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12/10/1993
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Professor Verra, sappiamo che da molto tempo Lei dedica la maggior parte della sua ricerca al pensiero hegeliano, e
quindi ci sembra logico aprire questa intervista riprendendo un interrogativo a suo tempo proposto da Benedetto
Croce: che cosa è vivo e che cosa è morto nella filosofia di Hegel? (1)
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Professore, qualcuno ha detto che bisognava estrarre il nocciolo razionale dal guscio metafisico della filosofia di
Hegel, e il nocciolo razionale era la dialettica. Si può intendere la dialettica come l'elemento connettivo di tutta la
filosofia hegeliana? (2)
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Possiamo dire che non è vero che tutto ciò che esiste è reale? (3)
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Quali sono le difficoltà principali che incontrano nel tentativo di comprendere un testo come Fenomenologia dello
spirito? (6)
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Professore, quello che Lei ha detto a proposito della fenomenologia e della storia della coscienza può aiutarci a
comprendere un'altra frase celebre di Hegel, ossia: "La filosofia è il nostro tempo - il tempo presente - appreso con il
pensiero"? (7)
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Professor Verra, vuole illustrarci alcuni momenti significativi nei rapporti della coscienza con le istituzioni secondo
l'idea del passaggio dalla "prima" natura alla "seconda natura"? (8)
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Che significato ha, in ultima analisi, la sistematicità della filosofia hegeliana, il suo costituirsi come "enciclopedia"? (9)
Professor Verra, si può quindi anche dire che è razionale e reale solo ciò che ha un progresso davanti a sé? (4)
Professor Verra, cominciamo a vedere più da vicino le opere di Hegel, in primo luogo la Fenomenologia dello spirito.
Possiamo dire che il termine "fenomenologico" nell'uso comune, ma anche in quello filosofico, oramai vuol dire
qualcosa di diverso da quello che intendeva Hegel? (5)
INTERVISTA
1 Professor Verra, sappiamo che da molto tempo Lei dedica la maggior
parte della sua ricerca al pensiero hegeliano, e quindi ci sembra logico
aprire questa intervista riprendendo un interrogativo a suo tempo
proposto da Benedetto Croce: che cosa è vivo e che cosa è morto nella
filosofia di Hegel?
Sono molto lieto e molto grato di questa domanda, perché prima di tutto mi
consente di assolvere a un compito a cui è tenuto ogni studioso. Il riferimento
a Croce non può che essere un riferimento di gratitudine: è stato il primo a far
circolare in Italia una traduzione adeguata, quella dell'Enciclopedia delle
scienze filosofiche di Hegel. Tutti i nostri colleghi e professori di Liceo nei loro
studi universitari hanno usato le traduzioni uscite nella collana di Croce, presso
l'editore Laterza. Ma, chiaramente, Croce è stato anche un grande interprete di
Hegel. Inoltre questo era un titolo tipico, che mi consente di entrare nel vivo
del discorso. Espressa la gratitudine, bisogna anche però segnare le distanze:
sono passati cento anni da allora, e cento anni lasciano il segno anche negli
studi. Ebbene all'inizio del secolo, o alla fine del secolo scorso, la filosofia di
Hegel veniva vista come qualcosa che bisognava riformare: Giovanni Gentile,
ad esempio, scrisse proprio un libro intitolato La riforma della dialettica
hegeliana. Si pensava cioè che Hegel avesse detto delle cose molto importanti,
molto significative ma che occorressero dei ritocchi al suo pensiero per
renderlo adeguato all'epoca. Questo tipo di impostazione, poiché è comune ad
autori anglosassoni, italiani e tedeschi, è durata abbastanza a lungo. Se noi,
per esempio, pensiamo all'esistenzialismo e al marxismo, notiamo che anche in
essi ci sono state delle specie di riforme. Quando Jean Wahl, che è un filosofo
francese molto importante della prima metà del secolo, scrive un libro sulla
"coscienza infelice", dice una cosa bellissima, ossia che il cristianesimo ha
introdotto la coscienza infelice: ci sentiamo lontani da Dio, non sappiamo se ci
riconcilieremo con lui. Però che cosa fa? Riconduce non solo tutta la
Fenomenologia dello spirito, ma l'intera filosofia di Hegel alla coscienza infelice.
E questo non si può fare. Quando Lukàcs prende in considerazione il rapporto
tra "servo" e "padrone" e avvia non solo una serie di ricerche, ma anche un
modo di vivere la filosofia hegeliana - il servo è colui che lavorando trattiene
l'appetito per conservare la cosa al padrone, per dargliela elaborata - ecco che
facilmente di lì si passa a leggere il rapporto tra servo e padrone come il
rapporto tra capitalista e l'operaio, il lavoratore, dando quindi una chiave di
lettura estremamente moderna, ma che di nuovo è una riforma della dialettica,
della filosofia hegeliana, la quale, invece, inserisce queste cose in una totalità.
Oggi non si fa più così, si cerca invece, come ha detto Hans Georg Gadamer, di
compitare la filosofia di Hegel. Ma per quale ragione? Ecco io vorrei chiarire
subito qual è il punto saliente, e cioè che i filosofi tra loro discutono, talvolta
anche animatamente, e si confutano. Ma la filosofia di Hegel - ricordano tutti la
frase che sembra tanto scandalosa: "Tutto il razionale è reale e tutto il reale è
razionale" -, è una filosofia che non si può confutare a livello argomentativo;
bisogna che cambi il reale perché cambi il razionale, altrimenti sono
confutazioni puramente teoriche che hanno poco peso. Quindi, in questo senso,
la vera confutazione alla filosofia di Hegel nella sua totalità richiede un
mutamento della totalità di senso della storia europea. Dico della storia
europea perché essa, come tutti sappiamo anche se può non farci piacere, per
secoli è stata determinante anche per gli altri popoli: Hegel aveva davanti a sé
una situazione indubbiamente eurocentrica. E allora se noi non consideriamo
questo pensiero nel suo complesso, difficilmente riusciamo a cogliere il senso
anche del suo rapporto con questa grande interpretazione complessiva della
storia, che può esser giusta o sbagliata, ma che va presa nella sua totalità
perché altrimenti si fa come hanno fatto i discepoli di Hegel: ciascuno ha tirato
l'acqua al suo mulino, ma questo ha finito col dare spazio al positivismo,
all'irrazionalismo, al contingentismo, cioè a filosofie che erano tutte diverse da
quelle hegeliana.
2 Professore, qualcuno ha detto che bisognava estrarre il nocciolo
razionale dal guscio metafisico della filosofia di Hegel, e il nocciolo
razionale era la dialettica. Si può intendere la dialettica come
l'elemento connettivo di tutta la filosofia hegeliana?
Lei ha toccato un punto drammatico che va oltre Hegel, perché questa
operazione di tirar fuori la dialettica dal sistema non è, di nuovo, un'operazione
che fanno i professori; è un'operazione che è stata tentata da grandi sistemi
politici, i quali hanno pensato che fosse possibile utilizzare la dialettica come
uno strumento per accelerare il processo rivoluzionario. Ma la dialettica non si
può utilizzare come uno strumento, almeno secondo Hegel. E' vero semmai il
contrario: è dalla dialettica medesima che scaturiscono i processi rivoluzionari.
Tanto per parlarci chiaro - altrimenti sembra che siano discorsi di formule - il
marxismo autentico, originario, non aveva mai previsto che la rivoluzione
scoppiasse in un Paese arretrato come la Russia; pensava che scoppiasse in
Inghilterra o in Germania, pensava, cioè, che laddove la borghesia aveva
portato a conclusione il suo processo costruttivo si generasse una sua antitesi
così forte e così disperata, che era in grado di soppiantarla e di portare poi alla
liberazione globale del genere umano. Ma, invece, quando si scioglie la
dialettica e se ne fa uno strumento passe-partout, ecco che si può arrivare a
pensare di costruire il socialismo all'inverso, partendo dal di sopra anziché dal
di sotto. E abbiamo visto, purtroppo - questa non è polemica politica, è storia
di questo secolo -, che sono nati problemi molto complessi. I quali però non
sono imputabili alla dialettica hegeliana e, secondo me, neanche alla originaria
dialettica marxista.
Una seconda risposta alla sua domanda è che bisogna andare un po' cauti.
Perché? Perché la dialettica ha una grandissima storia: è una parola greca che
vuol dire "dialogare", "dibattere". La dialettica è già stata l'anima della filosofia
di Platone; secondo la teoria della conoscenza di Platone vi sono due strumenti
della conoscenza sensibile e due della conoscenza intelligibile: l'ultimo, ossia la
dialettica, ci portava alla conoscenza delle pure idee. Prendiamo Kant:
sappiamo che la dialettica trascendentale, la quale riguarda l'esistenza di Dio,
la natura del mondo e la semplicità o complessità dell'anima e così via, è un
processo necessario. Quindi bisogna stare attenti a non identificare Hegel
senz'altro con il fatto che la dialettica ha una funzione importante. Ma c'è poi
qualche cosa di più scandaloso, e cioè che Hegel della dialettica non ne parla
quasi mai. Se noi andiamo a vedere la sua opera monumentale, c'è forse una
pagina sola dove è detto cos'è la dialettica: la dialettica è, precisamente, il
momento della "negazione" che sta tra l'intelletto e la ragione. Che cosa vuol
dire questo? E' una cosa molto semplice, purché noi comprendiamo che la
speculazione non è qualcosa di astratto o di strano; "speculazione" vuol dire
comprendere la vita, e la vita non è comprensibile dall'intelletto, il quale si
limita a enunciare delle identità. L'intelletto dice: "Il tavolo è quadrato", una
proposizione sensatissima, però non va oltre. La dialettica è il secondo
momento, per cui rispetto a una affermazione si cerca la verità nel suo
opposto. E anche qui sembrerebbe una cosa strana. Ma è una cosa che non è
affatto strana, perché se tutti siamo al mondo è proprio perché la verità del
maschio sta nella femmina, la verità della femmina sta nel maschio. Cioè
bisogna vedere le cose in modo vivo; e il razionale e reale di cui parla Hegel
non sono ciò che io ho nella mia testa come il signor "tal dei tali", bensì questo
tessuto concreto. Naturalmente io ho portato l'esempio più incontrovertibile,
ma lo stesso esempio si potrebbe trovare nella lotta di classe, nelle lotte
politiche, o, naturalmente, anche in certi rapporti naturali. Io penso, però, che
il mondo biologico sia quello che - proprio col rapporto dei sessi, come Hegel
stesso fa vedere - ci dà meglio l'idea di cosa sia la dialettica.
Andiamo un momento avanti su questa strada, così ci comprendiamo ancora
meglio. Per molti secoli, per esempio, si è detto che per capire se un animale
appartenesse a una specie o meno, bisognava vedere se era riproducibile in
quella specie; cioè non si poteva - almeno così non risulta - incrociare un
elefante con una formica, ma l'elefante con l'elefantessa, la formica maschio
con la formica femmina. Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che si può
parlare di dialettica non tutte le volte che c'è un contrasto. Se io salgo su un
tram e urto una persona, questo non è un rapporto dialettico, anche se è
negativo - magari mi rompo una costola - perché bisogna che la negazione sia
determinata. Il mondo biologico ci offre degli esempi particolarmente calzanti;
prima citavo proprio il fatto che bisogna che ci sia l'animale di quella medesima
specie ma di segno negativo. La stessa situazione potremmo trovarla anche nel
magnetismo, per esempio, o nell'elettricità con il segno positivo e il segno
negativo eccetera. Io spero, con questi esempi, di aver fatto capire che la
negazione, a tutti i livelli, deve essere sempre determinata. Allora cominciamo
a capire che Hegel non ha nessun bisogno di parlare in un capitolo speciale
della dialettica in quanto ne parla in tutti. Tutta la realtà è dialettica. Ma
attenzione! Purtroppo qui la parola italiana non ci dà quello che c'è invece nella
parola tedesca; la parola tedesca Wirklichkeit dà tutto un altro senso: wirken in
tedesco significa infatti "operare". E allora anche la famigerata tesi che "il
razionale è reale" non è così stramba: Hegel distingue nettamente tra
l'esistenza, che può essere putrida, fatiscente, e la realtà, che invece è viva,
effettiva. Se io taglio la mia mano e la metto su questo tavolo e non la
riattacco più al braccio, non è più reale, hegelianamente parlando: è un
esistenza marcescente. Un altro esempio: uno Stato che non funziona non è
più reale e non è più razionale. Cominciamo quindi a capire che cosa voglia
dire la dialettica hegeliana, la quale deve essere all'interno di una totalità che e qui però nascono grosse complicazioni - ha almeno due aspetti: quello
fenomenologico e quello enciclopedico.
3 Possiamo dire che non è vero che tutto ciò che esiste è reale?
Naturalmente no, nel senso hegeliano. Un esempio molto significativo è quello
del sistema sociale indiano basato sulla divisione in caste. Ebbene questo
sistema indubbiamente, rispetto a un disordine totale, può rappresentare una
certa garanzia; può essere che abbia significato rispetto a orde che si
assaltavano selvaggiamente, che favorisca un minimo di sistemazione politicosociale. Ma sicuramente è qualcosa di morto. Hegel è durissimo su questo
punto: noi viviamo in mezzo a un'infinità di cadaveri politici e religiosi, sociali,
culturali, letterari e artistici. Essi hanno una "putrida" esistenza, proseguono la
loro vita, magari per migliaia di anni, ma non significano più nulla, e, in questo
senso, non sono razionali, perché non hanno più quella forza di incidere, di
generare, di procreare, di sviluppare, che costituisce la "realtà" e la differenzia
da ciò che è semplicemente il bruto dato. Per Hegel la filosofia non è una
statistica di vivi e di morti, ma è piuttosto la ricerca, appunto, di principî che
siano efficaci. Questo è il senso della identificazione di razionalità e realtà.
4 Professor Verra, si può quindi anche dire che è razionale e reale solo
ciò che ha un progresso davanti a sé?
Questa è la domanda più importante, che apre un discorso molto complicato.
Perché? C'è una cosa interessante: in America hanno trovato un manoscritto di
un ascoltatore di Hegel - era abitudine che gli studenti trascrivessero le lezioni,
che naturalmente noi studiosi utilizziamo perché sono pur sempre dei
documenti. E in uno di questi, mi pare proprio trovato in America, in cui c'è
scritto non: "Il reale è razionale", ma: "Il reale sarà razionale". Quindi alla sua
domanda io devo dare due tipi di risposte. La prima è che la storia, per Hegel,
indubbiamente dovrà essere e continuerà a essere un progresso; in questo
senso egli rientra indubbiamente nella grande tradizione gioachimita. Ossia
Hegel pensa, come pensava Gioacchino da Fiore e tanti altri, che a un'età del
Padre, che è stata quella precristiana, a un'età del Figlio, che è stata quello
grosso modo del Medioevo, succederà un'età dello Spirito. Bisogna fare
attenzione che Hegel è molto "topologico": a seconda di dove colloca qualcuno
o qualche cosa, a priori si sa già la valutazione che gli dà. La posizione di Cristo
in Hegel, ad esempio, non è poi così buona, poiché Cristo rappresenta un
momento intermedio e quindi, in qualche modo, qualcosa che deve essere
superato dall'avvento del regno dello Spirito. Io mi rendo conto, però, che
soprattutto i giovani si chiederanno: ma cosa vuol dire "avvento dello Spirito"?
Vuol dire "conciliazione" tra umano e divino, tra ecclesiale e politico, e quindi
coincide con il superamento di tutte quelle opposizioni che Hegel vede ancora
anche nella figura del Cristo. Qui bisognerebbe fare tutto un lungo discorso
sugli scritti giovanili di Hegel - i cosiddetti Scritti teologici -, nei quali Cristo
viene presentato, sostanzialmente, come un fallito. Cioè tra lui e il suo popolo
c'è stata una discordanza; questa discordanza non è stata superata e allora i
suoi discepoli ne hanno fatto una figura carismatica, si sono isolati e,
naturalmente, in questo modo hanno tradìto quello che era l'aspetto più bello,
più ingenuo dell'insegnamento del maestro. C'è un aspetto molto curioso e
interessante, quasi di affinità tra gli scritti giovanili di Hegel, dove Cristo viene
presentato in questo modo, e Nietzsche. Nietzsche presenta anche lui il Cristo
come un uomo ingenuo, un uomo semplice, un uomo sereno, il cui messaggio
è poi caduto nelle mani di san Paolo, il quale ha fatto, invece, del Cristianesimo
una struttura aggressiva, una specie di milizia, con la condanna della carne e
cose di questo genere. Quindi in questo senso Hegel indubbiamente sottolinea
la necessità di uno sviluppo progressivo. Ma Hegel non ritiene fondamentale il
nuovo in quanto nuovo: questa è la malattia, nevrastenia dei Romantici, i quali
sono sempre insoddisfatti e, appena hanno realizzato qualche cosa, lo devono
buttare via per ribadire la superiorità dello Spirito rispetto a ciò che è stato
fatto. Questa è una contrapposizione storica: Goethe diceva: "L'uomo classico
è sano, il romantico è malato".
5 Professor Verra, cominciamo a vedere più da vicino le opere di Hegel,
in primo luogo la Fenomenologia dello spirito. Possiamo dire che il
termine "fenomenologico" nell'uso comune, ma anche in quello
filosofico, oramai vuol dire qualcosa di diverso da quello che intendeva
Hegel?
Sì, effettivamente il problema è che oggi spesso si pensa principalmente alla
"fenomenologia" di Edmund Husserl, filosofo tedesco molto importante ma che
ha sviluppato tutt'altro indirizzo filosofico. Io però devo chiarire, proprio a
livello manualistico due punti: il primo è che Hegel ha pubblicato soltanto una
parte di quelle opere che noi vediamo circolare come sue, e cioè la
Fenomenologia, la Logica, la Filosofia del diritto e l'Enciclopedia delle scienze
filosofiche, poi qualche altro scritto, che però non è così importante. Molte
"opere", come l'Estetica, la Filosofia della storia, la Filosofia della religione
eccetera, sono raccolte di scritti ricavati da appunti di studenti o da
manoscritti, e così via. La Fenomenologia esce nel 1807 e la Enciclopedia delle
scienze filosofiche nel 1817 in tre edizioni. Succede però una cosa che è stata,
e sarà sempre, "la croce e la delizia" degli studiosi hegeliani: la Fenomenologia
del 1807 nella Enciclopedia del 1817 diventa una parte da cui viene amputato
lo Spirito, la Religione e il Sapere assoluto. Questo, come dicevo, è "la croce e
la delizia" perché Hegel alla vigilia della morte stava per pubblicare una nuova
edizione della Fenomenologia ma purtroppo è morto rapidamente e non ha
potuto pubblicarla. Penso sia importante chiarire che il mio discorso correrà su
due binari. Allora cominciamo dal primo vedendo che cos'è questa
fenomenologia. Perché ricorrere a una parola così complicata? La ragione è
questa: noi, sia a noi stessi che agli altri, non ci manifestiamo mai come
effettivamente siamo, ma ci manifestiamo attraverso delle apparenze. Uno
scrittore, Pirandello, che non a caso aveva studiato in Germania diceva: "uno,
nessuno e centomila", a significare che tutto il rapporto che abbiamo tra di noi
consiste di reciproche manifestazioni, ma in realtà - questo poi lo dirà anche
Nietzsche - è possibile che non ci sia niente dietro ad esse: detto in altri
termini, che ci sia soltanto questo complesso di manifestazioni. Io adesso vi sto
parlando, ma che cosa sono io se non la serie di tutti discorsi che ho fatto,
delle azioni che ho fatto? E voi siete lo stesso. Cioè noi siamo la storia
dell'esperienza che fa la nostra coscienza nel corso della nostra vita, se
prescindiamo dalla vita puramente biologica. Ecco, questo mi pare un concetto
che può sorprendere; ma se ci si riflette un momento, evidentemente noi non
troviamo dentro noi stessi una nostra essenza. L'essenza della nostra vita sono
le nostre manifestazioni. Lo dice anche il linguaggio: quando facciamo una cosa
che nessuno sospettava da noi tanto nobile, tanto bella, oppure tanto ignobile,
tanto brutta, si dice: "ma ti credevo diverso!". "E perché mi dovevi credere
diverso? Su che basi?". Unicamente sulle manifestazioni che c'erano state
prima! La grave complicazione, che ci fa anche tanto soffrire, è che però noi
non siamo consapevoli del senso di queste nostre manifestazioni; e queste
manifestazioni sono in qualche modo sempre "rovesciate". In questa
prospettiva la psicoanalisi ha dato in gran parte ragione e documentazione a
quello che Hegel diceva. Consideriamo il malato che somatizza un disturbo
spirituale - purtroppo tutti ne abbiamo conosciuti: egli dice, per esempio, che
non può piegare il braccio o che non può digerire, o cose del genere, e invece
poi, fatta un'analisi fisiologica con tutti gli strumenti della medicina, si trova
che è il braccio perfettamente sano o che la digestione funziona bene.
Evidentemente in tali casi siamo di fronte a una obiettivazione, un'apparenza,
una manifestazione di un disturbo della coscienza, che però si presenta
rovesciato come se fosse invece un disturbo non della coscienza, ma della
realtà. E allora il cammino del genere umano che cosa è? Il cammino del
genere umano è una grande odissea, perché noi ci inganniamo continuamente.
Vi ricordate Ulisse? Tutte le volte che giungeva in un'isola credeva di aver
trovato il punto di approdo, ma poi, dopo un po', s'accorgeva che si era
ingannato e si rimetteva in viaggio, finché non tornò alla sua patria. Ebbene
noi siamo nelle stesse condizioni. Cioè la nostra coscienza vorrebbe ritrovare,
in quello che ha davanti a sé, non la manifestazione, ma ciò che c'è dietro di
essa. Ma per trovarlo deve trasferirsi nell'altro. Ma appena io mi sono trasferito
nell'altro sono già cambiato, e quest'altro, evidentemente, se mi ha ascoltato,
è cambiato anche lui.
Questo processo per Hegel, però, a differenza di quello che può accadere nella
psicanalisi, è un processo di rovesciamento tragico, e "tragico" vuol dire
"storico". Cioè la coscienza fa esperienza del modo in cui si realizza nella
storia, proprio per progredire. Allora non è che continuamente si gioca
semplicemente a capirsi l'un l'altro; questo gioco è un gioco tragico, che a un
certo punto diventa comico, e quando è diventato comico si dissolve, e quando
è avvenuta la dissoluzione vuol dire che una forma di coscienza è morta, è
perita. Noi troviamo ridicolo che gli antichi Cinesi adorassero il loro sovrano
come il cielo da cui loro avevano i loro figli; noi troviamo ridicolo che i Greci
adorassero dèi antropomorfi. Invece, per intere civiltà queste credenze sono
state importanti, hanno costituito un sostrato ossia qualcosa che le ha tenute
in piedi. Quindi soltanto attraverso questi rovesciamenti drammatici, che poi
portano alla dissoluzione, la coscienza, nell'ambito della "fenomenologia dello
spirito", riesce a compiere un passo avanti.
6 Quali sono le difficoltà principali che incontrano nel tentativo di
comprendere un testo come Fenomenologia dello spirito?
La difficoltà di capire la Fenomenologia dello spirito di Hegel - che vuole essere
la "storia dell'esperienza della coscienza" - è questa: noi eravamo stati
abituati, nella tradizione, a dire che la filosofia si occupava della logica, ossia
delle leggi del pensiero, dell'etica, ossia delle leggi della morale e della fisica,
ossia delle leggi della natura. Oppure con Kant siamo stati abituati a pensare
che la filosofia si occupa della facoltà della ragione teoretica, che ci fa
conoscere, della ragion pratica, che ci fa agire correttamente o meno, e del
sentimento del giudizio, che ci fa dire che qualcosa è bello o brutto. La
Fenomenologia dello spirito fa saltare tutto questo: non ci sono più discipline
filosofiche. Ho parlato prima della coscienza infelice, del rapporti servopadrone; ma vi potrei parlare del lusso della corte di Luigi XIV, del Terrore, di
un'infinità di figure - questa è la parola esatta -, che si susseguono nella
filosofia dello spirito. E allora che cosa ne deriva? Ne deriva una rivoluzione
nella storia del pensiero filosofico; perché se questo è vero, allora non c'è più
niente che stia fuori della filosofia. Anche noi, che ci stiamo parlando
attraverso dei mass-media, indubbiamente rappresentiamo un rapporto
nell'esperienza della coscienza che ha una sua qualità specifica, irriducibile a
quella del passato. Il modo di vestire, il modo di gestire, il modo di parlare,
non solo il modo, ovviamente, di viver il mondo politico e sociale: tutto ciò può
essere oggetto della filosofia. Se non si capisce questo, non si capisce gran
parte degli sviluppi avuti della filosofia hegeliana, sviluppi compiuti anche
attraverso il marxismo, ad esempio la tesi secondo cui la politica deve fare i
conti con la vita e la vita deve fare i conti con la politica, appunto perché
laddove c'è realtà, c'è coscienza di questa realtà, ma la coscienza tende a
vedere i propri risultati come qualche cosa che essa si trova davanti. Si può
rendere questo discorso molto più semplice, si può, cioè, abolire il processo
della coscienza e ricorrere all'ineffabile. Se non avete voglia di percorrere il
cammino della coscienza, c'è la soluzione dell'ineffabile con cui si rimane fermi
all'ignoranza o, nella migliore delle ipotesi, all'estasi. Ma non c'è nessun'altra
possibilità di avere il sapere, se non mediante forme di coscienza che, una
volta realizzate, si obiettivano davanti a noi. E allora quale sarà lo scopo della
Fenomenologia dello spirito? Il suo scopo sarà quello di far sì - è una bella
frase - che "Adamo giunga a riconoscere che Eva è carne della sua carne". È
molto bella questa ripresa del racconto biblico. Il racconto biblico dice che Dio
tolse la costola ad Adamo mentre dormiva, e non mentre era cosciente; questo
è molto interessante: Adamo non sa che Eva è carne della sua carne.
Evidentemente quand'è che ci sarà veramente l'amore? L'amore c'è quando - e
questo lo dicono, ovviamente, non soltanto i credenti, quelli che stanno nella
tradizione biblica, - l'uomo e la donna sono una sola carne, un solo spirito,
quando superano il senso di "alterità". Ma attenzione! Questo superamento non
è, di nuovo, un superamento che scavalca la dialettica, che scavalca la
determinatezza: un uomo e una donna diventano una sola carne ma non
perché diventano due uomini o due donne; piuttosto, cade tra di loro quella
opposizione che sussiste finché non c'è l'amore. L'amore, la conciliazione,
salva; anzi, quanto più due persone si amano, tanto più si realizzano: l'uomo
come uomo e la donna come donna, il padre come padre, la madre come
madre, e così via. Però, evidentemente, c'è una unione che integra in modo
determinato questi termini opposti. Se non si vuole correre il rischio di questa
sofferenza, di questa opposizione, allora si deve rinunciare all'amore, si deve
rinunciare alla vita appiattendosi su un livello patologico, pressoché animale, di
silenzio, di chiusura in sé stessi.
7 Professore, quello che Lei ha detto a proposito della fenomenologia e
della storia della coscienza può aiutarci a comprendere un'altra frase
celebre di Hegel, ossia: "La filosofia è il nostro tempo - il tempo
presente - appreso con il pensiero"?
Sì, perché indubbiamente il nostro tempo è sempre una figura della coscienza.
Adesso, per esempio, sarebbe ridicolo voler far la rivoluzione contro il piccolo
imprenditore che ha tre o quattro operai. Si sa benissimo che la borghesia è
evoluta: dalla piccola industria si è passati ai grandi sistemi economici
internazionali. E poi questi sistemi sono addirittura anonimi, e quindi la lotta,
se c'è, deve essere determinata contro di essi. Quindi - voglio dire - è chiaro
che la figura della nostra coscienza non può che essere "il tempo appreso col
pensiero", e il pensiero non può che essere il rendersi conto del modo in cui si
configura la coscienza nella nostra realtà attuale. Qui bisogna effettivamente
ricorrere alla nozione di "enciclopedia". Io mi rendo conto che l'enciclopedia
non è di moda nel nostro secolo. Per quanto mi risulta, c'è stato un piccolo
tentativo di costruire enciclopedia nelle scienze unificate negli anni Trenta a
Chicago; in Italia soltanto Enzo Paci ha tentato una filosofia enciclopedica. Ma
"enciclopedia" e "sistema" sono concetti fuori moda; Heidegger ha detto:
"L'epoca dei sistemi è finita". Tutto questo va preso, però, con una certa
prudenza. Intanto perché nel corso della storia della filosofia, ma non solo della
storia della filosofia, tante volte si sono date per morte delle cose che poi sono
rinate. Io vorrei far solo un esempio che qualunque italiano ha davanti agli
occhi: pensate al platonismo del Rinascimento, a Lorenzo il Magnifico, alla
corte fiorentina, cioè a quello che ha significato la ripresa di Platone non solo
per la letteratura e per la filosofia, ma anche per le arti: si potrebbero fare
molti altri esempi. Ma il problema è un altro. Il problema è che la dialettica è
un momento tragico; quindi se noi leggiamo la storia della coscienza
esclusivamente come storia della coscienza, ma non come storia delle
istituzioni, indubbiamente non siamo ancora arrivati a conciliare la coscienza
con le istituzioni, e questo è un fatto drammatico che attraversa da sempre la
storia dell'umanità. Ecco, allora, che la nozione di "enciclopedia" è importante
proprio per questo. Nell'Enciclopedia, infatti, si distinguono lo spirito soggettivo
e lo spirito oggettivo da quello che poi chiameremo "spirito assoluto". Non mi
farei spaventare da queste parole; i termini hegeliani vanno sempre presi in
senso molto "basso". Quando Hegel dice "spirito", dice una cosa molto
semplice: "spirito" è il primo momento in cui l'opposizione tra la coscienza e le
cose, ad esempio il tavolo che ho di fronte, che sono di fuori dalla coscienza
viene superata. Naturalmente, però questo è il modo più rudimentale; c'è una
bella differenza tra dire "Questo è il tavolo" o "Questa è la teoria della
gravitazione universale di Einstein" o "Questo è lo Spirito delle leggi di
Montesquieu" o prendete quello che volete, un grande testo di filosofia politica,
morale, o altro. Ciò è importante è che il "riconoscimento" di cui parlavo prima
a proposito della coscienza, al livello dello spirito deve passare attraverso il
mondo delle istituzioni. Il mondo delle istituzioni è proprio quello teorizzato
nella Filosofia del diritto, l'opera che uscì quando Hegel iniziava la sua attività a
Berlino, e che suscitò tante polemiche . La Filosofia del diritto ci fa appunto
vedere come noi abbiamo a che fare con la famiglia, la società civile e lo Stato.
Indubbiamente qui stiamo toccando dei punti dolenti. Molti considereranno
questi elementi o come sorpassati o come negativi. Forse ricorderanno di avere
un illustre predecessore in Schiller, il grande poeta che anche Hegel stimava
tanto, il quale disse che eravamo nati per volare come delle aquile, ma che le
leggi sono delle catene che ci fanno strisciare sulla terra. È chiaro che per
Hegel questo invece è una forma, per così dire, di "cattiva coscienza", di
coscienza vuota, di "anima bella", che per non sporcarsi le mani lascia che le
cose del mondo vadano nel peggiore dei modi possibili. Certamente si sa
benissimo che ci sono dei grossi inconvenienti a immergersi nello spirito
oggettivo; ma se noi rifiutiamo questo rapporto, che cosa facciamo? Torniamo
alla natura? Ma cos'è questa natura se non - dice Hegel - qualcosa da cui
bisogna uscire di corsa, perché l'uomo naturale, l'uomo selvaggio, è un uomo
passionale, è un uomo truculento. Tutto quello che conta è, evidentemente,
passare - dice Hegel - dalla "prima natura" alla "seconda natura". Cosa vuol
dire? Vuol dire che io devo sentire come "naturale" il rapporto politico-sociale
invece di sentirlo come qualche cosa che mi è opposto, che mi sovrasta, che mi
opprime, che mi costringe. Ora, il corso della storia umana è stato appunto la
grande tragedia attraverso cui gli uomini hanno tentato di passare dalla
"prima" alla "seconda natura".
8 Professor Verra, vuole illustrarci alcuni momenti significativi nei
rapporti della coscienza con le istituzioni secondo l'idea del passaggio
dalla "prima" natura alla "seconda natura"?
Se noi pensiamo alla Cina dei tempi di Hegel, abbiamo di fronte un rapporto
ancora pressoché naturale: c'è il sovrano che, in qualche modo, è il "figlio del
cielo" - una specie di entità sovrannaturale -, e tutti gli altri sono suoi figli. Lì i
rapporti erano rapporti appunto padre-figlio: il potere era in mano a un solo
uomo e quindi si era ancora a livelli pressoché naturali, cioè lo Stato non era
molto diverso da una grande famiglia. Ma poi c'è la grande scintilla, che però è
costata lacrime e sangue, come ben sappiamo: in Grecia si comincia ad
affermare la libertà. La libertà di chi, però? La libertà di alcuni: gran parte dei
filosofi greci ritenevano, infatti, assolutamente ovvio che la schiavitù fosse
naturale. Soltanto con il Cristianesimo noi abbiamo l'affermazione che tutti gli
uomini, essendo figli di Dio, sono liberi. Lo dico un po' provocatoriamente,
perché so benissimo che molti tra gli ascoltatori giustamente diranno: "Ma
come! Il cristianesimo, con l'Inquisizione, le Crociate e cose del genere?".
Questo Hegel lo sa benissimo, e questo vuol dire che il cristianesimo non si è
ancora realizzato. Ma il messaggio cristiano in quanto tale è un messaggio che
pone per la prima volta nel mondo il principio che tutti gli uomini sono liberi. E
questo principio non può più essere revocato. Ci si chiede se c'è un progresso
nella storia, domanda a cui si può rispondere: sì, c'è progresso, ma come
realizzazione di principî che siano più alti; no, se per "progresso" si intende
semplicemente "il nuovo per il nuovo", che in qualche modo segna un
retrocedere rispetto a principî considerati più alti. A questo punto, mi sento
obbligato a toccare il problema della cosiddetta "statolatria" di Hegel, e cose di
questo genere. Credo che egli non avesse tutti i torti quando diceva che una
istituzione umana, se è ben fatta, è meglio di una pietra o di un fiore. Lo Stato
è esclusivamente spirito oggettivo, che deve a sua volta essere superato
continuamente, e non una volta sola per tutte, nell'arte, nella religione e nella
filosofia. E quindi si vede che in fondo non c'è in nessun modo una sorta di
statolatria o di totalitarismo, o di cose di questo genere, nel pensiero
hegeliano. Lo Stato non ha questa funzione, ma ha una funzione liberatoria
rispetto alla pura conflittualità atomistica degli interessi. Qui io vorrei fare una
piccola osservazione: quello che sto dicendo, purtroppo, non è cultura o cose
da professore di filosofia, ma la tragica storia perlomeno degli ultimi due secoli.
Dovendo commemorare Hegel, il filosofo tedesco Adorno ha detto: "Siamo
sicuri di non essere regrediti rispetto al modello di razionalità che Hegel ci
presentava?". Hegel ci diceva che la storia dell'umanità andava dalla "prima
natura" alla "seconda natura", anche se sapeva benissimo che questa deve
essere ancora realizzata; il principio è in ogni caso chiaro e soprattutto
irrevocabile. Ora, che cosa è successo? È successo un fatto tremendo - dice
Adorno -, e cioè che la "seconda natura", cioè il mondo dello spirito oggettivo,
il mondo dell'economia, il mondo delle leggi, il mondo dello Stato si è
pietrificato ed è diventato più oppressivo e più terribile di quello che era la
"prima natura" da cui Hegel voleva uscire. A questo punto farei una
piccolissima osservazione che viene dalla mia piccola esperienza, ma che è
interessante: mentre fino ai nostri tempi l'utopia era la costruzione di grandi
sistemi positivi etico-politici che portavano l'uomo a dominare la natura e a
renderlo felice, nel nostro secolo abbiamo il prevalere della "controutopia":
Orwell, Amal'rik, Huxley e altri. Cioè l'uomo è terrorizzato non più tanto della
natura, ma dai sistemi oppressivi che può costruire attraverso la scienza,
attraverso la politica. Quindi il problema del rapporto con Hegel è un problema
estremamente complesso, perché di confutazioni libresche, fatte a tavolino, se
ne possono fare una al giorno, ma i problemi che stiamo toccando, purtroppo,
non li ha risolti Hegel. Non è che noi li risolviamo, o li diamo per risolti,
semplicemente "aggiustando" qualche paragrafo del sistema hegeliano.
9 Che significato ha, in ultima analisi, la sistematicità della filosofia
hegeliana, il suo costituirsi come "enciclopedia"?
È chiaro che l'Enciclopedia di Hegel non è un'enciclopedia, come quelle che
abbiamo noi, basata su un ordine alfabetico. È invece un'enciclopedia in ordine
sistematico, che va dal semplice al complesso, ed è stata costruita in base
all'esigenza topologica di far sì che ogni cosa fosse collocata al suo posto,
perché se debordava dal suo posto evidentemente diventava patologica.
Bisogna rendersi conto che l'Enciclopedia hegeliana non corrispondeva a
esigenze puramente strumentali; non la si doveva sfogliare per vedere cosa
c'era scritto sotto il termine "spirito", "coscienza" o "fenomenologia". E non
bisogna dimenticare che Hegel aveva una grande ammirazione per lo
scienziato francese Cuvier, quello che disse "ex ungue leonem", cioè che se si
ha davanti un organismo e si conosce bene la collocazione e la funzione degli
organi quando l'organismo è sano, lo si può ricostruire partendo anche da un
piccolo particolare. Allora nell'Enciclopedia hegeliana, da qualunque parte si
parte, si ritrova tutto il reale e tutto il razionale, ma non in un senso
quantitativo, statistico, come nelle nostre enciclopedie, bensì nel senso dei
principî a cui prima accennavo. E quindi, in questo senso, se noi ci mettiamo
un poco dentro l'autore e non partiamo solo da presupposti polemici, io credo
che la tensione tra fenomenologico e enciclopedico sia essenziale per capire
non solo la funzione della dialettica, ma tanti problemi che riguardano ciascuno
di noi.
10 Professore, per concludere la nostra conversazione, vorrei
chiederLe questo: certamente dopo la morte di Hegel hanno perso
credito non solo le filosofie sistematiche, ma anche la metafisica in
generale. Però sembrerebbe che tutti i grandi critici di Hegel, e non
solo quelli, non abbiano fatto i conti realmente con la sua filosofia;
talvolta, anche di fronte a grandi filosofi, si ha l'impressione che non lo
abbiano neanche letto in profondità. Non è un dato singolare?
Io credo che le cose non succedano mai per caso. Consideriamo quella
scissione che ben presto si è avuta, dopo la morte di Hegel, tra la destra, la
sinistra, e il centro: torniamo sempre alla formula "Il razionale è reale e il reale
è razionale". Se io accentuo la parola "reale", potrò diventare materialista o
vedere la filosofia più dal lato umano; se accentuo la parola "razionale" potrò
diventare teologo; se cerco di stare in mezzo, sto in equilibrio. Ora questa
disputa era nata sul terreno teologico e quindi, più o meno, aveva avuto una
risonanza molto scarsa. È chiaro che questa disputa, attraverso Feuerbach,
attraverso Marx, passa poi sul terreno politico. E quindi indubbiamente il
problema della lettura e della comprensione di Hegel diventa, per l'epoca, un
problema di riforme. Hegel è, infatti, uno strumento di battaglia; è interessante
che perfino negli Stati Uniti d'America si è utilizzato Hegel, dicendo che la sua
filosofia poteva offrire, dopo la Guerra di Secessione, il principio per conciliare
l'astrattezza del Nord con l'astrattezza del Sud, e far sì che, appunto, il Nord
industriale e il Sud agricolo si ritrovassero insieme. Quindi il problema non è
sempre - sebbene, naturalmente, ci siano degli studi banali -, dato dalla
mancanza di approfondimento: talvolta dipende dal fatto che Hegel viene
usato, e forse a lui non dispiacerebbe, come uno strumento di battaglia. Perché
la sua filosofia è - un grande studioso tedesco come Joachim Ritter ha
sottolineato questo punto - l'unica filosofia che si pone concretamente il
problema della Rivoluzione francese come problema della scissione e
conciliazione tra filosofia e politica. La Rivoluzione francese ha dato luogo al
Terrore, Hegel stesso lo teorizza, lo spiega. Ma è con la Rivoluzione francese ecco l'affinità con quello che era stato il cristianesimo - che viene per la prima
volta enunciato il principio che tutti sono liberi e tutti sono uguali. A differenza
dal cristianesimo, però, che lo aveva enunciato sul piano della coscienza e della
religione, viene affermato sul piano dello Stato, delle istituzioni. In che cosa
consiste la vera differenza? Consiste nel contesto storico: l'affermazione
cristiana dell'uguaglianza era venuta in un'epoca ancora preindustriale, invece
nella Rivoluzione francese è contestuale al sorgere del sistema industriale, cioè
di un "sistema di bisogni"; e non a caso è contestuale al sorgere dell'economia
politica come scienza vera e propria. Allora ecco che il problema che Hegel ci
pone è questo: al di là di quelli che possono essere stati gli eccessi o le
deviazioni della Rivoluzione francese - anche nel cristianesimo ci sono stati
eccessi e deviazioni -, il principio è stato o non è stato realizzato? O non
dobbiamo dire, tristemente, che proprio noi oggi assistiamo addirittura non
solo a dei conflitti che sono di gran lunga inferiori a una conciliazione di
economico e politico, ma addirittura a conflitti che definire "etnici" è già
abbastanza eufemistico? Quindi, prima di dire che Hegel è morto, bisognerebbe
che noi fossimo sicuri che quello che egli aveva considerato come il compito
della filosofia - cioè la conciliazione di religioso e politico come superamento
dei conflitti medioevali, e di società civile e Stato come superamento dei
conflitti aperti sin dall'età moderna con l'avvento dell'industrializzazione - fosse
realizzato. Altri tipi di confutazione possono essere puramente estrinseci,
superficiali, e toccano il punto fondamentale del problema. Il progresso, come
tutti i rapporti, deve essere un progresso determinato e quindi deve fare i conti
con l'eredità che l'età moderna ci ha lasciato, eredità che, però, a guardare la
storia come si è sviluppata dopo Hegel, con tragedie terribili, non si direbbe sia
stata superata attraverso quella conciliazione che egli auspicava.
ABSTRACT
Valerio Verra ricorda innanzi tutto l'importanza e il valore degli studi hegeliani
di Croce, sebbene l'impostazione interpretativa volta ad una riforma del
pensiero hegeliano non possa più essere accettata. In proposito si ricordano
anche le posizioni di Wahl e Lukács con la loro accentuazione della "coscienza
infelice" e del rapporto servo-padrone. Come ha messo in risalto la lettura di
Gadamer, quella hegeliana è invece una posizione che va presa nella sua
totalità e che non può essere confutata a livello meramente argomentativo (1).
Per quanto riguarda il problema della dialettica, Verra nota come il tentativo di
scardinarla dal sistema abbia avuto piuttosto una connotazione politica, visto
che dal punto di vista filosofico la dialettica rimanda invece a Platone o a Kant;
per Hegel si tratta di un movimento di negazione determinata e di opposizione
alla base della vita stessa intesa come totalità, come risulta, ad esempio, nel
rapporto tra i sessi o nella concezione della realtà effettiva (2). Non tutto ciò
che esiste è reale-razionale alla maniera hegeliana; Verra rimanda in proposito
alle caste indiane come esempio di cadavere socioculturale che continua la sua
esistenza pur senza avere più alcun senso (3). Per Hegel la storia è vista come
un progresso, in ciò si rinviene un tratto gioachimita, visto che all'età del Figlio
deve subentrare quella dello spirito, ossia la riconciliazione tra divino ed
umano; in seguito a questa concezione della storia, la figura del Cristo risulta
un momento intermedio, soprattutto nei cosiddetti Scritti teologici giovanili, di
cui si mettono in risalto i tratti 'nietzscheani' (4). Nel presentare le opere
pubblicate da Hegel, Verra si sofferma in primo luogo sulla Fenomenologia
dello spirito, spiegando il significato del titolo a partire dall'apparenza e dalla
manifestazione come radice dell'essenza stessa della coscienza, come peraltro
confermano anche gli studi psicoanalitici. La Fenomenologia presenta il
processo della coscienza attraverso un percorso tragico marcato da figure
esemplari; si tratta per Verra di una rivoluzione nella storia del pensiero
filosofico, giacché si mostra che per il sapere è ineludibile il processo della
coscienza, analogo al superamento dell'alterità che si ha nell'amore (5-6).
Anche il nostro tempo è in fondo una figura della coscienza; Verra passa quindi
a presentare il senso della nozione hegeliana di "enciclopedia" ponendola in
relazione con la dialettica tragica della coscienza, con il concetto di "spirito" e
mettendone in risalto l'organicità interna; nell'analizzare la Filosofia del diritto
si mette in luce il senso hegeliano dello spirito oggettivo come "seconda
natura", riferendosi anche ad esempi storici (Cina, Grecia, il cristianesimo) nei
quali si esplica il processo della libertà, senza tacere i pericoli di una
pietrificazione dello Stato; non si può parlare peraltro di statolatria in Hegel,
giacché lo spirito oggettivo deve comunque essere superato da quello assoluto
(7-8). Dopo aver illustrato il senso del sistema-"enciclopedia" di Hegel (9),
Verra presenta in conclusione le possibili letture del razionale-reale, mette in
risalto l'interpretazione hegeliana della Rivoluzione francese ed avanza l'ipotesi
che la conciliazione sia in fondo un compito ancora da realizzare (10).