Gaetano Pelella - Bibliografia del Parlamento italiano e degli studi

Gaetano Pelella
La giurisdizione interna della Camera dei deputati tra principi costituzionali e
principi sopranazionali. L’autodichia alla prova della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo
1 - Introduzione; 2 - Gli organi giudicanti interni della Camera dei deputati. Origini storico-giuridiche; 2.1 - Il regolamento per la tutela giurisdizionale dei dipendenti. La Commissione giurisdizionale per il personale e la
Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza; 2.2 - La giurisprudenza
del periodo pre-repubblicano che negava la giurisdizione del giudice comune
sugli atti di amministrazione degli organi parlamentari; 2.3 - La giurisprudenza del periodo repubblicano. In particolare, gli orientamenti della Corte
costituzionale; 2.4 - Il regolamento per la tutela giurisdizionale relativa agli
atti di amministrazione della Camera dei deputati non concernenti i dipendenti; 3 - Il dibattito giurisprudenziale attuale sull’autodichia; 3.1 - La giurisprudenza della Corte di cassazione; 3.1.1 - La giurisprudenza della Corte di
cassazione nei casi in cui ha riconosciuto sussistente l’autodichia; 3.1.2 - La
giurisprudenza della Corte di cassazione nei casi in cui non ha riconosciuto
sussistente l’autodichia; 3.2 - La giurisprudenza dei giudici di merito e del
Consiglio di Stato; 4 - L’autodichia della Camera alla prova della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo; 4.1 - Premessa; 4.2 - Sull’applicabilità dell’articolo 6, § 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo alle controversie
della Camera con i propri dipendenti; 4.3 - Le principali critiche all’autodichia della Camera dei deputati avanzate in sede europea; 4.3.1 - L’ipotizzata
mancanza di una disciplina «con legge» dei giudici domestici; 4.3.2 - L’asserita mancanza di indipendenza dei giudici domestici; 4.3.3 - L’ipotizzato
difetto di terzietà dei giudici domestici; 4.4 - Le ragioni che ancora inducono a ritenere compatibile l’autodichia con l’articolo 6 della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo; 4.4.1 - Sulla presenza di uno scopo legittimo;
4.4.2 - Sulla sussistenza di un rapporto di ragionevole proporzione tra i mezzi
impiegati e lo scopo perseguito; 5 - Conclusioni.
1 - Introduzione
Affrontare le delicate problematiche connesse al tema dell’autodichia
della Camera dei deputati – con ciò intendendosi, in questa sede, quel
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particolare fenomeno giuridico secondo il quale sono gli organismi interni
alla Camera stessa (istituiti e disciplinati da appositi regolamenti), e non
la magistratura comune, a giudicare in via esclusiva e definitiva i ricorsi
avverso gli atti e i provvedimenti adottati dall’Amministrazione, presentati
dai dipendenti o dai terzi (1) – comporta, oggi più che mai, la necessità
di prendere atto dell’esistenza di due blocchi interpretativi nettamente
contrapposti: l’uno, di carattere dottrinale, che, salvo rarissime eccezioni (2), ritiene concordemente che l’autodichia, in quanto forma di “giurisdizione domestica”, contrasti con una molteplicità di disposizioni costituzionali e sopranazionali concernenti i diritti fondamentali dell’uomo e
la giurisdizione (e in special modo, con gli articoli 24, 108, 111 e 113 della
Costituzione e con gli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo) (3); e l’altro, di origine giurisprudenziale, che, in particolare
dopo la pronuncia della celeberrima sentenza della Corte costituzionale n.
154 del 23 maggio 1985, ha sempre sostanzialmente riconosciuto – sia pure
con sfumature e precisazioni di tenore diverso – la legittimità degli organi
dell’autodichia e delle procedure da essi seguite, in ragione della necessità
di salvaguardare l’indipendenza e l’autonomia dell’istituzione parlamentare dalla possibile ingerenza di altri poteri dello Stato (4).
Lungi, però, dall’esaurirsi nella semplice presa d’atto di due orientamenti
ermeneutici contrastanti, le cui rispettive, approfondite argomentazioni sono
state nel tempo già scandagliate a fondo da parte di autorevoli autori e corti
giudicanti, la tematica in esame ha recentemente acquisito una particolare
rilevanza ed attualità in considerazione di due elementi di novità particolarmente significativi.
Il primo consiste nel progressivo “espandersi”, per espressa previsione
regolamentare, della giurisdizione interna non solo della Camera dei deputati, ma anche del Senato della Repubblica: giurisdizione che non è più limitata, secondo tradizione, alle sole controversie con i dipendenti o con gli ex
dipendenti che lamentano la lesione di situazioni giuridicamente rilevanti di
norma legate al loro status giuridico ed economico – nonché alle contestazioni promosse dai candidati ai concorsi banditi per l’assunzione di personale di ruolo e non di ruolo –, ma che oramai si estende alla cognizione dei
ricorsi avverso tutti gli atti amministrativi adottati dalle Amministrazioni
delle predette Istituzioni, anche se presentati da soggetti ad esse estranei.
Così – come si avrà modo di precisare oltre –, sono state “attratte” alla giurisdizione interna le impugnative concernenti le procedure di gara per l’affidamento di appalti pubblici (5), i dinieghi di accesso agli atti amministrativi (6),
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il versamento di emolumenti ai deputati (7), il trattamento dei dati personali (8), il versamento di corrispettivi dovuti a consulenti esterni da parte di
organi parlamentari (9).
Il secondo elemento, che costituisce senz’altro un’assoluta novità nel
panorama del dibattito dottrinale e giurisprudenziale sulla questione, è
rappresentato dal recente deposito di alcuni ricorsi presso la Corte europea
dei diritti dell’uomo (CEDU) da parte sia di dipendenti della Camera, che
pretendevano il pagamento di talune indennità previste solo dalle leggi statali
e non dai regolamenti camerali, sia di soggetti ad essa estranei, che avevano
impugnato l’atto di esclusione da un concorso per l’assunzione di assistenti
parlamentari. Come si avrà modo di approfondire nei paragrafi che seguono,
i ricorsi in questione mirano a “colpire al cuore” l’autodichia degli organi
costituzionali, ed in particolare della Camera dei deputati, in quanto contestano che le istanze giudicanti interne possano definirsi – come richiede l’articolo 6, § 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e come oramai
esige anche l’articolo 111 della Costituzione, il cui testo è stato modificato
dalla legge costituzionale n. 2 del 1999 – «indipendenti, imparziali e costituite dalla legge» e, dunque, che esse possano essere qualificate come organi
«giurisdizionali», innanzi ai quali poter svolgere un «giusto processo».
A parere di molti degli “addetti ai lavori”, l’attivazione di rimedi presso
le corti di giustizia internazionali rappresenta l’unico strumento per rimeditare dalle fondamenta questo antico istituto e per vagliarne la compatibilità con i principi fondamentali dell’ordinamento, posto che la magistratura
italiana, ivi compresa la Corte di cassazione – dopo la pronuncia della citata
sentenza della Corte costituzionale n. 154 del 1985 – ha sempre dichiarato
inammissibile la questione di legittimità costituzionale delle norme dei
regolamenti parlamentari che istituiscono e disciplinano il sistema dell’autodichia, riproponendo – talvolta, invero, con formule tralatizie – l’oramai
consolidato “dogma” (sancito appunto dalla predetta sentenza del giudice
delle leggi) secondo il quale i regolamenti parlamentari, non rientrando
formalmente tra gli atti citati dall’articolo 134, primo alinea, della Costituzione, non sono soggetti al sindacato di legittimità costituzionale da parte
della Consulta.
Occorre notare, in effetti, che i giudici italiani non hanno più sollecitato alcuna nuova valutazione della problematica in parola da parte della
Corte costituzionale (la cui ultima pronuncia sul tema, dunque, risale a circa
ventitré anni fa) né, d’altra parte, hanno affrontato le controversie sottoposte alla loro cognizione tenendo conto delle molteplici critiche provenienti
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quasi unanimemente dalla dottrina. In particolare, poi, quasi nessuna delle
sentenze adottate in materia ha valutato la compatibilità del sistema dell’autodichia con i principi convenzionali e comunitari sul «giusto processo».
D’altra parte, può altresì evidenziarsi come i due rami del Parlamento non
abbiano deciso di sollevare conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, di
cui all’articolo 134, secondo alinea, della Costituzione, nei confronti dell’autorità giudiziaria comune nei casi, anche recenti, in cui questa ha affermato
la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo o ordinario in
relazione alla cognizione di particolari tipi di controversie – diverse da quelle
riguardanti il personale dipendente – concernenti appunto la Camera e il
Senato (10).
Di qui l’inevitabilità, ad avviso di chi scrive, dell’ “approdo” ad un giudice
sopranazionale, la Corte europea dei diritti dell’uomo, che finora non si è
mai occupata del tema, e a cui, peraltro, è oggi possibile accedere in modo
relativamente semplice: il ricorso è, infatti, proponibile direttamente dalla
singola persona fisica che ritenga di essere vittima di una violazione da parte
di uno Stato contraente, senza alcuna necessità di un previo filtro da parte
della magistratura nazionale (cfr. articolo 34 della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo). L’atto introduttivo del giudizio, poi, può essere scritto
in italiano ed inviato alla Corte con semplice raccomandata. Infine, salvo
diversa richiesta delle parti, il processo prosegue e si conclude, per prassi,
esclusivamente mediante la presentazione di memorie scritte, senza necessità
di dibattito orale in udienza presso la sede di Strasburgo.
Tale novità desta particolare interesse, poiché il giudice europeo non è
condizionato dagli assiomi ermeneutici maturati nel tempo in sede nazionale
e, soprattutto, non è limitato, quanto all’ambito della sua giurisdizione, da
una disposizione quale quella contenuta nell’articolo 134, primo alinea, della
Costituzione, che ha sinora giustificato l’inammissibilità del sindacato giurisdizionale sui regolamenti parlamentari.
L’orientamento della Corte europea, pertanto, sarà sicuramente di grande
importanza per le sorti dell’autodichia: se i ricorsi verranno respinti, infatti,
il sistema di giustizia interna della Camera troverà un nuovo e fondamentale
pilastro sul quale ulteriormente consolidarsi; diversamente, occorrerà meditare sulle ipotesi di riforma del sistema, nel solco dei principi e dei rilievi che
verranno indicati (11).
Nel frattempo, lo scopo che questo scritto si prefigge di raggiungere è
quello non solo di riepilogare sinteticamente, anche in una prospettiva volta
ad individuarne le origini storiche, le norme che disciplinano gli organi
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giudicanti interni della Camera – messe peraltro a confronto con quelle
previste dagli altri organi costituzionali che, nel tempo, hanno maturato
un’esperienza analoga (Senato, Corte costituzionale e Presidenza della
Repubblica) – ma anche di evidenziare i principali arresti giurisprudenziali
in materia intervenuti negli ultimi dieci anni e, soprattutto, quello di sottolineare quali siano le ragioni per cui, ad avviso di chi scrive, è ancora possibile
ritenere – proprio grazie alla disamina della giurisprudenza della Corte di
giustizia dell’Unione europea, nonché della Corte europea di Strasburgo,
e sia pure nella consapevolezza dell’esistenza di aspetti fortemente problematici che dovrebbero comunque far riflettere sull’opportunità di talune
riforme – che l’autodichia sia sostanzialmente compatibile con le esigenze
fondamentali del «giusto processo», così come espresse dalla Convenzione
europea dei diritti dell’uomo e ribadite dalla Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 (12).
2 - Gli organi giudicanti interni della Camera dei deputati. Origini storicogiuridiche
Per una più agevole lettura delle problematiche che saranno esposte nei
paragrafi che seguono, pare opportuno riepilogare sinteticamente quali sono
le istanze interne alla Camera dei deputati, cui è demandata la risoluzione
delle controversie con i dipendenti e con i terzi, nonché le ragioni storicogiuridiche per cui esse sono nate.
2.1 - Il regolamento per la tutela giurisdizionale dei dipendenti. La Commissione giurisdizionale per il personale e la Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza
Per quanto concerne gli organi che giudicano sulle controversie con i
dipendenti – nonché con i candidati ai concorsi per l’assunzione a contratto
e nei ruoli della Camera – è noto che solo il 28 aprile 1988, con deliberazione
dell’Ufficio di Presidenza resa esecutiva con decreto del Presidente n. 420
del 16 maggio successivo, è stato approvato il regolamento per la tutela giurisdizionale dei dipendenti (d’ora in avanti RTG), che ha istituito un’istanza
di primo grado, la Commissione giurisdizionale per il personale (cfr. articolo
3), ed un’altra di secondo grado, la Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di
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Presidenza (cfr. articolo 6), la quale – salvo che il Presidente della Camera
ritenga che, per la particolare rilevanza delle questioni controverse, l’esame
del ricorso debba essere rimesso al plenum dell’Ufficio di Presidenza (cfr.
articolo 6-bis, comma 2) (13) – giudica in appello in via definitiva.
Coerentemente con quanto statuisce l’articolo 24 della Costituzione, il
citato regolamento prevede che i dipendenti della Camera dei deputati, in
servizio o in quiescenza – nonché, come detto, i partecipanti alle procedure
concorsuali per l’accesso ai ruoli – possano presentare ricorso per la tutela dei
propri diritti e interessi legittimi contro gli atti ed i provvedimenti, anche di
carattere generale, adottati dall’Amministrazione (cfr. articoli 1 e 2), nonché
contro i provvedimenti degli organi della Camera aventi contenuto di atto
politico o di alta amministrazione (cfr. articolo 2, comma 2). In tale ultimo
caso, però, gli atti sono impugnabili solo per incompetenza, violazione di
legge o di regolamento e non, come avviene in via generale (cfr. articolo 2,
comma 1), per eccesso di potere.
La Commissione giurisdizionale per il personale è nominata con decreto
del Presidente della Camera ed è composta di sei membri scelti, mediante
sorteggio, da un elenco di deputati in carica (in possesso di particolari requisiti tecnici, come l’essere magistrato, professore universitario in materie
giuridiche, avvocato), formato sulla base di liste di venti deputati designati,
rispettivamente, dal Presidente della Camera, dal Segretario generale nonché,
d’intesa tra loro, dalle organizzazioni sindacali (cfr. articolo 3, comma 2). In
modo analogo vengono nominati tre membri supplenti. Il presidente della
Commissione è designato dal Presidente della Camera tra i componenti della
Commissione stessa (cfr. articolo 3, comma 3).
Diversamente, la Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza è
presieduta dal Presidente della Camera ed è composta da altri quattro
membri, nominati dall’Ufficio di Presidenza medesimo tra i propri componenti, su proposta del Presidente. Allo stesso modo vengono nominati due
membri supplenti (cfr. articolo 6, comma 1-ter). Non è prevista la necessità del possesso di particolari requisiti tecnico-professionali, come invece
accade per i membri della Commissione giurisdizionale. Può altresì notarsi
che, in via di prassi, finora sempre confermata, il Presidente della Camera,
all’inizio di ogni legislatura, delega stabilmente un Vicepresidente a presiedere detto organo di appello.
Le procedure seguite per la trattazione dei ricorsi, come si avrà modo
di dire più approfonditamente nei paragrafi che seguono, ricalcano in larga
misura quelle seguite dai TAR e dal Consiglio di Stato, tant’è che l’arti-
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colo 9 RTG espressamente dispone che, per quanto non previsto da detto
regolamento, valgono, in quanto applicabili, le norme di procedura di cui
alla legge n. 1034 del 1971 (Istituzione dei Tribunali amministrativi regionali) ed al regio decreto n. 642 del 1907 (Regolamento per la procedura
dinnanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato).
Ciò che in questa sede è interessante evidenziare è che il regolamento per
la tutela giurisdizionale dei dipendenti fu approvato nel 1988 al chiaro scopo
di colmare un vuoto di tutela giurisdizionale che si era venuto a creare nel
tempo proprio ai danni dei dipendenti dell’organo costituzionale. Infatti, da
un lato, il Regolamento generale ed il regolamento dei servizi e del personale
contemplavano esclusivamente una modalità di definizione sostanzialmente
amministrativa delle controversie, demandata in ultima istanza all’Ufficio di
Presidenza, e, dall’altro, i giudici comuni negavano la propria giurisdizione
sulle medesime controversie, mentre la Corte costituzionale avallava, con
orientamenti interpretativi maturati già prima della pronuncia della famosa
sentenza n. 154 del 1985, tali forme di esenzione dalla giurisdizione medesima.
Nei capoversi che seguono si intende, appunto, illustrare come si è formato
e consolidato nel tempo l’indirizzo della giurisprudenza che ha sancito il
difetto della giurisdizione del giudice comune in relazione ai ricorsi presentati dai dipendenti degli organi costituzionali e che, di fatto, ha “imposto”
l’adozione di istanze e di procedure giurisdizionali interne a detti organi,
finalizzate alle risoluzione delle relative controversie.
2.2 - La giurisprudenza del periodo pre-repubblicano che negava la giurisdizione
del giudice comune sugli atti di amministrazione degli organi parlamentari
In proposito, è opportuno innanzitutto ricordare che, già prima dell’avvento della Repubblica e dell’istituzione della Corte costituzionale, era pacifico in giurisprudenza e nell’ambito della dottrina maggioritaria l’indirizzo
ermeneutico secondo il quale il Consiglio di Stato fosse sfornito di giurisdizione sui ricorsi presentati avverso gli atti di amministrazione delle Camere
e, segnatamente, su quelli concernenti il personale dipendente.
Con la prima sentenza che si occupò della questione (la n. 415 del 9
novembre 1898), la IV sezione del Consiglio di Stato, adita da un tale architetto Parboni per contestare l’esclusione dalla procedura per l’aggiudicazione
dell’incarico di progettazione della nuova aula della Camera dei deputati,
dichiarò inammissibile il ricorso sulla base del rilievo che «all’atto impu-
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gnato manca il carattere dell’atto amministrativo ai sensi dell’articolo 24
della legge 2 giugno 1889». (14) La richiamata disposizione, infatti – riprodotta poi nell’articolo 22 del testo unico n. 639 del 1907 e, da ultimo, nell’articolo 26, primo comma, del testo unico n. 1054 del 1924 – attribuiva al
giudice amministrativo la decisione «sui ricorsi per incompetenza, violazione
di legge o per eccesso di potere contro atti e provvedimenti di un’autorità
amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per
oggetto un interesse d’individui o di enti morali giuridici, quando i ricorsi
medesimi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria (...)».
Al medesimo orientamento si attenne la stessa IV sezione del Consiglio
di Stato, investita del ricorso di un dipendente della Camera in materia di
rapporto di impiego, allorché, con la decisione n. 490 del 12 agosto 1927,
accolse l’eccezione di improponibilità del ricorso medesimo. In questa occasione, la motivazione del giudice amministrativo fu davvero completa ed
esauriente: per la sua rilevanza e per l’influenza che essa ha avuto nel tempo
sugli orientamenti interpretativi del giudice amministrativo, se ne riportano
di seguito ampi passaggi.
Nel definire quali atti siano suscettibili di ricorso in questa sede la legge
ebbe presente non già il punto di vista materiale del contenuto degli atti stessi
bensì quello formale degli organi da cui essi promanano: e tali organi sono
precisamente quelli che costituiscono nel loro insieme il potere esecutivo
in senso lato, gli organi, singoli o collegiali, diretti e indiretti dello Stato,
per mezzo dei quali questo esplica la sua funzione amministrativa, quella
attività cioè che è intesa al soddisfacimento degli interessi collettivi di difesa,
d’ordine e di benessere sociale che esso comprende nei suoi fini. Per giudicare quindi della competenza del Collegio e della proponibilità del gravame
secondo l’articolo 26, occorre considerare la natura dell’organo che ha
emesso l’atto impugnato.
Questo principio che già chiaramente emerge dalla stessa lettera della
legge trova piena rispondenza e conferma nelle ragioni che hanno determinato la creazione dell’istituto di giustizia amministrativa. Come appare da
tutta l’elaborazione dottrinale che portò alla riforma attuale con la legge 31
marzo 1889, n. 5992, e dai lavori parlamentari a questa relativi, la IV sezione
del Consiglio di Stato fu istituita, come organo nel seno stesso dell’Amministrazione, per la difesa di quegli interessi che, lesi da un’autorità amministrativa, erano dalla legislazione del 1865 (la quale sopprimendo i tribunali del
contenzioso amministrativo aveva deferito alla cognizione degli organi del
potere giudiziario soltanto le violazioni del diritto civile e politico) imperfettamente tutelati col ricorso gerarchico e col ricorso straordinario al Re.
Il nuovo e più completo rimedio fu creato ad integrazione di quello preesi-
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stente: epperò le autorità a cui si ebbe riguardo dalla legge del 1889 furono
sempre quelle che, secondo il precedente sistema, erano reputate organicamente e formalmente amministrative, ossia le autorità del potere esecutivo,
e gli atti impugnabili innanzi al nuovo organo amministrativo furono quei
medesimi e non altri avverso i quali per l’innanzi erano consentiti i ricorsi
non contenziosi.
Ora, ciò posto, se non è dubbio che la Camera dei deputati è un organo
dello Stato, è però altrettanto certo che quest’organo attende ad una funzione
ben diversa e distinta da quella attribuita agli organi del potere esecutivo. Le
Camere legislative sono organi della attività di legislazione, non dell’attività
di amministrazione dello Stato; e per quanto riguarda il modo di esercizio di
questa loro funzione, esse hanno riconosciuta dall’articolo 61 dello Statuto
fondamentale del Regno assoluta indipendenza dal potere esecutivo; né
alcuna legge esiste che abbia, successivamente, limitato questo loro diritto di
provvedere con piena autonomia alla loro organizzazione e alla loro gestione
patrimoniale.
Le deliberazioni della Camera dei deputati prese sia con l’intervento
collegiale dei suoi componenti sia per mezzo dei suoi organi interni (uffici
di Questura, Consigli di Presidenza e via dicendo) attengono all’esercizio di
quel diritto e sono intese al fine di esercitare in modo migliore la funzione
che della Camera è propria, non già al conseguimento di quegli scopi di attività giuridica e sociale nell’interesse generale, cui attendono per la loro specifica attribuzione, gli organi amministrativi dello Stato. Perciò la Camera dei
deputati, anche in questi casi, non muta la sua natura di organo legislativo
né, perché compia atti che per il loro contenuto sono amministrativi in senso
sostanziale, può mai considerarsi autorità amministrativa. Donde segue che
tali atti, insindacabili amministrativamente, nemmeno possono a termini
dell’articolo 26, più volte ricordato, essere denunziati al Consiglio di Stato
per un eventuale annullamento (15).
Come può notarsi dalla lettura degli stralci della sentenza in parola, la IV
sezione del Consiglio di Stato, facendo propria la dottrina classica secondo
cui può essere qualificato come «atto amministrativo» solo quello che sia
non solo oggettivamente ma anche soggettivamente tale, arrivava ad escludere il sindacato giurisdizionale degli atti adottati dalle due Camere legislative, non potendo queste essere ascritte, sotto il profilo soggettivo, nel
novero delle autorità amministrative o dei corpi amministrativi deliberanti.
A tale esito ermeneutico si perveniva in forza della diffusa convinzione –
condivisa dalla maggioranza degli studiosi dell’epoca (16) – che la Camera
ed il Senato, anche quando adottavano atti sostanzialmente amministrativi,
non potessero essere ricondotti, per la loro posizione di organi costituzionali
autonomi, al circuito del potere esecutivo facente capo in ultima analisi al
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Re, perché, di conseguenza, da esso avrebbero dovuto subire gli (inammissibili) controlli previsti per tutte le autorità amministrative dipendenti dal
Governo: in primo luogo, quello derivante dall’istituto del ricorso straordinario al Re (oggi corrispondente al ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica); e, in secondo luogo, proprio quello del Consiglio di Stato in
sede giurisdizionale che – occorre sottolinearlo – prima della emanazione
della Costituzione repubblicana del 1948 non era pacificamente concepito
come un giudice indipendente ed imparziale, ma, più diffusamente, come
«un Tribunale che rimane nella sfera del potere esecutivo, da cui prende la
materia e le persone che lo devono mettere in atto», nonché come «un corpo
deliberante che il potere esecutivo forma con elementi scelti nel suo seno a
sindacatore dei suoi atti per mantenere la sua azione nei limiti della legalità»,
(cosí si esprimeva il Crispi, proponente del disegno di legge istitutivo della
IV sezione del Consiglio di Stato) (17).
La preoccupazione di fondo che dunque animava la scienza giuridica
dell’epoca era prevalentemente quella di evitare che le Assemblee legislative
potessero essere in qualche modo condizionate – anche solo limitatamente
in ordine all’esercizio delle prerogative di autorganizzazione interna – dal
potere esecutivo (comprensivo di tutte le sue articolazioni autoritative) e,
segnatamente, dal Sovrano. Diversamente, deve sottolinearsi che analogo
timore non era sentito con riguardo ai tribunali ordinari, poiché non si dubitava che, nel caso – ritenuto in verità piuttosto residuale – di lesione di «diritti
civili e politici» (cioè, di diritti soggettivi) da parte degli organi parlamentari nei confronti di soggetti terzi a questi estranei, la relativa controversia
dovesse essere devoluta alla giurisdizione ordinaria (18).
In definitiva, dunque, il sistema di tutela delle posizioni giuridiche soggettive dei cittadini venutosi a creare in quell’epoca appariva nel suo complesso
coerente: fermo restando, infatti, che – a seguito dell’approvazione della
legge sul contenzioso amministrativo del 1865 n. 2248, allegato E, come
noto ancora oggi vigente – tutte le materie nelle quali si facesse «questione
di un diritto civile o politico», cioè di un diritto soggettivo, erano devolute
alla giurisdizione ordinaria (cfr. articolo 2), la cognizione delle controversie
concernenti gli interessi legittimi, invece, veniva affidata – in assenza di una
giurisdizione amministrativa in senso stretto, quale poi sarebbe stata delineata compiutamente dalla Costituzione repubblicana – a “giudici” interni
agli apparati che avevano adottato il provvedimento censurato e cioè al
Consiglio di Stato, per gli atti amministrativi del potere esecutivo, e agli
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Uffici di Presidenza delle Camere, per gli atti di amministrazione posti in
essere dalle Istituzioni parlamentari.
2.3 - La giurisprudenza del periodo repubblicano. In particolare, gli orientamenti della Corte costituzionale
Anche dopo l’avvento della Repubblica e della Costituzione entrata in
vigore il 1° gennaio 1948 – che aveva completamente ridisegnato l’assetto
dei rapporti tra poteri dello Stato e configurato la magistratura come ordine
autonomo e indipendente da ogni altro potere, pur qualificando ambiguamente il Consiglio di Stato come organo di tutela di giustizia «nell’amministrazione» (cfr. articolo 100, primo comma) – il supremo giudice amministrativo (cfr. sez. IV, decisione n. 504 del 1950) ripropose considerazioni
analoghe a quelle espresse nella citata sentenza del 1927 ed affermò il difetto
dell’elemento soggettivo richiesto per l’ammissibilità di un ricorso giurisdizionale amministrativo contro gli atti delle Camere del Parlamento: «l’Assemblea legislativa ed il suo Presidente – affermavano i magistrati di Palazzo
Spada – non cessano di essere organi del potere legislativo, anche quando
compiono atti di mera amministrazione. Al principio fondamentale della
divisione dei poteri nello Stato di diritto fa riscontro la separazione e l’individuazione dei rispettivi organi. Di guisa che l’attività di organi legislativi, anche quando non ha per oggetto l’esercizio delle funzioni legislative,
non immuta alla sua natura in funzione di quella per avventura diversa dei
singoli provvedimenti».
Può poi ricordarsi che, a livello di legislazione positiva, era stato nel frattempo approvato il testo unico delle leggi sulla Corte dei conti (r. d. n. 1214 del
1934), che all’articolo 3, primo comma, attribuiva esplicitamente alle sezioni
riunite della Corte stessa la competenza a decidere, in forma contenziosa, in
prima e ultima istanza sui reclami del personale dello stesso organo contabile
concernenti la nomina e le vicende comunque attinenti al rapporto di lavoro.
Come noto, tali disposizioni – abrogate poi dalla legge n. 425 del 1984 – superarono successivamente il vaglio di costituzionalità della Corte costituzionale
che, con la sentenza n. 135 del 1975, dichiarò infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in relazione agli articoli 3 e 108 della Costituzione, concernente proprio le norme istitutive della giurisdizione domestica. In quell’occasione la Consulta, dopo aver affermato la legittimità della
persistenza di un giudice speciale costituito prima dell’entrata in vigore della
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Costituzione – quale doveva ritenersi la Corte dei conti – risolse il problema
dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice richiamando l’applicabilità
degli istituti processuali dell’astensione e della ricusazione, in caso di coincidenza personale tra coloro che hanno adottato i provvedimenti amministrativi
impugnati dal personale e i giudici chiamati ad esercitare l’autodichia.
A conferma del clima complessivo che preparava l’inevitabile approvazione dei regolamenti per la tutela giurisdizionale interna della Camera, deve
segnalarsi che la Corte costituzionale – cui peraltro la legge n. 87 del 1953
aveva attribuito la competenza esclusiva a giudicare sui ricorsi dei propri
dipendenti (cfr. articolo 14, comma 3) (19) – ancor prima della pronuncia
della nota sentenza n. 154 del 1985, che ha affrontato in modo sia pure indiretto il tema dell’autodichia, aveva già in altre occasioni avallato la legittimità di talune forme di deroghe alla giurisdizione riconosciute a favore degli
organi costituzionali.
Ad esempio, nella sentenza n. 66 del 1964, il giudice delle leggi rigettò
un conflitto di attribuzione sollevato dalla Regione siciliana nei confronti
dell’autorità giudiziaria (amministrativa), che aveva dichiarato la propria
giurisdizione sulle controversie aventi ad oggetto l’espletamento di procedure concorsuali bandite da detta Regione e, in generale, l’organizzazione
interna dei propri dipendenti.
In detta pronuncia, la Corte costituzionale respinse la tesi della Regione
Sicilia secondo la quale quest’ultima avrebbe goduto di una posizione costituzionale identica a quella delle due Camere del Parlamento e, conseguentemente, di identiche prerogative. «L’Assemblea siciliana – affermava infatti la
Regione ricorrente – è un corpo politico che al pari del Parlamento esplica
un’attività politica estrinsecantesi nella emanazione di atti legislativi aventi
efficacia identica a quella dei corrispondenti atti dello Stato; e – aggiungeva – in base a norma costituzionale (l’articolo 4 dello statuto siciliano),
essa ha lo stesso potere di regolamento che comprende, così come per le
Camere, non solo la potestà di organizzazione delle funzioni e degli uffici,
ma anche il sindacato sugli atti che violino le norme poste nell’esercizio di
quel potere».
La motivazione della sentenza escluse, tuttavia, tale asserita equiparazione
e affermò che la particolare posizione di autonomia costituzionalmente riconosciuta all’Assemblea regionale siciliana non è equiparabile alla posizione
delle Camere, in quanto solo a queste va riconosciuta «la sovranità che resta
attributo dello Stato». Dopo aver quindi esaminato le speciali prerogative
attribuite alle Camere, ed evidenziato che alle regioni non si applica tutto il
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compiuto ed ampio sistema di garanzie previsto dagli articoli 64, 66 e 68 della
Costituzione, la Corte osservò che proprio dalla mancanza di tale sistema di
guarentigie è agevole dedurre «la dimostrazione che il sistema costituzionale
non ha inteso attribuire all’Assemblea regionale quelle stesse prerogative che
spettano al Parlamento», tra cui appunto quella dell’autodichia.
Giova poi, in questa sede, ricordare alcune decisioni con cui la Consulta
ha individuato nei caratteri comuni della Presidenza della Repubblica, del
Parlamento e della Consulta stessa le ragioni che legittimano la sottrazione
dei loro atti di spesa al controllo della Corte dei conti.
Nella sentenza n. 143 del 1968, tali caratteri comuni furono individuati
nella posizione di assoluta indipendenza, ai vertici dell’ordinamento, dei tre
organi in questione. Da questa posizione la Corte fece discendere la necessità di garantire l’indipendenza stessa degli organi supremi mediante l’esenzione dal controllo, nel caso da essa esaminato, di tipo contabile. Questo
orientamento trovò ulteriore svolgimento nella sentenza n. 110 del 1970,
nella quale la Consulta escluse che l’esenzione dal giudizio contabile della
Corte dei conti – prevista a favore degli atti di spesa degli organi costituzionali sopra richiamati – potesse estendersi agli agenti contabili del Consiglio
regionale della Sardegna: anche questa decisione affermò che «deroghe alla
giurisdizione – sempre di stretta interpretazione – sono ammissibili soltanto
nei confronti di organi immediatamente partecipi del potere sovrano dello
Stato, e perciò situati ai vertici dell’ordinamento, in posizione di assoluta
parità».
L’importante sentenza n. 129 del 1981 chiuse questa serie di decisioni
nelle quali il giudice delle leggi ha tentato di definire un «regime fondamentalmente comune a tutti gli organi costituzionali». La decisione scaturiva da un conflitto di attribuzione sollevato dalle Camere e dal Presidente
della Repubblica avverso la richiesta – avanzata ai Tesorieri dei tre organi
ricorrenti – di presentazione dei bilanci relativi alle gestioni dell’ultimo
triennio. La Corte considerò innanzitutto il regime degli apparati serventi
degli organi costituzionali, investiti della richiesta della Corte dei conti,
rilevando che, a fronte di una disciplina alquanto frammentaria della
materia, sussistono vere e proprie «consuetudini costituzionali» risalenti
fino all’epoca dello Statuto albertino che hanno perpetrato una prassi ininterrotta di esenzione contabile a favore delle Camere, dei Tesorieri della
Real Casa prima e della Presidenza della Repubblica nella fase successiva.
Alcune affermazioni della sentenza, poi, assumono particolare rilievo in
relazione specificamente alla potestà di esercizio della giustizia domestica,
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specie allorquando si sostiene che l’autonomia degli organi costituzionali
comprende, oltre al potere di disciplinare «l’assetto ed il funzionamento dei
loro apparati serventi, il momento applicativo delle norme stesse, incluse
le scelte riguardanti la concreta adozione delle misure atte ad assicurarne
l’osservanza».
Con la nota sentenza del 23 maggio 1985 n. 154, la Corte costituzionale
consolidò definitivamente il proprio orientamento sull’autodichia delle
Camere, dichiarando inammissibile la questione di legittimità costituzionale
degli articoli 12, comma 1, e 12, comma 3, rispettivamente del Regolamento
della Camera e di quello del Senato, sollevata nel 1977 dalle sezioni unite
civili della Corte di cassazione con riferimento agli articoli 24, 101, 108 e 113
della Costituzione. Il nucleo delle argomentazioni contenute nelle ordinanze
di rimessione concerneva l’esclusione della tutela giurisdizionale e della sua
effettività in relazione alle posizioni giuridiche soggettive dei dipendenti
delle Camere ed il venir meno della terzietà, dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice interno, dal momento che gli Uffici di Presidenza delle
Camere stesse erano chiamati a giudicare «in causa propria» su provvedimenti da loro stessi adottati. Le ordinanze esaminavano anche la posizione
delle Camere alla luce dell’applicazione, nel Regolamento, del principio della
separazione dei poteri, desumendone che l’equilibrio dei soggetti destinatari
della sovranità e l’emersione della funzione di indirizzo politico comportano forme di cooperazione e di «reciproco controllo proprio per quel che
concerne le funzioni primarie».
È noto che la sentenza della Consulta non entrò nel merito della questione
se i Regolamenti parlamentari, nella parte in cui istituiscono gli organi
dell’autodichia, siano conformi ai principi costituzionali – ed in particolare
se essi siano compatibili col diritto di difesa e col diritto ad avere accesso ad
un giudice indipendente ed imparziale –, in quanto ritenne preliminarmente
di non poter sindacare la legittimità dei Regolamenti medesimi, non rientrando questi ultimi tra gli atti menzionati dall’articolo 134, primo alinea,
della Costituzione. La pronuncia tuttavia si segnala – ed a buon titolo è
diventata la “pietra miliare” sulla quale si è successivamente fondato l’intero
impianto della giurisdizione domestica delle Camere – per il fatto di aver
qualificato a chiare lettere il Parlamento come il centro del sistema democratico configurato dall’ordinamento costituzionale italiano e come organo
di immediata espressione della sovranità popolare, cui pertanto va garantita
una «indipendenza guarentigiata» da qualsiasi altro potere.
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È interessante al riguardo notare che, mentre nei decenni precedenti
la preoccupazione principale che emergeva, in particolare dalle pronunce
del Consiglio di Stato, menzionate in precedenza, era quella di garantire la
massima indipendenza delle Camere parlamentari, non tanto dagli organi
giurisdizionali, quanto piuttosto dal potere esecutivo, in epoca successiva,
invece, l’esigenza più volte sottolineata dalla Corte costituzionale, in special
modo con la decisione del 1985, è stata quella di garantire l’assoluta autonomia ed indipendenza degli organi costituzionali da qualsiasi altro potere
dello Stato, ivi compreso, evidentemente, quello giudiziario (20).
Il regolamento per la tutela giurisdizionale dei dipendenti, dunque,
veniva approvato nel 1988 nella chiara consapevolezza di dovere offrire ai
dipendenti della Camera una modalità di garanzia giurisdizionale, altrimenti
negata dalle corti “esterne”, che tuttavia si adattasse alle necessità, altrettanto
preminenti, di salvaguardia dell’autonomia e dell’indipendenza dell’organo
costituzionale (21).
2.4 - Il regolamento per la tutela giurisdizionale relativa agli atti di amministrazione della Camera dei deputati non concernenti i dipendenti
Osservazioni parzialmente diverse vanno, invece, svolte in relazione alle
circostanze esistenti al momento dell’approvazione, da parte dell’Ufficio di
Presidenza, del regolamento per la tutela giurisdizionale relativa agli atti di
amministrazione della Camera dei deputati non concernenti i dipendenti
(deliberazione n. 155 del 22 giugno 1999, resa esecutiva con decreto del
Presidente n. 1099 in pari data).
Si ricorda che detto regolamento è stato approvato in esecuzione dell’articolo 12, comma 3, lettera f), del Regolamento generale della Camera, il
quale – a seguito delle modifiche apportate dall’Assemblea il 16 dicembre
1998 – espressamente delega l’Ufficio di Presidenza ad adottare i regolamenti
e le altre norme concernenti «i ricorsi e qualsiasi impugnativa, anche presentata da soggetti estranei alla Camera, avverso gli altri atti di amministrazione della Camera medesima». Come intuibile dalla denominazione stessa,
il citato atto normativo estende espressamente la giurisdizione degli organi
giudicanti interni ai ricorsi presentati da terzi avverso gli atti sostanzialmente amministrativi adottati dalla Camera (ad esclusione dei partecipanti
ai concorsi per l’accesso ai ruoli che restano ancora soggetti al regolamento
per la tutela giurisdizionale dei dipendenti). Si tratta, essenzialmente, delle
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impugnative presentate dalle imprese concorrenti alle gare d’appalto, anche
se in base alla concreta esperienza applicativa, nell’ambito di dette controversie sono state ricompresse, come già anticipato, anche quelle concernenti
i dinieghi di accesso agli atti amministrativi, il versamento di emolumenti
ai deputati, il trattamento dei dati personali, il versamento di corrispettivi a
consulenti esterni di organi parlamentari.
In base alle nuove disposizioni, è stato istituito un nuovo organo giudicante
di primo grado, denominato Consiglio di giurisdizione, che è composto da
tre deputati in carica (e da tre supplenti) scelti dal Presidente della Camera
tra coloro che sono in possesso di particolari requisiti professionali (l’essere
magistrati, avvocati, professori universitari in materie giuridiche). La procedura seguita per la decisione dei ricorsi, come si chiarirà meglio oltre, ricalca
essenzialmente quella seguita innanzi ai tribunali amministrativi regionali.
Benché le osservazioni storico-giuridiche riferite a proposito dell’origine
del regolamento per la tutela giurisdizionale dei dipendenti valgano anche
a proposito del nuovo regolamento e benché l’approvazione di quest’ultimo
fosse sostenuta dalla diffusa convinzione di riempire un «vuoto di tutela» e
di «completare il sistema delle garanzie giurisdizionali della Camera» (22),
occorre tuttavia segnalare che la giurisprudenza amministrativa anteriore
all’approvazione di tale nuovo regolamento era oscillante in ordine al riconoscimento della giurisdizione sui ricorsi presentati dai concorrenti alle gare
d’appalto avverso gli atti amministrativi adottati dalle Istituzioni parlamentari.
Infatti, a differenza di quanto ritenuto dai giudici in ordine alla giurisdizione sulle controversie con i dipendenti e con gli aspiranti tali (i c.d.
rapporti di lavoro in fieri), la magistratura amministrativa aveva in precedenza più volte affermato la propria competenza a decidere sui ricorsi sollevati dalle imprese nell’ambito dello svolgimento delle procedure d’appalto
bandite dagli organi costituzionali (23)�.
Deve però osservarsi che, a seguito dell’approvazione del nuovo regolamento per la tutela giurisdizionale relativa agli atti di amministrazione della
Camera dei deputati non concernenti i dipendenti – che peraltro dispone
l’obbligo di riassunzione presso il Consiglio di giurisdizione, entro sessanta
giorni a pena di inammissibilità, dei ricorsi pendenti innanzi a qualsiasi autorità al momento delle sua entrata in vigore – la giurisprudenza amministrativa si è completamente allineata alle direttive sancite dalla sentenza della
Corte costituzionale n. 154 del 1985 e, preso atto dell’entrata in vigore del
nuovo regolamento parlamentare e sul presupposto della insindacabilità di
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quest’ultimo, ha cominciato a dichiararsi carente di giurisdizione, almeno
per quanto concerne la cognizione delle controversie con la Camera (24).
Diversamente, lo stesso giudice amministrativo ha continuato – fino al
2006, come si vedrà – a ritenere sussistente la propria giurisdizione in ordine
alle controversie riguardanti gli atti di amministrazione del Senato adottati
in occasione dello svolgimento di gare di evidenza pubblica, in considerazione dell’assenza di un esplicito atto di normazione regolamentare interna
di quel ramo del Parlamento che attraesse espressamente dette controversie
nell’ambito dell’autodichia (25).
Anche nel caso del Senato, tuttavia, a seguito della approvazione da parte
del Consiglio di Presidenza di quell’Istituzione del regolamento sulla tutela
giurisdizionale relativa ad atti e provvedimenti amministrativi non concernenti i dipendenti o le procedure di reclutamento avvenuta il 12 dicembre
2005, lo stesso giudice amministrativo, prendendo atto dell’introduzione di
tale innovativa normativa, ha riconosciuto l’avvenuta estensione dell’ambito
dell’autodichia del Senato anche alle procedure di evidenza pubblica (26).
3 - Il dibattito giurisprudenziale attuale sull’autodichia
Gli orientamenti giurisprudenziali attuali in materia di autodichia sono
caratterizzati da un notevole rafforzamento delle prerogative della giurisdizione domestica e da un consolidamento definitivo dei principi stabiliti
dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 154 del 1985. Tali principi sono
stati, peraltro, sviluppati in un’altra importante pronuncia della Corte costituzionale, la n. 379 del 1996, che – pur se resa nell’ambito di un conflitto di
attribuzione tra poteri dello Stato scaturito da una vicenda del tutto peculiare (27) – si presenta ricca di rilevanti affermazioni volte a stabilire il confine
tra autonomia del Parlamento e principio di legalità e di giurisdizione. In
tale arresto la Consulta, che si riferiva espressamente ai comportamenti dei
deputati posti in essere nello svolgimento di attività parlamentare tipica, ha
messo in evidenza la particolare «capacità qualificatoria» del Regolamento
parlamentare, da cui conseguirebbe che gli istituti da questo esaustivamente
disciplinati non farebbero venire in considerazione altri paradigmi aventi
qualificazioni legislative diverse, interferenti o concorrenti. Tali paradigmi,
infatti, «sono destinati a cedere di fronte al principio di autonomia delle
Camere e al preminente valore di libertà del Parlamento che quel principio
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sottende e che rivendica la piena autodeterminazione in ordine all’organizzazione interna e allo svolgimento dei lavori».
Da tali riflessioni, ad avviso della Corte, deriverebbe una sorta di consequenzialità tra disciplina esaustiva da parte dei Regolamenti parlamentari ed
esclusione della giurisdizione statale.
Nei capoversi che seguono, saranno sintetizzate le più recenti linee di
tendenza della giurisprudenza ordinaria ed amministrativa concernenti la
giurisdizione domestica delle Camere.
3.1 - La giurisprudenza della Corte di cassazione
3.1.1 - La giurisprudenza della Corte di cassazione nei casi in cui ha riconosciuto
sussistente l’autodichia
Nell’ultimo decennio, la Corte di cassazione – che, ai sensi dell’ultimo
comma dell’articolo 111 della Costituzione, è il giudice della giurisdizione –
si è dimostrata, salvo talune eccezioni che saranno ricordate, il più fedele
custode dei principi fissati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 154 del
1985. Per di più, nelle recenti pronunce che si sono occupate del tema, essa
ha rafforzato la portata di talune precedenti affermazioni, che, pur tenendo
ferma la linea dell’inammissibilità del ricorso straordinario ex articolo 111
della Costituzione sulle decisioni del giudice domestico e pur ribadendo
l’insindacabilità, ai sensi dell’articolo 134, primo alinea, della Costituzione,
dei Regolamenti parlamentari, avevano a chiare lettere negato la possibilità
di qualificare le istanze giudicatrici interne alle Camere come veri e propri
organi giurisdizionali.
Ad esempio, la sentenza delle sezioni unite civili n. 317 del 1999, ribadita
integralmente nel 2002 con la sentenza n. 16267, escludeva l’ammissibilità
del ricorso, ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione (28), avverso le decisioni definitive della Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza della
Camera, in quanto riteneva quest’organo privo della natura giurisdizionale.
Questa natura, in effetti – chiariva la Corte – «deriva da un dato minimo
indefettibile, che è costituito dalla terzietà del giudice ed è invece assente, per
definizione, in ogni caso di giurisdizione domestica, in cui, come quello in
esame, ancorché non vi sia un’integrale identità tra l’organo che ha emanato,
deliberato o proposto il provvedimento e quello che ne giudica a seguito del
ricorso di un dipendente, sussiste comunque la commistione tra il giudice e
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la parte, che nella specie è determinata dalla presenza istituzionale del Presidente dell’Assemblea e di componenti dell’Ufficio di Presidenza, secondo
le ricordate disposizioni del Regolamento della Camera e delle relative
norme di attuazione, istitutive della Sezione giurisdizionale». Le «sentenze»
censurabili ex articolo 111 della Costituzione, dunque – ribadiva la Suprema
Corte – «non sono ravvisabili nei casi in cui debba, come nella specie, essere
individuato un non-giudice nell’organo dal quale esse provengano, ancorché
deputato alla gestione contenziosa degli interessi in conflitto».
In effetti, nella fattispecie, la Corte di cassazione era stata investita di un
caso che costituisce il punto veramente critico della autodichia della Camera
dei deputati e cioè dell’ipotesi – per la verità alquanto rara, come si avrà modo
di dire in seguito – in cui la Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza
debba giudicare della legittimità di un atto adottato in precedenza dallo
stesso Ufficio di Presidenza (29). Benché dubitasse della terzietà dell’organo
giudicante, la Corte di legittimità confermò tuttavia integralmente gli insegnamenti della Consulta espressi nella sentenza n. 154 del 1985. Essa, infatti,
ribadì: a) l’insindacabilità dei Regolamenti parlamentari ex articolo 134,
primo alinea, della Costituzione (e dunque l’inammissibilità della censura
di illegittimità costituzionale); b) la preminenza dell’interesse primario di
garantire l’assoluta autonomia ed indipendenza degli organi costituzionali
da qualsiasi altro potere; c) il rischio che l’assoggettamento delle decisioni
giustiziali, emesse dagli organi interni alla Camera, al controllo di legittimità ex articolo 111 della Costituzione possa creare quell’interferenza che
proprio l’istituita sottrazione alla giurisdizione ordinaria ed amministrativa
ha invece inteso prevenire.
Con la successiva sentenza n. 11019 del 2004, le sezioni unite della Corte
hanno ribadito integralmente la “dottrina” della sentenza n. 154 del 1985
pronunciata dalla Corte costituzionale ed hanno fortemente mitigato le
affermazioni sull’assenza della natura giurisdizionale degli organi di autodichia, in precedenza sostenute nella sentenza n. 317 del 1999.
Più in particolare, detta sentenza ribadisce innanzitutto (in conformità
a molteplici precedenti; cfr. sent. n. 1993 del 1992) che l’ambito di operatività dell’autodichia, così come delineata dai Regolamenti parlamentari,
comprende non soltanto i rapporti di lavoro dei dipendenti della Camera
già costituiti, ma anche quelli in fieri, e quindi anche i procedimenti concorsuali diretti all’assunzione dello stesso personale (30). Se, infatti – afferma
la Corte – «l’autonomia del Parlamento può essere lesa qualora altri poteri
si ingeriscano nei rapporti che intrattiene con i suoi dipendenti, con pari
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ragione tale lesione può prodursi qualora si ammetta che organi estranei al
Parlamento giudichino sui rapporti in fieri. La determinazione dei criteri
di scelta dei propri dipendenti e le procedure di ammissione sono, infatti,
espressione di quella stessa autonomia riconosciuta ai due rami del Parlamento sui rapporti costituiti con i propri dipendenti».
In secondo luogo, il giudice di legittimità evidenzia la necessità di configurare gli atti di esercizio della prerogativa dell’autodichia, e cioè le decisioni adottate per la risoluzione delle controversie con i propri dipendenti
e con i terzi, come inerenti esse stesse strettamente all’organizzazione ed al
funzionamento delle Camere, con connotati di insindacabilità esterna uguali
a quelli dei Regolamenti parlamentari: non tanto, quindi, come privilegi
connessi al rispetto, al prestigio ed al decoro dei titolari delle relative potestà,
quanto perché strumentali all’autonomo esercizio delle funzioni di questi.
Pertanto – afferma la Corte – «rispetto alle citate decisioni si impone in non
minore misura l’esigenza che tale esercizio non sia in alcun modo condizionato dall’intervento di altri poteri, i quali potrebbero indebolire quell’indipendenza che costituisce condizione essenziale per il pieno sviluppo della
libera azione degli organi predetti: e questa e non altra è la ratio sottesa alla
norma regolamentare che riserva alla cognizione della Camera le controversie suddette».
La sentenza n. 11019 del 2004 si segnala, tuttavia, soprattutto per aver
affermato che il nuovo testo dell’articolo 111 della Costituzione – introdotto dalla legge costituzionale n. 2 del 1999 – laddove fa esplicito riferimento alla necessaria terzietà ed imparzialità del giudice ed alla regola del
«giusto processo», non impone un mutamento del tradizionale orientamento
interpretativo giurisprudenziale sull’autodichia (31). Al riguardo, infatti, la
suprema Corte ha affermato che la nuova formulazione dell’articolo 111 della
Costituzione «non scalfisce affatto le garanzie di indipendenza del Parlamento» e mantiene pur sempre «alcune aree di esenzione o di delimitazione
del sindacato di legittimità proprio della Cassazione». Tali affermazioni
assumono particolare rilievo ai fini della qualificazione della natura degli
organi dell’autodichia, sol che si pensi che per la Cassazione sarebbe stato
“semplice” confermare l’orientamento espresso nella precedente sentenza
n. 317 del 1999 e conseguentemente negare l’applicabilità dell’articolo 111
della Costituzione sulla base dell’asserito difetto della natura giurisdizionale dell’istanza parlamentare giudicante. La Corte, invece, ha nell’occasione affermato, in contrasto col menzionato precedente, che la sottrazione
al generale sindacato di legittimità non postula necessariamente l’estraneità
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degli organi dell’autodichia dall’ordinamento giurisdizionale disciplinato
nella parte II, titolo IV, della Carta costituzionale, nel cui esclusivo ambito
opera il disposto dell’articolo 111 della Costituzione. In conformità, invece,
ad un suo arresto passato (cfr. sentenza n. 2861 del 1986), la Cassazione ha
ritenuto sostanzialmente ammissibile ipotizzare che il sistema di autodichia
possa essere ricondotto ad un concetto di «giurisdizione speciale», legittimo ai sensi della VI disposizione transitoria della Costituzione; e ciò, però,
«più che per l’intrinseca natura del sistema stesso, per la ragione che tra i
due contrapposti orientamenti interpretativi – quello che nega ogni giudice
e quello che accorda un giudice – può apparire opportuna la scelta del
secondo, siccome suscettivo di offendere meno gravemente – e cioè, eventualmente, soltanto sotto i profili della indipendenza, terzietà e imparzialità,
nonché della difesa e del contraddittorio – i precetti costituzionali contenuti
negli articolo 24 e 113 della Costituzione».
Con la successiva sentenza n. 14085 del 2004 – l’ultima che, allo stato,
si è pronunciata sul tema – le sezioni unite della Corte di cassazione arrivano a qualificare esplicitamente come «giurisdizionali» gli organi giudicanti
interni delle Camere. Tale aggettivo, peraltro, non è “sfuggito” accidentalmente dalla penna dell’attento estensore, ma viene ribadito in vari passi
della decisione, che, non a caso, si conclude sì con la conferma dell’impugnata sentenza di appello, ma con la correzione della motivazione in punto
di declaratoria sulla giurisdizione: non difetto «assoluto» di giurisdizione,
come aveva statuito la Corte d’appello, ma carenza (relativa) di giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria ed amministrativa in favore di quella
«speciale» del giudice domestico.
Al di là, comunque, di tali aspetti definitori, la decisione n. 14085 del
2004 è di particolare rilevanza per aver sostanzialmente esteso l’ambito applicativo dell’autodichia ad un’ipotesi non espressamente prevista dai Regolamenti parlamentari, sull’evidente presupposto che la giurisdizione domestica
costituisca un precipitato indefettibile dell’autonomia e dell’indipendenza
degli organi parlamentari. Nella fattispecie, la Suprema Corte ha ritenuto,
infatti, che spetti alle Camere giudicare al proprio interno sulla richiesta di
equa riparazione avanzata da coloro che abbiano ritenuto superata la ragionevole durata del processo svoltosi, o in corso di svolgimento, presso gli
organi dell’autodichia: competenza, questa, che la legge n. 89 del 2001 (c.d.
legge Pinto), in attuazione di quanto sollecitato dalla giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo, ha invece attribuito alle corti d’appello
comuni. In proposito, la Cassazione ha affermato che «l’accertamento sul
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superamento o meno, da parte del giudizio svoltosi davanti agli organi giurisdizionali interni, del termine ragionevole di durata comporta quel sindacato
sull’attività del Parlamento e quel rischio di interferenza che la previsione
dell’autodichia ha inteso evitare a garanzia della “indipendenza guarentigiata nei confronti di ogni altro potere”».
Alle Camere, dunque, spetta ora il compito di approvare un apposito
regolamento che, come ha già fatto la cosiddetta legge Pinto per i procedimenti di competenza degli organi giurisdizionali statali, disciplini le condizioni, i termini e la procedura di presentazione dei ricorsi per ottenere l’equa
riparazione per l’eccessiva durata dei processi.
3.1.2 - La giurisprudenza della Corte di cassazione nei casi in cui non ha riconosciuto sussistente l’autodichia
Le categorie di controversie in cui la Corte di cassazione non ha riconosciuto sussistente la giurisdizione domestica degli organi interni delle
Camere sono sostanzialmente tre: quelle intercorrenti tra i deputati ed i
propri assistenti personali; quelle concernenti i gruppi parlamentari, quando
questi agiscono come soggetti privati (al di fuori, dunque, delle prerogative
ad essi assegnate dai Regolamenti parlamentari); quelle che riguardano le
contestazioni sui piani di ripartizione dei rimborsi per spese elettorali che,
ai sensi della legislazione vigente, vengono erogati ai partiti politici in occasione dello svolgimento di campagne referendarie e di elezioni politiche,
amministrative ed europee.
Fatte salve le prime due fattispecie, in relazione alle quali è pacifica l’opinione, condivisa anche da parte degli organi costituzionali interessati, per cui
la giurisdizione spetti all’autorità giudiziaria ordinaria (32), particolarmente
delicata appare la questione dell’individuazione della giurisdizione sulle
controversie concernenti atti della Camera relativi alla erogazione dei rimborsi
elettorali ai partiti politici, in relazione alle spese sostenute per le campagne
elettorali per il rinnovo del Parlamento nazionale, dei consigli regionali, del
Parlamento europeo e per quelle referendarie (cfr. l. n. 157 del 1999).
Come noto, la questione è stata risolta dalle sezioni unite della Cassazione
(sentenza n. 136 del 1999) nel senso che la giurisdizione spetti al giudice
ordinario e non agli organi interni della Camera. In particolare, la Suprema
Corte ha ritenuto che l’articolo 4 della legge n. 195 del 1974 – secondo cui le
eventuali controversie sull’approvazione dei piani di ripartizione dei contri-
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buti elettorali sono affidate agli Uffici di Presidenza della Camera e del
Senato – va interpretato nel senso non già della introduzione di una nuova
forma di autodichia, bensì della previsione di un rimedio interno non preclusivo della facoltà, per il partito politico, di adire successivamente l’autorità
giudiziaria ordinaria a tutela del proprio diritto a quella contribuzione.
Gli argomenti addotti in tal senso dalla Cassazione ruotano attorno a
due assunti fondamentali: a) ogni ipotesi di autodichia, siccome costituente
deroga al principio della tutela giurisdizionale ex articolo 24 della Costituzione, dovrebbe essere espressamente prevista da norme costituzionali; b)
ciò non avverrebbe nel caso in questione, nel quale la riserva all’Ufficio di
Presidenza delle decisioni sulle controversie è invece stabilita da un legge
ordinaria (articolo 4 della l. n. 195 del 1974).
Le tesi sostenute dalla Cassazione in questa pronuncia non sembrano,
però, pienamente coerenti con quelle assunte in altre decisioni della stessa
Corte, nonché con quelle della Corte costituzionale, e perciò non appaiono
decisive ai fini di un consolidamento definitivo di tale orientamento.
In primo luogo, può notarsi come nella quasi totalità delle pronunce che
hanno ritenuto legittima la giurisdizione interna degli organi camerali, la
Cassazione, rifacendosi in pieno agli orientamenti espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 154 del 1985, ha evidenziato, in assoluto, la necessità che agli organi parlamentari, in quanto espressione immediata e diretta
della sovranità popolare, sia sempre garantita l’indipendenza da ogni altro
potere, anche a prescindere da un’esplicita previsione dei Regolamenti parlamentari.
Inoltre, se è vero, come afferma la Cassazione, che si è in presenza, nella
fattispecie, di atti adottati dall’Ufficio di Presidenza nell’esercizio di un
compito (quello di distribuzione dei rimborsi per le spese elettorali) che
gli è stato attribuito dalla legge, è altrettanto vero che tale scelta legislativa
non implica affatto un’estraneità di detti atti alla disciplina dei Regolamenti
parlamentari interni, né una sottrazione dei medesimi al regime parlamentare proprio degli atti dell’Ufficio di Presidenza.
Pertanto, specie alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale
circa la tendenziale coincidenza tra ambiti coperti dal diritto parlamentare
ed insindacabilità giurisdizionale esterna (cfr. la citata sentenza n. 379 del
1996), costituisce un forte argomento a favore del riconoscimento dell’autodichia anche in tale fattispecie il fatto che, al di là della previsione legislativa del rimborso delle spese elettorali, la relativa attività delle Camere è
ampiamente disciplinata dai Regolamenti parlamentari (pur se formalmente
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diversi da quello generale di cui al primo comma dell’articolo 64 della Costituzione), sia per quanto riguarda la procedura di ripartizione dei contributi
tra i partiti e le formazioni politiche, sia per quanto riguarda la loro erogazione, sia per quanto riguarda anche la loro fase contenziosa (33).
Pertanto, anche nel caso come quello in questione, non può escludersi che
l’attribuzione di compiti e funzioni alle Camere anche da parte della legge
comporti naturaliter un’attrazione dei conseguenti atti degli organi delle
Camere stesse nel comune regime di insindacabilità giurisdizionale esterna
che degli atti di quegli organi è proprio, in quanto conseguente ai principi di
indipendenza ed autonomia del Parlamento.
3.2 - La giurisprudenza dei giudici di merito e del Consiglio di Stato
Delle linee di tendenza della più recente giurisprudenza di merito e del
Consiglio di Stato già si è riferito alla fine del paragrafo precedente, dove si
è evidenziato che anche tali magistrature appaiono in linea con le “direttive”
delineate nel tempo dal giudice delle leggi e dal giudice della giurisdizione.
Può solo osservarsi al riguardo – come d’altra parte già prima sottolineato – che la giurisprudenza amministrativa, a differenza di quella della
Corte di cassazione e della stessa Corte costituzionale, non ha finora inteso
l’autodichia come un predicato indispensabile ed automatico dell’autonomia
regolamentare costituzionalmente riconosciuta alle Camere del Parlamento (34). Essa, infatti, si è dimostrata disponibile a “cedere” la sua giurisdizione solo nelle ipotesi espressamente previste dai Regolamenti parlamentari. Così, solo di recente – e cioè, solo a seguito dell’approvazione da parte
della Camera e del Senato di apposti regolamenti concernenti la tutela giurisdizionale degli atti amministrativi non concernenti i dipendenti – il giudice
amministrativo ha pacificamente ammesso il proprio difetto di giurisdizione
in ordine alle controversie in materia di gare d’appalto.
E anzi, salvo la presenza di anodini obiter dicta (35), lo stesso giudice
amministrativo, in alcune recenti pronunce, ha esteso al massimo la portata
dell’autodichia degli organi costituzionali.
In un primo caso, il Consiglio di Stato (36) ha negato che gli atti amministrativi degli organi costituzionali (Senato, Camera e Presidenza della Repubblica) siano soggetti al rimedio straordinario del ricorso al Presidente della
Repubblica, disciplinato dagli articoli 8 e seguenti del decreto del Presidente
della Repubblica n. 1199 del 1971, in quanto «nel sistema delineato dalla
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Costituzione repubblicana le amministrazioni degli organi costituzionali, ed
in particolare quelle delle Camere del Parlamento e della Presidenza della
Repubblica, sono sicuramente distinte ed autonome dagli apparati amministrativi dipendenti dal Governo e dagli altri enti pubblici». Da ciò quindi
consegue che «non è consentito esperire nei confronti degli atti degli organi
costituzionali i normali rimedi amministrativi, quali il ricorso straordinario
al Capo dello Stato, previsti avverso gli atti dei suddetti apparati».
In un’altra pronuncia riguardante la Camera dei deputati, il TAR del
Lazio, sezione I, con sentenza n. 5462 del 2007, ha declinato la propria giurisdizione a favore di quella interna della Camera stessa. Si trattava di una
controversia avente ad oggetto la legittimità del recesso di questo ramo del
Parlamento da un contratto con una ditta che era risultata già aggiudicatrice
di un appalto di servizi. Tale pronuncia si segnala soprattutto in considerazione del fatto che il giudice ha senz’altro dichiarato inammissibile il ricorso
sulla base della riscontrata presenza del già citato regolamento che ha istituito il Consiglio di giurisdizione, senza indagare sulla natura giuridica del
recesso che – in quanto avvenuto in una fase successiva all’aggiudicazione
ed alla stipulazione del contratto con l’impresa vincitrice – poteva essere
considerato come atto negoziale e non amministrativo, e a fronte del quale
non era irragionevole riconoscere la sussistenza di diritti soggettivi in capo
alla controparte.
In senso ancora espansivo della portata della giurisdizione domestica
degli organi costituzionali, va segnalata, da ultimo, una recente decisione
adottata dal TAR del Lazio, la n. 6875 del 2007 – che può definirsi quantomeno “atipica” –, con cui il giudice amministrativo ha declinato la propria
giurisdizione a favore degli organi di autodichia istituiti presso la Presidenza
della Repubblica, in tema di controversie instaurate nei confronti della Presidenza della Repubblica stessa da parte dei propri dipendenti (37).
La sentenza in questione va contro un consolidato orientamento della
Corte di cassazione e dello stesso Consiglio di Stato, che in più di un’occasione hanno invece affermato la giurisdizione del giudice amministrativo
in materia (38). Ma ciò che risulta paradossale è che essa fonda le proprie
conclusioni proprio sui precedenti delle citate Corti, che peraltro vengono
pedissequamente richiamati senza sottoporli a revisione interpretativa.
In buona sostanza, nella fattispecie, il TAR del Lazio prende atto della
emanazione dei decreti del Presidente della Repubblica nn. 81 e 89 del 1996,
che hanno istituto organi giudicanti interni sul contenzioso con i dipendenti,
e, in considerazione del fatto che le controversie sottoposte al suo esame sono
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insorte in data successiva al 1° gennaio 1997, nega la propria giurisdizione,
senza effettuare alcuna riflessione circa la natura giuridica di tali decreti
e circa la loro idoneità ad istituire legittimamente organi di giurisdizione
domestica.
Fino alla pronuncia di detta sentenza, invece, risultava consolidata la
regola per cui gli atti amministrativi adottati dalla Presidenza della Repubblica fossero soggetti al controllo giurisdizionale dell’autorità giudiziaria
comune. Come infatti affermato dal Consiglio di Stato, «i regolamenti
approvati dal Presidente della Repubblica sull’ordinamento interno del
Segretariato e in generale sui propri dipendenti sono privi di fondamento
diretto in norme o principi costituzionali, atteso che il potere regolamentare è attribuito dall’articolo 3 della legge n. 1077 del 1948. In altri termini,
diversamente da quanto accade per le due Camere parlamentari, provviste di
autodichia ai sensi dell’articolo 64 della Costituzione, gli atti amministrativi
adottati dalla Presidenza della Repubblica, siano essi regolamentari o adottati in forma regolamentare, non sono sorretti da alcun fondamento costituzionale (implicito o espresso), trovando la loro fonte nel citato articolo 3
della l. n. 1077 del 1948, al quale quindi non va attribuita una valenza meramente ricognitiva, bensì una natura attributiva del potere regolamentare.
Con l’ulteriore corollario che gli atti in questione – alla pari di ogni altro
atto amministrativo – sono soggetti al sindacato giurisdizionale del giudice
amministrativo» (39).
4 - L’autodichia della Camera alla prova della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo
4.1 - Premessa
Nei paragrafi precedenti si è avuta occasione di evidenziare come l’istituzione delle giurisdizioni interne delle Camere, così come delineate dai
Regolamenti parlamentari concernenti il contenzioso instaurato dal personale dipendente e dai terzi, siano sostanzialmente accettate ed avallate dalla
giurisprudenza costituzionale, di legittimità e di merito.
È noto, però, che gli studiosi che si sono occupati della materia si mostrano
fortemente critici nei confronti dell’autodichia. Tali critiche non sono mai
state particolarmente approfondite dalla giurisprudenza, la quale, facendosi
scudo della tesi dell’insindacabilità dei Regolamenti parlamentari enunciata
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dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 154 del 1985, ha di fatto reso
sempre più granitica nel tempo l’impalcatura della giurisdizione domestica,
senza sottoporla ad una più moderna revisione alla luce delle recenti riforme
costituzionali e dell’affermarsi sempre più incalzante di principi giuridici
enunciati da convenzioni internazionali.
In quest’ottica, appare decisamente rilevante e chiaramente innovativa la
scelta di taluni dipendenti della Camera dei deputati, e di altri cittadini che
sono stati esclusi da una procedura concorsuale per l’ammissione ai ruoli
di questo stesso ramo del Parlamento, di adire la Corte europea dei diritti
dell’uomo al fine di valutare la compatibilità dell’autodichia con i principi
fissati dall’articolo 6, § 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
(CEDU), a mente della quale «ogni persona ha diritto che la sua causa sia
esaminata equamente e in un tempo ragionevole da parte di un tribunale
indipendente ed imparziale, costituito dalla legge, che deciderà (...) in ordine
alle controversie sui suoi diritti ed obbligazioni di natura civile».
La novità di tale iniziativa, mai peraltro sinora intrapresa, risiede nel fatto
che la Corte europea, che verosimilmente si pronuncerà entro la primavera
del 2009, affronterà le problematiche sottoposte al suo esame senza quei
condizionamenti storici e dogmatici che la magistratura italiana ha inevitabilmente subìto nel tempo, ma solo sulla base della propria giurisprudenza
in materia, che non ha mancato, in diverse occasioni, di dichiarare incompatibili con la Convenzione istituti giuridici fortemente consolidati negli Stati
convenuti (40).
È noto che la Corte di Strasburgo non può annullare i provvedimenti
amministrativi o gli atti sottoposti alla sua valutazione e, quindi, neppure
le pronunce che la Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza della
Camera ha adottato in via definitiva sulle controversie che in sede nazionale
hanno dato origine ai ricorsi. Tuttavia, qualora venisse riscontrata una violazione della Convenzione, tale Corte, oltre a poter disporre il pagamento di
un’equa riparazione in termini monetari a favore delle «vittime» della violazione stessa (v. articolo 41 CEDU), potrebbe in astratto indicare in sentenza
le misure strutturali di carattere generale che lo Stato convenuto deve porre
in essere, ai sensi di quanto previsto dall’articolo 46 CEDU, per ovviare definitivamente ai deficit segnalati (41).
Paradossalmente, nel giudizio innanzi alla Corte europea dei diritti
dell’uomo, la Camera dei deputati è rappresentata e difesa dal Governo
italiano, cioè proprio da quel potere dello Stato nei confronti del quale le
Camere legislative hanno storicamente rivendicato la massima indipendenza.
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Altrettanto paradossalmente, le decisioni della Corte impegneranno direttamente solo il Governo, che però, nel sistema costituzionale italiano, non può
certo imporre modifiche regolamentari al Parlamento.
4.2 - Sull’applicabilità dell’articolo 6, § 1, della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo alle controversie della Camera con i propri dipendenti
Prima di valutare nel merito quali siano le principali censure indirizzate
all’autodichia della Camera, alla luce della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, pare doveroso evidenziare che la Corte di Strasburgo dovrà preliminarmente verificare, nei casi concretamente sottoposti al suo esame, se l’articolo 6, § 1, di detta Convenzione, possa ritenersi applicabile alle controversie
concernenti questo ramo del Parlamento ed i suoi dipendenti o aspiranti tali.
Infatti, come chiaramente si evince dal dato testuale dell’art. 6, § 1, CEDU,
condizione indefettibile affinché possano invocarsi le garanzie previste dalla
predetta norma, e, in definitiva, la sua stessa applicabilità, è che tra le parti
siano controversi diritti ed obbligazioni «di natura civile».
Da tale inciso la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo
ha costantemente dedotto che, «in linea di principio, le questioni riguardanti
il reclutamento, la carriera e la cessazione di attività dei pubblici funzionari –
a differenza di quelle relative ai salariati di diritto privato – fuoriescono
dalla sfera di azione del citato art. 6, § 1, CEDU» (42). In tali ipotesi, infatti,
sostiene il giudice europeo, vengono esercitate funzioni tipicamente pubblicistiche da parte dell’amministrazione interessata. Da ciò consegue, ad avviso
della Corte, che le eventuali controversie che ne derivano non hanno natura
«puramente patrimoniale» o «essenzialmente patrimoniale», ma «mettono
in discussione principalmente le prerogative discrezionali dell’amministrazione», con la conseguenza che viene meno quel «carattere civile» delle
medesime che costituisce presupposto indispensabile ai fini dell’applicazione
dell’art. 6, § 1, CEDU (43).
Occorre tuttavia segnalare che, nei tempi più recenti, la giurisprudenza
della Corte europea ha subìto notevoli evoluzioni in materia, in verità non
sempre chiare e lineari, che tendono a limitare sempre più incisivamente,
ma non ad eliminare completamente, le ipotesi in cui non possano ritenersi
applicabili alle controversie del pubblico impiego le garanzie sul giusto
processo previste dall’articolo 6 della citata CEDU.
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Così, nella sentenza Pellegrin c. Francia dell’8 dicembre 1999, il giudice di
Strasburgo, nel tentativo di individuare un parametro preciso che consenta
di distinguere le pretese di natura civilistica, rientranti nel campo di applicazione dell’articolo 6 CEDU, e quelle di natura pubblicistica, che invece
non beneficerebbero delle garanzie della norma medesima, è pervenuto
all’adozione di un «criterio funzionale», fondato sulla natura delle funzioni
e delle responsabilità esercitate dall’impiegato pubblico che ha intentato
una controversia contro l’amministrazione di provenienza. Avvalendosi di
tale criterio, la Corte ha affermato che «sono sottratte al campo applicativo
dell’articolo 6, § 1, le sole controversie dei pubblici funzionari il cui impiego
è caratterizzato da attività specifiche della pubblica amministrazione, nella
misura in cui questa agisce come detentrice della potestà pubblica incaricata della salvaguardia degli interessi generali dello Stato o di altre collettività pubbliche» e ha indicato come esempi tipici quelli delle Forze armate
e della Polizia: donde l’esigenza di considerare, di volta in volta, se l’impiego del singolo funzionario «implichi – tenuto conto della natura delle
funzioni e delle responsabilità che comporta – una partecipazione diretta
o indiretta» all’esercizio di quella potestà ed a funzioni volte alla tutela di
quegli interessi. Resterebbe comunque inteso che «le controversie in materia
di pensioni rientrano tutte nell’ambito dell’articolo 6, § 1, poiché una volta
collocato a riposo, l’impiegato ha rotto il vincolo che lo univa all’amministrazione», cosicché a quel punto «egli si trova, ed a maggior ragione si trovano
i suoi aventi causa, in una situazione del tutto paragonabile a quella di un
salariato di diritto privato».
Più recentemente, la Grande Camera della Corte (sentenza del 19 aprile
2007, Vilho Eskelinen ed altri c. Finlandia), nel tentativo – forse non pienamente riuscito (44) – di individuare un criterio che chiarisca con maggiore
certezza, e più incisiva severità, quali siano le controversie degli impiegati
pubblici sottratte al campo di applicazione dell’articolo 6, § 1, CEDU, ha
affermato che: a) la Corte «riconosce la giuridica rilevanza dell’interesse
dello Stato a limitare l’accesso ad un tribunale per talune categorie di lavoratori» e che «spetta innanzitutto agli Stati contraenti – ed in particolare ai
Parlamenti nazionali, e non alla Corte stessa – identificare espressamente
i settori della funzione pubblica che implicano l’esercizio di prerogative
discrezionali inerenti alla sovranità dello Stato, di fronte alle quali l’interesse
individuale deve cedere»; b) «affinché lo Stato convenuto possa invocare
innanzi alla Corte lo statuto di funzionario di un ricorrente allo scopo di
rendere inapplicabili le garanzie di cui all’art. 6 CEDU, devono sussistere
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due condizioni. In primo luogo, il diritto interno dello Stato interessato deve
avere espressamente escluso l’accesso ad un tribunale, trattandosi appunto
di impiego o di categoria di dipendente pubblico. In secondo luogo, è necessario che detta deroga sia fondata su motivi oggettivi di interesse dello Stato.
Affinché l’esclusione dal tribunale sia giustificata – prosegue la Corte – non è
sufficiente però che lo Stato affermi che il funzionario in questione sia partecipe dell’esercizio del potere pubblico, ma è necessario, inoltre, che dimostri
che l’oggetto della lite sia connesso all’esercizio dell’autorità statale o rimetta
in discussione il legame speciale di fiducia e lealtà che sussiste tra lo Stato
stesso e l’interessato» (45).
Qualunque sarà l’orientamento della Corte – che, come visto, sarà basato
sull’analisi della natura delle funzioni pubbliche effettivamente esercitate
dai ricorrenti e sulla tipologia delle controversie concretamente instaurate –
sembra comunque improbabile che possa ipotizzarsi per il futuro, anche in
una prospettiva di riforma del sistema, un differente trattamento processuale
per i dipendenti della Camera in considerazione dei compiti concretamente
svolti e dell’oggetto delle liti che occasionano i ricorsi. Come sarà ulteriormente evidenziato in seguito, infatti, tale ipotetico differente trattamento
violerebbe il principio di uguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione,
e comunque risulterebbe di difficile se non di impossibile attuazione pratica.
4.3 - Le principali critiche all’autodichia della Camera dei deputati avanzate in
sede europea
Per venire all’esame nel merito delle questioni poste – che, per la loro
portata generale, trascendono le specifiche controversie concretamente sottoposte all’esame della Corte europea dei diritti dell’uomo – occorre evidenziare che i ricorsi presentati al giudice di Strasburgo ripropongono le più
rilevanti censure che tradizionalmente vengono avanzate nei confronti delle
giurisdizioni domestiche degli organi costituzionali, e cioè: a) la mancata
istituzione (e la correlativa assenza di disciplina) ad opera della «legge»; b)
l’asserito deficit di «indipendenza» e di «imparzialità» dei giudici interni, in
quanto questi giudicherebbero «in causa propria». In questa prospettiva, in
definitiva, gli organi parlamentari ai quali è affidata la decisione delle controversie non potrebbero essere considerati giudici in senso stretto, in quanto
essi difetterebbero dei caratteri minimi ed essenziali propri della funzione
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giurisdizionale, così come individuati dall’articolo 6, § 1, della CEDU,
nonché dall’articolo 111 della Costituzione.
4.3.1 - L’ipotizzata mancanza di una disciplina «con legge» dei giudici domestici
Come sopra anticipato, tra gli argomenti principali che vengono prospettati a sostegno della illegittimità delle giurisdizioni interne degli organi
costituzionali vi è quello secondo cui tali istanze giudicanti non sarebbero
istituite e disciplinate dalla «legge», cioè da un atto approvato dai due rami
del Parlamento, che è l’organo statale massimamente rappresentativo della
volontà popolare. Ciò sarebbe in contrasto con gli articoli 25, 108 e 111 della
Costituzione� (46), che prevedono una riserva assoluta (e, nel caso dell’articolo
111, addirittura rinforzata) di legge, nonché con il citato articolo 6, § 1, della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che pure prevede l’obbligo che il
giudice sia «costituito per legge».
A riguardo, infatti, non solo si evidenzia che nessuna legge statale disciplina l’istituzione ed il funzionamento dei giudici parlamentari, ma si sottolinea altresì che gli organi dell’autodichia sono in realtà previsti dai soli Regolamenti parlamentari cosiddetti minori – cioè quelli adottati dall’Ufficio di
Presidenza – che non sono assistiti dalle garanzie che l’articolo 64, primo
comma, della Costituzione impone per l’adozione del Regolamento generale,
che viene approvato a maggioranza assoluta dei deputati che compongono
l’Assemblea. Fermo restando, infatti, che è l’articolo 12, comma 6, del Regolamento generale medesimo a sancire la competenza dell’Ufficio di Presidenza a «giudicare in via definitiva» sui ricorsi presentati da dipendenti o da
terzi, sono poi in realtà i citati regolamenti per la tutela giurisdizionale del
1988 e del 1998 a prevedere l’istituzione della Commissione giurisdizionale
del personale, del Consiglio di giurisdizione e della Sezione giurisdizionale
dell’Ufficio di Presidenza e a disciplinarne la composizione, le funzioni e le
norme di procedura.
Ancorché meritevoli della massima considerazione, dette critiche, però,
non tengono conto del fatto che, pur non essendo atti formalmente legislativi, i regolamenti parlamentari, compresi quelli cosiddetti minori approvati
dall’Ufficio di Presidenza, sono tuttavia considerati dalla giurisprudenza
costituzionale (cfr. Corte costituzionale sent. n. 154 del 1985, cit.) e ordinaria
(cfr. Corte di cassazione, SS.UU. n. 317 del 1999 e n. 11019 del 2004, cit.),
nonché da autorevole dottrina (47)�, fonti normative di rango primario, che,
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come la legge formale, sono subordinate alla sola Costituzione e non sono
disapplicabili da parte del giudice.
Sembra, dunque, potersi affermare che tali regolamenti dispongano dello
stesso valore della legge, in quanto idonei ad innovare il diritto oggettivo
nello stesso modo in cui potrebbe farlo una legge formale ed in quanto addirittura atti a sostituirsi a quest’ultima nella disciplina di determinate materie
ad essi riservate dalla Costituzione (c.d. principio della riserva di competenza).
A tali considerazioni deve, inoltre, aggiungersi il rilievo per cui le norme
procedurali applicate dagli organi giudicanti interni sono in larghissima
parte ispirate alle leggi concernenti i procedimenti innanzi ai tribunali
amministrativi regionali e al Consiglio di Stato (l. n. 1034 del 1971 e r.d.
n. 1054 del 1924), cui l’articolo 9 del regolamento per la tutela giurisdizionale
dei dipendenti espressamente rinvia.
Deve, poi, sottolinearsi che la stessa giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell’uomo, quando ammette che possano sussistere limitazioni
all’accesso ad un tribunale, afferma che queste debbano essere previste dal
«diritto nazionale» o dall’«ordinamento interno»(48): formule queste che
sembrano essere compatibili con la menzionata concezione dei regolamenti
parlamentari, a maggior ragione se si considera che essi sono comunque
espressione di un’Assemblea parlamentare elettiva o, comunque, di un organo
politico sufficientemente rappresentativo della volontà popolare, in quanto,
in forza dell’articolo 5, comma 3, del Regolamento generale, «nell’Ufficio di
Presidenza devono essere rappresentati tutti i gruppi parlamentari esistenti
all’atto della sua elezione». Viene dunque confermato che, anche nella fattispecie, l’esercizio delle funzioni giurisdizionali trova legittimazione nella
volontà dell’organo espressione della sovranità popolare.
Inoltre, che sia necessaria una “interpretazione elastica” del concetto di
legge è confermato dal fatto che i sistemi di common law sono basati essenzialmente su norme di tipo consuetudinario o giurisprudenziale, che, in caso
di diversa opzione ermeneutica, di tipo restrittivo, inevitabilmente risulterebbero per definizione contrastanti con una molteplicità di disposizioni
della Convenzione che contengono espresse riserve «di legge».
Per altro aspetto, infine, va segnalato che l’interpretazione del regolamento parlamentare come fonte di rango primario si concilia perfettamente
con la nozione di legge, più volte individuata dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo, che l’ha intesa, in senso lato, come qualsiasi testo normativo accessibile, conoscibile e sufficientemente prevedibile quanto ai suoi contenuti ed
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alle conseguenze applicative e non, in senso stretto, come disposizione legislativa adottata dal Parlamento (cfr., ex plurimis, sentenza del 17 febbraio
2004 Maestri c. Italia, che ha considerato sufficientemente satisfattiva del
principio di legalità, e cioè della necessaria previsione di una «base legale»
giustificante la limitazione della libertà di associazione di cui all’articolo 11
della CEDU, una circolare del Consiglio superiore della magistratura che
prevedeva il divieto per i magistrati di iscriversi alla massoneria).
4.3.2 - L’asserita mancanza di indipendenza dei giudici domestici
Intervenuta in diverse occasioni sull’argomento – in special modo
per affrontare la problematica dell’indipendenza dei giudici speciali – la
Corte costituzionale ha affermato che tale indipendenza va cercata piuttosto nei modi con i quali si svolge la funzione che non in quelli concernenti la nomina dei membri (sentenza n. 1 del 1967), e che per aversi
l’indipendenza dell’organo occorre che questo sia immune da vincoli i
quali comportino una soggezione formale o sostanziale da altri, che vi sia
inamovibilità e possibilità di sottrarsi alle risultanze emergenti dagli atti
di ufficio della stessa amministrazione (sentenze n. 121 del 1970 e 128
del 1974).
Si è poi anche affermato, a proposito degli estranei alle magistrature
che appartengano a sezioni specializzate, che essi ben possono essere voci
di determinati interessi specifici, purché, una volta assunti alla carica e
chiamati a riflettere sugli interessi generali del settore, risultino sottratti
a situazioni di soggezione verso l’ente di provenienza, sì da consentire la
obiettiva applicazione della legge (sentenza n. 108 del 1962).
Analogamente, la Corte di Strasburgo definisce l’indipendenza, in
negativo, come assenza di legami tra il giudice e le parti – e più specificamente come mancanza di subordinazione funzionale o di servizio tra
essi – e, in positivo, come la sussistenza di un sistema di garanzie tale da
tutelare il giudice da qualsivoglia «pressione esterna» (49).
Alla luce di questi parametri può rilevarsi quanto segue.
Scontata l’autonomia nei confronti del potere esecutivo – come ovvio,
data la forma di governo parlamentare italiana –, deve evidenziarsi che
non esiste alcuna forma di subordinazione, né di dipendenza funzionale
o di servizio tra il deputato-giudice e l’organo parlamentare, né, tanto
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meno, con l’Amministrazione della Camera che, come si vedrà, è formalmente parte nei processi innanzi agli organi di giurisdizione interna.
Per altro aspetto, va sottolineato che né i giudici di primo grado, né
quelli di appello possono temere conseguenze pregiudizievoli per il loro
status, per la loro carriera o per lo svolgimento delle proprie funzioni a
causa dell’esercizio dei compiti giurisdizionali loro attribuiti: essi, infatti,
non possono essere rimossi (50 ), non possono subire sanzioni disciplinari,
non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei
voti dati e non possono subire menomazioni nelle proprie prerogative
parlamentari. Per certi aspetti, dunque, essi godono di forme di autonomia e di indipendenza più spiccata rispetto ai magistrati comuni.
4.3.3 - L’ipotizzato difetto di terzietà dei giudici domestici
La questione relativa alla sussistenza della terzietà del giudice domestico
rappresenta, in assoluto, la problematica più rilevante dell’autodichia degli
organi costituzionali. Essa, poi, assume contorni particolarmente delicati e
spinosi per la Camera dei deputati che, a differenza del Senato (51), fa coincidere il giudice di appello, che si pronuncia «in via definitiva» sui ricorsi
presentati dai dipendenti e dai terzi, con l’organo di massimo vertice di direzione politica della Camera stessa, e cioè con l’Ufficio di Presidenza ovvero,
nei casi previsti dai menzionati regolamenti per la tutela giurisdizionale del
1988 e del 1998, con una frazione di esso, qual è la Sezione giurisdizionale
dello stesso Ufficio.
Come è noto, ad avviso della maggioranza della dottrina, ripresa peraltro
anche da alcune pronunce della giurisprudenza (52), la terzietà del foro
domestico sarebbe irrimediabilmente compromessa dal fatto che i giudici,
nominati all’interno della compagine dei deputati in carica, andrebbero a
decidere sulle controversie in cui la Camera è una delle parti in causa.
Tale affermazione, pur se contenente spunti problematici meritevoli di
particolare considerazione, deve essere tuttavia precisata ed in parte ridimensionata.
Occorre infatti evidenziare, innanzitutto, che, nella prassi applicativa, a
risultare «parte resistente» nei ricorsi presentati dai dipendenti e dai terzi,
e quindi ad essere parte processuale nelle cause innanzi al foro domestico,
è l’Amministrazione della Camera, legalmente rappresentata dal Segretario
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generale che ne costituisce il vertice (giusta quanto prevede l’articolo 7,
comma 4, lettera h), del regolamento dei servizi e del personale) e non l’Istituzione politica, che è invece rappresentata dal Presidente della Camera,
ai sensi dell’articolo 8 del Regolamento generale (53). Tale prassi risulta,
peraltro, coerente col fatto che ad adottare gli atti amministrativi impugnati dai ricorrenti sono, di regola, i Servizi amministrativi facenti parte
dell’Amministrazione della Camera, ed in special modo, com’è naturale: a)
il Servizio del personale, che normalmente adotta i provvedimenti di stato
giuridico ed economico relativi ai dipendenti in servizio ed in quiescenza,
nonché gli atti concernenti le procedure concorsuali (che sono devoluti
alla competenza della Commissione giurisdizionale per il personale); b) il
Servizio amministrazione, che emana i provvedimenti relativi alle procedure di evidenza pubblica (devoluti, invece, alla competenza del Consiglio
di giurisdizione).
In questa prospettiva, può dunque rilevarsi che in particolare i deputati
che compongono la Commissione giurisdizionale ed il Consiglio di giurisdizione, pur essendo incardinati nell’Istituzione della Camera, non partecipano in alcun modo, né direttamente, né indirettamente, alla formazione
degli atti amministrativi oggetto di impugnazione da parte di dipendenti o
di terzi, e pertanto possono ritenersi sufficientemente equidistanti e sereni
nell’approccio alle controversie sottoposte alla loro cognizione.
Deve poi segnalarsi come, per i giudici di entrambi gli organi giudicanti,
valgono pacificamente le regole sull’astensione e sulla ricusazione di cui
agli articoli 51 e seguenti del codice di procedura civile non solo in virtù
del generale rinvio alle norme processuali statali operato dalla normativa
interna, ma anche in quanto espressamente richiamate dai regolamenti per
la tutela giurisdizionale (cfr. articolo 3, comma 4, del regolamento del 1988,
e articolo 2, comma 4, del regolamento del 1998) (54).
Osservazioni più problematiche vanno, invece, svolte con riferimento alla
posizione dei membri giudicanti facenti parte della Sezione giurisdizionale,
e più in generale dell’Ufficio di Presidenza, il quale, stante il disposto dell’articolo 12, comma 6, del Regolamento generale, è il titolare della funzione
giudicante d’appello sui ricorsi presentati dai dipendenti e dai terzi.
Fermo restando, infatti, che anche nei confronti di tali deputati-giudici
sono esperibili i rimedi dell’astensione e della ricusazione che consentono di
salvaguardare quella che la Corte europea definisce l’imparzialità in senso
soggettivo, intesa come assenza di «pregiudizi» o di «partiti presi» desumibili dal comportamento del singolo magistrato (55), deve verificarsi, invece, se
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possa ritenersi garantita quella che la stessa Corte europea ritiene sia un’altra
essenziale caratteristica del giudice, e cioè l’imparzialità intesa in senso
oggettivo come terzietà funzionale dell’organo (56).
Ebbene, se la risposta a tale questione può essere di norma positiva, in
particolare nelle ipotesi in cui l’organo di appello deve giudicare sulla legittimità di un provvedimento che i suoi membri non hanno in alcun modo
contribuito a formare, in quanto di competenza esclusiva dell’Amministrazione, notevoli dubbi possono invece insorgere in alcuni casi specifici in cui,
invece, l’Ufficio di Presidenza debba vagliare atti che esso stesso, o taluni dei
suoi componenti, ha in precedenza approvato.
Tale evenienza si può verificare, ad esempio, nelle ipotesi in cui l’Ufficio
di Presidenza compia attività amministrativa, ad esempio in occasione: della
nomina e della revoca del Segretario generale, dei Vicesegretari generali e
dei Capi Servizio (cfr. articoli 7, 8 e 9 del regolamento dei servizi e del personale); dell’approvazione dei bandi di concorso ex articolo 51 del citato regolamento dei servizi; dell’autorizzazione al distacco di dipendenti presso altri
enti pubblici (articolo 86 del regolamento citato); dell’adozione del provvedimento di dispensa dal servizio di dipendenti, per motivi di salute o di insufficiente rendimento (articolo 89 del regolamento citato). Senza contare, poi, il
caso in cui siano i deputati Questori, che sono membri di diritto dell’Ufficio
di Presidenza, ad adottare atti amministrativi successivamente impugnati in
sede giurisdizionale (ad esempio, i bandi per le prove di qualificazione ex
articolo 55 del regolamento dei servizi e del personale).
Il rischio di commistione tra giudice e parte può inoltre verificarsi
qualora vengano impugnati dai ricorrenti i regolamenti cosiddetti minori
e, in generale, le delibere normative, che sono approvati dall’Ufficio di
Presidenza in virtù della potestà “legislativa” esclusiva attribuita dall’articolo 12 del Regolamento generale nelle materie da esso previste (57). Si
consideri, inoltre, che tale rischio risulta significativamente acuito da due
circostanze e cioè: a) dal fatto che, soprattutto dopo la pronuncia della
sentenza n. 154 del 1985 della Corte costituzionale, non appare ipotizzabile sollevare questione di legittimità costituzionale innanzi alla Consulta
delle norme contenute in tali regolamenti; b) è orientamento costante degli
organi di giurisdizione interna che neppure in sede di autodichia possano
essere annullati o disapplicati gli atti aventi contenuto normativo approvati
dall’Ufficio di Presidenza, in quanto fonti di rango primario (58), che però,
in tal modo, restano completamente sottratti ad ogni tipo di sindacato
giurisdizionale.
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In tali evenienze, la terzietà dell’organo giudicante appare dunque oggettivamente limitata. Nella logica sinora storicamente seguita, tuttavia, si tratta
di un’attenuazione necessaria: infatti, il compito specifico dell’Ufficio di
Presidenza della Camera, come legittimato dall’articolo 63 della Costituzione, si risolve in quello di autogoverno di questo ramo del Parlamento.
In tal senso, disponendo anche di potestà normativo-legislative, esso svolgerebbe il ruolo di reductor ad unitatem nelle scelte rilevanti per la vita interna
della Camera, nel senso che ad un unico soggetto apicale verrebbero attribuite la decisione e la responsabilità finale di tali scelte.
Tuttavia, benché sussistano motivazioni di carattere storico-costituzionale che giustificano il modello sinora adottato, sembra comunque opportuno riflettere sulla possibilità di riformare la configurazione del giudice di
appello in senso più garantista e moderno, che tenga conto delle più evolute
sensibilità in tema di diritto di difesa e di giusto processo, come d’altra parte
hanno fatto più recentemente altri organi costituzionali come il Senato e la
Presidenza della Repubblica (59).
Particolarmente utile, a tale scopo, sembra essere il già citato modello
del giudice di appello del Senato, il Consiglio di garanzia, che è composto
da cinque senatori, nominati dal Presidente del Senato tra esperti in materie
giuridiche, per i quali è prevista l’incompatibilità con la carica di membro
del Consiglio di Presidenza. In tal senso, sembrerebbe pertanto opportuno
procedere ad una riforma dell’articolo 12, comma 6, del Regolamento della
Camera ed alle conseguenti modifiche di quelle disposizioni degli articoli
dei regolamenti di tutela giurisdizionale concernenti la composizione del
giudice di appello.
4.4 - Le ragioni che ancora inducono a ritenere compatibile l’autodichia con
l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
Benché appaiano oramai necessari alcuni “aggiornamenti” all’impalcatura normativa del giudice di appello, e ancorché l’istituto dell’autodichia
risulti decisamente recessivo nelle esperienze costituzionali di altri paesi (60),
può ancora ritenersi che la limitazione all’accesso alla magistratura statale
comune, di cui al titolo IV della Costituzione italiana, a favore del giudice
parlamentare interno della Camera sia compatibile con l’articolo 6, § 1, della
CEDU.
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Non va in proposito dimenticato, al riguardo, che la stessa giurisprudenza
della Corte europea ammette limitazioni al diritto di accesso a un giudice
garantito dal citato articolo 6, purché venga perseguito uno scopo legittimo
e sussista un rapporto di ragionevole proporzione tra i mezzi impiegati e lo
scopo perseguito (61).
Ad esempio, la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo – in altro filone
giurisprudenziale concernente la verifica della legittimità dell’immunità
giurisdizionale di un’organizzazione internazionale – premesso che «l’articolo 6, § 1, della Convenzione esige che sia garantito l’accesso ad un organo
giurisdizionale, ma non necessariamente ad un tribunale nazionale», ha
ritenuto compatibile col medesimo articolo 6 una procedura di definizione
interna delle controversie tra Agenzia spaziale europea e propri dipendenti,
reputata equivalente rispetto ad una comune procedura giurisdizionale, in
quanto garantiva in modo ragionevole, efficace e concreto la protezione dei
diritti previsti dalla Convenzione (62).
Nei capoversi che seguono, sarà evidenziato perché, secondo l’orientamento tradizionale storicamente consolidatosi, l’istituzione di giudici interni
agli organi costituzionali persegue uno scopo legittimo e contempli un rapporto
di ragionevole proporzione tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito.
4.4.1 - Sulla presenza di uno scopo legittimo
Come sottolineato nei paragrafi precedenti, la ratio delle norme sull’autodichia è, da sempre, stata individuata nell’esigenza di garantire massimamente l’autonomia e l’indipendenza del Parlamento dai condizionamenti
esterni provenienti da ogni altro potere statuale, compresa la magistratura.
In particolare nell’ordinamento repubblicano, la necessità di preservare
tale indipendenza del Parlamento, sia pure entro precisi limiti fissati dalla
Costituzione del 1948, costituisce il precipitato giuridico della forma di
governo delineata nella Carta fondamentale che – nonostante le più recenti
riforme apportate al titolo V della Costituzione e malgrado le evoluzioni
ordinamentali ed istituzionali in senso europeistico – pone ancora al centro
del sistema costituzionale il Parlamento medesimo e lo rende l’istituzione
caratterizzante l’intero ordinamento. Più che in ogni altro Paese, infatti,
l’organo di diretta ed immediata espressione della sovranità popolare
gode di una speciale “primazia” rispetto agli altri poteri: oltre ad approvare le leggi statali, esso concede e revoca la fiducia al Governo; nomina
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il Presidente della Repubblica e lo mette in stato d’accusa in caso di alto
tradimento o attentato alla Costituzione; nomina un terzo dei giudici costituzionali; nomina un terzo dei componenti del Consiglio superiore della
magistratura.
Secondo il tradizionale orientamento, per garantire adeguata autonomia
ed indipendenza agli organi parlamentari appare indispensabile limitare
il sindacato giurisdizionale anche sull’attività degli uffici amministrativi
interni di tali organi, in quanto tale attività, direttamente o indirettamente,
risulta strumentale all’esercizio delle funzioni parlamentari tipiche (quella
legislativa, di indirizzo e di controllo del Governo, di indagine, di inchiesta,
di nomina dei membri di importanti organi costituzionali e di autorità indipendenti). In tale prospettiva, pertanto, l’intervento di poteri esterni che
incidesse su detta attività di supporto, ovvero sulle persone concretamente
addette allo svolgimento di essa, turberebbe, in modo diretto o indiretto, il
libero espletamento delle stesse funzioni parlamentari� (63).
È doveroso, tuttavia, soggiungere al riguardo, in una prospettiva attenta
a registrare nuove sensibilità giuridico-costituzionali, che, dopo la riforma
del 1998, il testo attualmente vigente dell’articolo 12, comma 3, lettera e), del
Regolamento generale espressamente contempla la categoria delle «attività
non direttamente strumentali all’esercizio delle funzioni parlamentari». Dal
che potrebbe da taluno ritenersi l’assoggettabilità alla giurisdizione comune
delle controversie relative a dette attività, data l’impossibilità, per definizione parlamentare stessa, di interferire con lo svolgimento delle funzioni
istituzionali.
In proposito, deve tuttavia evidenziarsi che, per un verso, tale tesi contrasterebbe inevitabilmente con il principio della parità di trattamento giurisdizionale spettante indistintamente a tutti i dipendenti della Camera e, per altro
verso, che sarebbe impossibile definire a priori, tra le tante eventuali controversie che in astratto potrebbero vedere convenuta la Camera, quella tra esse
che incida meno significativamente sullo svolgimento dell’attività parlamentare da devolvere al giudice comune. Senza contare, poi, l’incertezza di individuare il giudice competente a statuire in via definitiva sulla giurisdizione (64)�.
Di qui, l’inevitabilità dell’assegnazione al giudice interno di tutte le
controversie concernenti l’Amministrazione camerale, non essendo ragionevolmente individuabile alcuna alternativa intermedia.
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4.4.2 - Sulla sussistenza di un rapporto di ragionevole proporzione tra i mezzi
impiegati e lo scopo perseguito
Posto, dunque, che le disposizioni sull’autodichia sembrano perseguire
un fine legittimo e salvaguardare un interesse meritevole di tutela anche
secondo l’ordinamento giuridico convenzionale, pare lecito ritenere – ancor
di più se verranno portate a termine quelle riforme sulla configurazione
del giudice di appello di cui si è detto in precedenza – come gli strumenti
all’uopo impiegati siano in rapporto di ragionevole proporzione rispetto allo
scopo avuto di mira ed alle limitazioni richieste ai cittadini interessati.
Secondo il tradizionale orientamento, l’autodichia rappresenta un ineliminabile strumento a tutela dell’autonomia normativa e dell’indipendenza
del Parlamento, posto che, se il momento applicativo delle norme emanate
dall’organo parlamentare fosse rimesso al giudizio (potenzialmente di annullamento) di un potere esterno, l’autonomia e l’indipendenza stesse sarebbero
inevitabilmente dimezzate.
Appare, però, importante soprattutto evidenziare che la menzionata
proporzione risiede nel fatto che agli interessati è comunque consentito accedere ad un tribunale che giudica le controversie sulla base di norme processuali e sostanziali – e si avvale di strutture amministrative di supporto – del
tutto simili a quelle previste dal comune ordinamento giudiziario (65). Il relativo assetto configura, infatti, in particolare dopo le riforme regolamentari
degli anni 1988 e 1993, i caratteri propri dell’attività giurisdizionale, piuttosto
che quelli della definizione amministrativa delle controversie. In particolare
si evidenzia: l’esistenza della piena garanzia del contraddittorio tra le parti
(che possono farsi assistere da avvocati del foro), attraverso non solo la predisposizione di memorie giudiziali, ma anche la discussione orale in udienza;
la presenza di termini di prescrizione e di decadenza, per la proposizione
dei relativi ricorsi, in sostanziale allineamento a quelli del diritto esterno;
la possibilità di attivare strumenti di tutela cautelare (c.d. sospensiva, anche
di tipo propulsivo (66)) sia in primo grado che in appello; la considerevole
semplificazione degli adempimenti di rito, cui corrisponde una notevole
riduzione delle nullità processuali; la possibilità, da parte del giudice, di
nominare un consulente tecnico di ufficio (67) e di ammettere l’escussione di
testimoni (68); la possibilità di attivare il giudizio di ottemperanza ed il potere
di nomina da parte del giudice di un commissario ad acta (69).
Le relative strutture amministrative sono, inoltre, organizzate secondo il
parametro funzionale delle cancellerie giudiziarie, assicurano la quotidiana
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apertura al pubblico ed applicano una prassi ispirata alla trasparenza ed al
dialogo con l’esterno.
Occorre, poi, sottolineare come l’ordinamento giuridico camerale agevola
notevolmente la presentazione di ricorsi da parte di dipendenti ed estranei
sol che si pensi che: a) il deposito del ricorso è completamente gratuito, nel
senso che esso non è soggetto né a tasse, né a imposte, né a contributi fiscali
comunque denominati; b) il dipendente non ha l’obbligo di stare in giudizio
tramite un avvocato, ma può patrocinare da solo o con l’aiuto di un rappresentante sindacale o di un altro dipendente da lui designato (cfr. l’art. 5,
co. 3, RTG, per la Commissione giurisdizionale, e l’art. 6-bis, co. 9, RTG, per
la Sezione giurisdizionale) (70); c) le notificazioni degli atti nei confronti dei
controinteressati avvengono ad opera (e con spese a carico) della Segreteria
degli organi di tutela giurisdizionale; d) per un consolidato e mai contestato
orientamento interpretativo di tutti i giudici interni, il ricorrente non è mai
condannato al pagamento delle spese di giudizio, anche se soccombente.
5 - Conclusioni
Si è più volte sottolineato fin dall’inizio del presente scritto che l’autodichia della Camera – ma, naturalmente, il discorso investe direttamente anche
la giurisdizione interna degli altri organi costituzionali – si trova oggi a dover
affrontare la sfida più impegnativa degli ultimi decenni.
Per la prima volta, infatti, una Corte internazionale, la Corte europea dei
diritti dell’uomo, dovrà valutare la compatibilità dell’impianto e della disciplina del giudice domestico con il «diritto di accesso ad un giudice terzo
ed imparziale» e con i principi del «giusto processo». Più in generale, può
evidenziarsi inoltre che – dati i consolidati orientamenti giurisprudenziali
in materia, che sono stati ricordati nei paragrafi precedenti – per la prima
volta delle norme contenute in Regolamenti parlamentari saranno sottoposte
ad un sindacato giurisdizionale di merito, senza che se ne possa invocare
l’inammissibilità di rito.
Tale circostanza assume un particolare rilievo in considerazione del fatto
che sono attualmente in corso di definizione i rapporti tra ordinamento
convenzionale della CEDU ed ordinamento giuridico nazionale, in special
modo a seguito della adozione, da parte della Corte costituzionale, delle
recenti sentenze nn. 348 e 349 del 2007 (71).
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Secondo l’interpretazione contenuta nelle predette decisioni, non sarebbe
possibile riferire all’ordinamento convenzionale europeo né il parametro costituzionale offerto dall’articolo 10 della Costituzione né quello previsto dall’articolo 11 della medesima Carta fondamentale, non essendo individuabile con
riferimento alle specifiche norme convenzionali in esame «alcuna limitazione
della sovranità nazionale». Ne consegue, ad avviso della Consulta, che non
è consentita la disapplicazione del diritto interno in caso di contrasto con il
diritto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, invece ammessa in
ipotesi di conflitto del diritto nazionale con quello comunitario.
In tale prospettiva, il parametro costituzionale di riferimento deve quindi
essere individuato nell’articolo 117 della Costituzione che prevede il dovere
del legislatore ordinario di rispettare gli obblighi internazionali, «con la
conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della
CEDU e dunque con gli “obblighi internazionali” di cui all’articolo 117,
primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale».
Esclusa, quindi, un’efficacia diretta delle norme convenzionali, l’assetto
dei rapporti tra la CEDU e l’ordinamento giuridico interno dovrebbe essere
configurato nel modo seguente.
I giudici nazionali sono i «giudici comuni della Convenzione», mentre la
Corte europea dei diritti dell’uomo assicura uniformità di interpretazione delle disposizioni convenzionali negli ordinamenti degli Stati
contraenti, posto che, alla luce dell’articolo 32 CEDU, dette disposizioni vivono così come chiarite dalla Corte di Strasburgo. Quindi, i
giudici nazionali debbono interpretare la norma interna in modo conforme
alla disposizione internazionale (e quindi, all’interpretazione datane dalla
Corte di Strasburgo) e, ove vi sia un dubbio sulla compatibilità della norma
interna con la disposizione convenzionale interposta, i giudici nazionali non
possono disapplicare la norma nazionale, ma devono investire la Corte costituzionale della relativa questione di legittimità con riferimento al parametro
dell’articolo 117, per contrasto, insanabile in via interpretativa, della disposizione nazionale da applicare con i precetti della CEDU.
Ancora nella logica delineata dalla Corte costituzionale, a questa spetta
dunque sancire l’eventuale contrasto delle norme nazionali con i principi
della CEDU dopo aver previamente vagliato se le stesse norme convenzionali, nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una
tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello assicurato dalla
Costituzione italiana. Il che si traduce, per la Corte costituzionale, nel dovere
di «verificare la compatibilità della norma CEDU, nell’interpretazione del
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giudice cui tale compito è stato espressamente attribuito dagli Stati membri,
con le pertinenti norme della Costituzione. In tal modo, risulta realizzato un
corretto bilanciamento tra l’esigenza di garantire il rispetto degli obblighi
internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che ciò possa
comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa» (sent. n. 349,
diritto, par. 6.2).
Per tornare ai ricorsi avverso l’autodichia della Camera concretamente
sottoposti all’esame della Corte europea, senza voler azzardare un pronostico
sul possibile esito degli stessi, può solo evidenziarsi che, anche nell’ipotesi in
cui fossero mosse censure al sistema giurisdizionale interno di questo ramo
del Parlamento, appare ben difficile che il giudice di Strasburgo, al di là del
riconoscimento dell’equa soddisfazione di cui all’articolo 41 della Convenzione, possa direttamente disporre l’adozione di misure strutturali. Infatti,
a prescindere dal fatto che sembra improbabile che la Corte europea voglia
interferire drasticamente su un meccanismo tanto delicato che riguarda un
organo costituzionale sovrano, occorre ricordare come l’adozione di specifiche riforme normative sia stata imposta solo in occasione di violazioni seriali.
Considerato, tuttavia, che l’attuale sistema non consente per ora al giudice
comune di riconoscere efficacia diretta alle norme CEDU negli ordinamenti
giuridici nazionali e che la Corte costituzionale ritiene ancora insindacabili
i Regolamenti parlamentari, eventuali rilievi all’autodichia indicati dalla
Corte europea potrebbero costituire per la Camera occasione da non perdere
per aggiornare alcuni degli aspetti della giurisdizione interna – come quello
concernente la composizione del giudice di appello – che appaiono ancora
legati ad impostazioni costituzionali oramai in larga parte superate.
Note
(1) Non saranno quindi contemplate in questo scritto le problematiche relative alla c.d. verifica
dei poteri, cioè al giudizio sui titoli di ammissione dei parlamentari e delle sopraggiunte cause di
ineleggibilità ed incompatibilità, di cui all’articolo 66 della Costituzione.
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(2)Cfr. A.M. Sandulli, «Spunti problematici in tema di autonomia degli organi costituzionali e di giustizia domestica nei confronti del loro personale» in Giurisprudenza italiana, 1977, I,
p. 1831 ss..
(3) Cfr. C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, vol. I, Cedam, Padova, 1975; V. Crisafulli,
«Osservazioni sul nuovo Regolamento generale della Corte costituzionale», in Giurisprudenza
costituzionale, 1966, p. 362; N. Occhiocupo, «Autodichia», in Enciclopedia giuridica Treccani, IV,
Roma, 1988; S.P. Panunzio, «Sindacabilità dei regolamenti parlamentari, tutela giurisdizionale degli
impiegati delle Camere e giustizia politica nello Stato costituzionale di diritto», in Giurisprudenza
costituzionale, 1978, p. 256 ss.; P. Di Muccio, «Nemo iudex in causa propria: la politica ed il diritto
nella tutela giurisdizionale delle Camere», in Foro amministrativo 1977, I, p. 3047 ss.; G.G. Floridia F. Sorrentino, «Interna corporis», in Enciclopedia giuridica Treccani, XVII, Roma 1989; E. Lehner,
«“Regolamento per la tutela giurisdizionale relativo agli atti di amministrazione della Camera non
concernenti i dipendenti” vs. “Giusto processo”, precettività della Costituzione e primato del diritto
comunitario», in Giurisprudenza costituzionale, 2002, p. 471 ss.
(4) Le sentenze in materia di autodichia saranno dettagliatamente indicate nei paragrafi che
seguono.
(5) V. il regolamento per la tutela giurisdizionale degli atti di amministrazione della Camera non
concernenti i dipendenti, approvato con deliberazione dell’Ufficio di Presidenza del 22 giugno 1999.
(6) V. articolo 8 del regolamento per l’accesso agli atti e ai documenti amministrativi della
Camera dei deputati, approvato con deliberazione dell’Ufficio di Presidenza del 30 luglio 1997.
(7) Ad esempio quelli riguardanti l’assegno vitalizio (cfr., da ultimo, Sezione giurisdizionale
sentenza n. 1 del 2008).
(8) Cfr. articolo 4 del regolamento recante «Normativa in tema di protezione dei dati personali», approvato dall’Ufficio di Presidenza con deliberazione del 26 ottobre 2004, n. 208.
(9) Cfr. decreto del presidente del Consiglio di giurisdizione del 25 marzo 2003.
(10) Si pensi, ad esempio, all’ordinanza cautelare emessa dal TAR per il Lazio, sez. III-ter, del
22 febbraio 1996, n. 188, in cui fu affermata la giurisdizione del g.a. in relazione ad una controversia
insorta tra la Camera ed una ditta in occasione dello svolgimento di una procedura di gara a licitazione privata per l’affidamento di un appalto di servizi. A causa di tale pronuncia, l’Ufficio di Presidenza decise di sottoporre all’Assemblea la proposta di sollevare conflitto di attribuzione innanzi
alla Consulta nei confronti del TAR per il Lazio (Cfr. Bollettino degli Organi collegiali del 16 aprile
1996, n. 26), ma, a quanto consta, detta deliberazione non ebbe alcun seguito. Si rifletta, ancora, sulle
note sentenze delle sezioni unite civili della cassazione nn. 136 e 204 del 1999, con cui è stata affermata la giurisdizione del giudice ordinario sulle contestazioni riguardanti atti della Camera relativi
alla erogazione di contributi finanziari a partiti politici, a titolo di concorso per le spese sostenute per
l’elezione dei consigli regionali (ex l. n. 659 del 1981). Anche in tale occasione, pur essendosi aperto
un intenso dibattito interno, si è deciso, almeno per il momento, di soprassedere sulla possibilità
di reinvestire la Corte costituzionale della questione circa l’ambito di estensione dell’autodichia,
benché sussistessero serie ragioni per contestare quanto affermato dalla Cassazione.
(11) Nelle more della pubblicazione del presente scritto è intervenuta, dopo la discussione in
udienza pubblica tenutasi a Strasburgo il 2 dicembre 2008, l’attesa sentenza della Corte europea
che è stata pubblicata sul sito della Corte medesima (www.echr.coe.int) il 28 aprile 2009. Di tale
sentenza, dunque, si dà conto solo nella presente nota, rimandando ad un approfondimento futuro
il commento di tale fondamentale arresto giurisprudenziale, le cui conclusioni risultavano peraltro
già ampliamente anticipate nei paragrafi 4 e 5 del testo (al riguardo, sia consentito di rinviare a
G. Pelella, «Si consolida l’autodichia parlamentare dopo il vaglio della Corte europea dei diritti
dell’uomo», in Rassegna parlamentare n. 4 del 2009, pp. 1077 - 1097).
Con tale pronuncia la Corte:
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La giurisdizione interna della Camera dei deputati
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a)
ha rigettato le eccezioni di improcedibilità dei ricorsi sollevate dal Governo italiano (e dalla
Camera dei deputati) sulla base dell’asserita inapplicabilità ai ricorrenti delle garanzie di cui
all’articolo 6, § 1, della Convenzione;
b)
ha affermato, con ciò accogliendo alcune richieste dei ricorrenti, che nei casi esaminati vi
è stata violazione dell’articolo 6, § 1, della Convenzione – e più precisamente delle prescrizioni sull’equo processo concernenti la necessaria indipendenza ed imparzialità oggettiva
dell’organo giudicante – nella misura in cui, a livello nazionale, le controversie intentate
dai ricorrenti sono state decise, in via definitiva, dalla Sezione giurisdizionale dell’Ufficio
di Presidenza della Camera dei deputati, i cui componenti sono tutti membri dell’Ufficio di
Presidenza medesimo, che è competente a disciplinare le principali questioni amministrative della Camera e che, nelle fattispecie esaminate, aveva adottato alcuni atti impugnati dai
ricorrenti medesimi;
c)
ha ritenuto che la constatazione della violazione dell’articolo 6, § 1, della Convenzione costituisca di per sé un’equa soddisfazione ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione;
d)
ha quantificato in 10.000 euro le somme che lo Stato italiano deve rimborsare a ciascuno dei
sette ricorrenti in relazione alle spese processuali sostenute per la procedura innanzi alla
Corte stessa.
Benché siano state accolte le istanze dei ricorrenti e sebbene appaia indispensabile oramai una
riforma della composizione del giudice di appello interno della Camera dei deputati, la sentenza in
esame contiene rilevantissime affermazioni che, di fatto, consolidano notevolmente la legittimità
dell’autodichia e, più specificamente, la compatibilità di quest’ultima rispetto ai principi fondamentali del giusto processo. In particolare, infatti, la Corte ha sostenuto che:
a)
la Commissione giurisdizionale per il personale e la Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di
Presidenza della Camera svolgono funzioni sostanzialmente giurisdizionali, posto che essi
decidono le controversie loro sottoposte con pienezza di giurisdizione e secondo procedure
organizzate, di modo che le loro decisioni sono vincolanti tanto per l’Amministrazione
quanto per i ricorrenti (v. § 74 della sentenza);
b)
non può essere messo in discussione il potere della Camera dei deputati e degli altri organi
costituzionali di istituire un sistema giudiziario interno e di regolamentare in modo autonomo la tutela giurisdizionale dei rispettivi dipendenti, nonché i rapporti giuridici con i terzi.
Infatti, né l’articolo 6, § 1, né alcuna altra disposizione della Convenzione obbligano gli Stati
e le loro istituzioni a conformarsi ad uno specifico ordinamento giudiziario. Al riguardo,
la Corte rammenta la propria giurisprudenza secondo la quale, con il termine «tribunale»,
l’articolo 6, § 1, della Convenzione non vuole necessariamente riferirsi ad una giurisdizione
di tipo classico, integrata alle strutture giudiziarie ordinarie del Paese (v. § 91);
c)
non può essere imposto agli Stati un modello costituzionale precostituito che regoli in un
modo o in un altro i rapporti e le interazioni tra i differenti poteri statali. Pertanto, la scelta
del legislatore italiano di preservare l’autonomia e l’indipendenza del Parlamento, riconoscendo ad esso l’immunità rispetto alle giurisdizioni comuni, non può costituire in sé
oggetto di contestazione innanzi alla Corte (v. § 91);
d)
il fatto che gli organi di giurisdizione interna della Camera siano istituiti e disciplinati da
regolamenti parlamentari minori, e non dalla legge statale, soddisfa l’esigenza della necessaria «base legale» richiesta dall’articolo 6, § 1, della Convenzione, in quanto si tratta di atti
facilmente accessibili e comprensibili (v. § 98 e 99);
e)
pur essendo condivisibili le censure dei ricorrenti in ordine alla composizione del giudice
di appello della Camera dei deputati (formato interamente da membri dell’Ufficio di Presidenza), non può dubitarsi dell’indipendenza degli organi di giurisdizione interna per il solo
fatto che i componenti di questi ultimi siano scelti tra i deputati in carica (v. § 104).
(12) La Carta dei diritti fondamentali – da ultimo proclamata solennemente a Strasburgo dal
Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione (12 dicembre 2007) – a seguito della ratifica
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del Trattato di Lisbona, avrà anche formalmente lo stesso valore giuridico dei Trattati comunitari
(cfr. articolo 6 del Trattato sull’Unione, come modificato dal citato Trattato di Lisbona). In questa
sede può notarsi che l’articolo 47 di tale Carta riproduce sostanzialmente quanto previsto dai citati
articoli 6 e 13 della CEDU.
(13) Non vi sono allo stato precedenti in cui l’Ufficio di Presidenza abbia deciso nel suo plenum
su ricorsi in appello. Si segnala, tuttavia, un recente caso in cui la Sezione giurisdizionale dell’Ufficio
di Presidenza ha sottoposto alla valutazione del Presidente della Camera l’opportunità, ai sensi di
quanto previsto dall’articolo 6-bis, comma 2, del regolamento per la tutela giurisdizionale dei dipendenti, di devolvere ex post al plenum dell’Ufficio una controversia già sottoposta alla cognizione
della Sezione e in relazione alla quale erano già state effettuate alcune udienze (v. decreto del Presidente della SGUP n. 1 del 12 marzo 2008). Tale rinvio, motivato dalla particolare delicatezza delle
questioni di diritto trattate, è stato effettuato in analogia a quanto la legge consente al Presidente del
Consiglio di Stato in relazione a controversie già assegnate alle sezioni semplici (v. articolo 45 del r.d.
n. 1054 del 1924). Con provvedimento adottato dal Presidente della Camera nella XVI legislatura,
tuttavia, è stata confermata la competenza della Sezione giurisdizionale, che si è poi definitivamente
pronunciata nel merito della controversia (cfr. sent. n. 1 del 2009).
(14)In Foro Italiano, 1898, III, p. 101. Tale decisione risultava conforme ai precedenti della
giurisprudenza del Consiglio di Stato francese che, già tempo addietro, si era espresso in termini
analoghi. La decisione stessa, tuttavia, pur apparendo nella sostanza conforme ai principi generali
regolatori della materia, fu criticata dal Mortara, ad avviso del quale si sarebbe più correttamente
dovuto esplicitare che l’atto oggetto del ricorso non fosse un «atto o provvedimento di autorità amministrativa o di corpo amministrativo deliberante ai sensi dell’articolo 24», e che pertanto la ragione di
escludere il sindacato di legittimità derivava non dalla qualità dell’atto, ma da quella dell’organo da
cui emanava (cfr. Mortara, Commentario del Codice e delle leggi di procedura civile, Milano, 1924,
vol. II, n. 548, in nota). Su posizioni nettamente diverse – e per certi aspetti più avanzate, in quanto
anticipatrici dell’intenso dibattito dottrinale che successivamente si sviluppò attorno alla questione
del sindacato sugli «atti amministrativi delle autorità non amministrative» – fu il Lessona, il primo a
commentare la sentenza in esame (v. Foro Italiano, 1898, III, p. 105 ss.). Tale autore, infatti, sostenne
che la Camera ed il Senato, quando provvedono all’amministrazione interna, sono corpi amministrativi deliberanti e, se ledono interessi di individui violando la legge, i relativi provvedimenti sono
impugnabili innanzi al Consiglio di Stato.
(15) CdS, sezione IV, decisione del 12 agosto 1927 (in Foro Italiano, 1928, III, p. 45 ss.).
(16) V. S. Romano, «Gli atti di un ramo del Parlamento e la loro pretesa impugnabilità dinnanzi
alla IV Sezione del Consiglio di Stato», in Il Circolo giuridico 1899, p. 77 ss.; G. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto costituzionale, Torino, 1913, pp. 407 e 408; O. R anelletti, Le guarentigie amministrative e giurisdizionali della Giustizia nell’amministrazione, Milano 1930, pp. 91 e 488.
(17) Atti del Parlamento italiano, Senato del Regno, Sessione 1887-1888. Documenti. Stamp. n. 6.
(18) In dottrina, v. G. Cristofanetti. «Se vi siano atti amministrativi del Senato e della Camera
dei deputati impugnabili avanti alla IV sezione del Consiglio di Stato», in La legge, 1899, I, p. 33 ss.;
C. Finzi, L’autonomia amministrativa ed economica delle Assemblee legislative, Camera dei deputatiSegreteria generale, Roma, seconda ristampa del 1980, p. 167. In giurisprudenza, può ricordarsi la
causa intentata nei confronti della Camera dei deputati dagli architetti Talamo e Mannajuolo, decisa
in senso favorevole ai ricorrenti prima dalla Corte di cassazione di Roma con sentenza del 28 giugno
1904 (in Giurisprudenza Italiana, 1904, I, 1, p. 889) e poi, definitivamente, dalla corte di appello di
Roma con sentenza dell’11 dicembre 1905. Nella specie, la Camera dopo aver bandito un concorso
per la costruzione di una nuova Aula ed avere approvato in Comitato segreto la relazione della
Commissione che presceglieva appunto il progetto presentato dai citati professionisti, aveva respinto
il disegno di legge che stanziava i fondi per l’esecuzione del progetto stesso. Di qui, da parte degli
autori del progetto, una domanda giudiziale di risarcimento danni. In questa occasione la Camera
fu condannata, in via definitiva dalla corte d’appello di Roma, al pagamento ai predetti architetti
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della somma di lire 84.898, 24 (somma che fu stanziata dal Governo, su richiesta del Presidente della
Camera).
(19) Con deliberazione del 16 dicembre 1999, la Corte costituzionale ha approvato un nuovo
regolamento che disciplina compiutamente, in sostituzione di quello precedente approvato nel 1960,
i «ricorsi in materia di impiego» presentati dai suoi dipendenti (pubblicato in G.U., n. 28 del 4
febbraio 2000). Tale regolamento affida la decisione su dette controversie ad un collegio composto
dai tre giudici più anziani della Corte che non facciano parte dell’Ufficio di Presidenza, né della
Commissione di disciplina. Per espressa previsione regolamentare la giurisdizione in esame è esclusiva, nonché di merito in materia di sanzioni disciplinari. Sono previste modalità atte a garantire il
diritto di difesa e il contraddittorio tra le parti. Sull’eventuale appello giudica la Corte in composizione ordinaria, senza la partecipazione dei giudici che hanno adottato la sentenza di primo grado.
(20) Dopo la sentenza n. 154 del 1985 della Consulta, anche la Corte di cassazione ne ha sempre
ribadito i suoi fondamentali principi (Cfr. Cassazione, SS.UU., n. 2862 del 1986; Cassazione, SS.UU.,
n 6241 del 1988; Cassazione, SS.UU., n. 1993 del 1992; Cassazione, SS.UU., n. 317 del 1999; Cassazione, SS.UU., n. 16267 del 2002; Cassazione, SS.UU., n. 11019 del 2004; Cassazione, SS.UU., n.
14085 del 2004; Cassazione, SS.UU., n. 11623 del 2006).
(21) La suesposta necessità era avvertita da tempo già nelle massime sedi interne della Camera
sol che si pensi che l’on. Lucifredi, nella seduta antimeridiana del 2 febbraio 1971, in occasione
della discussione della riforma del Regolamento parlamentare, disse tra l’altro: «Io ritengo che è
soltanto in base al sopravvivere di una tradizione che non ha più ragion d’essere se gli impiegati
ed i funzionari del Parlamento sono privi di quelle garanzie costituzionali che l’articolo 113 Cost.
esige nei confronti di tutti i cittadini. Non è certo un problema da affrontare in questa sede; però
mi permetto di approfittare di questa occasione per esprimere la mia ferma convinzione che a ciò si
debba arrivare, cioè che si deve arrivare ad una forma di tutela giurisdizionale in favore dei dipendenti di questa Camera» (tratto dal volume Il nuovo Regolamento della Camera, edito dalla Camera
dei deputati, Roma 1975, p. 266).
(22) In proposito, v. i chiari interventi in tal senso da parte dell’on. Mario Tassone e dell’on.
Alberto Lembo in occasione della discussione delle modifiche agli articoli 12 e 62 del Regolamento generale (Atti parlamentari Camera, XIII legislatura, Discussioni, LXXXI, sedute del 14 e 16
dicembre 1998).
(23) Si pensi alla già citata ordinanza del TAR del Lazio, sez. III-ter, del 22 febbraio 1996
n. 188 – in relazione alla quale come, detto, l’Ufficio di Presidenza della Camera ipotizzò di sollevare
conflitto di attribuzione – che affermò la giurisdizione del giudice amministrativo sulla base del
rilievo che la Camera, quando svolge procedure di gara per l’affidamento di appalti pubblici, deve
essere considerata alla stessa stregua di una normale amministrazione pubblica, e come tale sottoposta alla normativa comunitaria e statale in materia. Nello stesso senso e sempre in sede cautelare,
si v. CdS., sez. IV, ordinanza 21 ottobre 1998, n. 1699; CdS, sez. IV, ordinanza n. 1589 del 1995. Non
mancavano, però, pronunce in senso abdicativo della giurisdizione: cfr. TAR Lazio, sez. I, ordinanza
del 25 settembre 1997, n. 2475; TAR Lazio, sez. I, ordinanza del 15 luglio 1998 n. 2121.
(24) Cfr. TAR del Lazio, sez. I, sentenza 21 dicembre 1999, n. 3863; TAR del Lazio, sez. I,
sentenza n. 698 del 4 febbraio 2000; TAR del Lazio, sez. I, sentenza n. 1030 dell’11 febbraio 2006;
TAR del Lazio, sez. I, sentenza n. 5462 del 6 giugno 2007.
(25) Si v. TAR Lazio, sez. I, n. 1030 del 2006, confermato da CdS, sez. IV, n. 3008 del 2007, che
così si esprime: «Va da sé che rispetto all’impugnativa di un atto di gara d’appalto indetta dalla
Camera vi è difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sussistendo ai sensi del relativo regolamento, la competenza a giudicare degli organi interni (...). Viceversa, una norma di analogo tenore,
estensiva del potere di autodichia anche al contenzioso instaurato da terzi avverso atti diversi da
quelli relativi ai dei dipendenti, rebus sic stantibus, non è dato rinvenire nel Regolamento del Senato,
sicché, allo stato, la giurisdizione domestica in tale ambito deve ritenersi limitata alle controversie
relative allo status giuridico ed economico dei dipendenti nonché a quelle vertenti sull’esclusione
da una procedura concorsuale volta alla costituzione di un rapporto di impiego. Di conseguenza il
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contenzioso che, come quello in esame, è stato instaurato da un extraneus ed è relativo ad altri atti
[si trattava di un provvedimento di non ammissione ad una gara d’appalto di servizi, n.d.r.] non può
che rientrare che nella giurisdizione di un giudice “esterno” al Senato della Repubblica».
(26) Cfr. TAR del Lazio, sez. I, n. 4784 del 2007. Si noti, al riguardo, come tale regolamento del
Senato non ha istituito, come alla Camera, un nuovo organo giudicante, ma ha devoluto la cognizione
delle controversie in materia di appalto alla stessa Commissione contenziosa competente per i ricorsi
dei dipendenti, sia pure con una diversa integrazione. Tale Commissione, infatti, è composta, di
base, da tre senatori (nominati dal Presidente del Senato tra senatori esperti in materie giuridiche
amministrative e del lavoro), ma, mentre per le controversie con i dipendenti e con i concorrenti ai
concorsi per l’accesso ai ruoli essa è integrata da un consigliere parlamentare e da un dipendente
nominato dal Presidente del Senato nell’ambito di una terna eletta da tutti i dipendenti, invece, per
quanto attiene ai ricorsi presentati dai terzi, relativamente agli appalti, essa è completata da altri
due membri, nominati dal Presidente del Senato tra magistrati a riposo delle supreme giurisdizioni
amministrative o ordinarie, avvocati con almeno venti anni di esercizio o professori universitari in
materie giuridiche.
(27) Il conflitto era stato sollevato dalla Camera dei deputati nei confronti del tribunale di
Roma, sezione giudice delle indagini preliminari, che, ritenendo non applicabile l’articolo 68,
primo comma, della Costituzione, aveva deciso di dar seguito al procedimento penale avviato dal
pubblico ministero nei confronti di due deputati indagati per i reati di falsità ideologica commessa
dal pubblico ufficiale in atti pubblici (479 c.p.) e sostituzione di persona (494 c.p.) – caso dei c.d.
deputati-pianisti. Nella seduta del 16 febbraio 1995, tali deputati, infatti, avevano votato in luogo di
altri colleghi non presenti in Aula.
(28) Come noto, tale disposizione prevede il controllo giurisdizionale di legittimità da parte
della Cassazione su tutte le «sentenze», intendendosi per tali, secondo una prassi interpretativa
costituente oramai diritto vivente, tutti i provvedimenti a contenuto decisorio incidenti su diritti
soggettivi ed idonei al giudicato.
(29) Si trattava di un ricorso promosso da un gruppo di dipendenti che contestava la legittimità di una deliberazione dell’Ufficio di Presidenza del 1980, che aveva disposto l’inquadramento
funzionale-retributivo iniziale della categoria professionale cui essi appartenevano al primo livello
anziché, come da loro auspicato, al secondo.
(30) La controversia, in effetti, aveva avuto origine dall’esclusione dalla prova orale di taluni
candidati al concorso per assistente parlamentare.
(31) In effetti, nessuna altra sentenza ha mai affrontato esplicitamente la nevralgica questione
della compatibilità dell’autodichia con il nuovo testo dell’articolo 111 della Costituzione.
(32) Per quanto riguarda le controversie dei gruppi parlamentari, v. Cass., SS.UU., ord. n. 3335
del 2004, che ha riconosciuto la giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla contestazione
originata dalla domanda di pagamento di somme a titolo di compenso per prestazioni professionali
eseguite su incarico di un gruppo parlamentare. Per quanto invece concerne i c.d. portaborse, v.
Cass., SS.UU., sent. n. 5234 del 1998, che ha riconosciuto la giurisdizione del giudice del lavoro per
le controversie intentate dal collaboratore di un deputato nei confronti di quest’ultimo, posto che
nella fattispecie, come normalmente avviene in questi casi, tra ai due era stato instaurato un rapporto
di lavoro secondo gli schemi contrattuali dell’articolo 2222 c.c. (contratto d’opera professionale),
mentre la Camera ne era rimasta completamente estranea.
(33) Si v. regolamenti di attuazione della legge 10 dicembre 1993, n. 515, recante disciplina delle
campagne elettorali per le elezioni alla Camera dei deputati ed al Senato della Camera e del Senato,
adottati rispettivamente il 26 ed il 21 luglio 1994.
(34) In questo senso v., però, anche Cass., SS.UU., n. 12614 del 1998 – in cui viene riconosciuta
la giurisdizione amministrativa in ordine alle controversie della Presidenza della Repubblica con i
propri dipendenti (su cui v. infra). In base a detta pronuncia, che in verità non è stata più ripresa nelle
decisioni successive della suprema Corte, «nell’attuale assetto costituzionale è lecito dubitare che
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l’autodichia costituisca un necessario attributo implicato dalla posizione di autonomia ed indipendenza degli organi costituzionali. E ciò sia perché siffatta potestà implicita non sembra desumibile
dal principio della separazione dei poteri, che, nel vigente ordinamento costituzionale non è assoluto, nel senso di assicurare l’indifferenza e l’impenetrabilità assoluta tra i vari organi e le rispettive
funzioni primarie, ma è attuato mediante forme di reciproco controllo (...). Sia soprattutto perché
la tutela giurisdizionale costituisce principio cardine dell’ordinamento, atteso che la Costituzione
assicura a “tutti” la tutela giurisdizionale dei propri diritti ed interessi legittimi, sicché le limitazioni
a tale regola generale devono essere espressamente previste (e sorrette da adeguata giustificazione)».
(35) Ci si riferisce a CdS, sezione IV, n. 3008 del 2007, in cui i giudici di Palazzo Spada, pur non
essendo stata sollevata apposita eccezione, confermano incidentalmente in appello la giurisdizione
del g.a. su una controversia concernente una procedura d’appalto espletata dal Senato antecedentemente all’approvazione delle nuove disposizioni regolamentari del 2005 riguardanti il contenzioso
sugli appalti. In proposito, il Consiglio di Stato afferma che la sentenza di primo grado «risulta
sostanzialmente corretta per la sua coerenza con la giurisprudenza della Corte di giustizia delle
Comunità europee, che con la sentenza 17 settembre 1998 in C-323/96, ha rilevato come le direttive
sugli appalti pubblici si applichino anche nei confronti del potere legislativo, da qualificare come
amministrazioni aggiudicatrici».
La menzionata asserzione, per quanto limitata ad un obiter dictum, se analizzata con attenzione,
contiene un principio rivoluzionario, cioè quello secondo cui l’autodichia sarebbe contrastante con
la giurisprudenza della Corte di giustizia, almeno in materia di appalti. Dal che il giudice italiano
potrebbe anche dedurre il potere di disapplicare la norma (parlamentare) contrastante, in virtù del
noto principio del primato del diritto comunitario inaugurato a partire dalla celebre sentenza della
Corte di Lussemburgo del 15 luglio 1964, in c. 6/64, Costa c. Enel (in tal senso si veda chiaramente
E. Lehner, Regolamento per la tutela giurisdizionale ... cit., p. 508 ss.).
Il riferimento alla sentenza della Corte di giustizia del 17 settembre 1998 (Commissione c. Regno
del Belgio), tuttavia, non appare conferente. In tale decisione, infatti, il giudice europeo si era limitato soltanto ad affermare che gli organi legislativi (nella specie il Vlaamse Raad, cioè il Parlamento
fiammingo) devono ritenersi assoggettati alle normative comunitarie in materia di appalto, come
ogni altro ente pubblico. Ciò che, peraltro, costituisce principio indiscusso nell’operare quotidiano
delle Amministrazioni degli organi costituzionali e, segnatamente, della Camera dei deputati. Nulla,
però, la Corte di giustizia aveva detto in ordine alla necessità che fosse un giudice statale nazionale,
piuttosto che un’altra istanza giudicante, a dover decidere sulle relative controversie.
(36) V. CdS, sez. I, parere del 28 giugno 2000 (n. sez. 1248-bis/89).
(37) È noto che con i decreti del Presidente della Repubblica nn. 81/N del 24 luglio 1996 e
89/N del 9 ottobre 1996 sono stati istituiti, all’interno della Presidenza della Repubblica, organi
giudicanti interni sui ricorsi presentati dai dipendenti. Tali disposizioni prevedono l’istituzione di:
un «Collegio giudicante», competente in primo grado, che è composto da un consigliere di Stato,
da un consigliere della corte d’appello e da un referendario della Corte dei conti (designati rispettivamente dai Presidenti del Consiglio di Stato, della corte d’appello e della Corte dei conti) e da
due dipendenti della Presidenza della Repubblica (di cui uno designato dal Segretario generale e
l’altro sorteggiato nell’ambito di una terna eletta da tutti i dipendenti); e di un «Collegio di appello»,
competente in secondo grado, che è composto da un presidente di sezione del Consiglio di Stato, da
un consigliere di Cassazione e da un consigliere della Corte dei conti (designati rispettivamente dai
Presidenti del Consiglio di Stato, della Corte di cassazione e della Corte dei conti).
(38) Cfr. Cass., SS.UU., n. 2979 del 1979; Cass., SS.UU., n. 3422 del 1988; Cass., SS.UU., n. 12614
del 1998; CdS, sez. IV, n. 178 del 1997.
(39) CdS, sez. IV, n. 178 del 1997.
(40) Per limitarsi ad un recente esempio che riguarda la legislazione italiana, si pensi allasentenza
6 marzo 2007 (ricorso n. 43662/98) – causa Scordino ed altri c. Italia – che ha demolito l’istituto
della espropriazione indiretta, di risalente origine giurisprudenziale e poi codificato dall’articolo
43 del D.P.R. n. 327 del 2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
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di espropriazione per pubblica utilità), che, ad avviso della Corte, viola il principio di legalità, in
quanto esso, da un lato, non è in grado di assicurare un sufficiente grado di certezza nei rapporti
giuridici e, dall’altro, determina conseguenze imprevedibili o arbitrarie per i soggetti interessati. Al
riguardo, la Corte ha sostenuto che l’istituto in parola permette (inammissibilmente) all’amministrazione pubblica di occupare un terreno (anche sulla base di autorizzazione successivamente annullata
o persino in mancanza, ab initio, del titolo abilitativo), di trasformarlo irreversibilmente e conseguentemente di acquisirlo al suo patrimonio, senza mai adottare alcun atto formale che dichiari
il passaggio della proprietà. In assenza di tale atto che formalizzi l’espropriazione, l’elemento che
permette di trasferire ufficialmente al patrimonio pubblico il bene occupato e di assicurare una
definitiva certezza giuridica è rappresentato dalla sola decisione del giudice che constata l’illegalità
del comportamento dell’amministrazione
(41) Tale prassi si fonda su una precisa scelta del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa
che, nell’ambito delle misure tendenti a garantire l’effettività del meccanismo stabilito dalla CEDU,
ha adottato la risoluzione del 12 maggio 2004 (Res(2004)3) – da valutare nel contesto di un significativo aumento del carico di lavoro della Corte europea dei diritti dell’uomo a causa di una serie di
ricorsi presentati a seguito di violazioni strutturali e ripetitive – sulle sentenze che riscontrano problemi strutturali negli ordinamenti nazionali. Questa risoluzione, dopo aver sottolineato l’intento di
aiutare gli Stati ad individuare sia i problemi strutturali che le necessarie misure di esecuzione, ha
invitato la Corte «à identifier dans les arrêts où elle constate une violation de la Convention ce qui,
d’après elle, révèle un problème structurel sous-jacent et la source de ce problème, en particulier lorsqu’il
est susceptible de donner lieu à de nombreuses requêtes, de façon à aider les Etats à trouver la solution
appropriée et le Comité des Ministres à surveiller l’exécution des arrêts».
(42) Cfr. sent. 26 novembre 1992, Francesco Lombardo c. Italia, par. 17; sent. 24 agosto 1993,
Massa c. Italia, par. 26; sent. 17 marzo 1997, Neigel c. Francia, par. 43 ss.
(43) Cfr. sent. 2 settembre 1997, De Santa c. Italia, par. 18; sent. 2 settembre 1997, Nicodemo c.
Italia, par. 18; sent. 24 agosto 1998, Benkessiouer c. Francia, parr. 29-30.
(44) Tale valutazione è confermata dall’opinione dissenziente di quattro giudici, ad avviso dei
quali i nuovi e più restrittivi criteri indicati nella sentenza non servono a fare chiarezza, ma creeranno alla Corte maggiori difficoltà interpretative in occasione delle future pronunce.
(45) Nelle osservazioni difensive, presentate dal Governo italiano innanzi alla Corte europea dei
diritti dell’uomo nei casi riguardanti la Camera, è stata sostenuta l’inapplicabilità, ai casi di specie,
dell’articolo 6, § 1, CEDU proprio sul rilievo per cui alcuni impieghi pubblici comportano una
missione di interesse generale, nonché una compartecipazione all’esercizio della funzione pubblica e
della sovranità dello Stato. Dal che consegue che lo Stato stesso ha un legittimo interesse ad esigere
da tali impiegati uno speciale legame di lealtà e di fiducia.
(46) In particolare, si evidenzia che l’articolo 108 della Costituzione prescrive che «le norme
sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge» e che «la legge assicura
l’indipendenza dei giudici speciali».
(47) Cfr. S. P. Panunzio, «Sindacabilità dei regolamenti parlamentari, tutela giurisdizionale
degli impiegati delle Camere e giustizia politica nello Stato costituzionale di diritto», in Giurisprudenza costituzionale, 1978, I, p. 258 ss.; V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, II, Giuffrè,
Milano, 1984, p. 136 ss.
(48)V. Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, Vilho Eskelinen ed altri c.
Finlandia, del 19 aprile 2007, parr. 61 - 62.
(49) In tal senso, v. sentenza 25 febbraio 1997, Findlay c. Regno Unito, par. 73.
(50) È interessante notare come la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 28
giugno 1984, Campbell e Fell c. Regno Unito, ha evidenziato che non è necessaria un’espressa statuizione legislativa a tutela dell’inamovibilità, essendo sufficiente un suo riconoscimento di fatto, in
presenza delle altre condizioni a tutela dell’indipendenza.
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(51) Il giudice di appello al Senato è costituito da cinque senatori nominati dal Presidente del
Senato, sentito il Consiglio di Presidenza, tra esperti in materie giuridiche, amministrative e del
lavoro (e con la qualifica di magistrato, avvocato o professore universitario di diritto). È espressamente prevista la incompatibilità con la carica di componente del Consiglio di Presidenza (cfr.
articolo 75 del Testo unico delle norme regolamentari dell’Amministrazione riguardanti il personale
del Senato della Repubblica).
(52) V., in particolare, P. Di Muccio, «Nemo iudex in causa propria ...» cit., p. 3050 ss.; E. Lehner,
Regolamento per la tutela giurisdizionale ... cit., p. 479 ss.. In giurisprudenza, v. Cass. SS.UU. n. 317 del
1999, cit.
(53) Un esempio in cui la Camera dei deputati è parte nel processo come Istituzione politica, e
come tale è rappresentata dal Presidente, si rinviene nei giudizi per conflitti di attribuzione tra poteri
dello Stato, di cui all’articolo 134, secondo alinea, della Costituzione.
(54) Al riguardo, esistono precedenti nei quali singoli componenti della Sezione giurisdizionale
si sono astenuti dal giudicare su controversie nelle quali potessero esser interessati in ragione di altre
loro competenze: ad esempio, la sentenza n. 17 del 2003, pronunciata con l’astensione del vicepresidente Alfredo Biondi, il quale presiedeva anche la commissione del concorso al quale si riferiva la
controversia. Così come un recente caso di astensione si è verificato nella causa P. c. Amministrazione della Camera, in cui l’udienza innanzi alla Commissione giurisdizionale, in origine tenuta in
data 13 novembre 2007, è stata ripetuta l’11 dicembre 2007, innanzi al medesimo collegio giudicante
in diversa composizione, a seguito dell’astensione, per ragioni personali, dell’on. Crapolicchio.
(55) Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, seduta plenaria, 24 maggio 1989, Hauschildt c.
Danimarca, che evidenzia come esista una sorta di presunzione circa l’imparzialità soggettiva del
giudice e che la prova contraria va offerta analizzando i convincimenti personali manifestati dal
giudice in occasione dello svolgimento del processo a lui affidato
(56) Cfr. sent. 28 ottobre 1998, Castillo Algar c. Spagna.
(57) Si noti che questo costituisce uno dei casi concretamente sottoposto all’esame della Corte
europea dei diritti dell’uomo, in cui i ricorrenti, dipendenti della Camera, avevano impugnato
innanzi alle istanze interne il Protocollo integrativo del regolamento di amministrazione e contabilità della Camera, approvato dall’Ufficio di Presidenza, nella parte in cui esso non prevede la
corresponsione dei c.d. incentivi di progettazione di cui all’articolo 18 della l. n. 109 del 1994.
In proposito, può segnalarsi un significativo precedente della Corte europea dei diritti dell’uomo
(sentenza del 28 settembre 1995, Procola c. Lussemburgo) in cui è stato esaminato il caso relativo
ad un ricorso deciso dal Consiglio di Stato del Lussemburgo, i cui componenti, per quattro quinti,
avevano preso parte, come consulenti del Governo, all’elaborazione del regolamento impugnato. In
quella occasione, la Corte di Strasburgo aveva concluso che la confusione di attività consultive e
giurisdizionali sulle stesse questioni è tale da mettere in forse l’imparzialità strutturale dell’organo, in
quanto i suoi componenti possono sentirsi legati alla precedente decisione o almeno poter sembrare
di esserlo, il che è sufficiente a far legittimamente dubitare dell’imparzialità del soggetto giudicante.
A sostegno di tale conclusione, la Corte richiama la nozione di indipendenza e di imparzialità «oggettiva», sottolineando come sia elemento determinante che il giudice ispiri fiducia ai cittadini e che i
dubbi ed i sospetti di parzialità della parte nei suoi confronti siano «obiettivamente giustificati».
(58) Cfr. Consiglio di garanzia del Senato del 12 giugno 1990; Consiglio di Giurisdizione della
Camera n. 1 del 17 novembre 1999; Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza n. 34 del 25
novembre 2004.
(59) Si noti, in proposito, che eventuali modifiche in materia dovranno necessariamente intervenire attraverso un’espressa novella non solo dei regolamenti minori sulla tutela giurisdizionale, ma
anche del Regolamento generale, posto che è quest’ultimo ad individuare nell’Ufficio di Presidenza
il giudice di appello sui ricorsi presentati dai dipendenti e dai terzi.
(60) Ad esempio, in Francia, la peculiarità dello stato giuridico del personale degli organi parlamentari non ha impedito che il sistema di tutela dei lavoratori evolvesse nel tempo verso la limita-
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zione dei poteri unilaterali delle amministrazioni parlamentari e verso la cognizione dei tribunali
amministrativi sulle controversie concernenti i dipendenti del Parlamento, qualificati dalla legge
come «funzionari dell’amministrazione statale» (cfr. art. 8 dell’ord. n. 58-1100 del 17 novembre
1958, come modificata dalla legge n. 83-362 del 13 luglio 1983).
Analogamente, in Germania, i dipendenti del Parlamento sono soggetti alla disciplina generale
dettata dal Bundesamtgesetz del 1953 (cfr. articolo 176, a tenore del quale «I dipendenti del Bundestag, del Bundesrat e del Bundesverfassungsgericht sono funzionari dello Stato»); non sono pertanto
previste per le relative controversie forme di giurisdizione in deroga al diritto comune.
Nel Regno Unito, dove l’autonomia amministrativa degli organi costituzionali si fonda in gran
parte, come è tipico di quell’ordinamento, sulla consuetudine costituzionale, entrambe le assemblee
legislative sono dotate di un organo collegiale politico di direzione amministrativa (la House of
Commons Commission ai Comuni, la Select Committee of the House of Lords Offices presso la
Camera alta), competente in materia di stato giuridico e di trattamento economico del personale.
Dinnanzi a queste Commissioni è facoltà dei dipendenti presentare ricorso avverso i provvedimenti
delle amministrazioni, mentre per talune fattispecie (licenziamento, collocamento a riposo) le
vertenze individuali possono essere sottoposte ad un collegio arbitrale previsto dalla disciplina generale del pubblico impiego (Civil Service Board). Eccettuate le vie di ricorso interno e la risoluzione
arbitrale di talune controversie, non sono previste forme di giurisdizione domestica per il personale
parlamentare, che può adire il giudice ordinario competente per materia (Industrial Tribunal).
In Spagna, lo Estatuto de Personal de las Cortes Generales dispone, all’articolo 50, comma 3,
che le decisioni in materia di personale adottate dagli organi ed uffici di ciascuna Camera sono ricorribili, nel caso di provvedimenti emanati dai Segretari generali, dinnanzi all’Ufficio di Presidenza
della singola Camera. A tenore della medesima disposizione (comma 5) «nelle materie regolate dal
presente articolo si applica con carattere suppletivo la legge regolatrice del procedimento amministrativo comune» (ley n. 30/1992); secondo l’interpretazione datane in dottrina, la regola va intesa
nel senso che, una volta esauriti i ricorsi interni, contro gli atti delle amministrazioni parlamentari
sia ammesso il ricorso del dipendente dinnanzi ai tribunali amministrativi.
In Belgio, a seguito della riforma del 1999, la cognizione delle controversie tra il personale parlamentare e le relative amministrazioni (come anche tra queste e i terzi) è devoluta alla giurisdizione
amministrativa.
Infine, in Finlandia costituisce corollario del rango costituzionale del Parlamento che i suoi
dipendenti non possano impugnare le decisioni concernenti il rapporto di lavoro, potendo essi
unicamente presentare ricorsi all’interno dell’amministrazione parlamentare e in ultima istanza
all’Ufficio di Presidenza; per contro, i rapporti giuridici instaurati con i terzi sono soggetti alla giurisdizione ordinaria.
(61) Cfr. sentenza del 21 febbraio 1975, Golder c. Regno Unito; sentenza del 21 settembre 1994
Fayed c. Regno Unito; sentenza del 4 dicembre 1995, Bellet c. Francia; sentenza del 18 febbraio 1999,
Waite e Kennedy c. Germania; sentenza dell’8 marzo 2007 Arma c. Francia; sentenza del 26 luglio
2007, Hirschhorn c. Romania; nonché la gia citata sentenza della Grande Camera del 19 aprile 2007,
Vilho Eskelinen ed altri c. Finlandia.
(62) V. sentenza del 18 febbraio 1999, Waite e Kennedy c. Germania, in part. paragrafi 58 e ss.
(63) Basti pensare ai poteri cautelari e di annullamento del giudice amministrativo e a quelli
cautelari e di reintegrazione del giudice ordinario (cfr. artt. 21 della l. 1034 del 1971; 700 c.p.c.; 28
della l. n. 300 del 1970, il c.d. Statuto dei lavoratori).
E, d’altra parte, proprio in questa logica, l’articolo 62, quarto comma, del Regolamento generale
della Camera, che rappresenta una “norma di chiusura” in materia, stabilisce che tutti «gli atti ed i
provvedimenti di enti ed organi estranei alla Camera, la cui esecuzione debba aver luogo all’interno
di sedi o locali della Camera medesima o che comunque abbiano ad oggetto tali sedi o locali ovvero
documenti, beni o attività di essa, non possono in alcun modo essere eseguiti se non previa autorizzazione del Presidente, che ne valuta gli effetti sulle attività istituzionali della Camera».
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La giurisdizione interna della Camera dei deputati
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(64) Tale giudice dovrebbe essere individuato nella Corte di cassazione ai sensi dell’articolo 362
c.p.c., in forza del quale «possono essere impugnate con ricorso per cassazione (...) le decisioni in
grado d’appello o in unico grado di un giudice speciale per motivi attinenti alla giurisdizione del
giudice stesso».
(65) D’altra parte, come già nel testo rilevato, l’articolo 9 del Regolamento per la tutela giurisdizionale espressamente rinvia alle comuni norme processuali statali applicabili ai processi innanzi ai
tribunali amministrativi regionali ed al Consiglio di Stato.
Più in generale, può poi osservarsi che gli organi giurisdizionali interni esercitano le proprie
funzioni attenendosi ai principi di diritto ed ai canoni ermeneutici utilizzati dalla magistratura
comune nell’applicazione della legislazione statale. Al riguardo può rammentarsi l’intervento
dell’on. Deodato (già membro della Sezione giurisdizionale nella XIV legislatura e già magistrato
amministrativo) nella seduta alla Camera del 20 giugno 2002, che così si esprimeva: «L’esercizio di
questa funzione [cioè della giurisdizione domestica, n.d.r.] viene svolto in costante sintonia con l’ordinamento della Repubblica, ed anche questo è bene ribadirlo, tenendo conto di tutte le evoluzioni
giurisprudenziali, civile, amministrativa e segnatamente anche costituzionale, e con quel carattere di
terzietà (ed anche questo è opportuno che venga rimarcato) che strutturalmente la connota a tutti i
livelli degli organi, nell’ambito del peculiare contesto normativo e organizzativo dell’organizzazione
parlamentare».
Si noti, infine, come sia costante l’orientamento della Corte di giustizia della Comunità europea
(ora, dell’Unione europea), secondo il quale le caratteristiche proprie di un organo giurisdizionale,
oltre a risiedere nell’imparzialità e nell’indipendenza, consistono anche nel «potere di decidere le
controversie sulla base di norme giuridiche e all’esito di un procedimento giuridicamente regolato»
(sentenza del 29 aprile 1988 Belilos c. Svizzera).
(66) Come in taluni casi è accaduto in occasione di controversie concernenti concorsi, in cui il
giudice, tramite ordinanza cautelare, ha ammesso il candidato con riserva alle successive fasi concorsuali rinviando la decisione sul merito.
(67) Come talvolta è accaduto nel giudizio sulle c.d. cause di servizio dei dipendenti.
(68) V. ord. n. 1 del 2009 della Commissione giurisdizionale, resa nell’ambito di una controversia
riguardante il riconoscimento della dipendenza di un infortunio da causa di servizio.
(69) Cfr. sentenze della Commissione giurisdizionale per il personale nn. 1 e 2 del 2004.
(70) Diversamente, nel caso di ricorso presso il Consiglio di giurisdizione sussiste l’obbligo del
patrocinio di un avvocato iscritto all’albo.
(71) Le sentenze nn. 348 e 349 del 2007 riguardano la materia dell’espropriazione, affrontata
dalla prima sentenza per il profilo della quantificazione dell’indennità di esproprio e, dalla seconda,
per il profilo del risarcimento da espropriazione illegittima.
Con la sentenza n. 348 la Corte costituzionale si è pronunciata sulla questione di legittimità
costituzionale dell’art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, recante misure urgenti per il
risanamento della finanza pubblica, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359.
La questione era stata sollevata dalla Corte di cassazione, per violazione degli artt. 111, primo e
secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione, rispettivamente, all’art. 6
della CEDU e all’art. 1 del Protocollo n. 1 CEDU, con riferimento alla norma che prevede che
l’indennità di espropriazione dei suoli edificabili sia determinata con un criterio di calcolo fondato
sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato. Di tale criterio, successivamente
trasfuso nell’attuale art. 37 del D.P.R. n. 327 del 2001, il suddetto articolo prevede l’applicazione ai
giudizi in corso alla data dell’entrata in vigore della legge n. 359 del 1992.
Detta sentenza ha, da un lato, constatato che il criterio dichiaratamente provvisorio previsto
dall’art. 5-bis era divenuto definitivo ad opera dell’articolo 37 del decreto del Presidente della
Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 e, dall’altro, ha rilevato che la condizione della sfavorevole
congiuntura economica che aveva indotto nel 1993 la stessa Corte a ritenere le suddette disposizioni
non incompatibili con la Costituzione (sentenza n. 283), non poteva protrarsi all’infinito, «confe-
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rendo sine die alla legislazione una condizione di eccezionalità che, se troppo prolungata nel tempo,
perde tale natura ed entra in contraddizione con la sua stessa premessa». Perciò, constatato che la
vigente disciplina dell’indennità di esproprio che prevede «un’indennità oscillante, nella pratica, tra
il 50 ed il 30 per cento del valore di mercato del bene non supera il controllo di costituzionalità in
rapporto al “ragionevole legame” con il valore venale, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di
Strasburgo e coerente, del resto, con il “serio ristoro” richiesto dalla giurisprudenza consolidata di
questa Corte», la sentenza perviene alla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 5-bis, commi 1 e
2, del decreto-legge n. 333 del 1992, e, in via consequenziale dell’art. 37, commi 1 e 2, del D.P.R. 8
giugno 2001, n. 327.
Con la sentenza n. 349, la Corte costituzionale si è pronunciata sulle questioni di legittimità
costituzionale del medesimo art. 5-bis, sollevate con riferimento al comma 7-bis che stabilisce che
«in caso di occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente
al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell’indennità di cui al comma 1, con esclusione della riduzione del 40 per cento. In tal caso l’importo del
risarcimento è altresì aumentato del 10 per cento. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato». La sentenza,
nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge n. 333 del
1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, introdotto dall’art. 3, comma 65,
della legge n. 662 del 1996, afferma che tale disposizione «non prevedendo un ristoro integrale
del danno subìto per effetto dell’occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione,
corrispondente al valore di mercato del bene occupato, è in contrasto con gli obblighi internazionali
sanciti dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU».
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