Kant e i figli di Diotima 171 Kant e i figli di Diotima. Nota a margine di un recente lavoro sull’estetica razionalista tedesca Marco Sgarbi Pochi movimenti nella storia dell’estetica sono stati così importanti e duraturi come l’estetica razionalista tedesca dell’Aufklärung, che ha coinvolto filosofi del calibro di Christian Wolff, Johann Christoph Gottsched, Alexander Gottlieb Baumgarten, Gotthold Ephraim Lessing e Moses Mendelssohn. Raramente, infatti, nella storia del pensiero occidentale dopo Platone, l’estetica ha avuto un ruolo così centrale per la filosofia, ma anche più in generale per la cultura. Nonostante l’importanza di questa tradizione filosofica, sono ancora troppo pochi i lavori storici veramente originali e innovativi sull’argomento: le stesse storie generali dell’estetica spesso menzionano questo movimento solo perché nel suo seno è stato coniato il termine stesso di «estetica» e la disciplina ad esso corrispondente. Non si può quindi che accogliere con estremo favore la nuovissima ricerca di Frederick C. Beiser, uno dei più importanti studiosi statunitensi di storia dell’estetica romantica e dell’idealismo tedesco1, intitolata Diotima’s Children: German Aesthetic Rationalism from Leibniz to Lessing. Prima di spiegare questo inusuale ma significativo titolo, mi sembra importante notare che per Beiser non ci sono solo ragioni storiche per lo studio di questa corrente estetica, ma esistono soprattutto delle ragioni filosofiche che l’autore esplicita nell’introduzione al volume intitolata sintomaticamente Reappraising Aesthetic Rationalism. Se i motivi storici sono ben noti e sono da Beiser ben articolati e sviluppati in ricostruzioni molto accurate nei diversi capitoli del libro, altrettanto non si può dire per le ragioni filosofiche, le quali, pur essendo anche condivisibili, sembrano 1 F.C. Beiser, Diotima’s Children. German Aesthetic Rationalism from Leibniz to Lessing, Oxford, Oxford University Press, 2009. Di Beiser si ricordano sull’estetica romantica e sull’idealismo i seguenti volumi The Fate of Reason. German Philosophy from Kant to Fichte, Harvard, Harvard University Press, 1987; German Idealism. The Struggle Against Subjectivism, 1781-1801, Harvard, Harvard University Press, 2002; The Romantic Imperative. The Concept of Early German Romanticism, Harvard, Harvard University Press, 2004; Schiller as Philosopher. A Re-Examination, Oxford, Oxford University Press, 2005; Hegel, London, Routledge, 2005. «Iride», a. XXIV, n. 62, gennaio-aprile 2011 172 Marco Sgarbi partire da «falsi presupposti» e da una lettura ormai superata di alcuni momenti decisivi dell’estetica, primo fra tutti il pensiero di Kant. Nella presente nota vorrei chiarire questi «falsi presupposti» al fine di ricomprendere meglio i rapporti fra Kant e i protagonisti dell’estetica razionalista tedesca, chiamati dallo stesso autore «figli di Diotima». L’appellativo «figli di Diotima» che campeggia come titolo del volume parte da una precisa scelta storiografica, cioè determinare l’estetica razionalista tedesca del Settecento in opposizione all’estetica «irrazionalista» dell’Ottocento di Friedrich Nietzsche, il quale sarebbe stato, secondo l’autore, uno dei suoi più potenti ed efficaci critici. Nell’opera Die Geburt der Tragödie, in effetti, Nietzsche formula la sua filosofia in opposizione all’estetica socratica che considerava il bello come intelligibile, la virtù come la chiave della felicità e la conoscenza come mezzo per essere virtuosi. L’estetica socratica, secondo Nietzsche, non considererebbe un aspetto fondamentale dell’estetica, cioè il dionisiaco come rappresentante di quelle energie irrazionali e forze istintive che caratterizzano e contraddistinguono la vita. Di contro, l’estetica razionalista sarebbe del tutto apollinea perché troverebbe il piacere estetico nell’ordine razionale e nella perfezione. Si tratta perciò del famoso scontro fra Dioniso e Apollo. Tuttavia, giustamente Beiser segnala che non è né ad Apollo né a Socrate che va attribuita la «colpa» dell’elaborazione di un’estetica razionalista, bensì deve essere attribuita a Diotima, la più potente e persuasiva dominatrice filosofica che la filosofia greca abbia mai conosciuto. Nel Simposio, infatti, Diotima insegna che tutto il desiderio è una forma di amore, e che l’amore è diretto verso l’eterno e che l’eterno è raggiungibile solo attraverso la contemplazione della bellezza, ma non della bellezza sensibile dei corpi quanto piuttosto della bellezza intelligibile delle anime. Il momento estetico diviene con Diotima, all’opposto che con Dioniso, non più qualcosa di sub-razionale o irrazionale, ma qualcosa di proto-razionale e prorazionale, indirizzato verso la conoscenza della perfezione delle idee2. Gli esteti razionalisti sono chiamati «figli di Diotima» perché, direttamente o indirettamente, essi portarono avanti il progetto filosofico della grande sacerdotessa greca in opposizione alle forze oscure irrazionali dionisiache. Beiser nota anche che con l’annuncio della «morte di Dio», le forze dionisiache hanno preso il definitivo sopravvento influenzando tutta l’estetica contemporanea di autori quali Arthur Danto, George Dickie e Noël Carroll, i quali non sarebbero disposti in alcun modo ad accettare le idee programmatiche dell’estetica razionalista. Ma quali sono queste idee? Beiser ne individua almeno cinque: 1) il concetto centrale e l’oggetto dell’estetica è la bellezza; 2) la bellezza consiste nella percezione della perfezione; 3) la 2 Beiser, Diotima’s Children. German Aesthetic Rationalism from Leibniz to Lessing, cit., pp. 20-23. Kant e i figli di Diotima 173 perfezione consiste nell’armonia, cioè nell’unità della varietà; 4) la critica e la produzione artistica sono governate da regole, le quali devono essere scoperte e ridotte a principi primi dai filosofi; 5) la verità, la bellezza e il bene sono una sola idea. Per Beiser il reale motivo per cui queste idee non sono più accettate dagli esteti contemporanei non è, tuttavia, da attribuire direttamente a Nietzsche, il quale si era opposto all’estetica socratica più per una generale differenza di valori che essa esprimeva che per una reale divergenza sistematica, ma è da imputare alla filosofia critica di Kant, così come viene esposta nella Kritik der Urteilskraft. Proprio in questo punto dal quale muove teoreticamente tutta la sua indagine, cioè da una concezione di Kant critico dell’estetica razionalista, mi pare che Beiser fraintenda non solo Kant stesso ma anche i suoi rapporti con i «figli di Diotima», ed in un certo senso anche le elaborazioni filosofiche di quest’ultimi. In primo luogo, per Beiser, Kant manterrebbe dell’estetica razionalista, ma soltanto in parte, il primo assunto per il quale l’oggetto principale dell’estetica è il bello. Ho detto solo in parte perché Beiser si affretta a dire che, come importanza, Kant affianca al bello come oggetto precipuo dell’estetica anche il sublime, distanziandosi così dalla tradizione dell’estetica razionalista. Qui mi pare risieda già un difetto interpretativo di Beiser, cioè una generale sopravvalutazione dell’importanza del concetto di sublime in Kant. Su questo punto si è discusso a lungo e la KantForschung sta ancora dibattendo; tuttavia, bastano due dati a mio avviso per sottolineare la centralità del bello nella Kritik der Urteilskraft e l’estrema marginalità della problematica del sublime. Un primo dato è che nel progetto originario di stesura della terza Critica Kant aveva in mente di scrivere una Kritik des Geschmacks che comprendeva solo quelle parti che oggi costituiscono l’Analytik des Schönen, la Deduktion e la Dialektik, ma non l’Analytik des Erhabenen, la quale inoltre deve essere stata una delle ultima cose scritte da Kant nella stesura della completa Kritik der Urteilskraft3. Inoltre, come secondo dato, valgono le stesse parole di Kant per il quale l’Analytik des Erhabenen sarebbe stata una mera appendice4, e quindi non una parte essenziale della sua Kritik des Geschmacks. Questo è riprovato anche dal fatto che nella Erste Einleitung Kant non menziona mai il problema dell’«Erhabene». Il sopravvalutare il problema del sublime e addirittura paragonarlo a quello del bello, così come fa Beiser, sembra essere il difetto interpretativo tipico di chi interpreta l’estetica kan3 Cfr. G. Tonelli, La formazione del testo della Kritik der Urteilskraft, in «Revue internationale de Philosophie», 30, 1954, pp. 423-448. Mi permetto di rinviare al mio La logica dell’irrazionale. Studio sul significato e sui problemi della Kritik der Urteilskraft, Milano, Mimesis, 2010, pp. 29-63. 4 Kant’s Gesammelte Schriften, V, p. 246. Kant afferma espressamente che «il concetto del sublime della natura non è così importante e ricco di conseguenze quanto quello del bello della natura, e non indica assolutamente nulla di conforme a fini nella natura stessa». 174 Marco Sgarbi tiana a partire dall’estetica romantica, dove il sublime assurge a concetto fondamentale, ma in un contesto completamente differente. Facendo ciò Beiser crea fra l’estetica kantiana e quella razionalista uno iato più grande di quello effettivamente esistente. Un secondo aspetto per il quale Kant sarebbe reo di avere criticato l’estetica razionalista e di averla condannata all’oblio è la concezione del «giudizio estetico», sulla quale sembrano esserci ancora diversi fraintendimenti5. Un aspetto peculiare dell’estetica razionalista è, secondo Beiser, la sua caratterizzazione dei giudizi estetici come giudizi cognitivi. I giudizi estetici sono cognitivi in almeno due sensi, in quanto possono essere o veri o falsi e in quanto si riferiscono sempre a qualche caratteristica dell’oggetto. Alla prospettiva razionalista Beiser oppone la teoria empirista del giudizio estetico, secondo la quale i giudizi estetici non sono cognitivi e il piacere coinvolto in essi non sarebbe nient’affatto intenzionale, ma consisterebbe semplicemente in un sentimento soggettivo. Kant, a parer di Beiser, si rifarebbe a quest’ultima tradizione, come alcuni passi importanti sembrano suggerire: «il giudizio di gusto non è un giudizio di conoscenza; non è quindi un giudizio logico, ma estetico, intendendo con questo che il suo principio di determinazione non può essere altro che soggettivo. Eppure ogni riferimento delle rappresentazioni, anche quello delle sensazioni, può essere oggettivo: [...] questo non vale però per il riferimento al sentimento del piacere e dispiacere, con cui non viene designato proprio nulla nell’oggetto, ma nel quale il soggetto sente se stesso, nel modo in cui è affetto alla rappresentazione»6. All’opposto dell’estetica razionalista, a questo aspetto non-cognitivo dei «giudizi estetici» kantiani si aggiunge per Beiser il fatto che in Kant il sentimento è semplicemente soggettivo, un mero stato psicologico interiore e privato che non ha alcun riferimento con l’oggetto. Così, può concludere Beiser, contro l’estetica razionalista Kant è giunto a stabilire importanti e definitive conclusioni, cioè che 1) i «giudizi estetici» sono solo soggettivi, che 2) la bellezza non è un attributo degli oggetti e infine che 3) la ricerca razionalista per un principio del gusto è in fondo completamente inutile. Anche in questo caso mi pare che Beiser stia ragionando di più con gli occhi di un esteta romantico, fornendo una versione molto parziale dell’estetica di Kant come un’estetica prevalentemente soggettivistica e sentimentale – «Kant’s disastrous subjectivization of aesthetic 5 Per prima cosa è necessario ricordare che per Kant, a differenza di ciò che dice Beiser, non esistono propriamente «giudizi estetici», ma si parla piuttosto di una vasta gamma di giudizi quali Urteil über das Angenehme, Geschmacksurteil über die Schönheit, Urteil über anhängende Schönheit e Urteils über Erhabene. Cfr. J. Kulenkampff, Kants Logik des ästhetischen Urteils, Frankfurt, Klostermann, 1978, p. 162. 6 Kant’s Gesammelte Schriften , V, p. 203. Kant e i figli di Diotima 175 experience»7 – che non rende giustizia alla complessità del suo pensiero. È sicuramente vero che i «giudizi estetici» per Kant non sono giudizi conoscitivi, nel senso che sono formati dalla sintesi fra la materia empirica della rappresentazione e la forma pura delle categorie. I «giudizi estetici» kantiani non sono giudizi epistemici che vogliono affermare la verità o la falsità dell’oggetto, infatti, per Kant è chiaro che il gusto giudica senza concetto. Tuttavia, non è vero che questi giudizi estetici non dicano nulla sul mondo o sugli oggetti di esso, anzi essi sono dei veri e propri giudizi della percezione, secondo quanto lo stesso Kant afferma nei Prolegomena8, che indicano la relazione che sussiste fra il soggetto e l’oggetto. D’altra parte sembra privo di senso aspettarsi da Kant che i giudizi dicano qualcosa di veramente reale rispetto all’oggetto, cioè della sua verità o falsità, infatti, nemmeno quelli conoscitivi lo fanno: essi caratterizzano sempre il modo in cui il soggetto vede l’oggetto e di quest’ultimo non ci dicono mai «cos’è» così «come è» (noumeno), bensì ci dicono sempre «com’è» così «come noi lo vediamo» (fenomeno). Questo atteggiamento conoscitivo kantiano sta alla base della rivoluzione copernicana e della rinuncia alla definizione nominale della verità. Il criterio generale della verità non risiede mai nell’oggetto, ma sempre nel soggetto e questo sia nel caso della bestimmende Urteilskraft che della reflektierende Urteilskraft. La differenza fra i «giudizi estetici» e quelli conoscitivi risiede per Kant, come ha ormai dimostrato vent’anni fa Rudolf A. Makkreel in importanti e influenti studi9, nel fatto che i primi sono da intendersi come «giudizi interpretativi», cioè dei giudizi che indicano il modo in cui le esperienze vengono comprese dai soggetti senza concetti, cioè senza le categorie che nella prospettiva epistemologica della prima Critica garantivano l’oggettività della conoscenza. Questa oggettività, come si è detto non riguarda il riferimento all’oggetto, quanto il fatto che la conoscenza possa essere 7 Beiser, Diotima’s Children. German Aesthetic Rationalism from Leibniz to Lessing, cit., p. 27. 8 Kant’s Gesammelte Schriften, V, p. 297. 9 Cfr. R.A. Makkreel, Imagination and Interpretation in Kant, The Hermeneutical Import of the Critique of Judgment, Chicago-London, Chicago University Press, 1990; Id., Transcendental Reflection, Orientation and Reflective Judgment, in T. Grethlein e H. Leitner (a cura di), Inmitten der Zeit. Beiträge zur europäischen Gegenwartsphilosophie, Würzburg, Königshausen & Neumann, 1996, pp. 291-303; Id., The Confluence of Aesthetics and Hermeneutics in Baumgarten, Meier, and Kant, in «The Journal of Aesthtetics and Art Criticism», 54, 1996, pp. 65-75; Id., Kant and Hermeneutics, in M. Kelley (a cura di), The Encyclopedia of Aesthetics, New York, Oxford University Press, 1998, III, pp. 52-55; Id., The Hermeneutical Relevance of Kant’s Critique of Judgment, in S. Martinot (a cura di), Maps and Mirrors. Topologies of Art and Politics, Evanston, Northwestern University Press, 2001, pp. 68-82; Reflection, Reflective Judgment, and Aesthetic Exemplarity, in R. Kukla (a cura di), Aesthetics and Cognition in Kant’s Critical Philosophy, Cambridge, Cambridge University Press, 2006, pp. 223-244. 176 Marco Sgarbi condivisa, cioè che ci sia un consenso su di essa. Laddove criteri intrinseci e formali per la verità non sono possibili, cioè laddove non entrano in gioco le categorie che possono oggettivare l’esperienza, ci si può sempre appellare per Kant a un criterio estrinseco per giudicare se qualcosa che accade soggettivamente nel nostro intelletto può basarsi su fondamenti oggettivi: esso consiste nella possibilità di comunicare e trovare valido per la ragione di ogni uomo ciò che è soggettivo (kat’aletheian), ovvero determinare se rispetto a quel determinato oggetto tutti i quanti gli intelletti sono concordi fra loro (consentientia uni tertio, consentiunt inter se), e con ciò si sarà dimostrata la sua verità10. Questo tipo di oggettivizzazione avviene in Kant ogni qual volta che il giudizio esige un’universalità, e avviene soprattutto per i «giudizi estetici» per i quali è necessaria una vera e propria deduzione. Proprio la deduzione dei giudizi di gusto, dimenticata da Beiser, richiede, rispetto al giudizio soggettivo, il consenso di ciascuno, «pur trattandosi non di un giudizio conoscitivo ma soltanto di un giudizio sul piacere o dispiacere per un oggetto dato»11. Al contrario di quanto afferma Beiser, anche i giudizi estetici, come giudizi interpretativi, possono dire così qualcosa rispetto all’oggetto di cui si ha esperienza. In questo senso la posizione di Kant non è perciò molto distante da quella dei «figli di Diotima». Inoltre su altri importanti aspetti del rapporto fra estetica e logica in Kant, diversi studi hanno dimostrato la dipendenza della riflessione del pensiero kantiano da quello degli esteti razionalisti12. Anche il sottolineare l’aspetto meramente soggettivo del sentimento in Kant da parte di Beiser conduce a un’interpretazione fuorviante della sua estetica. Infatti, se, come si è visto, «il gusto è la facoltà di valutare a priori la comunicabilità dei sentimenti che sono collegati con una rappresentazione data (senza mediazione di un concetto)», questi sentimenti, pur nella loro privatezza, sono in un qualche modo esposti al pubblico e non riguardano semplicemente il rapporto che il singolo soggetto ha con un determinato oggetto, ma riguardano quel rapporto fra soggetto e oggetto che seppur singolare può in un qualche modo divenire universale. In questo senso, Kant è sicuramente vicino agli esteti britannici del Settecento nell’individuare un sentimento estetico universale valutabile attraverso il sensus communis. Ma la richiesta o esigenza di universalità del proprio sentimento non lo fa allontanare dagli esteti razionalisti tedeschi13. 10 Kant’s Gesammelte Schriften, A 820-822/B 848-850. Ibidem, V, p. 280. 12 Cfr. G. Tonelli, Zabarella inspirateur de Baumgarten ou l’origine de la connexion entre esthétique et logique, in «Revue d’Esthétique», 9, 1956, pp. 182-192; L. Amoroso, Ratio & aesthetica. La nascita dell’estetica e la filosofia moderna, Pisa, ETS, 2008. Vedi anche il mio La logica dell’irrazionale. Studio sul significato e sui problemi della Kritik der Urteilskraft, cit., pp. 63-86. 13 Questo non significa confondere l’universalità con l’oggettività, ma di certo nei giu11 Kant e i figli di Diotima 177 A tal proposito, in connessione ai problemi riguardanti il sentimento e il senso comune, appare assai sorprendente come Beiser riesca a affermare più volte che Kant, a differenza dei «figli di Diotima», sosterrebbe una netta separazione fra il bene e il bello, quando nella Kritik der Urteilskraft si afferma esplicitamente che «il bello è simbolo del bene morale»14. Inoltre proprio in questo contesto Kant ritorna sulla trans-soggettività dei «giudizi estetici» affermando che il bello piace proprio perché simbolo del bene morale «con una pretesa al consenso di ogni altro» e che «il principio soggettivo della valutazione del bello è rappresentato come universale, cioè come valido per ciascuno, senza essere tuttavia riconoscibile mediante un concetto universale»15. A conclusione del suo progetto teorico di riabilitare l’estetica razionalista contro le critiche kantiane, Beiser afferma che i «figli di Diotima» avrebbero elaborato la loro estetica in opposizione alle sfide lanciate dall’irrazionalismo. Questo fa supporre che se Kant critica il progetto razionalista, critica almeno in parte il progetto di andare contro l’irrazionalismo e che quindi sia da ritenere per certi versi un irrazionalista. Le sfide dell’irrazionalismo contro le quali l’estetica razionale vorrebbe imporre la sovranità della ragione sono per Beiser essenzialmente cinque: 1) «Je ne sais quoi»; 2) il sublime; 3) il nuovo e il sorprendente; 4) la tragedia; 5) il genio. Il paradigma «je ne sais quoi» si basa sul fatto che l’esperienza estetica consisterebbe in qualcosa di fondamentalmente indefinibile e inspiegabile. Connesso al problema del «je ne sais quoi» è quello del sublime, in quanto entrambi trascenderebbero ogni concettualizzazione, ma, se il primo si pone in relazione alla bellezza, al contrario il sublime riguarda proprio ciò che va al di là della bellezza stessa. Lo schema irrazionalista del nuovo e del sorprendente, invece, si basa sull’idea che ciò che provoca piacere è tale proprio perché sovverte e distrugge il senso ordinario, l’armonia e la proporzione. Un tipo particolare di piacere è provocato dagli eventi tragici, sebbene si disapprovi la loro esistenza. Il tragico in quanto tale secondo Beiser fa parte del progetto irrazionalista perché è l’esatto opposto della perfezione. Infine, l’ultimo paradigma irrazionalista è il genio, la cui espressione massima di sfida alla ragione si troverebbe per Beiser nella Kritik der Urteilskraft, che segna la rottura con le regole dell’arte che avevano dominato l’estetica razionalista. Al contrario di Beiser, tuttavia, mi pare che Kant per almeno quattro di questi cinque punti condivida proprio il progetto razionalista. La sua Kritik der Urteilskraft, come ho mostrato altrove e come già Alfred Bäumler aveva prospettato, può in realtà essere interpretata come la più dizi non-epistemici queste due caratteristiche vengono a compenetrarsi. 14 Kant’s Gesammelte Schriften, V, p. 353. 15 Ibidem. 178 Marco Sgarbi grande sfida all’irrazionalismo. Se analizziamo il problema del «je ne sais quoi», esso costituisce per Kant il principale scopo dell’elaborazione della terza Critica. Infatti, ciò che non si può conoscere concettualmente e spiegare scientificamente in modo chiaro e distinto è per Kant, così come per altri grandi pensatori della storia come Platone e Aristotele, il singolare. L’obiettivo principale della Kritik der Urteilskraft è proprio quello di dare ragione logicamente e razionalmente, sebbene non concettualmente e intellettualisticamente, proprio del singolo di cui si ha esperienza in particolari situazioni soggettivamente determinanti. Lo stesso problema del sublime e del nuovo e sorprendente rientrano per Kant in questo grande progetto di comprensione del singolare. Il sublime viene sistematizzato e concepito secondo lo schema categoriale del matematico e del dinamico, mentre il nuovo e il sorprendente, come ciò che sfugge ad ogni schema concettuale pre-costituito che altrimenti sarebbe oggetto della conoscenza scientifica, deve essere conosciuto in modo differente senza concetti, così come accade esemplarmente per l’estetico. Un discorso a parte merita il problema del genio che non è per Kant, così come lascerebbe supporre Beiser, semplicemente uno spirito inventivo e ingegnoso che evade le regole e ne crea di proprie. Infatti, il genio seppur creatore di nuovo regole deve comunque per Kant sottostare al tribunale del gusto e delle sue leggi che richiedono un’aderenza alla condivisibilità e universalità del consenso collettivo16. Kant è ben lungi dall’essere l’acerrimo nemico dell’estetica razionalista, anzi con il razionalismo condivide numerose idee programmatiche. Nel vedere Kant come il colpevole della disfatta dell’estetica razionalista, Beiser parte quindi da una posizione che astrae del tutto dal vero pensiero kantiano e che lo interpreta come già un esteta romantico. Forse perciò non è in Kant che deve essere ricercato il paradigma anti-razionalista in campo estetico, ma proprio nel romanticismo o se si vuole andare un po’ più avanti nel tempo, come lo stesso Beiser suggerisce, in Nietzsche17. Kant rappresenta sicuramente un momento di rottura e di rivoluzione nella storia dell’estetica, tuttavia, non si può affermare che programmaticamente egli abbia elaborato il proprio pensiero estetico contro l’estetica razionalista. Inoltre non si può nemmeno affermare che le critiche al razionalismo estetico di Kant siano sbagliate, come fa Beiser in più punti alla fine di ogni capitolo dedicato ad un esteta razionalista, perché tali critiche sostanzialmente non sussistono. Kant non è il colpevole della fine del declino e della fine dell’estetica razionalista. Il tentativo di ricostruire la storia dell’estetica razionalista o di ripren16 Kant’s Gesammelte Schriften, XV, p. 384. Su questo argomento si vedano le illuminanti riflessioni di F. Vercellone, Verso una morfo-logia, in «Teoria», 1, 2010, pp. 115-128. 17 Kant e i figli di Diotima 179 dere alcuni suoi principi teorici fondamentali da parte di Beiser è senz’altro meritorio, ma deve essere indubbiamente condotto senza un diretto confronto con Kant. Il riferimento a Kant non giova né a Kant stesso, né ai «figli di Diotima». Marco Sgarbi Università di Verona [email protected] 180 Marco Sgarbi