della chance di conse‑
guire l’aggiudicazione.
La pretesa risarcitoria commessa alla perdita di chance
può trovare accoglimento nei limiti seguenti:
- con riferimento al danno così detto da perdita di chance,
il ricorrente ha l’onere di provare gli elementi atti a dimo‑
strare, pur se solo in modo presuntivo e basato sul calco‑
lo delle probabilità, la possibilità che egli avrebbe avuto
di conseguire il risultato sperato, atteso che la valutazio‑
ne equitativa del danno, ai sensi dell’art. 1226 c.c., pre‑
suppone che risulti comprovata l’esistenza di un danno
risarcibile (Tar Lazio, sez. I, 27 luglio 2006, n. 6583);
- atteso il ribasso offerto e le condizioni dichiarate dal ri‑
corrente, ed in considerazione dell’esigenza di garantire
effettività di tutela al ricorrente che ha ragione, si può
equitativamente valutare il danno da perdita di chance
suddividendo l’utile generalmente ritraibile dall’appalto
(il 10% dell’importo a base d’asta, come ridotto secondo
il ribasso offerto) per il numero dei partecipanti alla gara
(pari a sette concorrenti).
Gazzetta
F O R E N S E
L’amministrazione, ai fini della formulazione della pro‑
posta risarcitoria e l’eventuale raggiungimento di un accordo
con la ricorrente ex art. 34, comma 4, c.p.a., dovrà dun‑
que:
- attenersi all’offerta economica presentata dall’appellante
in sede di gara;
- determinare il margine di guadagno che residua dopo
l’applicazione dell’importo indicato in sede di gara e, in
caso di mancanza di tale dato, applicare l’aliquota forfe‑
taria del 10%;
- suddividere l’importo per il numero dei concorrenti am‑
messi.
Sull’importo sopra indicato compete la rivalutazione
monetaria secondo gli indici ISTAT, trattandosi di debito
di valore, con decorrenza dalla data di pubblicazione del‑
la presente sentenza fino a quella di determinazione da
parte dell’amministrazione dell’effettivo ammontare del
debito risarcitorio (cfr. TA R Lazio, Roma, sez. III,
n . 37 76 / 2 011; TA R C a mpa n i a , N apoli , sez . V I I ,
n. 5611/2011).
Sulla somma, infine, si computeranno gli interessi legali
calcolati esclusivamente dalla data di determinazione dell’im‑
porto complessivo fino all’effettivo soddisfo (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, n. 3144/2009; sez. V, n. 550/2011).
Tar Campania, sez. I, 18 marzo 2013, n. 1504
Pres. FF Fabio Donadono, Est. Michele Buonauro
Diritto tributario
L’abuso del diritto nel sistema tributario: evoluzione legislativa e giurisprudenziale
115
tributario
Clelia Buccico
Gazzetta
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 3
115
F O R E N S E
L’abuso del diritto
nel sistema tributario:
evoluzione legislativa
e giurisprudenziale
● Clelia Buccico
Professore Associato di Diritto Tributario presso
la Seconda Università degli Studi di Napoli
Sommario: 1. Premessa – 2. Il concetto di abuso del dirit‑
to – 3. Il concetto di abuso del diritto nel settore tributario e
gli orientamenti della giurisprudenza – 4. Le garanzie proce‑
dimentali contenute nell’art. 37‑bis del d.P.R.. n. 600 del
1973 – 4.1. Il regime nei casi di abuso del diritto: assenza di
garanzie e rilevabilità d’ufficio – 5. Necessità di estendere
all’abuso del diritto le garanzie ex art. 37‑bis d.P.R.
n. 600/73 – 6. L’evoluzione legislativa.
1. Premessa.
Si era immaginato di affrontare il tema dell’abuso del di‑
ritto muovendo da considerazioni etico morali. In un periodo
storico nel quale, per ragioni contingenti, risposte di equità e
solidarietà si impongono alla coscienza collettiva mentre si
mettono in campo strumentazioni giuridiche sempre più affi‑
nate per sottrarsi alle imposte, sollecitando in questo modo la
generale attenzione, ci si domandava se non fosse almeno
opportuno utilizzare il ventaglio dei valori che dovrebbero
animare la società costituita per meglio risolvere le questioni
riguardanti elusione ed evasione.
Questa idea, però, avrebbe fatto senz’altro commettere un
errore metodologico ripensando non soltanto alla tradizione
positivista che con Kelsen ha spianato la strada al diritto mo‑
derno, ma anche sul presupposto espresso in passato dalla
dottrina giuridica sui concetti di buona fede e correttezza nei
comportamenti giuridicamente rilevanti: “seppur per motivi
diversi, etica e morale, l’una per il suo tendenziale immobili‑
smo; l’altra, per un suo schizofrenico dinamismo, si rivelano
inutilizzabili.
Né, a superare l’impasse, varrebbe probabilmente il non
infrequente riferimento ad una morale sociale”; che, sebbene
“sociale”, si scontra pur sempre coi limiti e difetti propri della
morale applicata al diritto.
Intendiamoci, morale ed etica costituiscono armamentari
rilevantissimi per altre discipline, ma trasportati nella nostra
ingenerano un rischio grave, che deve essere a tutti i costi evita‑
to anche in situazione emergenziale, come quella attuale, della
finanza pubblica: contribuire a giustificare scelte normative o
interpretative non rispettose dei principi giuridici storicamente
accreditati, per dar corpo a valori metagiuridici ritenuti preva‑
lenti o per soddisfare esigenze di gettito mascherate da ragioni
di giustizia sociale, in spregio per l’appunto ai principi ordinan‑
ti lo Stato di diritto. Rischi, questi, tanto più gravi se calati
nella fase storica attuale che devono vedere la scienza schierata
in una ferma e ragionata opposizione ad abusi e derive.
Certo, valori e diritto non sono categorie contrapposte e
men che meno categorie che si elidono a vicenda. Non è soste‑
nibile un’idea di contribuzione alle spese pubbliche conseguen‑
za dell’obbligazione giuridica, svincolata dai valori impressi
nell’art. 53, nell’art. 23 e negli artt. 2, 3, 41, 42, 47, 54 e 81 e
97 della Costituzione. Mi confortano in questa convinzione,
oltre alla dottrina, le sentenze dei giudici della Consulta che,
ormai graniticamente, affermano l’intreccio inscindibile tra
queste disposizioni, obbligo di concorso alle pubbliche spese
e valori fondamentali, valori che proprio da quelle disposizio‑
ni traggono forza giuridica. Non dico nulla di nuovo, perciò,
se ribadisco la necessità per l’interprete di rimanere ancorato
a quei principi e ai valori che essi esprimono.
Da questo punto di vista, parlare di elusione ed evasione e
di strumenti atti a contrastare simili fenomeni, significa accet‑
tributario
●
116
d i r i t t o
tare l’idea di valutare le fattispecie concrete e interpretare il
diritto positivo, anche alla luce dei valori costituzionalmente
rilevanti, ma quest’approccio si rivela sistematicamente cor‑
retto solo a una condizione: che sia spurgato da suggestioni
anticipatrici dell’etica e della morale e spurgato dalla pervica‑
cia ideologica di piegare le regole giuridiche alle esigenze
contingenti – quantunque serie – di finanza pubblica.
Queste necessità, per la verità, non sono nuove e gli stru‑
menti messi in campo per soddisfarle hanno radici antiche,
sebbene alla fine tutte con linfa similare. Fin dagli inizi degli
anni trenta del secolo passato, infatti, il problema dell’elusio‑
ne fu studiato con alterne soluzioni. La scuola pavese, da
questo punto di vista, contribuì energicamente a consolidare
gli studi sull’interpretazione e sull’interpretazione economi‑
co‑funzionale del diritto, senza tuttavia trovare la risolutiva
chiave di volta per offrire al sistema una clausola generale
antielusiva o almeno una chiave di volta generalmente accet‑
tata. Su basi completamente diverse, questa ricerca è conti‑
nuata fino ai giorni nostri e fino, per l’appunto, all’avvento
nel nostro settore della clausola del divieto dell’abuso del di‑
ritto, ripresa inizialmente dalla giurisprudenza comunitaria e
poi dalla nostra Corte di Cassazione.
Leggendo in controluce questa lunga e articolata evolu‑
zione, qui ripercorsa a mo’ di volo d’uccello, si possono indi‑
viduare due elementi che ne caratterizzano lo svolgimento.
Innanzitutto la costante esigenza di dotare il sistema di uno
strumento – non necessariamente tradotto in norma scritta
ad hoc – di portata generale, quale “concetto valvola”, adat‑
tabile alla multiforme varietà dei comportamenti dei contri‑
buenti. Dall’altro, l’esigenza di giustificare l’applicazione
delle norme oltre i casi in esse espressamente contemplati,
dando prevalenza, molto spesso, alla funzione e causa del
diritto (economica, politica, sociale) e quindi a valori pregiu‑
ridici o metagiuridici che di volta in volta anche la pratica di
governo ha necessità di realizzare.
Senza voler evocare la contrapposizione del secolo scorso
tra giurisprudenza dei concetti e giurisprudenza degli interes‑
si, occorre rilevare come sia sempre risorgente il tentativo di
giustificare, con la funzione sostanziale delle norme d’impo‑
sta, strumenti antiabuso e sia risorgente altresì la tentazione
di rispolverare il concetto d’interesse fiscale alla stregua di
valore che tra quelli costituzionali godrebbe di supremazia,
così da assegnargli anche forza di “criterio ermeneutico pri‑
vilegiato, utilizzabile quale regola di ricostruzione della por‑
tata semantica delle norme dell’ordinamento tributario”.
Conformemente alle considerazioni ora svolte, si impone
subito una doppia, simmetrica esigenza: definire il concetto
di abuso del diritto nella sua dimensione propriamente giuri‑
dica e valutarne, successivamente, natura e confini.
2. Il concetto di abuso del diritto.
La formula “abuso del diritto”, nell’esperienza continen‑
tale, ha circa un secolo e mezzo di vita: nasce negli ordina‑
menti liberali della seconda metà dell’Ottocento, come eser‑
cizio scorretto di un diritto soggettivo. Inteso come abuso di
una facultas agendi, esso riguarda soprattutto l’esercizio
delle libertà, individuali e collettive, nei rapporti economici.
Ciò che non era vietato era permesso.
Nell’impostazione liberale, il diritto soggettivo veniva
considerato come prerogativa del singolo, come riconoscimen‑
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
to della sua libertà: non residuando spazi valutativi fra la
norma generale e astratta attributiva del potere e la libertà del
titolare nel suo corrispondente esercizio non si riconosceva
dignità giuridica all’abuso, o al massimo esso veniva ridotto
ad una questione di riconducibilità dell’atto alla fattispecie
astratta.
La crisi dei principi istituzionali della società liberale e del
positivismo giuridico (uguaglianza formale davanti alla legge
ed esclusività dell’ordinamento statuale) ha favorito la nasci‑
ta e la diffusione della teoria dell’abuso, che nasce come
correttivo agli enunciati della concezione assolutistica e me‑
ramente individualistica del diritto reale. L’abuso si pone
come mezzo di controllo “contenutistico” della discreziona‑
lità che governa l’esercizio libero dell’autonomia privata e si
sviluppa in modo parallelo alla progressiva estensione delle
forme di controllo giudiziale sull’esercizio di situazioni sog‑
gettive di diritto privato.
La moderna teoria dell’abuso nasce, quindi, con il matu‑
rare della consapevolezza del fine sociale dell’ordinamento,
grazie all’apporto della dottrina francese e alle codificazioni
della seconda metà dell’Ottocento. I diritti hanno una finalità
sociale, sono relativi e non assoluti: il loro esercizio al di là
della loro funzione economica e sociale costituisce un abuso.
Attraverso il divieto di abuso si coglie l’idea sociale, non
individuale, del diritto, poiché lo scopo delle istituzioni crea‑
trici del diritto oggettivo è di matrice sociale. La tradizionale
definizione di “abuso” comprende, infatti, le ipotesi di uso – o
di non uso – di un diritto proprio che non porta a vantaggi
per sé, ma ha lo scopo di nuocere ad altri: la connotazione
soggettivistica dell’esercizio di un potere o diritto è evoluta a
strumento di garanzia della funzione sociale del diritto stes‑
so.
Poiché “i diritti soggettivi sono poteri che si svolgono e si
chiudono nella cerchia di un attuale e concreto rapporto con
una cosa determinata o con altri soggetti ugualmente deter‑
minati”, la concettualizzazione dell’abuso si scontra con dif‑
ficoltà tecnico‑giuridiche di collocazione sistematica nell’am‑
bito della teoria del diritto soggettivo.L’oggetto dell’abuso non
è, infatti, limitato ai diritti soggettivi in senso stretto: la no‑
zione di abuso rappresenta il mezzo per segnare l’ambito e i
confini della posizione giuridica soggettiva di vantaggio,
complessivamente intesa.
Oggetto di abuso possono essere posizioni di vantaggio
(facultas agendi) o disposizioni normative (norma agendi).
Designiamo questa seconda accezione del concetto di “abuso”
come abuso in senso lato, per distinguerla dall’abuso in senso
stretto, che – come è stato illustrato – ha connotato la prima
forma storica del fenomeno.
La frode alla legge è, quindi, una species del genus “abu‑
so del diritto”: l’assimilazione concettuale delle due figure
discende dal fatto che l’abuso viene spesso descritto come l’uso
illegittimo di una norma, della quale viene aggirata la ratio.
Con l’espressione “abuso del diritto” in questo caso non ci si
riferisce alle ipotesi in cui una facultas agendi viene esercita‑
ta per fini non meritevoli di tutela o in modo eccessivo, tale
da superare le facoltà attribuite da una norma: la frode alla
legge indica, piuttosto, il concetto di specie che ha per ogget‑
to di abuso una norma agendi.
Anche la frode alla legge, così come l’abuso in senso stret‑
to, è un concetto che nasce in ambito civilistico e “si presenta
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
come uno strumento di carattere ibrido, prodotto da un lun‑
go processo di depurazione tecnica”.
Il concetto prevede l’aggiramento delle regole giuridiche:
il soggetto privato abusa della libertà di adottare un certo
trattamento per i propri interessi, sfruttando la varietà di
forme giuridiche che l’ordinamento gli mette a disposizione,
allo scopo di ottenere un risultato che ordinariamente il siste‑
ma non consente e indirettamente disapprova.
Il nucleo dogmatico della figura è rappresentato dall’atti‑
vità di aggiramento della norma che in via di principio si sa‑
rebbe dovuta applicare, non dal danno sociale: l’elemento
della produzione del danno – presente nella definizione origi‑
naria – diventa non più essenziale alla configurazione dell’abu‑
so.
Sganciata la teoria dell’abuso da quella degli atti emulati‑
vi e superata l’equazione “abuso” ed “eccesso dal diritto”, a
lungo coltivata, è emerso che a livello civilistico esiste un di‑
vieto di abuso non scritto applicabile con caratteri di genera‑
lità in ogni settore dell’ordinamento 56. Più in particolare si
è visto che il concetto di “abuso del diritto”, nato per disci‑
plinare i conflitti di diritto privato, ha conosciuto una elabo‑
razione che ha dato origine a due nozioni distinte (in senso
lato e in senso stretto). Si tratta ora di vedere se tali istituti
abbiano trovato corrispondenti applicazioni nel settoriale
terreno del diritto tributario.
Nonostante vada registrata la “resistenza del legislatore
fiscale e della giurisprudenza a mutuare dall’ordinamento
civile quegli istituti più generali che prevedono rimedi contro
il fenomeno elusivo e l’abuso delle forme”, non paiono esserci
ragioni ostative a che lo strumento negoziale alla base
dell’operazione sostanzialmente elusiva possa ricevere una
distinta regolamentazione dal punto di vista del diritto civile
e del diritto tributario. Poiché “[n]on esiste un primato del
diritto civile”, non si pone un problema di dipendenza esterna,
ma di adattamento di concetti ed istituti elaborati e filtrati
programmaticamente in un settore disciplinare extrafiscale.
In particolare, sempre l’analisi storica ha mostrato come
il divieto di abuso, inteso come possibilità di sindacare l’eser‑
cizio dell’autonomia privata, sia stato inizialmente fatto deri‑
vare dal principio di buona fede oggi disciplinato nel diritto
tributario dall’art.10 della legge 212 del 2000 (c.d. Statuto del
contribuente).
Buona fede e divieto di abuso non esprimono esattamen‑
te lo stesso concetto, non esprimono cioè nozioni perfetta‑
mente sovrapponibili. Buona fede oggettiva e divieto di
abuso, però, hanno una medesima connotazione: entrambe
le nozioni si caratterizzano per esigere una valutazione bila‑
terale. Da un lato, infatti, impongono di valutare i diritti del
privato alla realizzazione del ventaglio di interessi suoi propri
e le ragioni sostanziali che lo hanno indotto all’adozione di
atti o negozi, nel rispetto della libertà dei traffici giuridici e
dell’autodeterminazione negoziale. Dall’altro, esigono che sia
valutato il diritto del creditore alla realizzazione della prete‑
sa secondo la sua reale configurazione, in ossequio al princi‑
pio di congruità sostanziale degli atti con i fini effettivi degli
stessi.
Fin qui le due nozioni si accomunano. Ma il principio
della buona fede oggettiva, per ricostruzione consolidata,
introduce un elemento di giudizio ulteriore: la correttezza
della condotta.
2 0 1 3
117
L’ordinamento protegge gli atti del privato e ne legittima
gli effetti anche in ambito fiscale sino a quando essi non di‑
vengono strumentali al perseguimento di finalità diverse ed
estranee a quelle astrattamente tutelate e per questi motivi
non riflettono, sul terreno della condotta, aggiramento di
obblighi o divieti.
Vero è che il contribuente, non possedendo il potere di
comparazione degli interessi, non può disporre di quello ma‑
teriale riferibile al creditore erariale e quindi disporre degli
effetti giuridici conseguenti, sicché l’attività nella quale si
concretizza l’esercizio del suo diritto (della situazione giuridi‑
ca soggettiva) si “trasforma” per forza di cose in contenuto
materiale di un dovere che, come tale, non può contemplare
né danni alle ragioni del creditore con risparmio d’imposta,
né aggiramenti di legge come espressione di condotta sostan‑
zialmente non conforme all’ordinamento.
Ed eccoci all’altro punto focale del ragionamento, anello
successivo e per certi aspetti riproduttivo delle cose fin qui
dette: il risparmio d’imposta, che di per sé è soltanto conse‑
guenza economica finale della qualificazione della fattispecie
operata dal contribuente in forza della sua libertà negoziale,
diviene risparmio indebito quando regole di condotta astrat‑
tamente definite e regole in concreto seguite divergono, e
quando divergono altresì fine degli atti tutelato dalla legge e
fine in concreto perseguito, quando cioè alle reali finalità di
questi non sono riconducibili ragioni sostanziali apprezzabili
positivamente. Comparazione degli interessi (ragioni sostan‑
ziali del contribuente e ragioni del creditore erariale alla
corretta determinazione della pretesa) e valutazione della
condotta nell’esercizio di situazioni giuridiche soggettive solo
formalmente perfette, integrano perciò il giudizio fattuale che
può condurre, per l’appunto, a una decisione negativa di con‑
gruità, con la qualificazione del risparmio d’imposta come
indebito.
Di qui una conseguenza essenziale sul piano sistematico.
L’uso distorto del diritto e delle libertà negoziali non deve
essere riferito a un tanto generico quanto insignificante com‑
portamento scorretto o sleale o ad una equivoca regola di
diligenza morale o sociale o ancora a una confusa nozione di
“risparmio asistematico d’imposta”, ma deve essere riferito
direttamente a un principio immanente nell’ordinamento,
quello della buona fede oggettiva, e alle connesse regole di
comportamento, pilastro del principio stesso, regole che di per
sé – lo ribadisco – non tollerano aggiramento di qualsivoglia
precetto.
Se nell’originaria accezione in senso stretto, l’abuso del
diritto è stato definito come un cattivo esercizio di un potere
discrezionale, i “diritti tributari” oggetto di abuso si configu‑
rano, invece, come pretese nei confronti del Fisco: il contenu‑
to del diritto è il contenuto della pretesa e del dovere del Fisco
di soddisfarla. Già da queste definizioni si coglie che il pro‑
blema del limite del diritto soggettivo nel diritto privato è
distinto da quello dei confini della richiesta che si vanta nei
confronti del Fisco.
L’ambito applicativo dell’istituto dell’abuso è più ampio
nel settore civilistico: “il problema dell’abuso va infatti ben
oltre i confini dell’esecuzione di rapporti, per estendersi a
tutto il campo delle libertà, delle facoltà, delle «prerogative»”.
In questo contesto si valutano gli interessi del soggetto priva‑
to in comparazione con gli altri interessi coinvolti; nel diritto
tributario
Gazzetta
118
d i r i t t o
tributario l’interesse del contribuente è considerato nella cor‑
nice del particolare rapporto d’imposta. Nel diritto privato,
il divieto di abuso postula che le parti si trovino in una situa‑
zione di sostanziale parità ed equilibrio; nel diritto pubblico,
le parti sono vincolate ad un rapporto di legittimità sostan‑
ziale e formale.
Anche il requisito del danno a controparte, applicabile
alle fattispecie civilistiche, non è immediatamente esportabi‑
le alle ipotesi di abuso fiscale. Infatti, il contribuente che
tenta di risparmiare sulle imposte, non agisce con l’intento di
danneggiare un altro soggetto. Nondimeno, sussiste in termi‑
ni oggettivi un vantaggio per il contribuente ed un conseguen‑
te danno all’Erario, sotto forma di minor gettito. Il requisito
del danno può, dunque, essere interpretato come “danno so‑
ciale” 65: il principio del neminem laedere assurge a tutela del
più generale diritto dello Stato ad ottenere l’esecuzione esatta
dell’obbligazione tributaria.
Nell’accezione in senso lato, l’abuso del diritto è stato
definito come frode alla legge, ovvero come abuso dell’auto‑
nomia negoziale. La frode alla legge trova abbondante casi‑
stica nel diritto tributario: per indicare il comportamento del
contribuente che dà scacco alla legge si parla di “frode alla
legge fiscale”, ovvero di “elusione”, distinta dalla “frode fi‑
scale”, da intendersi come evasione penalmente rilevante:
nell’elusione il presupposto del tributo non è integrato, mentre
il negozio dissimulato nelle condotte evasive integra il presup‑
posto imposi‑tivo. Nella frode alla legge tributaria non si re‑
alizza il fatto imponibile, ma è come se si realizzasse, forzan‑
do la riconduzione di una situazione dentro un fatto imponi‑
bile, pensato per contemplare situazioni differenti.
Con “abuso dell’autonomia negoziale” si fa riferimento
alla problematica tipica del diritto civile di privati che attra‑
verso l’esercizio della loro autonomia predispongono essi
stessi regole giuridiche, suscettive di superare i limiti posti da
norme imperative, o utilizzano i negozi civilistici in funzione
atipica rispetto quella che è loro propria al fine di perseguire
il risultato pratico voluto. L’interesse elusivo è conseguibile
attraverso le flessibilità proprie dell’autonomia contrattuale,
che trova fondamento nel quadro delle libertà giuridiche po‑
sitivamente determinate.
Diversamente, le disposizioni fiscali oggetto di abuso sono
norme che operano una qualificazione di fatti: scopo delle
norme tributarie è l’assunzione di un dato o una situazione di
fatto, oggettivamente variabile, quale indice di capacità con‑
tributiva. Il diritto tributario – che è diritto di secondo grado
rispetto a quello civile – presuppone le figure di qualificazio‑
ne civilistiche per la definizione del presupposto impositivo:
“La contrapposizione fra fattispecie formali e fatti economici
non può essere intesa nel senso che esistano vicende economi‑
che pure che solo il diritto tributario potrebbe prendere in
considerazione”.
La norma impositiva ha carattere di norma cogente diret‑
ta a tutelare interessi di carattere generale ed aventi valenza
pubblicistica. Ciò che per il diritto civile è espressione di au‑
tonomia, per il diritto tributario è un mero presupposto di
fatto. Ne consegue che la frode alla legge fiscale non può
configurare espressione patologica della libertà contrattuale
del contribuente. Se nel diritto civile l’abutente “crea la norma”
in funzione del regime sociale applicabile, nel diritto tributa‑
rio, ove i negozi sono “fatti”, meri presupposti delle fattispecie
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
impositive, al cui verificarsi vengono ricollegate determinate
conseguenze, l’abutente “crea il fatto” in funzione della norma
impositiva che vuole eludere: il suo comportamento sfrutta
una smagliatura del sistema per ottenere sgravi d’imposta non
previsti. In questo senso si accoglie l’opinione che “l’elusione
fiscale non dipende dalla libertà negoziale e dall’autonomia
privata, ma dall’esistenza stessa di regole, che in ogni campo
del diritto rischiano di essere aggirate”.
Va, dunque, distinta la frode alla legge fiscale dall’abuso
dell’autonomia negoziale: la prima è propriamente manipola‑
zione di regole tributarie senza altre ragioni se non quella di
accedere ad un determinato regime di tassazione, la seconda
è un cattivo uso del potere di autonomia.
3. Il concetto di abuso del diritto nel settore tributario e gli orientamenti della giurisprudenza.
Fatte tali premesse vediamo come il concetto di abuso del
diritto nel settore tributario nel corso dell’ultimo decennio ha
conosciuto un’originale elaborazione da parte della giurispru‑
denza di legittimità con la conseguenza di determinare un’in‑
naturale contrapposizione fra l’esigenza di ricomporre un
equilibrio fiscale alterato e l’esigenza di assicurare la certezza
del diritto e la tutela del diritto di difesa.
La figura dell’abuso ha, infatti, subito una molteplicità di
caratterizzazioni da parte della Corte di Cassazione che,
lungi dal garantire un’uniforme e unitaria interpretazione del
dato giuridico, è stata ispirata – anche seppure a livello subli‑
minale‑ dalla ragione fiscale arginando i principi garantistici.
La Corte ha, infatti, utilizzato strumenti giuridici talvolta
mutuati da altri settori dell’ordinamento, talaltra addirittura
introdotti nel sistema attraverso discusse costruzioni erme‑
neutiche che hanno bloccato la dialettica tra libertà e legalità
a tutela dell’interesse erariale. La conseguenza è stata che
l’abuso del diritto è stato accolto, se non con ostilità, quanto
meno con sospetto tanto dalla dottrina, quanto dagli opera‑
tori economici, preoccupati la prima per la lesione della cer‑
tezza del diritto, i secondi per i rischi di ingerenza del Fisco
nelle scelte imprenditoriali, e più in generale per i riflessi
sulla competitività delle imprese nazionali.
È bene qui ricordarlo che il ricorso al principio dell’abuso
del diritto nella lotta all’elusione fiscale è avvenuto essenzial‑
mente per una ragione: il sistema tributario italiano non
contiene, a differenza di altri Paesi, una clausola antielusiva
generale, ma singole disposizioni specifiche. Punto di riferi‑
mento normativo in un contesto siffatto è sicuramente
l’art. 37‑bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in vigore
dall’8 novembre 1997: la disposizione rende inopponibili al
Fisco determinati comportamenti privi di valide ragioni eco‑
nomiche, che, mediante un aggiramento della legge tributaria,
attribuiscano al contribuente vantaggi fiscali indebiti. (co.1
“Sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i
fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni
economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti
dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte
o rimborsi, altrimenti indebiti.”)
La norma trova applicazione unicamente per le imposte
sui redditi, e soltanto in presenza delle operazioni tassativa‑
mente indicate nel comma, mentre si rivela del tutto ineffica‑
ce in tutte le altre ipotesi di elusione di leggi tributarie.
Così a dar inizio al dibattito sono state una serie di sen‑
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
tenze della Corte di Cassazione del 2005 che affrontando le
operazioni di dividend washing e dividend stripping hanno
ribaltato il precedente orientamento della stessa Corte sull’ar‑
gomento.
Ed infatti in precedenza i giudici di legittimità avevano
ritenuto legittime le operazioni menzionate sulla scorta del
fatto che potevano essere qualificati elusivi solo quegli atti che
erano definiti tali da una norma vigente al momento in cui
erano stati posti in essere (cfr. Cass., 03.04.2000 n. 3979;
Cass., 03.09.2001 n. 11371; Cass., 07.03.2002 n. 3345).
La Corte nel 2005 ha invece ritenuto non necessaria l’esi‑
stenza di una norma ad hoc per qualificare l’atto o la serie di
atti come elusivi. A tal fine, secondo la Cassazione bastava:
a) da un lato, appellarsi all’istituto civilistico del negozio
in frode alla legge (ex art. 1344 c.c.) in guisa da riconoscere
l’illiceità della causa, in quanto le norme tributarie sono nor‑
me imperative poste a tutela dell’interesse generale al concor‑
so delle spese pubbliche ex art. 53 della Cost. (Cass.,
26.10.2005 n. 20816);
b) da un altro, rilevare che i negozi giuridici tra loro col‑
legati possono essere considerati nulli (nei confronti dell’Am‑
ministrazione Finanziaria) per difetto di causa, giusta il di‑
sposto degli artt. 1325 n. 2 e 1418, co. 2, del c.c. visto che da
questi contratti “… non consegue per le parti alcun vantaggio
economico all’infuori del risparmio fiscale” (Cass., 21.10.2005
n. 20398; Cass., 14.11.2005 n. 22932).
Da tali pronunce emerge che i due elementi qualificanti
dell’elusione sono, da un lato, l’ottenimento di un vantaggio
fiscale da considerarsi indebito (perché contrario alle scelte di
fondo del sistema) e, dall’altro, l’insussistenza di ragioni eco‑
nomiche a sostegno dell’articolato schema negoziale adottato.
Dopo queste sentenze, che costituiscono un deciso revire‑
ment rispetto al precedente orientamento, entra in scena la
Corte di Giustizia Europea che affronta il problema dell’abu‑
so del diritto comunitario nel campo dell’imposta sul valore
aggiunto.
Nella sentenza Halifax – che viene subito considerata un
leading case in tema di abuso del diritto nel campo fiscale – la
Corte, dapprima afferma il principio generale che gli interes‑
sati non possono avvalersi fraudolentemente del diritto comu‑
nitario (poiché la normativa comunitaria non può essere
estesa sino a comprendere i comportamenti abusivi degli
operatori commerciali) e successivamente applica questo
principio “… anche al settore Iva …” ed aggiunge che si ha
abuso del diritto ogniqualvolta le operazioni pur realmente
volute hanno “… essenzialmente lo scopo di ottenere un van‑
taggio fiscale …”, e tutto questo deve “… risultare da un in‑
sieme di elementi obiettivi …” (Corte di Giustizia Ce, causa
C‑255/02 del 21.02.2006).
Sulla scorta di questa prima pronuncia del giudice comu‑
nitario in materia di IVA, la Corte di Cassazione torna ad
occuparsi di elusione fiscale, muta il proprio iter argomenta‑
tivo e censura alcune operazioni negoziali (a suo dire in odor
di elusione) richiamando il principio di matrice comunitaria
dell’abuso del diritto (cfr. Cass., 29.03.2006 n. 21221). Dun‑
que non più rinvio ad istituti di matrice civilistica nazionale
ma diretto richiamo ai principi comunitari che, come tali,
sono direttamente applicabili o d’ufficio in forza del criterio
di effettività oppure come jus superveniens.
La Corte afferma altresì che “… la presenza di scopi eco‑
2 0 1 3
119
nomici (oltre al risparmio fiscale) non esclude l’applicazione
del principio che deve essere inteso come un vero e proprio
canone interpretativo del sistema … L’operazione deve essere
valutata secondo la sua essenza, sulla quale non possono in‑
fluire ragioni economiche meramente marginali o teoriche
tali da considerarsi manifestamente inattendibili o assoluta‑
mente irrilevanti rispetto alla finalità di conseguire un rispar‑
mio di imposta”.
Il travaso che i giudici di legittimità compiono, relativa‑
mente all’abuso di diritto, dall’ambito comunitario a quello
interno è stato molto criticato da parte della dottrina.
Invero, la prima e più incisiva critica sottolinea che il
principio dell’abuso del diritto matura nell’ambito dell’impo‑
sta sul valore aggiunto che è tributo oggetto di armonizzazio‑
ne comunitaria (per cui il giudice nazionale deve conformar‑
si agli standars europei di qualunque natura essi siano)
mentre le imposte sui redditi (non armonizzate) hanno matri‑
ce interna e quindi non vi può essere applicazione di principi
comunitari che taglino trasversalmente tributi diversi fondati
su caratteristiche eterogenee.
Tale principio è stato ribadito anche più volte dalla stessa
giurisprudenza comunitaria da ultima si ricorda la sentenza
della Corte di Giustizia del 29 marzo 2012, causa C‑417/10
che al punto 32 ha quindi risposto che “… è giocoforza con‑
statare che nel diritto dell’Unione non esiste alcun principio
generale dal quale discenda un obbligo per gli Stati membri
di lottare contro le pratiche abusive nel settore della fiscalità
diretta e che osti all’applicazione di una disposizione come
quella di cui trattasi nel procedimento principale, qualora
l’operazione imponibile derivi da pratiche siffatte e non sia in
discussione il diritto dell’Unione”.
La Corte significativamente ha escluso anche l’esistenza
di un principio generale di diritto comunitario dal quale di‑
scenda per gli Stati membri l’obbligo di “lottare contro le
pratiche abusive nel settore della fiscalità diretta”.
In questo modo, ha ribadito l’assenza nel diritto comuni‑
tario di una norma e di un principio che imponga agli Stati
membri di lottare contro le pratiche abusive nel settore della
fiscalità diretta, e ha così implicitamente riconosciuto che
questo settore appartiene alla competenza dei singoli Stati
allorché le norme interne non creino interferenze con il dirit‑
to dell’Unione, da cui risultano restrizioni alle libertà garan‑
tite dal Trattato.
Finché, dunque, le norme interne producono effetti solo
sul piano della fiscalità diretta (e non armonizzata), gli effet‑
ti dei comportamenti vanno disciplinati esclusivamente dalle
norme interne, sicché il diritto comunitario non c’entra. A
contrario può rilevarsi che allorché la norma interna produce
effetti sul piano delle imposte armonizzate, la disciplina ap‑
plicabile è quella che deriva dal diritto comunitario e dalla
ricostruzione ed interpretazione che di esso ha fatto la Corte
di Giustizia.
Sembra di capire che la Corte di Giustizia ritiene che ogni
Stato membro – in relazione alle norme sulle imposte non
armonizzate, e fino a che esse non coinvolgano norme del
diritto dell’Unione – è autonomo e sovrano nella scelta di
lottare o meno “contro le pratiche abusive nel settore della
fiscalità diretta”.
I dubbi sollevati dalla dottrina hanno finito di avere ra‑
gione infatti oggi la Cassazione (sent.19 maggio 2010,
tributario
Gazzetta
120
d i r i t t o
n.12249) statuisce che la clausola antielusiva di matrice co‑
munitaria si applica solo all’Iva e ai tributi armonizzati.
Ulteriore evoluzione giurisprudenziale si è avuta con due
ordinanze del 2006 con le quali la Corte di Cassazione ha
investito del problema le Sezioni Unite ed ha sollevato una
rilevante questione sistematica alla Corte di Giustizia. In
particolare, con la prima la Suprema Corte, prendendo atto
della situazione di incertezza, ha lodevolmente rimesso gli
atti alle Sezioni Unite, ritenendo necessario l’esame di “que‑
stioni di diritto involgenti massime di particolare importanza”
ai sensi del comma 2 dell’art. 314 del Cod. Proc. Civ..
Con la seconda, invece, poiché si è ritenuto “che siano ne‑
cessari alcuni chiarimenti al fine di consentire una rigorosa
applicazione del principio enunciato dalla sentenza Halifax”,
è stato formulato un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia
allo scopo di chiarire se “la nozione di abuso del diritto o di
forme giuridiche, definita dalla sentenze della Corte di Giusti‑
zia in causa C‑255/02 come «operazione essenzialmente com‑
piuta al fine di conseguire un vantaggio fiscale» sia coinciden‑
te, più ampia o più restrittiva di quella di «operazione non
avente ragioni economiche diverse da un vantaggio fiscale»”.
Le indicazioni della Corte di Giustizia sono arrivate con
la nota sentenza del 21 febbraio 2008, Causa C‑ 425/06 (co‑
siddetta Part Service), riferita al sistema dell’I.V.A., che ha
chiarito i connotati strutturali del principio di abuso del di‑
ritto, affermando che affinché una operazione possa conside‑
rarsi abusiva deve essere verificato
a) se il risultato perseguito sia un vantaggio fiscale la cui
concessione sarebbe contraria ad uno o più obiettivi delle
direttive in materia
b) e se esso fosse lo scopo essenziale della soluzione con‑
trattuale prescelta.
Le linee guida tracciate dai giudici comunitari se, da una
parte, permettono di meglio individuare alcuni aspetti del
principio dell’abuso del diritto in campo fiscale, dall’altra,
pongono qualche interrogativo.
Il collegamento tra “il vantaggio fiscale” e “l’obiettivo
della direttiva” consente di cogliere un aspetto che può essere
utile per distinguere tra lecita pianificazione fiscale (tesa alla
minimizzazione degli oneri tributari) ed elusione fiscale. E
quando la Corte chiede di verificare che il vantaggio fiscale
non urti contro gli obiettivi della direttiva attribuisce ad essa
il rango di criterio guida, in quanto un qualunque beneficio
in antitesi con essa può essere indicativo (seppur non decisivo)
della elusività di uno schema negoziale.
Peraltro, quando la Corte di Giustizia, precisa il secondo
requisito, non facilita l’analisi, posto che non è semplice ap‑
purare se uno o più negozi giuridici compiuti dal contribuen‑
te possano essere stati (o meno) articolati con lo “scopo es‑
senziale” di conseguire un risparmio tributario (mediante la
soluzione contrattuale adottata).
A seguito delle sopraindicate critiche avanzate da parte
della dottrina (e della sentenza Part Service che ha ribadito
l’applicabilità dell’abuso del diritto ai tributi armonizzati) la
giurisprudenza della Corte di Cassazione subisce una ulterio‑
re evoluzione.
Infatti, la Corte pur continuando a far riferimento all’abu‑
so del diritto comunitario, cerca di trovare un collegamento
a principi antiabuso all’interno del sistema normativo nazio‑
nale e lo rinviene in quello di capacità contributiva.
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
Le Sezioni Unite, infatti, relativamente a due eclatanti
fattispecie elusive hanno affermato che “… i principi di capa‑
cità contributiva (art. 53 Cost., comma 1) e di progressività
dell’imposizione (art. 53 Cost., comma 2) costituiscono il
fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di
quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di
qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme evidente‑
mente finalizzate alla più piena attuazione di quei principi.
Con la conseguenza che non può non ritenersi insito nell’ordi‑
namento, come diretta derivazione delle norme costituzionali,
il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebi‑
ti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastan‑
te con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici
idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni
economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione
(diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”, così
Cass., sez. un., 23.12.2008 n. 30055 e n. 30057).
Inoltre la Corte ha sottolineato che il principio di divieto
di abuso del diritto, quale principio generale non scritto vi‑
gente dell’ordinamento nazionale siccome informato agli
stessi principi di capacità contributiva e di progressività
dell’imposizione di cui all’art. 53 della Costituzione, non è
contrario all’altro principio della riserva di legge in materia
tributaria, di cui all’art. 23 della Costituzione (Cass., Sez.
trib., n. 1372 del 21 gennaio 2011), in quanto non si traduce
nell’imposizione di ulteriori obblighi a carico del contribuen‑
te, ma ha l’obiettivo di evitare gli effetti abusivi di negozi
posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di dispo‑
sizioni fiscali, con la diretta ulteriore conseguenza della sua
applicabilità anche in via retroattiva nei confronti di tutti i
contribuenti e per tutte le imposte.
Di diverso avviso è parte della dottrina che, invece, muo‑
vendo dalla differenza dei valori di riferimento tra l’ordina‑
mento giuridico comunitario e quello nazionale, rinviene
nella costruzione giurisprudenziale della nozione di divieto di
abuso del diritto così delineata una palese violazione proprio
dell’art. 23 della Costituzione. “Nell’ordinamento nazionale,
la materia fiscale, a differenza del diritto privato, civile o
commerciale, è avvolta dal principio della riserva (art. 23
Cost.), che non svolge una funzione ornamentale o decorativa
del sistema, ma lo plasma in modo da garantire ai soggetti
passivi non soltanto la democraticità delle scelte impositive
(non certamente demandabili al giudice), ma anche la certez‑
za (del diritto) nei rapporti con l’amministrazione finanziaria.
È un principio di civiltà giuridica”. Si deve sottolineare, tra
l’altro, che i soggetti passivi debbono essere posti nelle condi‑
zioni di conoscere ex ante il carico tributario delle operazioni
effettuate ed i rischi ai quali possono andare incontro a segui‑
to dei controlli che il Fisco ha il potere di attivare, “ma nel
procedere in tale direzione, i principi, da soli, non sono suffi‑
cienti e debbono, al contrario, essere positivamente iniettati
nel sistema attraverso disposizioni di contrasto” che rimuo‑
vano le forme giuridiche ritenute abusive, e con loro gli effet‑
ti da esse prodotti, non in via interpretativa “ma soltanto
attraverso una disposizione che tale rimozione consenta …”,
senza lasciare all’interprete “il ruolo di arbitro del bene e del
male, unico soggetto deputato a stabilire se i contratti stipu‑
lati siano o meno meritevoli di tutela”.
Ad una attenta analisi dell’evoluzione della giurispruden‑
za comunitaria e di quella nazionale si possono comprende‑
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
re – ponendo a raffronto le sentenze dell’una e dell’altra – le
ragioni per cui la Corte di cassazione (forse anche un po’
forzando la mano) abbia sentito il bisogno di ricercare all’in‑
terno del nostro sistema normativo un principio generale
antiabuso.
La Corte di Giustizia nella sentenza Kofoed (C. 321/05
del 5.7.2007) ha affermato che quando una Direttiva comu‑
nitaria prevede determinati effetti in relazione ad una certa
fattispecie, questi (gli effetti) in mancanza di un recepimento
della Direttiva da parte del legislatore nazionale non possono
esplicarsi o prodursi (nella specie si trattava di scambio tra
azioni tra società che per le modalità con cui avvenivano
potevano essere strumentalizzate in chiave elusiva). Tuttavia,
precisa la Corte Europea, anche in mancanza di un diretto
recepimento della norma comunitaria, quegli effetti possono
trovare cittadinanza ugualmente se all’interno dello Stato
membro vi è “un contesto normativo” che consenta la sua
applicazione un’interpretazione adeguatrice della normativa
nazionale alle finalità delle Direttive comunitarie.
È questa la ragione per cui la Corte di cassazione, succes‑
sivamente alla sentenza Kofoed, tornando sul problema
dell’elusione fiscale avverte la necessità di trovare dei principi
di carattere generale nel sistema normativo tributario interno
che vietino l’abuso del diritto (anche in materia di imposte sui
redditi).
È sintomatico, infatti, che le Sezioni Unite della Cassazio‑
ne abbiano tenuto a precisare “… che la fonte di tale principio,
in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette,
va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto
piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano
l’ordinamento tributario italiano” (Cass., sez. un., 23.12.2008
n. 30057).
A seguito di questa giurisprudenza delle Sezioni Unite
particolarmente rigida (visto che tali argomentazioni sono
state sollevate d’Ufficio in Cassazione) v’è stata una evoluzio‑
ne della Sezione Tributaria della stessa Cassazione (aperta con
la s. m. 1465 del 21.1.2009 e seguita dalle sentenze n. 22992
del 12 novembre 2010, dalla n.1372 del 21.1.2011 e dalla
n.3947 del 18 febbraio 2011) che appare più bilanciata.
Con tali pronunce che fanno seguito alla pronuncia della
Corte di giustizia (procedimento C‑102/09 del 22 dicembre
2010) con la quale il Giudice europeo ha precisato che l’ele‑
mento che caratterizza la condotta abusiva si individua nel
“… procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe
contraria all’obiettivo”. La stessa Corte di giustizia ha sotto‑
lineato che il soggetto passivo di imposta ha diritto ad effet‑
tuare quelle scelte economiche che gli consentano di persegui‑
re il fine sociale con un minor carico fiscale, la Suprema
Corte, dopo aver ribadito che l’esistenza nell’Ordinamento
tributario italiano di un generale principio antielusivo la cui
fonte, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte
dirette, trae origine non dalla giurisprudenza comunitaria,
ma dagli stessi principi costituzionali in tema di capacità
contributiva e progressività dell’imposta, di cui all’art. 53
Cost. – ha ritenuto che:
1.occorre accertare se una determinata operazione rientri
o meno in una normale logica di mercato il cui carattere elu‑
sivo deve essere escluso “per una compresenza non margina‑
le di ragioni extrafiscali che non si identificano necessaria‑
mente in una redditività immediata dell’operazione, ma pos‑
2 0 1 3
121
sono essere anche di natura meramente organizzativa e con‑
sistenti in un miglioramento strutturale e funzionale dell’im‑
presa” (sentenza n. 1372); 2. per censurare un’operazione
(sotto il profilo dell’elusione) l’Amministrazione finanziaria
ha l’onere di dimostrare che l’operazione realizzata da un’im‑
presa appare economicamente irrazionale (sentenza
n. 3947).
Le riprodotte enunciazioni di principio rappresentano
indubbiamente una significativa “apertura” alla rilevanza
fiscale delle operazioni realizzate dagli operatori economici.
Alla luce di questa giurisprudenza una operazione econo‑
mica, vista nel suo complesso, può lecitamente perseguire
diversi obiettivi di natura commerciale, finanziaria, contabi‑
le ed anche di vantaggio fiscale, integrando gli estremi del
comportamento abusivo solo qualora e nella misura in cui
tale vantaggio si ponga come elemento predominante ed as‑
sorbente dell’intera operazione (tenuto conto sia della volontà
delle parti che del contesto fattuale e giuridico in cui la stessa
viene posta in essere) e con la conseguenza che il divieto di
comportamenti abusivi non vale più ove gli accordi economi‑
ci possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimen‑
to di risparmi di imposta.
La Cassazione ha inoltre precisato che è onere dell’Ammi‑
nistrazione finanziaria, non solo prospettare il disegno elusi‑
vo a sostegno degli accertamenti, ma anche le supposte mo‑
dalità di manipolazione o di alterazione di schemi classici
ritenute come irragionevoli in una normale logica di mercato,
se non per pervenire a quel risultato di vantaggio fiscale (ul‑
tima Ord. Cass. N.21390, 30 novembre 2012), e che grava sul
contribuente la prova dell’esistenza di valide ragione econo‑
miche alternative o concorrenti (al vantaggio fiscale) di reale
spessore che giustifichino operazioni così strutturate.
Dunque, in ipotesi di abuso del diritto, si assiste ad una
strumentalizzazione di norme, ad una modalità di aggiramen‑
to della legge tributaria utilizzata per scopi non propri con
forme e modelli ammessi dall’ordinamento giuridico (opera‑
zioni reali, assolutamente conformi agli schemi legali, senza
immutazioni del vero o rappresentazioni incomplete della
realtà): il proprium del comportamento abusivo è la validità
degli atti compiuti (Cass., sent. n. 21221/2006).
Pertanto, la “regola aurea” è quella secondo cui non è
lecito risparmiare tributi strumentalizzando le norme in mo‑
do contrario ai loro scopi (in assenza di valide ragioni econo‑
miche), e non quella, emergente da alcune sentenze della Su‑
prema Corte, secondo cui integrerebbe l’abuso ogni compor‑
tamento produttivo di un risparmio di imposta privo di vali‑
de ragioni economiche (Cass., sent. n. 20030 del 22 settembre
2010). La scelta da parte del contribuente tra due alternative
che in modo strutturale e fisiologico l’ordinamento gli mette
a disposizione non potrà essere considerata un “aggiramento”
di norme posto che questi, quale soggetto passivo, “ha il di‑
ritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli
permetta di limitare la contribuzione fiscale”. L’esistenza di
un comportamento abusivo potrà essere rilevata solo quando
l’abuso della libertà di scelta dia luogo a manipolazioni e
stratagemmi che – formalmente legali – di fatto stravolgono i
principi informatori del sistema fiscale.
Viene superata la tradizionale bipartizione dei comporta‑
menti dei contribuenti in fisiologici (osservanti della norma)
e patologici (violativi della norma, quali i casi di evasione/
tributario
Gazzetta
122
d i r i t t o
frode fiscale) con l’introduzione di un tertium genus, rappre‑
sentato dal comportamento abusivo (ed elusivo) del contri‑
buente, volto a conseguire il solo risultato del beneficio fisca‑
le, senza una reale ed autonoma ragione economica giustifi‑
catrice delle operazioni che risultano eseguite in forma solo
apparentemente corretta ma, in realtà, sostanzialmente abu‑
siva ed elusiva
È stata quindi introdotta, in via giurisprudenziale, una
clausola antielusiva generale: essa è di derivazione comunita‑
ria, e discende dalla sentenza Halifax, per quanto attiene ai
c.d. tributi armonizzati (iva, accise e dazi doganali), mentre
invece è di origine costituzionale, come affermato dalle Sezio‑
ni Unite del 2008, per i tributi rientranti nella competenza
degli ordinamenti nazionali, come le imposte dirette.
Questo quindi l’orientamento giurisprudenziale. Resta
aperto il problema dell’elusione fiscale che appare ben lungi
dall’essere risolto.
Proprio sull’origine costituzionale è un recente orienta‑
mento della Cassazione che arriva a considerare l’applicazio‑
ne retroattiva dell’abuso del diritto (Cass., sez. trib., 16 feb‑
braio 2012, n. 2193).
Nel caso esaminato, un contribuente, in un ricorso alla
Corte di Cassazione, aveva denunciato la violazione e la falsa
applicazione dell’art. 37‑bis del d.P.R. n. 600 del 1973 nonché
degli artt. 3 e 6 del d.lgs. n. 143 del 2005, lamentando che,
nell’affermare il carattere elusivo, (ai sensi del citato art. 37‑bis,
lett. f. ter), del riconoscimento, nel 1999, di un parte degli
interessi in favore dei soci, la Commissione tributaria regio‑
nale non aveva considerato che tale disposizione è entrata in
vigore nel 2005, e si applica agli interessi e canoni maturati a
decorrere dal gennaio 2004. Soggiungeva che la disciplina
generale in tema di inopponibilità all’amministrazione finan‑
ziaria delle condotte elusive è condizionata all’effettiva ricor‑
renza delle operazioni menzionate al terzo comma, della
stessa norma, disposizione che, all’epoca della pattuizione
sottoposta a verifica, non contemplava l’ipotesi del pagamen‑
to di interessi in uno stato dell’Unione europea e concludeva,
quindi, che la disciplina antielusiva di cui all’art. 37‑bis, (lett.
f‑ter), era inapplicabile nella specie, in quanto sia il finanzia‑
mento, in suo favore, da parte di soci sia il riconoscimento
degli interessi, in loro favore, erano interamente avvenuti
prima dell’entrata in vigore della norma stessa.
La Corte di Cassazione, con una recente sentenza, ha ri‑
gettato tale doglianza pur ritenendo di dovere correggere e
integrare la motivazione. “La sentenza impugnata – vi si
legge – ha ritenuto elusivo il riconoscimento di una parte di
interessi nel periodo 1999‑2000 in favore dei soci finanziato‑
ri residenti in USA, riferendosi all’art. 37‑bis, n. 3 lett. f‑ter),
del d.P.R.. n. 600/1973, norma che, in effetti, è stata intro‑
dotta dall’art. 1, comma 1, lett. d) del d.lgs. n. 143/2005, con
decorrenza dal gennaio 2004 (art. 3 del d.lgs. n. 143/2005,
cit.) Ciò non esclude, però, il potere dell’Amministrazione di
contestare la deducibilità della componente passiva esposta
dalla contribuente, ritenendola inopponibile, in forza del ge‑
nerale principio antielusivo, immanente nell’ordinamento, e
la cui fonte va rinvenuta nei principi di capacità contributiva
e di progressività dell’imposizione, di cui all’art. 53, com‑
ma primo e secondo, Cost. Secondo l’orientamento, ormai
consolidato di questa Corte (Cass. sez. n. 30055 del 2008,
Cass. 4737 del 2010, n. 11236 del 2011), deve infatti ritener‑
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
si presente nell’ordinamento, come diretta derivazione delle
menzionate norme costituzionali, il principio secondo cui il
contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’uti‑
lizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica
disposizione di strumenti giuridici idonei ad ottenere un ri‑
sparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprez‑
zabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera
aspettativa di quel risparmio fiscale. La circostanza che siano
disciplinate specifiche norme antielusive non contrasta con
l’individuazione nell’ordinamento del cennato principio antie‑
lusione, ma, anzi, conferma l’esistenza di una regola generale,
in tal senso; per converso, l’espressa previsione di inopponi‑
bilità all’amministrazione finanziaria di una data operazione
mediante disposizioni emesse in epoca successiva al suo com‑
pimento – come nella specie, trattandosi di pagamento di
interessi a soggetti non residenti in uno Stato dell’Unione
europea – è circostanza idonea ad offrire indiretta conferma
dell’illiceità fiscale dell’operazione stessa (in tal senso, cfr.
Cass. SS.UU. n. 30055 del 2008, cit. in tema di dividend
washing)”.
In altre parole, secondo il supremo Collegio è irrilevante
che il comportamento antielusivo sia stato posto in essere
prima della previsione di tale comportamento tra le fattispecie
elusive individuate dall’art. 37‑bis del d.P.R. n. 600 del 1973
e ciò in forza della vigenza di un principio generale antielusi‑
vo immanente nell’ordinamento e la cui fonte deve essere
rinvenuta nei principi di capacità contributiva e di progressi‑
vità dell’imposizione di cui all’art. 53, e comma, della Costi‑
tuzione.
Tanto drastica conclusione comporta che, essendo l’art. 53
della costituzione entrato in vigore il gennaio 1948 (come
tutta la Costituzione), dalla stessa data aleggerebbe sull’ordi‑
namento tributario e sarebbe immanente ad esso la clausola
antiabuso. Affermazione che non può non stupire i più anzia‑
ni e i più modesti applicati allo studio dei tributi i quali ricor‑
dano gli sforzi che, negli anni “60”, dovettero essere fatti per
togliere l’art. 53 Cost. della Costituzione dal limbo delle nor‑
me programmatiche nel quale l’avevano relegato i primi
commentatori.
Grande era stato l’impegno per inserire nella Costituzio‑
ne il principio di capacità contributiva da parte di chi, da
anni, e in anni difficilissimi, aveva negato che “il potere di
supremazia basti a spiegare il tributo”, ne aveva contestato la
supposta “odiosità” ma aveva anche sentita viva l’esigenza di
non abbandonare il singolo all’indiscriminato esercizio del
potere di imposizione (2). anche ad ammettere l’operatività
nel nostro ordinamento tributario, di un principio antielusivo
(dedotto dall’art. 53 Cost.) esso, nella sua applicazione retro‑
attiva, si scontrerebbe non solo con lo stesso art. 53 ma anche
con un altro principio generale (questo sì previsto da una
legge, lo Statuto) per il quale “le disposizioni tributarie non
hanno effetto retroattivo”. Chiara è la matrice del precetto
statutario ove si ricordi che “l’irretroattività costituisce un
principio generale del nostro ordinamento (art. 11 preleggi)
che, se pur non elevato, fuori della materia penale, a dignità
costituzionale (art. 25, comma Cost.) rappresenta, pur sempre
una regola essenziale del sistema, a cui, salva una effettiva
causa giustificatrice, il legislatore deve ragionevolmente atte‑
nersi, in quanto la certezza dei rapporti preteriti costituisce
un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquil‑
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
lità dei cittadini”(Corte cost. 4 aprile 1990, n. 155).
Costituendo l’irretroattività una regola essenziale del si‑
stema (e non solo del sistema fiscale), la giurisprudenza del
Supremo Collegio insegna che “proprio perché alle specifiche
clausole rafforzative di autoqualificazione dello Statuto deve
essere attribuito un preciso valore normativo e interpretativo”
“ogni qualvolta una normativa fiscale sia suscettibile di una
duplice interpretazione, una che ne comporti la retroattività
e una che la escluda, l’interprete dovrà dare preferenza a
questa seconda interpretazione come conforme ai criteri ge‑
nerali introdotti con lo Statuto del contribuente e attraverso
di essi ai valori costituzionali intesi in senso ampio e interpre‑
tati direttamente dallo stesso legislatore attraverso lo Statuto”
(Cass. sez. trib., 12 febbraio 2002, n. 17576). Conclusione che
trova ulteriore conferma in una ancora più lata e profonda
lettura dello Statuto.
Proprio il Supremo Collegio ha ripetutamente sottolinea‑
to che “l’art. 3 dello Statuto del contribuente sul divieto di
retroattività delle normative fiscali si inquadra all’interno di
un principio più generale di correttezza e di buona fede cui
devono essere improntati i rapporti tra amministrazione e
contribuente e che trova espressione non solo nell’art. 10 che
ha per oggetto la tutela dell’affidamento e della buona fede,
ma anche in una serie di altre norme dello Statuto, vale a dire
nell’art. 6 sulla conoscenza e la semplificazione degli atti,
nell’art. 7 sulla chiarezza e motivazione degli atti stessi,
nell’art. 5 sull’informazione e sulla trasparenza delle disposi‑
zioni tributarie” (Cass., sez. trib., 30 marzo 2001, n. 4760).
L’esame complessivo di queste disposizioni, è ancora l’in‑
segnamento del Supremo Collegio, chiarisce che la correttez‑
za e la buona fede, nei confronti del contribuente, debbono
essere osservate non solo dall’amministrazione finanziaria in
fase applicativa, ma anche dallo stesso legislatore tributario
all’atto della emanazione delle fonti normative, come emerge
in particolare dall’art. 2 che detta i criteri di chiarezza e di
trasparenza che debbono essere osservati nelle disposizioni
tributarie e dello stesso art. 3 sul divieto di attribuire ad esse
efficacia retroattiva” (Cass. sez. trib., 14 aprile 2004,
n. 7080).
Quindi, sotto la vigenza dello Statuto del contribuente e
dei principi generali da esso previsti e sanciti, “deve sempre
essere privilegiata, ogni qual volta sia possibile, come lo è nel
caso in esame, una interpretazione delle norme tributa‑
rie – anche se preesistenti (allo Statuto) e anche se da applica‑
re a fattispecie verificatesi antecedentemente – che sia confor‑
me ai principi di correttezza e di buona fede che debbono
essere osservati reciprocamente da entrambe le parti nei rap‑
porti tra fisco e contribuente” (Cass., sez. trib., 14 aprile 2004,
n. 7080).
Conclusione che trova conferma autorevole, ancora una
volta, nell’insegnamento del giudice delle leggi.
E invero questi, nel ribadire che “il divieto di irretroatti‑
vità della legge costituisce fondamentale valore di civiltà
giuridica e principio generale dell’ordinamento cui il legisla‑
tore deve, in linea di principio, attenersi” ha anche aggiunto:
“Il legislatore ordinario può, quindi, nel rispetto di tale limi‑
te, emanare norme retroattive purché esse trovino adeguata
giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si ponga‑
no in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente
protetti così da incidere arbitrariamente sulle situazioni so‑
2 0 1 3
123
stanziali poste in essere da leggi precedenti” (Corte cost. 13
ottobre 2000, n. 419).
Tra questi (e cioè tra gli interessi costituzionalmente ga‑
rantiti), soggiunge la stessa Corte costituzionale, va annove‑
rato “l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica che,
quale essenziale elemento dello Stato di diritto, non può esse‑
re leso da disposizioni retroattive, le quali trasmodino in un
regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate su
leggi precedenti” (Corte cost., 4 novembre 1999, n. 416).
Orbene, se quelli esposti sono gli autorevoli, concordi
insegnamenti della Corte costituzionale e della Corte di Cas‑
sazione, facile è trarre la conclusione, e cioè che l’applicazione
retroattiva di un principio generale, formulato dalla giurispru‑
denza nel 2008, viola l’affidamento del cittadino nella sicu‑
rezza giuridica.
Per decenni, infatti, era stato tenuto per fermo l’insegna‑
mento che una clausola generale antielusiva nel nostro ordi‑
namento non esisteva, e tale principio il Supremo collegio
confermava ancora nel 2002.
Successivamente è emersa una indicazione che il principio
antiabuso era fondato su un principio generale comunitario,
ma tale generale indicazione è stata subito ridimensionata nel
senso che esso si applica ai tributi “armonizzati”. Solo nel
2008 la comunità nazionale, gli operatori, gli studiosi, gli
scrittori di manuali di diritto tributario hanno appreso che
anche per i tributi non armonizzati v’è un generale divieto di
elusione fondato sull’art. 53 Cost. che nessuno, salvo qualche
isolato autore (subito sommerso da un mare di note critiche),
aveva mai immaginato si potesse enucleare. Il che ovviamen‑
te non significa che il progresso non possa essere affidato a
pensatori solitari e alle conseguenti riflessioni, ma significa
solo che “le invenzioni”, anche le migliori non possono trova‑
re applicazione per il passato: la luce (elettrica) la si accende
dopo la sua invenzione, non prima. Non a caso, allorquando
la giurisprudenza comunitaria ha statuito che il principio del
contraddittorio si applica a tutti i procedimenti tributari, la
giurisprudenza italiana ha negato l’applicazione generalizzata
del principio del contraddittorio agli accertamenti già emana‑
ti quando tale necessità derivi da sentenze della Corte di
giustizia UE, fondate su principi generali e si tratti di giuri‑
sprudenza innovativa.
Così la Corte di Cassazione (Cass. sez. trib., 9 aprile 2010,
n. 8481) ha espresso l’avviso che non è possibile l’applicazio‑
ne dell’interpretazione recata nella sentenza Soprope della
Corte UE agli accertamenti già emanati, perché sarebbe irra‑
gionevolmente sorpreso l’affidamento della Amministrazione
sulla non necessità del contraddittorio visto che esso non era
previsto in materia doganale da alcuna disposizione espressa
applicabile in Italia, ma deriva dal principio comunitario del
giusto procedimento. Allora coerenza vuole che, per rispetta‑
re l’affidamento (questa volta a favore del contribuente), non
possa applicarsi un principio generale antielusivo formulato
nel 2008 a una ipotesi verificatasi negli anni antecedenti.
Questo quindi l’orientamento giurisprudenziale. Resta
aperto il problema dell’evasione fiscale che appare ben lungi
dall’essere risolto.
Le affermazioni secondo cui è necessario individuare un
giusto bilanciamento tra pianificazione fiscale eccessivamen‑
te aggressiva e libertà di scelta delle forme giuridiche se, da
una parte, appaiono del tutto corrette risultano, dall’altra,
tributario
Gazzetta
124
d i r i t t o
eccessivamente astratte e ben lungi, comunque, dal risolvere
l’ormai risalente problema in parola.
E tale problematica non può certamente essere risolta
dalla giurisprudenza atteso che l’orientamento della Cassa‑
zione ha registrato, specialmente nell’ultimo triennio, signifi‑
cative divergenze.
Uno dei problemi che si pone per una adeguata soluzione
è quindi quello relativo alle scelte effettuate dall’impresa che,
a parere dell’Amministrazione finanziaria, potrebbero risul‑
tare elusive solo perché dalla loro realizzazione deriva un
(qualunque) vantaggio fiscale.
L’interferenza da parte degli uffici periferici dell’Ammini‑
strazione finanziaria nelle scelte gestionali potrebbe infatti
condizionare l’imprenditore nelle sue politiche aziendali con
negativi riflessi sui risultati economici. Tale “potere” equivar‑
rebbe, peraltro, a riconoscere all’amministrazione medesima
un illegittimo potere gestionale proprio dell’imprenditore li‑
mitando, conseguentemente, l’iniziativa economica costitu‑
zionalmente protetta (vedi art. 41 Cost.).
E ciò si verificherebbe, con ogni probabilità, se l’impresa
dovesse sostituire “politiche” meramente fiscali a quelle azien‑
dali; scelte condizionate dal timore di instaurare con l’Ammi‑
nistrazione finanziaria un contenzioso tributario dall’incerto
esito. È quindi evidente che se prevalesse la tesi della sindaca‑
bilità sulle scelte imprenditoriali ne deriverebbero decisive
implicazioni su numerosi settori della fiscalità che riserbereb‑
bero i loro effetti su delicate questioni di diritto. Entrare nel
merito delle scelte imprenditoriali, disconoscendo i benefici
tributari conseguenti ad operazioni giuridico‑economiche
significherebbe indurre l’impresa a modificare i programmi
aziendali con possibile (se non addirittura inevitabile) danno
alla gestione dell’impresa e conseguente impoverimento del
patrimonio sociale.
D’altra parte è innegabile che una eccessiva libertà nelle
scelte imprenditoriali potrebbe generare dei veri e propri
“salti di imposta” giustificati da argomentazioni che nulla
avrebbero a che vedere con una efficiente gestione imprendi‑
toriale. Ed è innegabile che detti indebiti risparmi d’imposta
conseguiti per effetto di una eccessiva libertà d’impresa vio‑
lerebbero il richiamato art. 41, comma, Cost.
4. Le garanzie procedimentali contenute nell’art. 37‑bis del d.P.R.
n. 600 del 1973.
L’aspetto che pare interrompere l’armonia di questo siste‑
ma è rappresentato dalla permanenza, nell’ordinamento ita‑
liano, dell’art. 37‑bis del d.P.R. n. 600 del 1973.
Tale disposizione prevede una serie di garanzie procedi‑
mentali per l’accertamento delle operazioni rientranti nell’elen‑
co del comma.
Innanzitutto l’Ufficio, in tutti i casi in cui intenda conte‑
stare l’elusività di tali operazioni, ha l’obbligo di instaurare
un contraddittorio anticipato con il contribuente, pena la
nullità dell’avviso di accertamento emesso (comma L’avviso
di accertamento è emanato, a pena di nullità, previa richiesta
al contribuente anche per lettera raccomandata, di chiarimen‑
ti da inviare per iscritto entro 60 giorni dalla data di ricezio‑
ne della richiesta nella quale devono essere indicati i motivi
per cui si reputano applicabili i commi 1 e 2.); ciò si riflette
anche in un più stringente obbligo di motivazione dell’avviso
emanato, che, sempre a pena di nullità, deve dar conto delle
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
giustificazioni addotte dal contribuente nel contraddittorio
(comma Fermo restando quanto disposto dall’articolo 42,
l’avviso d’accertamento deve essere specificamente motivato,
a pena di nullità, in relazione alle giustificazioni fornite dal
contribuente e le imposte o le maggiori imposte devono esse‑
re calcolate tenendo conto di quanto previsto al comma 2.);
infine, l’iscrizione a ruolo della maggiore imposta può avve‑
nire solo in seguito alla sentenza di primo grado (comma Le
imposte o le maggiori imposte accertate in applicazione delle
disposizioni di cui al comma 2 sono iscritte a ruolo, secondo
i criteri di cui all’art. 68 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546,
concernente il pagamento dei tributi e delle sanzioni pecunia‑
rie in pendenza di giudizio, unitamente ai relativi interessi,
dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale.).
4.1. Il regime nei casi di abuso del diritto: assenza di garanzie e rilevabilità d’ufficio.
L’applicazione dell’abuso del diritto non è invece accom‑
pagnata da alcuna tutela: pertanto, gli avvisi di accertamento
che, in applicazione di tale principio, attribuiscano natura
elusiva ad un’operazione, sono legittimi anche in assenza di
un preventivo dialogo con il contribuente (di cui, conseguen‑
temente, non si troverà traccia nella motivazione dell’atto). Ed
anche la fase della riscossione torna ad assumere le modalità
tradizionali, con la possibilità di iscrizione a ruolo della mag‑
giore imposta già in pendenza del primo grado di giudizio.
Non solo. Il rango comunitario e costituzionale del prin‑
cipio in esame comporta che il giudice tributario possa rile‑
vare d’ufficio l’abuso del diritto pur in mancanza di una
specifica contestazione in tal senso da parte dell’Amministra‑
zione, ed anche per la prima volta nel giudizio di cassazione
(da ultimo ribadito nella sentenza n.7393 del maggio 2012;
sentenza n.1749 dell’ottobre 2012).
L’impostazione della Cassazione ha raccolto molte criti‑
che. La rilevabilità d’ufficio della nullità è infatti strettamen‑
te limitata dalla giurisprudenza civilistica della Cassazione:
per il rispetto del principio della domanda, è rilevabile la
nullità «solo se sia in contestazione l’applicazione o l’esecu‑
zione di un atto la cui validità rappresenti un elemento costi‑
tutivo della domanda». Non è quindi rilevabile d’ufficio la
nullità se la domanda è tesa a far rilevare un altro tipo di in‑
validità del contratto o a far pronunciare la risoluzione per
inadempimento.
In dottrina si è quindi criticata la tesi della Cassazione per
l’assenza di fondamento: il negozio che si ritiene elusivo non
elemento costitutivo di una domanda di adempimento.
Queste critiche sono condivisibili.
Il rilievo d’ufficio dell’abuso si ha in casi in cui l’Ammini‑
strazione muove al contribuente contestazioni diverse dall’abu‑
so: per esempio, il difetto di inerenza di talune spese. Secondo
la Cassazione, in questi frangenti, il contratto sarebbe elemen‑
to costitutivo della domanda del contribuente.
La tesi costituisce una forzatura inaccettabile, per diversi
motivi che si elencano. (a) Suggerisce che il contribuente stia
domandando l’adempimento all’Amministrazione (o il con‑
trario), mentre in realtà l’Amministrazione è un terzo che
subisce gli effetti di un contratto efficace tra i contraenti. (b)
Implica che il contratto sia dedotto dal contribuente, mentre
è l’Amministrazione a considerare l’effetto fiscale del contrat‑
to e a rettificare l’imposta dovuta; tanto che il contribuente
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
potrebbe limitarsi a mere difese in diritto attinenti il motivo
originariamente sotteso al provvedimento (p.e. la sussistenza
dell’inerenza dei costi), senza ampliare la quaestio facti. Stra‑
volge la posizione sistematica dell’attore sostanziale nel pro‑
cesso tributario e della causa petendi del contribuente. (d)
Nasconde, sotto il manto del rilievo d’ufficio, una sostanzia‑
le sostituzione giudiziale della motivazione adotta dall’Uffi‑
cio, se non addirittura una sostituzione proprio della decisio‑
ne amministrativa.
Inoltre, la giurisprudenza che si sta criticando si dimostra
in netto contrasto con altra, e più controllata giurisprudenza
della Sezione tributaria, che ‑fuori dall’ambito dell’abuso‑ ri‑
tiene che la nullità del negozio su cui si appunta la rettifica
dell’Ufficio non possa essere rilevata d’ufficio, perché «non
incide sul giudizio tributario».
In ogni caso, va rilevata la necessità di evitare decisioni «a
sorpresa»: se il giudice volesse rilevare ex officio l’abuso del
diritto, dovrebbe comunque concedere alle parti il contrad‑
dittorio, il che nel processo tributario si traduce in un rinvio
dell’udienza di discussione, con termine per la presentazione
di memorie.
Questa eccezione al carattere dispositivo del processo
tributario ha rilevanti implicazioni sul diritto di difesa: il
contribuente, che resta esposto fino al terzo grado di giudizio
ad una riqualificazione della transazione in termini di abuso
del diritto, potrebbe vedere così frustrata la strategia difensi‑
va adottata nelle fasi precedenti del processo.
In altre parole, al di là delle conseguenze sull’obbligo di
motivazione dell’avviso e sulla fase esecutiva, è sensibile la
distanza tra i due regimi: ai sensi dell’art. 37‑bis del d.P.R.
n. 600 del 1973, il contribuente è messo in condizione di
contrastare la ricostruzione dell’Amministrazione finanziaria
ancor prima che questa emani l’avviso di accertamento, pena
la nullità dell’atto stesso; con l’abuso del diritto, lo stesso
contribuente potrebbe subire una riqualificazione dell’opera‑
zione anche ad opera del giudice, ed anche solo in sede di
giudizio di legittimità.
A tal punto parte della dottrina aveva prospettato un
estensione dell’art.37 bis a tutto il sistema tributario in caso
di abuso del diritto.
Questa estensione è stata giustificata adoperando due
argomenti differenti:
(a) il principio di coerenza ordinamentale;
(b) l’applicabilità generale del contraddittorio procedimen‑
tale nell’accertamento.
Sulla scorta del primo argomento, si sostiene che ragioni
di coerenza e di eguaglianza di trattamento militano a favo‑
re dell’applicazione del medesimo procedimento (di cui
all’art. 37‑bis) sia a coloro che realizzano le fattispecie spe‑
cificamente elencate dalla norma, sia a coloro cui viene im‑
putato un comportamento abusivo al di fuori delle fattispecie
nominate. Se l’art. 37‑bis ha cristallizzato nel tempo le fatti‑
specie di maggior pericolo per l’ordinamento, è irragionevo‑
le garantire a chi le realizza una miglior tutela procedimen‑
tale e lasciare, per converso, scoperto chi realizza fattispecie
diverse. Utilizzando il secondo argomento, si è invece soste‑
nuto che, comunque, l’obbligo di un contraddittorio proce‑
dimentale andrebbe ritenuto vigente nel nostro sistema, come
sancito anche da talune decisioni della Corte di cassazione e
della Corte di giustizia: ne deriverebbe l’obbligatorietà del
2 0 1 3
125
contraddittorio in ogni fattispecie di rettifica fondata
sull’abuso.
Le tesi garantiste meritano qualche chiosa.
Ritenere necessario un contraddittorio generico nel corso
del procedimento di rettifica è ben diverso dal ritenere appli‑
cabile proprio il procedimento di cui all’art. 37‑bis.
Esistono molti modi per attuare il contraddittorio proce‑
dimentale, se con tale espressione intendiamo una fase dialo‑
gica, in cui il contribuente ha modo di presentare le proprie
osservazioni prima dell’emanazione dell’atto impositivo.
L’art. 37‑bis costituisce una di queste esplicazioni del
contraddittorio e, di per sé, questa disposizione non è dotata
di alcun particolare valore, espressione di principi sistematici,
di rango costituzionale o meno.
Ciò premesso, sembra che in buona parte delle fattispecie
rilevanti ai fini dell’abuso un contraddittorio sia comunque
concesso al contribuente.
Una rettifica in cui si contesti un’operazione abusiva segue
un controllo sostanziale, che, normalmente, si conclude con
un processo verbale di chiusura delle operazioni. Ex art. 12
c. 7 l. 212‑2000, il contribuente può, entro sessanta giorni
dalla notifica del verbale, presentare osservazioni e l’avviso di
accertamento non può essere emanato prima del decorso di
tale termine e della (facoltativa) presentazione di osservazioni.
Anche questa può essere ragionevolmente considerata un’at‑
tuazione del contraddittorio procedimentale, in particolare se
la facoltà di proporre osservazioni viene congiunta alla inva‑
lidità della motivazione che non dia conto dei motivi per i
quali le osservazioni presentate dal contribuente sono da ri‑
gettare.
In genere, allora, un contraddittorio in materia di abuso
viene garantito al contribuente e non si può dire che sussista
né una disparità di trattamento (tra chi fruisce del procedi‑
mento di cui all’art. 37‑bis e chi ne è fuori dal campo di ap‑
plicazione), né una diminuzione di tutela in assoluto.
Una reale lacuna di tutela sussiste solo per quelle fattispe‑
cie in cui la rettifica per ragioni di abuso emerge per la prima
volta nell’atto impositivo, vuoi perché il funzionario che forma
l’avviso si discosta dal verbale, vuoi perché per i motivi più
vari‑ manca il processo verbale di chiusura delle operazioni,
o il contribuente non è stato chiamato a formulare le proprie
osservazioni in relazione al negozio che si presume abusivo.
Solo in tali fattispecie ci si può interrogare sulla sussistenza
dell’obbligo di instaurazione del contraddittorio.
Estendere l’art. 37‑bis d.P.R. 600‑1973 sembra, però,
poco soddisfacente.
In primo luogo perché la lettera della disposizione costru‑
isce una norma ad applicazione tassativa: il comma 3 limita
chiaramente l’ambito applicativo della norma. Il che vale
ovviamente anche per il procedimento relativo, che la norma
limita alle fattispecie considerate. Se, prima delle sentenze
Altieri, non vi era dubbio sull’applicazione residuale
dell’art. 37‑bis, così per ragioni di coerenza e simmetria inter‑
pretativa non sembra che si possa pretendere oggi di estender‑
ne il procedimento. Né a questo risultato si può giungere per
il tramite di una interpretazione adeguatrice che, per rispetto
del canone di eguaglianza e razionalità, voglia applicare il
procedimento in questione a tutte le fattispecie abusive. Infat‑
ti, se è pur vero che le operazioni abusive e quelle di cui
all’art. 37 bis si pongono in un rapporto di genere a specie, e
tributario
Gazzetta
126
d i r i t t o
quindi condividono caratteri comuni, è altrettanto vero che
l’interpretazione adeguatrice è possibile con il limite dell’in‑
terpretazione abrogante. L’estensione dell’art. 37‑bis si risol‑
verebbe invece proprio in un’interpretazione di sostanziale
abrogazione, perché si priverebbe di senso la norma che ‑in
relazione a talune fattispecie ritenute di particolare «perico‑
losità» in un giudizio contingente del legislatore‑ ha voluto
legittimare uno specifico potere, circondandolo di apposite
cautele.
Comporre la clausola generale anti‑abuso con l’estensione
del procedimento di cui all’art. 37‑bis significa raggiungere un
risultato che seppur coerente logicamente‑ non è consentito
all’interprete, che potrà tuttalpiù rilevare l’illegittimità costi‑
tuzionale dell’art. 37‑bis. In secondo luogo, andrebbe giustifi‑
cata l’estensione dell’art. 37‑bis in ambiti tributari non reddi‑
tuali. L’art. 37‑bis è una disposizione dettata ai fini della ret‑
tifica delle imposte sui redditi; il divieto di abuso è configura‑
to dalla Cassazione come principio generale che si applica a
qualunque tributo: estendere una norma dettata specificamen‑
te per le imposte reddituali ad altri tributi pare una forzatura
interpretativa. Se è vero che l’accertamento delle imposte sui
redditi costituisce il modello basilare dell’accertamento tribu‑
tario, è altrettanto vero che le singole disposizioni che lo
compongono non hanno di per sé una forza espansiva.
Piuttosto, se si ritiene che il principio del contraddittorio
possa (e debba) essere implementato a livello interpretativo,
anche le rettifiche fondate sul divieto di abuso dovranno
contemplare un tale modulo procedimentale. Non tanto per‑
ché tali rettifiche abbiano una qualche specificità, quanto
perché qualsiasi rettifica, in questa prospettiva, necessita di
un contraddittorio preventivo rispetto all’avviso. Se, invece,
non si ritiene che allo stato della legislazione, il contradditto‑
rio sia necessaria espressione dei principi generali dell’ordina‑
mento, o che comunque non sia possibile introdurlo per via
interpretativa, non resterà che lamentare la difettosa lacuna
della normativa e invocare un intervento correttivo del legi‑
slatore.
Stando così le cose e in questo contesto di riferimento,
possono ipotizzarsi due diverse ricostruzioni.
La prima: la coesistenza dei due regimi potrebbe risolver‑
si in un rapporto di specialità. La norma scritta, e le garanzie
in essa contenute, continuerebbero a trovare applicazione per
le operazioni elencate nel comma dell’articolo, e limitatamen‑
te alle sole imposte sui redditi. In tutti gli altri casi operereb‑
be l’abuso del diritto, in coerenza con la ragione che ne
hanno decretato l’introduzione nel nostro ordinamento, ov‑
vero contrastare l’elusione fiscale nelle ipotesi non coperte
dalla legge.
Avremmo un procedimento speciale che include un con‑
traddittorio, disciplinato ex lege, e un procedimento generale
che non ha alcuna disposizione ad hoc.
Questa strada appare difficilmente praticabile: la profon‑
da differenza tra i due regimi introdurrebbe nel sistema
un’asimmetria, incostituzionale perché contraria al principio
di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
Con una seconda interpretazione si potrebbe ritenere
nella sostanza disapplicato l’art. 37‑bis del d.P.R. n. 600 del
1973: l’abuso del diritto, una volta dichiarato principio im‑
manente nell’ordinamento tributario, opererebbe in ogni
caso.
t r i b u ta r i o
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F O R E N S E
Quest’ultima prospettiva risponde maggiormente ad esi‑
genze di coerenza interna, lasciando però irrisolte le questio‑
ni di fondo.
Se il divieto di abuso è un principio generale, che trova
fondamento costituzionale, l’art. 37‑bis diviene un minus
specifico, contenuto nel plus dato dal principio generale. In
questo senso si è espressa in maniera logicamente ineccepibi‑
le la Corte di cassazione con la sentenza 12042 del 2009. Il
che può essere soddisfacente nella considerazione del fonda‑
mento del divieto, ma è problematico nella specificazione del
procedimento applicabile.
5. Necessità di estendere all’abuso del diritto le garanzie ex
art. 37‑bis d.P.R. n. 600/73.
La genesi dell’abuso del diritto in materia tributaria è col‑
legata, si ripete, all’esigenza di colpire le pratiche commerciali
e finanziarie non rientranti nell’ambito applicativo
dell’art. 37‑bis, ma che tuttavia consentono di aggirare le nor‑
me tributarie e di ottenere un indebito tax benefit: esigenza
tanto più sentita nel contesto attuale, caratterizzato da crisi
economica, necessità di gettito per gli Stati e conseguente
inasprimento della lotta all’evasione e all’elusione d’imposta.
Questa spinta, condivisibile perché dettata da obiettivi di
maggiore “giustizia fiscale”, può certo condurre alla creazione
di una clausola antielusiva generale, ma non anche all’azzera‑
mento delle garanzie predisposte a tutela del contribuente.
Tali garanzie trovano giustificazione nella maggiore com‑
plessità dell’attività di accertamento in caso di elusione, ri‑
spetto a quella tradizionale: sono coinvolti giudizi che atten‑
gono alle “ragioni economiche” di un’operazione, e che pre‑
sentano particolari difficoltà per i verificatori. A ciò si aggiun‑
ga che le transazioni potenzialmente elusive sono tutt’altro
che lineari, e interessano quasi sempre numerosi soggetti
economici.
La tortuosità della struttura da accertare, e il rischio di
ingerenza nella libertà delle scelte imprenditoriali, sono bilan‑
ciate dalle garazie procedimentali prima citate. Si vuole evi‑
tare un’iscrizione a ruolo immediata, sulla base di un avviso
che è frutto di un’errata valutazione: per questo è previsto che
la fase esecutiva parta solo dopo la pronuncia in primo grado
di un organo giurisdizionale. Ma ancor prima, per scongiu‑
rare accertamenti superficiali, la legge impone agli Uffici un
contraddittorio preventivo, a presidio del quale stabilisce un
obbligo rafforzato di motivazione dell’avviso.
Le tutele predisposte dall’art. 37‑bis del d.P.R. n. 600 del
1973, quindi, non mirano soltanto a proteggere maggiormen‑
te il contribuente nel caso di un accertamento delicato, quale
quello sull’elusività di un’operazione: precludendo alla stessa
Amministrazione un accertamento unilaterale, esse tentano di
prevenire superflue attività istruttorie ed inutili contenziosi.
In tal senso, i commi 4°, e della norma non si pongono
solo in attuazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost., ma
anche dei principi di buon andamento, imparzialità ed econo‑
micità della Pubblica Amministrazione, di cui all’art. 97
Cost.
Tali esigenze sono comuni a tutti gli accertamenti in tema
di elusione tributaria.
Con l’art. 37‑bis del d.P.R. n. 600 del 1973, l’ordinamento
italiano aveva scelto di tipizzare le fattispecie elusive, e di limi‑
tarne la rilevanza fiscale alle sole imposte sui redditi. Se oggi,
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m a r z o • a p r i l e
a causa di una sensibilità nuova verso il fenomeno, si rende
preferibile l’introduzione di una clausola generale come l’abu‑
so del diritto, ciò vuol dire soltanto che le precedenti delimita‑
zioni cadono, che ora tutte le operazioni possono essere riqua‑
lificate, e che sono interessate tutte le tipologie di tributi. In
altri ordinamenti è già così (Stati Uniti, Germania).
Tuttavia, nell’accertamento dell’elusione, quelle esigenze,
che abbiamo visto essere di rango costituzionale, restano in‑
variate: pertanto vanno mantenute anche le garanzie proce‑
dimentali poste a loro tutela. Una cosa è ampliare l’oggetto
dell’accertamento, altro è sopprimere le garanzie che tale ac‑
certamento accompagnano.
Conclusivamente, dal percorso giurisprudenziale sopra
tracciato emerge come l’ottica dei rapporti tra abuso del di‑
ritto ed elusione fiscale, da un lato, e norme legislative, dall’al‑
tro, si sia ribaltata con la conseguenza che le singole norme
antielusive introdotte nel nostro ordinamento si presentano
non più come eccezioni ad una regola, ma come mero sintomo
dell’esistenza della stessa, immanente nel nostro ordinamento
tributario: cioè non si dubita più della generale applicabilità
della clausola antielusione rappresentata dal principio di di‑
vieto dell’abuso di diritto.
La sopraindicata evoluzione della giurisprudenza comu‑
nitaria e nazionale indica in modo chiaro come sia necessario
l’intervento del legislatore al fine della introduzione nel nostro
ordinamento tributario di una generale norma antielusiva
ispirata a queste ultime pronunce, ma con la precisazione di
una specifica tutela del contribuente.
Pur non essendo seriamente contestabile il diritto del Fisco
di procedere alla corretta qualificazione dei contratti ed il suo
corrispondente dovere a non farsi ingannare dai contribuente,
restano di grande attualità i timori che Amministrazione Fi‑
nanziaria e commissioni di merito suppliscano a carenze or‑
ganizzative o a vuoti legislativi con un «abuso dell’abuso».
L’abuso del diritto rischia ogni volta di essere stabilito
dalle circolari ministeriali (da ultimo, si rinvia alla risoluzio‑
ne n. 446/E del 18 novembre 2008 dell’Agenzia delle Entra‑
te – Direzione centrale normativa e contenzioso) oppure dai
giudici tributari, lasciando i contribuenti ed i professionisti
nell’assoluta incertezza, con il rischio di paralizzare l’inizia‑
tiva economica privata, tutelata dall’art. 41 della Costituzio‑
ne, nonché compromettere la proprietà privata, anch’essa
tutelata dall’art. 42 della Costituzione.
La via legislativa rimane sempre quella maestra, per cer‑
care di contrastare fenomeni abusivi che, seppur dilaganti,
non sono ovviamente sovrapponibili alla pura e semplice
pianificazione fiscale, la cui liceità riposa sugli stessi principi
costituzionali della libertà economica.
6. L’evoluzione legislativa.
All’opera di costruzione della nozione di divieto di abuso
del diritto avviata dalla giurisprudenza di legittimità sembra,
almeno in parte, essere ispirato il Disegno di legge delega per
la riforma del sistema fiscale.
L’art. 3 del disegno di legge (trasmesso dalla Camera
(C.5291) il 15 ottobre, attualmente all’esame del Senato
S.3519) cerca una formulazione ex novo della clausola gene‑
rale, combinando, come già un primo esame rivela, le indica‑
zioni definitorie fornite dalla giurisprudenza con le garanzie
procedurali configurate nell’art. 37‑bis.
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127
L’articolo è in parte rubricato «disciplina dell’abuso del
diritto ed elusione fiscale».
In prima battuta, da tale riferimento, si coglie l’intendi‑
mento di provvedere a disciplinare sia l’elusione che l’abuso.
Tuttavia, dal testo dell’articolato si ricava che ad essere disci‑
plinato sarà soltanto l’abuso del diritto, il quale verrebbe
così a collocarsi come una sorta di species del più generale
tema dell’elusione. Questa sorta di «subordinazione» dell’abu‑
so all’elusione si evince chiaramente dalla previsione in base
alla quale viene stabilito che «il Governo è delegato ad attua‑
re la revisione delle vigenti disposizioni antielusive ai fine di
unificarle al principio generale di divieto dell’abuso del dirit‑
to, esteso ai tributi non armonizzati». Come se, quindi, nel
genere dell’elusione venisse ad essere introdotta, come si dice‑
va, la nuova species dell’abuso.
Tale scelta non appare affatto condivisibile in quanto la
disciplina positiva dell’abuso sarà rivolta necessariamente a
qualsivoglia operazione e comparto impositivo, mentre l’elu‑
sione, sempre sotto il profilo del diritto positivo, rimarrà
confinata a fattispecie casistiche nell’ambito dell’imposizione
diretta. Si avrà così un «genere», quello dell’elusione, discipli‑
nato espressamente nell’ambito di un comparto impositi‑
vo – quello delle imposte dirette – per fattispecie casistiche,
cioè per le operazioni elencate nel terzo comma dell’art. 37‑bis
del d.P.R. n. 600/1973, mentre la species dell’abuso avrà
un’applicazione generale. Il che, evidentemente, non può es‑
sere.
Ma analizziamo il testo.
La condotta abusiva viene identificata nell’uso distorto di
strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta,
ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna speci‑
fica disposizione. Detti strumenti sono inopponibili all’am‑
ministrazione fiscale alla quale viene riconosciuto il potere di
disconoscere il relativo risparmio di imposta. In linea con un
indirizzo già espresso dalla Corte di Cassazione (cfr. sent.
25537/2011), oltre che in conformità ai principi della giuri‑
sprudenza della Corte di giustizia europea e alle migliori
pratiche europee e internazionali (si ricordano sull’argomento
le conclusioni formulate nella celebre sentenza Halifax della
Corte di Giustizia C‑255/02 del 21 febbraio 2006), il disegno
di legge contempla, dunque, l’introduzione di una norma
generale di definizione dell’abuso del diritto, unificandola con
quella dell’elusione fiscale e rendendola applicabile a tutti i
tributi, anche non armonizzati. L’obiettivo è quello di contra‑
stare operazioni di pianificazione fiscale prive di adeguate
autonome finalità economiche, e aventi lo scopo di ottenere
indebiti vantaggi fiscali, scopo questo ritenuto nella delega
quale causa prevalente dell’operazione abusiva.
Si nota che l’estensione a «tutte le imposte» e a «tutte le
operazioni» permette forse di evitare disparità di trattamento,
ma non può costituire ex ante una garanzia circa la mancan‑
za del carattere abusivo o elusivo dell’operazione che si vuole
realizzare.
Tra i principi direttivi la bozza contempla l’ «uso distorto
di strumenti giuridici».
Chi stabilirà se l’operazione realizzata costituisce un im‑
piego «distorto» di strumenti giuridici? Di volta in volta
l’Amministrazione finanziaria oppure il magistrato? Con
quali criteri? E con quale impatto sui programmi di investi‑
mento delle società?
tributario
Gazzetta
128
d i r i t t o
La clausola generale è, in astratto, il migliore strumento
per garantire l’uguaglianza, ma è, allo stesso tempo, uno
strumento assai ingeneroso sul piano della pianificazione se
sprovvisto di criteri certi ai quali ancorare l’individuazione
della prestazione imposta. Il profilo qui evidenziato (quello
della certezza dei criteri sui quali innestare l’individuazione
del presupposto d’imposta) è di fondamentale importanza
nella prospettiva del giudizio di costituzionalità della dispo‑
sizione per contrasto con l’art. 23 Cost.
Aggiungiamo che il riferimento all’uso «distorto» degli
strumenti ha poco a che vedere con l’elusione e con l’abuso,
perché elusione e abuso si apprezzano sul piano dei risultati
conseguiti (vantaggio fiscale), non già sul piano degli schemi
operativi utilizzati.
Un uso distorto che non garantisce alcun vantaggio fisca‑
le (o che garantisce un vantaggio che possa reputarsi in sinto‑
nia con le finalità della norma) non potrà mai qualificarsi
come elusivo o abusivo. Allo stesso modo, il conseguimento
di un vantaggio indebito attraverso schemi negoziali lineari e
diretti dovrà essere sindacato sul piano elusivo abusivo, anche
se lo strumento impiegato non è abnorme o distorto.
Il presupposto consistente nello schema negoziale «distor‑
to» rischia di tradursi, pertanto, in un ulteriore elemento di
incertezza nella pianificazione dell’attività economiche, per‑
ché, dietro a quell’aggettivo («distorto»), possono collocarsi
differenti sensibilità quanto alla scelta delle operazioni eco‑
nomiche da effettuare.
Viene poi tutelata la libertà di scelta del contribuente tra
diverse operazioni comportanti anche un diverso carico fisca‑
le e, a tal fine, il legislatore esclude la configurabilità di una
condotta abusiva se l’operazione è giustificata da ragioni ex‑
trafiscali non marginali. Sono tali, si legge nell’art. 6 citato,
anche quelle che non producono necessariamente una reddi‑
tività immediata dell’operazione ma rispondono ad esigenze
di natura organizzativa e consistono in un miglioramento
strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente
Evidente è la derivazione della definizione che emerge da
queste proposizioni da quella fornita dalla Cassazione nelle
citate sentenze a Sezioni Unite, e dalla stessa ripetutamente
richiamata nelle decisioni successive: l’abuso, secondo la Cor‑
te, consisterebbe nel «trarre indebiti vantaggi fiscali dall’uti‑
lizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica
disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un ri‑
sparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprez‑
zabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera
aspettativa di quel risparmio fiscale» (Cass., Sez. trib., 16
febbraio 2012, n. 2193; Id., 13 maggio 2011, n. 10549; Id.,
31 marzo 2011, n. 7343; Id., 12 novembre 2010, n. 22994;
Id., 21 gennaio 2009, n. 1465).
Il ricorso alla definizione giurisprudenziale, anziché a
quella già presente nella legislazione (nel comma 1
dell’art. 37‑bis), è, da una parte, comprensibile: l’utilizzo
della seconda avrebbe infatti esposto la clausola al rischio di
scavalcamento, laddove la giurisprudenza avesse perseverato
nel servirsi della prima, perpetuando, in evidente contrasto
con gli obiettivi dell’intervento prefigurato, l’attuale dualismo
tra aree normate e aree non normate.
Dall’altra, è però indubbio che la definizione giurispruden‑
ziale è assai meno precisa di quella che attualmente si ritrova
nel comma 1 dell’art. 37‑bis. Anzi, è decisamente fumosa.
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
L’elemento dell’utilizzo «distorto», al quale è in massima
misura affidata la connotazione della condotta abusiva, si
manifesta in effetti per nulla agevole da decifrare.
Nei pochi casi in cui la Corte ha provato a proporne chia‑
vi di lettura, ha sostenuto che esso implica che le operazioni,
«mentre incidono, diminuendolo, sul gettito fiscale, contra‑
stano con l’utilità sociale che costituisce limite alla realizza‑
zione di qualsiasi valida iniziativa economica»(Cass., Sez.
trib., 12 novembre 2010, n. 22994).
Ma se l’utilizzo «distorto» di un certo atto o di una certa
combinazione di atti è l’utilizzo non ricollegabile a valide
ragioni economiche, la presenza di questa specificazione ri‑
sulta nella sostanza superflua, perché assorbita dalla seconda
parte della definizione considerata: «in difetto di ragioni
economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione,
diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale». Una
parte che, nella delega, trova peraltro già espressione nelle
condizioni indicate alla lett. b). Ed invero, lo scopo «di otte‑
nere indebiti vantaggi fiscali» deve risultare la «causa preva‑
lente dell’operazione abusiva», la condotta non deve essere
«giustificata da ragioni extrafiscali non marginali».
Queste condizioni dovrebbero «garantire la libertà di
scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti
anche un diverso carico fiscale».
La stessa Cassazione osserva, del resto, che «l’impiego di
forme contrattuali e/o organizzative che consentono un mi‑
nore carico fiscale costituisce esercizio della libertà di impre‑
sa e di iniziativa economica» (Cass., Sez. trib., 17 ottobre
2008, n. 25374; Id., 21 gennaio 2011, n. 1372). Occorre per‑
tanto che le condizioni di cui trattasi siano intese, e rese nel
provvedimento di attuazione, in guisa da dare evidenza alla
estraneità all’abuso della scelta, tra soluzioni negoziali avver‑
tite dagli operatori come equivalenti sul piano degli effetti
economico‑giuridici, di quella che comporta il minore carico
tributario.
Occorre, in altre parole, che si riconosca, una volta per
tutte, che, laddove un certo assetto economico‑giuridico sia
conseguibile mediante una pluralità di strumenti, ritenuti
sostanzialmente equivalenti dagli operatori economici (pur
nella loro diversità strutturale), la scelta dello strumento fi‑
scalmente meno oneroso, proprio in quanto fiscalmente meno
oneroso, è estranea al campo dell’abuso, in quanto il conse‑
guimento di quell’assetto permette di affermare la presenza
di «ragioni extrafiscali non marginali» e al contempo di
escludere che il risparmio d’imposta costituisca la «causa
prevalente dell’operazione abusiva».
Un’opzione netta per questa prospettiva consentirebbe
forse di superare un’ulteriore perplessità che la disposizione
considerata, come la giurisprudenza alla quale si riporta, a
prima vista solleva: l’assenza di precisi riferimenti al conflitto
tra il godimento del vantaggio fiscale generato dalla scelta di
un determinato atto o di una determinata combinazione di
atti e la ratiodella normativa coinvolta (di quella che l’adozio‑
ne dell’atto o della combinazione di atti consente di applicare
e/o di quella che l’adozione dell’atto o della combinazione di
atti consente di non applicare).
Questo conflitto rappresenta una componente essenziale
della nozione di abuso tanto secondo la giurisprudenza della
Corte di giustizia dell’Unione europea, quanto secondo la
clausola di cui all’art. 37‑bis del d.P.R. n. 600/1973. Per la
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
Corte di giustizia occorre infatti che l’operazione considerata,
«nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste
dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legi‑
slazione nazionale che la traspone», procuri «un vantaggio
fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo per‑
seguito da queste stesse disposizioni» (le sentenze 21 febbraio
2006, C‑255/02, «Halifax», in Banca Dati BIG Suite, IPSOA,
seguita poi, tra le altre, dalle sentenze 21 febbraio 2008,
C‑425/06, «Part Service», ivi; 22 maggio 2008, C‑162/07,
«Ampliscientifica e Amplifin», ivi; 22 dicembre 2010,
C‑277/09, «RBS Deutschland Holdings GmbH»; 22 dicembre
2010, C‑103/09, «Weald Leasing».). Per l’art. 37‑bis, che la
stessa sia diretta «ad aggirare obblighi o divieti previsti
dall’ordinamento tributario».
Del resto, come configurare un abuso se non è possibile
riscontrare alcun contrasto tra la fruizione del predetto van‑
taggio e le intenzioni del legislatore? Detto altrimenti, come
configurare un abuso se il risparmio conseguito è espressione
di una scelta (presumibilmente) consapevole del legislatore?
Nella delega il richiamo a questa condizione può forse
ravvisarsi nell’utilizzo dell’aggettivo «indebiti» per accompa‑
gnare i «vantaggi fiscali» nella lett. b), seguendo una discuti‑
bile modalità espressiva diffusasi in relazione all’interpreta‑
zione dell’art. 37‑bis (e precisamente in relazione al ben diver‑
so «altrimenti indebiti»). Se così è, indubbiamente si poteva
approfittare dell’occasione per esplicitare e meglio precisare
la condizione stessa.
La delega ribadisce poi il principio dell’onere della prova
sancendo che è a carico dell’amministrazione l’onere di dimo‑
strare il disegno abusivo e le modalità di manipolazione e di
alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati
nonché la loro non conformità ad una normale logica di mer‑
cato. Grava, invece, sul contribuente l’onere di allegare la
esistenza di valide ragioni extrafiscali alternative o concor‑
renti che giustifichino il ricorso a tali strumenti. Nella moti‑
vazione dell’accertamento fiscale, a pena di nullità, deve es‑
sere contemplata una formale e puntuale individuazione
della condotta abusiva. In altri termini deve essere spiegato
dall’amministrazione perché la forma giuridica dall’operazio‑
ne abbia carattere anomalo o inadeguato rispetto all’opera‑
zione economica intrapresa (cfr. Cass. sent. 1372/2011).
Altro elemento non trascurabile è che il legislatore delega‑
to dovrà emanare nuove regole che garantiscano un efficace
contraddittorio con l’amministrazione fiscale e salvaguardino
il diritto di difesa in ogni fase del procedimento di accerta‑
mento ed in ogni stato e grado del giudizio tributario.
Nei vari passaggi viene cassato un ultimo punto che pre‑
vedeva l’ esclusione della la rilevanza penale dei comporta‑
menti ascrivibili a fattispecie abusive.
A tal punto è doveroso ricordare che un recente interven‑
to della Corte di cassazione – concretizzatosi nella sentenza
n. 7739 del 28 febbraio 2012 – ripropone la questione della
rilevanza penale dell’elusione attuata attraverso il ricorso a
qualsiasi forma di abuso del diritto.
Ancora una volta si è discusso se la condotta incrimina‑
bile del contribuente potesse configurare una violazione – pe‑
nalmente rilevante – ad una specifica disposizione fiscale.
E i giudici penali della Cassazione hanno dato risposta
affermativa al problema: il reato di dichiarazione infedele è
penalmente rilevante anche in presenza di elusione dell’impo‑
2 0 1 3
129
sta. Si tratta – dice la Cassazione – di «un risultato interpre‑
tativo conforme ad una ragionevole prevedibilità …se si
considera la ratio delle norme, le loro finalità e il loro inseri‑
mento sistematico».
La Cassazione spiega, così, il proprio indirizzo afferman‑
do che il reato di cui all’art. 4 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74
(infedele dichiarazione – oltre una certa soglia di imposta non
dichiarata) è configurabile quando la condotta del contribuen‑
te, risolvendosi in atti e negozi non opponibili all’Ammini‑
strazione finanziaria, comporti comunque una dichiarazione
non veritiera.
La sentenza della Cassazione che stiamo considerando non
modifica – nell’essenza – l’impianto interpretativo consolida‑
tosi negli anni anche (e soprattutto) con diverse prese di po‑
sizione delle Sezioni Unite, sia pure sul versante non penale.
Come si nota la Cassazione ha una linea diversa dalla
previsione normativa… e sul punto valga la seguente osserva‑
zione.
La Corte di giustizia, che, nella sentenza dalla quale ori‑
gina la giurisprudenza italiana in materia di abuso del diritto
(Halifax), afferma il seguente principio (p. 93 della sentenza):
«Occorre altresì ricordare che la constatazione dell’esistenza
di un comportamento abusivo non deve condurre a una san‑
zione, per la quale sarebbe necessario un fondamento norma‑
tivo». Opinare diversamente, in effetti, costituirebbe violazio‑
ne di principi generali del diritto comunitario.
La stessa Corte di Cassazione civile in una precedente
sentenza del 2010 (n.22996 del 12 novembre) aveva avuto un
orientamento chiaro: il disconoscimento delle operazioni
abusive ed elusive come se fossero operazioni fittizie o inesi‑
stenti regge solo quanto agli effetti tributari dell’operazione
(disconosciuti sia per le operazioni inesistenti che per quelle
fittizie), ma non quando si discuta di «di penalizzare il con‑
tribuente che non abbia commesso violazioni». E l’elusione
fiscale (e l’abuso) non è una violazione di norme specifiche e
può solo portare al disconoscimento in sede tributaria delle
operazioni per contrasto con i principi generali e con la ratio
delle disposizioni.
La conclusione è, allora, che un ragionevole (e costituzio‑
nalmente obbligato, a nostro avviso) riparto dei doveri e
delle responsabilità, di Stato e contribuente, precludono net‑
tamente la possibilità di applicare sanzioni (penali e non) al
contribuente. Tale preclusione opera già sul piano oggettivo
della inconfigurabilità e inesigibilità del dovere del contri‑
buente di adeguare l’imposizione, in sede di autoliquidazione,
a quella che sarebbe prevista per la fattispecie elusa (che non
è stata posta in essere). Tale insussistenza, in termini oggetti‑
vi, dell’esistenza di una violazione viene logicamente ancor
prima del problema se sussista e come possa accertarsi l’ele‑
mento soggettivo della violazione, dolo (nelle fattispecie pe‑
nali) o colpa (nelle fattispecie amministrative).
A ciò si accompagnano ulteriori considerazioni e perples‑
sità, di ordine più generale e squisitamente penalistico, che
assumono una particolare pregnanza con riguardo alle ipote‑
si di abuso del diritto, alle ipotesi, cioè, nelle quali l’operazio‑
ne sia ritenuta disconoscibile in sede tributaria, ancorché non
oggetto di alcuna norma antielusiva specifica (ma solo in at‑
tuazione della clausola generalissima) di cui all’art. 53 Cost.
In queste ipotesi, in effetti, interrogarsi se il contribuente
possa essere penalmente sanzionato equivale a domandarsi se
tributario
Gazzetta
130
d i r i t t o
possa essere soggetto a sanzione penale il contribuente che
non abbia adempiuto a doveri tributari non previsti dalla
legge, ma solo da una integrazione di essa effettuata alla luce
della clausola generalissima di cui all’art. 53 Cost.
Le norme del diritto penale‑tributario presuppongono la
violazione dei doveri previsti dalle norme tributarie: queste
ultime sono presupposte dalle norme sanzionatorie in forza
di un rinvio.
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
Visto il punto in cui siamo e, in attesa della riforma nor‑
mativa che ci auspichiamo più precisa di quanto non delineato
nel disegno di legge delega, per ridare fiducia e coerenza al
nostro ordinamento fiscale, non resta che richiamarci ai prin‑
cipi – altrettanto generali e di rango costituzionale – di legali‑
tà, buna fede, ragionevole affidamento, giusto processo, stabi‑
lità nei rapporti giuridici e certezza del diritto, soprattutto
sotto forma di predeterminazione delle fattispecie impositive.
Diritto internazionale
L’incremento dell’efficacia nota quale requisito per la brevettabilità dei nuovi farmaci in India
Nota a Corte Suprema Indiana, Novartis AG v. Union of India & Others, 01 aprile 2013
133
Giovanna Sorrentino
Rassegna di diritto internazionale
145
internazionale
A cura di Francesco Romanelli
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
●
L’incremento dell’efficacia
nota quale requisito
per la brevettabilità
dei nuovi farmaci in India
Nota a Corte Suprema Indiana,
Novartis AG v. Union of India & Others,
01 aprile 2013
● Giovanna Sorrentino
Avvocato e Dottore di ricerca in diritto comparato,
Facoltà di Studi politici,
Seconda Università degli Studi di Napoli
2 0 1 3
133
Brevetti farmaceutici secondari – Requisiti di brevettabilità – Incremento dell’efficacia nota – Rapporto tra sez. 3 d) Indian Patent
Act e sez. 2 (j) e (ja)
Ai fini della brevettabilità di prodotti chimico-farmaceu‑
tici costituenti una nuova forma di una sostanza già oggetto
di tutela brevettuale è necessario che risulti in concreto inte‑
grato il requisito dell’incremento dell’efficacia nota di cui
alla sez. 3 d) dell’Indian Patent Act, in aggiunta ai tre requi‑
siti classici della novità, non ovvietà ed applicabilità indu‑
striale di cui alla sez. 2 (j) e (ja). La sez. 3 d) va pertanto in‑
tesa come previsione normativa ex majore cautela ai fini
della prevenzione dell’abuso della tutela brevettuale nel set‑
tore chimico-farmaceutico e non come una norma che preclu‑
de in astratto la protezione brevettuale alle innovazioni far‑
maceutiche incrementali.
Corte Suprema Indiana, Novartis AG v. Union of India &
Others, 01 aprile 2013
Invenzioni Farmaceutiche Incrementali – Nuova Forma – Requisito dell’incremento dell’efficacia nota – Nozione
Ai fini della brevettabilità di un’innovazione farmaceutica
incrementale, il requisito dell’incremento dell’efficacia nota
di una sostanza già oggetto di tutela brevettuale ex sez. 3 d)
dell’Indian Patent Act va inteso in un’accezione restrittiva e
rigorosa, di guisa che il semplice cambiamento di forma da
cui deriva un incremento di efficacia quale proprietà intrin‑
seca a suddetta forma non integra ex se il requisito dell’incre‑
mento di efficacia della sostanza nota, dovendo risultare un
incremento di efficacia terapeutica.
Corte Suprema Indiana, Novartis AG v. Union of India &
Others, 01 aprile 2013
Invenzioni farmaceutiche incrementali – Brevetti farmaceutici
secondari – Onere della prova dell’incremento dell’efficacia
Grava a carico del patent applicant l’onere di dimostrare
l’incremento dell’efficacia nota di una sostanza già oggetto di
tutela brevettuale ex sez. 3 d) dell’Indian Patent Act. Non è
a tal fine sufficiente la dimostrazione dell’aumento della bio‑
disponibilità del prodotto, dovendosi altresì dimostrare in
concreto che da siffatto aumento della biodisponibilità ne
derivi un incremento dell’efficacia terapeutica per il paziente,
secondo un rapporto di causa-effetto.
Corte Suprema Indiana, Novartis AG v. Union of India &
Others, 01 aprile 2013
*** Nota a sentenza
1. La brevettabilità dei farmaci nel sistema indiano tra
istanze di tutela della salute ed incentivo all’innovazione incrementale
La Corte Suprema Indiana con un leading case del
01.04.2013 fornisce uno valido incipit per la disamina della
questione inerente la concessione in India di brevetti su farma‑
ci risultanti dall’implementazione di principi attivi già oggetto
di tutela brevettuale.
Occorre preliminarmente considerare che nel settore far‑
maceutico la tutela brevettuale dell’innovazione assume carat‑
teristiche peculiari, attesa la necessità di trovare un giusto
internazionale
Gazzetta
134
D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
contemperamento tra i vari interessi coinvolti1. Emerge, infat‑
ti, accanto all’interesse particolare del titolare dell’invenzione
ad un periodo di copertura brevettuale tale da garantire un
profitto superiore ai costi supportati per gli investimenti ef‑
fettuati in ricerca e sviluppo, il contrapposto interesse della
collettività 2 a che i brevetti vengano concessi per un periodo
limitato e che il monopolio sia garantito in proporzione al
beneficio apportato.
Appare, dunque, evidente che nel settore farmaceutico la
concessione di brevetti per prodotti e processi non realmente
innovativi3 finisce di fatto per interdire il progresso scientifico
e tecnologico, nonché per costituire un ostacolo alla concor‑
renza, all’accesso ai farmaci, ritardando l’ingresso sul merca‑
to dei generici.
Compete indubbiamente al sistema brevettuale il ruolo di
incentivare l’innovazione4, incoraggiando lo sviluppo sequen‑
ziale dei prodotti esistenti e negando la concessione di brevet‑
ti per invenzioni non realmente innovative, dovendo assurge‑
re il brevetto a “product of innovation, not ordinary skill and
common sense” 5.
Il noto aforisma di Abraham Lincoln “the patent system
adds the fuel of interest to the fire of genius” 6, secondo cui
sarebbe proprio il sistema brevettuale ad alimentare il fuoco
del genio creativo con il combustibile dell’interesse, esprime
pienamente la logica sottesa al sistema dei brevetti: le previ‑
sioni legislative devono essere interpretate nel senso che va
assicurata alle industrie che operano nel campo della R&D
una copertura effettiva dei costi e i brevetti non dovrebbero
mai essere utilizzati come strumento per estendere un mono‑
polio in assenza di uno step innovativo, assurgendo altrimen‑
ti ad ostacolo per l’innovazione7.
Per quanto concerne in particolare l’innovazione incre‑
mentale, occorre poi evidenziare che si tratta di un fattore
rilevante ai fini dello sviluppo economico e sociale dei Paesi
in via di sviluppo come l’India.
1 P. M. Danzon - A. Towse, Differential Pricing for Pharmaceuticals: Reconcil‑
ing Access, R&D and Patents, in Int .J. Health Care Finance. Econ., 3, 2003
p. 183.
2 Ahn S., Competition, Innovation and Productivity Growth: a Review of
Theory and Evidence, in Economics Department Working Papers n. 317, in
Organis. for Ec. Coop. And Develop., 2002, p. 6-7.
3 A. Wertheimer, Too Many Drugs? The Clinical and Economic Value of In‑
cremental Innovations, in Investing In Health: The Social And Economic
Benefits Of Healthcare Innovation, 14, 2001, pp. 77-118; W. L. J . Ulcickas
- M. E. Lasagna, L. The World Health Organization’s Essential Drug List. The
Significance of Me-too and Follow-on Research, in Journal of Clinical Res. and
drug Development, 1989, pp.105-115; I. Haracoglou, Competition Law And
Patents: A Follow-On Innovation Perspective In The Biopharmaceutical In‑
dustry, 2008, p. 3.
4 J. Cohen, The role of follow-on drugs and indications on the WHO Essential
Drug List, in Journal Of Clinical Pharmacy And Therapeutics, 31, 2006, p.6;
J. Di Masi- Cherie Paquette, The Economics of follow-on Drug Research
and Development: Trends in Entry Rates and Timing of Development, in
Phamacoeconomics, 22, 2004, p. 8-9R.Mazzoleni-R.Nelson, Economic
Theories about the Benefits and Costs of Patents, in J. of Ec. Issues, 32, 1998,
pp.1031-1052; A.Wertheimer, Too Many Drugs? The Clinical and Eco‑
nomic Value of Incremental Innovations, in Investing In Health: The Social
And Economic Benefits Of Healthcare Innovation, 14, 2001, pp. 77-118.
5 KSR International v. Teleflex, Inc. 550, US 398, 2007.
6 A. Lincoln, Lecture on Discoveries, Inventions, and Improvements, in The
Complete Works of Abraham Lincoln, in John G. Nicolay, John Hay, NewYork,
1905, p.113; K. Idris, Intellectual Property, a Power Tool for Economic
Growth, cit.p.7
7 G. Mirandah, War on Pharmaceutical Patents Begins, in Manag. Intell. Prop,
2006, p.135
Gazzetta
F O R E N S E
Occorre, però, tenerla ben distinta dal fenomeno dell’ever‑
greening, che costituisce un mezzo surrettizio per prolungare
l’esclusiva brevettuale consistente nella strategia volta ad ot‑
tenere brevetti multipli riguardanti aspetti differenti dello
stesso prodotto, onde ottenere brevetti su miglioramenti o
sviluppi di versioni esistenti.
Indubbiamente i“secondary patents” hanno una loro di‑
gnità brevettuale nella misura in cui mirano a tutelare
quell’innovazione incrementale che costituisce la base dell’evo‑
luzione scientifica e tecnica.
Del resto, nessun sistema brevettuale limita la brevettabi‑
lità alle sole innovazioni radicali.
Muovendo dall’esigenza di trovare un compromesso tra
gli interessi antitetici, in India si sono a lungo ammessi uni‑
camente brevetti di processo: solo a far data dal 2005 è stata
introdotta la brevettabilità dei prodotti farmaceutici, in ot‑
temperanza agli obblighi internazionali derivanti dall’adesio‑
ne all’accordo TRIPs, l’accordo internazionale cardine in
materia di tutela della proprietà industriale nell’ambito del
sistema di commercio internazionale.
Per vero, l’approvazione dell’Accordo Trips sugli aspetti
commerciali dei diritti di proprietà industriale ha determina‑
to una profonda svolta non solo nel sistema indiano, ma in
tutta la legislazione internazionale in tema di brevetti.
Nonostante, infatti, la sua negoziazione sia stata larga‑
mente influenzata dai Paesi industrializzati, nel binomio tra
sfruttamento esclusivo dell’invenzione e tutela dei diritti es‑
senziali per la collettività siffatto accordo internazionale,
specie a seguito della dichiarazione di Doha nel 2001, sembra
propendere a favore dei secondi, laddove stabilisce che lo
sfruttamento dell’invenzione debba avvenire in modo da con‑
tribuire all’obiettivo primario del trasferimento di tecnologia
e subordinatamente alla libertà di ogni Stato di attuare misu‑
re per la protezione di determinati interessi pubblici.
In tale ottica s’inserisce la normativa indiana che, supe‑
rando il tradizionale approccio ostile alla protezione brevet‑
tuale in quanto fattore antitetico ed ostativo alla tutela effet‑
tiva della salute pubblica, tenta di bilanciare i due interessi
cardine, ossia l’esigenza di garantire l’accesso ai farmaci e la
tutela della proprietà industriale, nell’ottica della valorizza‑
zione del ruolo della protezione brevettuale per lo sviluppo
dell’economia del Paese.
La peculiarietà del sistema brevettuale indiano va, in
specie, ravvisata nella sez. 3 d) dell’Indian Patent Act, laddo‑
ve viene previsto ai fini della concessione di un brevetto far‑
maceutico secondario l’incremento dell’efficacia nota, preve‑
dendo di fatto un requisito ulteriore, che si aggiunge ai tre
classici dell’innovatività, non ovvietà ed applicabilità indu‑
striale, previsti in tutti regimi brevettuali.
Dalla previsione di siffatta misura, che non trova paralle‑
li in nessun altro sistema brevettuale, ne discende che in linea
di principio i brevetti in India vengano concessi solo su far‑
maci realmente innovativi, essendo preclusa la possibilità di
brevettare semplici miglioramenti apportati a un principio
attivo già in commercio, al solo fine di estendere ulteriormen‑
te il monopolio.
Per vero, l’individuazione dell’esatta portata del requisito
dell’incremento dell’efficacia nota di cui alla sez. 3 d) dell’In‑
dian Patent Act per la brevettabilità di prodotti che costitui‑
scono l’implementazione di sostanze già note è stato oggetto
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
di un lungo dibattito internazionale che ha visto scontrarsi gli
interessi delle multinazionali farmaceutiche con quelli delle
più grandi organizzazioni umanitarie mondiali (Organizza‑
zione Mondiale della Sanità e medici senza frontiere).
La pronuncia in oggetto rappresenta indubbiamente un
leading case in punto di interpretazione di siffatto requisito,
negando la concessione di un brevetto secondario alla multi‑
nazionale Novartis sulla base della sez. 3 d), ritenendo, in
specie, che il patent applicant non abbia assolto l’onere pro‑
batorio della dimostrazione dell’incremento di efficacia nota,
non essendo sufficiente a tal fine l’aumento della biodisponi‑
bilità del prodotto, ma dovendosi dimostrare un incremento
di efficacia terapeutica, quindi un beneficio aggiunto per il
paziente derivante dall’innovazione apportata al prodotto.
Appare chiaro che la sentenza in commento avrà ricadute
rilevanti a livello globale, considerato che l’India appartiene
al modello di common law, in cui il valore del formante giu‑
risprudenziale è massimo e che costituisce attualmente il più
grande produttore di generici a livello globale.
Ai fini di una corretta comprensione della sentenza de quo
appare pertanto fondamentale effettuare una preliminare
esegesi della sez. 3d) dell’Indian Patent Act.
2. Sez. 3 d) dell’Indian Patent Act
Muovendo dall’obiettivo di non dare ingresso nell’ordina‑
mento indiano, insieme alla brevettabilità dei prodotti, anche
al cd. fenomeno dell’ ”evergreening”8, la sezione 3 d) della
Legge indiana sui brevetti, introdotta con la novella del 20059,
limita la brevettabilità dei prodotti farmaceutici alle nuove
composizioni chimiche ed ai loro derivati (quali sali, eteri e
forme cristalline) che presentino rispettivamente il requisito
dell’incremento dell’efficacia nota ed una significativa diffe‑
renza delle proprietà in relazione all’efficacia 10.
Ai sensi della sezione 3 d) dell’Indian Patents Act non è,
infatti, brevettabile la mera scoperta di una nuova forma di
una sostanza che non determini l’incremento dell’efficacia
nota della stessa o la mera scoperta di una nuova proprietà o
di un nuovo uso per una sostanza nota o del mero uso di
processo, macchina o apparecchio noti a meno che non ne
derivi un nuovo prodotto o un nuovo impiego; sali, esteri,
eteri, polimorfi, metaboliti, forma pura, particelle, isomeri,
miscele di isomeri, complessi, combinazioni ed altri derivati
di sostanze note saranno considerate come la stessa sostanza,
a meno che non differiscano significativamente nelle proprie‑
tà in relazione all’efficacia.
8 Ahibhusan De – U. Baskaran, What the New Patent Regime Means In Prac‑
tice, in Manag. Intell. Prop., 2005, p. 63; M. Singh, India’s Patent Law—Is It
TRIPS Compliant?, in Manag. Intell. Prop., 2005, p. 67- 69: “ the objective
behind section 3(d)’s elaborate explanation is probably to check what the In‑
dian generic drug makers allege as evergreening”; S. Basheer Limiting the Scope
of Pharmaceutical Patents and Micro-organisms: A TRIPS compatibility Re‑
view, Intellectual Property Institute, London 2005, p.166; R. Feldman, Re‑
thinking Rights in BioSpace, in S. Cal. L. Rev., 79, 2005, p. 30; A.B. Engelberg,
Special Patent Provisions for Pharmaceuticals: Have they Outlived Their Use‑
fulness?, in Idea, 39, 1999, p.389.
9 Patents (Amendment) Act, n.15 del 2005.
10 B.Shamnad - R. Prashant, The Efficacy of Indian Patent law: Ironing out the
Creases in Section 3 (d) in Scriped, V, 2, 2008, pp.232-266; Mueller J. M.,
The Tiger Awakens: The Tumultuous Transformation of India’s Patent System
and the Rise of Indian Pharmaceutical Innovation in U. of Pittsburgh L. Rev.,
68, 2207, p.111.
2 0 1 3
135
La sezione 3 d) dell’Indian Patents Act, in particolare,
muove da un duplice quesito: il primo volto a stabilire se la
sostanza in oggetto sia un derivato di una sostanza già nota,
il secondo originato dalla risposta affermativa alla prima ed
volto a verificare se sussista o meno un incremento di efficacia
rispetto alla sostanza esistente.
Il sistema indiano prevede, dunque, ai fini della brevetta‑
bilità di prodotti chimico-farmaceutici costituenti una nuova
forma di una sostanza già oggetto di tutela brevettuale che
risulti in concreto integrato il requisito dell’incremento dell’ef‑
ficacia nota, in aggiunta ai tre requisiti classici della novità,
non ovvietà ed applicabilità industriale.
2.1 sez. 3 d) come espressione del fenomeno della circo‑
lazione di modelli giuridici
È interessante notare che la previsione dell’Indian Patents
Act come novellato nel 2005, pur non trovando paralleli in
nessuna altra legislazione sui brevetti, è espressione del feno‑
meno della circolazione di modelli giuridici, ricalcando una
direttiva comunitaria11 riguardante la regolamentazione della
sicurezza dei farmaci, in specie l’’articolo 10 (2) (b) della di‑
rettiva 2004/27/EC.
Tale direttiva definisce un prodotto medicinale generico
come: “un prodotto medicinale che ha la stessa composizione
qualitativa e quantitativa di sostanze attive e la stessa forma
farmaceutica come il prodotto medicinale di riferimento e la
cui bioequivalenza con il prodotto medicinale di riferimento
è stato dimostrato da studi appropriati di biodisponibilità.
I sali differenti, esteri, eteri, isomeri, miscele degli isome‑
ri, complessi o derivati di una sostanza attiva saranno consi‑
derati come la stessa sostanza attiva, a meno che differiscano
significativamente nelle proprietà riguardo alla sicurezza e/o
efficacia.”.
Ciò posto, appare chiaro che la trasposizione di una sif‑
fatta misura nel regime brevettuale possa porre problemi di
notevole entità.
Il termine efficacia di cui alla direttiva comunitaria opera
nel contesto di un regime disciplinante i medicinali e, conse‑
guentemente, appare più arduo da soddisfare nella fase di
rilascio del brevetto.
Occorre, infatti, considerare che le case farmaceutiche
generalmente avanzano la richiesta di brevetto nella fase
iniziale della scoperta di un prodotto e solo molto più tardi
pervengono al processo di sviluppo di studi clinici, raccoglien‑
do le informazioni pertinenti all’efficacia terapeutica del
farmaco.
La necessità di soddisfare il requisito dell’incremento di
efficacia rispetto alla sostanza già nota, come richiesto dalla
sez. 3 d) dell’Indian Patents Act nella fase della presentazione
della richiesta di brevetto appare, quindi, particolarmente
onerosa.
La legislazione indiana è stata percepita con inquietudine
nel panorama internazionale, assunto che la sezione 3 d)
dell’Indian Patents Act, pur essendo stata introdotta, come
emerge dai dibattiti parlamentari, con l’intento di promuove‑
11 Direttiva 2004/27/EC del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31 marzo
2004 che novella la direttiva 2001/83/EC recante un codice comunitario rela‑
tivo ai prodotti medicinali per uso umano.
internazionale
Gazzetta
136
D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
re l’innovazione precludendo la brevettabilità di prodotti che
non presentino un’efficacia maggiore rispetto a quelli già
brevettati, viene tuttora considerata dalle multinazionali
farmaceutiche come la norma che consente all’India di poten‑
ziare il mercato di generici.
Gazzetta
F O R E N S E
2.2 Ratio sottesa alla previsione normativa: indagine
diacronica
L’analisi della sez.3 d) dell’Indian Patent Act non può
prescindere da un’indagine diacronica12 , onde comprenderne
la ratio ed evidenziare le peculiari modalità attraverso cui
l’India cerca di contemperare le opposte istanze di tutela
dell’innovazione e sviluppo nel settore farmaceutico con la
necessità di garantire l’accesso ai farmaci attraverso il poten‑
ziamento del mercato dei generici.
La ricostruzione del quadro storico di riferimento,13appare,
infatti, fondamentale per meglio comprendere la peculiarietà
del sistema indiano in materia di tutela brevettuale dei farma‑
ci, posto che lo sviluppo del sistema indiano dei brevetti è lo
specchio dello sviluppo storico del Paese, che può essere sud‑
diviso in tre periodi: il primo è quello della colonizzazione
inglese14, il secondo è quello della post-indipendenza e l’attua‑
le periodo in cui l’India assurge potenza globale emergente.
In particolare, la prima legge sui brevetti in India risale
all’India’s Act VI del 1856 “sulla protezione delle invenzioni”,
che conferiva privilegi esclusivi agli inventori di nuove mani‑
fatture per un periodo di quattordici anni15.
Tale normativa, emendata nel 1859 rubricata “legge per
conferire privilegi esclusi agli inventori” (Act for granting
exclusive privileges to inventors) ricalcava il British Patent
Law del 1852, essendo una normativa imposta dal Regno
Unito nel periodo della colonizzazione.16
Nel 1872 veniva promulgato il “Patens and Designs Pro‑
tection Act” che rimaneva in vigore per ben trent’anni, fino
all’emanazione del “Protection of Inventions Act “ del 1883,
seguito da ultimo dall’Indian Patents and Design Act del
191117che sostituiva tutta la legislazione precedente in materia
brevettuale.
La legge del 1911 istituiva un sistema di priorità all’inter‑
no dell’impero britannico di guisa che qualora un soggetto
avesse richiesto un brevetto in India avendo precedentemente
presentato una domanda per la stessa invenzione nel Regno
Unito nell’arco di dodici mesi, gli veniva conferito il brevetto
tenendo conto della prima data di deposito nel Regno Unito.
Ciò faceva sì che pure se fossero intervenute pubblicazio‑
ni o usi dell’invenzione in India durante il periodo di priorità
(dodici mesi dalla data di deposito nel Regno Unito) queste
non avrebbero potuto in alcun caso ostacolare la concessione
del brevetto indiano18.
Ai sensi della normativa del 1911 i brevetti venivano con‑
cessi per la durata di sedici anni al termine dei quali era
ammissibile un periodo addizionale di estensione fino a sette
anni.
Nonostante che, al pari della normativa pregressa, il Pa‑
tent Act del 1911 consentiva la brevettabilità dei prodotti
farmaceutici, durante la colonizzazione britannica non si è
riscontrata in India una crescita del settore farmaceutico,
poiché il sistema dei brevetti era sostanzialmente utilizzato
come uno strumento di controllo, per impedire che le aziende
farmaceutiche indiane riproducessero farmaci inventati
all’estero19.
Ottenuta l’indipendenza dal Regno Unito nel 1947, l’India
con quattrocento milioni di persone rappresentava un quinto
della popolazione mondiale ed era tra i Paesi più poveri del
mondo.
Con un’industria farmaceutica per nulla sviluppata 20, di‑
ventava una sfida fondamentale per i nuovi leader indiani
affrontare la sconcertante domanda potenziale di farmaci a
basso costo.
L’infelice eredità della dominazione britannica consisteva
in una legislazione sui brevetti imposta senza tener conto
delle reali esigenze di in un Paese con un’economia in gran
parte agraria, un sistema in cui venivano importati e commer‑
cializzati al prezzo più alto del mondo i farmaci più moderni
fabbricati all’estero21.
Solo pochi mesi dopo l’indipendenza, con una risoluzione
del governo indiano del 10 Gennaio 1948, veniva nominato
un Comitato di esperti incaricato di rivedere le leggi sui bre‑
vetti in India, al fine di introdurre una normativa più consona
agli interessi nazionali 22.
Il comitato di esperti evidenziava a pieno il fallimento del
sistema di brevetti indiano vigente per stimolare l’innovazio‑
ne ed incoraggiare lo sfruttamento delle nuove invenzioni per
scopi industriali 23 e raccomandava modifiche radicali delle
leggi sui brevetti esistenti onde promuovere il progresso tec‑
nologico e l’industrializzazione24 del Paese.
Appariva necessario individuare le tipologie di invenzioni
per le quali era ammissibile la tutela brevettuale; prendere una
12 J. M. Mueller, The Tiger Awakens: The Tumultuous Transformation of India’s
Patent System and the Rise of Indian Pharmaceutical Innovation, in Univ. of
Pittsburgh L. Rev., 68, 2007, p.491-641; J. Chaisse - S. Guennif, Present Stakes
around Patent Political Economy: Legal and Economic Lessons from the
Pharmaceutical Patent Rights in India, in Asian J. of WTO & Int. Health L.
and Policy, 2007, pp. 65-98; S. Vepachedu - M.Rumore, The Pharmaceutical
Industry and the New Patent Regime in the Indian Union, in Andhra J. of
Indust. News, 10, 2005, p.4
13 m. dragoni, L’India e la Tutela della Proprietà Industriale: la Nuova disciplina
delle invenzioni farmaceutiche tra aperture e resistenze, in Diritto del Com‑
mercio Internazionale, 4, 2011, p. 1007-1046 ; D.N. Choudhary, Evolution
of Patent Laws, Dehli, 2006, pp.13 e ss.
14 Denis Judd, The Lion And The Tiger: The Rise And Fall Of The British Raj,
1600-1947, 2004, pp. 14-27
15Elizabeth Verkey, Law Of Patents, 15 , 2005
16 Rajesh Sagar, Introduction of Exclusive Privileges/Patents in Colonial India:
Why and for Whose Benefit, in Intell. Prop. Q., 2, 2007, p.164, 166.
17 Patents and Design Act, 1911, n. 2 del 1911.
18 § 78A (2), Design Act n. 2 del 1911.
19 S.CChaudhuri,, TThe WTOWTO and India’s Pharmaceuticals Industry:
Patent, Protection, Trips and Developing Countries, Oxford, 2005, p.128-132.
20 S. Ragavan, Of the Inequals of the Uruguay Round, in Marquette Intell. Prop.
L. Rev., 10, 2006, pp.273-301:“when India became independent, the pharma‑
ceutical sector was dominated by multinational companies.”; S. K. Sahu,
Technology Transfer, Dependence, and Self-Reliant Development In The Third
World: The Pharmaceutical And Machine Tool Industries In India, Praeger
1998.“[a]lthough the foundation of the modern pharmaceutical industry was
laid in 1901 with the
21 V. Sripati, Human Rights in India. Fifty Years After Independence, in Denver
J. of Int. L. and Policy, 26, 1997, pp.93-136.
22 N. Rajagopala Ayyangar, Report On The Revision Of The Patents Law,
Settembre 1959.
23P. S. Narayanan, Intellectual Property Law in India, Gogia Law Agency, 1,
Hyderabad 2005, p.64.
24 S.Krishnaswamy, Intellectual Property and India’s Development Policy, in The
Indian J. of L. and Tech., 1, 2005.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
decisione in merito alla possibilità di vietare la concessione di
brevetti indiani a stranieri o di ammetterla a condizione che
tali brevetti avessero un’applicazione industriale in India;
stabilire se aderire o meno alle convenzioni internazionali
sulla proprietà intellettuale, quali la Convenzione di Parigi.
Venne istituito il “Drug Price Control Orders” (DPCO)
per il controllo dei prezzi, onde assicurare l’accesso ai farma‑
ci 25, che provvedeva a pubblicare una lista dei farmaci essen‑
ziali con un largo volume di vendita, stabilendone un prezzo
ragionevole, tenendo conto della copertura dei costi dei mate‑
riali, formulazione, imballaggio, distribuzione ed assicurando
contemporaneamente un margine di profitto ragionevole.
In particolare, il prezzo dei farmaci essenziali veniva fis‑
sato in modo da assicurare un margine del 75% tenendo
conto dei vari costi di produzione per la casa farmaceutica; il
margine per i farmaci non essenziali veniva fissato nel
150%.
Dopo dieci anni ed un lungo dibattito parlamentare en‑
trava finalmente in vigore il 20 aprile 1972 l’Indian Patents
Act del 1970.
Caratteristica peculiare della normativa brevettuale india‑
na del 1970 è stata l’abrogazione della brevettabilità dei
prodotti farmaceutici 26.
Dunque, a partire dal 1970 l’innovazione farmaceutica è
stata protetta solo attraverso brevetti di metodo o processo
soggetti ad un termine di sette anni dalla data di concessione
del brevetto27, differentemente da tutti gli altri brevetti di
processo dove il termine era di quattordici anni.
L’india optava, pertanto, per un sistema debole di tutela
della proprietà industriale al fine di promuovere la crescita di
aziende farmaceutiche locali.
Si prevedeva, inoltre, una sorta di compulsory licensing
che il governo esercitava selezionando di volta in volta l’azien‑
da farmaceutica nazionale deputata a produrre un determi‑
nato farmaco, ricompensando il detentore del brevetto con
esigue royalties.
Solo la produzione locale avrebbe validato l’uso effettivo
del brevetto: veniva assegnato un termine triennale al titolare
del diritto di brevetto per esercitare il suo diritto attraverso
la produzione locale.
Nella duplice ipotesi in cui in cui al termine di tale perio‑
do il farmaco non fosse stato disponibile o fosse stato dispo‑
nibile ad un prezzo non accessibile, il Governo indiano
avrebbe ritenuto non soddisfatto l’interesse pubblico e avreb‑
be di conseguenza concesso una licenza obbligatoria.
Qualora, poi, decorsi due anni dalla concessione della li‑
cenza obbligatoria il farmaco non fosse stato ancora disponi‑
bile il governo avrebbe revocato il brevetto per difetto di uso
satisfattivo.
Escludendo con il Patent Act del 1970 la brevettabilità dei
prodotti farmaceutici, l’India riusciva in breve tempo a svi‑
luppare una potente industria di generici, diventando leader
mondiale nel settore di alta qualità di fabbricazione di farma‑
ci generici.
Essendo, infatti, ammissibili solo brevetti di processo, a
25 The Drugs Control Act, n. 26, 1950.
26 Sez. 5 Patent Act n. 39/70.
27 §53 (a).
2 0 1 3
137
partire dal Patent Act del 1970 le aziende locali avevano la
possibilità di copiare le molecole sviluppate dalle multinazio‑
nali farmaceutiche, e dunque, lavorando sulla base del cd.
“reverse engineering”, immettere sul mercato farmaci generi‑
ci o versioni meno costose dei farmaci brevettati.
In tale periodo, la rapida crescita delle industrie locali
farmaceutiche era connessa alla produzione di farmaci gene‑
rici, ma non corrispondeva alla crescita di investimenti in ri‑
cerca e sviluppo.
Completamente differente è stato l’approccio indiano alla
questione brevetti a partire dal 1986 (cd. periodo della globa‑
lizzazione): la partecipazione dell’India ai dibattiti sull’inclu‑
sione di una proprietà intellettuale nel quadro del GATT e la
sua entrata nel l’Organizzazione mondiale del commercio
(WTO), nonché la sua adesione alla Convenzione di Parigi
per la Protezione della proprietà industriale e al Trattato di
cooperazione sui brevetti hanno avuto un influsso notevole
sul sistema brevettuale indiano28.
In particolare, l’India aderiva all’Uruguay Roud Agree‑
ments il 15.04.1994 e ne diventava membro effettivo in data
01.01.1995.
Da tale adesione ne sono derivate riforme che hanno cam‑
biato radicalmente il sistema dei brevetti 29.
Tre sono le riforme che progressivamente hanno modifi‑
cato l’impianto della legge del 1970: a) il Patents (Amendment)
Act 17/1999 entrato in vigore con efficacia retroattiva al 1°
gennaio 1995; b) il Patents (Amendment) Act 38/2002 entra‑
to in vigore il 20 maggio 2003; c) il Patents (Amendment) Act
15/2005 ora in vigore.
Con la l. 17/199930 l’India introduceva il primo pacchetto
di norme per consentire l’entrata in vigore della regolamenta‑
zione in materia di brevetti prevista dall’accordo TRIPS31.
Occorre in primis tenere presente che ai sensi dell’art.65
dell’Accordo TRIPS l’India beneficiava di un lasso di tempo
decennale decorrente dall’entrata in vigore dello stesso per
implementale la protezione brevettuale dei prodotti farmaceu‑
tici, adempiendo gli obblighi assunti a livello internazionale
nel seccore chimico-farmaceutico32.
In conformità con suddetto un regime transitorio33veniva,
dunque, istituita una “mailbox” per garantire protezione alle
richieste di brevetto di prodotto farmaceutico, che venivano
archiviate in attesa di essere esaminate al termine di suddetto
periodo che durava dieci anni (dal 01.01.95 al 31.12.04).
Il Trips prevedeva, inoltre, qualora la richiesta di brevetto
28 R. Wendt, TRIPs in India: an Analysis of WTOs Impact on the Political Proc‑
ess in India and the Wider Institutional Settings in the Indian Society, Roskilde
Univ.1999 .
29 R. Otten, The GATT/TRIPS Agreement and Health Care in India, in Nat.
Med. J. of India, 8, 1995, pp.1-3; E. Henderson, TRIPS and the Third World:
the Example of Pharmaceutical Patents in India, in Eur. Intell. Prop. Rev., 19,
1997, pp. 651-663.
30 Patents (Amendment) Act, n. 17 del 1999.
31 J. Sen, Negotiating the TRIPs Agreement, India’s Experience and some Do‑
mestic Policy Issues, Centre for International Trade, Economics and Environ‑
ment, Jaipur India 2001.
32 P. Banerjee, Beyond the Transition Phase of World Trade Organisation: An
Indian Perspective on Emerging Issue, New Delhi, Academic Foundation, 2006;
J. Chaise, Ensuring The Conformity of National Law with World Trade Or‑
ganization Law: India as a Case Study, Centre Sciences Humaines Occasional,
New Delhi 2005.
33 Art.70.9 TRIPs.
internazionale
Gazzetta
138
D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
di prodotto presentasse specifici requisiti34, che durante il
periodo di transizione, il governo indiano potesse riconoscere
un Exclusive Marketing Rights (Emrs), ossia un diritto esclu‑
sivo di commercializzazione (diritto esclusivo di vendita o
distribuzione) per la durata massima di cinque anni dalla
data del deposito della richiesta di brevetto nella mailbox35.
Nel novembre 2001 venne adottata la Dichiarazione di
Doha sull’accordo TRIPs e la salute pubblica 36 , con l’obietti‑
vo di negoziare interpretazioni chiarificatrici circa la flessibi‑
lità che gli Stati possono esercitare nel dare applicazione
tramite leggi nazionali alle disposizioni dell’accordo Trips,
fornendo elementi di chiarezza sui presupposti ed i limiti del
compulsory licensing e della liceità dell’importazione paral‑
lela.
In tale prospettiva, la Dichiarazione di Doha sembra con‑
fermare la circostanza che gli accordi TRIPs non possono e
non devono impedire ai governi degli Stati membri di agire a
protezione della salute pubblica, in particolare per i paesi più
poveri e con i tessuti sociali più esposti ad emergenze sanita‑
rie.
Il Patent (amendment) Act 2002 entrato in vigore il 25
giugno 2002 fu il secondo intervento legislativo volto a con‑
formare la normativa indiana all’accordo Trips, estendendo
la tutela brevettuale per un termine ventennale37.
Un altro aspetto rilevante dell’emendamento del 2002 è
dato dal formale riconoscimento nella legislazione indiana sui
brevetti dell’adesione ai due trattati internazionali principali
della proprietà intellettuale, facenti capo alle Nazioni Unite e
all’organizzazione mondiale della proprietà intellettuale
(WTO).38
Occorre, infatti, tenere presente che, in quanto obbligata
a conformarsi all’accordo TRIPs, l’India ha modificato la sua
legislazione in linea con le disposizioni della Convenzione di
Parigi per la protezione della proprietà industriale, entrata in
vigore in India il 7 dicembre, 1998.
A partire da tale avvenimento, l’India ha dovuto attener‑
si al principio nazionale di parità trattamento, che vieta il
trattamento discriminatorio dei candidati stranieri 39, così
come ha dovuto prevedere il relativo diritto di priorità, che
permette gli stranieri che precedentemente hanno depositato
una richiesta di brevetto nei loro Paesi d’origine la stessa in‑
venzione in India mantenendo la priorità40.
Inoltre il 7 dicembre 1998, l’India ha aderito al Trattato
di cooperazione sul brevetto (Patent Cooperation Traty).
In recepimento dell’art. 27 TRIPs, si introduce nella legi‑
slazione sui brevetti indiana una significativa riformulazione
34 § 24 Patent Act n. 39/70.
35 Art. 70.9 TRIPs.
36 J. T. Gathi, The Doha Declaration on TRIPS and Public Health under the
Vienna Convention of the Law of Treaties, 15, in Harv. J. L. & Tech. 2002,
pp. 292-308; T. Kongolo, TRIPS, the Doha Declaration and Public Health,
in J. World Intell. Prop., 2003, p. 373; . Correa, Implementation of the WTO
General Council Decision on Paragraph 6 of the Doha Declaration on the
TRIPs Agreement and Public Health, WHO, Geneva, 2004, p.10.
37 §27, Patents (Amendment) Act, No. 38/2002.
38 § 3(b), Patents (Amendment) Act, n.38 del 2002, che introduce la definizione
di “convention country”; id. § 3(e) che introduce la definizione di “internatio‑
nal application”; id. § 3(k) che introduce la definizione di “Patent Cooperation
Treaty”; §§ 6, 8(b), 58(c).
39 Art.2, Paris Convention for the Protection of Industrial Property.
40 art. 4 TRIPs.
Gazzetta
F O R E N S E
in senso estensivo: posto che ai sensi del I co. dell’art. 27
TRIPs “possono costituire oggetto di brevetto le invenzioni,
di prodotto o di procedimento, in tutti i campi della tecnolo‑
gia, che siano nuove, implichino un’attività inventiva e siano
atte ad avere un’applicazione industriale”, al termine “inven‑
zione” si attribuisce chiaramente il significato “nuovo pro‑
dotto”.
L’enfasi sulla nozione di “nuovo prodotto” è quella che,
in maniera più radicale, ispirerà la terza revisione della legi‑
slazione del 1970, ovvero il Patents (Amendment) Act
15/2005, che, recependo e specificando estensivamente la
disposizione di cui all’art. 27 TRIPs (laddove fa menzione
della nozione di novità’ come presupposto della brevettabili‑
tà), fa gravare sul soggetto che richiede il brevetto l’onere di
provare che la sostanza o il prodotto sia nuovo e che tale
novità si traduca in un miglioramento della sua efficacia no‑
ta.
Il Patents (Amendment) Act 15/2005, in vigore dal primo
gennaio 2005, consentendo la brevettabilità dei prodotti
farmaceutici, può essere considerato un rilevante input alla
promozione dell’innovazione nel settore farmaceutico in India
e contemporaneamente un fattore propulsivo per la trasfor‑
mazione delle industrie di generici in compagnie innovative
in ricerca in sviluppo, determinando la transizione dell’India
da Paese imitatore ad innovatore 41 .
Posto, inoltre, che la dichiarazione di Doha del 200142,volta
a garantire la preminenza dei diritti umani rispetto a quella
dei detentori dei brevetti ha lasciato gli Stati membri liberi di
prevedere eccezioni alla brevettabilità dei prodotti43, la legi‑
slazione indiana in tema di proprietà intellettuale ha previsto
la Sezione 3 d) che in sostanza impedisce la brevettabilità di
nuove forme di sostanze già note qualora non risulti sussisten‑
te un incremento di efficacia nota.
41 Mark A. Dutz , Unleashing India’s Innovation Toward Sustainable And In‑
clusive Growth, World Bank 2007, p. 1-12; National Knowledge Commission Government of India, Innovation in India, in http://knowledgecom‑
mission .gov.in/downloads/documents/NKC_Innovation.pdf , June 2007; S.
Finston, India: A Cautionary Tale on the Critical Importance of Intellectual
Property Protection, in Fordham Intell. Prop. Media & Ent. L.J.,12, 2002, pp.
887-890: “lack of patent protection has eliminated any incentive for India’s
best scientific minds to develop cures for tropical diseases endemic to India, or
even to remain in India to work in the domestic industry”; W.A. Kaplan - R.
Laing, B.Waning - L. Levison - S. Foster, Is Local Production of Pharma‑
ceutical A Way to Improve Pharmaceutical Access in Developing and Transi‑
tional Countries? Setting a Research Agenda, Boston University School of
Public Health, Boston 2003; W. A. Kaplan - R. Laing, Local Production: In‑
dustrial Policy and access to medicines. An Overview of Key Concepts, Issues,
and Opportunities for Future Research, The World Bank, Washington DC
2005, p.44.
42S. Bartlelt, Compulsory Licences pursuant to TRIPS Article 31 in the light
of the Doha Declaration on the TRIPS Agreement and Public Health, in The
J. of World Intell. Prop., 6, 2003, pp. 283-310; J. Bourgeois J – T. J. Burns,
Implementing Paragraph 6 of the Doha Declaration on TRIPS and Public
Health: the Waiver Solution, in The J. of World Intell. Prop., 6, 2002, pp.835864; J. T.Gathii, The Doha Declaration on TRIPS and Public Health under
the Vienna Convention of the Law of Treaties, cit. p.300.
43 B. Baker, Arthritic Flexibilities for Accessing Medicines: Analysis of WTO
Action Regarding Para 6 of the Doha Declaration on the TRIPs Agreement
and Pubblic Health, in Ind. Int. and Comp. L. Rev., 14, 2004, pp.613-619 ;
M. Ducan, WTO Decision on Implementation of Paragraph 6 of the Doha
Declaration on the TRIPs Agreement and Pubblic Heath: A solution to the
Access to Essential Medicines Problem?, in J. of Int. Ec. L., 7, 2004, p.73.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
3. Concetto di incremento di efficacia
Costituendo la sez. 3 d) dell’Indian Patent Act una pre‑
visione normativa sui generis, posto che non si riscontra in
nessun altro regime brevettuale l’adozione del requisito dell’in‑
cremento dell’efficacia nota per ammettere la brevettabilità di
implementazioni di prodotti, appare fondamentale focalizza‑
re l’attenzione sul concetto di incremento di efficacia nota
(“enhancement of known efficacy”) .
Ai sensi del dettato legislativo non è da ritenersi un’inven‑
zione ed è dunque esclusa dalla brevettabilità “ la mera sco‑
perta di una nuova forma di una sostanza nota che non
presenti un incremento dell’efficacia nota o il mero uso di un
processo noto, macchina, apparato, a meno che da tale pro‑
cesso noto non ne derivi un nuovo prodotto o nuovo impie‑
go”.
La nota esplicativa chiarisce che “sali, esteri, eteri, poli‑
morfi, metaboliti, forma pura, particelle, isomeri, miscele di
isomeri complessi, combinazioni ed altri derivati di sostanze
note saranno considerate come la stessa sostanza, salvo che
presentino una differenza significativa nelle proprietà con
riferimento all’efficacia”
Il requisito dell’“incremento dell’efficacia nota” di cui
alla sez. principale e la “differenza significativa nelle proprie‑
tà con riferimento all’efficacia” di cui alla nota esplicativa
hanno determinato l’insorgere di un contrasto esegetico, de‑
lineandosi sul punto due orientamenti antitetici.
Il dibattito trae origine dalla circostanza che non sembra
evincersi chiaramente dalla formulazione testuale se il con‑
cetto di incremento dell’efficacia nota debba riferirsi solo
all’efficacia terapeutica o se, al contrario, vada interpretato
in un significato più ampio, riferendosi a qualsiasi vantaggio
derivante dall’implementazione di una sostanza nota come es.
l’aumento della biodisponibilità.
3.1 (Segue):implicazioni sul sistema globale
L’indagine in merito alla duplice interpretazione del requi‑
sito dell’incremento dell’efficacia nota richiesto dalla 3 d)
dell’Indian Patent Act appare, dunque, necessaria al fine di
tentare di fornire una risposta alla questione inerente all’esat‑
ta portata di questa normativa innovativa.
In specie, secondo un primo e più condivisibile orienta‑
mento 44, rendendo brevettabili solo quei derivati di prodotti
che presentino un incremento di efficacia rispetto quella già
nota, la sezione 3 d) dell’Indian Patent incentiverebbe lo svi‑
luppo sequenziale dei prodotti (cd.incremental innovation),
in modo da soddisfare meglio i bisogni della salute pubbli‑
ca.
Si mirerebbe, pertanto, attraverso siffatta previsione legi‑
slativa a prevenire l’evergreening45dei brevetti e ad incoraggia‑
44 Tale orientamento appare in linea con i dibattiti parlamentari. Mashelkar
Committee, Report of the Technical Expert Group on Patent Law Issues,1-56,
2006.
45 A. Ramanujan- R. Sen, Pruning the Evergreen Tree or Tripping up Over
TRIPS? Section 3(d) of the Indian Patents Act, 1970, in Int’l Rev. Intell. Prop.
e Competition L., 41, 2010, pp 170-186; S. Basheer, Limiting the Scope of
Pharmaceutical Patents and Micro-organisms: A TRIPS compatibility Review,
Intellectual Property Institute, London 2005, p.166; R. Feldman, Rethinking
Rights in BioSpace, in S. Cal. L. Rev., 79, 2005, p. 30; A.B. Engelberg, Special
Patent Provisions for Pharmaceuticals: Have they Outlived Their Usefulness?,
in Idea, 39, 1999, p.389.
2 0 1 3
139
re l’innovazione in un settore quale è quello farmaceutico in
cui, a causa dei vari interessi in gioco, appare necessario as‑
sicurare che tutela brevettuale venga concessa per prodotti
realmente innovativi e non sia volta unicamente a garantire
un monopolio (che si tradurrebbe esso stesso in un fattore
contro R&D e dunque contro il diritto fondamentale alla
salute).
Rendendo la brevettabilità dei prodotti farmaceutici se‑
condari più onerosa che negli altri campi, la sez.3 d) assurge‑
rebbe a fattore propulsivo per case farmaceutiche ai fini della
ricerca di nuove formulazioni di sostanze già oggetto di bre‑
vetto, in grado di apportare reali vantaggi terapeutici al
consumatore finale.
Ne discende che la protezione brevettuale indiana mira a
garantire l’accesso ai farmaci, potenziando al contempo il
ruolo dei brevetti come incentivo nel campo della R&D46, in
linea con quanto sancito dalla dichiarazione di Doha, a teno‑
re della quale l’accordo TRIPs può e deve essere interpretato
nel senso di sostenere il diritto degli Stati aderenti alla salva‑
guardia della salute pubblica.
Per contro, si ravvisa l’opinione di quanti hanno eviden‑
ziato che, pur apparendo comprensibile l’esigenza di evitare
che i derivati di prodotti farmaceutici privi di novità o di
salto inventivo, ottengano protezione brevettuale, appare di‑
scutibile che ciò venga perseguito attraverso l’introduzione di
un nuovo ed aggiuntivo requisito non previsto dall’Accordo
TRIPS.
A tenore di siffatta impostazione il requisito dell’incremen‑
to dell’efficacia richiesto per la concessione di brevetti farma‑
ceutici secondari sarebbe espressione della riluttanza dell’In‑
dia per l’innovazione incrementale e si tratterebbe sostanzial‑
mente di un espediente legislativo per continuare ad incremen‑
tare la produzione di generici in India.
Proprio muovendo da tali argomentazioni, nel 20009 una
relazione47 pubblicata da U.S.-India Business Council (USI‑
BC) and the Coalition for Healthy India (CHI) faceva appel‑
lo al governo indiano di concedere brevetti per le innovazioni
incrementali e auspicava l’abolizione della sezione 3 d dell’In‑
dian Patent Act, essendo l’India l’unico paese nel mondo che
escluderebbe, secondo tale orientamento, l’intera categoria
delle innovazioni farmaceutiche incrementali dalla brevetta‑
bilità.
Le implicazioni derivanti dall’adesione all’una o all’altra
46 A. B. Jaffe - J.Lerner, Innovation and its Discontents: How Our Broken Pat‑
ent System is Endangering Innovation and Progress and what to do about it,
London 2004, p. 35; S. Chaudhuri,Is Product Patent Protection Necessary in
Developing Countries for Innovation: R&D by Indian Pharmaceutical Com‑
panies After TRIPS, Indian Inst. of Management, Kolkotta, Working Paper n.
614, 2007, p.15; D. Gevais, Intellectual Property, Trade & Development: the
State of Play, in Fordham L. R., 74, 2005 p. 505; J.A. Di Masi, The Price of
Innovation: New Estimates of Drug Development Costs, in J. Health Econ.,
22, 2003 p-151; R. Lenton – A. M. Wright - K. Lewis, Health, Dignity, and
Development: What will it take?, London 2005; Kang M., Trade policy mix
under the WTO: protection of TRIPS and R&D subsidies, Korea Institute for
International Economic Policy, 2000; M. Morgan, Medicines for the Develop‑
ing Word: Promoting Access and Innovation in the Post-TRIPs Environment,
in University of Toronto Faculty Law Review, 64, 2006, p. 45;S. Chandran,
Implications of New Patent Regime on Indian Pharmaceutical Industry: Chal‑
lenges and Opportunities, in J. Int. Prop. Rts., 10, 2005, p. 269.
47 US India Business Council, The value of incremental Pharmaceutical Innova‑
tion : Benefits for Indian Patients and Indian Business, in http://www.indiaen‑
vironmentportal.org.in/files/USIBCIncrementalInnovationReportFinal.pdf,
giugno 2009.
internazionale
Gazzetta
140
D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
tesi sono rilevanti, incrementando o riducendo la distanza
rispetto agli altri sistemi brevettuali mondiali in cui non è
prevista una disposizione analoga alla sez. 3 d).
Sembra, infatti, evidente che, qualora il requisito dell’in‑
cremento dell’efficacia nota dovesse essere interpretato in un
significato restrittivo come incremento di efficacia terapeuti‑
ca, diventerebbe più complesso ottenere in India un brevetto
farmaceutico secondario, non essendo ad es. sufficiente la
dimostrazione dell’aumento della biodisponibilità del prodot‑
to, ma essendo necessario altresì la dimostrazione che da
siffatto incremento della biodisponibilità ne discenda un be‑
neficio per il paziente in termini di efficacia terapeutica.
Diversamente opinando, ove si dovesse ritenere sufficien‑
te ai fini dell’integrazione di siffatto requisito qualsiasi van‑
taggio derivante dall’implementazione di una sostanza nota,
potrebbe essere sufficiente ad es. l’incremento della biodispo‑
nibilità del prodotto, senza che sia necessaria la dimostrazio‑
ne che da esso ne discenda l’incremento dell’efficacia terapeu‑
tica.
Appare chiaro che questa seconda interpretazione del re‑
quisito dell’incremento dell’efficacia ridurrebbe le distanze
con gli altri sistemi brevettuali nel mondo, dove non è prevista
una normativa come la sez. 3 d) dell’Indian Patent Act.
Tale sarebbe senz’altro l’interpretazione più compatibile
in una prospettiva globale, ma per vero non sembra essere
quella seguita dall’ufficio brevetti indiani né dalle corti india‑
ne, che stanno adottando un’interpretazione restrittiva del
requisito dell’incremento di efficacia come incremento dell’ef‑
ficacia terapeutica.
Emblematico è il caso 48 da cui trae origine la sentenza in
commento, che ha avuto una risonanza mediatica notevole,
vedendo scontrarsi gli interessi economici delle multinaziona‑
li con politica indiana di accesso ai farmaci e di potenziamen‑
to dell’industria dei generici49.
3.2 Il caso di specie
Il 17 luglio 1998 la multinazionale farmaceutica svizzera
Novartis AG presentava all’ufficio brevetti di Madras una
richiesta di brevetto per un proprio prodotto, l’imatinib me‑
sylato, ingrediente attivo del farmaco anti-tumorale Glivec
utilizzato per il trattamento negli stadi avanzati della leucemia
mieloide cronica.
In particolare, l’imatinib mesilato appartiene ad una ca‑
tegoria di nuovi farmaci, detti “a bersaglio”, “target specifi‑
co” o “biologici” o ancora “intelligenti” per la loro strategia
mirata, utilizzata per colpire selettivamente le cellule tumo‑
rali.
Nel gennaio 2006 l’Ufficio brevetti indiano negava la
concessione del brevetto sostenendo che non rientrasse nei
parametri di cui alla sez. 3d della Legge Indiana sui brevet‑
ti.
48 Novartis AG v Natco Pharma and Others, Indian Patent Office, Application
No.1602/MAS/1998.
49 S.Basheer - T.P.Reddy, Ducking TRIPS in India: A Saga involving Novartis
and the legality of Section 3(d)”, in Nat. L. School of India Rev., 20, 2008,
pp.232-266; T. Gerherdsen, Novartis Persists with Challenge to Indian Patent
Law Despite Adversity, in Intell.Prop.Watch, 2006, p.143; J.M. Mueller,
Taking Trips to India - Novartis, Patent Law, and Access to Medicines, the New
Engl. J. of Medicine, 2007, p.541; J.M. Mueller, Taking Trips to India - No‑
vartis, Patent Law, and Access to Medicines, the New Engl. J. of Medicine,
2007, p.541.
Gazzetta
F O R E N S E
In specie si riteneva che le forme cristalline dell’imatinib
mesylate non differivano nelle proprietà riguardo all’efficacia
e perciò le varie forme di imatinib mesylate dovessero essere
considerate “la medesima sostanza ai sensi della sez.3 (d)
della Legge di brevetti.
Tali argomentazioni erano basate sul fatto che alla multi‑
nazionale farmaceutica Novartis era già stato concesso un
brevetto nel 1993 per la molecola attiva e che la nuova richie‑
sta di brevetto ineriva solo alla specifica forma cristallina.
Le forme cristalline di imatinib mesylate non differivano
significativamente nelle proprietà riguardo all’efficacia, non
venendo ritenuto sufficiente ai fini della dimostrazione dell’in‑
cremento di efficacia rispetto al prodotto noto l’aumento di
30% della biodisponibilità.
L’ufficio brevetti indiano ha ritenuto il Glivec solo una
nuova formulazione di una sostanza nota, essendo basato su
un principio attivo, l’imatinib mesilato, già brevettato in In‑
dia.
La seconda versione non veniva, dunque, ritenuta suffi‑
cientemente distinta dalla prima, ai sensi della sezione 3 d).
3.3 Posizione attorea
Muovendo dall’assunta incompatibilità della sez. 3 d)
della normativa sui brevetti indiana come novellata nel 2005
con le previsioni dell’accordo TRIPS50 nonché dalla sua inco‑
stituzionalità51 la casa farmaceutica Novartis, a fronte del
diniego di brevetto 52 in relazione alla forma cristallina
dell’imatinib mesilato, intentava un causa53 contro il governo
indiano54 per opporsi al diffondersi della versione generica del
farmaco.
La multinazionale farmaceutica a sostegno dell’asserita
innovatività del prodotto, respingendo ogni addebito in tema
di diniego di accesso ai farmaci, sottolineava in giudizio la
circostanza che ai sensi dell’art.27 dell’accordo TRIPs “pos‑
sono costituire oggetto di brevetto le invenzioni, di prodotto
o di procedimento, in tutti i campi della tecnologia, che siano
nuove, implichino un’attività inventiva e siano atte ad avere
un’applicazione industriale”55 .
In particolare, le censure addotte dalla casa farmaceutica
avverso la sezione 3d) erano essenzialmente tre.
Innanzitutto si evidenziava che tra le eccezioni alla bre‑
vettabilità di cui all’articolo 27 del TRIPs non figurasse il
difetto dell’incremento di efficacia delle nuove forme di so‑
stanze note (new forms of known substances lacking enhan‑
ced efficacy), così come previsto dalla legge indiana.
In secondo luogo, muovendo dalla premessa secondo cui
l’accordo TRIPs contempla un espresso divieto in capo ai
50 A. Gentleman, Novartis Files Suit against India Ruling on Drug Patents, in
Int. Herald Trib., 2007, p.13.
51In specie veniva sollevata l’eccezione d’incostituzionalità della sez. 3 d in rela‑
zione all’art. 14 della costituzione Indiana, entrata in vigore il 26/01/50 e da
ultimo novellata in data 01.12.07.
52 Novartis AG v Natco Pharma and Others, Indian Patent Office, Application
n.1602/MAS/1998 , 25 gennaio 2005.
53 Novartis AG & Anr. v Union of India & Others, 4 High Court of Judicature
at Madras (MLJ), 2007 1153.
54 S. Basheer, T – P.Reddy, A Saga involving Novartis and the legality of Section
3 (d), 20 (2) cit. p.235; S. Basheer, India’s Tryst with TRIPS: The Patents
(Amendment) Act, 2005, in Indian J. of L.and Tech., 2005 pp. 30-43.
55 K D. Raju, The Debacle of Novartis Patent Case in India: Strict Interpretation
of Patentability Criteria Under Article 27 of the Trips Agreement, in Indian J
of Intell. Prop. L., 2008, p.1.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
Paesi aderenti di rendere maggiormente oneroso la concessio‑
ne di un brevetto in un settore piuttosto che in un altro, se ne
faceva discendere la contrarietà allo stesso della sezione 3 d),
laddove veniva introdotto un requisito aggiuntivo solo per i
prodotti farmaceutici.
Infine si evidenziava che il concetto di incremento di effi‑
cacia nota di cui alla sez. 3 d) dell’Indian Patent Act si pre‑
stava ad interpretazioni arbitrarie, non ravvisandosi linee
guida o parametri obiettivi di riferimento.
3.4 Posizione del governo indiano
Come emerso dall’istruttoria dibattimentale, invece, se‑
condo il governo indiano la normativa brevettuale indiana
come riformulata con la L. 15/2005 recepirebbe in pieno le
clausole dell’accordo TRIPs sfruttando le flessibilità, di gui‑
sa che le censure avverso la sezione 3 d) apparirebbero del
tutto infondate, fondandosi siffatta previsione normativa
sulla dichiarazione di Doha ed avente come obiettivo primario
la tutela della salute pubblica.
La Dichiarazione di Doha ha, infatti, previsto che l’accor‑
do TRPS “può e deve essere interpretato implementato in
modo da sostenere il diritto dei Paesi membri di proteggere
la salute pubblica e, in particolare, di promuovere l’accesso
ai farmaci per tutti”.
Secondo il governo indiano la sezione 3 d) è stata inserita
proprio per promuovere l’accesso ai farmaci, favorendo la
concorrenza fra prodotti brevettati e farmaci generici.
In particolare, la sez. 3 d) predispone un vero e proprio
test in base al quale l’ufficio brevetti è tenuto a valutare se una
determinata sostanza costituisca realmente una nuova inven‑
zione (sebbene derivata da un farmaco precedentemente
brevettato), aprendo così la strada all’estensione del godimen‑
to dei diritti di sfruttamento della proprietà intellettuale.
4. La pronuncia della Corte Suprema Indiana
La Corte Suprema Indiana nel caso de quo si è pronuncia‑
ta proprio in merito al significato e all’esatta portata della sez.
3 d) dell’Indian Patent Act, chiarendo il rapporto intercorren‑
te tra il requisito dell’incremento dell’efficacia della sostanza
nota richiesto per la brevettabilità dei prodotti farmaceutici
ed i classici requisiti di brevettabilità di un prodotto (innova‑
tività, non ovvietà ed applicabilità industriale) di cui alla sez.
2.
A parere dell’organo giudicante, posto che la sez. 3) d va
intesa come previsione normativa ex majore cautela ai fini
della prevenzione dell’abuso della tutela brevettuale nel setto‑
re chimico-farmaceutico, è ben possibile che un prodotto
chimico-farmaceutico, pur rientrando in astratto nell’ambito
di operatività della sez. 2 dell’Indian Patent Act, possedendo
i requisiti di innovatività, non ovvietà ed applicabilità indu‑
striale, si veda poi in concreto negare la brevettabilità laddo‑
ve non risulti all’esito dell’istruttoria dibattimentale soddisfat‑
to l’onere probatorio posto a carico del patent applicant di
dimostrazione della sussistenza del requisito dell’incremento
dell’efficacia terapeutica derivante dall’innovazione.
Nel caso de quo, la Suprema Corte è stata, dunque, chia‑
mata a trovare un giusto contemperamento tra l’esigenza di
promuovere la ricerca e lo sviluppo scientifico tecnologico e
quella di ridurre al minimo il monopolio brevettuale, tenendo
in considerazione le istanze antitetiche di quanti evidenziava‑
2 0 1 3
141
no la necessità che l’India dia fedele esecuzione agli impegni
assunti nell’ambito dei trattati internazionali, dall’altro gli
argomenti di segno opposto volti ad evidenziare lo status
assunto dall’India quale “farmacia del mondo”, tenendo ben
presente che una pronuncia errata avrebbe potuto relegare i
farmaci salva vita fuori dalla portata della maggior parte
della popolazione, non solo di quella indiana ma anche di
tutti i Paesi in via di sviluppo e Paesi sotto-sviluppati impor‑
tatori di farmaci generici dall’India.
Attraverso una breve ricostruzione del quadro storico,
contestualizzando il caso di specie in una prospettiva diacro‑
nica, la corte evidenzia che la domanda di brevetto oggetto di
causa era stata presentata nel 1998, periodo in cui vigeva la
cd. “mail box-procedure”, antecedentemente alla novella del
Patent Act intervenuta nel 2005, che per rendere il sistema
brevettuale indiano conforme ai termini dell’accordo Trips ha
da un lato introdotto la brevettabilità dei prodotti farmaceu‑
tici, ma ha altresì previsto la necessità della sussistenza del
requisito dell’incremento di efficacia rispetto alla sostanza
nota ai fini della brevettabilità di un’innovazione incremen‑
tale relativa ad un prodotto farmaceutico.
A parere della Corte, per una corretta soluzione ermeneu‑
tica della questione, occorre muovere dalla ratio della riforma
del 2005, dovendosi ritenere che un’interpretazione teleologi‑
ca della sez. 3 d) dell’Indian Patent Act debba prevalere su
quella letterale.
Fungono da ausilio sia indici esterni, quali ad es. oggetto
e motivazioni del disegno di legge presentato al Parlamento,
relazioni delle commissioni che hanno preceduto il progetto
di legge e le relazioni delle commissioni parlamentari, che
indici interni, ossia il preambolo, il regime giuridico e le sin‑
gole disposizioni della legge sui brevetti.
Proprio ai fini di una corretta comprensione dell’attuale
formulazione della sez. 3 d) dell’Indian Patent Act, come
novellato nel 2005, delle motivazioni e degli obiettivi di tale
scelta legislativa nonché delle modalità attraverso cui si per‑
seguono siffatte finalità, la Corte ha, dunque, effettuato un
breve excursus storico del sistema dei brevetti indiano, evi‑
denziandone le tappe fondamentali e sottolineando l’impor‑
tanza dell’adesione dell’India all’accordo Trips, anche attra‑
verso la citazione di autorevole dottrina sul punto56che ha
affrontato la tematica dell’ascesa dell’industria farmaceutica
indiana all’indomani dell’accordo TRIPs.
Nella parte seguente della sentenza la corte indiana evi‑
denzia poi come il legislatore indiano si sia fatto carico della
preoccupazioni evidenziate dalle due più grandi organizzazio‑
ni sanitarie internazionali (Organizzazione Mondiale della
Sanità e medici senza frontiere) che la previsione di una tu‑
tela brevettuale per i prodotti farmaceutici, agricoli, chimici
avrebbero potuto comportare l’effetto di mettere i farmaci
salvavita fuori della portata di una fascia molto ampia della
popolazione.
Giova sul punto considerare che l’India assurge a leader‑
ship nella produzione ed esportazione di farmaci generici
antiretrovirali, utilizzati nella lotta all’HIV E AIDS nei Paesi
in via di sviluppo.
56 S. Chaudhuri, The WTO and India’s Pharmaceuticals Industry (Patent Protec‑
tion, TRIPS and Developing Countries), cit.
internazionale
Gazzetta
142
D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
L’opinione della corte è che la normativa sui brevetti in‑
diana, in linea con l’armonizzazione del sistema dei brevetti
operato a livello mondiale dall’accordo TRIPs, cerca di bi‑
lanciare gli obblighi discendenti dall’adesione al trattato in‑
ternazionale con l’impegno di proteggere e promuovere la
salute pubblica non solo della popolazione indiana, ma anche
di paesi in via di sviluppo e sottosviluppati.
Proprio a tal fine avrebbero mirato gli emendamenti ap‑
portati rispettivamente nel 1999, 2002 e 2005 al Patent Act
del 1970.
Del resto la dichiarazione di Doha del 2001 aveva sotto‑
lineato che l’accordo TRIPs può e deve essere interpretato ed
applicato in modo da sostenere il diritto dei membri dell’or‑
ganizzazione mondiale della sanità di proteggere la salute
pubblica e, in particolare di promuovere l’accesso ai farma‑
ci.
La novella del 2005, in specie, si pone nell’ottica della
prevenzione del fenomeno dell’evergreening dei prodotti far‑
maceutici e della promozione dell’innovazione incrementale
nel settore chimico-farmaceutico.
Esaminate le ragioni sottese alla scelta legislativa e le
modalità attraverso cui si è perseguito l’obiettivo di confor‑
mare la legislazione brevettuale indiana con gli obblighi as‑
sunti a livello internazionale discendenti dell’adesione all’ac‑
cordo TRIPs, nel tentativo di trovare un giusto contempera‑
mento tra la necessità di garantire l’accesso ai farmaci a tutti
a prezzi contenuti e quella di incentivare le industrie locali
attraverso una politica di promozione della ricerca e dell’in‑
novazione, la corte procede poi ad un’esegesi del dato norma‑
tivo alla luce di tali considerazioni.
La Suprema Corte indiana ha, infatti, chiarito che, ai fini
della brevettabilità di prodotti chimico-farmaceutici costi‑
tuenti una nuova forma di una sostanza già oggetto di tutela
brevettuale, è necessario che risulti in concreto integrato il
requisito dell’incremento dell’efficacia nota di cui alla sez. 3
d) dell’Indian Patent Act, in aggiunta ai tre requisiti classici
della novità, non ovvietà ed applicabilità industriale di cui
alla sez. 2 (j) e (ja).
La sez. 3 d) va, pertanto, intesa come previsione normati‑
va ex majore cautela ai fini della prevenzione dell’abuso della
tutela brevettuale nel settore chimico-farmaceutico.
Per quanto concerne il requisito dell’incremento dell’effi‑
cacia nota di una sostanza già oggetto di tutela brevettuale
ex sez. 3 d) dell’Indian Patent Act, va inteso come efficacia
terapeutica in un’accezione restrittiva e rigorosa, di guisa che
il semplice cambiamento di forma di un prodotto (con il ri‑
scontro di proprietà inerenti a suddetta forma) non integra il
requisito dell’incremento di efficacia della sostanza nota57.
Grava pertanto a carico del patent applicant l’onere di
dimostrare l’incremento dell’efficacia nota di una sostanza già
oggetto di tutela brevettuale ex sez. 3 d) dell’Indian Patent
Act.
Non è a tal fine sufficiente la dimostrazione dell’aumento
della biodisponibilità del prodotto58 (nel caso di specie del
57 § 181.
58 J. Moffitt, Appropriateness of Bioavailability and Bioavailability and Bioequiv‑
alency as Pre-Market Clearance Considerations, 34, Food Drug Cosm, L. J. 640,
1979 : “it is not the intent of a bio-availability study to demonstrate effectiveness,
but to determine the rate and extent of absorption. If a drug product is not bio-
Gazzetta
F O R E N S E
30%), dovendosi altresì dimostrare in concreto che da siffat‑
to aumento della biodisponibilità ne derivi un incremento
dell’efficacia terapeutica per il paziente, secondo un rapporto
di causa-effetto59.
Nel caso di specie, pertanto, si ritiene non soddisfatto
l’onere probatorio di cui alla sez. 3 d), non risultando dai
fatti di causa e all’esito delle risultanze istruttorie dimostrato
l’incremento dell’efficacia terapeutica del nuovo prodotto.
La Suprema Corte sembra, pertanto, aver preso una posi‑
zione forte in merito alla sez. 3 d) e, dopo averne chiarita,
alla luce di un’interpretazione teleologica, lo scopo di preven‑
zione del fenomeno dell’evergreening dei farmaci, non nega
affatto in astratto la possibilità di ottenere brevetti secondari
in India, ma ritiene che in concreto debba essere provato
l’incremento dell’efficacia terapeutica del nuovo prodotto di
cui si chiede la brevettabilità, dovendosi dimostrare non solo
una proprietà intrinseca allo stesso, ma un reale beneficio per
il paziente.
5. Conclusioni
L’analisi della pronuncia resa dalla Corte Suprema India‑
na sul caso Glivec, con cui per la prima volta sette anni fa si
è messo in discussione il regime dei brevetti indiano, portan‑
do la sez.3 d) dell’Indian Patent Act all’attenzione della co‑
munità internazionale è apparsa fondamentale per porre
l’accento sulla tematica della possibilità di ottenere brevetti
secondari sui farmaci anche in un sistema in cui sembra sus‑
sistere uno sbarramento ab origine.
Fondamentale appare in proposito una statuizione della
Suprema Corte60, laddove si evidenzia che “si è ritenuto che
la forma cristallina dell’imatinib mesylate non soddisfi l’one‑
re probatorio di cui alla sez. 3 d) della Legge sui brevetti, ma
ciò non significa che la sez. 3 d) debba essere intesa come uno
sbarramento alla protezione brevettuale di tutte le invenzio‑
ni incrementali chimiche e farmaceutiche. Sara un grave er‑
rore leggere questa sentenza nel senso che la sez. 3 d è stata
modificata con tale intento. Ciò non viene detto in questo
giudizio”.
La Suprema Corte indiana sembra, dunque, aver preso una
posizione inequivocabile in merito alla sez. 3 d) e, dopo aver‑
ne chiarito, alla luce di un’interpretazione teleologica, lo
scopo di prevenzione del fenomeno dell’abuso della tutela
brevettuale nel settore chimico-farmaceutico, non nega affat‑
to in astratto la possibilità di ottenere brevetti secondari in
India.
In linea di principio, pertanto, è possibile brevettare un’in‑
novazione farmaceutica incrementale anche in India, a con‑
dizione, però, che risulti in concreto integrato il requisito
dell’incremento dell’efficacia terapeutica del nuovo prodotto
ottenuto dallo sviluppo di uno già coperto da tutela brevet‑
tuale.
L’esito interpretativo cui è pervenuta la corte sembra di‑
mostrare l’assunto secondo cui la legge sui brevetti indiana,
come novellata nel 2005, recepisca in pieno clausole dell’ac‑
cordo TRIPs sfruttandone le flessibilità.
available, it cannot be regarded as effective. However a determination that a
drug product is bio-available is not in itself a determination of effectiveness”.
59 § 173.
60 § 191.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
La vicenda giudiziaria è stata espressione della diffusa
riluttanza e diffidenza mostrata nei confronti di una previsio‑
ne legislativa sui generis di difficile interpretazione per la
comunità internazionale, in quanto non rientrante nel patri‑
monio comune dei sistemi brevettuali.
La singolare previsione legislativa dell’Indian Patent Act
di cui alla sez. 3 d), laddove subordina la brevettabilità delle
innovazioni farmaceutiche incrementali alla dimostrazione
dell’incremento dell’efficacia nota del prodotto della cui evo‑
luzione si tratta, è stata guardata con diffidenza nella comu‑
nità internazionale sin dal suo esordio nel panorama giuridi‑
co.
Siffatto requisito di brevettabilità, infatti, non trovando
corrispondenti negli altri sistemi brevettuali e imponendo in
capo al patent applicant un rilevante onere probatorio, si è
prestato alle critiche di quanti hanno ravvisato in esso una
strategia ideata dall’India al solo fine di potenziare il mercato
dei generici, scoraggiando di fatto l’innovazione incrementa‑
le nel settore farmaceutico.
Attraverso un’attenta lettura della sez.3 d), improntata
alla ratio della scelta legislativa, la Suprema Corte è pervenu‑
ta ad una conclusione di segno opposto, chiarendo che si
tratta di una previsione volta non certo ad ostacolare l’inno‑
vazione nel settore farmaceutico, bensì a prevenire il fenome‑
no dell’evergreening dei brevetti, ossia della prassi seguita
talvolta dalle case farmaceutiche di apportare minime modi‑
fiche ai farmaci per ottenere un nuovo brevetto e continuare
così la produzione e commercializzazione in esclusiva.
A tale esito interpretativo la Suprema Corte indiana è
pervenuta nella piena consapevolezza dei vari interessi in
gioco in un settore inerente al diritto alla salute, dove è evi‑
dente che da un lato deve essere garantito l’accesso ai farma‑
ci e dall’altro si avverte quotidianamente la necessità di far‑
maci innovativi in grado di apportare un reale beneficio te‑
rapeutico ai pazienti.
L’equivoco in merito alla portata della sez. 3 d) e al suo
esatto significato traeva probabilmente origine dalla non
chiara linea di demarcazione tra il fenomeno dell’innovazione
incrementale e il fenomeno dell’ingiustificata estensione di un
monopolio.
Indubbiamente rientra nel ruolo dell’ufficio indiano dei
brevetti, nonché delle corti indiane, il compito di chiarire
sempre più il significato e l’esatta portata del requisito incre‑
mento di efficacia di cui alla sez. 3 d), eliminando ogni dubbio
interpretativo.
Siffatto requisito potrebbe risultare eccessivo, considerato
che non è previsto negli altri sistemi brevettuali e che la giu‑
risprudenza indiana, come si è sottolineato attraverso la
sentenza in commento, è attualmente orientata ad interpre‑
tarlo restrittivamente, ritenendolo integrato solo nell’ipotesi
in cui una nuova sostanza è caratterizzata dall’incremento
dell’efficacia terapeutica del prodotto noto.
Muovendo dall’assunto secondo cui il sistema dei brevet‑
ti indiano non nega in astratto la brevettabilità dell’innova‑
zione incrementale, ma richiede la sussistenza in concreto
dell’incremento di efficacia nota come requisito aggiuntivo a
quelli classici della novità, non ovvietà ed applicabilità indu‑
striale, occorre evidenziare che, sebbene sia più difficile otte‑
nere un brevetto secondario su un farmaco in India, la sez.
3d) va letta come un mezzo per incoraggiare lo sviluppo di
2 0 1 3
143
farmaci innovativi, in linea con quanto ritenuto dalla Suprema
Corte nella pronuncia in commento.
Per vero, si potrebbe sostenere che lo stesso obiettivo di
incoraggiare l’innovazione incrementale si sarebbe potuto
raggiungere con modalità differenti.
In una prospettiva comparativa sembra interessante ac‑
cennare all’approccio americano61al requisito di brevettabili‑
tà62della non-ovvietà, come argomento a sostegno della tesi
secondo cui un mezzo per prevenire l’evergreening dei farma‑
ci, in un sistema brevettuale caratterizzato dall’assenza di una
previsione come la sez. 3 d) dell’Indian Patent Act, è focaliz‑
zare l’attenzione sul requisito della non-ovvietà63.
Per vero, si potrebbe addivenire ad esiti interpretativi non
molto divergenti rispetto a quelli cui si perviene attraverso
un’interpretazione estensiva del requisito dell’incremento
dell’efficacia nota di cui alla sez. 3 d), solo laddove si dovesse
ritenere sufficiente per l’integrazione di siffatto requisito di
brevettabilità qualsiasi vantaggio derivante dall’implementa‑
zione di una sostanza nota (come ad es. l’aumento della bio‑
disponibilità).
Tale interpretazione sarebbe stata, indubbiamente, la più
compatibile in una prospettiva globale, ma non sembra quel‑
la seguita dall’ufficio brevetti indiano né dalle corti indiane,
che stanno, invece, adottando un’interpretazione restrittiva
del significato dell’incremento di efficacia come incremento
dell’efficacia terapeutica, orientamento confermato dalla
sentenza in commento.
Basti pensare che in una decisione64 di poco antecedente
alla pronuncia de quo l’Intellectual Property Appellate Board
ha revocato la concessione di un brevetto concesso alla mul‑
tinazionale Roche sull’assunto secondo cui il richiedente non
ha soddisfatto l’onere della prova di cui alla sez. 3d), non
avendo dimostrato che dall’implementazione del prodotto sia
derivato un beneficio aggiunto per il paziente.
Taluno65 aveva atteso la pronuncia della Corte Suprema
61 Pfizer, Inc. v. Apotex, 480 F.3d 1348 (Fed. Cir. 2007).
62 Patent Act of 1952, 35 U.S.C. § 103.
63 A. B. Laakmann, Restoring the Genetic Commons: A “Common Sense”
Approach to Biotechnology Patents in the Wake of KSR v. Teleflex, in Mich.
Telecomm & Tech. L. Rev., 14, 2007, pp.72-74; A. McTague, Secondary
Pharmaceutical Patents Post-KSR: Do They Have A Future?, in Pharm. Law
& Industry Rep., 6, 2008, p.15; S. P. Smith – K.R. Van Thomme, Bridge over
Troubled Water: The Supreme Court’s New Patent Obviousness Standard in
KSR Should Be Readily Apparent and Benefit the Public, in Alb. L.J. Sci. &
Tech.17,2007, pp.204-08; J. e M. Mueller, Intellectual Property Issue:
Article: Chemicals, Combinations, and Common Sense: How the Supreme
Court’s KSR Decision is Changing Federal Circuit Obviousness Determina‑
tions in Pharmaceutical and Biotechnology Cases, in N. Ky. L. Rev., 35, 2008,
p. 281; M. J. Meurer – K. J. Strandburg, Patent Carrots and Sticks: A
Model of Nonobviousness, in Lewis & Clark L. Rev., 12, 2008, p.547; C.
L. Trela, An Afteward To: A Panel Discussion on Obviousness in Patent
Law: KSR International v\re: Supreme Court Decision on KSR International
Co. v. Teleflex Inc., edited by of Commerce, Washington 2007; J. D. Sarnoff,
Bilcare, KSR, Presumptions Of Validity, Preliminary Relief, And Obvious‑
ness in Pat. L. Cardozo Arts &Ent L. J., 25, 2008, p.995; A. Wieker, Second‑
ary Considerations Should Be Given Increased Weight in Obviousness In‑
quiries Under 35 U.S.C. § 103 in the Post-KSR v. Teleflex World, in Fed. Cir.
B.J.,17, 2008, p.665; C.R. Cottrell, Note, The Supreme Court Brings a Sea
Change with KSR International Co. v. Teleflex, Inc., in Wake Forest L. Rev.,
42, 2007, pp.595- 600.
64 Intellectual Property Appellate Board, 02.11.12, Sankalp Rehabilitation Trust
v. F..Hoffmann-La Roche AG.
65 k.Grogan, Pharma World Awaits Verdict In Novartis Vs India Patent Case,
in http://www.pharmatimes.com/ article/12-12-06/pharma_world_awaits_
verdict_in_novartis_vs_india_patent_case.aspx, December 06, 2012.
internazionale
Gazzetta
144
D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
indiana sul caso Glivec di cui in commento, confidando in
una differente interpretazione del requisito dell’incremento
dell’efficacia, di guisa che l’innovativa sez. 3 d) avrebbe avuto
un impatto meno rilevante sul sistema globale.
Ma a parere dell’organo giudicante “il test dell’efficacia
può essere solo quello dell’efficacia terapeutica”66.
Dunque si deve ammettere che il sistema indiano rende la
brevettabilità dei farmaci più difficile che negli altri sistemi
brevettuali.
Ciò potrebbe, indubbiamente, accrescere la produzione di
generici in India, ma assurge altresì a fattore propulsivo per
l’innovazione incrementale, spronando le case farmaceutiche
verso la ricerca di nuove formulazioni di sostanze già oggetto
di brevetto che apportino reali vantaggi terapeutici al consu‑
matore finale67, ben potendo essere concesso anche in India
un brevetto secondario sui farmaci laddove risulti soddisfatto
l’onere probatorio di cui alla sez. 3 d), ossia laddove dalla
modifica o dall’implementazione del prodotto ne derivi un
incremento dell’efficacia terapeutica per il paziente, secondo
un rapporto di causa-effetto.
Posto che ogni regime di tutela della proprietà intellettua‑
le solleva il problema del difficile contemperamento tra la
tutela dell’invenzione e l’accesso ai farmaci,68l’esperienza in‑
diana sembrerebbe dunque mostrare come, contrariamente
all’opinione diffusa, i due obiettivi non siano necessariamen‑
te antitetici69.
66 §180.
67 V.K. Unni, Indian Patent Law and TRIPS: Redrawing the Flexibility Frame‑
work in the Context of Public Policy and Health, in Global Business & Devel‑
opment Law Journal, Vol. 25, 2012, p. 342.
68 G.Shaffer, Recognizing Pubblic Goods in WTO Dispute Settlement: Who
Partecipates? Who Decides? The Case of TRIPs and Pharmaceutical Patent
Protection, in J. of Int. Ec. Law, 7, 2004, pp. 459-462, 2004; O. Agina, Between
Life and Profit: Global Governance and Trilogy of Human Rights, Pubblic
Health and Pharmaceutical Patents, in North Carolina J. of Int. L.and Comm.
Regulation, 31, 2006, p.901.
69 A.Valach, TRIPs: Protecting the Rights of Patent Holders and Addressing
Pubblic Health Issues in Developing Countries, in Chicago-Kent J. of Int. Prop.,
4, p.156, 2005; B. Mercurio, TRIPs, Patents and Access to Life saving Drugs
in the Developing World, in Marquette Intell. Prop. L. Review, 8, 2004 p.211;
A. Feroz, The Law of Patents with a Special Focus on Pharmaceuticals in
India, India, 2009, p.38; S. Vepachedu -M. Rumore, Patent Protection and
the Pharmaceutical Industry in the Indian Union, in Intell. Prop. Today, 4,
ottobre 2004, p. 3 S.B. Myers, A Healthy Solution for Patients and Patents:
How India’s Legal Victory Against a Pharmaceutical Giant Reconcilies Human
Rights with Intellectual Property Rights, in 10 Vanderbilt Journal of Entertain‑
ment and Technology Law, 763, 2008.
Gazzetta
F O R E N S E
F O R E N S E
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Rassegna di diritto
internazionale
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A cura di Francesco Romanelli
Avvocato e Specilista
in Diritto ed Economia delle Comunità europee
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 3
145
Politica sociale – Parità di trattamento in materia di occupazione
e di condizioni di lavoro – Direttiva 2000/78/CE– Articoli 2, paragrafo 2, lettera a), 10, paragrafo 1, e 17 – Divieto di discriminazione fondate sulle tendenze sessuali – Nozione di “fatti sulla base
dei quali si può argomentare che sussiste discriminazione” – Adattamento dell’onere della prova – Sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive – Persona che si presenta e viene percepita dall’opinione pubblica come il dirigente di una squadra di calcio professionistica – Dichiarazioni pubbliche con cui si esclude l’ingaggio
di un calciatore presentato come omossessuale
1) Gli articoli 2, paragrafo 2, e 10, paragrafo 1, della
direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000,
che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento
in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono
essere interpretati nel senso che la dichiarazione di un diri‑
gente di una società sportiva professionistica circa l’esclusio‑
ne dell’ingaggio di un giocatore a causa delle di lui omoses‑
sualità possa essere qualificata alla stregua di «fatti sulla
base dei quali si può argomentare che sussiste discriminazio‑
ne» per quanto riguarda una squadra di calcio professionisti‑
ca, nel caso in cui le dichiarazioni controverse provengano da
una persona che si presenta ed è percepita, nei mezzi di infor‑
mazione e nella società, come il principale dirigente di tale
squadra professionistica, senza che sia per questo necessario
che essa disponga della capacità di vincolare o rappresentare
giuridicamente tale società in materia di assunzioni.
2) L’articolo 10, paragrafo 1, della direttiva 2000/78
deve essere interpretato nel senso che, qualora fatti come
quelli che hanno dato origine alla controversia principale
siano qualificati come «fatti sulla base dei quali si può argo‑
mentare che sussiste discriminazione» fondata sulle tendenze
sessuali in occasione del reclutamento dei giocatori da parte
di una squadra di calcio professionistica, l’onere della prova,
così come adattato dall’articolo 10, paragrafo 1, della diret‑
tiva 2000/78, non implica che la prova richiesta risulti impos‑
sibile da produrre se non a pena di ledere il diritto al rispetto
della vita privata.
3) L’articolo 17 della direttiva 2000/78 deve essere
interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale
– secondo cui, in caso di accertamento di una discriminazio‑
ne fondata sulle tendenze sessuali, nell’accezione di tale di‑
rettiva, qualora tale accertamento avvenga decorso un termi‑
ne di prescrizione di sei mesi dalla data dei fatti, non è possi‑
bile pronunciare altro che un ammonimento come quello di
cui al procedimento principale – se, in applicazione di tale
normativa, siffatta discriminazione non è sanzionata secondo
modalità sostanziali e procedurali che attribuiscono alla san‑
zione un carattere effettivo, proporzionato e dissuasivo.
Spetta al giudice del rinvio valutare se ciò si verifichi nel caso
della normativa oggetto del procedimento principale e, all’oc‑
correnza, interpretare il diritto nazionale quanto più possibi‑
le alla luce del testo e dello scopo della direttiva in questione,
così da conseguire il risultato perseguito da quest’ultima.
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sez. III, sentenza
25 aprile 2013, Causa C–81/12 avente ad oggetto la domanda
di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’ar‑
ticolo 267 TFUE, dalla Curtea de Apel Bucuresti (Romania),
procedimento A. contro Consiliul National pentru Combate‑
rea Discriminarii
internazionale
Gazzetta
146
D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
La direttiva 2000/781 «mira a stabilire un quadro genera‑
le per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le
convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessua‑
li, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavo‑
ro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio
della parità di trattamento».
La definizione data di parità di trattamento è l’assenza di
qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei
motivi elencati già nel titolo della norma.
La discriminazione diretta si verifica tutte le volte in cui
una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia
stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga.
Sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione,
un criterio o una prassi apparentemente neutri possono met‑
tere in una posizione di particolare svantaggio le persone che
professano una determinata religione o ideologia di altra
natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le
persone di una particolare età o di una particolare tendenza
sessuale, rispetto ad altre persone.
Le molestie sono da considerarsi una discriminazione in
caso di comportamento indesiderato adottato per uno dei
motivi al cui contrasto è diretta la norma avente lo scopo o
l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un
clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensi‑
vo. In questo contesto, il concetto di molestia può essere de‑
finito conformemente alle leggi e prassi nazionali degli Stati
membri.
La direttiva, in campo processuale, impone agli Stati
membri di prendere le misure necessarie, conformemente ai
loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché
persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei
loro riguardi del principio della parità di trattamento espon‑
gono, dinanzi a un tribunale o a un’altra autorità competente,
fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discrimi‑
nazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta
provare che non vi è stata violazione del principio della pari‑
tà di trattamento.
Convenzione europea dei diritti dell’uomo – divieto di discriminazione, art. 14 – coppie omosessuali – adozione del figlio del
partner – diritto austriaco – coppie non sposate - violazione
Le norme del diritto civile austriaco in materia di rego‑
lamentazione della vita delle coppie non sposate e di adozio‑
ne del figlio del convivente costituiscono una discriminazio‑
ne ai sensi degli artt. 14 e 8 della Convenzione, nella parte in
cui non consentano al membro di una coppia convivente
omosessuale non sposata di adottare il figlio dell’altro mem‑
bro della coppia.
Corte Europea Dei Diritti Umani, sentenza della Grand
Chamber, 19 febbraio 2013, Causa 19010/07, (Omissis) con‑
tro Repubblica Austriaca
Il caso trova origine nel ricorso presentato nel 2007 da tre
cittadini austriaci che hanno ottenuto l’autorizzazione dalla
Corte a rimanere anonimi: la prima e la terza conviventi ed il
1 Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un
quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di
condizioni di lavoro in GUCE n. L 303 del 02/12/2000 pag. 0016 - 0022
Gazzetta
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secondo figlio della terza, all’epoca dei ricorsi interni, minore
di età. Il bambino era nato al di fuori del matrimonio.
I ricorrenti, temendo che il testo dell’art. 182 § 2 del co‑
dice civile austriaco potesse essere interpretato nel senso di
escludere l’adozione del figlio di uno dei partner in una coppia
omosessuale da parte dell’altro partner senza che la relazione
con il genitore biologico fosse cessata, chiesero alla Corte
costituzionale viennese di dichiarare quella norma incostitu‑
zionale nella parte in cui li discriminava a causa del loro
orientamento sessuale. Nel caso di coppie eterosessuali, infat‑
ti, detta norma consente l’adozione del secondo genitore, cioè
a dire, l’adozione da uno dei partner del bambino dell’altro
parte senza che le relazioni giuridiche dei quest’ultimo ne
vengano attinte. La Corte Costituzionale dichiarò inammis‑
sibile il ricorso affermando che le ricorrenti avrebbero dovuto
sottoporre l’istanza al Tribunale distrettuale competente la
cui decisione sarebbe stata eventualmente oggetto di grava‑
me.
Fu quindi presentata istanza al giudice di merito perché
approvasse l’accordo di adozione per effetto del quale la prima
e la terza ricorrente sarebbero divenuti genitori del secondo
ricorrente. Nella loro istanza le parti esposero che tra la com‑
pagna della madre e il figlio si erano sviluppati stretti legami
affettivi e che il secondo ricorrente traeva beneficio dal vivere
in una famiglia con due adulti che se ne prendevano cura. Il
loro scopo era quello di ottenere un riconoscimento legale
alla loro famiglia di fatto. La prima ricorrente avrebbe quin‑
di sostituito giuridicamente il padre del secondo ricorrente.
Le parti sottolinearono che il padre si era opposto all’adozio‑
ne senza fornire alcuna motivazione e che egli avesse mostra‑
to una eccezionale ostilità verso la famiglia e che per tale
motivo la corte avrebbe dovuto, ai sensi dell’art. 181 § 3 cod.
civ. austr., dichiarare nullo il rifiuto di consenso, giacché
l’adozione era nell’interesse della seconda ricorrente2. A soste‑
gno della loro istanza, i ricorrenti produssero una relazione
dell’Ufficio per il benessere della gioventù che confermava che
la prima e la terza ricorrente condividevano compiti quotidia‑
ni relativi alla cura della seconda ricorrente e la responsabili‑
tà generale della sua formazione e che, pur esprimendo dubbi
rispetto alla posizione giuridica, si concludeva considerando
opportuno l’affidamento congiunto.
Il Tribunale distrettuale rigettò l’istanza di omologazione
dell’accordo di adozione, ritenendo che l’art. 182 §2 cod. civ.
austr. non prevedesse alcuna forma di adozione produttiva
degli effetti desiderati dai ricorrenti.
Nelle motivazioni dei giudici di prime cure austriaci si
legge che i ricorrenti cerchino l’approvazione del Tribunale
per un’adozione a termini della quale la relazione con il padre
biologico ed i suoi genitori secondo il diritto di famiglia ces‑
serebbe di esistere mentre la relazione con la madre biologica
rimarrebbe intatta. Essi chiedono al Tribunale di superare il
rifiuto del padre.
“Il ricorso, scrivevano i giudici austriaci, che è diretto di
2Le norme in rilievo del Codice civile austriaco (Allgemeines Bürgerliches Geset‑
zbuch) sono le seguenti: art. 137b, la madre è la donna che ha partorito il
bambino. Art. 138, Il padre del bambino è l’uomo 1) che è coniugato con la
madre del bambino al momento della sua nascita o, essendo il marito della
madre, sia morto non oltre trecento giorni dalla nascita, o 2) che abbia ricono‑
sciuto la paternità, o 3) la cui paternità sia stata riconosciuta giudizialmente. A
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fatto ad assicurare la custodia congiunta alla madre biologica
ed a quella adottiva – che vive una relazione omosessuale con
lei – è giuridicamente infondata”.
Secondo l’art. 179 cod. civ. austr., infatti, è possibile l’ado‑
zione da parte di una persona singola o da una coppia sposa‑
ta. Solo in particolari ipotesi una persona sposata può adot‑
tare come singolo. Il Tribunale distrettualeaffermò che il se‑
condo periodo dell’art. 182 § 2 cod. civ. austr. preveda che la
relazione giuridica familiare cessi solo rispetto al genitore
biologico ed ai suoi parenti se il minore è adottato solo da una
sola persona. In tal modo la relazione con l’altro genitore
rimane intatta fino a che il tribunale la dichiari cessata – a
seguito dell’adozione – con il consenso del genitore stesso.
La modifica dell’art. 182 originario sulla base dell’inequi‑
voco testo della norma ha portato i giudici austriaci a ritene‑
re che a seguito dell’adozione da parte di una sola persona, la
relazione giuridica con il genitore del medesimo sesso del
genitore adottivo cessi mentre la relazione con il genitore di
sesso opposto rimanga intatta. Interpretata la norma in tal
senso l’adozione da parte di una donna, comportando la ces‑
sazione della relazione genitoriale con il padre, sarebbe in‑
compatibile con le previsioni di legge interpretate in confor‑
mità con la Costituzione austriaca.
Appellato il provvedimento, la Corte regionale rigettò il
gravame osservando, sotto il profilo processuale, che la madre
biologica non poteva agire per il figlio minore essendo in
questo caso evidente il conflitto di interessi tra le due posizio‑
ni. La Corte regionale osservò nel merito, comunque, che nel
caso in esame il padre biologico aveva contatti regolari con il
figlio, con il risultato che il minore manteneva una relazione
significativa con entrambi i genitori biologici. In tali circo‑
stanze, ritenne la Corte, non vi è necessità di sostituire uno
dei genitori biologici con il partner, dello stesso sesso, dell’al‑
tro genitore autorizzando l’adozione del minore.
La giurisprudenza relativa ai diritti di contatto dei geni‑
tori chiaramente riconosce che, secondo quanto risulta dalla
psicologia e dalla sociologia, è di particolare importanza per
il successivo sviluppo del bambino che un adeguato contatto
personale sia mantenuto con il genitore con il quale egli non
viva. Coerentemente la legislazione prosegue nel conferire il
diritto al bambino di avere contatti personali con il genitore
con il quale non conviva.
Prosegue la decisione della Corte regionale affermando
che “è ugualmente fuori discussione che per la corretta cre‑
scita di un minore, è fortemente desiderabile che egli abbia
una relazione personale con entrambi i genitori di sesso op‑
posto, in altre parole, che le cure siano prestate sia da una
donna (madre) che da un uomo (padre) e che tutti gli sforzi
siano compiuti a questo fine. Il contatto personale, almeno in
minimo grado, con entrambi i genitori è altamente desidera‑
bile ed è generalmente riconosciuto nell’interesse del sano
sviluppo del bambino. Tali considerazioni militano chiara‑
mente contro l’autorizzazione dell’adozione di un minore dal
partner dello stesso sesso dell’altro genitore se ciò comporti
la perdita delle relazioni familiari giuridiche con l’altro geni‑
tore.
Proposto ricorso per cassazione, questo fu respinto.
I giudici viennesi di legittimità ritennero che: “adottare
significa dare ad un bambino una famiglia, non dare un bam‑
bino ad una famiglia. Compito dello Stato è di assicurare che
2 0 1 3
147
le persone scelte per l’adozione siano quelle che possano of‑
frire al bambino la migliore accoglienza sotto ogni profilo”.
La Corte ha affermato che anche per le ampie differenze
nelle opinioni nazionali ed internazionali relative alle possi‑
bili conseguenze per un bambino derivanti dall’adozione da
parte di uno o entrambi genitori omosessuali, ricordando la
circostanza che non ci sono sufficienti minori da adottare,
agli Stati è concesso un largo margine di discrezionalità in
tale materia. La mancata autorizzazione all’adozione da par‑
te di un omosessuale – hanno detto i giudici di legittimità
viennesi – non costituisce violazione dell’art. 14 della Conven‑
zione, in combinato con l’art. 8 della medesima, se fosse di‑
retta al legittimo scopo della protezione dell’interesse del
minore senza parimenti infrangere la proporzionalità tra gli
strumenti impiegati e lo scopo perseguito.
Ha affermato la Corte Suprema austriaca che l’art. 182 §
2 cod. civ. austr. non può ricevere l’interpretazione estensiva
auspicata dai ricorrenti e non esiste lacuna legislativa fortuita
alla quale sarebbe opportuno rimediare per analogia. Secon‑
do la giurisprudenza austriaca 3 l’adozione mira prima di
tutto a garantire il benessere del minore (principio di tutela).
L’adozione deve essere intesa come un mezzo appropriato per
affidare a persone idonee e responsabili la custodia e l’educa‑
zione di minori privi di genitori, di minori nati da famiglie
disunite, o di minori che, per una qualsiasi ragione, non pos‑
sono ricevere una corretta educazione dai loro genitori o sono
rifiutati da costoro. Questo obiettivo può tuttavia essere rag‑
giunto soltanto se l’adozione permette di ricreare per quanto
possibile la situazione esistente in una famiglia biologica.
Secondo la Suprema Corte viennese risulta altrettanto
chiaramente dalla giurisprudenza che il legame tra il minore
e il suo genitore adottivo deve essere assimilato, dal punto di
vista sociale e psicologico, a quello esistente tra i genitori
biologici e i loro figli. Il modello dei rapporti tra genitori e
figli in materia di adozione di minori si ispira ai particolari
legami sociali e psicologici esistenti tra genitori e giovani vi‑
cini alla maggiore età. Questi rapporti associano ai legami
sociali classici di vicinanza fisica e relazionale (convivenza,
presa in carico dei bisogni fisici e psicologici del minore da
parte dei genitori) delle relazioni affettive analoghe all’amore
reciproco tra genitori e figli e conferiscono ai primi un ruolo
specifico di mentori e di referenti.
L’articolo 182 § 2 del codice civile vieta, come interpreta‑
to dalla corte di legittimità nazionale, in modo generale (e non
soltanto alle coppie omosessuali) sia l’adozione da parte di un
uomo per il tempo in cui sussista il legame di filiazione tra il
minore da adottare e il padre biologico di quest’ultimo che
l’adozione di un minore da parte di una donna per il tempo
in cui sussiste il legame di filiazione tra quest’ultimo e la
madre biologica. Risulta quindi dall’articolo 182 § 2 che la
persona che adotta da sola un minore non si sostituisce indif‑
ferentemente a uno o all’altro dei genitori, ma soltanto al
genitore del suo stesso sesso. Ne consegue che l’adozione di
un minore da parte della compagna della sua madre biologica
è giuridicamente impossibile.
Preso atto delle motivazioni dei giudici nazionali, la Cor‑
3Erläuternde Bemerkungen RV 107 Suppl. IX. GP, 21.
internazionale
Gazzetta
148
D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
te europea, ritenuto che non fosse contestato da alcuna delle
parti che i ricorrenti formassero una famiglia godendo quindi
della protezione assicurata loro dall’art. 8 della Convenzione,
ha precisato, in generale, che l’adozione di un minore da par‑
te di omosessuali può avvenire in tre modi diversi. Il primo è
quello dell’adozione da parte di una sola persona (adozione
monoparentale); il secondo è quello dell’adozione coparenta‑
le, con la quale uno dei partner di una coppia adotta il figlio
dell’altro, affinché a ciascuno dei partner della coppia sia le‑
galmente riconosciuto lo status di genitore; e il terzo è quello
dell’adozione congiunta da parte di entrambi i partner della
coppia.
I casi esaminati in precedenza dalla Corte4 riguardavano
richieste di adozione monoparentale presentate da omoses‑
suali5 e una causa avente ad oggetto una richiesta di adozione
coparentale da parte di una coppia omosessuale6.
Nella prima causa, le autorità francesi avevano rigettato
la richiesta di autorizzazione ad adottare in quanto le «scelte
di vita» dell’interessato non presentavano garanzie sufficienti
per l’adozione di un minore. La Corte rilevò che la legislazio‑
ne francese riconosceva a qualsiasi persona non sposata – uo‑
mo o donna – il diritto di depositare una richiesta di adozio‑
ne, e che le autorità francesi avevano rigettato la richiesta di
autorizzazione preventiva presentata dal ricorrente basando‑
si – senza dubbio implicitamente – sul suo orientamento ses‑
suale, e dunque concluse per l’esistenza di una disparità di
trattamento basata sull’orientamento sessuale, ritenendo
tuttavia che le decisioni adottate dalle autorità interne perse‑
guissero uno scopo legittimo: proteggere la salute e i diritti
dei minori che potevano essere interessati da una procedura
di adozione riconoscendo alle autorità nazionali, a causa
della fase di transizione del diritto europeo in detta questione,
un ampio margine di apprezzamento per pronunciarsi in
materia.
Nella sentenza della Grande Camera che ha reso nella
causa E.B. c. Francia, anch’essa esaminata dal punto di vista
dell’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8, la
Corte è ritornata su tale posizione. Dopo aver proceduto ad
un’analisi approfondita dei motivi addotti dalle autorità fran‑
cesi per giustificare il rifiuto di autorizzare l’adozione auspi‑
cata dalla ricorrente, che viveva una relazione stabile con
un’altra donna, la Corte ha osservato che le autorità avevano
preso in considerazione due motivi principali, ossia l’assenza
di un «referente paterno» nel nucleo famigliare della ricorren‑
te o nella sua cerchia famigliare e affettiva più vicina, e la
mancanza di coinvolgimento della compagna di quest’ultima.
Essa ha considerato che questi due motivi erano emersi
nell’ambito di una valutazione globale della situazione della
ricorrente e che l’illegittimità di uno di essi aveva prodotto
l’effetto di inficiare complessivamente la decisione. La Corte
ha ritenuto che il secondo di tali motivi non fosse censurabile,
4L’orientamento sessuale rientra nel campo di applicazione dell’articolo 14. La
Corte ha più volte dichiarato che, come le differenze basate sul sesso, quelle
basate sull’orientamento sessuale devono essere giustificate da motivi impellen‑
ti o, altra formula utilizzata a volte, da «ragioni particolarmente solide e con‑
vincenti».
5 Fretté c. Francia, n. 36515/97, CEDU 2002-I; E.B. c. Francia ([GC]), n.
43546/02, 22 gennaio 2008.
6Gas e Dubois c. Francia, n. 25951/07, 15 marzo 2012.
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ma che il primo fosse implicitamente legato all’omosessualità
della ricorrente e che le autorità lo avessero invocato abusiva‑
mente in un contesto in cui la richiesta di autorizzazione ad
adottare proveniva da una persona celibe. In definitiva, essa
ha considerato che l’orientamento sessuale della ricorrente non
avesse cessato di essere al centro del dibattito che la riguarda‑
va e avesse rivestito un carattere decisivo, portando alla deci‑
sione di negare l’autorizzazione richiesta. Essa ha precisato
che, quando è giustificata solo da considerazioni relative
all’orientamento sessuale della persona interessata, la dispa‑
rità di trattamento deve essere considerata discriminatoria
rispetto alla Convenzione. Ha poi rilevato che il diritto fran‑
cese autorizzava l’adozione di un minore da parte di un single,
aprendo in tal modo la strada all’adozione da parte di una
persona omosessuale celibe o nubile, il che non veniva messo
in discussione. Alla luce della sua analisi dei motivi sollevati
dalle autorità francesi, la Corte ha ritenuto che, per rigettare
la richiesta di autorizzazione ad adottare presentata dalla
ricorrente, esse avessero operato una distinzione motivata da
considerazioni riguardanti l’orientamento sessuale dell’inte‑
ressata, distinzione che non poteva essere tollerata secondo la
Convenzione. Di conseguenza, ha concluso che vi era stata
violazione dell’articolo 14 in combinato disposto con l’artico‑
lo 8.
La causa Gas e Dubois riguardava due donne che viveva‑
no in coppia avendo concluso il patto civile di solidarietà
(PACS) previsto nel diritto francese. Una delle due ricorrenti
era la madre di un bambino concepito con la procreazione
medicalmente assistita. Rispetto al diritto francese, ne era
l’unico genitore. Le interessate lamentavano, dal punto di
vista dell’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto
con l’articolo 8, che il figlio di una di loro non potesse essere
adottato dall’altra. Più precisamente, desideravano essere
autorizzate ad adottare il minore con il regime dell’adozione
semplice ai fini della creazione di un legame di filiazione tra
il minore e la compagna della madre, il che avrebbe permesso
loro di esercitare congiuntamente la potestà genitoriale su
quest’ultimo. Le autorità interne avevano rifiutato di autoriz‑
zare questo progetto di adozione in quanto l’adozione stessa
avrebbe comportato, a profitto della compagna della madre
del minore, un trasferimento dei diritti di potestà genitoriale
non conforme all’interesse del minore. La Corte ha esamina‑
to la situazione delle interessate comparandola a quella di una
coppia sposata. Essa ha osservato che nel diritto francese
solo le coppie sposate potevano esercitare la potestà genito‑
riale congiunta in caso di adozione semplice. Osservando che
gli Stati contraenti non erano tenuti ad aprire il matrimonio
alle coppie omosessuali e che il matrimonio attribuiva uno
status particolare a coloro che lo contraggono, essa ha ritenu‑
to che i ricorrenti non si trovassero in una situazione giuridi‑
ca assimilabile a quella delle coppie sposate. Osservando che
l’adozione coparentale non era aperta nemmeno alle coppie
eterosessuali non sposate che, come le ricorrenti, avevano
concluso un PACS, la Corte ha concluso per l’assenza di una
disparità di trattamento basata sull’orientamento sessuale e
per la non violazione dell’articolo 14 della Convenzione in
combinato disposto con l’articolo 8.
La Corte, esaminando la questione sottoposta al suo esa‑
me, ha ritenuto preliminarmente che la posizione della prima
e della terza ricorrente non fossero assimilabile a quella di una
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coppia sposata a causa della particolare rilevanza che al ma‑
trimonio è riconosciuta dall’art. 12 della Convenzione.
Comparando la situazione delle ricorrenti rispetto a quel‑
la delle coppie eterosessuali non sposate la Corte ha ritenuto
che vietando in maniera assoluta l’adozione coparentale alle
coppie omosessuali, l’articolo 182 § 2 del codice civile austria‑
co privava di qualsiasi utilità e rilevanza l’esame delle circo‑
stanze specifiche della causa iniziata dai ricorrenti obbligan‑
do le autorità nazionali a eccepire automaticamente l’irricevi‑
bilità della loro domanda di adozione. La Corte ha concluso
quindi che il divieto di adozione comminato dalla legislazione
austriaca costituisca una discriminazione fondata sull’orien‑
tamento sessuale giacché, a differenza di quanto previsto in
Francia – che vieta in assoluto l’adozione coparentale sia per
le coppie omosessuali che per quelle eterosessuali – essa è
fondata esclusivamente sull’orientamento sessuale dei richie‑
denti.
Deve precisarsi che la Corte europea ha ritenuto necessa‑
rio porre in rilievo che sebbene la causa sottoposta al suo
giudizio possa essere considerata nell’ambito della problema‑
tica più ampia dei diritti genitoriali delle coppie omosessuali,
la Corte non è stata chiamata a pronunciarsi sulla questione
specifica dell’adozione coparentale da parte di coppie omo‑
sessuali, e ancora meno su quella generica dell’adozione da
parte di coppie omosessuali. Si è trattato invece di decidere su
un problema ben definito, ossia quello di stabilire se i ricor‑
renti della presente causa siano stati o meno vittime di una
discriminazione tra le coppie eterosessuali non sposate e le
coppie omosessuali in materia di adozione coparentale.
La Corte ha però osservato che il diritto austriaco sembri
mancare di coerenza. Esso autorizza l’adozione da parte di
una sola persona, anche omosessuale. Se questa vive con un
partner registrato, è necessario il consenso di quest’ultimo ai
sensi del comma 2 dell’articolo 181 § 1 del codice civile, come
modificato dalla legge sulle unioni registrate. Di conseguenza,
il legislatore austriaco ammette che un minore possa crescere
in una famiglia basata su una coppia omosessuale, ricono‑
scendo in tal modo che tale situazione non reca pregiudizio al
minore. Tuttavia, il diritto austriaco prevede esplicitamente
che un minore non debba avere due madri o due padri. Nella
giurisprudenza della Corte la coerenza della legislazione na‑
zionale è di preminente rilievo al fine di stabilire la discrimi‑
natorietà di un provvedimento7.
La Corte ha ritenuto che l’esistenza della famiglia di fatto
costituita dagli interessati, l’importanza che assume per loro
il fatto di ottenerne il riconoscimento giuridico, l’incapacità
del Governo di stabilire che sarebbe pregiudizievole per un
minore essere allevato da una coppia omosessuale o avere
legalmente due padri o due madri, e soprattutto il fatto che il
Governo riconosca che le coppie omosessuali sono idonee
all’adozione coparentale quanto le coppie eterosessuali, faces‑
sero sorgere seri dubbi sulla proporzionalità del divieto asso‑
luto di adozione coparentale che deriva dall’articolo 182 § 2
del codice civile per le coppie omosessuali.
In assenza di altri motivi particolarmente solidi e convin‑
centi in favore di tale divieto assoluto, le considerazioni fino‑
7 Christine Goodwin c. Regno Unito [GC], n. 28957/95, § 78, CEDU 2002–
VI.
2 0 1 3
149
ra esposte hanno invece portato la Corte a ritenere che i tri‑
bunali dovrebbero poter esaminare tutte le situazioni caso per
caso. Questo modo di procedere sembra anche più conforme
all’interesse superiore del minore, principio fondamentale
degli strumenti internazionali in materia.
La Corte ha quindi ritenuto che vi è stata violazione
dell’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con
l’articolo 8 se la situazione dei ricorrenti viene confrontata
con quella di una coppia eterosessuale non sposata nella qua‑
le uno dei partner avesse voluto adottare il figlio dell’altro.
Conseguenza di tale violazione è stata la condanna del
Governo austriaco al risarcimento dei danni morali patiti dai
ricorrenti nella misura complessiva di € 10.000,00.
internazionale
Gazzetta
Questioni
[ A cura di Mariano Valente / Procuratore dello Stato ]
Quando l’Amministrazione penitenziaria detiene presso di sé il peculio di un internato, è possibile rivolgere nei suoi confronti un atto di pignoramento che vede l’Amministrazione in qualità
di “terzo” debitor debitoris? O piuttosto, è necessario un pignoramento diretto al solo obbliga153
to? / Marianna Falco
Se ed entro che limiti sia possibile applicare il regime concessorio-autorizzatorio anche nei
confronti degli allibratori stranieri, residenti in altri Stati comunitari e ivi regolarmente abilitati
a raccogliere scommesse secondo la legislazione del loro Stato di appartenenza, senza che
ciò costituisca contrasto con i principi comunitari di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di cui agli artt. 43 e 49 TCE, nonché, ed in particolare, se sia legittima la mancata indizione di una gara e se il meccanismo della periodicità della stessa possa essere un
154
modo per aggirare i principi comunitari. / Anna Sofia Sellitto
In tema di responsabilità della P.a., con riguardo alla materia di appalti pubblici e di informative prefettizie antimafia, può configurarsi una responsabilità oggettiva della p.a.? / Ida Sorrentino
165
questioni
Gazzetta
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●
DIRITTO CIVILE Quando l’Amministrazione
penitenziaria detiene presso
di sé il peculio di un internato,
è possibile rivolgere nei
suoi confronti un atto di
pignoramento che vede
l’Amministrazione in qualità
di “terzo” debitor debitoris?
O piuttosto, è necessario un
pignoramento diretto al solo
obbligato?
● Marianna Falco
Dottoressa in Giurisprudenza
La questione in oggetto si è posta in
un contenzioso nel quale parte attorea
citava in giudizio il suo debitore e, in‑
sieme, il Ministero della Giustizia, Am‑
ministrazione Ospedale Giudiziario di
Napoli - Dipartimento di Polizia peni‑
tenziaria, adducendo che quest’ultimo
fosse debitore dell’obbligato principale
in virtù del fatto che deteneva delle
somme di denaro dello stesso.
Appare opportuno, al fine di diri‑
mere il quesito di diritto processuale,
distinguere le varie forme di peculio.
Tale prodromica operazione si rive‑
la fondamentale sia per stabilire tout
court se sia possibile intraprendere una
procedura esecutiva avente ad oggetto
somme di proprietà del detenuto/inter‑
nato, sia per stabilire quale forma di
pignoramento il creditore debba sceglie‑
re per soddisfare la propria pretesa.
In primis, occorre quindi chiarire
quali “sostanze” costituiscano il pecu‑
lio di un condannato.
Ciò è esplicitamente stabilito nell’art.
25 della L. 354 del 1975 sull’Ordinamen‑
to Penitenziario per il quale “il peculio
dei detenuti e degli internati è costituito
dalla parte della remunerazione ad essi
riservata ai sensi del precedente articolo,
dal denaro posseduto all’atto dell’ingres‑
so in istituto, da quello ricavato dalla
vendita di oggetti di loro proprietà o
inviato dalla famiglia e da altri o ricevu‑
to a titolo di premio o di sussidio”.
Esistono, dunque, varie forme di
peculio.
In tutti i casi, l’Amministrazione
Penitenziaria, rectius, la direzione del
carcere, ai sensi dell’art. 25, comma 3 è
costituita “depositaria necessaria” di
tali somme, di proprietà del detenuto/
internato.
Ciò detto, a sgombrare il campo da
un primo possibile dubbio interpretati‑
vo, sovviene l’art 24, comma 3, a mente
del quale “ La remunerazione dovuta
agli internati e agli imputati non è sog‑
getta a pignoramento o a sequestro,
salvo che per obbligazioni derivanti da
alimenti, o a prelievo per il risarcimen‑
to arrecato a cose mobili o immobili
dell’amministrazione ”.
La disposizione richiamata, dun‑
que, è chiarissima: il creditore dell’in‑
ternato, non può soddisfare le sue
pretese sulle somme a quest’ultimo do‑
vute dall’Amministrazione Giudiziaria
per il lavoro svolto all’interno delle
strutture ove il debitore stia scontando
la sua pena ovvero una misura di sicu‑
rezza personale.
Il problema per il creditore, a ben
vedere, quindi, si pone esclusivamente
nel caso in cui le somme di proprietà
dell’internato siano costituite dalle
“elargizioni” poste in essere dai fami‑
liari, dalle somme ottenute a seguito
della vendita di oggetti di sua proprietà,
dalle somme ottenute a titolo di premio
o di sussidio, ovvero dalle somme che il
detenuto ha portato con sé all’atto del
suo ingresso nella struttura.
Per tali somme, in altre parole, si
pone per il creditore il delicato proble‑
ma di stabilire se esperire il pignora‑
mento presso terzi, nel qual caso l’Am‑
ministrazione Penitenziaria detentrice
delle somme del detenuto dovrebbe
considerarsi “terzo”, ovvero scegliere la
strada del pignoramento mobiliare nei
confronti del debitore.
Per dirimere tale questione, risulta
fondamentale chiarire la natura del
rapporto che intercorre tra il detenuto
debitore e l’Amministrazione Peniten‑
ziaria detentrice delle somme di danaro
di proprietà del debitore.
Occorre, aliis verbis, stabilire se
l’Amministrazione Penitenziaria possa
essere considerata debitor debitoris, se
cioè possa ritenersi sussistente un rap‑
porto debito credito tra il soggetto
pubblico ed il detenuto e dunque possa
essere, l’Amministrazione Penitenzia‑
ria, convenuta dal creditore del condan‑
nato nella procedura disciplinata dagli
artt. 543 e ss. c.p.c..
A ben vedere, una lettura sistemati‑
ca della disciplina del pignoramento
presso terzi induce a ritenere percorri‑
bile la strada del ppt nell’ipotesi in
esame.
L’art. 547 c.p.c., infatti, recita: “[…]
il terzo deve specificare di quali cose o
di quali somme è debitore o si trova in
possesso […]”.
Tale norma, dunque, almeno prima
facie, sembra ritenere sufficiente il mero
possesso di somme o di cose di proprie‑
tà del debitore da parte del terzo, per
poter esperire la procedura esecutiva del
ppt.
Altro spunto è offerto dalla lettura
dell’art. 549 il quale afferma testual‑
mente: “ […] il giudice, se accerta
l’esistenza del diritto del debitore nei
confronti del terzo […]”.
Il debitore internato, infatti, pur
non avendo la materiale ed immediata
disponibilità delle somme di sua pro‑
prietà, comunque ha il diritto di chiede‑
re, in qualsiasi momento, le somme
costituenti oggetto del peculio, alla di‑
rezione dell’Istituto di pena.
Da tali argomenti testuali, in defini‑
tiva, sembrerebbe potersi trarre la con‑
clusione dell’esperibilità, da parte del
creditore del detenuto/internato, del
pignoramento presso terzi, chiamando
in causa, nella procedura di cui agli
artt. 543 e ssc.p.c. l’Amministrazione
Penitenziaria.
Diversamente, e secondo altra tesi
interpretativa, residuerebbe, ovviamen‑
te, per il creditore la strada del pignora‑
mento mobiliare diretto nei confronti
del detenuto/internato.
Nel silenzio della giurisprudenza di
legittimità, sul punto è intervenuta una
interessante sentenza del Tribunale Civile di Napoli, Sez. V bis, n°2594/13,
che, occupandosi del problema della
pignorabilità del cd. peculio dei con‑
dannati, l’ha risolto negativamente.
Il Giudice di merito napoletano,
infatti, ha ritenuto insussistente un
rapporto di debito credito tra l’Ammi‑
nistrazione Penitenziaria ed il detenuto
avente ad oggetto le somme costituenti
oggetto del peculio, in quanto l’Ammi‑
nistrazione, si è detto, è mera “custode”
delle somme di proprietà dell’internato
e non debitrice delle stesse nei confron‑
ti di quest’ultimo: l’Amministrazione
questioni
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Penitenziaria, in altri termini, non può
in alcun modo considerarsi debitor de‑
bitoris, dal momento che le somme di
danaro, nel caso di specie, erano state
“elargite” dai parenti dell’internato e
non costituivano retribuzione per il la‑
voro svolto da quest’ultimo all’interno
del luogo di custodia (nel qual caso, tra
l’altro, sarebbe stato possibile esperire
una procedura esecutiva solo per credi‑
ti alimentari o per crediti derivanti dal
risarcimento per danni a cose mobili o
immobili dell’amministrazione, per il
disposto dell’art. 24, comma 3).
L’ente pubblico, giova sottolinearlo,
è ritenuto mero depositario delle som‑
me che l’internato ha ricevuto dai fami‑
liari e pertanto non può considerarsi in
nessun caso debitore di tali somme nei
confronti dello stesso internato.
Le conclusioni cui sembra potersi
giungere, dunque, sulla base del dato
positivo (costituito dalla disciplina di
cui agli artt. 543 e ss. c.p.c. e dalla L.
354/1975) e degli ultimi approdi della
giurisprudenza di merito sono le se‑
guenti: quando le somme oggetto di
richiesta di accertamento che il pigno‑
rante vorrebbe aggredire con la proce‑
dura azionata nelle forme del pignora‑
mento presso terzi risultano essere di
pertinenza esclusiva del detenuto/inter‑
nato, l’Amministrazione non può essere
né considerata né equiparata al “terzo”
ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 547
c.p.c, pertanto, in casi analoghi, il cre‑
ditore potrà rivalersi solo ed esclusiva‑
mente mediante una procedura di pi‑
gnoramento diretto nei confronti del
suo debitore.
q u e s t i o n i
●
DIRITTO penale
Se ed entro che limiti sia
possibile applicare il regime
concessorio-autorizzatorio
anche nei confronti degli
allibratori stranieri, residenti
in altri Stati comunitari e
ivi regolarmente abilitati a
raccogliere scommesse secondo
la legislazione del loro Stato
di appartenenza, senza che
ciò costituisca contrasto con
i principi comunitari di libertà
di stabilimento e di libera
prestazione dei servizi di cui agli
artt. 43 e 49 TCE, nonché, ed
in particolare, se sia legittima
la mancata indizione di una
gara e se il meccanismo della
periodicità della stessa possa
essere un modo per aggirare i
principi comunitari.
●
Anna Sofia Sellitto
Dottoressa in Giurisprudenza
Nel nostro ordinamento giuridico, il
settore delle scommesse è oggetto di una
complessa disciplina che trova il suo fon‑
damento in molteplici elementi di rilevanza
pubblicistica che vanno dalla tutela degli
interessi finanziari dello Stato alle esigenze
di ordine pubblico (cfr. Cass. pen., sez. III,
28 marzo 2007, n. 16928).
A tal uopo, appare opportuno un breve
excursus normativo, avendo come riferi‑
mento i dati legislativi più salienti e rilevan‑
ti in subiecta materia.
Il Testo Unico delle leggi di pubblica
sicurezza (R.D. n. 773 del 18 giugno 1931),
all’articolo 88, prevede che “La licenza per
l’esercizio delle scommesse può essere con‑
cessa esclusivamente a soggetti concessio‑
nari o autorizzati da parte di Ministeri o di
altri enti ai quali la legge riserva la facoltà
di organizzazione e gestione delle scom‑
messe, nonché a soggetti incaricati dal
concessionario o dal titolare di autorizza‑
zione in forza della stessa concessione o
autorizzazione“.
Le concessioni richiamate dal suddetto
Gazzetta
F O R E N S E
articolo 88 sono rilasciate dall’Agenzia
Autonoma Monopoli di Stato in seguito ad
appositi bandi di gara. In particolare, un
primo bando è stato emesso nel 1999 ed un
secondo nel 2006 in forza del decreto legge
4 luglio 2006, n. 223, recante disposizioni
urgenti per il rilancio economico e sociale,
per il contenimento e la razionalizzazione
della spesa pubblica nonché interventi in
materia di entrate e di contrasto all’evasio‑
ne fiscale, convertito dalla legge 4 agosto
2006, n. 248 (cd. decreto Bersani).
Altresì, l’articolo 11 del cit. R.D. n.
773/1931 integra il regime autorizzatorio,
prevedendo i requisiti soggettivi delle per‑
sone richiedenti e disciplinando le ipotesi in
cui l’autorizzazione può essere negata (sog‑
getti che hanno riportato una condanna per
delitto non colposo con pena superiore a tre
anni di privazione della libertà personale e
non hanno ottenuto riabilitazione; che sono
stati sottoposti a misura di prevenzione
personale, o che sono stati dichiarati delin‑
quente abituale, professionale o per tenden‑
za; che hanno riportato condanna per al‑
cuni reati, specificamente indicati,quali
quelli contro la personalità dello Stato o
contro l’ordine pubblico, ovvero per delitti
contro le persone commessi con violenza,
o per furto, rapina, estorsione, sequestro di
persona a scopo di rapina o di estorsione,
o per violenza o resistenza all’autorità, e a
che non possono provare la loro buona
condotta).
Il D. Lgs n. 496 del 14 aprile 1948, re‑
cante la disciplina delle attività di giuoco,
dispone all’articolo 1 che “L’organizzazio‑
ne e l’esercizio di giuochi di abilità e di
concorsi pronostici, per i quali si corrispon‑
da una ricompensa di qualsiasi natura e per
la cui partecipazione sia richiesto il paga‑
mento di una posta in denaro, sono riser‑
vati allo Stato”.
Da tale architettura normativa può,
dunque, evincersi che le attività di raccolta
e di gestione delle scommesse sono eserci‑
tabili solo da soggetti che abbiano ottenuto,
al termine di una pubblica gara, una delle
concessioni disponibili nonché l’autorizza‑
zione di polizia di cui all’articolo 88 del cit.
R.D. 773/1931.
Rebus sic stantibus, l’autorizzazione di
polizia può considerarsi quale strumento
finalizzato ad accertare la sussistenza, in
capo al soggetto, dei requisiti di affidabilità
rilevanti ai fini della tutela della sicurezza e
dell’ordine pubblico.
A tal specifico proposito, la giurispru‑
denza ha chiarito che il controllo di pubbli‑
ca sicurezza deve tradursi nella puntuale
Gazzetta
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enunciazione di specifici profili di criticità
per l’ordine pubblico interno, senza potersi
racchiudere nell’affermazione del generico
fine di evitare ripercussioni sull’ordine
pubblico e sulla sicurezza pubblica (cfr.
T.A.R. Puglia – Lecce, sez. I, ordinanza n.
692 del 9 settembre 2009). In tal senso si è
espresso anche il supremo consesso della
giustizia amministrativa laddove ha ritenu‑
to del tutto legittimo il diniego di autoriz‑
zazione di polizia allo svolgimento di gestio‑
ne e/o raccolta di scommesse nella ipotesi
di domande presentate da persone che non
rispondano ai requisiti di incensuratezza e
moralità previsti dall’ordinamento, consi‑
derando invece illegittimo, perché in con‑
trasto con i principi comunitari, il rifiuto
fondato sulla mera mancanza del titolo
concessorio (cfr. Cons. stato, sez. VI, ord.
24 novembre 2010, n. 5365).
Vexata quaestio in giurisprudenza è
quella concernente la possibilità di applica‑
re il regime concessorio-autorizzatorio an‑
che nei confronti degli allibratori stranieri,
residenti in altri Stati comunitari e ivi rego‑
larmente abilitati a raccogliere scommesse
secondo la legislazione del loro Stato di
appartenenza, senza che ciò costituisca
violazione dei principi comunitari di libertà
di stabilimento e di libera prestazione dei
servizi di cui agli artt. 43 e 49 TCE.
La questione trae spunto, altresì, da un
recente provvedimento emesso dal Tribu‑
nale di Santa Maria Capua Vetere - II Sez.
Penale - Collegio B in data 13 novembre
2012: il caso di specie ha ad oggetto la
presunta violazione dell’art. 4, comma 4 bis
e ter, della Legge n. 401/1989 in quanto
l’imputato risultava aver operato senza
l’autorizzazione prescritta dall’art. 88
T.U.L.P.S.
In base ai principi di mutuo riconosci‑
mento, leale collaborazione ovvero equiva‑
lenza delle normative nazionali, il soggetto
legittimato ad operare in base alla disciplina
del proprio Stato di appartenenza può
prestare i suoi servizi, ed eventualmente
anche stabilirsi, in qualsiasi altro Stato
membro, senza che quest’ultimo possa
pretendere il rispetto pure della sua legge
nazionale.
Le condizioni imposte dallo Stato di
destinazione del servizio, dunque, non de‑
vono aggiungersi a quelle richieste dallo
Stato di stabilimento dell’impresa: l’autorità
di controllo dello Stato destinatario dell’at‑
tività in questione deve tener conto degli
esami e delle verifiche già effettuate nello
Stato membro di provenienza. Ne deriva
che il controllo dell’attività deve, in linea di
principio, essere limitato al rispetto della
normativa dello Stato d’origine, la quale
deve essere dunque riconosciuta equivalen‑
te negli altri Paesi membri (c.d. home count‑
ry control) (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI,
22 ottobre 2009, n. 6481).
Da quanto sinora esposto, può ricavar‑
si che la regola generale che ispira i rappor‑
ti intracomunitari è quella del mutuo rico‑
noscimento di talchè eccezionali sono le
ipotesi che derogano ad esso: così, ad esem‑
pio, nel settore delle scommesse esse sono
ammissibili solo quando ciò è importante
per scongiurare il rischio di frodi.
Di conseguenza, appare lecito subor‑
dinare l’esercizio dell’attività di interme‑
diazione nel gioco al rilascio della licenza
di P.S. ex art. 88 T.U.L.P.S. purchè l’esame
dei presupposti per il rilascio di quest’ulti‑
ma sia finalizzato esclusivamente ad eser‑
citare gli opportuni controlli circa la mo‑
ralità dell’intermediario e dunque a tutela
dell’ordine pubblico contro il pericolo di
infiltrazioni criminali nel settore (Tribu‑
nale di Catania, sez. pen. V, ord. 5 marzo
2012, n. 10/12 R).
Il sistema italiano, congegnato sulla
necessità di ottenere un doppio titolo, è
stato al centro di due importanti pronun‑
ce comunitarie che hanno delineato, in
particolare, i possibili profili di contrasto
del sistema concessorio con il diritto co‑
munitario.
La Corte di Giustizia ha, infatti, affer‑
mato, con la nota sentenza Placanica, che
una normativa nazionale che vieta l’eserci‑
zio di attività di raccolta, di accettazione, di
registrazione e di trasmissione di proposte
di scommesse, in particolare sugli eventi
sportivi, in assenza di concessione o di au‑
torizzazione di polizia rilasciate dallo Stato
membro interessato, costituisce una restri‑
zione alla libertà di stabilimento nonché
alla libera prestazione dei servizi previste
rispettivamente agli artt. 43 CE e 49 CE.
Spetterà ai giudici nazionali verificare se la
normativa nazionale, in quanto limita il
numero di soggetti che operano nel settore
dei giochi d’azzardo, risponda realmente
all’obiettivo mirante a prevenire l’esercizio
delle attività in tale settore per fini crimina‑
li o fraudolenti (Corte giustizia CE, 06
marzo 2007 n. 228).
Inoltre la Corte di Giustizia, sempre con
la stessa pronuncia, ha ritenuto contrastan‑
ti con i principi comunitari, di cui agli arti‑
coli 43 e 49 del Trattato, le disposizioni
nazionali che escludono dal settore dei
giochi di azzardo gli operatori costituiti
sotto forma di società di capitali le cui
azioni sono quotate nei mercati regolamen‑
tati, ovvero che impongono una sanzione
penale a soggetti per aver esercitato un’atti‑
vità organizzata di raccolta di scommesse
in assenza della concessione o dell’autoriz‑
zazione di polizia richieste dalla normativa
nazionale allorché questi soggetti non han‑
no potuto ottenere le dette concessioni o
autorizzazioni a causa del rifiuto di tale
Stato membro, in violazione del diritto co‑
munitario, di concederle loro.
Con la c.d. sentenza Placanica, quindi,
è stato riconosciuto che la libertà di stabili‑
mento e quella di prestazione di servizi non
sono state compresse dalla disciplina nazio‑
nale solo per il fatto di aver previsto un re‑
gime concessorio in quanto tale, ma tale
regime, sostenuto da ragioni di ordine
pubblico e sociale, può considerarsi compa‑
tibile con quelle libertà in quanto risulti ri‑
spondente ai principi di non discriminazio‑
ne, di necessità e di proporzione (Cons.
Stato, sez. VI, 22 ottobre 2009 n. 6481). I
giudici europei, infatti, hanno evidenziato
la contrarietà ai principi comunitari della
relativa normativa italiana, solo in relazione
alle modalità con cui il regime concessorio
è stato disciplinato e, quindi, attuato, e non
rispetto al regime dell’autorizzazione di
polizia, che, invece, ha come obiettivo giu‑
stificate cautele contro fenomeni criminali,
e non si configura, quindi, come incompa‑
tibile con il regime comunitario (Cons.
Stato, sez. VI, sent. nn. 7407 e 7414 del 26
novembre 2009).
Anche successivamente alla detta sen‑
tenza, dunque, l’attività di raccolta delle
scommesse svolta senza il previo rilascio
dell’autorizzazione prevista dall’art. 88
T.U.L.P.S. è da ritenersi illegittima, invol‑
gendo, tale regime autorizzatorio, non in‑
giustificate cautele contro fenomeni crimi‑
nali o di frode, e, quindi, non configuran‑
dosi incompatibile con il regime comunita‑
rio (Cons. Stato, sez. VI, del 26 novembre
2009, n. 7407).
Anche la giurisprudenza penale si è
espressa nello stesso senso affermando che
il diniego di autorizzazione ex art.88
T.U.L.P.S., ove fondato non su specifici
motivi di ordine pubblico bensì sul solo
presupposto che il richiedente operi per un
allibratore straniero privo di concessione
rilasciata dallo Stato italiano, risulterebbe
discriminatorio e pertanto illegittimo, con
conseguente necessità di disapplicazione
della normativa nazionale. Ed invero attri‑
buire il carattere di condotta penalmente
illecita all’attività di intermediazione svolta
per conto di società straniere per il solo
questioni
F O R E N S E
156
fatto che le stesse, pur in possesso di rego‑
lari concessioni nello Stato di appartenenza,
non hanno ottenuto il relativo titolo conces‑
sorio anche in Italia (e negando conseguen‑
temente agli intermediari la licenza di P.S.
ex art. 88 non perché privi dei necessari
requisiti di moralità pubblica ma solo per‑
chè operano per conto di un soggetto non
concessionario) costituisce normativa di‑
scriminatoria ed in contrasto con gli artico‑
li 43 e 49 del Trattato CE con la conseguen‑
te necessità di disapplicazione della norma‑
tiva nazionale (Tribunale di Catania, sez.
pen. V, ord. 5 marzo 2012, n. 10/12 R).
Di recente la Corte di giustizia si è di
nuovo pronunciata in merito al sistema
concessorio italiano in materia di gioco ed
in particolare sulla compatibilità con il di‑
ritto comunitario della normativa naziona‑
le introdotta con il sopra richiamato decre‑
to Bersani.
La Corte, con la sentenza Costa-Cifo‑
ne, ha così ritenuto che, in base alle dispo‑
sizioni sulla libertà di stabilimento e sulla
libera prestazione di servizi, nonché sulla
base dei principi generali dell’ordinamento
dell’Unione, la normativa italiana non può
proteggere le posizioni commerciali acqui‑
site dagli operatori esistenti prevedendo
determinate distanze minime tra gli eserci‑
zi dei nuovi concessionari e quelli di tali
operatori esistenti, né può imporre sanzioni
per l’esercizio di un’attività organizzata di
raccolta di scommesse senza concessione o
senza autorizzazione di polizia nei confron‑
ti di persone legate a un operatore che era
stato escluso da una gara in violazione del
diritto dell’Unione. Per gli stessi motivi,
tale normativa deve prevedere nei bandi di
concessione condizioni e modalità di gara
formulate in modo chiaro, preciso e univo‑
co (cfr. Corte giustizia CE, sez. IV, 16 feb‑
braio 2012 n. 72).
La Corte di giustizia ha quindi ricono‑
sciuto che ciò che rende la normativa italia‑
na in tema di concessione incompatibile con
i principi comunitari è rappresentato dalle
modalità con cui il regime concessorio è
disciplinato e, quindi, in concreto attuato.
Il caso di specie, esaminato dal Tribu‑
nale di Santa Maria Capua Vetere, pone,
altresì, in evidenza una problematica ulte‑
riore su cui appare opportuno indugiare: in
particolare, il caso de quo afferisce alla
questione della mancata esclusione discri‑
minatoria da una procedura di gara, alla
legittimità della mancata indizione di una
gara dunque alla legittimità della definizio‑
ne di periodicità della gara nonchè all’in‑
fluenza di eventuali requisiti richiesti in
q u e s t i o n i
gare precedenti sulla situazione di chi svol‑
ge l’attività senza previa gara.
Nel caso di specie, gli avventori dell’at‑
tività commerciale di C.V. erano in collega‑
mento con una società avente il ruolo di
bookmaker straniero intermediario per la
raccolta di scommesse; in particolare la
società risulta costituita nel 2008 ovvero
dopo l’espletamento dell’ultima gara indet‑
ta dallo Stato italiano per il rilascio delle
concessioni (anno 2006). La società ha
presentato richiesta di rilascio di titolo
abilitativo ad operare nel mercato italiano
nel settembre 2011 senza ottenere risposta
dalle competenti autorità ministeriali.
Fermi restando i principi espressi dalla
Corte di Giustizia e dalla Cassazione (mu‑
tuo riconoscimento, libertà di circolazione
di merci e servizi, libertà di stabilimento,
equivalenza delle legislazioni nazionali etc.),
possiamo constatare come ci troviamo di‑
nanzi ad un caso differente ed ulteriormen‑
te problematico in quanto c’è concretamen‑
te da chiedersi se vi sia stata esclusione da
una gara e se il meccanismo della periodi‑
cità possa essere un modo per aggirare i
principi comunitari.
I punti focali che si evincono dal caso
in esame sono i seguenti: in primis, può
affermarsi pacificamente che il sistema
della gara non è mai stato ritenuto in sé
incompatibile con il diritto comunitario;
che la società in oggetto non era ancora
nata all’epoca dell’ultima gara indetta dallo
Stato italiano; che non si può imporre allo
Stato di fare una gara ogni volta che una
nuova società vuole operare sul mercato;
che, sulla base dei dati precedenti, non ri‑
sulta che la mancata indizione di una nuova
gara sia stata motivata da ragioni discrimi‑
natorie.
Alla luce di tali premesse, il Tribunale
di Santa Maria Capua Vetere ha, pertanto,
ritenuto che “Tale situazione [...] non ha
determinato l’impossibilità per la società
W.P.V. ad aspirare a divenire operatore le‑
gittimamente operante in Italia in quanto
non si è verificata alcuna esclusione discri‑
minatoria da una procedura di gara. D’al‑
tra parte, la definizione della periodicità
delle gare d’appalto, componente integran‑
te dell’odierno sistema, non è mai stata
oggetto di censure quanto alla sua compa‑
tibilità con il diritto comunitario, dato che
tutte le pronunce in materia non discutono
dell’ammissibilità di tale limitazione. Quel
che rileva ai fini della valutazione della
contrarietà alle libertà comunitarie è piut‑
tosto il profilo della definizione dei requi‑
siti per la partecipazione alla selezione o per
Gazzetta
F O R E N S E
aspirare al rilascio del titolo abilitativo,
impossibile nel caso di specie, non essendo‑
vi alcuna procedura di gara in relazione
alla quale effettuare la valutazione. Nè sul
punto può aversi riguardo alle caratteristi‑
che delle gare già espletate, non potendo
certo sostenersi esservi stata una discrimi‑
nazione, ipotizzando che lo Stato italiano
ripeterà gli errori fatti in precedenza in
un’ipotetica, futura procedura di gara. In‑
fine, dagli atti non emerge neppure che la
mancata indizione di un’altra gara da par‑
te dello Stato italiano sia stata motivata da
ragioni discriminatorie e non, piuttosto, da
esigenze di ordine e sicurezza pubblica.
Sussiste, pertanto, il fumus del reato
contestato in quanto V.C. ha operato senza
l’autorizzazione prevista dall’art. 88
T.U.L.P.S. quale intermediario di un alli‑
bratore non legittimamente operante nel
mercato italiano.
Senza alcuna pretesa di esaustività e
definitività, anzi partendo proprio dalla
potenziale opinabilità di suddetto provve‑
dimento, può solo cogliersi l’occasione per
constatare come le nuove problematiche,
evidenziate dall’avvento e dalla penetrazio‑
ne sempre più rilevante del diritto comuni‑
tario nel nostro ordinamento interno, me‑
ritino un approfondimento ed una riflessio‑
ne aggiornata ad i rapporti, in continua
crescita e trasformazione, tra normativa
nazionale e normativa comunitaria.
Il dato di fatto con cui il giurista attua‑
le si trova a convivere è, senza dubbio alcu‑
no, l’imprescindibilità del diritto dell’Unio‑
ne Europea e dei suoi principi nell’applica‑
zione e nell’interpretazione del diritto inter‑
no. Tale constatazione che, almeno fino a
pochi anni addietro, sembrava non involge‑
re in toto il diritto penale - da sempre con‑
notato e contraddistinto dalla sovranità
nazionale dunque dalla potestà punitiva
esclusivamente dello Stato -, oggi appare
quasi obsoleta e poco rispondente al vero.
Fermi restando i principi cardine detta‑
ti dal nostro sistema, il legislatore comuni‑
tario, ad ogni modo, si introduce nella di‑
sciplina interna, compresa quella penalisti‑
ca ed influenza sempre più il nostro corpus
normativo (basti pensare, ex multis, alla
nota sentenza Pupino).
È dunque questa solo l’occasione per
rilevare come siano maturi i tempi per un
ripensamento del legislatore nazionale che
meglio definisca principi e limiti del diritto
nazionale in attuazione di quella coopera‑
zione con il diritto comunitario che, ormai,
è parte integrante del nostro ordinamento
giuridico.
F O R E N S E
●
DIRITTO AMMINISTRATIVO
In tema di responsabilità della
P.a., con riguardo alla materia di
appalti pubblici e di informative
prefettizie antimafia, può
configurarsi una responsabilità
oggettiva della p.a.?
Ida Sorrentino
Dottoressa in Giurisprudenza
La questione in oggetto trae spunto
da una recente sentenza del Tribunale
Amministrativo di Napoli n. 866 del 12
febbraio 2013.
Essa si sofferma sui termini proces‑
suali per azionare la domanda risarci‑
toria fondata su una sentenza di annul‑
lamento ex. art 30, comma 5, c.p.a.,
sulla rilevanza della colpa nella respon‑
sabilità della p.a. in materia di appalti
pubblici e di informative prefettizie
antimafia e sull’onere della prova per il
risarcimento dei danni derivanti dalla
illegittima esclusione da una gara d’ap‑
palto.
Il caso all’attenzione del Tar di Na‑
poli muove da un precedente giudizio di
annullamento, conclusosi con esito fa‑
vorevole, con sentenze del Consiglio di
Stato nn. 6578 e 6579 del 27 ottobre
2009.
Nel caso di cui alle sentenze succi‑
tate, l’impresa ricorrente, società facen‑
te parte di un raggruppamento ATI, era
risultata aggiudicatrice di un appalto. A
fronte di una informativa prefettizia
“atipica” (di cui all’art. 1-septies, D.l.
06 settembre 1982, n. 629), l’ammini‑
strazione aveva espresso l’intento di
revocare l’aggiudicazione. Al fine di
evitare la revoca dell’aggiudicazione
all’ATI, con atto concordato tra la p.a.
e la società capogruppo, veniva revoca‑
ta solo l’aggiudicazione all’impresa ri‑
corrente, mentre la società capogruppo
restava aggiudicataria dell’appalto.
Pertanto, la società esclusa agiva per
l’annullamento del provvedimento di
revoca e della informativa antimafia
della Prefettura di Napoli.
Accertata, con le pronunce succita‑
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 3
te, l’illegittimità dell’informativa, in
quanto basata su vicende datate, non
accertate e non collegate a reali influen‑
ze mafiose (il cugino di un socio era
stato assolto dal reato di abuso d’ufficio
e il direttore tecnico della società era
stato condannato nel 1983 per diversi
reati tra cui porto abusivo e detenzione
d’armi), e l’illegittimità del provvedi‑
mento di estromissione per mancanza
di motivazione, la società aveva succes‑
sivamente agito innanzi al Tar di Napo‑
li onde ottenere il risarcimento dei
danni per l’illegittimo esercizio dell’at‑
tività amministrativa.
Passando al merito del giudizio,
appare preliminarmente opportuno in‑
dividuare alcuni concetti chiave in tema
di informativa prefettizia per poi proce‑
dere all’analisi della questione risarcito‑
ria.
L’art. 247 del codice degli appalti
pubblici (D.lgs. 12 aprile 2006 n. 163)
espressamente prevede che le disposizio‑
ni della normativa antimafia si applica‑
no alle procedure ad evidenza pubblica
di affidamento dei servizi e dei lavori
pubblici, al fine di contrastare la crimi‑
nalità organizzata, ed evitare che questa
possa finanziarsi attraverso le risorse
pubbliche.
I referenti normativi in tema di in‑
formativa antimafia ratione temporis
rilevanti sono il D.lgs. 08 agosto 1994,
n. 490 (integrato dal D.P.R. 3 giugno
1998 n. 252) e il d.lg. 6 settembre 1982
n.629, che individuano come organo
competente l’organo prefettizio.
L’art. 4 del D.lgs. 08 agosto 1994, n.
490 prevede che, prima di stipulare,
approvare o autorizzare i contratti e
subcontratti, ovvero prima di rilasciare
o consentire le concessioni o erogazioni
pubbliche, le pubbliche amministrazio‑
ni devono acquisire le informazioni
prefettizie.
La prassi amministrativa, sviluppa‑
tasi sull’esegesi della normativa conte‑
nuta nel D.lgs. n. 490 del 1994 e nel
D.P.R. n. 252 del 1998 e supportata
dalla giurisprudenza, ha delineato tre
tipologie di informative prefettizie an‑
timafia: le informative antimafia inter‑
dittive “ope legis”, le informative anti‑
mafia tipiche e le informative antimafia
atipiche.
La prima tipologia di informativa,
interdittiva “ope legis”, è prevista dal
comma 7 dell’art. 10 D.P.R. n. 252 del
1998 che individua le situazioni relative
157
ad eventuali tentativi di infiltrazione
mafiosa desunte: a) da provvedimenti
che dispongono una misura cautelare o
il giudizio, ovvero che recano una con‑
danna anche non definitiva per taluno
dei delitti previsti dagli artt. 629, 644,
648-bis e 648-ter c.p. o dall’art. 51
comma 3-bis c.p.p.; b) dalla proposta o
dal provvedimento di applicazione di
taluna delle misure di cui agli artt. 2bis, 2-ter, 3-bis e 3-quater l. n. 575 del
1965.
La seconda tipologia di informative
prefettizie (cd. informativa tipica), di
cui alla lettera c) dell’art. 10, comma 7,
riguarda eventuali “tentativi di infiltra‑
zione mafiosa” tendenti a condizionare
le scelte e gli indirizzi delle società od
imprese interessate. L’efficacia interdit‑
tiva di siffatte informativa discende da
una valutazione del Prefetto.
Il “tentativo di infiltrazione mafio‑
sa”, per questa seconda tipologia di
informativa, può corrispondere a una
forma di penetrazione criminale che
non presuppone necessariamente il di‑
retto controllo della compagine societa‑
ria da parte di soggetti con precedenti
penali di stampo mafioso o comunque
implicati nelle attività mafiose, ma an‑
che semplici pressioni esterne influenti
sulla società, tali da determinarne un
effettivo condizionamento. L’informati‑
va antimafia tipica deve, però, fondarsi
su fatti e vicende aventi valore sintoma‑
tico e indiziario sufficienti a dare con‑
tezza dell’esistenza di elementi dai qua‑
li sia deducibile il tentativo di ingerenza
mafiosa. (Cons. Stato, sez. VI, 23 ago‑
sto 2006, n. 4737).
Le due informative sopra indicate
determinano una vera incapacità a con‑
trarre della pubblica amministrazione
che non ha alcun potere discrezionale in
ordine all’apprezzamento delle informa‑
tive. Sicché, deve ritenersi che queste
tipologie di informative siano atti im‑
mediatamente lesivi, che – a differenza
dell’informativa c.d. atipica che si vedrà
di seguito – possono essere autonoma‑
mente impugnate in sede giurisdiziona‑
le, indipendentemente dall’esito della
specifica gara in cui tale informative
siano intervenute, non dovendosi atten‑
dere il consequenziale provvedimento
sfavorevole adottato dall’amministra‑
zione sulla base dell’informazione.
La terza tipologia di informativa
prefettizia, nella quale ricade quella
esaminata dal Tar Napoli nella sentenza
questioni
Gazzetta
158
in commento, è relativa alle informazio‑
ni cd. atipiche di cui all’art. 1-septies
D.l. 6 settembre 1982, n. 629 che ri‑
guardano il rilascio di provvedimenti
amministrativi ampliativi della sfera
giuridica dell’interessato (concessioni,
autorizzazioni per lo svolgimento di
attività economiche). L’effetto interdit‑
tivo dell’informativa è rimesso non ad
una valutazione del prefetto, ma ad una
valutazione discrezionale dell’ammini‑
strazione destinataria dell’informativa
medesima, che dovrà essere sempre
motivata.
L’informativa atipica ha un valore
meramente endoprocedimentale, circo‑
scritto all’amministrazione cui è indi‑
rizzata e, pertanto, è un atto privo di
autonoma efficacia lesiva, in quanto
non comporta effetti preclusivi imme‑
diatamente incidenti nella sfera giuridi‑
ca dell’impresa, essendo unicamente
diretta a fornire all’amministrazione
indicazioni utili alla valutazione,
nell’ambito della discrezionalità e
nell’esercizio dei poteri di autotutela
previsti dalla legge, dei requisiti sogget‑
tivi per l’adozione di determinazioni a
vari fini, comprese quelle concernenti
l’affidamento di lavori pubblici. L’infor‑
mativa atipica è, dunque, un mero atto
interno non immediatamente impugna‑
bile di un subprocedimento che potrà
eventualmente concludersi con un prov‑
vedimento finale della stazione appal‑
tante di esclusione dalla gara dell’im‑
presa cui si riferisce.
Nel caso di cui alla sentenza in
commento, il ricorrente aveva agito per
il risarcimento dei danni derivati dalla
illegittima esclusione dall’aggiudicazio‑
ne determinata in base a una informa‑
tiva prefettizia atipica.
L’amministrazione, nell’esercizio del
suo potere discrezionale, aveva ritenuto
che l’impresa non avesse i requisiti per
stipulare il contratto e le aveva dunque
revocato l’aggiudicazione.
La revoca, essendo basata su infor‑
mativa atipica, doveva essere motivata.
Non essendolo, è stata ritenuta dal
C.d.S. illegittima.
Con l’azione risarcitoria autonoma
ex art. 30, comma 5, c.p.a. proposta
innanzi al Tar di Napoli, il ricorrente
chiedeva il risarcimento dei danni deri‑
vati dalla illegittima informativa prefet‑
tizia e dal provvedimento di revoca
dell’aggiudicazione: il danno curricula‑
re e dell’immagine, non avendo potuto
q u e s t i o n i
l’impresa esclusa contrarre con altre
p.a.; il danno emergente (spese sostenu‑
te); il lucro cessante (perdita dell’utile
contrattuale).
Come è noto, in tema di risarcimen‑
to del danno derivante da responsabili‑
tà della p.a., elementi costitutivi della
fattispecie sono l’illegittimità del prov‑
vedimento, la colpa, il nesso causale tra
la condotta colposa cha ha dato luogo
al provvedimento illegittimo e il dan‑
no.
Si è molto discusso, in dottrina e
giurisprudenza, sull’ubi consistam della
colpa e su come debba essere distribuito
l’onus probandi in caso di responsabili‑
tà della p.a. (se debba essere il privato a
provare la colpa della p.a. o la p.a. a
provare l’assenza della colpa).
Secondo un primo orientamento,
risalente agli anni successivi alla cele‑
berrima sentenza 500/99, la p.a. può
essere condannata al risarcimento del
danno soltanto se sia incorsa in una il‑
legittimità grave e manifesta.
L’orientamento oggi accolto, disan‑
corando la colpa dalla natura della re‑
sponsabilità (atteso che in caso di re‑
sponsabilità extracontrattuale, a rigore,
la prova della colpa incombe sul dan‑
neggiato), distingue l’illegittimità del
provvedimento dalla colpa e sostiene
che l’illegittimità del provvedimento dà
luogo a una presunzione di colpa, supe‑
rabile dalla p.a.
La p.a. deve, cioè, provare la scusa‑
bilità dell’errore in cui è incorsa, pro‑
vando che l’illegittimità sia determinata
dalla contraddittorietà del quadro nor‑
mativo, dalle novità della norma legisla‑
tiva applicata, dalla contraddittorietà
delle posizioni interpretative sulla spe‑
cifica questione (da ultimo Cons. St.
sez. IV, 07.01.2013, n.23).
Nel nostro sistema, dunque, per ef‑
fetto dell’evoluzione giurisprudenziale,
il privato non deve provare la colpa ma
è la p.a. a dovere provare l’assenza della
stessa per errore scusabile.
Il che non equivale ad ammettere
un’ipotesi di responsabilità oggettiva,
proprio perché l’elemento psicologico
resta elemento costitutivo della fattispe‑
cie, sia pur presunto.
Occorre, tuttavia, evidenziare che la
Corte di Giustizia in una recente sen‑
tenza (30.09.2010, C314/2009), in ma‑
teria di appalti pubblici, con riferimen‑
to al sistema austriaco, ha ritenuto in
contrasto con la normativa comunitaria
Gazzetta
F O R E N S E
un sistema di giustizia che subordini il
risarcimento del danno da attività ille‑
gittima della p.a. all’accertamento della
colpa della p.a. (dovendo il meccanismo
risarcitorio funzionare in maniera og‑
gettiva).
All’esito di tale pronuncia si è svi‑
luppato un filone intepretativo, allo
stato non sostenuto dalla giurispruden‑
za maggioritaria, che sostiene la confi‑
gurabilità della responsabilità della p.a.
in chiave oggettiva.
Della ammissibilità di una respon‑
sabilità oggettiva della p.a. e della rile‑
vanza della colpa in caso di attività il‑
legittima della p.a. si è occupata la
sentenza in commento.
Il Tar Napoli distingue la posizione
della prefettura, che ha emanato l’infor‑
mativa, da quella della amministrazione
che ha promosso la risoluzione del rap‑
porto contrattuale.
Per quanto concerne la responsabi‑
lità della prefettura, il Collegio non
accoglie i rilievi di parte ricorrente
sull’assunta responsabilità oggettiva
della prefettura, evidenziando che “la
disciplina antimafia concernente la
prevenzione della delinquenza di stam‑
po mafioso e le relative comunicazioni
e informazioni, si colloca al di fuori
della normativa in materia di appalti
pubblici”.
A parere del Collegio i principi di
rilevanza comunitaria, relativi alla tu‑
tela della concorrenza e del libero mer‑
cato presuppongono “a monte” un so‑
strato imprenditoriale e finanziario
immune da ingerenze malavitose. “Con‑
correnza e libero mercato non potreb‑
bero sopravvivere e verrebbero alla
lunga soffocati a valle di un ambiente
inquinato dalla delinquenza organizza‑
ta di tipo mafioso, che per sua natura
tende a infiltrarsi nel tessuto produttivo
con modalità apparentemente rispetto‑
se della legalità, tenendo tuttavia a
piegarlo ed adattarlo, in ogni modo, ai
propri interessi illeciti”.
All’argomento, ben sostenuto, sulla
inapplicabilità della giurisprudenza
comunitaria in tema di appalti pubblici
alla normativa antimafia si potrebbe
obiettare, muovendo dal dato incontro‑
verso che la disciplina antimafia è ri‑
chiamata espressamente dal codice de‑
gli appalti pubblici e che le informative
incidono sulla stessa aggiudicabilità
dell’appalto, che sarebbe stato più op‑
portuno distinguere a seconda delle
F O R E N S E
informative antimafia: in caso di infor‑
mativa antimafia tipica, dunque vinco‑
lante per la stazione appaltante, essa
non si colloca fuori e a monte della
normativa in materia di appalti pubbli‑
ci perché impone alla p.a. di revocare
l’aggiudicazione e di non stipulare il
contratto. Se si assume ammissibile la
responsabilità oggettiva della p.a. in
tema di appalti, in caso di informativa
antimafia tipica, si deve ammettere la
responsabilità oggettiva anche della
prefettura in quanto la colpa della p.a.
e quella della prefettura coincidono.
Diversamente in caso di informativa
atipica, si distinguerebbero le responsa‑
bilità.
Così argomentando, tuttavia, si fi‑
nirebbe per stabilire ex post la rilevanza
della colpa in base alla condotta della
stazione appaltante. Se si accogliesse
questo assunto non si spiegherebbe
l’eventuale responsabilità oggettiva del‑
la prefettura nell’ipotesi in cui all’infor‑
mativa tipica non sia immediatamente
seguita la revoca dell’aggiudicazione,
considerata la natura immediatamente
lesiva dell’informativa tipica e dunque
la sua immediata impugnabilità (pre‑
scindendo dunque dal successivo com‑
portamento della p.a.).
Appare pertanto pienamente condi‑
visibile la valutazione operata dal Tar
sulla inapplicabilità della giurispruden‑
za comunitaria in tema di appalti pub‑
blici alle questioni risarcitorie relative
alla illegittimità delle informative anti‑
mafia.
Esclusa l’ammissibilità di una re‑
sponsabilità oggettiva della prefettura,
il Tar Napoli si sofferma sulla rilevanza
della prova dell’elemento soggettivo
nella condotta della prefettura.
Il Collegio sostiene che “il risarci‑
mento del danno non è una conseguen‑
za diretta e costante dell’annullamento
giurisdizionale di un provvedimento
amministrativo discrezionale, in quan‑
to richiede la positiva verifica, oltre che
della lesione della situazione giuridica
soggettiva di interesse tutelata dall’or‑
dinamento e del nesso causale tra l’ille‑
cito e il danno subito, anche della sus‑
sistenza della colpa o del dolo della
amministrazione.”
A parere del Tar Napoli, la mera
illegittimità dell’attività provvedimen‑
tale non può costituire presupposto
sufficiente per l’attribuzione di una tu‑
tela risarcitoria, ove non accompagnato
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 3
dalla dimostrazione della sussistenza
dell’elemento psicologico dell’illecito,
sub specie (quantomeno) della colpa. Si
è detto nella sentenza che “si deve quin‑
di verificare se l’adozione e l’esecuzione
dell’atto impugnato sia avvenuta in
violazione delle regole di imparzialità,
correttezza e buona fede alle quali
l’esercizio della funzione deve costan‑
temente ispirarsi, con la conseguenza
che il giudice amministrativo può affer‑
mare la responsabilità dell’amministra‑
zione per danni conseguenti a un atto
illegittimo quando la violazione risulti
grave e commessa in un contesto di
circostanze di fatto e in un quadro di
riferimento normativo e giuridico tali
da palesare la negligenza e l’imperizia
dell’organo nell’assunzione del provve‑
dimento viziato e negarla quando l’in‑
dagine presupposta conduca al ricono‑
scimento dell’errore scusabile per la
sussistenza di contrasti giudiziari, per
l’incertezza del quadro normativo di
riferimento o per la complessità della
situazione di fatto”.
Sulla base di siffatte argomentazio‑
ni, dopo aver, altresì, evidenziato il ri‑
lievo costituzionale e comunitario della
tutela avverso le ingerenze malavitose,
il Tar ritiene di non ravvedere la gravità
della violazione e quindi la colpevolezza
dell’autorità prefettizia, “in quanto
vanno considerate le difficoltà e la com‑
plessità delle questioni da affrontare
nell’esercizio della funzione ammini‑
strativa di merito, che nella specie im‑
plica accertamenti e verifiche delicate e
complesse di una realtà sfuggente”.
Sul punto la sentenza in commento,
se da un lato fa proprio l’orientamento
secondo cui, una volta che il privato
abbia provato l’illegittimità provvedi‑
mentale, anche laddove si tratti di re‑
sponsabilità extracontrattuale (come
nel caso di specie, non essendoci un
diretto “contatto” tra prefettura e im‑
presa privata, attesa la natura di atto
endoprocedimentale dell’informativa
atipica), spetta alla p.a. provare la scu‑
sabilità dell’errore, dall’altro, nel rinve‑
nire la scusabilità dell’errore nella com‑
plessità degli accertamenti, non tiene
conto della circostanza che vi fossero
pregresse informative liberatorie, che
avevano escluso, sulla base dei medesi‑
mi fatti, il pericolo di infiltrazioni ma‑
fiose. Pertanto, non appare riscontrabi‑
le una complessità e difficoltà tale da
giustificare l’errore in cui è incorsa la
159
prefettura.
Quanto alla responsabilità della
Amministrazione appaltante, il Tar
Napoli ha precisato che, trattandosi di
informative atipiche “le determinazioni
della stazione appaltante costituiscono
espressione di una distinta funzione
amministrativa”, in ciò conformandosi
all’orientamento costante che affida
alla discrezionalità della p.a. la valuta‑
zione dell’informativa atipica.
Ritiene il Collegio che gli atti adot‑
tati dalla p.a. appaltante siano “risulta‑
ti viziati non solo per l’illegittimità
derivata dagli atti prefettizi presuppo‑
sti, ma anche per il difetto di specifici
apprezzamenti spettanti alla stazione
appaltante. Ne consegue che la respon‑
sabilità dell’ANAS non si sottrae al
quadro normativo che disciplina gli
appalti pubblici ed all’applicazione dei
principi comunitari con riferimento
alla tutela risarcitoria delle imprese”.
Sotto questo profilo, atteso che la
sentenza non si sofferma sul profilo
della colpa, ma ritiene applicabili “i
principi comunitari con riferimento alla
tutela risarcitoria delle imprese” sem‑
brerebbe che il Tar abbia accolto la tesi
della responsabilità oggettiva della p.a.
E in ciò la pronuncia rappresenta
una novità, atteso che sino ad oggi la
giurisprudenza maggioritaria è orienta‑
ta per la rilevanza della colpa nella re‑
sponsabilità della p.a.
questioni
Gazzetta
Recensioni
Il mutuo bancario, Cedam, 2013 165
recensioni
A cura di Gabriele Burlarelli
F O R E N S E
●
Il mutuo bancario,
a cura di Nicola Graziano,
Cedam, 2013
● Gabriele Burlarelli
Avvocato
La complessa tematica dei finanzia‑
menti bancari risulta essere, ad oggi,
argomento di grande attualità ed inte‑
resse, non solo dal punto di vista dog‑
matico ma, anche e soprattutto, sotto il
profilo pratico, per gli operatori del di‑
ritto.
L’opera in esame si presenta struttu‑
rata in una pluralità di trattazioni, di
notevole rilevanza dottrinaria e ricche di
spunti giurisprudenziali, tendenti ad
analizzare con spirito critico ed analiti‑
co, tutti gli istituti generalmente connes‑
si ai cd. finanziamenti bancari.
In particolare, l’attenzione è volta sia
alle modalità ‘tipiche’ di erogazione di
ricchezza da parte di banche ed istituti
di credito, sia alle cd. nuove frontiere
contrattuali, di matrice anglosassone,
relative al fenomeno in questione, ed
oggetto di una sempre più ampia diffu‑
sione nel nostro panorama giuridico (si
pensi in primo luogo al leasing finanzia‑
rio, o al factoring).
La prima parte dell’Opera è intera‑
mente dedicata all’analisi del contratto
di mutuo, sotto ogni profilo di interesse
giuridico ed economico. Più in dettaglio,
esso è preso in considerazione dall’Auto‑
re, in maniera puntuale e ricca di spunti
riflessivi, sotto molteplici angoli visuali,
sia in relazione alle fasi genetica ed ese‑
cutiva, sia in relazione alle tipologie di
mutuo ad oggi esistenti.
Procedendo nell’analisi, si può nota‑
re come sia presente un’ulteriore ed
ampia trattazione relativa alla forma del
contratto di mutuo, relativamente a
tutte le sue possibili varianti: mutuo
bancario, mutuo fondiario, mutuo di
scopo. L’A. prende poi in considerazione
la fase “finale” del contratto, relativa
alla restituzione del finanziamento, de‑
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 3
dicando peraltro ampio spazio all’anali‑
si dei termini entro i quali essa deve av‑
venire, elemento questo di grande rile‑
vanza pratica per le parti contrattuali. A
conferma di ciò, da una preliminare
analisi – anche giurisprudenziale –
dell’art. 1816 c.c., in relazione al termine
‘legale’ di restituzione, si passa poi ad un
approfondimento dei cd. termini con‑
venzionali, nonché di quelli cd. in pote‑
state creditoris. Con specifico riferimen‑
to a questi ultimi, in particolare, l’A. si
esprime inizialmente in termini dubita‑
tivi, affermando che “appare piuttosto
discussa la compatibilità delle cd. clau‑
sole di ripetibilità ad nutum, a mezzo
delle quali al mutuante è attribuito il
potere di chiedere in ogni momento la
restituzione delle cose mutuate con lo
schema causale del contratto di mutuo”,
salvo poi concludere nel senso di ricono‑
scerne la liceità: “A ben vedere, infatti,
una fattispecie caratterizzata da un
termine lasciato alla discrezionalità del
creditore non pare contraddire la strut‑
tura e la funzione tipica dell’operazione
di mutuo, rilevandosi tuttavia come una
simile possibilità non è raro che si veri‑
fichi, ad esempio, nel mutuo gratuito,
ove peraltro sarà necessaria una previa
richiesta di adempimento da parte del
creditore (…)”.
A testimonianza dell’interesse non
meramente accademico, ma anche e so‑
prattutto pratico, dell’Opera in com‑
mento, non può non menzionarsi l’ap‑
profondita analisi delle cd. fasi patologi‑
che (legali e convenzionali) del contratto
di mutuo. Sotto questo punto di vista, ed
in specifico riferimento all’ipotesi di ri‑
soluzione contrattuale, l’A. dà atto dei
contrasti dottrinari sulla natura corri‑
spettiva o meno del contratto di mutuo,
affermando che “Relativamente alla ri‑
soluzione del mutuo si è molto discusso,
in dottrina e giurisprudenza, se tale
accordo potesse rientrare nella categoria
dei contratti a prestazioni corrispettive.
La soluzione della problematica ricopre
un’enorme importanza sulla possibile
applicazione o meno delle norme previ‑
ste esplicitamente per la categoria dei
contratti a prestazioni corrispettive”;
successivamente, e su tale presupposto,
l’A. giunge poi ad abbracciare la tesi del
mutuo quale contratto a prestazioni
corrispettive, con logica applicabilità
dell’istituto della risoluzione per inadem‑
pimento, dando atto che “(…) si può
affermare la non configurabilità della
165
risoluzione per inadempimento solo nel
caso in cui il mutuo assuma una forma
gratuita, a causa dell’assenza di attribu‑
zioni patrimoniali”
Strettamente connessa all’analisi
generale del contratto di mutuo, v’è an‑
che una trattazione dedicata specifica‑
mente, e con particolare cura, alle varie
categorizzazioni che tale figura assume.
In particolare, il riferimento è al mutuo
di scopo, al mutuo fondiario, e a quello
ipotecario.
In relazione al primo, l’A. afferma
che “l’espressione ‘mutuo di scopo’ in‑
tende generalmente definire il contratto
con cui una parte, al fine di realizzare
un obiettivo rispondente anche ad un
proprio interesse, ma che tipicamente
ricade nella sfera giuridico – economica
dell’altra parte, si obbliga a fornire, per
un certo lasso di tempo, mezzi finanzia‑
ri a quest’ultima, la quale si impegna, a
sua volta, a realizzare le attività o le
opere convenute, alla eventuale corre‑
sponsione degli interessi ed alla restitu‑
zione del capitale”, ed in relazione alle
finalità di esso, fa poi notare come “la
destinazione che si imprime al mutuo di
scopo, oltre a rappresentare un elemen‑
to idoneo a meglio definire la funzione
del mutuo conferendogli una più netta
connotazione finalistica in rapporto agli
interessi concreti dei contraenti, model‑
la detta funzione su quegli interessi,
adeguando la causa del contratto al ri‑
sultato pratico cui aspirano le parti”. Il
mutuo fondiario è, viceversa, definito
dall’A., come “una forma speciale di
mutuo concesso da istituti di credito e
diretto al miglioramento, alla costruzio‑
ne o all’acquisto di proprietà immobi‑
liari rurali o urbane, garantito da ipote‑
ca di primo grado sulle stesse”.
Infine, con specifico riferimento al
cd. mutuo ipotecario, l’A. dà pregevol‑
mente atto, in sede di analisi dell’istituto,
che per ovviare al rischio da inadempi‑
mento del debitore “il nostro ordina‑
mento prevede un sistema di norme (…)
tese a rafforzare il rapporto obbligatorio
mediante la costituzione di garanzie
specifiche in favore del creditore”, e che
la successiva iscrizione della garanzia
ipotecaria deve necessariamente “speci‑
ficare il bene oggetto di ipoteca, nonché
l’entità della somma di denaro in rela‑
zione alla quale deve iscriversi il relativo
vincolo”.
Da queste brevi premesse, è agevole
ricavare come tali istituti siano, in realtà,
recensioni
Gazzetta
166
oggetto di un’ottimale attività di ricerca,
che prende in considerazione sia gli
aspetti teorici, che i risvolti pratici, con
l’aggiunta di una nutrita analisi della
giurisprudenza correlata.
Come supra anticipato, l’A. riserva
altresì una specifica e curata trattazione
agli istituti innovativi, e solo recente‑
mente affacciatisi nel nostro panorama
giuridico ed economico: su tutti, facto‑
ring, leasing e i cd. contratti a supporto
dell’acquisizione di partecipazioni socie‑
tarie (cd. Assets).
Tali forme contrattuali, di importan‑
za sempre crescente in relazione alla
mutevolezza del mercato ed agli effetti
della globalizzazione, risultano infatti
essere, allo stato, approfonditi solo par‑
zialmente, e a quest’Opera va quindi
riconosciuto un grande contributo in tal
senso.
L’A. fa puntualmente notare come,
in relazione al factoring, molti siano
ancora i dubbi persistenti su natura giu‑
ridica e configurazione pratica dell’isti‑
tuto. Viene dato atto della “sostanziale
incertezza in ordine alla qualificazione
giuridica del negozio, alla sua natura
unitaria o plurima, nonché in rapporto
alla sua stessa causa (…) che non sarà
astratta, e non potrà essere aprioristica‑
mente individuata”, giungendosi poi ad
enucleare, con spirito critico, le varie
teorie dottrinarie finora succedutesi, nel
senso che “la generale constatazione che
il trasferimento del credito non esauri‑
sca l’operazione, ha condotto alcuni
giuristi a delineare l’istituto non in ter‑
mini unitari, ma distinguendo un accor‑
do quadro iniziale qualificato come
contratto preliminare unilaterale o con‑
tratto normativo, distinto dai successivi
negozi giuridici posti in essere nel corso
del rapporto che ne scaturisce”.
Come per il factoring, anche al lea‑
sing è riservata ampia trattazione, dap‑
prima distinguendosi tra leasing opera‑
tivo e leasing finanziario, e passando poi
in rassegna tutti i profili di interesse ci‑
vilistico relativi ad esso. In riferimento
alla causa del contratto, in particolare,
l’A. afferma, condivisibilmente, che
“l’operazione di leasing ha una evidente
funzione di finanziamento, perché con‑
sente all’utilizzatore il godimento del
bene attraverso l’impegno finanziario
della concedente. Tuttavia i rapporti
contrattuali si strutturano in maniera
tale che non vi sia traccia del passaggio
r e c e n s i o n i
di denaro dal concedente all’utilizzato‑
re, ma soltanto della concessione in go‑
dimento del bene”. Di notevole interesse
risulta essere altresì la suddivisione e
classificazione delle singole fattispecie
‘interne’ al leasing: automobilistico,
immobiliare, della PA, del consumatore,
cd. sale and lease back, nonché il rappor‑
to tra l’istituto de quo e il fallimento.
Gli argomenti di maggior interesse
scientifico, soprattutto da un punto di
vista interpretativo, risultano però esse‑
re – almeno ad avviso di chi scrive – quel‑
li relativi al diritto delle società.
In particolare, il riferimento è alle
forme di finanziamento societario (da
intendersi quali finanziamenti in senso
stretto da parte dei soci con obbligo di
restituzione, cd. apporti spontanei, emis‑
sione di prestiti obbligazionari ordinari
o convertibili) nonché ai cd. contratti a
servizio delle acquisizioni di partecipa‑
zioni societarie in S.p.A. o S.r.l. (cd.
Assets).
La tematica, di sicuro interesse e di
grandissima attualità, risulta ben analiz‑
zata e strutturata, con ricchi spunti inter‑
pretativi e riferimenti giurisprudenziali,
che la rendono agevole alla comprensione
e alla lettura, nonostante la complessità
degli problematiche ivi insite.
In particolare, e con esclusivo riferi‑
mento alle operazioni di cessione (o,
come altrimenti qualificate di ‘acquisi‑
zione’ o ‘trasferimento’) di partecipazio‑
ni societarie, l’A. osserva come – in real‑
tà – esse siano pacificamente qualifica‑
bili come compravendite di azioni di
S.p.A. o di quote di S.r.l., ed aventi con‑
seguentemente (secondo una terminolo‑
gia fatta propria nell’Opera), natura di
“beni di secondo grado”, dovendosi
opportunamente scindere tra ‘oggetto
immediato’ della vendita (azioni o quote
societarie) ed ‘oggetto mediato’ della
stessa (assunzione della qualità di socio
della cd. società target).
Quale problematica intrinsecamente
connessa all’operazione de qua, v’è pure
quella relativa alle garanzie che il vendi‑
tore è tenuto a prestare in relazione alle
azioni o quote compravendute. Ed in
effetti, come anche affermato dall’A., le
garanzie non debbono risolversi sola‑
mente nella generica dichiarazione della
piena ed esclusiva titolarità del bene ce‑
duto ma debbono verosimilmente esten‑
dersi oltre, al fine di rendere edotto
l’acquirente circa lo stato economico –
Gazzetta
F O R E N S E
patrimoniale della società di riferimen‑
to, nonché alle sue future prospettive di
mercato. Ed è, a ben vedere, questa la
garanzia ritenuta più importante relati‑
vamente alla predetta operazione di
compravendita.
Con grande tecnica di approfondi‑
mento, l’Opera tratta altresì delle fasi
preliminari al contratto (cd. due diligen‑
ce), concretizzate in obblighi di informa‑
zione particolareggiata sull’oggetto del
contratto e sui suoi risvolti pratici, che le
parti vicendevolmente si trasmettono,
nonché alle singole fasi della stipulazione
e alle forme contrattuali, alternative a
quella di vendita, con le quali tali opera‑
zioni possono venire concretamente ad
esistenza.
Di grande attualità risulta essere
anche la l’analisi relativa al trattamento
fiscale del contratto di mutuo. In parti‑
colare, viene data trattazione dell’Impo‑
sta di Registro in relazione alle suddette
forme di finanziamento, scindendosi
opportunamente l’ipotesi di erogazione
da parte di un soggetto non agente
nell’esercizio della sua attività professio‑
nale da quella, necessariamente diversa,
in cui detta operazione sia effettuata da
professionisti del settore.
Infine, ed a fini esclusivamente pra‑
tici - redazionali, l’A. conclude la tratta‑
zione delle tematiche, con un formulario
relativo a tutte le possibili ipotesi di fi‑
nanziamento bancario, così da fornire
all’operatore giuridico uno strumento di
sicura utilità e facilitazione nella reda‑
zione di simili contratti, e dando corre‑
lativamente all’Opera un’importanza ed
un valore ancora maggiori.
Un’opera di grande spessore, quindi,
atta ad orientare con tutta sicurezza
l’interprete nelle scelte connesse alle te‑
matiche trattate, specialmente in un
settore – come quello bancario e finan‑
ziario – nel quale si giustappongono
spesso interessi contrastanti e, sotto
certi aspetti, incompatibili tra loro. Cer‑
cando di offrire le migliori soluzioni
giuridiche sia dal punto di vista dell’Isti‑
tuto mutuante, che dal punto di vista del
consumatore (mutuatario), gli Autori
pongono in essere una pregevole opera‑
zione di elaborazione ragionata degli
istituti, dando atto delle potenziali con‑
seguenze concrete derivanti dall’applica‑
zione delle relative discipline, ed in rap‑
porto agli interessi portati in capo da
ciascuna controparte contrattuale.
Indice delle sentenze
Diritto e procedura civile
CORTE DI CASSAZIONE
Cass. civ., sez. III, 19.02. 2013, n. 4030 (con nota di Sabbatini)
Cass. civ., sez. un., 23.01.2013 n. 1521 s.m.
Cass. civ., sez. I, 18.01.2013 n. 1237 s.m.
Cass. civ., sez. lav., 15.01.2013 n. 809 s.m.
Cass. civ., sez. III, 15.01.2013 n. 797 s.m.
Cass. civ., sez. II, 14.01.2013 n. 705 s.m.
Cass. civ., sez. III, 20.12.2012, n. 23625 s.m.
Cass. civ., sez. un, 19.12.2012, n. 23464 s.m.
Cass. civ., sez. III, 18.12.2012, n. 23318 s.m.
Cass. civ., sez. III, 10.12.2012, n. 22382 s.m.
Cass. civ., sez. III, 27.11.2012, n. 20984 s.m.
CORTE D’APPELLO
App. Napoli, sez. III, ord. 17 aprile 2013, s.m.
TRIBUNALE
Trib. Nola coll. A), 27.03.2013, n. 715 s.m.
Trib. Napoli, G.u.p.,11.03.2013, n. 644 s.m.
Trib. Nola, coll. C), 07.03.2013, n. 588 s.m.
Trib. Nola, coll. A), 20.02.2013, n. 469 s.m.
Trib. Napoli, G.u.p., 08.02.2013, n. 406 s.m.
Trib. Napoli, G.u.p., 04.02.2013, n. 339 s.m.
Trib. Napoli, G.u.p., 01.02.2013, n. 327 s.m.
Trib. Nola, coll C), 31.01.2013 n. 251 s.m.
Trib. Nola, coll. A), 30.01.2013, n. 237 s.m.
Trib. Napoli, G.u.p., 28.01.2013, n. 264 s.m.
Trib. Nola, coll. A), 27.11.2012, n. 2568 s.m.
Cass. civ., sez. un.,13.11.2012, n. 19704 s.m.
Cass. civ., sez. Un., 04.09.2012, n. 14828 (con nota di Catalano)
CORTE D’APPELLO
App. Roma, sez. I, sentenza n. 383/2013 (con nota di Scuotto)
App. Napoli, sez. III, 24.02.2013 s.m.
App. Napoli, sez. Persone e Famiglia, 22.02.2013 s.m.
TRIBUNALE
Trib. Napoli, sez. X, 28.01.2013, Giud. B. Garcia s.m.
Diritto amministrativo
CONSIGLIO DI STATO
Cons. Stato, sez. V, 15.04.2013, n. 2063 s.m.
Cons. Stato, sez. V, 11.04.2013, n. 1974 s.m.
Cons. Stato, sez. V, 09.04.2013, n. 1953 s.m.
Cons. Stato, sez. V, 27.03.2013, n. 1833 s.m.
Cons. Stato, sez. III, 13.03.2013, n. 1494 s.m.
Cons. Stato, sez. III, 05.03.2013, n.1328 s.m.
Trib. Napoli, sez. X, 28.01.2013, Giud C. Sorrentini s.m.
Trib. Napoli, sez. X, 25.01.2013, Giud. C. d’Ambrosio s.m.
Diritto e procedura penale
CORTE DI CASSAZIONE
Cass. pen., sez. I, 20.04.2012, n. 17545 (con nota di Semeraro)
Cass. pen., sez. VI, 15.03.2013, n. 14454 s.m.
Cass. pen., sez. II, 26.02.2013, n. 11938 s.m.
Cass. pen., sez. VI, 25.02.2013, n. 13047 s.m.
Cass. pen., sez. VI, 25.02.2013, n. 11944 s.m.
Cass. pen., sez. VI, 25.02.2013, n. 11942 s.m.
Cass. pen., sez. VI, 11.02.2013, n. 11808 s.m.
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
T.a.r. Campania, sez. I, 18.03.2013, n. 1504 s.m.
Diritto internazionale
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
C.G.U.E., sez. III, 25.04.2013, Causa C–81/12, A./Consiliul National
pentru Combaterea Discriminarii (con nota di Romanelli)
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI
C.E.D.U, Grand Chamber, 19.02.2013, Causa 19010/07 (con nota di
Romanelli)
Cass. pen., sez. VI, 11.02.2013, n. 12388 s.m.
Corte Suprema dell’India
Cass. pen., sez. VI, 11.01.2013, n. 16154 s.m.
Corte Suprema dell’India, Novartis AG v. Union of India & Others,
01.04.2013 (con nota di Sorrentino)
Cass. pen., sez.un., 20.12.2012, n. 14978 (con nota di Pignatelli)