la conferenza della “Pax Americana” in Europa

L’inizio del dominio americano
sul continente europeo
La Conferenza della Pace si apriva il 18 gennaio 1919 in un clima ancòra idilliaco, determinato dal
permanere dello spirito utopistico prodotto dalle parole d’ordine americane del periodo bellico.
Certo, le prime crepe cominciavano a manifestarsi (Fiume, Dalmazia, Montenegro), ma si sperava
che si trattasse soltanto di piccoli dissapori, destinati a trovare rapidamente soluzioni soddisfacenti
per tutti.
Sul piano pratico, la Conferenza era organizzata, gestita e composta esclusivamente dai vincitori
della prima guerra mondiale, e in primo luogo dalle “Quattro Grandi”: Inghilterra, Francia, Italia e
Stati Uniti d’America. Seguivano gli alleati minori: ventotto fra nazioni grandi e piccole (dal
Giappone al Belgio) e dominions britannici (dal Sud Africa alla Nuova Zelanda). Tra i ventotto
minori, addirittura, ve n’erano quattro (Ecuador, Perù, Bolivia e Uruguay) che non avevano
partecipato neanche simbolicamente al conflitto, ma che avevano semplicemente rotto le relazioni
diplomatiche con gli Imperi Centrali.
Le Quattro Grandi[1] e gli altri ventotto paesi non erano su un piano di parità, e ciò era cosa
ufficiale, risaputa ed anche relativamente logica; peraltro oggettivamente consacrata dalla
partecipazione soltanto delle prime a quelli che erano gli organi esecutivi della Conferenza: l’Ufficio
di Presidenza ed il Consiglio Esecutivo, meglio noto come il Consiglio dei Quattro; “i Quattro” – in
questo caso – erano i massimi rappresentanti delle potenze: l’inglese David Lloyd-George, il francese
Georges Clemenceau, l’italiano Vittorio Emanuele Orlando e lo statunitense Thomas Woodrow
Wilson.
Vi erano, poi, cose meno note e meno logiche: per esempio, che fra i quattro vi fosse una
maggioranza di fatto (LloydGeorge-Clemenceau-Wilson) ostile al rappresentante italiano; o – per fare
un altro esempio – che fra i ventotto minori non fosse stato ammesso il Montenegro, uno tra i primi
paesi ad entrare nella guerra mondiale, cui aveva recato un contributo certo non inferiore a quello
del Guatemala o del Siam. Tutte stranezze, ma stranezze non casuali.
Altre stranezze, più sottili, sarebbero venute emergendo nel prosieguo dei lavori, quando – per
esempio – si sarebbe venuto a discutere del concetto di “nazionalità”, elemento-base dei cosiddetti
“Quattordici Punti di Wilson” che erano diventati, di fatto, il fondamento della Conferenza della
Pace. Si sarebbe visto, allora, che per “nazionalità” si voleva intendere qualcosa di molto diverso
rispetto a quel che si era sempre concepito in Europa. Ben lo spiegava l’insigne storico italiano della
diplomazia, Amedeo Giannini:
«Il concetto democratico della “nazionalità” degli alleati è quello della “coscienza nazionale” e
non quello germanico “della razza e della lingua”.»[2]
Ereticamente
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Orbene, questa particolare visione – oltre a sovvertire i cànoni della tradizione romanticista del
nazionalismo europeo – soppiantava alcuni elementi oggettivi e di pronto riscontro (l’etnìa, la lingua,
la religione) con un altro (la coscienza nazionale) certamente reale ma di facile travisamento. A
riprova, il Giannini citava il caso della partecipazione di un nucleo epirota di difficile connotazione
ad un episodio guerresco dell’Ottocento, utilizzato poi dalla Grecia per attribuire alla popolazione
dell’intero Epiro (formata da greci, ma con una forte componente albanese) la adesione alla
“coscienza nazionale” ellenica.
Al di là delle finzioni propagandistiche, comunque, la Conferenza della Pace non si ispirava
certamente a qualsivoglia concetto di nazionalità, bensì a due diversi princìpi: quello della punizione
dei vinti a pro dei vincitori (o, almeno, di alcuni dei vincitori); e quello di un forsennato
espansionismo imperialistico e colonialistico di matrice inglese e – in misura minore – francese:
espansionismo esplicito (in danno dei paesi arabi) o mascherato (in danno dei paesi europei) o ibrido
(in danno della Turchia).
Malgrado gli americani continuassero a fare un gran parlare di democrazia e di diritti dei popoli, non
ci si curava neanche di salvare le apparenze. La caratteristica precipua della Conferenza di Parigi,
infatti, era quella di interrompere la lunga tradizione riconciliatoria dei “Congressi” postbellici
europei (da quello di Westfalia a quello di Vienna, a quello di Berlino) per inaugurare una nuova
tendenza unidirezionale, punitiva e per nulla pacificatoria.
In passato i vari Congressi avevano riunito attorno ad uno stesso tavolo tutti i paesi coinvolti a vario
titolo nel conflitto appena spirato (vincitori, vinti e talora anche alcuni neutrali), nel presupposto che
tutti fossero interessati a ricercare gli equilibri necessari ad una convivenza la meno traumatica
possibile fra gli ex nemici. Adesso, invece, la Conferenza della Pace riuniva soltanto i paesi vincitori,
i quali avrebbero dovuto fissare i termini delle punizioni da infliggere, mediante i vari trattati di
pace, ai paesi vinti. Questi ultimi sarebbero stati successivamente convocati, ed ai loro
rappresentanti sarebbe stata imposta la firma dei rispettivi trattati di pace.[3]
LA SOCIETÀ DELLE NAZIONI
Il 10 gennaio – e cioè una settimana prima della seduta inaugurale della Conferenza della Pace – le
nazioni alleate
avevano ratificato il patto costitutivo della Società
delle Nazioni (o Lega delle Nazioni), una creatura del genio politico del presidente Wilson, che ne
aveva anticipato i tratti nei suoi famigerati Punti:
Ereticamente
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«una società generale delle nazioni deve essere costituita sulla base di accordi specifici, allo
scopo di giungere a garanzie reciproche di indipendenza politica e integrità territoriale per tutti
i paesi grandi e piccoli.»
Spacciata come un’organizzazione internazionale che avrebbe dovuto regolare i rapporti
internazionali, garantire la sicurezza degli Stati, la pace tra i popoli, gli ideali di democrazia e di
libertà, eccetera, eccetera, eccetera, la SdN avrebbe invece dovuto essere – secondo i desiderata
dell’establishment americano – uno strumento che consentisse agli USA di gabellare la propria
volontà politica per volontà della “comunità internazionale”.
Altra bizzarrìa, imposta dal presuntuoso inventore della Società: la costituzione della stessa avrebbe
dovuto costituire parte integrante di tutti gli elaborandi trattati di pace; e quindi tutti i paesi vinti
sarebbero stati obbligati ad accettare – in uno con le vessazioni dei trattati – anche l’adesione alla
SdN. Per ottenere ciò, la prima parte di tutti i trattati di pace avrebbe dovuto essere
necessariamente formata dai 26 articoli del patto costitutivo della Società delle Nazioni.
Ciò – è appena il caso di osservare – connotava la Società delle Nazioni (progenitrice dell’attuale
Organizzazione delle Nazioni Unite) esattamente per quello che era: non una libera unione di Stati,
ma un’organizzazione fiancheggiatrice dei paesi vincitori del conflitto mondiale. Peraltro, le Quattro
Grandi (nel frattempo divenute Cinque, con l’aggregazione del Giappone) avrebbero dovuto detenere
istituzionalmente la maggioranza (5 seggi su 9) nel Consiglio di Presidenza della Società.
Ufficialmente, lo Statuto della Società delle Nazioni era approvato il 25 gennaio 1919, una settimana
dopo l’inaugurazione della Conferenza della Pace. In realtà – come si è visto – era stato varato prima
dell’apertura della Conferenza.
LA PREVALENZA DEL BLOCCO ANGLOSASSONE
Società delle Nazioni a parte – comunque – la Conferenza della Pace era il paravento dietro cui si
celava il perfido maneggio che americani ed inglesi avevano ordito ai danni delle loro principali
alleate. Non solo dell’Italia, come meglio vedremo più avanti; ma anche della stessa Francia che,
dopo la fine dell’orgogliosa avventura napoleonica, era sempre stata prona ai desiderata
anglosassoni.
Procediamo con ordine: nel seno dei “Quattro Grandi” si precostituiva ufficiosamente una
maggioranza USA-UK-Francia, in contrapposizione alla componente italiana; all’interno di tale
maggioranza prevaleva il blocco anglo-americano e, dentro questo, si aveva l’assoluta primazìa degli
Stati Uniti.
Questa sorta di gerarchia piramidale aveva una precisa giustificazione di natura economica. Al
vertice v’erano gli Stati Uniti, perché questi erano gli unici a disporre di un’ampia possibilità di
manovra economica, al punto che gli altri tre “grandi” – finanziariamente dissanguati dalla guerra –
dipendevano da Washington per la loro stessa sopravvivenza alimentare.
«In verità – scrive la Melchionni – gli Stati Uniti disponevano di un potere contrattuale enorme
alla fine della guerra, perché gli alleati erano finanziariamente nelle loro mani.»[4]
Ma anche nello stato di difficoltà economica v’era una graduatoria: in cima v’era la Gran Bretagna,
la meno “povera”, peraltro legata agli Usa da una pressoché assoluta comunanza di interessi; in
posizione mediana, la Francia; e, in fondo, l’Italia.
«L’Italia nell’immediato dopoguerra – scriveva il generale Caviglia – attraversò un momento
Ereticamente
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difficile. Era spossata, senza capitali, senza materie prime, senza viveri. I rifornimenti del paese
dipendevano dalla buona volontà dei nostri ex-alleati. Bisognava cercare di guadagnare tempo,
mentre essi volevano ricattarci imponendo all’Italia delle condizioni di pace che sabotavano la
nostra vittoria.»
Ciò spiega perché l’Italia non avesse difeso le proprie ragioni con le armi, laddove queste fossero
state insidiate, come a Fiume o in Montenegro: «Non era possibile assumere un atteggiamento
armato di fronte alla volontà ostile degli ex-alleati, perché i rifornimenti dell’Italia dipendevano dalla
loro buona volontà.» E, più avanti: «In seguito avevo visto la Francia e l’Inghilterra sempre più
cinicamente tradire l’Italia e trattarla come nemica vinta, e servirsi del Presidente Wilson per
ricattarla. Nelle condizioni economiche in cui essa versava, dopo tutti i sacrifici generosamente fatti
per la guerra, stremata di materie prime e di viveri, essi minacciavano per mezzo del Presidente
degli Stati Uniti di rifiutarle i mezzi di vita, se non accettava una pace di umiliazione e di
spoliazione.»[5]
Parigi era in una posizione mediana, ma solamente quanto alle condizioni economiche; perché sul
piano generale era invece la più penalizzata dalla prevalenza del blocco anglosassone. La Francia
era, infatti, la nazione-cardine dell’Europa, della sua cultura, del suo prestigio, del suo primato sulla
scena mondiale. Posizioni che l’Italia – giunta soltanto da pochi decenni all’unità nazionale – non
poteva vantare e, quindi, non poteva perdere.
LA
FRANCIA
È
UMILIATA,
MA
FINGE
DI
NON
ACCORGERSENE
Era proprio ai danni della Francia che americani ed inglesi organizzavano una formidabile manovra
di spoliazione delle sue prerogative. Senza l’arrogante rozzezza della congiura antitaliana che
incominciava a delinearsi, ma con tatto, con sottile intelligenza, dando addirittura l’impressione di
voler premiare la fedele alleata. Il Primo Ministro francese Georges Clemenceau era infatti nominato
Presidente della Conferenza della Pace, e la stessa scelta della sede della Conferenza – il castello di
Versailles – era frutto di una valutazione che premiava i rancori gallici accumulati dopo la guerra
franco-prussiana di mezzo secolo prima.[6]
Il settantottenne Clemenceau, soprannominato “il Tigre”, era lasciato libero di ruggire non soltanto
contro l’odiata Germania, ma adesso anche contro l’alleata Italia, dandogli l’impressione di essere
lui a guidare inglesi e americani lungo i sentieri impervi delle trattative di pace.
In realtà, era esattamente il contrario: era in primo luogo l’Inghilterra ad essere interessata alla
cancellazione della Germania come potenza militare e marittima, così come era sempre l’Inghilterra
ad essere la più interessata a comprimere il dinamismo italiano. All’uopo, i francesi venivano
utilizzati soltanto come truppe ausiliarie, ma – come si diceva – dando loro l’impressione di guidare
Ereticamente
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l’attacco.
Inoltre, americani ed inglesi organizzavano contro i francesi un raggiro particolarmente odioso,
quello che mirava ad espropriarli della primazìa linguistica (e quindi culturale) nel mondo civile. Un
raggiro – sia detto per inciso – che è all’origine dell’odierna dittatura culturale anglosassone
sull’intero pianeta.
Infatti, accampando la non conoscenza del francese da parte del Presidente americano Wilson (e non
curandosi della non conoscenza dell’inglese da parte del Presidente del Consiglio italiano Orlando),
gli anglosassoni imponevano l’inglese come lingua ufficiale della Conferenza della Pace. E ciò,
malgrado la Conferenza si svolgesse a Parigi e malgrado il francese fosse – da sempre – la lingua
franca della diplomazia mondiale.
Così, con un sol colpo, gli anglo-americani iniziavano la colonizzazione culturale dell’Europa e, al
tempo stesso, imponevano la loro lingua come idioma ufficiale delle relazioni internazionali.
Il Tigre non faceva una piega: mostrava i denti, accennava uno scatto… ma, come ogni fiera da
baraccone, obbediva docilmente agli ordini del domatore.
NOTE
[1] Le Quattro Grandi diverranno in un secondo tempo Cinque, con l’aggregazione – in funzione di
appoggio agli inglesi – del Giappone; era però inteso che quest’ultimo avesse voce in capitolo
soltanto per le questioni relative all’estremo oriente.
[2] Amedeo GIANNINI: L’Albania dall’indipendenza all’unione con l’Italia. 1913-1939. Istituto per
gli Studi di Politica Internazionale, Roma, 1940.
[3] G.P. GENOV: Il Trattato di Neuilly e la Bulgaria. Associazione Italo-Bulgara, Roma, 1940.
[4] Maria Grazia MELCHIONNI: Il confine orientale italiano, 1918-1920. Volume 1: La Vittoria
Mutilata. Problemi ed incertezze della politica estera italiana sul finire della Grande Guerra (ottobre
1918 – gennaio 1919). Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1981.
[5] Enrico CAVIGLIA: Il conflitto di Fiume. Garzanti editore, Milano, 1948.
[6] Si ricordi che proprio a Versailles, nel 1871, l’arroganza prussiana aveva voluto che fosse
incoronato il primo imperatore del Secondo Reich tedesco, Guglielmo I.
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