«Redditi e ceto medio, così l'Occidente ha fallito» «Le disuguaglianze tutto intorno a me: povertà, razzismo, disoccupazione, fuga dalle scuole. E io che mi chiedevo: come può il Paese più potente del mondo essere tanto diseguale, tanto ingiusto?». Apre così, Joseph Stiglitz, premio Nobel per l'Economia nel 2001, professore alla Columbia University, e presidente del Council of Economie Advisers durante la presidenza Clinton, il decimo Festival dell'Economia di Trento. Lo fa dialogando con il direttore scientifico della rassegna Tito Boeri sulla cosiddetta «Grande frattura», ergo la disuguaglianza come causa di una società ingessata, per nulla mobile, condannata alla decrescita. Una riflessione che Stiglitz sceglie di portare avanti ricordando le motivazioni che per prime lo hanno spinto a tuffarsi nell'economia e dunque nell'analisi della «maggiore delle preoccupazioni moderne: la disparità delle opportunità». Lui, figlio di quegli Stati Uniti d'America che oggi si aggiudicano il primo posto nelle disuguaglianze sociali, cresciuto nel midwest del capitalismo d'oro, prima, e della deindustrializzazione, poi, passa in rassegna una a una, le motivazioni del fallimento. «Perché è questo ciò che è accaduto: il modello americano ha fallito, le analisi monetarie sono state TRENTO profondamente sbagliate, altrettanto le proiezioni finanziare e dunque gli indirizzi politici». Non è secondo il professore, un problema di economia, piuttosto punta il dito contro le politiche, anche le più recenti, che critica ampiamente e a più riprese. A partire da Obama, colpevole di aver tentato nuovamente l'applicazione del modello del trickle down, immaginando che una ricchezza in mano a pochi potesse giovare ai molti, «mentre già il Pil di questo primo trimestre degli States (meno 0,7%) dimostra che il Paese sta crollando, cosa che — puntualizza Stiglitz — avevo già previsto», fino alle cosiddette misure non convenzionali del Quantitative Easing («un modello che non farà altro che aumentare le disuguaglianze, portando guadagni effettivi solo a chi è titolare di pacchetti azionari»). Ecco, dunque, l'urgenza di riscrìvere le agende dei soggetti pubblici, di «ripensare le istituzioni e cambiare in maniera profonda le regole globali perché non è concepibile che oggi il reddito medio di un lavoratore americano possa essere più basso di quello di 40 anni fa» rincara Stiglitz, puntualizzando che ancora peggio accade per i salari minimi, tornati indietro addirittura di sei decenni. «Come dire che tutto ciò che gli Stati Uniti hanno prodotto negli ultimi anni è andato solo all'in della popolazione, la parte più ricca, l'unica a non avere problemi di giustizia sociale e legale, di parità di accesso, finanche di sanità perché l'aspettativa di vita di un americano in povertà è di anni inferiore rispetto a quella di un americano benestante. Eppure, il mio era il Paese che più si vantava dell'invenzione del ceto medio. Lo stesso che oggi, miserabilmente, lo distrugge», riflette il professore. E l'Italia, in questo scenario i di abbattimento delle opportunità e di potenziamento delle disparità, è il terzo Paese meno mobile, con una delle società meno disposte a far crescere i propri figli. «Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia: ecco i Paesi il cui l'uguaglianza è più latitante, mentre all'estremo opposto la Danimarca e in generale gli Stati scandinavi brillano per equità e mobilità» chiarisce Stiglitz. Che conclude: «Un tempo, Abraham Lincon diceva che il governo doveva essere della gente, dalla gente, per la gente. Oggi invece dobbiamo parlare di Stati che vivono deìl'i%, dall'in, per Yi%. Ecco, dunque, cosa penso della disuguaglianza e perché dico ai miei studenti di scegliere bene la famiglia in cui nascere». Silvia Pagliuca © RIPRODUZIONE RISERVATA