Capitolo XLIV La causa 1.L`evoluzione concettuale. Il codice civile

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Capitolo XLIV
La causa
1.L’evoluzione concettuale.
Il codice civile prevede la causa tra i requisiti del contratto.
Storicamente la causa è stata in un primo tempo riferita all’obbligazione. Ciò è dovuto al fatto che sotto il vigore del
codice Napoleone dominava l’idea che il contratto fosse esclusivamente fonte dell’obbligazione e che non fosse
possibile concepire una causa del contratto che non fosse causa dell’obbligazione.
Il superamento di questa impostazione avvenne con gradualità. Si cominciò a sostituire all’obbligazione la
prestazione, che meglio era atta ad indicare e a ricomprendere anche vicende non obbligatorie ma immediatamente
traslative.
Il legislatore ha chiaramente utilizzato il termine causa come sinonimo di tipo contrattuale.
2. Causa e tipo.
Il legislatore appronta taluni tipi contrattuali che sono la continuazione dei tipi di diritto romano, cui si sono aggiunti
tipi nati dalla pratica commerciale. Il tipo legale, intende corrispondere all’iid quod plerumque accidit, a ciò che di
regola accade, senza alcuna pretesa di racchiudere in sé la sintesi di tutti gli interessi socialmente utili.
Alla tipicità legale, si perviene attraverso la tipicità sociale rappresentata dalla tipicità giurisprudenziale, perché è a
livello di giudizio che si manifestano le reali esigenze dei traffici e i reali problemi che il legislatore è tenuto a risolvere
con una disciplina uniforme. Il tipo giurisprudenziale per divenire legale presuppone allora una reiterazione di
comportamenti, una pratica generale che pur se non assurta a consuetudine, ne potrebbe costituire la base,
dettando già una regola.
Restano fuori da questo campo solo i comportamenti individuali o comunque i comportamenti ancora non
socialmente generalizzati, quei comportamenti che, dal punto di vista della tipicità, sono stati qualificati come
immaturi e di cui si vorrebbe sostenere la non meritevolezza.
Il tipo legale è un astratto schema regolamentare che racchiude in sé la rappresentazione di un’operazione
economica ricorrente nella pratica commerciale.
L’attività di confronto tra operazione concreta posta in essere dai privati e tipo astratto elaborato dal legislatore dà
vita alla qualificazione che va condotta in termini rigorosamente oggettivi e del tutto distaccati dalla volontà privata. I
privati infatti non potrebbero pretendere di dar vita ad una compravendita che non ricalcasse lo schema definito dal
legislatore: se non c’è scambio di cosa contro prezzo non c’è compravendita ad onta di qualsiasi affermazione
contraria delle parti, che volessero, per avventura, assoggettare alle regole della compravendita un’operazione
economica che non prevedesse il pagamento di un prezzo.
Non può parlarsi di assenza di causa ma piuttosto di assenza del tipo. Così in caso di compravendita di cosa che già
figuri in termini giuridici nel patrimonio dell’acquirente o, più in generale, di contratto che dovrebbe essere a
prestazioni corrispettive, senza però che una parte riceva nulla più di quanto già le spetti per legge non è ipotizzabile
lo scambio.
I problemi posti dal tipo legale sono del tutto peculiari. In primo luogo si deve verificare l’esistenza di un patrimonio
che risponda in astratto ai requisiti posti da uno o da un altro schema tipico. Al fine di stabilire la normativa
applicabile. In secondo luogo, si dovrà verificare se quel dato schema tipico esiste o non esiste in concreto, cioè sia o
non sia presente. Infine dovrà verificarsi la presenza o l’assenza di un accordo. È il caso del dissenso in ordine al
contenuto tipico del contratto che attiene proprio all’inesistenza dello stesso schema vincolante, benché
astrattamente sia chiaro quale tipo contrattuale le parti intendevano utilizzare.
Questi problemi nulla hanno a che vedere con la causa del contratto, che va ravvisata avuto riguardo ai concreti
interessi che i privati intendono perseguire con la concreta operazione economica. Se l’indagine sul tipo è
essenzialmente astratta e statica quella sulla causa è esclusivamente concreta e sempre dinamica. Con il tipo si pone
un problema di configurabilità dell’operazione, con la causa si pone invece un problema di liceità degli interessi
perseguiti. Con il tipo si opera un raffronto statico tra schema costituito dai privati e schema disciplinato dal
legislatore, con la causa si opera un raffronto dinamico tra interessi perseguiti dai privati e interessi ritenuti leciti e
dunque protetti dall’ordinamento. Con il tipo si deve avere riguardo allo schema astratto, con la causa si deve
indagare sui concreti risvolti dell’operazione economica vista nella sua complessità, ivi compresi gli aspetti soggettivi
ed oggettivi che sfuggono del tutto ad un’indagine condotta per schemi e per tipi.
3. L’illiceità.
La necessità di distinguere il tipo dalla causa è chiara se si considera che chi identifica la causa con la funzione
economico-sociale, cioè con il tipo, deve negare che possa porsi un problema di liceità della causa in presenza di
contratti tipici, perché non sarebbe possibile concepire un tipo legale…contra legem. Il fatto stesso della previsione
starebbe ad attestare la liceità dello schema e il positivo giudizio che l’ordinamento dà di quella certa operazione.
Ma al di là dell’astratta definizione del tipo c’è pur sempre la particolare applicazione che dello schema possono fare i
privati e soprattutto c’è diversa colorazione che le circostanze soggettive ed oggettive legate al concreto interesse
perseguito danno al rapporto.
È stato dichiarato nullo ma non illecito un contratto di lavoro che tendeva all’assunzione di forza lavorativa in
spregio al divieto di nuove assunzioni posto da una delibera regionale. Non illecito perché lo scopo del contratto di
lavoro era quello di assicurare il corretto funzionamento sul piano amministrativo di un ente locale.
Era causalmente illecito contratto di lavoro degli inservienti di una casa di meretricio, che regolavano l’afflusso dei
visitatori, consigliandoli nella scelta delle prostitute e, più di recente, il contratto d’opera avente ad oggetto la
rilegatura di libri pornografici, senza però distinguere, erroneamente, tra collezionismo e commercio.
Non sempre è facile stabilire se il contratto è nullo per illiceità della causa o dell’oggetto o del motivo comune o si
limiti a violare una norma imperativa che non investe il profilo causale.
4. Il contratto atipico.
L’art. 1322 2° comma prevede che la facoltà di determinare il contenuto del contratto possa essere esercitata anche
all’interno di schemi non tipici ma atipici, cioè “inventati” dai privati contraenti. Ciò accade quando l’arricchimento
del contenuto di un contratto rispetto allo schema tipico ne stravolge l’assetto, andando al di là di quanto esso, nella
sua elasticità naturale, permetta o quando i privati prescindono da ogni riferimento a schemi tipici per dar vita ad
uno schema del tutto originale.
Secondo taluni la norma avrebbe la funzione di permettere ai privati la costruzione di modelli di regolamentazione di
interessi non previsti tipicamente. Si presenta come una norme meramente autorizzato ria e sostanzialmente
garantista.
L’art. 1322 potrebbe autonomamente operare solo con riguardo ai contratti (atipici) ad effetti reali, là dove però, in
concreto, il problema è quello della derogabilità dell’art. 1376 (con riguardo ai soli diritti reali, in relazione al loro
numerus clausus, essendo la cessione l’unico possibile modello circolatorio per il credito) e non quello di creare nuovi
tipi, salvo, secondo taluni, il caso del negozio fiduciario, là dove, l’effetto reale è strumentale. In termini concreti, la
atipicità assoluta in materia contrattuale non esiste. Per un verso o per l’altro gli assetti privati riecheggiano
necessariamente i tipi legali ed anzi da essi in qualche modo discendono con varianti e collegamenti dettati dalle
necessità del mercato.
L’analisi della giurisprudenza dimostra che raramente i giudici si trovano a dover decidere una controversia senza
poter fare affidamento su questo o su quel riferimento positivo. Proprio questa possibilità spinge i giudici ad una
dilagante tipizzazione, intesa come inquadramento puro e semplice della fattispecie in un dato tipo legale, in tal
modo pretermettendo la peculiare singolarità del caso sul piano del contenuto. Oppure si va alla ricerca del tipo
legale analogo a affine per desumere quale debba essere, nel dubbio, la disciplina vincolante nel singolo caso atipico.
5. L’utilità sociale.
L’art. 1322 2° comma obbligherebbe il giudice ad un controllo dell’interesse perseguito dai contraenti che in tanto
sarebbe meritevole in quanto fosse anche utile socialmente. In tal modo si dà vita ad una sorta di funzionalizzazione
degli interessi privati che sarebbero protetti solo se coincidenti con interessi dell’intera collettività e dunque con
interessi pubblici.
L’interesse individuale sporadico non può essere protetto perché solo le pretese sociali costanti che hanno già
ricevuto una tipizzazione in chiave sociale meritano tutela giuridica, in quanto suscettibili di essere ordinate in modo
regolare e fisso al fine di evitare uno stato di insicurezza giuridica, addirittura di anarchia, che non potrebbe non
avere effetti negativi per il traffico negoziale.
Una tale esigenza di ordine ha costituito un facile veicolo per introdurre surrettiziamente fini eteronomi di cui il
concetto di utilità sociale si è fatto portatore. Coscienza civile e politica e i principi ispiratori dell’economia nazionale ,
cioè il corporativismo, sta a significare che l’autonomia privata non sarebbe tutelata se non in quanto persegua
finalità che si inquadrino in quelle proprie dello Stato non essendo più sufficiente il limite puramente negativo che la
causa del negozio non sia illecita. In questa visione senza dubbio l’interesse privato si dissolve in pubblico e il
contraente diviene un funzionario dello Stato.
Se dal punto di vista teorico questa dottrina postula un vero e proprio stravolgimento della corretta visione
dell’autonomia privata e dell’interesse sotteso alla contrattazione scarsa o nulla ne è la rilevanza pratica, perché
quanto osservato con riguardo alle fattispecie giurisprudenziali dimostra che il contratto atipico in senso assoluto
non esiste. La spiegazione è nel fatto che qualsiasi interesse economicamente di una certa rilevanza non può essere
sporadico e puramente individuale. Per il fatto stesso di nascere e di svilupparsi all’interno dei traffici commerciali,
esso per forza di cose è comune ad una molteplicità di soggetti, di tutti quei soggetti che operano nel commercio e
che a ben vedere costituiscono l’ossatura della collettività sociale.
Quanto all’utilità sociale come ulteriore criterio di controllo del concreto contenuto disciplinare, è difficile ipotizzare
contratti socialmente dannosi, ma non illeciti, mentre per quelli socialmente futili, il problema è solo quello della
giuridicità del vincolo e della patrimonialità della prestazione.
6. Il giudizio di meritevolezza.
Il giudizio circa la meritevolezza dell’interesse appare qualitativamente diverso rispetto a quello circa la liceità.
Quest’ultimo ha la funzione di salvaguardare l’ordine giuridico dalla presenza di singoli accordi impegnativi i cui
contenuti siano in contrasto con i propri canoni regolamentari, al fine di non introdurre un’evidente contraddizione
nel sistema, il giudizio di meritevolezza si incentra nella valutazione dell’idoneità dello strumento elaborato dai privati
ad assurgere a modello giuridico di regolamentazione degli interessi, vista l’assenza di una preventiva opera di
tipizzazione legislativa, intesa come (mera) predisposizione di schemi.
La meritevolezza opera a livello di tipo e non a livello di causa, perché in questa fase deve solo valutarsi se lo schema
astratto è accettabile o inaccettabile sul piano giuridico ed è chiaro che tale indagine non deve essere compiuta in
presenza di un contratto tipico, che si inquadra cioè in uno schema prefissato dal legislatore.
Il giudice deve osservare lo schema astratto ideato dai contraenti e verificare se esso abbia un significato economicosociale, in termini di scambio di utilità.
Lo schema potrebbe essere contrario a principi inderogabili dell’ordinamento, cosicché tutti i contratti su di esso
modellati sarebbero illeciti. Il giudice dovrebbe allora dichiarare meritevole di tutela lo schema astratto, ma illecito in
concreto il singolo contratto su di esso modellato. Ma potrebbe anche pensarsi ad un giudizio di immeritevolezza, che
in tal caso altro non sarebbe se non un giudizio di illiceità in astratto e non in concreto, con una sorta di
unificazione delle due distinte fasi.
In presenza di uno schema individuale e non sociale, quindi atipico in senso assoluto, acquisterebbe particolare
rilevanza l’accertamento circa l’effettiva intenzione dei contraenti di dar vita ad un vincolo giuridico, come tale
coercibile.
Se la giuridicità del vincolo può presumersi, almeno fino a prova contraria, nell’utilizzazione di uno schema
socialmente o legalmente tipico, non è detto che, ad uno schema sporadico ed individuale corrisponda una reale
volontà di giuridicizzare il vincolo.
L’indagine circa la volontà di giuridicizzare l’operazione va condotta in termini soggettivi ed oggettivi, avendo riguardo
al concreto regolamento contrattuale nonché ai rapporti intercorrenti tra i soggetti, sia di carattere personale che
patrimoniale dell’animus che ha spinto i singoli alla pattuizione e perfino delle loro convinzioni circa l’esistenza di un
codice d’onere o morale.
Uno schema contrattuale potrebbe essere meritevole di tutela se risultasse accertata una indiscussa volontà dei
privati di auto vincolarsi secondo le regole giuridiche, a condizione però che l’ordinamento giuridico non si
disinteressi di quella materia, come nel caso di accordo con cui due soggetti si obblighino a rivolgersi l’uno all’altro
con un predicato nobiliare non cognomizzato.
Sembra possa dirci che lo schema ideato dai privati con riguardo ad un’operazione atipica in senso assoluto e quindi
economicamente futile, potrà essere giudicato inidoneo non perché asociale, cioè del tutto individuale e sporadico,
ma perché la futilità è di per sé sintomo e indizio di un’assenza di reale, seria e definitiva volontà giuridica delle
parti.
7. Il contratto misto.
Talvolta l’operazione economica realizzata dai privati presenta taluni elementi di un tipo e taluni elementi di un altro
tipo contrattuale. In tale eventualità spesso si teorizza l’esistenza di un contratto tipico. Il contratto misto non ha
una propria autonomia, il contratto atipico si manifesta autonomo e pretende un’altrettanto autonoma disciplina che
il giudice deve ricavare dalla funzione concretamente svolta dall’operazione senza lasciarsi condizionare dal
riferimento al tipo legale prevalente o analogo sul piano della ricostruzione statica, pur se le parti abbiano
disciplinato taluni patti con riferimento ad istituti tipizzati.
Sul piano ricostruttivo il contratto misto è configurato come la risultante della combinazione di una pluralità di
frammenti di schemi tipici che si fondono e si condizionano vicendevolmente. Tali schemi non sono suscettibili di
autonoma e separata considerazione, perché perdono la loro individualità.
La dottrina ha osservato che in taluni casi un unico rapporto può presupporre una duplicità di autonomi tipi. Il
contratto si presenta allora come un autonomo schema del tutto peculiare perché caratterizzato dalla riferibilità ad
una pluralità di tipi legali e di funzioni. Esempio ne sarebbe la vendita con prezzo volutamente basso, per donarne la
differenza, rispetto a quello di mercato, all’acquirente. L’incompatibilità dei due schemi (vendita e donazione) e delle
due funzioni (scambio e liberalità) comporta che non è possibile ipotizzare in tal caso un contratto misto inteso come
fusione di tipi che confluiscono nell’unicità della causa, perché se unica è la causa, concorrenti sono i tipi, che
mantengono la propria autonomia, cosicché le prestazioni sono giustificate dallo scambio (vendita) e dalla liberalità
(donazione).
Il contratto misto non ha una propria disciplina tipica. Così come per il contratto atipico si pone il problema di
individuare i punti di riferimento normativi, al di là della mera statuizione di cui all’art. 1323, che ha carattere
regolamentare solo sul piano della struttura ma non dei contenuti.
Da questo punto di vista si contrappongono in sostanza due diverse teorie.
- teoria dell’assorbimento: secondo questa teoria la disciplina del contratto sarebbe quella del tipo contrattuale
prevalente;
- teoria della combinazione: secondo questa teoria, la disciplina sarebbe complessa nel senso che i vari profili
dell’operazione andrebbero disciplinati sulla base del riferimento al tipo corrispondente.
Quest’ultima teoria rischia però di dar vita ad una sorta di mosaico la cui coerenza potrebbe anche essere
difficilmente raggiungibile. È dunque necessario operare sempre sulla base del criterio della compatibilità e quindi
dall’eventuale integrazione delle discipline o della loro concorrente applicazione, andando però alla ricerca dei criteri
con i quali risolvere i possibili conflitti tra le diverse norme.
8. Il collegamento negoziale.
A volte l’operazione economica è realizzata dai privati attraverso una pluralità di negozi strutturalmente autonomi
ma collegati, nel senso che le sorti dell’uno influenzano le sorti dell’altro in termini di validità ed efficacia, unico
essendo l’interesse perseguito dai privati, pur avendo distinte cause, perché preordinati ad uno scopo pratico
unitario.
Il contratto misto rileva a livello di fattispecie, il collegamento negoziale rileva a livello funzionale, ponendo in
relazione e influenzando i rapporti giuridici che nascono dai singoli contratti, i quali sono e restano tipo logicamente
e causalmente autonomi e diversi.
Tale pluralità di cause distingue l’ipotesi del collegamento anche da quella del contratto complesso, là dove alla
pluralità di elementi fa riscontro l’unicità della causa, che caratterizza l’intero rapporto e che è frutto della fusione di
più tipi contrattuali presi nella loro interezza.
Oltre alla pluralità, la vicenda del collegamento presuppone un legame tra i negozi, giuridicamente rilevante e quindi
non occasionale, né puramente formale.
Sono stati proposti vari criteri per inquadrare la fattispecie del collegamento. È pacifico che esso possa presentarsi
unilaterale o bilaterale a seconda che la dipendenza sia o non sia reciproca.
La dottrina distingue a seconda che il collegamento si presenti come necessario o come volontario.
Sul piano della necessità sono ad esempio collegati dal punto di vista della nascita i negozi preparatori.
Altre volte il collegamento opera sul piano del contenuto. Si pensi in particolare ai negozi modificativi o al negozio di
accertamento. Nell’ambito delle vicende estintive si collocano i negozi revocatori o il negozio di recesso, previsto dalle
parti o dalla legge, o i negozi risolutori.
Ulteriori ipotesi di collegamento tipicamente funzionale, è ravvisata dalla dottrina nei negozi accessori come i negozi
di garanzia, la convalida del negozio annullabile, la conferma del testamento e della donazione nulli, la ratifica del
negozio concluso dal falsus procurator.
Per quanto riguarda invece il collegamento volontario il discorso si da più delicato perché l’indagine circa l’esistenza
e la portata del collegamento va condotta caso per caso avendo riguardo alla volontà di tutti i contraenti, anche se
diversi da contratto a contratto, quale risulta dall’operazione economica complessivamente e inscindibilmente posta
in essere.
Accertato il collegamento, va valutato l’interesse sotteso alla più ampia operazione e non ai singoli contratti in sé
considerati, ad esempio, per stabilire se il recesso sia esercitato secondo buona fede, se vi sia periculum damni in
sede di revocatoria; se vi sia pregiudizio ai fini dell’annullamento.
Sul piano della pratica commerciale il collegamento è frequente, ad esempio in caso di alienazione dell’immobile e
cessione dell’azienda in esso gestita o di leasing con patto di riscatto o di locazione collegata a concessione in uso
dell’arredo o di contratti reciproci, quando gli stessi soggetti sono parti di due contratti con posizioni contrattuali
invertire.
Le parti possono rafforzare il collegamento negoziale, stabilendo l’esclusione della facoltà di recesso in ordine al
contratto funzionalmente subordinato all’altro.
9. Il negozio indiretto.
I privati possono utilizzare un dato tipo negoziale per raggiungere uno scopo che non è quello tipico del negozio
stesso ma uno ulteriore o addirittura diverso. È il caso del mandato irrevocabile e senza rendiconto ad alienare un
bene, che non produce effetti reali, ma consegue lo stesso risultato economico di una compravendita. Talvolta i
privati utilizzano anche più negozi collegati tra loro, come nel caso in cui, in presenza di una lite, un soggetto
riconosce il pieno diritto dell’altro ad avere una certa somma e costui rinunzia a parte di essa, in tal modo
ottenendosi, dal collegamento tra riconoscimento del debito e remissione parziale, lo stesso effetto che si sarebbe
ottenuto stipulando una transazione.
Le conseguenze giuridiche sono di per sé quelle proprie dei negozi posti in essere, cosicché il raggiungimento dello
scopo ulteriore, in termini economici, si situa a livello di motivo individuale, che resta estraneo al profilo causale.
Non può allora dirsi che il fenomeno dell’uso indiretto del negozio dia vita ad una categoria giuridica a sé stante. Solo
nel caso in cui lo scopo ulteriore è illecito l’ordinamento interviene comminando la nullità.
Non può parlarsi di simulazione, perché il negozio posto in essere è effettivamente voluto, né di negozio fiduciario,
perché non si ravvisa una riduzione o limitazione dell’effetto tipico del negozio.
10. Il contratto in frode alla legge.
Si reputa illecita la causa quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa.
Si parla al riguardo di contratto in frode alla legge. In tal caso i contraenti utilizzano un dato schema contrattuale al
fine di pervenire ad un concreto risultato economico difforme da quello tipico del contratto concluso e per di più
vietato dalla legge.
Questo scopo può essere conseguito dando vita ad un’operazione economica complessa, caratterizzata dal modo in
cui è instaurato il collegamento tra più negozi o dal modo in cui privati, in base al potere di autonomia, costruiscono
il regolamento contrattuale sul piano del contenuto.
In entrambi i casi, poi, tale operazione mira a “frodare” la legge, cioè ad eludere l’applicazione di una norma
imperativa che vieta il conseguimento di quel dato risultato. Il contratto dunque non è tanto contra legem quanto in
fraudem legis, perché la legge non è violata direttamente ma indirettamente, mediante una sorta di manovra di
aggiramento. Si capisce allora perché si parli al riguardo di negozio indiretto.
Anche la frode fiscale, ove il contratto sia posto in essere proprio allo scopo di aggirare una norma tributaria, ne
determina la nullità essendo altrimenti la sanzione quella prevista dalla norma stessa.
Si ritiene che, oltre all’elemento oggettivo dell’aggiramento del divieto di legge, con conseguente realizzazione del fine
vietato, sia anche necessario un intento fraudolento, in chiave di illiceità del motivo, che non a caso si pretende sia
comune.
Secondo una dottrina più moderna il discorso va invece impostato in chiave oggettiva e di interpretazione della
norma al fine di stabilirne l’avvenuta elusione, ciò che conduce nella direzione della illiceità causale in quanto
postula un’indagine in chiave funzionale.
11. Il principio della causalità negoziale. Il pagamento traslativo.
La causa è uno degli elementi essenziali del contratto. Essa non può mai mancare, cosicché nel nostro ordinamento
tutti i contratti sono causali. Eccettuate le ipotesi dei titoli di credito astratti, dove l’astrattezza è legata alla
circolazione del documento, o della consegna, per chi la consideri un negozio, è configurabile l’eventualità di
un’astrazione processuale, la quale opera nel senso di invertire l’onere della prova in ordine all’esistenza del rapporto
sottostante che giustifica la promessa di pagamento o la ricognizione di debito.
Il principio di causalità rileva in maniera più o meno incisiva a seconda dei casi e si atteggia variamente sul piano
degli effetti. Il massimo rigore in termini di causalità è preteso dall’ordinamento quando le parti stipulano un
contratto ad effetti reali avente ad oggetto un bene immobile. In tal caso è richiesta la forma scritta e si ritiene che il
contratto sia nullo se dal suo contesto non sia desumibile la giustificazione causale dell’operazione.
In materia di obbligazioni la causa si presume esistente. Parimenti si presume la causa solvendi negli atti esecutivi
ed infatti spetta al solvens la prova contraria in sede di ripetizione dell’indebito.
La dottrina ha osservato che i privati, usando lo strumento della confessione, potrebbero dar vit6a a vicende in
apparenza giustificate, ma in realtà acausali in quanto tale giustificazione potrebbe anche non sussistere. In
particolare si sottolinea che la confessione non è impugnabile per simulazione, ma solo per errore di fatto o violenza,
cosicché i privati potrebbero confessare pur quando fosse carente una giustificazione causale. In tal modo la
confessione (falsa) potrebbe rendere astratta l’obbligazione, e a nulla varrebbe obiettare che, operando essa sul piano
probatorio, si avrebbe più una falsità delle prove che una falsità sostanziale riferita alla causa, perché è innegabile
che, attraverso l’uso discrezionale e incontrollato del mezzo probatorio, si perviene ad incidere sul piano sostanziale
disponendosi del diritto.
Secondo questa dottrina eguale conclusione varrebbe per quanto riguarda il negozio di accertamento ma, in verità, in
tal modo sembra sottovalutarsi il fatto che con l’accertamento non si può sostituire una situazione ad un’altra e
quindi disporre del diritto (come con la confessione) ma solo rimuovere la situazione di incertezza in cui si trova il
rapporto.
Non può negarsi che il principio di causalità può essere facilmente aggirato dalle parti con un accordo simulatorio
che faccia apparire esistente una causa in realtà inesistente.
A questo scopo si presta particolarmente il contratto di transazione, con cui le parti, facendosi reciproche
concessioni, pongono fine ad una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro. Le reciproche
concessioni possono anche consistere nel trasferimento della proprietà che trova la propria giustificazione nella
composizione della lite. Se la lite in realtà non esiste il trasferimento è senza causa. È sufficiente allora alle parti
simulare una lite per mascherare un trasferimento acausale. La transazione potrebbe peraltro essere in ogni caso in
ogni momento impugnata da ciascuna delle parti. In questa ipotesi, l’impugnativa per falsità è sempre ammissibile.
Un particolare atteggiarsi della giustificazione causale si osserva poi in tutte le ipotesi in cui essa non sia desumibile
dal contesto dell’atto, ma da elemento esterni. Si parla al riguardo di negozio astratto, ma la causa pur sempre esiste
ed è rilevante, anche se esterna. Più che di astrattezza dovrebbe parlarsi di neutralità, nel senso che l’atto,
considerato in sé per sé, potrebbe essere giustificato da una o da un’altra causa, in specie solvendi o donandi.
In specie ciò accade nell’ipotesi di pagamento traslativo, che si configura quando il trasferimento di proprietà avviene
solvendi causa, cioè in adempimento di un obbligo preesistente. Tale obbligo ha ad oggetto un dare.
L’obbligo di dare si risolve nell’obbligo di porre in essere un atto idoneo a trasferire la proprietà anche inter partes.
Ecco perché tale atto traslativo è concluso solvendi causa del precedente obbligo ed ecco perché si usa l’espressione
pagamento traslativo, che fa riferimento ad un adempimento atto a trasferire il diritto di proprietà di un bene.
L’obbligo di dare può nascere dalla legge, da sentenza, da testamento, da regole sociali o morali ed anche da contratto,
di società, di mandato senza rappresentanza o fiduciario.
I privati, derogando l’art. 1376, possono scindere fase obbligatoria e fase traslativa, quando il trasferimento è senza
corrispettivo, ma perché esso stesso è corrispettivo di una prestazione già ricevuta, eventualmente con prelazione
dello Stato. Se si ritiene che il definitivo abbia causa solvendi, deve dirsi che dal preliminare di vendita nasce un
obbligo non di fare, ma di dare. Ciò è tanto più vero quando il prezzo è pagato dal promittente acquirente prima del
trasferimento o dallo stipulante, che si accorda con il promittente, nel senso che costui trasferirà la proprietà di un
proprio bene ad un terzo.
In questi casi vi è scissione tra fase obbligatoria e fase traslativa. Dall’atto di trasferimento non si desume la causa,
che non è interna, ma esterna. Non vi è però astrattezza, una volta che l’atto traslativo sia ricondotto alla pregressa
vicenda da cui è nato l’obbligo di dare, così adempiuto.
È necessario che dalla dichiarazione attributiva del solvens, sia desumibile lo scopo per il quale si adempie.
Si discute circa i caratteri dell’atto di attribuzione. In quanto solvendi causa esso è, come l’adempimento, unilaterale
e non negoziale.
È importante distinguere:
- negozi fondamentali:essendo colpita la struttura la conseguenza non potrà che essere l’invalidità dell’atto e più
precisamente la nullità;
- negozi di attribuzione patrimoniale: la conseguenza è diversa. L’atto di per sé, non è strutturalmente inidoneo a
produrre effetti perché la causa esiste, anche se è esterna ad esso. La validità di tale atto è subordinata alla presenza
dell’elemento soggettivo, cioè dello scopo, che costituisce il momento soggettivo di imputazione (expressio causae),
necessario al fine di individuare, pur in tal caso, la giustificazione causale dell’operazione. La mancata indicazione
dello scopo comporta la nullità perché il negozio sarebbe astratto. L’assenza o l’invalidità o il venir meno del rapporto
esterno (fondamento) giustificativo dell’attribuzione, inciderà invece non sul momento della produzione degli effetti,
ma su quello della loro conservazione, quindi l’attribuzione sarà indebita e il solvens potrà agire in ogni caso con
l’azione di ripetizione senza poter esperire quella di rivendicazione.
Talvolta anche i negozi fondamentali presentano un collegamento con un pregresso rapporto, che è dunque ad essi
esterno. In tal caso si tratta di un collegamento di carattere complesso e non semplice, nel senso che il rapporto
pregresso integra la causa del negozio successivo, che è dunque la risultante delle due diverse operazioni.
Inoltre l’assenza del rapporto pregresso o la sua nullità si ripercuote sulla validità del negozio e non determina la
semplice ripetibilità della prestazione. In sostanza non si è in presenza in questi casi di un negozio di attribuzione
meramente esecutivo di un pregresso rapporto, ma di un’ipotesi di collegamento negoziale per volontà della legge.
12. I motivi.
La causa costituisce lo scopo oggettivo concreto ed immediato che le parti perseguono stipulando quel dato
contratto. Il motivo invece è costituito da una rappresentazione soggettiva che induce le parti a concludere il
contratto. Come tale esso rimane fuori dal congegno contrattuale, costituendo uno scopo ulteriore del tutto
irrilevante.
Per la dottrina che identifica causa e tipo, la distinzione tra causa e motivo è chiara e netta: tutto ciò che non entra a
far parte della funzione economico-sociale del contratto è causalmente irrilevante, cosicché si tratterà solo di
verificare se il motivo si sia risolto in una clausola accessoria del contratto, come tale rilevante, o sia restato al di
fuori dello schema contrattuale, come tale non rilevando, salvo il caso di illiceità.
In chiave di causa in concreto il discorso è invece più articolato e più delicato. In sostanza i motivi ben possono
penetrare all’interno dello schema causale proprio perché la causa va dedotta dalla concreta operazione economica
realizzata dai privati e caratterizzata dalle circostanze oggettive e soggettive.
Non sempre è facile stabilire quando un motivo resti al di fuori o penetri all’interno della struttura contrattuale. In
linea di massima può dirsi che il passaggio dal motivo soggettivo irrilevante all’interesse non è necessariamente
legato all’esteriorizzazione. Tale esteriorizzazione può all’occorrenza costituire uno dei possibili elementi di giudizio,
ma ciò che conta è accertare che ad essa corrisponda una particola articolazione della vicenda contrattuale.
Il motivo illecito, pur quando non entra a far parte della struttura negoziale è rilevante e determina la nullità del
contratto, ma solo se è stato l’unico che ha indotto le parti a contrarre ed è anche comune. È invece irrilevante se,
per l’eventualità che il contratto si ponga in diretto contrasto con una norma imperativa, la legge preveda una
sanzione diversa dalla nullità.
È innanzi tutto necessario che tale motivo illecito sia esclusivo, cioè determinante ai fini della contrattazione. È
inoltre necessario che esso sia comune, sia cioè il medesimo che spinge entrambi i contraenti a contrarre, cosicché
non vi sarebbe comunanza ove una parte fosse spinta da più motivi, di cui anche uno solo divergente. Non sarebbe
comune nemmeno il motivo che fa capo ad una sola parte ma è conosciuto dall’altra, pur se quest’ultima ne abbia
assecondato oggettivamente la realizzazione. Diversamente è a dirsi se da tale utilizzazione l’atra parte tragga un
vantaggio perché allora il motivo è comune, essendo entrambe le parti interessate alla sua realizzazione.
Il negozio non è nullo quando il motivo illecito, pur determinante e comune, no è caratterizzato da attualità o è
oggettivamente irrealizzabile. Infatti l’ordinamento non colpisce il mero intento o la mera velleità.
13. Tipologia dei contratti.
Sul piano del tipo contrattuale è possibile procedere a diverse classificazione oltre a quella fondamentale che
contrappone i contratti tipici da quelli atipici.
- Contratto a prestazioni corrispettive: il contratto assolve ad una funzione di scambio, in quanto una prestazione è
in funzione dell’altra ed il vizio o difetto che colpisce una incide necessariamente sull’altra. Si parla al riguardo di
sinallagma, da cui anche l’espressione contratti sinallagmatici. Il vizio del sinallagma determina la rescissione o la
risoluzione del contratto.
- Contratto unilaterale: contratto con prestazioni a carico di una sola parte. Questo tipo di contratto ha una
disciplina speciale per quanto riguarda non solo la conclusione ma anche i vizi funzionali, in particolare la
risoluzione per eccesiva onerosità. In tal caso non sussiste il sinallagma, perché non sussiste scambio, essendo la
prestazione dovuta da uno solo dei contraenti.
- Contratti associativi o di collaborazione: le prestazioni non si incrociano ma mirano a perseguire uno scopo
comune ai contraenti, come nel caso di contratto con il quale si costituisce una società o un’associazione.
Nell’ambito dei contratti a prestazioni corrispettive si distinguono:
- Contratti commutativi: attuano uno scambio di prestazioni economicamente equivalenti. L’entità del vantaggio o
del sacrificio scaturente dal contratto è nota alle parti fin dalla conclusione del contratto. L’eventuale alterazione
del valore di una delle prestazioni influisce sul valore dell’altra o sulla sorte stessa del contratto.
- Contratti aleatori: le parti non sono in grado di prevedere l’entità del vantaggio o delle svantaggio che deriverà loro.
In tal modo l’elemento del rischio qualifica la stessa operazione economica a livello di giustificazione causale.
Tipico contratto aleatorio è l’assicurazione, ad esempio contro i furti, che avvantaggia l’assicuratore, che lucra il
premio, se il furto non avviene, ma avvantaggia l’assicurato ove, intervenuto il furto, l’indennizzo pagato sia
superiore, come di regola è, rispetto ai premi versati.
I contratti possono essere aleatori per loro natura o per volontà delle parti, le quali possono rendere aleatorio un
contratto che tale non sarebbe. In questi contratti non vi è uno scambio basato su un equilibrio predeterminato.
Sul piano dei vantaggi che si ricavano dalla contrattazione si usa distinguere tra:
- Contratti a titolo oneroso: i vantaggi sarebbero reciproci al pari dei sacrifici; questo contratto non è
necessariamente a prestazioni corrispettive, non è, cioè, sempre basato sul sinallagma.
- Contratti a titolo gratuito: il sacrificio sarebbe sopportato solo da un contraente, a vantaggio dell’altro; questo
contratto non è privo di utilità per chi sopporta il sacrificio. Esso, al contrario, è sorretto da un interesse
economico che non si esprime però e non consegue ad una prestazione dell’altro contraente.
14. Il negozio gratuito.
Il legislatore ha tipizzato contratti ad effetti obbligatori gratuiti, come il comodato o che si presumono gratuiti, come
il deposito o che le parti possono configurare gratuiti, come il mutuo, ma sono anche possibili contratti gratuiti
atipici. Vi è dunque una certa area comune a gratuità e liberalità, ma solo nel senso che se è vero che tutti gli atti di
liberalità sono gratuiti, non è vero il contrario.
È necessario distinguere il contratto di donazione del negozio gratuito, il quale è sempre caratterizzato, e quindi
giustificato causalmente, da un interesse patrimoniale anche immediato, purché giuridicamente rilevante, di chi si
obbliga o trasferisce , che non si situa quindi a livello di semplice motivo dell’attribuzione gratuita e può anche
essere modale.
Cos’ come la donazione, anche il negozio gratuito può essere ad effetti obbligatori o ad effetti reali.
Sul piano della struttura là dove c’è effetto obbligatorio, si tratta di una promessa unilaterale interessate, che si
conclude cioè con un negozio unilaterale rifiutabile.
In caso di effetti reali, l’art. 1333 è applicabile se si amplia la portata di questa norma. il contratto si impone però
quando, ad esempio nel caso dell’università, si vuole vincolare il superficiario a costruire la cappella. Di regola,
dunque, si applicherà l’art. 1333, norma che può assolvere la funzione di tipizzare il modello del negozio gratuito
rifiutabile, delineando uno schema neutro, che può essere riempito di qualsiasi contenuto, obbligatorio o reale, al
pari di quello donativo, ma riferito ad un interesse patrimoniale, che giustifica l’attribuzione.
La donazione, salvo quella obnunziale, è un contratto perfino se obbligatoria.
Il negozio gratuito, per la sua sostanziale rilevanza patrimoniale, si distingue non solo dalla donazione, ma anche dal
rapporto di cortesia, là dove non è ravvisabile un interesse, né patrimoniale, né non patrimoniale giuridicamente
rilevante di colui il quale opera l’attribuzione. Il comportamento di cortesia, infatti, trova le proprie motivazioni in
considerazioni di carattere sociale, di per sé irrilevanti.
Non sempre è facile distinguere gratuità, da liberalità o da cortesia. In particolare questa difficoltà sussiste in
presenza di un contratto gratuito atipico.
La qualificazione del negozio in termini di liberalità o di gratuità e, prima ancora, la stessa giuridicità del vincolo, è la
risultante di una valutazione dell’interesse sotteso all’operazione, quale emerge dall’entità dell’attribuzione, dalla
durata del rapporto, dalla qualità dei soggetti e soprattutto dalla prospettiva, per chi attribuisce, di subire un
depauperamento collegato o non collegato ad un sia pur indiretto guadagno o ad un risparmio di spesa.
Il negozio gratuito è a forma libera, salvo quando produce gli effetti di cui all’art. 1350, come nel caso della
costituzione del diritto di superficie.
Sul piano dell’interpretazione, l’art. 1371 e il conseguente principio della minore obbligazione, in caso di gratuità,
inducono a preferire, nel dubbio, il rapporto di cortesia, non vincolante, rispetto a quello gratuito.
15. Gli atti di destinazione.
Gli atti in forma pubblica, con cui i beni immobili o i beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati per un
periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di
interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a P.A., o ad altri enti o persone fisiche, possono essere
trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione. Per la realizzazione di tali interessi può agire,
oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti
possono costituire oggetto di esecuzione, salvo diversamente disposto, con riguardo ai debiti contratti per tale scopo.
La destinazione può rilevare come fatto giuridico, come presupposto oggettivo di una data disciplina legale o essere
imposta dalla legge, ma di regola essa è frutto di un obbligo assunto con un contratto oneroso o con donazione,
modale o remuneratoria.
Poiché l’interesse entra in conflitto con quello dei creditori, comportando la destinazione una limitazione della
responsabilità patrimoniale, sarebbe di dubbia costituzionalità identificare meritevolezza e liceità.
La meritevolezza va interpretata nel senso che deve ricorrere un interesse che abbondi in pubblica utilità, così come
un tempo era per le fondazioni, ed ancora oggi è per i premi di natalità, opere di assistenza e simili. La forma
pubblica dell’atto è quella stessa della fondazione e della donazione, pretesa ad substantiam e non al solo scopo di
poter trascrivere, essendo sufficiente anche la scrittura privata autenticata.
Ciò dimostra anche che non sarebbe possibile una destinazione onerosa, perché la forma dei contratti di scambio e,
al massimo, quella della scrittura privata.
L’accordo è necessario perché:
1) l’atipicità pretesa non è osservata da un mero modello privo di contenuto;
2) È necessario che il beneficiario accetti, manifestando, anche a tutela dei creditori, l’effettività del proprio
concreto interesse alla destinazione, oltre che la volontà di ricevere un’attribuzione liberale, per quel che essa
comporta in termini di disciplina.
Il beneficiario deve accettare anche in presenza di una promessa interessata, la quale, altrimenti, l’obbligherebbe,
oltre tutto, a sostenere le spese notarili e di trascrizione per l’eventuale rifiuto, oneri che la necessaria accettazione,
viceversa, eviterebbe.
I beni destinati sono gestiti, secondo quanto previsto nell’atto, dal conferente, dal beneficiario o da un terzo mandato.
I beni destinato rispondono solo per i debiti funzionali, sorti cioè per la realizzazione della destinazione, anche da
atto illecito. La tutela dei creditori non funai zonali è, se del caso, nell’azione revocatoria contro l’atto di destinazione.
È dubbio invece che essa possano opporre la sussidiarietà e l’obbligo di escussione ai creditori funzionali.
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