M.C.A.
Appunti di anatomia
A.A. 2014/15 e 2015/16
Marcello Casuso Alvarez
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M.C.A.
SCHELETRO DEL TORACE
Si compone di una colonna vertebrale, costituita dalla sequenza metamerica (fino a un certo punto) di
vertebre impilate l’una sopra l’altra, analogamente alla sequenza dei gruppi fosfati in una singola elica di
acido nucleico.
Colonna vertebrale:
La colonna vertebrale rappresenta l’asse portante dello scheletro, quindi del corpo umano, ed è disposta
perpendicolarmente al piano terra. Essa viene suddivisa in regioni, dall’alto verso il basso si ha:
- Regione Cervicale: 7 vertebre (C1,C2,…,C7)
- Regione Toracica: 12 vertebre (T1,T2,…,T12)
- Regione Lombare: 5 vertebre (L1,L2,….,L5)
Fino a qui le vertebre (24) sono separate le une dalle altre, sono cioè individuabili.
- Regione Sacrale: 5 vertebre (S1,S2,…,S5) fuse in un unico osso, l’osso sacro, che appare come un cono
tronco con la base rivolta verso l’alto, molto appiattito in senso anteroposteriore (quasi un triangolo)
- Regione Coccigea: 4 vertebre (Co1,Co2,Co3,Co4) fuse in un unico osso, il coccige
Sacro e coccige sono associate in un’unica struttura anatomica, il sacrococcige.
In totale le vertebre sono 33. Da notare che le 5 vertebre sacrali e le 4 vertebre coccigee sono fuse a formare
due strutture ossee, che vengono comunemente assimilate in un’unica struttura anatomica: il sacrococcige.
Colonna cervicale:
La colonna vertebrale cranialmente, tramite la colonna cervicale, si continua con il cranio. La prima vertebra
(C1), detta atlante, si articola con una coppia di processi ossei dell’osso occipitale del cranio, i condili, di
forma semiovoide, per assicurare sostegno e mobilità al cranio, in particolare estensione, flessione, rotazione
(movimento di un corpo attorno ad uno dei propri assi) e circumduzione (movimento di un corpo attorno ad
un punto).
La colonna cervicale, se non con la colonna toracica, non si articola con nient’altro.
Colonna toracica:
La colonna toracica da inserzione a 12 coppie di ossa piatte, le coste, arrangiate in maniera metamerica tale
da congiungersi in avanti con lo sterno (tutte tranne le ultime 2), osso impari, mediano e anteriore, grazie al
fatto che ciascuna costa descrive un segmento di ellisse. Questo determina 3 corollari:
1) le 12 vertebre toraciche servono a dare inserzione alle 12 coppie di coste;
2) dato che le coste convergono verso lo sterno, ne deriva che una funzione importante della colonna toracica
è quella di contribuire alla formazione della gabbia toracica, scheletro del torace;
3) gabbia toracica e torace sono concetti differenti, così come parete toracica e torace: la gabbia toracica è lo
scheletro della parete toracica, la parete toracica è l’insieme della gabbia toracica e dei tessuti molli che
riempiono certi spazi, il torace è la cavità delimitata da gabbia e parete toracica.
Colonna lombare:
La colonna lombare non si articola con altre ossa, se non cranialmente con T12 e caudalmente con S1. In
questa regione non ci sono coste, ma soltanto vestigia, indice che qualche nostro antenato le possedeva anche
a questo livello.
N.B.: Al di sotto del piano passante per la base del torace fino all’attacco degli arti inferiori lo scheletro è
costituito soltanto da 5 vertebre lombari e dalla parte superiore della pelvi, la grande pelvi, per il resto la
parete dell’addome è costituita principalmente da tessuto molle, composto da cute, sottocute, muscoli e fasce
muscolari. Questo perché nell’uomo la cavità addominale viene invasa dall’utero durante la gravidanza, il
quale ospita l’embrione prima e il feto poi e non può accrescersi né verso il basso né verso il dietro, ma
soltanto verso l’alto e in avanti. Affinché questo accada è necessario che la parete dell’addome sia
deformabile, per questo è composta da tessuto molle. Questa caratteristica inoltre consente tutta una serie di
movimenti del tronco quali la flessione, la torsione e l’inclinazione. Inoltre la parete molle dell’addome
consente di aumentare la pressione intraddominale allo scopo di tossire, starnutire, ridere, defecare, mingere,
partorire, ecc..
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Bacino (o Pelvi):
Lo scheletro dell’addome non è tuttavia composto soltanto dalla colonna lombare, esso comprende anche
altre ossa: il sacrococcige e le 2 ossa dell’anca.
Osso dell’anca:
L’osso dell’anca è formato dalla fusione di 3 ossa distinte, l’ileo, l’ischio e anteriormente e medialmente il
pube. Visto dall’alto somiglia ad un “8” la cui parte superiore è composta dall’ileo e la parte inferiore dal
pube e dall’ischio, ma con delle particolarità:
- la parte superiore dell’ “8” è più ampia di quella inferiore;
- la parte inferiore è bucata (grande forame otturatorio), la parte superiore no;
- la parte superiore e la parte inferiore sono torte l’una rispetto all’altra: la parte superiore è disposta a
formare una conchetta aperta in avanti e medialmente, la parte inferiore volge medialmente, tanto che i
due pubi si articolano tra loro al davanti e in basso in quella che si chiama sinfisi pubica.
L’insieme del sacro e delle 2 ossa dell’anca descrive una bacinella con sezione ellittica che viene detta
bacino o pelvi. La parte superiore della pelvi, la grande pelvi, concorre a costituire la parete dell’addome.
Lo scheletro dell’addome quindi, oltre che dalle 5 vertebre lombari, è composto anche dalla parte superiore
delle 2 ossa dell’anca (i 2 ilei) e dalla parte superiore dell’osso sacro (le prime 2-3 vertebre), che si articolano
a formare due articolazioni, dette sacroiliache (di destra e di sinistra).
L’osso dell’anca, nella regione di fusione delle 3 ossa (ileo, ischio e pube), sulla superficie esterna presenta
una fossa, una emisfera vuota detta acetabolo, complementare all’estremo craniale, la testa, dell’osso della
coscia, il femore, quindi alla testa del femore, che ha infatti forma di sfera. Si forma in questo modo
l’articolazione coxofemorale o articolazione dell’anca (una a destra e una a sinistra) articolazione mobile
che appartiene alla categoria delle enàrtrosi (quando un capo articolare osseo è sferico e l’altro è
complementare) che assicura tutti i movimenti possibili: flessione, estensione, adduzione, abduzione,
rotazione e circumduzione. Le articolazioni coxofemorali sono quelle che garantiscono la capacità di
movimento camminando e la capacità di mantenimento dell’equilibrio eretto.
L’osso dell’anca ha quindi 2 funzioni: concorrere alla composizione della parete della cavità addominale e
costituire l’articolazione coxofemorale o articolazione dell’anca
Bipedismo:
L’uomo è l’unico vertebrato caratterizzato da bipedismo, condizione che antropologicamente nasce in seguito
all’insorgere della necessità di portare il cibo a casa utilizzando gli arti superiori.
Questo ha determinato nell’uomo una rivoluzione dello scheletro rispetto alle altre specie animali:
- Il bacino, visto frontalmente, è di forma ellittica con l’asse trasversale maggiore dell’asse longitudinale,
mentre nelle altre specie l’asse trasversale è minore dell’asse longitudinale: nell’uomo si è allargato;
- Il grande trocantere, processo osseo del femore, si trova su un piano laterale rispetto a testa e collo del
femore, mentre nelle altre specie si trova su un piano laterale, ruotato cioè di 90° verso il davanti;
- La colonna vertebrale vista di profilo non è dritta, ma presenta convessità e concavità alternate: il tratto
cervicale è convesso verso l’avanti (lordosi cervicale), il tratto toracico è convesso verso il dietro (cifosi
toracica), il tratto lombare è convesso verso l’avanti (lordosi lombare) e il sacro coccige è convesso
verso il dietro (cifosi sacrococcigea). Ciò è dovuto al fatto che l’assunzione della posizione bipede ha
comportato una diversa distribuzione del peso a livello del cranio, posteriormente più pesante: a livello
della prima vertebra, atlante, si genera uno squilibrio che viene bilanciato dalla lordosi cervicale, a sua
volta compensata dalla cifosi toracica, e così via fino alla cifosi sacrococcigea. Il termine lordosi indica
convessità anteriore, il termine cifosi indica convessità posteriore.
- Le scapole, coppia di ossa dorsali, nell’uomo sono disposte più o meno su un piano frontale. Negli altri
animali le scapole non sono orientate su un piano frontale, benché nemmeno su un piano sagittale, ma su
un piano obliquo, che tuttavia è molto più sagittale di quanto non sia nell’uomo. Questa conformazione
nell’uomo fa sì che l’omero sia anch’esso traslato di 90° verso l’esterno, per cui il diametro trasverso della
parte superiore del tronco è molto maggiore del diametro anteroposteriore
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Cingolo scapolare:
C’è tuttavia una differenza tra arto superiore e arto inferiore: i movimenti che si possono compiere con arto
superiore e inferiore sono qualitativamente gli stessi (flessione, estensione, adduzione, abduzione, rotazione,
circumduzione), ma quantitativamente quelli dell’arto superiore sono molto maggiori. Ad esempio si può
iperabdurre l’arto superiore ma non l’arto inferiore. L’estrema mobilità dell’arto superiore è dovuta al fatto
che mentre inferiormente abbiamo una conformazione tale per cui 3 ossa (le 2 ossa dell’anca e il sacro) si
articolano tra loro a formare un recinto, una bacinella estremamente rigida, e a questo livello si inseriscono i
femori, a livello dell’arto superiore l’omero, l’osso del braccio, è appeso alla scapola.
Scapola:
Le scapole sono 2 ossa piatte, posteriori, disposte quasi sul piano frontale, a forma di triangolo rettangolo in
cui i cateti maggiori sono paralleli tra loro e sono l’elemento più vicino alla colonna vertebrale (margine
mediale o vertebrale della scapola); il cateto minore è parallelo al piano terra e guarda in alto; l’ipotenusa è il
margine laterale o ascellare o brachiale perché più vicino all’ascella e all’omero.
Posteriormente la scapola, in prossimità del margine superiore, presenta un’appendice, un processo osseo, la
spina della scapola, che termina lateralmente con una protuberanza detta acròmion.
Al suo estremo laterosuperiore la scapola presenta la cavità glenoidea, destinata ad accogliere la testa sferica
dell’omero. La cavità glenoidea è appena accennata, molto meno profonda dell’acetabolo, ed è accentuata
dal cercine fibroso, anello fibroso che ne aumenta la profondità. Proprio perché la cavità glenoidea è poco
profonda i movimenti della testa dell’omero sono quantitativamente maggiori rispetto a quelli del femore
nell’arto inferiore. Questa conformazione anatomica è la causa della maggiore probabilità di fuoriuscita della
testa dell’omero dalla cavità glenoidea, rispetto a quella di fuoriuscita del femore dall’acetabolo, a parità di
trauma. Questo evento è detto lussazione della spalla. Tramite l’acròmion la scapola si articola con la
clavicola.
Clavicola:
E’ un osso piatto, non molto lungo, disposto a formare una “S” coricata vista dall’alto. Infatti essa presenta 2
convessità: nella metà laterale la convessità guarda indietro, nella metà mediale guarda in avanti.
All’estremità laterale la clavicola si articola con la scapola, in particolare con la spina della scapola, in
particolare con l’acròmion, mentre con la sua estremità mediale si articola con la parte superiore dello sterno.
Non ci sono altre articolazioni, quindi è evidente come l’arto superiore sia appeso alla scapola, che a sua
volta è appesa all’estremità superiore dello sterno. Questo permette l’ampia gamma di movimenti possibili,
qualitativamente e quantitativamente, che si possono compiere con l’arto negativo.
Oltre alla maggior facilità di lussazione della spalla, un altro punto debole è l’articolazione mediale della
clavicola con la parte superiore dello sterno, che anch’essa può lussarsi, disarticolarsi.
Gabbia toracica:
Vertebre:
Le vertebre non hanno tutte le stesse dimensioni, tendono a crescere procedendo verso il basso. Le vertebre
lombari sono le più grandi.
Anteriormente ogni vertebra rappresenta una sezione di cilindro, leggermente appiattito in senso
anteroposteriore, le cui superfici superiore e inferiore sono incavate, pronte per accogliere il disco
intervertebrale, che ha la forma di una lente biconvessa, quindi complementare. Questa parte prende il nome
di corpo vertebrale.
Dagli estremi della superficie posteriore del corpo si diparte, una a destra e una a sinistra, la radice o
peduncolo della vertebra. La radice della vertebra, dopo un breve tragitto verso il dietro, da origine a 2
processi, come se si dividesse ad “Y”. L’estremità della Y che va verso l’esterno prende il nome di processo
trasverso; l’altra estremità della Y, che va indietro e medialmente, prende il nome di lamina della vertebra.
In tutte le vertebre le due lamine tendono a convergere posteriormente in un punto e a fondersi in un
processo impari e mediano, il processo spinoso, che rappresenta la parte più dorsale delle vertebre.
I processi spinosi hanno varie morfologie: via via che si scende da C1 a T12 i processi spinosi, inizialmente
paralleli al piano terra, tendono a inclinarsi progressivamente, per tornare invece ad essere orizzontali a
livello delle vertebre lombari.
Dal confine tra il processo trasverso e la lamina, a destra e a sinistra, si dipartono altri 4 processi ossei, 2
superiori e 2 inferiori, che la vertebra usa per articolarsi con la vertebra soprastante e la vertebra sottostante.
Infatti le vertebre sono articolate tra loro non soltanto tramite il disco intervertebrale ma anche attraverso una
serie di faccette articolari che le tengono insieme, le une complementari alle altre.
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Proprio perché le lamine convergono lungo la linea di centro per fondersi e formare il processo spinoso, si
viene a creare uno spazio, che in sezione è vagamente triangolare, delimitato anteriormente dal corpo della
vertebra e posterolateralmente e posteriormente dalle lamine ossee, che prende il nome di foro vertebrale.
Dalla disposizione in serie delle vertebre si ottiene un canale, il canale vertebrale, formato dai singoli fori
vertebrali, destinato ad ospitare il midollo spinale e un involucro del midollo spinale, le meningi (plurale).
Tra una vertebra e l’altra, per il contributo delle radici della vertebra soprastante e di quella sottostante, si
viene a creare una coppia di spazi, uno a destra e uno a sinistra, che prendono il nome di fori intervertebrali
o fori di coniugazione. Questi fori sono importanti perché rappresentano l’unica porta di entrata e uscita tra
il canale vertebrale e ciò che sta attorno. Questa via di comunicazione è fondamentale per l’ingresso delle
arterie che devono irrorare il contenuto del canale vertebrale e per l’uscita delle vene che devono portare via
sostanze di rifiuto. Inoltre attraverso i fori di coniugazione emergono i nervi, composti da fibre in uscita e in
entrata dal midollo spinale.
Le vertebre sono disposte in serie, in modo segmentario, ma sono tenute insieme da strutture quali i dischi
intervertebrali.
Disco intervertebrale:
A livello del tratto cervicale, toracico e lombare della colonna vertebrale, tra una vertebra e l’altra sono
presenti i dischi intervertebrali. Il disco intervertebrale è composto da tessuto connettivo che forma vari strati
concentrici con all’interno una parte centrale, molto idratata alla nascita, il nucleo polposo, di consistenza più
molle rispetto all’anello fibroso che lo circonda.
Le vertebre quindi, nei tratti cervicale, toracico e lombare, si articolano tra loro tramite il disco
intervertebrale. Questo tipo di articolazione è qualitativamente identico all’articolazione tra le 2 ossa del
pube. Anche queste infatti sono sinfisi, un tipo di articolazione semi-mobile.
Proprio perché il foro di comunicazione dà passaggio al nervo periferico, e proprio perché il foro si trova
immediatamente tra la radice della vertebra soprastante e la radice della vertebra sottostante, il disco
intervertebrale concorre a formare la parete di questo foro di coniugazione. E’ importante perché se si riduce
la lordosi lombare, ad esempio tra L4 e L5, punto critico, la parte anteriore del disco intervertebrale comincia
ad essere compressa, e di conseguenza a lungo andare il nucleo polposo, che è molto idratato, si sposta
posteriormente e lateralmente: si ha ernia discale. Questo comporta che il nucleo polposo va a comprimere il
nervo che sta uscendo a livello del foro di coniugazione, a destra o a sinistra, e quando un nervo periferico
viene compresso meccanicamente si ha il fenomeno della parestesia, il cosiddetto formicolio, che rientra
nella categoria del dolore (si può avere dolore anche più intenso). A lungo andare anche le fibre motrici sono
coinvolte, con conseguente disturbo motorio: impotenza muscolare. Se viene coinvolto il nervo sciatico si
parla di sciatalgia.
Nell’osso sacro non ci sono dischi intervertebrali, le ossa sono fuse tra loro, ma anche qui ci sono fori di
coniugazione, il che significa che anche a questo livello entrano ed escono vasi ed entrano ed escono fibre
sensitive e motrici, che vanno ad innervare l’arto inferiore e il perineo. E dato che la compressione di un
nervo può essere anche il risultato di un tumore o di una rarefazione ossea causata da osteoporosi, e che nella
regione sacrale non ci sono dischi intervertebrali, se il paziente riferisce dolore al perineo non si può pensare
sia discopatia o ernia discale, ma qualcosa di più grave.
Legamenti vertebrali: Esistono altre strutture che tengono insieme le vertebre tra loro.
1) Legamento longitudinale anteriore: fettuccia (2 cm ca.) continua di tessuto fibroso continuo, al
davanti dei corpi vertebrali, incollato alla faccia anteriore dei corpi vertebrali, si estende da C1 a L5.
2) Legamento longitudinale posteriore: si trova posteriormente ai corpi vertebrali, continuo ma più
stretto dell’anteriore; da questo periodicamente si diparte tessuto fibroso a destra e a sinistra, come le
spine di una lisca di pesce, che va a rinforzare posteriormente e lateralmente il disco intervertebrale a
cui si attacca.
3) Legamento sopraspinoso: si trova lungo gli apici dei processi spinosi, continuo, simile ad una
corda.
4) Legamenti interspinosi: da un processo spinoso soprastante al processo spinoso sottostante si
trovano i legamenti interspinosi, periodici, non continui.
5) Legamenti gialli: (gialli a causa del loro colore) tra una lamina ossea e l’altra, a destra e a sinistra,
periodici, ma diversamente dai legamenti interspinosi si trovano in coppia tra una vertebra e l’altra.
Tutti questi legamenti hanno il compito di tenere insieme la colonna vertebrale e, per le sue parti semimobili,
dare una certa rigidità senza interferire con la mobilità necessaria.
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Coste:
Eccezion fatta per T1 e T2, laddove questa articolazione si trova tra una vertebra soprastante e quella
vertebra sottostante, a livello del tratto toracico si articolano, a destra e a sinistra, coppie di coste con le
vertebre.
La costa è un osso piatto, una sezione di ellisse, che posteriormente e medialmente si articola con la
corrispondente vertebra e vi si articola con un processo, più largo rispetto al resto, come l’estremo di una
bacchetta di tamburo, la testa della costa, seguito da un collo che va indietro e lateralmente per un breve
tragitto, poi improvvisamente l’andamento della costa inverte il suo tragitto, per continuarsi nel corpo della
costa che raggiunge lo sterno. Le coste nascono dietro e medialmente e terminano avanti e medialmente.
Esse sono in numero di 12 paia e si distinguono in coste vere e coste false: le prime 7 coppie di coste sono
vere, le ultime 5 coppie sono false. Le coste vere sono chiamate così perché ad un certo punto cessano di
essere composte da tessuto osseo e si continuano con un tratto di tessuto cartilagineo che va ad articolarsi
con lo sterno in maniera indipendente l’una dall’altra, sia a destra che a sinistra: lungo il margine laterale
dello sterno ci sono dei punti precisi destinati a ricevere la cartilagine costale di ogni costa, fino alla 7°.
Le coste false si dividono a loro volta in 2 gruppi: il primo gruppo è composto da 8°, 9° e 10° costa, le quali
presentano sempre tratti finali di tessuto cartilagineo, ma convergono in un unico processo cartilagineo che
raggiunge lo sterno; il secondo gruppo è composto da 11° e 12° costa, dette fluttuanti o libere perché sono
prive di elementi cartilaginei: si interrompono e non si articolano con lo sterno, né direttamente, né
indirettamente.
Le cartilagini costali devono percorrere un tragitto verso l’alto e medialmente per raggiungere la loro
destinazione finale che è lo sterno. Si viene a costituire una coppia di arcate o archi condrocostali, con cui
si intende il profilo delle cartilagini costali, sostanzialmente della 10°,9° e 8° costa, che si uniscono e
raggiungono la parte inferiore dello sterno. Viste del davanti le arcate condrocostali determinano un angolo
acuto aperto in basso.
Sterno:
Le coste raggiungono lo sterno, osso piatto, impari, mediano e anteriore, che consta di 3 ossa fuse tra loro. I
margini superiore e laterali dello sterno non sono linee rette ma presentano incisure.
La parte superiore, più larga, è detta manubrio dello sterno; a questa segue una parte più sottile e lunga, il
corpo dello sterno, ed infine la parte inferiore, il processo xifoideo.
- Manubrio: E’ un poligono il cui lato superiore è una linea concava verso l’alto e prende il nome di
incisura giugulare dello sterno, anche nota come giugulo. Questa è un’incisura libera, che non si articola
con nessun osso. L’incisura giugulare dello sterno proietta tra la 2° e la 3° vertebra toracica, T2 e T3.
Il profilo del manubrio dello sterno presenta un’altra incisura, una coppia, che non è libera perché in
questa regione si inserisce il capo mediale della clavicola, a destra e a sinistra.
A seguire si trova un’altra coppia di incisure, che servono ad accogliere la cartilagine della 1° costa.
In seguito il profilo del manubrio dello sterno scende in basso e medialmente a formare un’altra coppia di
incisure libere e all’estremo inferiore di queste due linee comincia il corpo dello sterno.
- Corpo: Comincia in maniera visibile e apprezzabile alla digitopressione perché esiste una linea di
demarcazione netta che segna il passaggio dal manubrio al corpo dello sterno, dovuta al fatto che le 2 ossa
sono articolate in una sinartrosi, in cui i 2 capi articolari si uniscono incollandosi, a livello della quale si
forma un angolo ottuso indietro, detto angolo sternale o angolo di Louis, importante perché all’altezza di
questo angolo confluiscono le cartilagini della 2° costa.
Al di sotto dell’angolo sternale, il corpo dello sterno prosegue per alcuni cm e si articola con le cartilagini
costali alternandosi a spazi, fino ad arrivare all’estremo inferiore del corpo dove un’altra linea, questa
volta non apprezzabile, marca il passaggio tra corpo e processo xifoideo dello sterno. Nel punto di
passaggio da corpo e processo xifoideo arriva la cartilagine costale che media il rapporto dell’8°, 9° e 10°
costa con lo sterno.
- Processo xifoideo: Non riceve coste, non si articola con nessun osso se non con il soprastante corpo, e
proietta posteriormente alla 9° vertebra toracica, T9.
L’insieme di questi elementi delimita lo spazio del torace.
Nel suo complesso la gabbia toracica, vista dal davanti o dal dietro, appare come un cono con la base rivolta
verso il basso e l’apice verso l’alto, appiattito in senso anteroposteriore e con l’apice tronco. L’apice è tronco
perché è formato da T1, la prima coppia di coste e la parte superiore dello sterno (come un albero tronco).
La lunghezza tra T1 e T12, corrispondente a circa 30 cm, è molto maggiore della lunghezza dello sterno, che
è circa la metà. Questo impone come conseguenza che le coste risalgano in alto e medialmente per
raggiungere lo sterno via via che si passa dalla prima alla 10° coppia di coste (11° e 12° non lo raggiungono).
Di conseguenza l’aspetto del cono che rappresenta la gabbia toracica è asimmetrico, poiché davanti è
incompleto. Questa caratteristica è funzionale.
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I piani immaginari poggiati sulle coste aumentano l’inclinazione in basso e in avanti via via che si procede
dalla prima all’ultima coppia. Questa morfologia è funzionale perché è alterabile: dato che i polmoni sono
solidali con la parete toracica, se si trova il modo di modificare in maniera transitoria la morfologia della
parete toracica, per esempio aumentando i diametri anteroposteriore, trasverso e verticale, si trova il modo di
ampliare il volume interno del torace. Se si aumenta il volume del torace la pressione diminuisce e viceversa.
L’aria entra nelle vie aeree grazie ad una diminuzione della pressione endotoracica. La morfologia della
gabbia toracica è funzionale a fare in modo che durante l’inspirazione questa si alteri: le coste non sono
continue l’una con l’altra, tra una costa e l’altra ci sono 11 spazi intercostali, pieni di tessuto molle, composto
prevalentemente da muscolatura scheletrica, i muscoli intercostali, orientati in maniera tale che con la loro
contrazione durante l’inspirazione le coste vengano tirate verso l’alto, quindi ruotate in avanti e verso l’alto
con il loro margine inferiore. Il movimento della singola costa in queste 2 direzioni, moltiplicato per 12 e per
2, determina un valore che va considerato al cubo e rappresenta la variazione di volume, che corrisponde a
circa +300 ml, esattamente la quantità di aria che introduciamo nei polmoni in un ordine di respirazione
tranquilla. Affinché questo accada è tuttavia necessaria anche l’azione di un muscolo, il diaframma.
Questo progressivo aumento di inclinazione del piano delle coste, di fatto, è funzionale a fare in modo che
durante l’inspirazione le coste possano essere tirate su e possano ruotare: ruotando, proprio perché sono
inclinate, spingono in avanti lo sterno, e siccome ogni minima variazione va considerata al cubo, questo è un
modo efficace di fare aumentare il volume interno del torace e quindi diminuire la pressione, utile per
risucchiare aria.
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CAVITA’ TORACICA
Struttura e generalità:
La maggior parte del torace, circa i ¾, è occupata dai polmoni.
Se vengono tagliate le coste toraciche e non viene spostato nulla si vedono i 2 polmoni, coperti dalle pleure,
e si intravede un’enorme formazione più o meno centrale nella parte inferiore del torace, di colore grigio.
Questa formazione è il cuore. Il colore grigio è dato dal fatto che il cuore è avvolto da un involucro, il
pericardio, di cui si vede il foglietto più esterno (pericardio fibroso) composto da tessuto connettivo, che
essendo poco vascolarizzato appare grigio. Il cuore diventa visibile se si spostano leggermente verso destra e
verso sinistra i 2 polmoni, che altrimenti lo coprono parzialmente.
Per comodità si attribuisce un nome allo spazio della cavità toracica non occupato dai polmoni: mediastino.
Se si fa la stessa cosa in un neonato si osservano qualitativamente le stesse cose che si osservano in un
soggetto giovane, ma non si ha necessità di spostare i polmoni, in quanto il soggetto non ha mai respirato e di
conseguenza hanno un volume complessivo minore, non c’è aria all’interno (“è la funzione che fa l’organo”).
Quindi i polmoni appaiono retratti e gran parte del mediastino è occupato dal cuore, che invece è un organo
che funziona da subito. Il cuore è un organo che si accresce in proporzione enormemente rispetto al suo
proprietario, per questo occupa gran parte del mediastino e del torace.
In un neonato, ma anche in un bambino e in un adolescente, fino a circa 23 anni, la parte superiore del
mediastino (ciò che sta sopra il cuore) è occupata da un altro organo, grigiastro e bilobato, il timo.
Timo:
E’ un organo molto grande alla nascita, se pur più piccolo del cuore, tanto grande che con qualche suo lobo
sconfina nel collo. E’ un organo linfoide, appartiene al sistema immunitario di cui rappresenta un organo
centrale. Qui infatti i linfociti acquisiscono la maturità funzionale immunologica. Il timo è un organo vitale:
se esso manca il proprietario è destinato a vivere in maniera del tutto isolata perché qualora si esponesse
all’ambiente naturale verrebbe investito da virus e batteri contro cui non ha armi, quindi soccomberebbe per
malattia infettiva. Il timo è un organo a termine: vive meno di quanto non viva il suo proprietario. Cresce
insieme al proprietario fino circa alla pubertà; per tutta l’adolescenza (periodo che va dalla pubertà ai 18-23
anni) il timo cresce molto meno del suo proprietario, quindi in proporzione si rimpicciolisce; dopo
l’adolescenza progressivamente regredisce, perché una volta svolto il suo compito non serve più. Rimane
solo qualche tralcio fibroso del timo, sopra il cuore al davanti di alcuni vasi, che ne rappresenta le vestigia.
E’ importante che il timo venga eliminato, perché la sua persistenza nel soggetto dopo l’adolescenza è
epidemiologicamente (epidemiologia = scienza che studia l’andamento statistico delle malattie) correlata a
una grave malattia neuromuscolare, la miastenìa grave, malattia autoimmune della placca motrice (il luogo in
cui assoni motori fanno sinapsi con le miofibre scheletriche). E’ una malattia grave perché può colpire le
placche motrici di muscoli respiratori. Esiste una correlazione positiva: la rimozione del timo in un soggetto
con miastenìa grave migliora notevolmente la sintomatologia del paziente.
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CUORE:
Struttura e generalità:
Il cuore è una pompa elettromeccanica propellente e aspirante. Organo vitale, deputato a spingere sangue
nel circolo per assicurare ossigenazione dei tessuti.
In un soggetto adulto il cuore ha un asse maggiore lungo 13 cm circa, orientato in basso, in avanti e a
sinistra.
Il cuore ha la forma di una piramide, con apice che guarda in basso, in avanti e a sinistra, arrotondato, e base
rivolta in alto, indietro e a destra.
E’ una piramide in cui si distinguono, oltre alla base, 3 facce:
1) Faccia sternocostale: guarda verso lo sterno e verso le coste, in particolare le coste di sinistra, ma
soltanto una piccola regione vi è a contatto. E’ una faccia complessivamente convessa verso l’avanti
e verso l’alto.
2) Faccia diaframmatica: così chiamata perché poggia sul diaframma, ma di fatto è la faccia inferiore,
che guarda in basso e leggermente indietro. E’ una faccia relativamente piatta.
3) Margine ottuso: faccia che guarda verso sinistra, complessivamente convessa, con dimensioni
molto minori rispetto alla faccia sternocostale e alla faccia diaframmatica, per questo non nota come
“faccia” ma come “margine”. Si usa il termine margine ottuso, nonostante sia una faccia, per
assonanza con un altro margine, invece ben visibile, il margine acuto, che limita anteriormente il
cuore e che segna il passaggio dalla faccia sternocostale alla faccia diaframmatica andando dall’alto
in basso lungo la faccia sternocostale (il margine in anatomia corrisponde a ciò che in geometria
solida è lo spigolo). Il margine acuto è molto meno arrotondato del margine ottuso e se si taglia
trasversalmente la parte di cuore prospiciente l’apice, la sezione mostra un angolo acuto. Il margine
acuto da destra a sinistra è quasi parallelo al piano terra. Può venir chiamato anche “margine di
destra”, ma non è corretto, perché non si trova a destra.
Osservando il cuore isolato, se lo si guarda dal davanti e da sotto, si nota che lontano dall’apice, verso la
base, in superficie è percorso da un solco che lo avvolge pressoché completamente, il solco coronario
(ricorda una corona). Il solco coronario definisce sulla superficie esterna del cuore il passaggio tra la regione
ventricolare, anteriore e inferiore, la più grande, la più ricca di muscolatura e che va dal piano immaginario
del solco coronario all’apice, da tutto il resto, cioè la regione atriale, superiore, posteriore e rivolta a destra,
che sta dietro questo piano immaginario.
Secondo alcuni anatomici si può identificare la base del cuore con l’insieme dei 2 atri, cioè tutto ciò che sta
dietro al piano immaginario passante per il solco coronario. Secondo altri, correttamente, ciò non è vero,
perché ad esempio parte degli atri costituisce la faccia sternocostale e la faccia diaframmatica, e si identifica
con la base del cuore la parte più alta, che volge in alto, indietro e a destra, laddove il cuore finisce dietro,
cioè una parte della regione atriale (non tutta la regione atriale, ma soltanto l’estremo dorsale, craniale e che
guarda verso destra). Questa parte, posteriore al piano passante per il solco coronario, è la più complessa,
perché vi si trovano tante formazioni, quali la regione atriale e un certo numero di vasi, arteriosi e venosi,
che nell’insieme rappresentano il peduncolo del cuore (peduncolo è in anatomia ciò che in botanica è il
picciolo).
L’asse maggiore del cuore è volto in avanti, in basso e a sinistra e il solco coronario insiste su un piano
grossolanamente perpendicolare ad esso. Dato che il solco coronario definisce il passaggio tra regione
ventricolare e regione atriale, la parte del cuore ad esempio situata posteriormente al solco coronario e a
destra non può appartenere alla regione ventricolare, ma rappresenta l’atrio di destra, di cui, visto dal
davanti, si vede il profilo laterale e una parte della faccia anteriore; non si vede bene l’atrio di sinistra perché
essendo l’asse del cuore orientato in avanti, in basso e a sinistra, la parte ventricolare del cuore copre gran
parte dell’atrio sinistro quando il cuore è visto dal davanti.
Per osservare la regione atriale si guarda il cuore da dietro. Si intravede la faccia di sinistra del cuore, il
margine ottuso, e principalmente si vedono gli atri. Questa regione, come quella ventricolare, va suddivisa in
2 parti, atrio di destra e atrio di sinistra. La parte di sinistra ricorda una struttura ovoidale il cui asse maggiore
è parallelo al piano terra. L’atrio di sinistra è affiancato dall’atrio di destra, la cui forma ricorda sempre una
struttura ovoidale, ma il cui asse maggiore è verticale. Quindi complessivamente la regione degli atri è un
insieme di 2 formazioni ovoidali di cui la metà di sinistra ha un asse maggiore parallelo al piano terra e la
metà di destra ha un asse maggiore ortogonale al piano terra.
Non ci sono vasi che si dipartono dagli atri e vanno in periferia. I vasi che fanno capo ai 2 atri sono
centripeti: vanno verso gli atri. In particolare all’atrio di destra fanno capo 2 grossi vasi, 2 grosse vene, uno
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che viene dall’alto, la vena cava superiore, e un altro che viene dal basso, la vena cava inferiore, che
insistono, in questo loro tragitto finale presso l’atrio, sullo stesso piano: sono coassiali (se infilo una penna
nella cava superiore questa fuoriesce dalla cava inferiore). Si può dire che l’atrio di destra rappresenta la
regione di arrivo di questi 2 grossi vasi. Allora l’asse verticale dell’atrio di destra è spiegato dal fatto che
quest’atrio nasce dalla convergenza di 2 vasi provenienti dall’alto e dal basso e coassiali.
Al contrario, che l’asse maggiore dell’atrio di sinistra sia orizzontale è dato dal fatto che, applicando lo
stesso ragionamento, l’atrio sinistro rappresenta la regione di arrivo questa volta di 4 vasi, una coppia che
viene da destra e una da sinistra, le 4 vene polmonari.
Questi elementi permettono di definire anatomicamente la base del cuore, che sarà l’insieme del profilo di
sinistra dell’atrio di sinistra, del profilo di destra dell’atrio di destra e lo spazio racchiuso tra queste 2 linee,
non comprendendo la base del cuore né la cava superiore, né la cava inferiore, né le 4 vene polmonari, al
massimo bisogna inserire il piano di arrivo di queste 6 vene. La base del cuore rappresenta anche una parte
dorsale del cuore. In questa parte dorsale del cuore, siccome l’asse del cuore è orientato in avanti, in basso e
a sinistra, i 2 atri, destro e sinistro, non possono insistere sullo stesso piano frontale, cosa che sarebbe se
l’asse del cuore fosse orientato in basso, in avanti e sulla linea di mezzo. Quindi il piano complessivo che
contiene l’atrio di destra è spostato leggermente più in avanti rispetto al piano complessivo che contiene
l’atrio di sinistra. La parte più dorsale del cuore in assoluto è l’atrio di sinistra (questo concetto è molto
importante per le implicazioni che ha nella medicina pratica).
Atri e Ventricoli:
Il cuore è una pompa elettromeccanica propellente ed aspirante. Siccome al cuore fanno capo vasi (le 2 vene
cave e le 4 vene polmonari) e i vasi portano sangue, bisogna immaginare che il cuore non può essere un
organo pieno, dev’essere un organo cavo: quello che si vede in superficie non è altro che pareti che
delimitano cavità.
Nel cuore ci sono 4 cavità: 2 sono gli atri, comunemente noti come cavità superiori, e 2 sono i ventricoli, noti
come cavità inferiori. Siccome queste sono cavità, esse devono essere delimitate non soltanto in superficie,
ma anche all’interno, devono essere cioè sepimentate, quindi devono essere presenti pareti divisorie.
A separare i 2 atri di trova il setto interatriale, a separare i 2 ventricoli si trova il setto interventricolare.
Dopo la chiusura del cordone ombelicale, alla nascita, i 2 atri non devono comunicare tra loro e i 2 ventricoli
non devono comunicare tra loro.
Esiste anche una sepimentazione che separa le cavità atriali dalle cavità ventricolari, che tuttavia non è
continua: a livello del piano che passa per il solco coronario, che coincide con il piano della sepimentazione,
si trovano 4 aperture o osti (plurale di ostio), di cui 2, gli osti atrioventricolari, i più grandi, permettono il
passaggio del sangue dall’atrio al ventricolo sottostante, ma non viceversa, per ogni lato, e gli altri 2, osti
arteriosi, permettono al sangue che è arrivato agli atri (dagli atri arriva sangue ma non parte) e poi ai
ventricoli di abbandonare queste strutture, posto che non deve tornare agli atri (cosa che determinerebbe
inefficienza della funzione cardiaca e problemi di natura medica).
Osservando il cuore dall’alto, nella parte superiore e dorsale, al confine tra la regione dei ventricoli e la
regione degli atri, si trovano 2 cerchi, ottenuti recidendo i due vasi uscenti dal cuore. Si tratta di 2 arterie in
uscita a parete elastica: una in uscita dal ventricolo di destra, la più ventrale, l’arteria polmonare, l’altra in
uscita dal ventricolo sinistro, più dorsalmente e più a destra rispetto alla precedente, l’arteria aorta.
L’arteria polmonare si chiama così perché il sangue che vi scorre è diretto ai polmoni, mentre l’aorta prende
questo nome dal significato greco di questa parola: “ciò che va in alto” o “ciò che è appeso”.
Tutti i vasi arteriosi del corpo sono parenti dell’aorta: tutte le arterie dirette dal cuore a tutti i tessuti sono
rami dell’aorta, o diretti o indiretti. L’aorta da quindi origine al grande circolo: non c’è distretto, anche il più
periferico, che non riceva sangue ossigenato proveniente dall’aorta e dai suoi rami.
Il sangue che proviene dai polmoni è sangue ossigenato, che raggiunge l’atrio di sinistra, che lo passa al
ventricolo di sinistra, che lo passa a tutti i tessuti.
Alla periferia del sistema il sangue ossigenato cede gran parte del suo ossigeno, prende il prodotto di rifiuto,
CO2, e la portano nel luogo dove dev’essere eliminata, i polmoni, grazie alla confluenza dei capillari in
venule e poi vene, di calibro sempre maggiore, fino a diventare vena cava inferiore o superiore, che finiscono
all’atrio di destra, da cui il sangue passa poi al ventricolo di destra e tramite il tronco polmonare ai polmoni,
dove compie un nuovo ciclo do ossigenazione.
Ma siccome il circolo polmonare è piccolo, si dice che il ventricolo di destra pompa sangue nel piccolo
circolo, mentre il ventricolo di sinistra pompa sangue nel grande circolo.
Questo processo si ripete nella vita di un uomo circa 3 miliardi e 300 milioni di volte.
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Circolazione sanguigna:
Il flusso del sangue nel cuore è a senso unico obbligato, dall’atrio al ventricolo.
All’uscita del ventricolo sinistro il sangue tramite l’aorta finisce nel grande circolo per raggiungere la
periferia. La stessa quantità di sangue arrivata in periferia deve tornare al centro, perché, dopo aver ceduto
ossigeno e preso anidride carbonica, deve fare rifornimento di ossigeno e deve eliminare il prodotto di
rifiuto. La via venosa reflua va quindi a finire nel cuore destro che, tramite il ventricolo destro, pompa
sangue verso i polmoni, unico distretto in cui avviene l’ematosi.
I polmoni tuttavia hanno dimensioni ridotte in proporzione al corpo, quindi il circolo dei polmoni sarà
ridotto: piccolo circolo.
Questo è un sistema che funziona in serie e in parallelo:
- in serie in quanto il sangue nel suo tragitto compie un percorso ciclico: un singolo globulo rosso che parte
dal ventricolo sinistro percorre il grande circolo, arriva al cuore destro, raggiunge il piccolo circolo e da
qui di nuovo al punto di partenza;
- in parallelo in quanto il sangue in uscita è immesso dai 2 ventricoli, che hanno ciascuno un proprio
bersaglio (grande circolo bersaglio del ventricolo sinistro, piccolo circolo bersaglio del ventricolo destro).
Inoltre i 2 ventricoli si contraggono simultaneamente (c’è un piccolo intervallo ma è da trascurarsi).
In condizioni normali e fisiologiche dal ventricolo di sinistra e dal ventricolo di destra escono circa 65 ml di
sangue. E’ chiaro che subito dopo il momento in cui escono dal cuore 65 ml di sangue, dev’esserci una stessa
quantità pronta a uscire nuovamente, quindi una stessa quantità di sangue deve raggiungere il rispettivo atrio.
Questo sangue arriva all’atrio sinistro (e quindi al ventricolo) dal piccolo circolo e all’atrio destro (e quindi al
ventricolo) dal grande circolo. Chiaramente la pressione del sangue che raggiunge i tessuti deve essere
uguale nell’unità di tempo. Tuttavia il ventricolo di sinistra pompa nel grande circolo e il ventricolo di destra
nel piccolo circolo, che hanno lunghezze diverse. Il sistema funziona bene allorché i tempi di percorrenza del
sangue del grande circolo sono gli stessi dei tempi di percorrenza del piccolo circolo. Infatti, ragionando per
assurdo, se i tempi di percorrenza di grande circolo e piccolo circolo non fossero uguali, arriverebbe al cuore
sinistro troppo sangue (tempo di percorrenza del piccolo circolo minore, sistema inefficiente) oppure il
ventricolo sinistro non avrebbe sangue a sufficienza (tempo di percorrenza del piccolo circolo maggiore,
sistema inefficace).
Affinché i tempi di percorrenza di grande e piccolo circolo siano uguali l’organismo mette in atto dei
meccanismi, che si basano su 2 criteri:
1) Differenza della massa muscolare dei due ventricoli: lo spessore della parete ventricolare sinistra è di
circa 1 cm, mentre lo spessore della parete ventricolare destra è di circa 0,4 cm. C’è quindi più
muscolo nella parete ventricolare sinistra, che deve pompare sangue nel grande circolo, di quanto
non ce ne sia nella destra (condizione necessaria, ma non sufficiente).
2) Differenza di sezione dei vasi che ricevono il sangue: se la sezione del vaso è elevata, la velocità di
flusso è minore e viceversa. Quindi se si riesce a fare in modo che il letto vascolare del piccolo
circolo sia più ampio, a parità di numero di vasi (e in particolare di arteriole), di quello del grande
circolo, il flusso nel piccolo circolo è rallentato. Questo è reso possibile dal fatto che la sezione dei
vasi polmonari è costante, quindi sono vasi di capacitanza, mentre la sezione dei vasi del grande
circolo è variabile, quindi sono vasi di resistenza.
I vasi possono essere:
- di capacitanza: vaso il cui calibro non subisce regolazioni, quindi è costante;
- di resistenza: vaso il cui calibro varia a seconda dello stato di contrazione della muscolatura liscia dello
stesso. La muscolatura liscia del vaso di resistenza è composta da fibre circolari, quindi se questa è
sensibile a stimoli quali un impulso nervoso o un fattore circolante nel sangue, il calibro diminuisce. Se il
calibro si riduce, il flusso diminuisce e aumenta la pressione a monte. Tuttavia la muscolatura liscia ha una
particolarità che la muscolatura striata non ha, specifica: mentre nel muscolo scheletrico la contrazione è
sempre attiva, cioè con dispendio energetico, e il rilasciamento è sempre passivo, nella muscolatura liscia
in genere c’è una doppia innervazione, con fibre nervose che vanno a stimolare la contrazione e altre che
stimolano il rilasciamento. Questo significa che il calibro di un’arteria a parete muscolare e quello di
un’arteriola possono (sebbene non sempre e non dovunque) aumentare o diminuire in maniera attiva (tipo
fisarmonica). Di conseguenza, entro certi limiti, si può anche allargare il calibro: ci sono impulsi nervosi
che producono vasodilatazione, facilitando l’arrivo di sangue (es. in una corsa), e ci sono impulsi nervosi
che producono vasocostrizione (es. pallore in una situazione di paura).
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Se si taglia il cuore a livello del solco coronario, si asportano gli atri e lo si guarda da dietro si può osservare
la base dei ventricoli. Il piano che approssimativamente coincide con il solco coronario presenta 4 aperture o
osti, 2 appartengono al ventricolo sinistro e 2 al ventricolo destro. I 2 osti maggiori rappresentano il
passaggio dall’atrio al ventricolo, osti atrioventricolari (e non ventricoloatriali, perché il sangue passa
dall’atrio al ventricolo, non viceversa) mentre gli altri 2 rappresentano l’inizio dei vasi in uscita dal
ventricolo di destra e di sinistra, osti arteriosi, in particolare rappresentano il piano di passaggio dal
ventricolo ad un’arteria, che nello specifico è a parete elastica.
Le arterie a parete elastica non rispondono a stimoli nervosi né ormonali. Le 2 arterie a valle di ciascun
ventricolo sono arterie a parete elastica, con un calibro superiore a 2 cm (quindi di gran lunga superiore a 5
mm) e anche i vasi che si dipartono da questi 2 vasi sono anch’essi arterie a parete elastica (perché hanno un
calibro superiore o uguale a 5 mm). Essendo a parete elastica, quando i 65 ml fuoriescono dal ventricolo ed
entrano in uno dei 2 vasi, il calibro del vaso aumenta.
* Arterie:
- A parete elastica: calibro > o = 5 mm:
- A parete muscolare: calibro < 5 mm;
- Arteriola: non visibile a occhio nudo (vaso a parete sempre muscolare)
Lo svuotamento del ventricolo è detto sistole ventricolare. Ad ogni svuotamento, quindi sistole, del
ventricolo, deve far seguito il riempimento dello stesso. La fase di riempimento del ventricolo prende il
nome di diastole. Siccome non c’è sistole se prima non c’è diastole, si può dire che diastole e sistole siano
eventi di uno stesso ciclo, il ciclo cardiaco.
In un minuto, in condizioni di riposo, il cuore compie circa 70 cicli. Quindi la durata di un ciclo è data da
60/70, il cui risultato è 0,85 secondi, cioè 850 msec. Ma un ciclo cardiaco è composto da sistole e diastole,
che non durano lo stesso tempo: la sistole dura circa il 45% del tempo (circa 400 msec) e la diastole circa il
55% (circa 450 msec). Nel caso di sportivi professionisti in un minuto il cuore compie circa 35 cicli, quindi
la durata del ciclo è di circa 1,7 secondi e le durate di sistole e diastole sono anch’esse doppie. Nel caso
invece di paura, emorragia o altri eventi, in cui la frequenza cardiaca raggiunge il valore di 120, sistole e
diastole durano meno (circa la metà rispetto a prima), quindi si ha meno tempo per il riempimento del
ventricolo. Questo è il motivo per cui se si ha tachicardia parossistica (aumento della frequenza cardiaca
che insorge bruscamente) non ci si sente bene, perché non c’è tempo per il riempimento diastolico, quindi ad
ogni sistole si ha una immissione di sangue inferiore a 65 ml (ed è quindi necessario sdraiarsi, in posizione
clinostatica, diversamente dalla posizione ortostatica che indica invece quando il paziente è in piedi).
I 2 osti atrioventricolari permettono il passaggio del sangue a senso unico e obbligato. Essi si trovano a
livello del piano che all’esterno è marcato dal solco coronario, che si trova al confine tra la regione degli atri
e la regione dei ventricoli. Queste aperture hanno una circonferenza di circa 12,5 cm a sinistra e di circa 13
cm a destra. Durante la diastole ventricolare l’ostio atrioventricolare viene attraversato da una colonna di
sangue proveniente dall’alto e quest’evento dura circa 400 msec. La forza responsabile di quest’evento non è
la sistole atriale (se non in maniera limitata), bensì la diastole ventricolare: la parete ventricolare è fatta in
modo che al rilasciamento della muscolatura ventricolare, il ventricolo aspira sangue, grazie alla creazione di
una depressione che aspira sangue dall’atrio.
L’atrio contribuisce solo in parte al suo svuotamento.
Il sangue in uscita dai ventricoli confluisce in un vaso a valle: il vaso a valle del ventricolo di sinistra è
l’aorta, quello del ventricolo di destra è l’arteria polmonare o tronco polmonare. Questi sono vasi di
calibro grande e a parete elastica: mentre nel caso di arterie a parete muscolare e di arteriole il calibro del
vaso è regolato dallo stato di contrazione della muscolatura liscia, quindi è un calibro variabile a seconda
delle necessità, nel caso delle arterie a parete elastica l’unico modo di modificarne il calibro è applicare una
forza.
Posto che il ciclo cardiaco dura circa 850 msec, e posto che la sistole dura meno della metà di questo tempo,
dopo un certo tempo la sistole finisce, quindi la forza che fa dilatare quel segmento di vaso si azzera e la
parete dilatata subisce un ritorno elastico. Questo fenomeno è indispensabile per la progressione del sangue
nel sistema arterioso.
Diastole:
La diastole ventricolare dura circa 450 msec, in questo lasso di tempo il ventricolo si riempie di sangue.
Il sangue passa dall’atrio al ventricolo secondo un meccanismo che ricorda l’ingresso dell’aria nei polmoni.
Da un punto di vista della sequenza temporale degli eventi, prima si riduce la pressione del torace, poi l’aria
entra, non viceversa. Analogamente l’arrivo del sangue dall’atrio al ventricolo presuppone il completo
rilasciamento della muscolatura del ventricolo, che si traduce in un allargamento improvviso di questa cavità,
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a cui segue l’ingresso del sangue. E’ grazie a questo allargamento improvviso che il sangue si sposta, e lo fa
in maniera tumultuosa, grazie alla notevole ampiezza dell’ostio atrioventricolare. In questo senso il cuore
risulta una pompa aspirante.
La componente sistolica dell’atrio incide poco sul sistema, tanto è vero che in soggetti in cui la contrattilità
degli atri è difettosa questo non compromette la sopravvivenza.
Sistole:
Al termine della diastole inizia la sistole, in cui la parete ventricolare si contrae e impone una spinta sul
sangue che vi è contenuto, che andrà verso i luoghi di minor resistenza. Uno dei luoghi di minor resistenza,
potenzialmente, è rappresentato dal rispettivo ostio atrioventricolare. Quindi durante la sistole ventricolare il
sangue si sposta dall’apice del ventricolo alla base del ventricolo, raggiunge cioè quel luogo di minor
resistenza che è l’ostio atrioventricolare. Tuttavia se il sangue passasse dal ventricolo all’atrio attraverso
l’ostio atrioventricolare il sistema sarebbe inefficace. Quindi al passaggio dall’atrio al ventricolo è presente
una valvola, strumento meccanico che permette il passaggio di una sostanza in una direzione ma non in
quella opposta, a senso unico obbligato. Questa è detta valvola atrioventricolare ed è presente sia a destra
che a sinistra.
Valvole Atrioventricolari:
Ciascuna valvola atrioventricolare è composta da un anello fibroso, al contorno del quale si inseriscono a
destra 3 lembi valvolari e a sinistra 2 lembi valvolari. I lembi valvolari hanno una forma che ricorda un
grembiule e pendono dentro la cavità ventricolare.
A destra la valvola atrioventricolare presenta 3 lembi valvolari, 3 cuspidi (femminile), quindi viene detta
valvola tricuspide. Le cuspidi sono una anteriore, una posteriore e una mediale, cioè più vicina al setto
interventricolare, per questo anche detta cuspide settale. A sinistra la valvola atrioventricolare presenta 2
lembi valvolari, uno anteriore e uno posteriore, quindi viene detta bicuspide, anche detta valvola mitralica o
mitrale.
Chiusura delle valvole:
Il sangue in diastole entra nel ventricolo violentemente, quindi sbatte contro le pareti e lungo le stesse risale,
andandosi a porre tra il lembo valvolare e la parete ventricolare, a causa della notevole forza con cui il
sangue raggiunge il ventricolo risucchiato dalla dilatazione ventricolare.
Nel momento in cui inizia la sistole la parete ventricolare si contrae, il volume interno della cavità si riduce,
aumenta la pressione e il sangue viene spinto verso l’atrio. Tuttavia esso non raggiunge l’atrio, perché il
sangue che si era andato ad interporre tra i lembi valvolari e le pareti del ventricolo spinge fisicamente i
lembi, che durante la diastole erano verticali, verso l’atrio, verso il piano dell’ostio. Nel momento in cui
succede i lembi si giustappongono e questo determina la chiusura ermetica della valvola.
L’effetto a destra e a sinistra è lo stesso: durante la sistole si ha la rotazione di 90° dei lembi tale per cui
questi si giustappongono determinando la chiusura ermetica.
[Paradossalmente è proprio il tentativo da parte del sangue di raggiungere l’atrio che, determinando la
chiusura della valvola, ne impedisce il raggiungimento].
Implicazioni cliniche riguardanti le valvole atrioventricolari:
- Insufficienza valvolare: In alcuni soggetti possono esserci difetti embriogenetici o malattie acquisite, ad
esempio endocardite, cioè infiammazione dell’endocardio, strato di cellule endoteliali che tappezza da
dentro le cavità ventricolari, rivestendo anche i lembi valvolari, composti da tessuto fibroso circondato da
endocardio. In genere l’endocardite è un’infiammazione di natura batterica dovuta all’azione dello
streptococco beta emolitico. Questo batterio rilascia nel sangue una tossina che è attratta da una serie di
organi tra cui l’endocardio, che causa l’infiammazione. In seguito all’infiammazione, da cui si guarisce
facilmente, si ricostituisce il tessuto, ma l’endocardio intorno ai lembi valvolari non torna ad essere
esattamente come era prima, ma è deformato, a causa della formazione di tessuto cicatriziale. Il risultato è
che durante la sistole ventricolare, allorché il sangue spinge i lembi a livello del piano della valvola,
rimangono delle aperture, la valvola non è a tenuta: si ha la condizione clinica detta insufficienza
valvolare, della mitrale o della tricuspide. In questi casi, ad ogni sistole ventricolare una quota di sangue
torna nell’atrio. Questa condizione determina due tipi di danno: arriva meno sangue al vaso in uscita,
quindi alla periferia, e, siccome durante la sistole ventricolare l’atrio si riempie, nell’insufficienza
valvolare l’atrio si riempie con il sangue che viene da fuori, ma anche con il sangue che viene dal
ventricolo. Quindi l’atrio inizialmente tende a dilatarsi, e siccome il sangue spinge sulle pareti in senso
centrifugo, la risposta naturale della muscolatura atriale è quella di ipertrofizzarsi. Questo può portare a
due eventi: o l’atrio si sfianca, oppure il volume interno della cavità atriale si rimpicciolisce perché lo
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spessore dell’atrio è aumentato. Quando ci sono gravi insufficienza valvolari, la valvola stessa viene
sostituita.
- Stenosi valvolare: Può anche accadere che come residuo del processo infiammatorio da endocardite ci sia
un restringimento dell’ostio, perché anche l’anello fibroso è rivestito da endocardio e si forma una
cicatrice tale per cui i margini dell’ostio risultano irregolari e il passaggio è ridotto. In questo caso si parla
di stenosi valvolare.
- Prolasso della valvola mitralica: In alcuni soggetti, soprattutto nei longilinei, si può avere prolasso della
valvola mitralica, che può accompagnarsi dal punto di vista clinico dell’auscultazione a fenomeni di
soffio. Prolasso significa scivolamento verso una direzione in cui una certa cosa non dovrebbe andare (ad
es. prolasso dell’utero: scivolamento del collo dell’utero nella vagina). Il prolasso della mitralica consiste
nel fatto che i lembi valvolari durante la sistole ventricolare non arrivano al piano, ma protrudono nella
cavità atriale a formare una specie di paracadute, e può accadere che piccole quantità di sangue
raggiungano l’atrio dal ventricolo.
Perche le cuspidi non si ribaltano verso l’atrio?
Il motivo per cui durante la sistole ventricolare i lembi raggiungono approssimativamente il piano dell’ostio
senza aprirsi nell’atrio sta nel fatto che i margini dei lembi valvolari e la superficie ventricolare del lembo
valvolare danno attacco a delle corde, le corde tendinee, fatte di tessuto connettivo inestensibile, le quali si
dirigono, facendovi capo, a delle escrescenze della parete ventricolare dette muscoli papillari.
I muscoli papillari sono detti così poiché hanno forma conica (in anatomia le strutture di forma conica
vengono spesso denominate con il termine “piramide”), fanno parte della categoria delle trabecole carnee di
1° tipo e sono fatti di tessuto muscolare cardiaco che si contrae e si rilascia. Protrudono nella cavità
ventricolare e al loro estremo danno inserzione a corde tendinee che fanno capo ai lembi. Il numero dei
muscoli papillari in ogni ventricolo è pari al numero dei lembi valvolari: nel ventricolo di sinistra ci sono 2
muscoli papillari, a destra ce ne sono 3.
Durante la sistole ventricolare la prima muscolatura che si contrae è quella dell’apice del ventricolo. Non è
un caso che i muscoli papillari si impiantino nella parete ventricolare prossima all’apice e di conseguenza i
muscoli papillari sono i primi elementi ventricolari a contrarsi, all’inizio della sistole ventricolare.
Contraendosi i muscoli papillari si accorciano e questo determina una trazione verso il basso delle corde
tendinee, che vengono tirate da subito per tutta la durata della sistole. Quindi durante la sistole la parete
ventricolare si contrae, si crea una pressione tale da spingere il sangue verso i luoghi di minor resistenza, tra
cui l’ostio atrioventricolare, e lo stesso sangue spinge i lembi valvolari verso l’alto; nello stesso tempo i
lembi sono trattenuti verso il basso dai muscoli papillari. Di conseguenza l’escursione è di 90° perché si
raggiunge un equilibrio tra la forza del sangue verso l’alto e la forza di trazione dei muscoli papillari verso il
basso.
I muscoli papillari hanno quindi il compito di ridurre l’escursione dei lembi valvolari durante la sistole
ventricolare ed evitare che questi si aprano ad ombrello verso l’atrio.
Ci sono 2 controprove di questo concetto: la prima è che se si sottrae ossigeno ai muscoli papillari, ad
esempio durante un infarto del miocardio, i muscoli muoiono e non possono più contrarsi, quindi il sangue
che scende nel ventricolo, alla successiva sistole determina un’escursione dei lembi valvolari non
compensata dalla trazione dei muscoli papillari. Quindi le valvole, che comunque non possono aprirsi perché
c’è l’impedimento fisico delle corde tendinee, inestensibili, tendono a formare una specie di paracadute
dentro l’atrio, con conseguenza che la tenuta non è precisa e si ha insufficienza valvolare. La seconda
controprova è il fatto che se vengono tagliate le corde tendinee, nonostante il muscolo papillare si contragga,
esso non trattiene i lembi valvolari.
Le corde tendinee e i muscoli papillari non servono a tirare giù i lembi valvolari durante la diastole
ventricolare, ma servono a ridurre l’escursione dei lembi valvolari durante la sistole ventricolare (impedirne
il ribaltamento), facendo in modo che questi arrivino circa a livello del piano dell’ostio atrioventricolare.
Valvole Arteriose:
A livello del piano del solco coronario ci sono 4 osti.
Durante la sistole ventricolare il sangue non va verso l’atrio, ma esce a livello del secondo ostio: il sangue
che sta uscendo dal ventricolo, non potendo tornare su, va verso un secondo luogo di minor resistenza, cioè
l’ostio arterioso. Quindi il sangue spinto dal ventricolo ad ogni sistole ventricolare, circa 65 ml, raggiunge
l’aorta o il tronco polmonare, vasi la cui parete, elastica, sotto la spinta del sangue si dilata a livello del primo
tratto. Terminata la sistole ventricolare, durante la diastole ventricolare, viene a mancare la forza di spinta e
subentra il ritorno elastico: si genera una forza centripeta che viene esercitata sulla colonna di sangue
presente in quel tratto. La colonna di sangue si sposta quindi nelle uniche 2 direzioni possibili: a valle o a
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monte. Chiaramente l’obiettivo è quello di spingere il sangue a valle, quindi per impedire che il sangue torni
indietro è presente un’altra valvola, posta al passaggio tra ventricolo e vaso arterioso a parete elastica.
Le 2 valvole presenti sono dette valvola aortica e valvola polmonare.
La conformazione delle valvole arteriose è diversa da quelle atrioventricolari.
Ogni valvola arteriosa è formata da un anello fibroso, di circa 7 cm di circonferenza, e da 3 lembi valvolari.
Tuttavia, mentre i lembi delle valvole atrioventricolari sono cuspidi che pendono dentro al ventricolo e sono
dotate di corde tendinee collegate a muscoli papillari, nelle valvole arteriose i lembi non presentano corde
tendinee, non ci sono muscoli papillari, ma sono a forma di semiluna, tanto che le valvole arteriose sono
dette semilunari.
Ciascun lembo semilunare presenta un margine aderente, che si impianta sull’anello fibroso, un margine
libero, che sporge nel lume del vaso, una faccia superiore concava rivolta verso l’arteria e una faccia
inferiore convessa rivolta verso la cavità ventricolare. I lembi delle valvole arteriose sono detti anche “a nido
di rondine”, poiché vi somigliano.
Le valvole arteriose sono presenti all’inizio del vaso in uscita dal ventricolo di destra e di sinistra. La loro
conformazione fa sì che durante la sistole ventricolare, in cui il sangue esce con molta forza, questo spinge i
lembi semilunari lateralmente contro la parete circostante e la valvola si apre, mentre durante la diastole il
ritorno elastico di quel tratto di arteria dilatatosi durante la sistole, che si traduce in forze centripete sul
sangue, sposta il sangue sia avanti che indietro, in modo da riempire le tasche della valvola, avvicinando i
margini liberi dei lembi valvolari tra loro e chiudendo così la valvola. Il sangue, quindi, non può che andare
avanti, per dilatare il tratto successivo di vaso.
Il sistema non è perfetto: si può avere insufficienza valvolare (soprattutto della valvola aortica) e stenosi.
Alcuni soggetti nascono con difetti congeniti della valvola aortica, che anziché presentare 3 lembi ne
presenta solo 2. Questo impone all’anello fibroso di essere più stretto, con conseguente stenosi, condizione
compatibile con la vita, ma che richiede prima o poi la sostituzione della valvola.
Le 4 valvole cardiache insistono sullo stesso piano, che all’esterno corrisponde al solco coronario. Tuttavia
mentre le 2 valvole atrioventricolari viste da dietro appaiono una accanto all’altra, le 2 valvole arteriose sono
una davanti all’altra: la valvola aortica posteriormente e la valvola polmonare anteriormente.
La valvola aortica si trova, oltre che dietro, leggermente a destra rispetto alla valvola polmonare, nonostante
l’aorta nasca dal ventricolo di sinistra e l’arteria polmonare dal ventricolo di destra. Al loro inizio, infatti, a
livello delle valvole, aorta e tronco polmonare si incrociano: l’aorta va a destra e in alto, il tronco polmonare
va a sinistra e in alto. Questa condizione nasce durante l’organogenesi del cuore, in cui il primitivo tubo
cardiaco si ripiega formando una cavità ventricolare che si sepimenta attraverso il setto interventricolare e
contemporaneamente si modifica anche il tronco arterioso unico, che si allarga e si sepimenta attraverso un
setto spiraliforme. Questo setto nel suo ultimo tratto, in prossimità del punto in cui si formano le valvole, si
dispone su un piano frontale, in maniera tale che ciò che sta davanti fa capo al ventricolo di destra, quindi
diventa tronco polmonare, e ciò che sta dietro fa capo al ventricolo di sinistra e diventa aorta. Questo spiega
la disposizione delle valvole arteriose e quindi l’origine dei vasi arteriosi dai ventricoli.
Pressione Arteriosa:
La diastole ventricolare, fase di riempimento, coincide con l’apertura delle valvole atrioventricolari e con la
chiusura delle valvole arteriose. La sistole ventricolare, fase di svuotamento, presenta la chiusura delle
valvole atrioventricolari e l’apertura delle valvole arteriose. Quindi l’apertura e la chiusura delle valvole, a
coppie, è sfasata: quando la coppia atrioventricolare è aperta la coppia arteriosa è chiusa e viceversa.
Il medico ha la possibilità, tramite il fonendoscopio, di auscultare, cioè di sentire, la chiusura alternata delle
valvole atrioventricolari e arteriose.
I toni cardiaci rappresentano i suoni di chiusura delle valvole, simili a “PUM” e “TA”, rispettivamente
primo tono e secondo tono cardiaco. Il primo tono corrisponde alla chiusura delle valvole atrioventricolari e
indica quindi la sistole ventricolare, il secondo tono corrisponde alla chiusura delle valvole arteriose e indica
quindi la diastole ventricolare.
La contrazione della parete ventricolare genera una forza che si esercita su un fluido, il sangue. Questo
genera una pressione (P = F/S), parametro facilmente misurabile. La pressione arteriosa (in sigla P. A.) si
misura con lo sfigmomanometro (il termine sfigmomanometro deriva dal concetto di onda sfigmica, che in
fisica indica un’onda elastica) a livello della piega del gomito, o piega cubitale, dove c’è l’arteria
brachiale, separata dalla superficie soltanto da una fascia muscolare, cute e sottocute, quindi uno strato
molto sottile.
La pressione arteriosa si indica con 2 numeri che, in un individuo seduto, con l’arto superiore all’altezza del
cuore e in condizioni normali corrispondono a 120 e 80 mmHg (mm di mercurio). Viene misurata anche in
posizione clinostatica supina, dove però i valori normali sono leggermente inferiori. Il primo numero indica
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la pressione sistolica, anche detta pressione massima, e si riferisce alla sistole ventricolare sinistra (l’arteria
brachiale nasce dall’aorta, che a sua volta nasce dal ventricolo sinistro). Questo numero indica la pressione
generata dalla forza con cui il cuore si sta contraendo in quell’istante esercitata sulla superficie del sangue.
Il secondo indica la pressione diastolica, anche detta pressione minima.
All’apice della sistole, al massimo della sua forza, la pressione misura 120 mmHg, mentre in diastole misura
80 mmHg. Successivamente alla diastole si ha una nuova sistole, in cui la pressione torna ad essere 120
mmHg, per poi tornare ancora a 80 mmHg alla successiva diastole, e così via.
mmHg
120
90
60
30
0
!
0
0,5
1
1,5
2
tempo (s)
Questo andamento sinusoidale rappresenta l’andamento della pressione arteriosa durante i cicli cardiaci.
Durante la sistole ventricolare sinistra (tutti questi valori si riferiscono a sinistra, perché l’arteria brachiale
deriva dall’aorta, che nasce dal ventricolo sinistro) la pressione misurata indica la forza con cui il ventricolo
si svuota, quindi il valore misurato è maggiore di 0 (120 mmHg in condizioni normali). Durante la diastole
ventricolare, invece, la pressione misurata non coincide con quella all’interno del ventricolo, che è nulla, ma
corrisponde ad un valore maggiore di 0 (80 mmHg in condizioni normali). Questo accade perché il ritorno
elastico della parete dell’arteria, che esercita una forza sul sangue, lo spinge in avanti e indietro e grazie alla
chiusura della valvola si sposta soltanto in avanti.
Se per assurdo il ventricolo sinistro si contraesse una sola volta, a livello dell’aorta il primo tratto si
dilaterebbe, per poi tornare elasticamente e spostare il sangue verso valle. Tuttavia senza successiva sistole la
dilatazione della parete del secondo segmento non sarebbe della stessa entità di quella del primo segmento,
ma minore, e ancor minore quella della dilatazione del terzo segmento. Si assisterebbe ad una progressiva
diminuzione della forza centripeta, con andamento di tipo asintotico, tale per cui a livello delle arterie
periferiche, come in quella brachiale, la pressione sarebbe nulla.
Quindi il compito dei ventricoli è quello di generare un’onda sfigmica (elastica) nell’albero arterioso:
generare in maniera periodica durante la sistole una forza elastica che poi viene sfruttata durante la diastole.
Questo spiega il motivo per cui a valle di ciascun ventricolo è presente un’arteria a parete elastica.
Pressione all’interno dei ventricoli:
Nel ventricolo di sinistra durante la sistole ventricolare la pressione è uguale a quella misurata nell’arteria
brachiale; tuttavia durante la diastole la pressione è 0. Questo perché, essendo il cuore una pompa aspirante,
il sangue passa nel ventricolo non perché esso viene spinto nel ventricolo, ma perché si dilata la cavità, che
risucchia sangue, il che determina una diminuzione della pressione, che si azzera.
Nel ventricolo di destra qualitativamente avviene la stessa cosa, ma non quantitativamente. Infatti la parete
ventricolare destra ha uno spessore inferiore alla metà di quello della parete ventricolare sinistra, il che
determina una pressione minore nel piccolo circolo: all’apice della sistole ventricolare destra la pressione è
di circa 20 mmHg (1/6 della pressione sistolica di sinistra). In diastole la pressione è di nuovo 0, poiché il
meccanismo è uguale a quello del ventricolo di sinistra (addirittura durante una profonda inspirazione si
misura una pressione inferiore a 0).
Nell’arteria polmonare, come per l’aorta e le arterie del grande circolo, la pressione sistolica coincide con la
pressione sistolica all’interno del ventricolo, mentre la pressione diastolica, che è inferiore, non è nulla come
nel ventricolo ma misura circa 10 mmHg, sempre a causa dal fenomeno del ritorno elastico.
La conclusione è che, a destra come a sinistra, la sistole ventricolare ha il compito fondamentale di generare
un’onda pressoria.
Corollario di questo è che il sangue scorre nelle arterie, nelle arteriole, nei capillari e nelle vene grazie alla
spinta che ha ricevuto dal ventricolo di sinistra e all’onda pressoria che, segmento per segmento, lo fa
procedere.
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Circolazione embrionale:
Sepimentazione del ventricolo:
L’iniziale unica cavità ventricolare, in periodo embrionale si divide in 2 grazie alla formazione di un setto
interventricolare, fatto dello stesso tessuto muscolare cardiaco, il miocardio. Questo setto si forma per
proliferazione di cellule dall’apice verso il piano che contiene le valvole cardiache. All’estremo superiore del
setto interventricolare il miocardio cede il posto a tessuto connettivo in un punto molto piccolo, all’estremo
superiore del setto, all’altezza delle valvole atrioventricolari, una regione di qualche mm di diametro che
prende il nome di pars membranacea del setto interventricolare. La pars membranacea del setto
interventricolare è la parte più caudale del setto a spirale che separa il tronco arterioso unico, la quale va ad
incastrarsi nel profilo superiore del setto interventricolare che in quel punto presenta un’incisura destinata ad
accogliere questa struttura.
Può succedere che durante l’organogenesi il setto a spirale non si prolunghi verso il basso, quindi non vada
ad occludere l’incisura presente a livello del setto interventricolare. Si forma una pervietà interventricolare
che genera un aumento della pressione all’interno del ventricolo di destra, perché questo deve gestire una
quantità maggiore di sangue, quindi si contrae più fortemente. Aumenta quindi la pressione all’interno del
circolo polmonare e questo compromette funzioni vitali (verrà trattato nello specifico più avanti).
Sepimentazione dell’atrio:
La sepimentazione dell’atrio avviene in maniera tale che ad un certo punto si hanno 2 setti, uno che scende
dall’alto, leggermente più a destra, e uno che sale dal basso, verso sinistra, appoggiati l’uno all’altro.
Mentre la vena cava superiore raccoglie sangue refluo dagli arti, dal collo e dal cranio, la cava superiore
raccoglie sangue refluo da tutto il distretto sottodiaframmatico. La cava inferiore all’altezza del fegato riceve
direttamente un collaterale di una vena che proviene dalla placenta, la vena ombelicale, che per tutta la vita
intrauterina fornisce sangue ricco di ossigeno e nutrienti. Quindi l’ultimo tratto della vena cava inferiore, che
sta per finire nel torace, ha sangue misto e ha una pressione maggiore: questo sangue arriva all’atrio con una
violenza notevole. Se i 2 setti non fossero appoggiati l’uno all’altro, ma fossero fusi, nell’atrio di destra si
mischierebbe il sangue proveniente dal basso con il sangue deossigenato proveniente dalla cava superiore,
poi passerebbe al ventricolo, al circolo polmonare, all’atrio di sinistra e infine alla periferia, ma molto diluito
di ossigeno e nutrienti a causa del passaggio nel piccolo circolo. Deve invece succedere che il sangue
proveniente dalla cava inferiore passi dall’atrio di destra a quello di sinistra, così da bypassare il circolo
polmonare. Affinché questo accada si ha la formazione dei 2 setti interatriali appoggiati l’uno all’altro, in
modo che quello che sale dal basso verso l’alto si trovi a sinistra e quello che scende dall’alto verso il basso a
destra, così che, a causa dell’elevata pressione del sangue che arriva dalla cava inferiore, la parete inferiore
di sinistra bascula e ad ogni ciclo cardiaco una parte del sangue passa dall’atrio di destra all’atrio di sinistra.
Questa pervietà viene detta forame ovale.
Inoltre, per favorire questo processo, intorno allo sbocco della vena cava inferiore, a livello del contorno
anteriore e mediale, è presente un rilievo semilunare, simile alla visiera di un cappello, che impedisce al
sangue di andare nel ventricolo e indirizza il sangue verso la parete interatriale, la quale cede sotto la spinta.
Alla nascita, appena si chiude il cordone ombelicale, l’afflusso di rifornimenti termina e dopo qualche
secondo di apnea si accumula CO2 nel cervello del bambino, che stimola il centro respiratorio. Siccome è
stata chiusa la vena ombelicale, che confluiva nella cava inferiore, cala la pressione all’interno dell’atrio di
destra, non si verifica più il movimento a bascula della parete atriale perché la pressione è bassa, si parla di
inversione delle pressioni (in realtà non si ha inversione: a destra la pressione dell’atrio cala, a sinistra
rimane costante, le 2 pressioni sono più o meno equivalenti). Il risultato è la fusione dei 2 setti interatriali e
l’interruzione della comunicazione tra i 2 atri.
Per qualche difetto può succedere che il setto di sinistra cresca meno del dovuto. Questo causa pervietà
interatriale, che determina il passaggio di una parte di sangue da sinistra a destra durante la sistole atriale e la
conseguente formazione di vortici di sangue che possono dar origine a piccoli grumi, coaguli di sangue, che
prima o poi riescono a raggiungere il ventricolo di sinistra, quindi la periferia.
Sistema di conduzione del cuore:
Il cuore è una pompa elettromeccanica: meccanica perché la contrazione delle pareti cardiache induce
l’eiezione del sangue, elettrica perché se si isola il cuore, purché riceva nutrimento, questo continua a
pulsare. Questo perché il cuore ha la capacità di generare in maniera del tutto autonoma uno stimolo alla
contrazione dei cardiomiociti.
La parte contrattile del cuore, il miocardio, può essere suddivisa in 2 parti: miocardio di lavoro,
rappresentato da oltre il 99% dei cardiomiociti, e miocardio specifico, composto da cellule non contrattili
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(quindi non sono cardiomiociti) ma eccitabili, capaci cioè di condurre un impulso elettrico ai singoli
cardiomiociti determinandone la contrazione.
Nodo Senoatriale:
Al davanti dello sbocco della vena cava superiore, nello spessore della parete atriale di destra, c’è un
gruppetto di cellule specifiche raggruppate a costituire il nodo senoatriale, detto anche nodo di Keith-Flack.
Si chiama nodo senoatriale perché si trova nello spessore della parte della parete atriale corrispondente al
seno delle cave. Queste cellule generano l’impulso elettrico in maniera autonoma e periodica, quindi il nodo
senoatriale è considerato il pacemaker (generatore di ritmo) del cuore.
I cardiomiociti tutt’attorno al nodo del seno, cardiomiociti atriali di destra, ricevono direttamente lo stimolo.
Se si avesse soltanto questa struttura di conduzione si avrebbe comunque la contrazione della muscolatura
atriale, ma in maniera ritardata, e successivamente anche quella della muscolatura ventricolare, in maniera
ancor più ritardata. I cardiomiociti infatti sono cellule mononucleate disposte tra loro in serie, non capaci di
generare autonomamente l’impulso alla contrazione ma capaci di contrarsi in seguito ad un impulso elettrico.
Se vicino ad un cardiomiocita è presente una cellula del nodo del seno, l’impulso da essa generato passa al
cardiomiocita, che si contrae. Una caratteristica del cardiomiocita è che una volta ricevuto l’impulso lo
trasmette ad un altro cardiomiocita, che a sua volta lo trasmette ad un successivo cardiomiocita e così via.
Quindi anche in un sistema semplice come quello in cui è presente soltanto il nodo del seno, se al tempo 0 si
genera un impulso che viene trasmesso al primo cardiomiocita, al tempo n > 0 anche i cardiomiociti
successivi ricevono l’impulso e si contraggono in maniera graduata, benché in ritardo l’uno rispetto all’altro.
Quindi per avere la contrazione complessiva dei cardiomiociti è sufficiente che l’impulso raggiunga il primo,
non è necessario che ogni singolo cardiomiocita riceva l’impulso, sebbene questo richieda tempo. Inoltre,
man mano che l’impulso si diffonde, si ha un aumento progressivo della forza di contrazione perché viene
reclutato un numero di cardiomiociti maggiore.
Nodo Atrioventricolare:
In realtà, tuttavia, il tempo a disposizione per la contrazione è breve, quindi è necessaria una trasmissione più
rapida dell’impulso. Quindi sono presenti cellule specifiche disposte in serie, i fasci internodali, che dal
nodo del seno arrivano al ventricolo di sinistra e raggiungono un altro gruppetto di cellule, simili a quelle del
nodo del seno: il nodo atrioventricolare o di Tawara o di Aschoff, posto nello spessore del setto interatriale,
leggermente spostato verso l’atrio di destra.
Il nodo atrioventricolare si continua con un gruppetto di cellule che si aggiungono l’una all’altra a formare
un fascetto che scende in basso, verso la pars membranacea del setto interventricolare, detto fascio
atrioventricolare o fascio di His (a questo si deve il nome del nodo atrioventricolare, perché da esso si
dipartono cellule specifiche che vanno verso il ventricolo).
Il fascio atrioventricolare nell’andare verso il basso, all’altezza di dove finisce la pars membranacea del setto
interventricolare, si divide a “Y” in 2 branche, le branche del fascio atrioventricolare, di destra e di sinistra,
che percorrono a cavallo il setto interventricolare, immediatamente sotto l’endocardio.
Ciascuna branca, nell’andare a cavallo del setto interventricolare verso l’apice di ciascun ventricolo,
comincia a ramificarsi. Quindi nel caso del ventricolo, destro e sinistro, i cardiomiociti che si contraggono
per primi sono quelli della regione dell’apice, perché la branca comincia a ramificarsi verso l’apice,
reclutando più cardiomiociti di lavoro, e i cardiomiociti ventricolari più vicini agli atri sono gli ultimi a
contrarsi, perché non ricevono l’impulso direttamente dalla branca, ma dai cardiomiociti precedenti.
Questa organizzazione anatomica consente al ventricolo di contrarsi in maniera graduale, dall’apice verso la
base. Per completare questo processo il ventricolo impiega circa 400 msec, dei quali, quindi, i primissimi
corrispondono alla contrazione dei cardiomiociti dell’apice e i successivi alla contrazione dei restanti
cardiomiociti. I muscoli papillari, infatti, sono i primi a contrarsi, perché essendo impiantati nella regione
apicale del ventricolo sono le prime strutture a ricevere l’impulso.
La contrazione del ventricolo determina un’accorciamento delle sue fibre muscolari, quindi un
accorciamento del ventricolo stesso, in modo che la punta di ciascun ventricolo si avvicina alla base. Questo
processo avviene in maniera graduale e comincia a livello dell’apice dove c’è minor volume (poiché il
ventricolo è conico). Di conseguenza l’uscita del sangue verso i luoghi di minor resistenza, quindi verso la
base, coinvolge per primo il sangue contenuto nella parte dell’apice. Con questo sistema anatomico la
contrazione, essendo graduale, fa sì che l’uscita del sangue non sia tumultuosa ma avvenga in maniera
regolata, ottimizzando la funzione del ventricolo. Il fatto che gli ultimi cardiomiociti del ventricolo a
contrarsi siano quelli della regione della base determina che questi si contraggono successivamente a quelli
dell’apice, e questo stabilisce ordine nell’uscita del sangue.
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Implicazioni cliniche che riguardano il sistema di conduzione:
Ci sono aspetti negativi di quest’organizzazione. A generare la spinta del sangue nell’albero arterioso, nei
capillari e nelle vene è la sistole ventricolare: il sangue scorre nelle vene perché ancora risente della spinta
ventricolare. Anche per questo la parte più importante del cuore è quella ventricolare. Se viene distrutto il
nodo atrioventricolare o il fascio di His i ventricoli non si possono più contrarre. Esistono condizioni che
portano a un malfunzionamento di queste strutture, tra cui l’infarto o l’invecchiamento.
Quindi si può avere un blocco del passaggio dell’impulso dal nodo atrioventricolare ad una delle 2 branche,
blocco del fascio di His, tanto più che questo, nell’andare dalla parete interatriale verso quella
interventricolare, attraversa perpendicolarmente un agglomerato di tessuto fibroso che separa ed unisce i 2
anelli fibrosi delle valvole atrioventricolari, il trigono fibroso di destra o posteriore: un aumento di tessuto
fibroso a questo livello può comprimere il fascio di His compromettendo la velocità di conduzione fino ad
arrestarla. Quando questo accade il soggetto sviene, nella migliore delle ipotesi, o muore, nella peggiore.
Si può avere anche il blocco di branca, dovuto a problemi degenerativi o causato durante un intervento
chirurgico. Il problema è meno grave rispetto al blocco del fascio di His, perché il ventricolo la cui branca è
bloccata, seppur in ritardo rispetto all’altro, si contrae grazie al fatto che i cardiomiociti del setto
interventricolare che ricevono l’impulso dall’altra branca, appartenendo il setto ad entrambi i ventricoli,
trasmettono l’impulso ai cardiomiociti che si trovano dalla parte opposta, i quali lo trasmettono a tutta la
parete ventricolare. Questo richiede tempo, quindi la contrazione dei 2 ventricoli è sfasata, ma il soggetto
può condurre una vita normale, entro certi limiti.
Scheletro fibroso del cuore:
I cardiomiociti si dispongono in serie a formare delle file, affiancate l’una all’altra. Per comodità si dice che i
cardiomiociti disposti in serie formano una fibra cardiaca, sebbene da un punto di vista anatomico,
istologico e funzionale ciò non è corretto, perché sono cellule mononucleate, mentre per miofibre si
intendono i sincizi del muscolo scheletrico. Tuttavia ci sono poche differenze istologiche tra un
cardiomiocita e una miofibra scheletrica, perché in entrambi i casi si ha sarcolemma, tubuli a T, reticolo
sarcoplasmatico e miofibrille, composte da sarcomeri, quindi si tratta sempre di muscolo striato. Da ciò
deriva che le fibre cardiache, che sono formate da cardiomiociti disposti in serie, come nel caso del muscolo
scheletrico devono avere 2 punti di inserzione fissi o resi fissi. Mentre nei muscoli scheletrici i punti fissi
sono ossa, cercini fibrosi, legamenti fibrosi (detti rafi), lo scheletro cardiaco si identifica nei 4 anelli fibrosi
delle 4 valvole e nel connettivo che tiene uniti gli anelli fibrosi, costituito da trigono di destra e trigono di
sinistra. Il trigono di destra o posteriore è una specie di pavimento fibroso che unisce i 2 anelli fibrosi delle
valvole atrioventricolari. Questa struttura dà attacco all’anello fibroso dell’aorta, che tuttavia è connesso
soprattutto all’anello fibroso della bicuspide attraverso un secondo trigono, il trigono di sinistra o
anteriore.
Di queste strutture, 5 giacciono sullo stesso piano: i 2 anelli fibrosi delle valvole interventricolari, i 2 trigoni
e l’anello fibroso della valvola aortica. Esiste un quarto anello fibroso, quello della valvola polmonare, che
per motivi organogenetici non giace sullo stesso piano degli altri 3 anelli, ma su un piano leggermente più
craniale. Tuttavia grazie ad una struttura fibrosa, il tendine del cono, che si estende dal contorno anteriore
dell’anello fibroso aortico al contorno posteriore dell’anello fibroso polmonare, tutti gli anelli fibrosi sono
solidali, benché non giacciano sullo stesso piano. Queste strutture servono a fissare i lembi valvolari e, visto
che sono composte da tessuto fibroso, fungono da inserzione per le fibre cardiache: queste 7 formazioni (4
anelli fibrosi, 2 trigoni e il tendine del cono) nell’insieme prendono il nome di scheletro del cuore.
Muscolatura interna dei Ventricoli:
Se si osserva l’interno di una cavità ventricolare non si individuano pareti lisce, ma accidentate e irregolari.
Soprattutto nel ventricolo di destra sono presenti dei rilievi, che prendono il nome di trabecole carnee, di cui
esistono 3 tipi:
- 1° tipo: trabecole continue con la parete muscolare ventricolare soltanto per un’estremità, appartengono a
questa categoria i muscoli papillari;
- 2° tipo: trabecole continue con la parete muscolare ventricolare attraverso 2 estremi, disposte “a ponte”;
- 3° tipo: la maggioranza, sono rilievi allungati, perfettamente paralleli al piano della parete e tutt’uno con
essi, incollati longitudinalmente alla parete.
Le trabecole carnee di 2° e 3° tipo hanno la funzione di contrastare la violenza con cui il sangue passa
dall’atrio al ventricolo. Sono più abbondanti a destra perché servono a ridurre il volume interno, che
altrimenti sarebbe maggiore rispetto a sinistra a causa del minore spessore della parete.
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Muscolatura dei Ventricoli:
I ventricoli sono composti da 2 gruppi di fibre cardiache: muscoli propri di ciascun ventricolo e muscoli
comuni, suddivisi a loro volta in muscoli anteriori, posteriori e suturali.
Muscolatura propria:
Siccome le fibre proprie del ventricolo devono delimitare una cavità di forma conica, siccome devono esserci
per ciascuna fibra 2 punti fissi di inserzione a livello dello scheletro fibroso del cuore e siccome il sangue
deve essere spinto verso l’alto, ciascuna fibra cardiaca deve essere disposta a formare una “V”. Infatti in
ciascun ventricolo le fibre proprie sono orientate in maniera tale che, partendo da un punto fisso, ogni fibra
va con una branca verso l’apice del ventricolo e poi risale al punto opposto. Dall’insieme di ciascuna fibra si
ottiene una specie di cono.
Tuttavia le 2 branche di ogni
singola “V” non sono complanari, sono cioè sghembe, e sono anche ritorte, specialmente nella condizione di
contrazione: la torsione si svolge leggermente durante il riempimento e si ristabilisce durante il riempimento.
Questa organizzazione è funzionale a rendere ancor più efficace l’azione contrattile del ventricolo, poiché a
parità di forza contrattile si ottiene una maggiore spinta. Inoltre durante la diastole questa spirale si svolge
leggermente, in modo da richiamare la molla, così che al momento della sistole il ventricolo si torce
utilizzando una forza per cui non è necessario spendere energia.
Sia nel muscolo
scheletrico, sia nel muscolo cardiaco non ci sono soltanto filamenti sottili di actina e filamenti spessi di
miosina, ma anche delle proteine giganti, le titine, le proteine più grandi che vengono sintetizzate (pesano
più di 1 milione Da). Queste sono situate a livello della linea “Z”, sono lunghe circa mezzo sarcomero e
svolgono un’azione meccanica elastica, come fossero delle molle: sono responsabili dell’elasticità di ogni
sarcomero, quindi della miofibra, quindi del miocardio. Nella condizione patologica della cardiomiopatia
dilatativa il muscolo perde di elasticità, a causa della degenerazione delle titine. Ciò indica che la forza
contrattile è il risultato di 2 eventi: lo scivolamento dei filamenti sottili sui filamenti spessi e il ritorno
elastico della molla caricata durante la diastole.
Muscolatura comune:
Esiste una muscolatura in comune ai 2 ventricoli, suddivisa in muscolatura anteriore, posteriore e
suturale:
- Anteriore: La muscolatura comune anteriore, definita per convenzione, è fatta di fibre che si dipartono
dal contorno anteriore dello scheletro del cuore, cioè che possono partire da una qualunque delle strutture
dello scheletro, purché dalla porzione anteriore. Queste fibre scendono verso l’apice lungo la faccia
sternocostale descrivendo una spirale e raggiunto l’apice cambiano direzione, andando a contribuire alla
costituzione del setto interventricolare: siccome ci sono 2 ventricoli, il setto interventricolare si può
intendere come l’insieme della muscolatura propria del ventricolo di destra e di quella del ventricolo di
sinistra; tuttavia il setto interventricolare non è composto soltanto da muscoli propri, ma anche da tutti i
muscoli comuni, compresi quelli anteriori. Infatti giunte all’apice, le fibre comuni anteriori curvano per
tornare indietro e intersecano il setto interventricolare, in particolare incrociando quella parte di setto che
deriva dalla giustapposizione della muscolatura propria dei ventricoli. In seguito, alcune di queste fibre
continuano il tragitto e, diventando parete della faccia diaframmatica, vanno a inserirsi al contorno
posteriore della valvola bicuspide e tricuspide; altre, nel momento in cui incrociano il setto
interventricolare, danno origine ai muscoli papillari di sinistra, per poi inserirsi allo scheletro
posteriormente: invece di disegnare una “V” disegnano una “W”. Quindi i muscoli papillari di sinistra in
realtà sono una porzione dei muscoli comuni anteriori.
- Posteriore: La muscolatura comune posteriore è speculare a quella anteriore: partono dal contorno
posteriore degli anelli fibrosi, vanno a costituire parte della faccia diaframmatica del cuore, arrivano
all’apice, cambiano direzione, intersecano il setto interventricolare, in parte si vanno ad inserire al
contorno anteriore dello scheletro del cuore e in parte diventano muscoli papillari di destra.
Il setto interventricolare è quindi composto, finora, da muscolatura propria dei ventricoli, muscoli comuni
anteriori e muscoli comuni posteriori. Infatti se si guarda un vetrino del setto interventricolare si osservano
fibre dirette in tutte le direzioni.
- Suturale: Infine ci sono i muscoli suturali. Essi rappresentano la porzione più esterna dei ventricoli,
disposti in maniera da tenere insieme i ventricoli, come se fossero fasciati (da ciò il nome “suturali”). Le
fibre suturali sono disposte, viste dall’alto, a formare un “8” coricato. Esse si inseriscono con un estremo
ad un punto intermedio dell’anello fibroso, poi si dispongono a contornare lo stesso anello fibroso e, una
volta giunte al punto di partenza, vanno a contornare l’altro anello fibroso: partono da destra e terminano a
sinistra e viceversa. Le fibre suturali sono tutte disposte a formare un “8” coricato, ma mentre tutte
partono per definizione dallo scheletro del cuore, il punto di incrocio si sposta progressivamente dalla
parte basale alla parte apicale del setto interventricolare.
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Quindi il setto interventricolare risulta composto dalle 2 muscolature proprie dei ventricoli,
dall’intersezione di queste fibre con i muscoli comuni anteriori e i muscoli comuni posteriori e dalla
presenza di fibre suturali che si incrociano proprio a livello del setto.
Muscolatura degli Atri:
Anche gli atri hanno il proprio strato di miocardio. Il sangue passa dall’atrio al ventricolo perché si crea una
depressione nel ventricolo di cui non è responsabile la contrazione dell’atrio, quindi la parete atriale non
deve essere dotata di un grosso strato di muscolatura, ma di uno strato molto sottile (qualche mm). Benché
sottile, esso contribuisce in qualche modo allo svuotamento dell’atrio durante la sistole atriale, che
corrisponde alla diastole ventricolare. Infatti la muscolatura atriale si contrae alla fine della diastole
ventricolare, e per questo è detta contrazione telediastolica.
Atrio destro:
Intorno allo sbocco della cava superiore e della cava inferiore è presente una muscolatura atriale che si
dispone in modo circolare a formare una specie di sfintere. Uno sfintere è una struttura composta da
fibrocellule muscolari, lisce o striate, disposte circolarmente. Questo significa che al momento della
contrazione di questa muscolatura lo spazio che queste fibre circondano si riduce di diametro. Quando questa
muscolatura si contrae, nella fase finale della diastole ventricolare, la riduzione di calibro riduce l’afflusso di
sangue che dalle cave vanno all’atrio.
Via via che ci si sposta dallo sbocco delle cave verso l’atrio, questa muscolatura si comincia a distribuire a
fasci verticali (non esattamente ortogonali al piano terra, ma certamente non più sfinteriali). Questa
muscolatura è presente posteriormente e anteriormente all’atrio destro.
Anteriormente l’atrio di destra si continua con una propaggine che si dispone verso l’avanti e medialmente:
l’auricola o orecchietta dell’atrio destro, che presenta una muscolatura perpendicolare al piano terra, in cui
le fibre miocardiche si dispongono a formare dei fasci che prendono il nome di muscoli pettinati (come se si
fosse passato un pettine). Nonostante il volume interno dell’auricola è molto ridotto, quasi virtuale, la grande
presenza di muscolatura è giustificata dal fatto che l’accorciamento di queste fibre contribuisce a dare la
spinta finale al sangue residuo dell’atrio alla fine della diastole ventricolare, processo che completa lo
svuotamento dell’atrio di destra.
Atrio sinistro:
Mentre la stragrande maggioranza delle fibre miocardiche dell’atrio di destra sono parallele all’asse
maggiore dell’atrio (che ha forma ovoidale con l’asse maggiore perpendicolare al piano terra), quindi
verticali, a sinistra le fibre sono sempre verticali, ma perpendicolari all’asse maggiore dell’atrio (che ha la
forma di un uovo coricato, con l’asse maggiore trasverso, a causa del fatto che nasce dalla convergenza delle
2 vene polmonari di sinistra con le 2 vene polmonari di destra). Allo sbocco di ciascuna delle 4 vene
polmonari, come nell’atrio di destra, le fibre si dispongono circolarmente a formare sfinteri. Via via che si
passa dallo sbocco delle 4 vene alla parte centrale dell’atrio le fibre assumono andamento verticale, quindi
perpendicolari all’asse maggiore dell’atrio, e vanno a costituire gran parte della parte posteriore dell’atrio,
ma anche di quella anteriore. Infatti se si guarda dal davanti si vedono le fibre verticali passare da dietro in
avanti, scavalcare il margine superiore e continuare ad essere verticali per un certo tragitto. Quindi tra lo
sbocco delle 4 vene polmonare le fibre sono tutte verticali, in gran parte posteriormente ma anche
anteriormente.
Al di sotto di quello che si potrebbe chiamare seno delle vene polmonari, l’insenatura che nasce dalla
convergenza di questi vasi, le fibre dell’atrio di sinistra sono orizzontali e rappresentano la continuazione
verso sinistra delle fibre circolari della vena cava inferiore. Queste fibre, dette fibre orizzontali, si
dispongono su un piano inferiore rispetto a quelle descritte sopra e andando verso sinistra fanno una sorta di
conversione a “U”, disponendosi al davanti dell’atrio. Quasi come se al di sotto (in realtà ventralmente) del
luogo in cui convergono le 4 vene polmonari ci fosse una specie di anello di fibre circolari, dette fibre
orizzontali, che sono le ultime fibre dell’atrio a contrarsi per completarne lo svuotamento.
Anche a sinistra, all’estremo di sinistra dell’atrio, si ha una propaggine, fatta anch’essa di fibre verticali, di
muscoli pettinati, che prende il nome di auricola o orecchietta di sinistra, disposta simmetricamente rispetto
all’auricola di destra.
La muscolatura atriale si contrae alla fine della diastole ventricolare (o della sistole atriale), ma solo per
completare lo svuotamento dell’atrio. Il contributo della sistole atriale alla gittata cardiaca è minimo, non è
essenziale.
Ciò è confermato dal fatto che la condizione patologica detta di fibrillazione atriale, in cui la muscolatura
atriale non si contrae in maniera ordinata, ma ogni gruppetto di fibrocellule muscolari cardiache si contrae in
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maniera propria, con il risultato che viene a mancare la forza di spinta finale che porta alla “spremitura”
dell’atrio, è compatibile con la vita, diversamente dalla fibrillazione ventricolare. Tuttavia, proprio perché la
contrazione atriale avviene in maniera anomala, la forza complessiva è minore e una parte di sangue ristagna
nell’atrio, con conseguente rallentamento del flusso del sangue nell’atrio, che si può tradurre nella
formazione di piccoli coaguli di sangue, trombi, che prima o poi vanno in circolo. Se un trombo che va in
circolo, e quindi un embolo, incontra un vaso il cui calibro è minore del suo diametro, il vaso si tappa, con
conseguente infarto nel caso di vasi arteriosi del grande circolo, oppure infarto polmonare nel caso di vasi
arteriosi del piccolo circolo.
Circolazione coronarica:
I vasi propri del cuore si chiamano arterie coronarie. Queste sono 2, destra e sinistra, e prendono questo
nome perché parte di esse percorre il solco coronario. Le arterie coronarie sono i primi vasi che nascono
dall’aorta. Alla sua origine l’aorta, ossia immediatamente a valle dell’anello fibroso della valvola aortica, è
leggermente dilatata, si parla infatti di bulbo aortico. Dal bulbo aortico si dipartono, a destra e a sinistra, 2
vasi: le arterie coronarie. Ciascuno di questi vasi si ramifica in ulteriori vasi, e soltanto una parte del circolo
coronario si trova nel solco coronario.
L’origine dell’aorta non è visibile dal davanti, perché è coperta dall’origine dell’arteria polmonare. L’arteria
coronaria di destra va dalla sua origine in basso e verso destra, con un’inclinazione di 45°, percorrendo una
parte del solco coronario, esattamente 1/4.
Il solco coronario giace su un piano obliquo da sinistra a destra, dall’alto in basso e dal davanti all’indietro (il
piano perpendicolare all’asse maggiore del cuore). Esso può essere approssimato ad un cerchio, che può
essere diviso in 4 quadranti: anteriore destro, posteriore destro, anteriore sinistro e posteriore sinistro.
Arteria coronaria destra:
L’arteria coronaria destra percorre la parte anteriore destra del solco, verso il basso e verso destra. Durante il
suo tragitto essa da origine a vasi atriali, che vanno verso l’alto e irrorano l’atrio di destra dal davanti, e
simmetricamente a vasi ventricolari, che vanno verso il basso e irrorano il ventricolo di destra.
Ad un certo punto la parte anteriore destra del solco coronario termina e comincia la parte posteriore destra,
dopo che il solco fa una conversione a “U” e gira l’angolo. L’arteria coronaria di destra percorre il solco
coronario e compie anch’essa una conversione a “U”.
Prima di girare l’angolo l’arteria coronaria di destra da origine ad un vaso che percorre il margine acuto del
cuore, l’arteria del margine acuto o arteria marginale di destra (quest’ultimo nome è poco corretto,
perché il margine acuto non si trova a destra). Essa non arriva all’apice del cuore.
La parte di arteria coronaria destra che ha girato l’angolo e percorre il solco coronario posteriore di destra
lungo il suo tragitto dà origine a vasi atriali che salgono e a vasi ventricolari che scendono, specularmente al
suo tratto anteriore. Ad un certo punto, nella maggioranza dei soggetti (oltre il 60-70%), l’arteria coronaria di
destra che sta percorrendo il solco coronario posteriore di destra arrivata al punto di mezzo piega quasi ad
angolo retto e, restando posteriore, scende lungo la faccia diaframmatica del cuore in direzione dell’apice del
cuore ma senza raggiungerlo, percorrendo un solco scavato lungo la faccia diaframmatica, che va dal solco
coronario verso l’apice, il solco interventricolare posteriore, e l’arteria che lo percorre è detta arteria
interventricolare posteriore (nel restante 30% dei soggetti l’arteria interventricolare posteriore si origina
dall’arteria coronaria sinistra).
Nella maggioranza dei soggetti dalla coronaria di destra, in particolare dal punto in cui essa si è originata,
viene fuori un vaso che è diretto verso l’alto e verso lo sbocco della vena cava superiore per andare ad
irrorare quella regione del seno delle cave dove è localizzato il nodo senoatriale. A causa di ciò questo vaso
prende il nome di arteria del nodo del seno ed è il vaso da cui dipende il nodo senoatriale (nella restante
minoranza dei soggetti l’arteria del nodo del seno si origina dall’arteria coronaria di sinistra o dall’arteria
circonflessa).
Arteria coronaria sinistra:
L’arteria coronaria di sinistra è un vaso molto corto, perché nasce dal bulbo aortico e appena nata si inserisce
nel solco coronario anteriore di sinistra. In questo primo tratto essa è nascosta dall’origine dell’arteria
polmonare e solo questo primo tratto prende il nome di arteria coronaria di sinistra, perché non appena essa,
andando verso sinistra e in alto, appare e non è più coperta dall’arteria polmonare, si divide in 2 grossi rami.
Un ramo scende verso l’apice del cuore, l’arteria interventricolare anteriore. Essa per arrivare all’apice
del cuore (che raggiunge mettendovisi leggermente a destra) percorre un solco scavato sulla faccia
sternocostale del cuore, il solco interventricolare anteriore. Una volta arrivata all’apice quest’arteria gira
l’angolo e percorre una piccola parte della faccia diaframmatica, quindi vista dal lato appare come una specie
di amo o di uncino.
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L’altro ramo continua a percorrere il solco coronario di sinistra in alto e verso sinistra, dopodiché gira
l’angolo, attraversa il margine ottuso e diventa posteriore disegnando una curva dolce: a causa di ciò prende
il nome di arteria circonflessa (ci sono altre arterie circonflesse nel corpo umano, ma questa è l’unica a non
avere ulteriori aggettivi).
L’arteria interventricolare anteriore, nel suo tragitto lungo il solco interventricolare anteriore dà rami verso
destra e verso sinistra, a spina di pesce, per irrorare i ventricoli di destra e di sinistra. A un certo punto del
suo tragitto essa dà origine ad un vaso di pertinenza esclusiva del ventricolo di sinistra, che non raggiunge
l’apice, l’arteria diagonale. Quest’arteria irrora esclusivamente la parete anteriore del ventricolo di sinistra.
L’arteria circonflessa nel percorrere il solco coronario anteriore di sinistra, ma anche quello posteriore di
sinistra, dà rami atriali e rami ventricolari per l’atrio di sinistra e il ventricolo di sinistra. Nel punto in cui
essa si appresta a girare l’angolo per passare da anteriore a posteriore essa dà origine ad un vaso che percorre
il margine ottuso, l’arteria del margine ottuso o arteria marginale di sinistra, che irrora esclusivamente la
parete ventricolare sinistra nella regione del margine ottuso.
Nel 30% dei soggetti in cui l’arteria interventricolare posteriore non si origina dall’arteria coronaria di destra
ma da quella di sinistra accade che l’arteria circonflessa non termina alla fine del solco coronario posteriore
di sinistra, ma piega ad angolo retto per dare origine all’arteria interventricolare posteriore.
Nella minoranza in cui l’arteria del nodo del seno non nasce dell’arteria coronaria di destra, essa nasce o
direttamente dalla coronaria di sinistra o, più frequentemente, dall’arteria circonflessa.
Arterie interventricolari:
L’arteria interventricolare posteriore percorre il solco interventricolare posteriore, l’arteria interventricolare
anteriore percorre il solco interventricolare anteriore, per poi girare l’angolo a destra dell’apice e raggiungere
con una piccola parte la faccia diaframmatica del cuore. Mentre in tutti i soggetti l’arteria interventricolare
anteriore è un ramo della coronaria di sinistra, l’arteria interventricolare posteriore è un ramo della coronaria
di destra nel 60-70% dei soggetti e della coronaria di sinistra nel restante 30%.
Entrambe le arterie interventricolari danno rami a destra e a sinistra, irrorando entrambi i ventricoli, quindi
sono in comune ad entrambi i ventricoli.
Esse sono importanti perché lungo il loro tragitto entrambe, oltre che dare rami ventricolari a destra e a
sinistra, danno rami centrali o perforanti che si approfondano nel setto interventricolare come i denti di un
pettine, andando ad irrorare il setto interventricolare.
Il setto interventricolare presenta uno spessore notevole, perché nasce dalla giustapposizione dei muscoli
propri di ciascun ventricolo, dalla intersezione delle fibre comuni anteriori e posteriori e dalle fibre suturali
che progressivamente si incrociano lungo la linea che va dalla base del ventricolo all’apice. Il limite anteriore
del setto interventricolare è rappresentato dal solco interventricolare anteriore, il limite posteriore è
rappresentato dal solco interventricolare posteriore. Tuttavia l’arteria interventricolare anteriore presenta un
calibro e una lunghezza maggiore di quelli della posteriore, quindi il territorio di distribuzione dell’anteriore
è maggiore del territorio di distribuzione della posteriore. Di conseguenza un infarto dell’arteria
interventricolare anteriore è più grave di un infarto della posteriore. Inoltre le branche del fascio di His (che
si originano più o meno all’altezza della pars membranacea del setto) ricevono sangue prevalentemente (i 2/3
anteriori) dall’arteria interventricolare anteriore, quindi in caso di chiusura dell’arteria interventricolare
anteriore si può avere, oltre all’infarto del setto interventricolare, un’interruzione dello stimolo elettrico che
determina la contrazione dei ventricoli. Questo determina morte improvvisa dell’infartuato.
Il sangue arterioso raggiunge arteriole, capillari, venule e vene più grandi. Le vene di solito sono compagne
delle arterie coronarie, sono dette proprio vene compagne o comites e hanno lo stesso tragitto a ritroso delle
arterie. Il sangue venoso refluo che ha nutrito il miocardio va a finire in un grosso vaso venoso (oltre 95%
del sangue, ma non tutto), il seno coronario, localizzato nel solco coronario posteriore di sinistra, il quale
sbocca direttamente nell’atrio di destra all’altezza dello sbocco della vena cava inferiore. A livello dello
sbocco è presente una valvola, la valvola di Tebesio, che ha la funzione di chiudere lo sbocco del seno
coronario durante la sistole atriale, allo scopo di evitare che l’aumento di pressione nell’atrio si rifletta nel
contenuto del seno coronario e ne ritardi lo svuotamento nell’atrio.
Pericardio:
Il pericardio è una struttura che circonda il cuore e consta di 2 parti:
- Pericardio fibroso: Parte esterna, molto vascolarizzato e molto resistente. E’ un monostrato che contiene
il cuore: se si afferrasse il cuore per il peduncolo, tutto ciò che starebbe al di sotto del peduncolo sarebbe
avvolto da pericardio fibroso. Non è a contatto diretto con il cuore, perché si interpone il pericardio
sieroso.
- Pericardio sieroso: E’ costituito da 2 foglietti giustapposti, quindi presenta una cavità virtuale. E’ un
sacco chiuso che avvolge con 2 foglietti (di cui uno è la continuazione dell’altro) il cuore, la parte iniziale
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dei vasi in uscita e la parte finale dei vasi in entrata, interponendosi tra cuore e pericardio fibroso. Di
questi 2 foglietti quello più interno è incollato alla superficie esterna del cuore, quello più esterno è
incollato al pericardio fibroso. Quindi ci sono 3 strutture solidali tra loro: cuore, pericardio sieroso e
pericardio fibroso. Siccome il foglietto più interno è incollato al cuore, che è un viscere, è detto foglietto
viscerale, mentre il foglietto esterno è detto foglietto parietale.
Nel suo complesso il pericardio ha una funzione protettiva, serve ad isolarlo dalle altre strutture toraciche e
mediastiniche, tanto che la parte più esterna è pericardio fibroso, fatto di tessuto connettivo. Il pericardio
sieroso è composto da un monostrato mesoteliale che poggia su una membrana basale e uno strato di tessuto
connettivo. Mentre non c’è spazio tra pericardio fibroso e foglietto parietale del sieroso e tra foglietto
viscerale del sieroso e cuore, c’è un sottile spazio tra i 2 foglietti del pericardio sieroso: essi non sono adesi
tra loro. Questo spazio, molto sottile, è riempito da un film liquido, il liquido pericardico, che è liquido
interstiziale. Esso serve a fornire coesione ai foglietti parietale e viscerale del pericardio sieroso, rendendoli
solidali, affinché il pericardio assolva alla sua funzione di contenimento.
Il pericardio ha la funzione di contenere il cuore, nel doppio senso di “accogliere al proprio interno” e
“impedire che il contenuto fuoriesca”: il pericardio, oltre alla funzione di proteggere, ha anche la funzione di
limitare l’escursione dei movimenti cardiaci durante i cicli di sistole e diastole, senza però impedirne i
movimenti.
Il pericardio contribuisce in parte al contenimento del cuore, ma non è sufficiente, benché necessario.
Esistono tutta una serie di legamenti, che appartengono alla categoria di legamenti pericardici e sono
denominati in base alla provenienza, che connettono il pericardio a strutture rigide:
- legamenti sternopericardici: si estendono dallo sterno al pericardio fibroso, ve ne sono 2 gruppi:
superiori e inferiori;
- legamenti vertebropericardici: connettono la parte posteriore del cuore alla colonna vertebrale;
- legamenti frenopericardici: si estendono dal centro tendineo del muscolo diaframma al pericardio
fibroso della faccia diaframmatica del cuore (“frenico” è l’aggettivo di “diaframma”, insieme a
“diaframmatico”).
Il sacco pericardico è fissato dentro al torace, nel mediastino, attraverso tutta una serie di legamenti fibrosi
che connettono il pericardio fibroso alle pareti locali, in modo tale da limitare le escursioni senza tuttavia
arrestarle.
Il liquido pericardico è un liquido interstiziale che deriva dal plasma e si trova tra i 2 foglietti del pericardio
sieroso. Questo significa che il pericardio sieroso è vascolarizzato da arterie pericardiche e che la quantità di
liquido pericardico può variare. In condizioni normali e fisiologiche la quantità di liquido pericardico che si
forma è costante, ma in alcune circostanze può aumentare, fino a compromettere la funzione cardiaca, ad
esempio nelle pericarditi. Il liquido aumenta nello spazio tra il foglietto viscerale e quello parietale, con
conseguente aumento della distanza tra i 2 foglietti e della pressione, che si esercita sul cuore, la parte debole
del sistema (esternamente ci sono strutture ossee). Quindi ogni volta che si accumula liquido pericardico
nello spazio tra i 2 foglietti si ha una riduzione della possibilità di riempimento dei ventricoli durante la
diastole, il che determina una riduzione della quantità di sangue eiettato durante la sistole. Il rischio è il
fenomeno del tamponamento cardiaco: si accumula una tale quantità di liquido che il cuore viene
tamponato. Questo si può avere anche in caso di incidente stradale, in cui a seguito di un trauma del soggetto
con il volante si ha rottura di qualche vaso del pericardio sieroso, con emorragia in cui il sangue si riversa
nello spazio tra i 2 foglietti.
Proiezione del cuore sulla parete del torace:
Si possono avere informazioni cliniche sulla funzione cardiaca sfruttando la proiezione del cuore sulla parete
anteriore del torace, l’aia cardiaca, utilizzando lo stetoscopio. Essa risulta essere una specie di poligono con
4 lati, destro, sinistro, inferiore e superiore, che si trova nello spazio compreso tra l’angolo sternale di Luiss
(quello che riceve la 2° articolazione condrosternale) e l’inizio del processo xifoideo dello sterno.
Il punto più alto di proiezione del cuore sulla parete anteriore del torace coincide più o meno con l’angolo
sternale di Luiss. Questo punto coincide con la proiezione della valvola polmonare. Il punto più basso di
proiezione si può collocare lungo una linea orizzontale che passa per l’origine del processo xifoideo dello
sterno e a sinistra per il 5° spazio intercostale, nel punto in cui essa incrocia la linea che dal punto medio
della clavicola raggiunge il tubercolo a lato della sinfisi pubica, la linea emiclaveare. In questo punto proietta
quindi l’apice del cuore.
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L’interesse a conoscere certe proiezioni è nel fatto che attraverso il fonendoscopio il medico può avere
informazioni su apertura e chiusura delle 4 valvole: quando una di queste valvole si chiude fa un rumore,
grave e prolungato per le valvole atrioventricolari, acuto e corto per le valvole arteriose.
Linee di riferimento:
Allo scopo di definire i punti di proiezione e auscultazione delle valvole cardiache è utile individuare delle
linee di riferimento:
- linea mediosternale: divide in 2 metà simmetriche lo sterno;
- linee marginosternali: di destra e di sinistra, poste ai margini dello sterno;
- linee parasternali: di destra e di sinistra, poste più lateralmente, si dipartono dalla giunzione
costocondrale della 1° costa, quindi a 3-4 cm dal punto medio del manubrio dello sterno verso sinistra e
verso destra, e vanno verso il basso perpendicolarmente;
- linee emiclaveari: di destra e di sinistra, partono dal punto medio della clavicola e scendono giù inclinate
in basso e medialmente per finire nel tubercolo pubico;
- linea emiascellare: di destra e di sinistra, definisce i profili laterali del torace, parte dal punto medio della
base dell’ascella e si dirige verso il basso perpendicolarmente.
Focolai anatomici:
- Valvola tricuspide: insiste sul piano del solco coronario, obliquo da sinistra a destra, dall’alto verso il
basso e da davanti indietro, quindi è la valvola più caudale. Proietta a partire dal punto della 5°
articolazione condrosternale di destra verso la linea mediosternale e verso l’alto, seguendo la direzione
della proiezione del solco coronario.
- Valvola bicuspide: se ci si sposta verso sinistra lungo il piano del solco coronario si incontra la valvola
bicuspide, che proietta dalla 4° articolazione condrosternale di sinistra, un po’ più a sinistra della linea
marginosternale, verso sinistra e verso l’alto, seguendo la direzione della proiezione del solco coronario.
- Valvola aortica: a seguire, sempre lungo il piano del solco coronario, posto che la valvola polmonare è la
più craniale e la più a sinistra, si incontra la valvola aortica. Questa proietta all’altezza della 3°
articolazione condrosternale di sinistra, tra la linea mediosternale e la linea marginosternale di sinistra.
- Valvola polmonare: è la più craniale e la più a sinistra, proietta all’altezza del 2° spazio intercostale di
sinistra, quasi a ridosso della linea marginosternale di sinistra.
Focolai di auscultazione:
La distanza tra le 4 valvole è piccola, quindi se si vuole auscultare una delle valvole non si può posizionare il
fonendoscopio sulla sua proiezione, perché non si avrebbe la certezza di star ascoltando il rumore della
valvola interessata. Quindi i focolai di auscultazione delle 4 valvole cardiache non coincidono con la loro
proiezione sulla parete del torace, ma sono spostati verso la direzione del flusso del sangue:
- Valvola mitralica: Attraverso la valvola mitralica il sangue va dall’atrio di sinistra al ventricolo di
sinistra, andando verso l’apice del ventricolo di sinistra, dall’alto in basso e da destra verso sinistra. Il
sangue nel percorrere questa distanza produce un rumore, quindi se si posiziona il fonendoscopio a livello
della proiezione dell’apice del ventricolo si sentirà un suono sicuramente attribuibile alla valvola
mitralica. Il luogo di auscultazione della valvola mitralica è quindi all’incrocio del 5° spazio intercostale
di sinistra con la linea emiclaveare di sinistra, punto in cui proietta l’apice del cuore.
- Valvola tricuspide: Allo stesso modo della mitralica bisogna posizionare il fonendoscopio in un punto
che non è quello di proiezione della valvola, ma spostato verso destra, all’altezza della linea
marginosternale di destra, dove c’è la 5° articolazione condrosternale di destra.
- Valvola aortica: La sua proiezione è compresa tra quella della valvola polmonare e quella della mitralica,
quindi ponendo il fonendoscopio in questo punto si sentirebbero queste 3 valvole contemporaneamente.
Quindi si applica lo stesso principio applicato per la bicuspide: ci si allontana seguendo il flusso del
sangue. L’aorta nel suo tratto iniziale va in alto, in avanti e a destra, per mettersi quasi dietro il manubrio
dello sterno, quindi per l’auscultazione della valvola aortica ci si sposta in questa direzione, raggiungendo
il 2° spazio intercostale di destra lungo la linea marginosternale.
- Valvola polmonare: L’arteria polmonare inizialmente va in alto, in avanti e a sinistra, quindi per
auscultarne la valvola si posiziona il fonendoscopio a livello del 2° spazio intercostale di sinistra tra la
linea marginosternale e la linea parasternale di sinistra.
Le proiezioni anatomiche delle valvole sulla parete anteriore del torace, nonostante non ne rappresentino i
punti di auscultazione, sono utili perché a partire da questi punti ci si sposta nella direzione del sangue.
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Archi cardiaci:
In un radiogramma del torace si ottiene l’immagine del cuore in cui i profili sono composti da archi.
Il profilo di destra è fatto di 2 archi cardiaci, il 1° è concavo verso l’esterno e corrisponde al profilo della
vena cava superiore, il 2° è convesso verso l’esterno e corrisponde al profilo dell’atrio di destra.
Il profilo di sinistra è formato da 3 archi, tutti convessi verso sinistra, il 3° arco rappresenta il profilo del
ventricolo di sinistra, il 1° rappresenta il profilo della parte posteriore dell’arco aortico, il 2° rappresenta il
profilo dell’auricola di sinistra con un piccolo contributo del tronco polmonare.
Questi archi in condizioni patologiche possono deformarsi. Quelli che più frequentemente si deformano sono
il 3° arco di sinistra, il 1° arco di sinistra nel caso di dilatazione dell’aorta, che può essere causata da
insufficienza della valvola aortica, e il 2° arco di destra, causata da insufficienza della tricuspide che
determina dilatazione dell’atrio.
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MEDIASTINO:
Il mediastino indica lo spazio della cavità toracica dove non sono presenti i polmoni e rappresenta circa 1/4
del volume interno. Le strutture che vi sono comprese sono numerose e di conseguenza a diretto contatto le
une con le altre: se c’è qualcosa che interessa una struttura, le strutture vicine ne possono risentire.
Il mediastino si trova nella parte centrale del torace, ma siccome l’asse del cuore è orientato in avanti, in
basso e a sinistra, il mediastino non è fatto da 2 metà simmetriche destra e sinistra.
Visto dal piano frontale, infatti, somiglia ad una clessidra la cui parte inferiore è molto più ampia della parte
superiore e che non presenta simmetria destra e sinistra (a causa dell’orientamento dell’asse del cuore).
Presenta un luogo di strozzatura tra T4 e T1-T2 che nasce dal fatto che i polmoni sono dei coni ad apice
superiore arrotondato e che andando dall’apice verso il basso i margini mediali si avvicinano. Se si guarda
lateralmente il mediastino si individua come limite anteriore lo sterno e come limite posteriore la cifosi
toracica e una parte di lordosi lombare.
Superiormente il mediastino non è delimitato da alcuna struttura, non c’è nessun piano anatomico fatto di
sostanza che separi la parte superiore del torace dal collo, si passa dalla regione del torace alla regione del
collo liberamente. Si individua quindi un piano immaginario che ne definisce il limite superiore.
Considerando che l’apice arrotondato dei polmoni superiormente deborda leggermente dal piano passante
per la 1° coppia di coste, la prima vertebra toracica (T1) e l’incisura giugulare dello sterno, questo piano non
può essere considerato il limite superiore del mediastino perché una parte di quello spazio è occupato dagli
apici dei polmoni che non sono organi mediastinici. Quindi a delimitare superiormente il mediastino è una
fettuccia di piano immaginario poggiato in avanti sull’incisura giugulare dello sterno e indietro su T1.
L’incisura giugulare dello sterno proietta tra T2 e T3, quindi questo piano è inclinato in basso e in avanti.
Lateralmente il mediastino è delimitato dai polmoni, in particolare dalla loro faccia mediale, che per questo
viene detta faccia mediastinica, a destra e a sinistra.
Siccome il limite tra cavità toracica e addominale è il muscolo diaframma (il cui nome corretto sarebbe
diaframma addominale poiché ci sono altri muscoli diaframmatici, altri diaframmi), questo rappresenta
anche il limite inferiore del mediastino.
Diaframma:
Non tutto il diaframma rappresenta la base del mediastino, perché una parte del muscolo diaframma deve
sostenere i 2 polmoni che hanno una base inferiore ampia e ne occupano gran parte della superficie.
Il diaframma è una struttura convessa verso l’alto e concava verso l’alto. E’ un muscolo, il più importante
muscolo della respirazione, e come tutti i muscoli scheletrici deve avere 2 punti di inserzione affinché la sua
contrazione sia efficace. E’ un muscolo cupoliforme, composto da fibre scheletriche che contraendosi si
accorciano. Visto dall’alto e dal basso appare come un muscolo in cui le fibre scheletriche sono disposte
come i raggi di una ruota di bicicletta, a ricordare l’impalcatura di un ombrello, che partono dalla parte più
periferica del diaframma e convergono verso l’alto ad una struttura a forma di trifoglio, il centro tendineo
del diaframma, composto da una parte centrale e ventrale che si continua a destra e a sinistra con 2 strutture,
le fogliole del centro del diaframma, poste lateralmente e dorsalmente. Siccome queste 3 fogliole sono fuse
in un’unica superficie, ogni fibra muscolare converge verso il centro tendineo del diaframma, che quindi
rappresenta uno dei 2 punti di inserzione per ogni fibra.
Inferiormente il muscolo diaframma si inserisce su diverse strutture: anteriormente al processo xifoideo dello
sterno e alla superficie interna dell’arcata condrocostale di destra e di sinistra; lateralmente le fibre si
inseriscono all’estremo libero dell’11° costa e all’estremo libero della 12° costa; posteriormente non si
inseriscono al resto della 12° costa, ma a 2 coppie di tendini arcuati, a destra e a sinistra, detti archi tendinei
del diaframma, laterali e mediali. Tra la metà mediale della 12° costa e il terzo posteriore della cresta iliaca
è presente un muscolo con le fibre disposte verticalmente, il muscolo quadrato dei lombi, che si inserisce a
queste strutture, a destra e a sinistra. Medialmente ed anteriormente al muscolo quadrato dei lombi è presente
un altro muscolo, il muscolo grande psoas, parallelo alla colonna lombare che affianca a destra e a sinistra.
Ciascuno di questi 2 muscoli è avvolto da una fascia, lamina connettivale che avvolge un muscolo
scheletrico incollandosi al perimisio, con la funzione di contenere il muscolo nella doppia accezione del
verbo (cioè anche nel senso di limitare l’espansione centrifuga del muscolo, aiutando così a fare in modo che
la contrazione sia “esplosiva”). La faccia anteriore della fascia del quadrato dei lombi e dello psoas, lungo
una linea ricurva, si ispessisce e a questo livello si inserisce, a destra e a sinistra, una parte del muscolo
diaframma: mentre sul davanti e fino all’apice dell’ultima costa il diaframma si inserisce a strutture dure,
osso e cartilagine, lungo questi 2 ispessimenti, detti archi tendinei, il diaframma si inserisce a strutture meno
dure. Gli archi tendinei sono continui ma non si svolgono lungo la stessa linea, quindi si definiscono pilastro
laterale e pilastro intermedio le parti di muscolo diaframma che si inseriscono rispettivamente all’arco
laterale e all’arco mediale, a destra e a sinistra.
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Esistono altri 2 pilastri, uno a destra e uno a sinistra, per un totale di 6, 3 a destra e 3 a sinistra, chiamati
pilastri mediali, formazioni muscolari che si assottigliano andando verso il basso a cui fanno seguito dei
tendini che vanno ad inserirsi sulla regione lombare della colonna vertebrale, il pilastro di destra a L4, il
pilastro di sinistra a L3.
In sintesi, esistono 3 coppie di pilastri:
- Pilastri laterali: si inseriscono agli archi tendinei laterali, relativi al muscolo quadrato dei lombi;
- Pilastri intermedi: si inseriscono agli archi tendinei mediali, relativi al muscolo grande psoas;
- Pilastri mediali: si inseriscono a L4 quello di destra e a L3 quello di sinistra.
Il contorno inferiore del diaframma è una linea che, a destra e a sinistra, si diparte dal processo xifoideo dello
sterno, percorre l’arcata condrocostale, l’apice dell’11° costa, l’apice della 12° costa, prosegue lungo l’arco
tendineo laterale, l’arco tendineo mediale e termina con il tendine del pilastro mediale, che a sua volta si
inserisce alla faccia anteriore di L3 e L4.
Il diaframma non presenta simmetria anteroposteriore: il punto più alto del perimetro inferiore del diaframma
è il processo xifoideo, che proietta a T9, mentre posteriormente il diaframma si inserisce a L3 e L4. Infatti il
diaframma è più alto davanti rispetto a dietro, nel senso che il punto più declive anteriore si trova
cranialmente rispetto al punto più declive posteriore.
Il punto di inserzione superiore del diaframma è un’ampia superficie a forma di trifoglio, il centro del
diaframma, con una fogliola intermedia più sviluppata in avanti e 2 fogliole laterali più sviluppate indietro. Il
contorno di questa superficie riceve le miofibre del diaframma. Chiaramente la contrazione non interessa il
centro tendineo del diaframma.
Contrazione del diaframma e respirazione:
In seguito alla contrazione, il diaframma non si abbassa, altrimenti ad ogni inspirazione il cuore subirebbe
un’oscillazione verticale. Ciò non accade grazie alla presenza di pericardio e di legamenti pericardici, che
frenano la discesa del cuore e lo trattengono verso l’alto. Quindi quando il diaframma si contrae non avviene
un appiattimento omogeneo della cupola diaframmatica.
Durante l’inspirazione i muscoli intercostali sollevano le parti anterolaterali delle coste e le fanno ruotare in
avanti e verso l’alto. Inoltre avviene la contrazione del muscolo quadrato dei lombi, che determina la
trazione e il fissaggio della 12° costa verso il basso. Nello stesso tempo il muscolo quadrato dei lombi s’è
irrigidito, e con esso la sua fascia, determinando il fissaggio del tendine dell’arco laterale che ad essa si
inserisce. Stessa cosa accade per le altre 2 coppie di pilastri, favorendo l’azione contrattile del muscolo
diaframma.
Il risultato è che, mentre il centro tendineo rimane fermo, la regione delle curve del diaframma si appiattisce,
quindi il diaframma durante la contrazione non sale, ma si appiattisce. L’appiattimento verso il basso dei 2
emidiaframmi trascina verso il basso i polmoni, perché su di esso vi poggiano le basi, e ne favorisce il
riempimento, contribuendo a creare la depressione tale per cui l’aria passa dal luogo a maggior pressione a
quello a minor pressione. Per questo il diaframma è il muscolo principale della respirazione.
Una conseguenza dell’organizzazione del muscolo diaframma è che, essendo il diaframma il limite inferiore
del mediastino, il limite posteriore del mediastino è rappresentato dal tratto toracico della colonna vertebrale
e dalle prime vertebre lombari, tanto che il mediastino posteriormente invade la regione lombare.
Sebbene il diaframma separi il torace dall’addome, c’è comunicazione tra queste 2 cavità grazie a strutture
come lo iato esofageo del diaframma, apertura che permette il passaggio dell’esofago dal torace all’addome,
e altre strutture di comunicazione.
Lo iato esofageo è leggermente spostato a sinistra della linea di mezzo, a livello della parte posteriore del
diaframma, e proietta a circa T10-T11 (incertezza dovuta al fatto che quest’orifizio non è parallelo al piano
terra, ma inclinato indietro e in basso). Non si tratta di un forame, ma di una separazione del pilastro mediale
di destra del diaframma, il quale laddove deve passare l’esofago è separato in 2 parti al cui interno
definiscono lo iato esofageo.
Lo iato esofageo del diaframma è importante, perché esiste una condizione patologica detta ernia iatale in
cui, quando il soggetto si trova in posizione clinostatica, la parte inferiore dell’esofago tende ad andare verso
l’alto, quindi un pezzo di stomaco si impegna nello iato e sconfina nel torace. Ciò può essere causato da una
lunghezza ridotta dell’esofago o da un’eccessiva ampiezza dello iato. Questo accade perché lo iato non è
composto da tessuto fibroso, ma da tessuto muscolare.
Ci sono altri passaggi tra torace e addome: l’orificio aortico che si trova tra i 2 pilastri mediali del
diaframma e proietta a T12 e l’orifizio della vena cava inferiore, il più grande, localizzato a destra, che
proietta a T8 e attraversa la fogliola laterale destra del centro tendineo del diaframma. Diversamente dallo
iato esofageo l’orifizio aortico presenta un anello fibroso. Questi 3 orifizi non si trovano sullo stesso piano:
partendo da destra e ventralmente si trova l’orifizio della cava inferiore, poi andando verso destra e
posteriormente l’orifizio esofageo ed infine l’orifizio dell’aorta, il più caudale, quasi in linea con lo iato
esofageo.
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Suddivisione del mediastino:
Il mediastino viene diviso in più parti. Una prima divisione è quella tra mediastino superiore e inferiore:
mediastino superiore è tutto ciò che del mediastino si trova al di sopra di un piano parallelo al piano terra
che passa per l’angolo sternale di Luiss e T4, ciò che del mediastino si trova sotto a questo piano è
mediastino inferiore. Il piano di divisione è immaginario, non esistono piani anatomici di divisione.
Il mediastino inferiore è molto più grande del mediastino superiore, quindi viene suddiviso in 3 parti:
mediastino anteriore, intermedio e posteriore. Lo spazio occupato dal pericardio fibroso, che contiene il
cuore, l’inizio dei grossi vasi che si dipartono dal cuore e la fine dei vasi che arrivano al cuore, rappresenta il
mediastino intermedio. Ciò che sta al davanti è mediastino anteriore, ciò che sta dietro è mediastino
posteriore.
Organi mediastinici:
1)
2)
3)
4)
5)
6)
7)
8)
9)
10)
11)
12)
13)
14)
15)
16)
17)
18)
19)
20)
21)
22)
23)
24)
Cuore e Pericardio
Aorta
Tronco polmonare
VV. Cave
VV. Polmonari
Esofago
Sistema della Vena Azygos
VV. Brachiocefaliche (Anonime)
Trachea
Bronchi principali
AA. Intercostali posteriori (p.te iniziale, le ultime 10 coppie, non le prime 2)
VV. Intercostali posteriori
Timo
NN. Vaghi
N. Laringeo inferiore sinistro
NN. Frenici
NN. Cardiaci
Linfonodi (LNF)
Catene dei gangli simpatici
NN. Splancnici
Vasi AA. e VV. minori
AA. Bronchiali
VV. Bronchiali
Dotto toracico
Aorta:
L’aorta ha la forma di un manico di ombrello. Si origina dalla valvola aortica, che proietta all’altezza della 3°
articolazione condrosternale di sinistra, tra la linea mediosternale e la linea marginosternale di sinistra, e che,
originando dal cuore, si trova nel mediastino inferiore intermedio. Quindi l’aorta comincia a livello del
mediastino inferiore intermedio e, siccome viene incrociata dal davanti dall’arteria polmonare, nella sua
parte iniziale si dirige in alto e a destra. Si inizia come bulbo e si continua con l’aorta ascendente, che poi va
indietro e a sinistra (va molto più dal davanti verso il dietro di quanto non vada da destra verso sinistra) a
costituire l’arco dell’aorta.
L’arco dell’aorta, nell’andare dal davanti verso il dietro e da destra verso sinistra incrocia a sinistra l’esofago
a formare il primo incrociamento aortoesofageo, che si ha a circa T3, quindi dietro il manubrio dello sterno
(questo perché l’angolo sternale di Luiss, superiormente al quale si trova il manubrio dello sterno, proietta a
T4). L’arco dell’aorta si compie attorno al bronco principale di sinistra.
All’arco dell’aorta fa seguito l’aorta discendente, nella sua componente toracica (in particolare nel
mediastino inferiore e posteriore) e addominale. L’aorta discendente dopo il secondo incrociamento
aortoesofageo (vedi sotto) diventa sempre più mediana, senza tuttavia mai diventarlo.
Dal bulbo aortico nascono 2 vasi, l’arteria coronaria di destra e di sinistra.
Dall’aorta ascendente non nasce nessun vaso.
Dall’arco dell’aorta nascono 3 vasi epiaortici: l’arteria anonima, l’arteria carotide comune di sinistra e
l’arteria succlavia di sinistra. Questi 3 vasi nel loro primo tratto si dispongono sul piano intermedio
dell’arco dell’aorta (né sagittale, né frontale).
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L’arteria carotide comune di sinistra si trova nel mediastino superiore e qui non dà nessun ramo. Poi sale e
sconfina nel collo, dove non dà origine a nessun ramo e a livello di C4 si biforca in carotide interna e
carotide esterna.
L’arteria anonima si trova nel mediastino superiore, dietro al manubrio dello sterno. Va in alto e a destra e
appena si trova dietro all’articolazione sternoclaveare, circa all’altezza di T3, si divide in arteria carotide
comune di destra e arteria succlavia di destra. Mentre l’arteria carotide comune di sinistra si trova in parte
nel mediastino superiore, l’arteria carotide comune di destra non vi rientra, poiché nasce al di sopra del piano
che delimita superiormente il mediastino (l’arteria anonima si divide al di sopra del mediastino).
Mentre nel collo c’è una perfetta simmetria, al di sotto del collo c’è asimmetria, dovuta al fatto che l’arteria
carotide comune di destra e la succlavia di destra derivano dall’arteria anonima, quelle di sinistra derivano
dall’arco dell’aorta.
Dalla concavità dell’arco dell’aorta e dall’aorta discendente nascono le arterie bronchiali, destinate ad
irrorare tutto l’albero bronchiale.
L’aorta discendente dà origine alle ultime 10 coppie di arterie intercostali posteriori, vasi mediastinici solo
per il loro tratto iniziale, poiché poi si dirigono lateralmente verso i polmoni (le prime due coppie di arterie
intercostali posteriori originano dall’arteria succlavia). Dall’arteria succlavia si origina un ramo, a destra e a
sinistra: l’arteria toracica interna o arteria mammaria interna. Questa scende verso il basso e raggiunge
il torace, ma non il mediastino: è addossata alla faccia posteriore della parete anteriore del torace lungo la
linea parasternale (linea che si origina dall’articolazione costocondrale della 1° costa e scende verso il
basso). L’arteria toracica interna scendendo dà vasi, le arterie intercostali anteriori, ciascuno dei quali si
anastomizza a pieno canale con l’arteria intercostale posteriore corrispondente.
Le arterie intercostali irrorano le coste e i tessuti contenuti negli spazi intercostali. Queste decorrono, insieme
alla vena e al nervo compagni, in un solco scavato lungo il versante interno del margine inferiore della costa
a formare il fascio vascolonervoso intercostale. Le arterie intercostali anteriori, essendo derivate da un
vaso, l’arteria toracica interna, che già non si trova nel mediastino, non si trovano nel mediastino.
Questa organizzazione vascolare è finalizzata ad assicurare sempre un afflusso di sangue, grazie
all’anastomosi di arterie intercostali anteriori e posteriori.
A ciascun polmone fa capo un insieme di strutture, il peduncolo polmonare, che comprende arteria
polmonare, bronco principale, 2 vene polmonari, vasi linfatici e nervi. L’arco dell’aorta si compie attorno il
peduncolo polmonare di sinistra, mentre l’arteria polmonare di destra, per raggiungere il polmone, passa
dietro la cava superiore e al davanti del peduncolo polmonare di destra.
Trachea:
La trachea si origina nel collo dalla laringe a livello di C6, si continua nel mediastino superiore e a livello di
T4 si biforca nei 2 bronchi. Di conseguenza la trachea si trova solo nel mediastino superiore, mentre nel
mediastino inferiore si trovano i bronchi. La trachea si posiziona al davanti dell’esofago, essendo essa un
derivato embrionale del diverticolo respiratorio che dall’intestino primitivo si sviluppava verso il davanti.
Esofago:
L’esofago ha la forma di un cilindro appiattito in senso anteroposteriore, fa seguito alla laringe e si continua
con lo stomaco. Attraversa tutto il mediastino dorsalmente, si trova a ridosso della colonna vertebrale,
sebbene non sia l’organo più dorsale. Approssimativamente si colloca nella linea di mezzo, benché
frontalmente presenti 2 leggere curve, nel mediastino superiore con convessità verso sinistra (a causa del
rapporto con l’aorta) e nel mediastino inferiore con convessità verso destra. Nel tratto finale l’esofago, poco
prima di attraversare lo iato esofageo, disegna una curva molto accentuata verso sinistra e in avanti perché
deve raggiungere l’addome e continuarsi nello stomaco, che si trova verso sinistra e verso l’avanti (quasi a
ridosso della parete anteriore). Di conseguenza l’esofago si allontana dalla colonna vertebrale.
Laddove esso cambia direzione andando in avanti e a sinistra a livello dello iato esofageo, quindi al confine
con il diaframma, incrocia dal davanti l’aorta a costituire il secondo incrociamento aortoesofageo, tra T6 e
T7. Il primo incrociamento aortoesofageo si ha a circa T3, dietro il manubrio dello sterno.
Fino a circa T4 al davanti dell’esofago si trova la trachea. Tra T5 e T8, vertebre toraciche di Giacomini, al
davanti dell’esofago si trova il cuore. Ma siccome il cuore è orientato in basso, in avanti, e a sinistra, tanto
che il secondo arco cardiaco di destra corrisponde al profilo dell’atrio di destra, la parte del cuore che prende
rapporto con l’esofago è l’atrio di sinistra, che è la parte più dorsale del cuore. In particolare l’esofago
prende contatto con il cuore a livello dello sbocco delle 4 vene polmonari, con l’interposizione del
pericardio.
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Nervi vaghi:
I nervi vaghi sono 2 e rappresentano la 10° coppia di nervi cranici. I nervi cranici, in numero di 12 coppie,
sono nervi che non originano dal midollo spinale, il quale dà invece origine a nervi spinali, ma provengono
dal sistema nervoso intracranico: nascono tutti dal neurocranio. I nervi vaghi raggiungono il mediastino e in
questo tragitto passano obbligatoriamente per il collo.
Essi hanno 2 funzioni: innervare alcuni muscoli e innervare alcuni visceri del torace e dell’addome, in
particolare trachea, bronchi, esofago e cuore nel torace, tubo digerente da stomaco a colon compresi (circa
8-9 m di lunghezza) nell’addome.
I nervi vaghi presentano una perfetta simmetria a livello del collo, che viene persa non appena fuoriescono
dal collo:
- Il nervo vago di destra nel mediastino si associa all’arteria anonima e in seguito, non appena questa si
interrompe verso il basso, tende ad avvicinarsi alla trachea perché il suo obiettivo è raggiungere l’esofago.
- Il nervo vago di sinistra inizialmente si associa all’arteria carotide comune di sinistra, che poi termina
perché deve raggiunge l’arco. Anch’esso ha come obiettivo raggiungere l’esofago, ma trova un
impedimento costituito dall’arco dell’aorta, quindi lo aggira e vi si porta a sinistra, superandolo e
raggiungendo l’esofago.
La simmetria si ricostituisce verso l’esofago, per poi perdersi nuovamente, perché a livello dell’esofago
entrambi nervi vaghi si ramificano e si formano 2 reti nervose che si anastomizzano tra loro.
Nel punto in cui i 2 nervi vaghi raggiungono l’esofago, a circa T4, quello di destra vi si pone soprattutto
dietro, mentre quello di sinistra al davanti, come se a questo livello ruotassero di 90° verso destra. In realtà è
l’esofago che ruota, perché lo stomaco, che in periodo embrionale inizialmente è orientato sul piano
sagittale, durante l’organogenesi ruota di 90° verso destra (a causa del fatto che a destra si forma il fegato,
organo molto grande) e l’esofago con esso, essendovi connesso. Quindi la rotazione dell’esofago è di 90° nel
punto in cui termina, a livello dello stomaco, di 0° nel punto in cui comincia e di angolazioni tra 0° e 90° in
mezzo. Durante l’organogenesi i 2 nervi vaghi affiancano l’esofago, ma quando si conclude la rotazione
dello stomaco verso la parte bassa dello stomaco il vago di destra diventa posteriore e il vago di sinistra
anteriore: i vaghi non ruotano, ma seguono la rotazione dell’esofago essendovi solidali.
Le reti nervose e vascolari sono chiamati plessi, quindi le reti nervose dei nervi vaghi costituiscono il plesso
vagale posteriore (che origina dal vago di destra) e il plesso vagale anteriore (che origina dal vago di
sinistra).
I nervi vaghi passano dal torace all’addome sfruttando lo iato esofageo.
Esiste un secondo elemento di asimmetria dei nervi vaghi. Il nervo vago di sinistra, compagno dell’arteria
carotide comune di sinistra, incrocia a sinistra l’arco aortico. Appena finisce di incrociare l’arco dell’aorta,
dà origine al nervo laringeo inferiore di sinistra o nervo ricorrente vagale di sinistra. L’aggettivo
“ricorrente” indica un nervo o un vaso che ha un tragitto opposto rispetto al nervo o vaso da cui è nato. Il
nervo vago è fatto in gran parte da fibre motrici, che vanno dal sistema nervoso alla periferia, quindi la
direzione dell’impulso della componente motrice di questo nervo è dall’alto verso il basso. Tuttavia il nervo
laringeo inferiore di sinistra, ramo del vago si sinistra, torna su, quindi è ricorrente. Questo nervo raggiunge
la laringe nella sua metà di sinistra, è detto inferiore perché esiste anche un nervo laringeo superiore (sempre
ramo del vago) ed è il principale nervo da cui dipende l’innervazione dei muscoli intrinseci della laringe (li
innerva tutti tranne uno), muscoli che permettono di pronunciare le vocali. Quindi a sinistra il nervo laringeo
inferiore di sinistra nasce dal nervo vago, laddove questo ha finito di incrociare l’arco dell’aorta, circa
all’altezza dell’angolo sternale di Luiss, e questo significa che in parte è mediastinico (in parte perché va
verso l’alto e raggiunge la laringe, al di sopra del mediastino).
Il nervo laringeo inferiore di destra invece non si trova nel mediastino: nasce nel punto in cui il nervo vago
di destra, seguendo l’arteria anonima, entra nel mediastino, ma siccome anch’esso è ricorrente fa un arco
attorno al punto in cui nasce l’arteria succlavia di destra (intorno alla biforcazione del tronco anonimo) e
risale verso l’alto.
Il nervo laringeo inferiore di sinistra si inserisce in uno spazio compreso tra l’arco dell’aorta e il peduncolo
polmonare sinistro, a livello del bronco, poi risale e si pone nell’angolo diedro che nasce dalla
giustapposizione di trachea, davanti, ed esofago, dietro. Questo rapporto è importane perché a questo livello
sono presenti numerosi linfonodi che possono comprimere il nervo in caso di ingrossamento per metastasi o
linfomi, cosa che può accadere anche a causa di una massa occupante spazio del bronco di sinistra, con
conseguenze a livello della capacità di parlare (la voce diventa roca, gracchiante) in quanto è compromesso il
corretto funzionamento della laringe.
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M.C.A.
Vene Brachiocefaliche (o Anonime):
La vena cava superiore nasce dalla confluenza di due grossi vasi venosi, le vene anonime o
brachiocefaliche, di destra e di sinistra. Quella destra è più corta rispetto a quella di sinistra ed è quasi
coassiale alla cava superiore, quasi perpendicolare al piano terra; quella di sinistra provenendo da sinistra,
posto che la cava superiore sta a destra, deve percorrere un tragitto più lungo, quindi è più lunga e obliqua.
Essa incrocia dal davanti l’origine dei tre vasi epiaortici, decorre quasi al di sopra dell’arco dell’aorta.
Il tronco anonimo e la carotide comune di sinistra sono disposti a formare una “V”, al cui interno si
individuano i 3 vasi epiaortici, che non si trovano sullo stesso piano perché nascono dall’arco dell’aorta, il
quale si sposta verso dietro (l’anonima è la più ventrale), e la trachea, è ancora più dorsale.
Il torace visto frontalmente e dal davanti verso il dietro mostra le vene brachiocefaliche che si uniscono a
formare la cava superiore, l’origine dei 3 vasi epiaortici, la trachea e l’esofago.
Nervi frenici:
I 2 nervi frenici innervano il diaframma e sono composti da fibre motrici, che portano ordini di movimento
ciascuno al corrispondente emidiaframma.
Si originano dal midollo spinale all’altezza di C3-C4-C5 (dove “C” non indica la vertebra toracica) nel collo,
hanno un tragitto iniziale verticale, poi entrano nel torace. Sono disposti su un piano più ventrale e più
laterale rispetto ai nervi vaghi: nell’andare verso il basso superano l’arco dell’aorta a sinistra e passano
davanti al peduncolo polmonare, infine si pongono dietro al cuore.
Il nervo frenico di sinistra passa al davanti del peduncolo polmonare, poi si pone tra il cuore (ventricolo
sinistro, margine ottuso) e la faccia mediale (o mediastinica) del polmone di sinistra, quindi si trova nel
mediastino posteriore.
Il nervo frenico di destra inizialmente è compagno della vena cava superiore, poi scendendo scavalca
anteriormente il peduncolo polmonare e si pone tra l’atrio di destra e la faccia mediale (o mediastinica) del
polmone di destra, quindi anch’esso si trova nel mediastino posteriore.
I nervi frenici sono molto lunghi, quindi c’è un’alta probabilità statistica che vengano lesi. Essi prendono
rapporto con il pericardio fibroso e con le pleure, strutture sierose che ricoprono i polmoni, quindi in soggetti
con patologie delle pleure, come pleuriti o mesoteliomi, in cui le pleure si ispessiscono, il nervo frenico può
irritarsi o essere compresso. Nel caso di irritazione del nervo frenico si hanno contrazioni fasiche
dell’emidiaframma corrispondente, improvvise, che si manifestano con singhiozzo prolungato. Nel caso di
compressione del nervo frenico, invece, non arriva l’ordine di contrazione all’emidiaframma e si ha dispnea
o insufficienza respiratoria nei casi più gravi. Di queste condizioni patologiche è responsabile il rapporto tra i
nervi frenici e le pleure, che è quindi molto importante.
Catene dei gangli simpatici:
Le catene dei gangli simpatici sono 2 elementi che fanno parte prima del mediastino superiore e poi di quello
inferiore posteriore, molto vicino alla colonna vertebrale a destra e a sinistra. Superiormente annessi ai gangli
si trovano nervi che fanno parte dei plessi cardiaco e tracheobronchiale, mentre inferiormente più in basso,
tra T6 e T12, tramite rami hanno a che fare con le 3 coppie di nervi splancnici, di destra e di sinistra, nervi
simpatici che innervano organi sottodiaframmatici. Queste catene si continuano cranialmente nel collo e
caudalmente nell’addome. Nel collo si trovano fino a circa C4 e sono composte da 3 gangli, detti gangli
cervicali: inferiore, medio e superiore, a destra e a sinistra. A volte succede che il ganglio cervicale
inferiore è fuso con il primo toracico, si parla di ganglio stellato.
Il sistema nervoso si divide in somatico e viscerale (o autonomo o vegetativo). Il viscerale si divide a sua
volta in simpatico e parasimpatico: il primo ha la funzione di eccitare, il secondo di inibire (anche se non
sempre, dipende dal viscere). I gangli sono elementi del sistema nervoso simpatico periferico e si trovano
soltanto nel collo, nel torace (mediastino posteriore) e nell’addome, non nella pelvi. I 2 nervi vaghi sono
invece, per una loro componente, elementi del parasimpatico.
All’intorno dell’esofago, dei bronchi, dell’aorta e dell’arteria polmonare si trovano reticoli di fibre nervose,
plessi, i cui elementi sono composti da fibre sia simpatiche sia parasimpatiche. Al confine tra mediastino
superiore e inferiore si trova il plesso cardiaco, molto grande, situato sul lato sinistro dell’arco dell’aorta
sopra alla biforcazione dell’arteria polmonare e al davanti della biforcazione della trachea. Questo dà poi
origine a sottoplessi, con cui gli elementi simpatici e parasimpatici si distribuiscono a tutti gli organi.
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M.C.A.
A livello cardiaco il simpatico si distribuisce sia al sistema di conduzione, sia ai singoli cardiomiociti,
esercitando 4 effetti:
- effetto inòtropo positivo: i cardiomiociti vengono stimolati a contrarsi e aumenta la forza di contrazione
di atri e ventricoli, quindi aumenta la quantità di sangue che esce dai ventricoli e aumenta la pressione
sistolica;
- effetto cronòtropo positivo: viene stimolato il sistema di conduzione, quindi aumenta la frequenza di
contrazione;
- effetto batmòtropo positivo: aumenta l’eccitabilità del sistema di conduzione;
- effetto dromòtropo positivo: aumenta la velocità di conduzione dell’impulso a livello del sistema di
conduzione: il tempo che passa tra l’inizio dell’attività della cellula del pace maker e l’arrivo dell’impulso
ai primi cardiomiociti che ricevono l’impulso si accorcia.
Mentre l’effetto inòtropo, agisce a livello del miocardio di lavoro, gli altri agiscono a livello del sistema di
conduzione, il miocardio specifico.
Il parasimaptico a livello cardiaco, dove è rappresentato dai nervi vaghi, esercita gli stessi effetti del
simpatico negativi, tutti tranne l’inòtropo: effetto cronòtropo negativo, batmòtropo negativo e
dromòtropo negativo, ma non inòtropo negativo, quindi agisce negativamente soltanto a livello del
miocardio specifico. Questa condizione è importante perché fa sì che quando si eccita il vago si ha una
diminuzione della frequenza cardiaca, della velocità di conduzione e dell’eccitabilità, ma non della forza di
contrazione del cuore, altrimenti si genererebbe insufficienza tissutale periferica. Questo è dovuto al fatto che
mentre i cardiomiociti ricevono fibre nervose simpatiche, essi non ricevono fibre nervose parasimpatiche (in
realtà qualche fibra parasimpatica raggiunge i cardiomiociti, ma solo in uno sparuto gruppo di cardiomiociti
atriali di destra, quindi a questo livello si verifica un effetto inotròpo negativo, che tuttavia non ha effetti
nell’economia generale della funzione cardiaca), perché i nervi vaghi agiscono soltanto a livello del sistema
di conduzione.
Conseguenza di questa organizzazione è che i soggetti che sono stati sottoposti a trapianto cardiaco, i quali
non hanno più innervazione a livello cardiaco, non ricevono informazione nervosa ma soltanto ormonale, che
impiega un tempo maggiore per giungere a destinazione.
Il plesso cardiaco per la componente parasimpatica è composto da rami del nervo vago, per la componente
simpatica dai 3 gangli cervicali: anche se il cuore si trova nella cavità toracica, in particolare nel mediastino
inferiore intermedio, l’innervazione simpatica proviene da gangli cervicali (allo stesso modo il diaframma
riceve il nervo frenico che ha radici in C3, C4 e C5). Questo perché durante il periodo embrionale il cuore si
forma inizialmente nella regione del collo, così come l’apparato respiratorio (inizialmente è un diverticolo
che si origina dal primitivo tubo digerente in regione cervicale); poi questi organi, soprattutto il polmone, si
ingrandiscono, quindi scendono nel collo per mancanza di spazio e andando giù si trascinano l’innervazione
simpatica e parasimpatica. Allo stesso modo il diaframma, che inizialmente è setto trasverso, si trova
inizialmente in alto, poi scende in seguito alla spinta dei polmoni in crescita.
Nervi splancnici:
I nervi splancnici sono 3 a destra e 3 a sinistra, si trovano nel mediastino inferiore e posteriore e prendono il
nome di grande, piccolo e minimo. Nel mediastino e nel torace non innervano nulla, perché sono destinati a
scendere nell’addome per regolare l’attività del plesso celiaco, grande plesso sottodiaframmatico che a sua
volta regola attività di tubo digerente sottodiaframmatico, rene e surrene.
I 3 nervi splancnici arrivano nell’addome passando tra il pilastro mediale e il pilastro intermedio
del diaframma, sia a destra sia a sinistra.
Il nervo splancnico minimo ha a che fare con la radice spinale T12, il piccolo con T11 e T10, il grande con
T9, T8, T6 e parzialmente T5.
Dotto toracico:
Il dotto toracico si trova sia nel mediastino inferiore e posteriore sia nel mediastino superiore. Rappresenta la
struttura più dorsale del torace e del mediastino, si trova addossato alla colonna vertebrale e, dove c’è
esofago, si posiziona dorsalmente ad esso.
Il dotto toracico è il vaso linfatico più grande del corpo, origina nell’addome dietro l’aorta addominale per
confluenza di radici, vasi linfatici minori che drenano la linfa da tutto il distretto sottodiaframmatico. In
alcuni soggetti le radici formano una specie di cisterna linfatica il cui emissario è il dotto toracico, la
cisterna chyli.
Il dotto toracico si associa all’aorta, tanto che per passare da addome a torace sfrutta l’orificio aortico.
Salendo verso l’alto segue l’aorta, che diventa arco; poi continua a salire e si spinge a sinistra associandosi
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all’arteria succlavia di sinistra. Infine si spinge in avanti, scavalca l’apice del polmone di sinistra passandovi
a lato e si getta nella vena succlavia di sinistra. La vena succlavia di sinistra, insieme alla vena giugulare,
forma la vena brachiocefalica, quindi il contenuto del dotto toracico entra nel circolo sanguigno. In caso di
lesione del dotto toracico, essendo una struttura mediastinica, la linfa si accumula nel mediastino posteriore e
comprime i polmoni, causando disturbi respiratori.
Mediastino superiore (in sintesi):
Il mediastino superiore si localizza per definizione dietro al manubrio dello sterno. L’elemento più ventrale è
il tronco dell’arteria polmonare, che va in alto, in avanti e a sinistra per qualche cm, poi scompare perché
sotto l’arco aortico si divide a “T”. Da sinistra verso destra si incontra l’arteria polmonare, l’aorta ascendente
e la vena cava superiore, che tuttavia non si trovano sullo stesso piano: il tronco polmonare è più a sinistra e
più avanti, più a destra e più indietro l’aorta ascendente, ancora più a destra e ancora più dietro la cava
superiore. In un piano superiore si trovano le due vene brachiocefaliche, asimmetriche, in particolare quella
di sinistra incrocia dal davanti i tre vasi epiaortici, che quindi si trovano su un piano posteriore.
Posteriormente si trova la trachea, all’interno della “V” data dai primi due vasi epiaortici (arteria anonima e
carotide comune di sinistra); non si vede l’esofago, che sta dietro, perché è coperto dalla trachea, e
posteriormente all’esofago si trova il penultimo tratto del dotto toracico.
I nervi del mediastino sono 5, 4 a coppie (nervi vaghi e nervi frenici) e 1 spaiato (il nervo ricorrente vagale di
sinistra).
I nervi frenici sono i più ventrali e i più laterali, quello di destra si accompagna alla vena brachicefalia di
destra e scendendo alla vena cava superiore, quello di sinistra si accompagna all’arteria succlavia di sinistra e
passa a sinistra dell’arco dell’aorta, poi entrambi i nervi frenici passano al davanti del peduncolo polmonare
corrispondente.
I nervi vaghi si trovano su un piano più profondo rispetto ai nervi frenici, quello di destra nel mediastino
superiore è associato all’arteria anonima, quello di sinistra all’arteria carotide comune di sinistra.
Il nervo ricorrente vagale di sinistra è l’unico mediastinico, perché quello di destra non lo è. Esso si stacca
dal vago appena questo ha finito di incrociare l’arco dell’aorta, poi risale e si approfonda nel collo,
ponendosi nell’angolo solido che si forma dalla giustapposizione di trachea ed esofago.
Sistema dell’azygos:
“Azygos” deriva da una parola greca che significa “asimmetrico”. Visto dal davanti il sistema dell’azygos
sembra una strana “K”.
Questo sistema è fatto da 4 componenti principali (in ordine di grandezza): vena azygos, vena emiazygos,
vena emiazygos accessoria e vena intercostale suprema:
- Vena azygos: Sul lato destro dell’esofago e su un piano più dorsale (le coste cominciano con la testa, si
continuano con il collo andando lateralmente e indietro e si continuano con l’angolo, a livello del quale
c’è un punto di flesso, quindi nell’insieme le coste formano una doccia paravertebrale e l’apice dell’arco
è dorsale rispetto ai corpi vertebrali) si trova un vaso venoso che sale (lo si capisce dal fatto che si
accresce di dimensioni verso l’alto), la vena azygos, che si trova nel mediastino inferiore e posteriore.
Questa salendo arriva all’altezza di T4, piega in avanti scavalcando il peduncolo polmonare di destra e si
getta nella vena cava superiore: il sangue che circola nella vena azygos dal basso verso l’alto è destinato
alla vena cava superiore. Durante il suo tragitto ascendente l’azygos riceve le ultime 6 (più o meno, si può
arrivare fino a 8) vene intercostali di destra. Quindi il sangue refluo dalla parete costale finisce in parte in
vene intercostali anteriori, tributarie della vena mammaria interna (o toracica interna), compagna
dell’arteria, e in parte va indietro e, a destra, si getta nell’azygos.
- Vena intercostale suprema: Anche le prime 4 (o 5) vene intercostali di destra devono finire nella vena
cava superiore. Quindi a destra queste si riuniscono a formare un vaso che scende, la vena intercostale
suprema, che finisce nella vena azygos prima che questa scavalchi il peduncolo polmonare di destra (T4).
- Vena emiazygos: A sinistra le ultime 5 (o 6) vene intercostali di sinistra convergono a formare la vena
emiazygos, che si getta nell’azygos passando dietro all’aorta discendente toracica e dietro al dotto toracico
all’altezza di circa T7-T8.
- Vena emiazygos accessoria: L’analogo della vena intercostale suprema a sinistra è la vena emiazygos
accessoria, che raccoglie le prime 6 vene intercostali posteriori e si getta anch'essa nell’azygos un paio di
corpi vertebrali più in alto rispetto alla emiazygos.
A destra si trovano l’azygos e l’intercostale suprema, a sinistra si trovano le due emiazygos.
Con questo sistema gran parte del sangue refluo dalla parete posteriore e laterale del torace, a destra e a
sinistra, finisce nella vena azygos e, tramite questa, nella vena cava superiore.
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Genesi delle vene del sistema dell’azygos:
La vena intercostale suprema nasce dalla confluenza delle prime 4 vene intercostali posteriori di destra.
L’emiazygos accessoria dalla convergenza delle prime 5-6 vene intercostali posteriori di sinistra.
Azygos e emiazygos si formano nell’addome. A livello lombare, a destra e a sinistra, ci sono 4 arterie
lombari e 4 vene lombari compagne, simmetriche. Le vene lombari sono tutte tributarie della vena cava
inferiore, quindi il sangue refluo dalla parete addominale va a finire nella vena cava inferiore. Tuttavia le
vene lombari sono anastomizzate tra loro, cioè sono unite da un vaso, che decorre perpendicolarmente ad
esse e al piano terra, a destra e a sinistra. Arrivato alla prima vena lombare il vaso anastomotico si continua
verso l’alto, a destra come a sinistra, e rappresenta a destra la radice della vena azygos e a sinistra la radice
della vena emiazygos. Questo vaso è la vena lombare ascendente.
Il sangue refluo dalla parete addominale può andare o alla cava inferiore o nella vena lombare ascendente,
andando quindi a finire nel sistema dell’azygos a destra e dell’emiazygos a sinistra. Il sangue va nell’uno o
nell’altro vaso in base alla fase respiratoria: in fase di inspirazione, specialmente se profonda, in cui la
pressione endotoracica diminuisce, il sangue tende ad andare nella vena lombare ascendente, quindi
nell’azygos e nell’emiazygos; in fase di espirazione, specialmente se forzata, in cui la pressione endotoracica
aumenta, la pressione si esercita su tutti gli elementi del torace, specialmente quelli a parete debole, come il
sistema dell’azygos, quindi il sangue finisce nella vena cava inferiore.
La vena lombare ascendente verso il basso si continua in un vaso detto ramo lombare della vena
ileolombare, il quale va a finire in una vena, la vena iliaca interna, compagna dell’arteria iliaca interna,
vasi che si occupano dell’irrorazione degli organi della pelvi e del perineo. La vena iliaca interna si unisce
alla vena iliaca esterna, a destra e a sinistra, e insieme formano le 2 vene iliache comuni, di destra e di
sinistra, che sono le radici della vena cava inferiore. Quindi il sangue della vena iliaca interna alla fine
finisce nella vena cava inferiore.
Tutto il sistema dell’azygos è un circolo venoso anastomotico tra il circolo della vena cava superiore e il
circolo della vena cava inferiore: vena cava superiore e inferiore sono in comunicazione tramite il sistema
dell’azygos.
Meccanismo di bypass della vena cava superiore:
L’azygos sbocca nella vena cava superiore all’altezza di T4, al confine tra mediastino superiore e inferiore, in
una regione molto affollata e piena di linfonodi, in cui è possibile che masse occupanti spazio generino
compressione della vana cava superiore, con conseguente riduzione del flusso del sangue dai distretti
superiori verso il cuore, quindi difficoltà di circolazione del sangue perifericamente: a livello del collo, delle
spalle e dell’arto superiore si verifica edema (detto “a mantellina”), si ha turgore delle vene del collo, le
giugulari esterne, cianosi a livello delle labbra (il rallentamento del flusso del sangue riduce l’eliminazione di
CO2), cefalea (il sangue ristagna e distende le meningi), insufficienza respiratoria (nelle forme gravi). Questi
sintomi configurano la patologia detta sindrome mediastinica. Tuttavia, grazie all’anastomosi tra il sistema
della cava superiore e il sistema della cava inferiore fornito dal sistema dell’azygos, se il blocco della cava
superiore è a valle dello sbocco dell’azygos il sangue prende in senso inverso la via del sistema dell’azygos e
va nella cava inferiore, processo che nell’immediato è un vantaggio, ma a lungo andare ritarda l’insorgenza
di sintomi.
Esiste un’ulteriore conseguenza di quest’organizzazione. Dall’aorta toracica si originano le ultime 10 coppie
di arterie intercostali posteriori, che appena emergono danno un ramo, uno a destra e una a sinistra, che entra
nel foro di coniugazione vertebra per vertebra per andare ad irrorare il contenuto del canale vertebrale, il
midollo spinale. C’è un ritorno venoso che si occupa di portare il sangue refluo: all’interno del canale
vertebrale si formano dei plessi venosi vertebrali che fanno capo a vene compagne che sono tributarie della
rispettiva vena intercostale e mandano sangue refluo dal midollo spianale al sistema dell’azygos. Questo
significa che ogni volta che si verifica ipertensione nel sistema dell’azygos, ad esempio dovuta ad un blocco
della cava superiore a valle dello sbocco dell’azygos, quindi con funzionamento del sistema di bypass e
maggior afflusso di sangue nel sistema dell’azygos, il deflusso del sangue venoso in uscita dal midollo
spinale è rallentato, con potenziale sofferenza di quest’organo.
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APPARATO RESPIRATORIO
Struttura e generalità:
La prima struttura che si forma dell’apparato respiratorio è la laringe (o il laringe), poi si accresce verso il
basso e si forma la trachea, che si inizia nel collo all’altezza di C6 e si continua nel mediastino superiore al
davanti dell’esofago fino a T4.
Arrivata a T4 la trachea si divide in due bronchi principali, di destra e di sinistra, che quindi sono organi
mediastinici inferiori e posteriori. I bronchi non sono simmetrici: il bronco di sinistra è più orizzontale di
quello di destra a causa dell’orientamento del cuore a in basso, in avanti e a sinistra (il cuore si sviluppa
prima nel tempo, quindi è il bronco a doversi adattare).
Ciascun bronco principale si ramifica in 10 generazioni bronchiali all’interno del rispettivo polmone. Alla
periferia di queste ramificazioni si trovano gli alveoli polmonari, strutture essenziali ai fini dell’ematosi:
avviene quindi soltanto a questo livello. Questa organizzazione è molto simile a quella di una ghiandola
esocrina e, sebbene non sia una ghiandola funzionalmente, ci sono elementi della parete dei bronchi e degli
alveoli che sono cellule epiteliali, con le loro caratteristiche tipiche: si rinnovano con elevata frequenza, le
cellule morte devono essere rimosse, sono presenti macrofagi, ci sono cellule staminali e c’è una maggiore
probabilità statistica di cancro.
Dal davanti i due polmoni appaiono asimmetrici, mentre dal dietro sono simmetrici.
Proiezione dei polmoni e delle pleure sulla parete anteriore
del torace - limite anteriore del mediastino:
Il confine anteriore del mediastino è definito da due margini, sinistro e destro, asimmetrici tra loro
(disegnano una clessidra la cui parte inferiore è molto più ampia della parte superiore e che non presenta
simmetria destra e sinistra).
Sulla parete anteriore del torace si individuano le proiezioni del profilo mediale dei polmoni e delle pleure,
strutture formate da tonaca sierosa, molto simile al pericardio sieroso, che avvolgono i polmoni con un
foglietto viscerale e parietale, l’uno continuazione dell’altro. In particolare a livello dello sterno si
individuano 4 linee, che rappresentano i profili di pleure e polmoni (sebbene a sinistra i profili di pleura e
polmone sono coincidenti nella prima parte del loro tragitto).
Nell’adulto le linee di sinistra e quelle di destra (quindi i 2 polmoni) sul versante anteriore tendono ad
avvicinarsi l’una all’altra. Infatti se si apre un torace i polmoni nascondono gran parte del suo contenuto.
Essendo il mediastino quella regione mediana del torace che non è occupata dai polmoni, il limite anteriore
del mediastino è rappresentato dalle proiezioni sulla parete anteriore delle pleure e dei polmoni, e in
particolare delle pleure. Quindi il limite anteriore del mediastino è uno spazio piccolo posto dietro allo
sterno, che però non è costante: tra le 2 proiezioni delle pleure, dall’angolo sternale di Luiss fino a circa la 4°
articolazione condrocostale, è sottile; sopra, dietro il manubrio dello sterno, dall’angolo sternale fino
all’incisura giugulare dello sterno, è svasato; sotto si allarga in maniera asimmetrica a destra e a sinistra.
L’asimmetria è dovuta al fatto che mentre il margine anteriore di destra comincia dall’alto con l’apice del
polmone, devia in basso e verso sinistra, arriva all’angolo sternale, scende perpendicolarmente fino
all’altezza della 6° articolazione condrosternale e poi va in basso e verso destra, a sinistra il margine
anteriore di sinistra è simmetrico fino all’angolo sternale, ma devia in basso e verso sinistra all’altezza della
4° articolazione condrosternale di sinistra (quindi più in alto rispetto al margine di destra). Questo è dato dal
fatto che il polmone di sinistra è più piccolo del polmone di destra, perché deve accogliere nella sua faccia
mediastinica una parte del cuore, che è orientato in basso, in avanti e a sinistra.
Nelle pericarditi o nel tamponamento cardiaco, in cui si accumula nel pericardio rispettivamente liquido
infiammatorio o sangue, può essere necessario aspirare il liquido con una siringa. L’ago va inserito inserito in
un punto in cui non ci sia rischio di ledere né la pleura né il polmone, che si individua lungo la linea
marginosternale di sinistra, all’altezza del 5° spazio intercostale di sinistra. Per questo è importante
conoscere le proiezioni delle pleure sulla parete anteriore toracica.
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Polmoni:
Nella descrizione dei polmoni si prende come riferimento il polmone di destra, che è quello paradigmatico,
mentre quello di sinistra è considerato essere una variazione.
Il polmone ha la forma di un cono leggermente appiattito in senso anteroposteriore, con un apice arrotondato
superiore che guarda in alto e una base concava che guarda in basso (perché si adatta alla convessità
dell’emidiaframma sul quale poggia), al quale è stato asportato circa 1/4 mediale. Questo ha come
conseguenza che, nonostante la base rimanga concava, lungo il perimetro inferiore del polmone sono
presenti numerosi elementi di asimmetria.
L’apice del polmone rappresenta tutta quella parte di polmone situata sopra il piano immaginario della 2°
costa.
Il polmone ha consistenza spugnosa: è comprimibile e se lo si spreme esce dell’aria.
Il polmone del neonato ha colore roseo, quello dell’adulto vira verso il grigio con il progredire dell’età. Ciò è
dovuto al fatto che il polmone filtra per molto tempo aria non pura, contenente particolato, che i macrofagi
individuano e fagocitano. Infatti può accadere che i macrofagi, al momento della loro morte, si trovino
all’interno del tessuto connettivo dei polmoni. Accade quindi che il macrofago morto viene eliminato da altri
macrofagi e da enzimi di degradazione, ma la particella di particolato che il macrofago trasportava rimane a
livello del connettivo, non potendo essere eliminata. L’accumulo di questo particolato nel connettivo negli
anni fa virare il colore del polmone da roseo a grigio.
Sulla superficie esterna del polmone, a livello di ogni faccia, si nota una specie di mosaico, formato da
tessere di forma poligonale separate da strutture connettivali (proprio a livello di questo connettivo si
deposita il particolato dei macrofagi morti) che rappresentano la base dei lobuli polmonari più periferici
(vedi avanti).
Il polmone di destra visto dal davanti è solcato da 2 scissure (scissura in anatomia significa “solco
profondo”, “piano naturale di taglio”) che lo solcano anteriormente e lateralmente e lo dividono in 3 lobi:
- Lobo superiore
- Lobo medio
- Lobo inferiore
Il polmone presenta 3 facce:
- Faccia diaframmatica: faccia inferiore, la base, che poggia sul diaframma e si adatta perfettamente ad
esso;
- Faccia mediastinica: faccia che guarda verso il mediastino, tanto che ne definisce il limite;
- Faccia costovertebrale: tutto il resto, tutto ciò che si vede guardando dal davanti, lateralmente e
posteriormente, convessa in senso trasversale, cioè dal davanti verso il dietro e viceversa, dall’alto in
basso, e lateralmente: è convessa in tutti i sensi, infatti si adatta perfettamente alla concavità della gabbia
toracica, dallo sterno alla colonna toracica.
Se si guarda un polmone dal davanti si capisce che si può passare dalla faccia costovertebrale alla faccia
mediastinica e dalla faccia mediastinica a quella posteriore senza incontrare ostacoli.
Le facce sono tra loro separate da 3 margini:
- Margine anteriore: molto sottile, segna il passaggio dalla faccia costovertebrale alla faccia mediastinica
dal davanti;
- Margine posteriore: arrotondato perché va a occupare la doccia paravertebrale, a destra e a sinistra, segna
il passaggio dalla faccia costovertebrale alla faccia mediastinicha dal dietro;
- Margine inferiore: rappresenta il perimetro della faccia diaframmatica.
Il margine anteriore, a destra, è lungo quanto la distanza tra l’incisura giugulare dello sterno e la fine del
corpo dello sterno (non oltre perché inferiormente è presente il diaframma), 13-14 cm circa.
Il margine posteriore va da T1 fino a T10, quindi è lungo 22-23 cm circa: il margine posteriore è più lungo
del margine anteriore. Questo determina che il polmone è più corto davanti e più lungo dietro (simile ad un
frac). Quindi la base del polmone è concava, ma in maniera asimmetrica: si estende molto più sul dietro di
quanto non si estenda sul davanti. Infatti il segmento anteriore del margine inferiore si trova a livello della 6°
costa, quello posteriore si trova a livello di T10, e siccome posteriormente il segmento del margine inferiore
è parallelo al piano terra questa linea incrocia lateralmente la gabbia toracica a livello dell’8° costa (non della
10°, perché il piano che sottende ad ogni singola costa è inclinato progressivamente in basso e in avanti,
quindi la costa che si trova sul piano parallelo al piano terra passante per T10 è l’8°).
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Semeiotica del polmone:
Questa organizzazione è importante per la semeiotica (studio dei segni e dei sintomi). Infatti attraverso la
pratica della percussione il medico deve sentire un suono grave (simile al suono di tamburo) dall’apice del
polmone fino alla linea orizzontale che va da T10 alla linea emiascellare (linea che dal punto medio
dell’ascella va verso il basso perpendicolarmente e rappresenta il profilo laterale del polmone) all’altezza
dell’8° costa. Se il medico non sente suono di tamburo ma sente in qualche punto un “suono di coscia”
significa che a quel livello il tessuto non è più aereo, ma può essere una massa occupante spazio di natura
cancerosa, una cisti, un residuo di un processo infiammatorio, un accumulo di liquido pleurico all’interno del
sacco pleurico, ecc..
Inoltre, considerato che il polmone durante la respirazione si muove a fisarmonica, a mantice, il medico può
analizzare se l’espansione dei polmoni avviene normalmente oppure no. Quindi il paziente viene fatto
respirare a bocca aperta mentre il medico continua a percuotere, in particolare a livello della base del
polmone nel momento in cui il paziente si avvicina alla fine dell’inspirazione profonda (a volte viene chiesto
al paziente di trattenere il fiato), perché, essendo la base del polmone solidale all’emidiaframma
corrispondente, durante l’inspirazione il polmone viene tirato verso il basso e, mentre nella respirazione
tranquilla non si sente suono di tamburo al di sotto di quella linea, nella fase finale di un’inspirazione
profonda si deve sentire suono di tamburo per altri 2-3 cm al di sotto.
Il medico inoltre, tramite il fonendoscopio, ausculta i polmoni del paziente, e in particolare il rumore che
produce il passaggio dell’aria: se si sente un suono scoppiettante, segno di un processo infiammatorio, si
tratta probabilmente broncopolmonite, mentre se non si sente alcun rumore e il punto di auscultazione
coincide con il punto in cui tramite la percussione si sente suono di coscia si tratta probabilmente di
polmonite, perché l’infiammazione è così abbondante che lo spazio aereo è ridotto.
Pleure:
Il limite inferiore del sacco pleurico si trova più in basso rispetto al limite del polmone. Il sacco pleurico,
simile al pericardio sieroso, è formato dal ripiegamento di un foglietto cucito lungo i bordi, con una cavità
virtuale e applicato al polmone partendo dal centro geometrico della faccia mediastinica verso tutte le
direzioni. Quindi la superficie del polmone è coperta da un doppio foglietto, uno viscerale e uno parietale.
Come il pericardio sieroso serve a rendere il cuore solidale con il pericardio fibroso, a sua volta solidale con
elementi parietali attraverso i legamenti pericardici, le pleure servono a rendere il polmone solidale con gli
elementi parietali circostanti: il muscolo diaframma e la parete costale (l’emigabbia toracica), in maniera tale
che ogni volta che si aumentano i diametri del torace attraverso l’azione di muscoli e la parete toracica si
allontana dall’asse centrale in tutte le direzioni, questa trascina il foglietto parietale della pleura, che trascina
il foglietto viscerale, che trascina la superficie della faccia diaframmatica e costovertebrale del polmone.
Tuttavia, mentre il foglietto viscerale della pleura si adatta a tutta la superficie del polmone, a tutte e 3 le
facce, rivestendo anche le scissure, il foglietto parietale è incollato agli elementi parietali: la faccia interna
della gabbia toracica e la faccia superiore del diaframma.
Il diaframma si inserisce all’apice inferiore dell’arcata condrocostale, all’apice della 11° costa, all’apice della
12° costa e agli archi tendinei, che lo fanno arrivare a circa L2. Quindi il foglietto parietale, seguendo la
convessità del diaframma, finisce lungo una linea più caudale rispetto alla linea che segna la fine del
polmone.
Posteriormente e sul lato c’è uno spazio tra il diaframma, in basso, e la parete toracica, dietro e sul lato, a
sezione triangolare, il seno costodiaframmatico della pleura o seno costopleurico, destinato ad accogliere
parte della base del polmone alla fine di un’inspirazione profonda, in seguito all’appiattimento del muscolo
diaframma che trascina verso il basso la base del polmone. Nella respirazione tranquilla il seno
costodiaframmatico è vuoto, c’è soltanto la pleura parietale. Si tratta quindi di uno spazio di riserva che
permette una maggiore espansione del polmone al momento di una maggiore necessità di scambi gassosi.
Polmone di destra:
E’ il polmone paradigmatico. Esso presenta 2 scissure, piani naturali di taglio:
- Scissura principale o obliqua: insiste su un piano inclinato dall’alto in basso e da dietro in avanti, che si
diparte dal margine posteriore del polmone di destra all’altezza di T3 e termina a livello della 6°
cartilagine costale, incrociando la linea emiascellare all’altezza della 5° costa;
- Scissura secondaria o orizzontale: è detta orizzontale in maniera impropria, perché non è parallela al
piano terra, ma è parallela alla 4° costa (e nemmeno per tutto il suo tragitto). Essa si diparte dalla scissura
principale all’altezza di T4, poi procede in avanti e leggermente in basso parallelamente al piano della 4°
costa.
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Le 2 scissure dividono il polmone in 3 lobi:
- Lobo superiore: tutto ciò che del polmone di destra si trova sopra il piano della scissura secondaria, ha
forma di cono tronco con apice arrotondato (che coincide con l’apice del polmone) e la base che coincide
con il piano della scissura secondaria
- Lobo inferiore: tutto ciò che del polmone si trova sotto il piano della scissura principale, ha forma di
cuneo con la base che coincide con la base del polmone e che si restringe andando dal davanti verso l’alto
e indietro.
- Lobo medio: tutto ciò che si trova tra le 2 scissure, ha forma di cuneo con la parte espansa tra la 4° e la 6°
cartilagine costale e che si restringe andando indietro.
Il piano della scissura principale termina a circa la 6° cartilagine costale, ma incrocia il margine inferiore sul
davanti, quindi questa parte del margine inferiore appartiene al lobo medio, non al lobo inferiore.
Queste informazioni sono importanti per l’esame obiettivo del paziente, in cui il medico analizza la
ventilazione dei 3 lobi tramite auscultazione e percussione: mentre per i lobi superiore ed inferiore il medico
deve porsi posteriormente (in particolare sopra T3 per il lobo superiore e sotto per il lobo inferiore), per il
lobo medio deve porsi anteriormente (in particolare tra la 4° e la 6° costa).
Polmone di sinistra:
Posteriormente è uguale al polmone di destra. Esso, tuttavia, presenta 3 differenze rispetto al polmone di
destra:
1) ha un’unica scissura, detta scissura principale, simmetrica alla scissura principale del polmone di
destra, quindi ci sono soltanto 2 lobi;
2) il margine anteriore è simmetrico a quello di destra fino a circa T4 (in realtà fino alla 4° cartilagine
costale), mentre al di sotto di questo punto devia in basso e lateralmente allontanandosi dalla linea di
mezzo, disegnando una curva a concavità mediale che prende il nome di incisura cardiaca;
3) la scissura principale non interseca il margine inferiore.
La scissura principale divide il polmone in 2 lobi:
- Lobo superiore: al di sopra della scissura
- Lobo inferiore: al di sotto della scissura
Per quanto riguarda l’auscultazione e la percussione la situazione è simile a destra. Infatti posteriormente si
hanno informazioni riguardo il lobo superiore e il lobo inferiore, anteriormente riguardo al lobo superiore,
che comprende una struttura simmetrica a una parte del lobo medio a sinistra, la lingula polmonare, e a
quella parte di lobo inferiore che rappresenta la struttura simmetrica alla restante parte di lobo medio a
sinistra.
Infatti anteriormente è presente una parte di lobo superiore, quella che guarda in avanti e che è prossima al
lobo inferiore, detta lingula polmonare, che rappresenta la struttura simmetrica ad una parte del lobo medio.
Muscoli respiratori:
L’aria entra nella via aerea attraverso la formazione di una depressione all’interno del torace, e quindi anche
all’interno dell’apparato respiratorio, poiché l’aria si sposta dai luoghi di alta pressione ai luoghi di bassa
pressione (similmente a ciò che accade durante la diastole ventricolare, in cui la riformazione della cavità
ventricolare succhia sangue dall’atrio). Ciò avviene perché i polmoni si trovano nella gabbia toracica,
composta da strutture metameriche, le coste, in modo così da alleggerirne il peso e prevedere degli spazi per
l’inserimento di muscoli capaci di variare la morfologia complessiva della gabbia toracica, quindi i suoi
diametri: verticale, sagittale e trasverso.
Il ciclo respiratorio consta di una fase in cui si ha l’ingresso dell’aria, l’inspirazione, che dura circa 3
secondi, cui fa seguito una fase di fuoriuscita dell’aria, l’espirazione, anch’essa di durata di 3 secondi.
L’espirazione ha 2 funzioni: fare spazio per poter immettere aria nuova nell’inspirazione successiva e
eliminare l’anidride carbonica, gas tossico che non si deve accumulare nel sangue.
Mentre l’inspirazione presuppone l’intervento di muscoli, detti muscoli respiratori inspiratori,
l’espirazione, durante la respirazione tranquilla, avviene tramite la semplice interruzione della contrazione
dei muscoli inspiratori, grazie alla quale il sistema torna alla situazione di equilibrio precedente.
Durante i 3 secondi di espirazione le cellule continuano a consumare ossigeno e a produrre anidride
carbonica. Di conseguenza si verifica un innalzamento della pressione parziale di CO2 nel sangue, che
stimola il centro della respirazione il quale induce una nuova inspirazione. Nella respirazione tranquilla si
verificano circa 12-14 atti respiratori al minuto.
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In alcune circostanze la frequenza e la profondità del respiro aumentano, il che significa che nella
respirazione tranquilla non viene utilizzato tutto il volume polmonare. Quindi esistono 2 categorie di muscoli
inspiratori: quelli utilizzati nella respirazione tranquilla e quelli che sono chiamati in causa quando si vuole
aumentare la profondità del respiro, detti muscoli inspiratori accessori.
Esistono anche muscoli espiratori, che non sono utilizzati nella respirazione tranquilla, bensì in circostanze
in cui aumentano le necessità metaboliche, in cui cioè è necessario far arrivare più ossigeno ai tessuti
nell’unità di tempo. In questi casi infatti aumenta la frequenza e la profondità del respiro, quindi si ha un
aumento sia dell’aria in entrata sia dell’aria in uscita, poiché c’è un margine di volume che può essere
ulteriormente diminuito allo scopo di far entrare più aria alla successiva inspirazione. Tuttavia affinché
questo avvenga non è sufficiente la semplice interruzione della contrazione, ma è necessario l’intervento di
muscoli espiratori, che tramite la loro contrazione riducono attivamente il volume interno del torace.
Infatti mentre nella respirazione tranquilla si utilizzano soltanto i muscoli inspiratori, quando aumentano le
necessità metaboliche si utilizzano i muscoli inspiratori con più forza, si attivano i muscoli inspiratori
accessori e, allo scopo di espellere una maggiore quantità di aria per immettere una maggiore quantità di aria
nella successiva inspirazione, vengono reclutati i muscoli espiratori.
Muscoli inspiratori:
Muscolo diaframma addominale:
E’ il principale muscolo della respirazione. Durante la sua contrazione le cupole diaframmatiche si
appiattiscono verso il basso, trascinano verso il basso i 2 foglietti della pleura e il foglietto viscerale della
pleura trascina in basso le basi dei polmoni. Non è un caso che il muscolo diaframma trascina verso il basso
le basi del polmone: queste strutture sono la parte più ampia del polmone, quindi presentano una quantità di
parenchima maggiore rispetto al resto del polmone e di conseguenza a questo livello arriva più sangue,
favorito anche dall’azione della forza di gravità.
Muscoli intercostali esterni:
I muscoli intercostali si dividono in interni ed esterni. I muscoli intercostali interni vanno a riempire
incompletamente gli spazi intercostali e sono applicati da dentro, i muscoli intercostali esterni vanno a
riempire incompletamente gli spazi intercostali e sono applicati da fuori.
I muscoli intercostali esterni sono muscoli inspiratori, sono in numero di 11 coppie, tanti quanti gli spazi
intercostali, e si estendono dal margine inferiore della costa superiore al margine superiore della costa
inferiore. Essi riempiono gli spazi intercostali incompletamente: sono presenti da dietro in avanti sino a circa
l’inizio della cartilagine costale, oltre non ci sono. Le fibre sul versante posteriore sono orientate dall’alto in
basso e da medio a lato, sul versante laterale dall’alto in basso e da dietro in avanti e sul versante anteriore
dall’alto in basso e da lato a medio. Se si prendesse un muscolo intercostale esterno e lo si stirasse su un
piano si vedrebbero fibre parallele orientate dall’alto in basso e da lato a medio. Questa disposizione assicura
che durante la contrazione le 12 coste si sollevino verso l’alto e nello stesso tempo ruotino verso l’alto,
quindi si ha un aumento dei 3 diametri verticale (che già aumenta grazie all’azione del diaframma),
anteroposteriore e trasverso, aumento che va considerato al cubo. Di conseguenza risulta sufficiente l’azione
di questi muscoli e del muscolo diaframma per aumentare il volume del torace di 500 mL.
Muscoli elevatori delle coste:
Sono presenti soltanto posteriormente, vanno dal processo trasverso delle vertebre toraciche, a destra e a
sinistra, all’angolo costale della costa sottostante, caso in cui sono detti brevi, o di quella sottostante alla
sottostante, caso in cui sono detti lunghi. La loro funzione è quella di contribuire al mantenimento della
posizione eretta, infatti si inseriscono all’angolo costale, quindi tirano verso il basso e lateralmente la
colonna toracica, che si traduce in un raddrizzamento e quindi nel mantenimento della posizione eretta.
Tuttavia, se si inverte la direzione della contrazione e la si considera non già dall’alto verso il basso e da
medio a lato ma dal basso verso l’alto e da lato a medio, si ha un elevamento degli angoli costali, così da
aumentare il diametro del torace. I muscoli elevatori delle coste sono quindi muscoli inspiratori più o meno
accessori: si possono utilizzare o no, ma se vengono utilizzati sono inspiratori.
Muscoli scaleni:
Sono 3 coppie di piccoli muscoli che vanno dalla colonna cervicale alle prime 2 cartilagini costali
anteriormente, anteriore, medio e posteriore. I muscoli scaleni anteriore e medio si inseriscono alla 1°
cartilagine costale, lo scaleno posteriore si inserisce alla 2° cartilagine costale. Essi sono muscoli del collo la
cui contrazione produce una trazione verso l’alto delle prime 2 coste e anche dello sterno, quindi sono
muscoli inspiratori, che tuttavia non vengono utilizzati normalmente, quindi dono muscoli inspiratori
accessori. Si utilizzano infatti in casi di aumento delle necessita metaboliche o nell’insufficienza respiratoria,
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tanto che l’insufficiente respiratorio cronico tende ad avere un collo ingrossato, detto collo taurino, a causa
dell’utilizzo anche a riposo dei muscoli inspiratori accessori.
Muscolo sternocleidomastoideo:
Il muscolo sternocleidomastoideo, uno a destra e uno a sinistra, è un muscolo della regione anterolaterale del
collo che origina, come dice il nome stesso, da due capi, il capo sternale ed il capo clavicolare. Un capo si
inserisce all’incisura giugulare dello sterno, un altro al 1/3 mediale della clavicola mentre il ventre del
muscolo va in alto, posteriormente e lateralmente per inserirsi alla tuberosità che si trova dietro l’orecchio, il
processo mastoideo, e anche lungo l’osso occipitale, subito dietro al processo mastoideo. La funzione del
muscolo è quella di permettere la rotazione e la flessione del capo, ma al bisogno, poiché si inseriscono
all’incisura giugulare dello sterno e alla clavicola, contraendosi e prendendo punto fisso cranialmente tirano
verso l’alto il limite superiore del torace, quindi aumentando il diametro verticale del torace, quindi sono
muscoli inspiratori accessori. Anch’essi contribuiscono alla condizione di collo taurino dell’insufficiente
respiratorio.
Muscolo quadrato dei lombi:
Questa coppia di muscoli è importante perché la fascia di ciascuno di essi presenta un ispessimento, l’arco
tendineo laterale, sul quale si inserisce il diaframma posteriormente, in particolare il pilastro laterale del
diaframma. Esso si trova nella parete addominale posteriore, è composto da fibre verticali che vanno dal
margine inferiore della 12° costa fino a circa la metà mediale della cresta iliaca, ai lati della colonna
vertebrale lombare, ed è un muscolo sia espiratorio sia inspiratorio. Infatti a questo muscolo si inserisce una
parte del diaframma, che è un muscolo inspiratorio: quando si contrae il quadrato dei lombi, esso si fissa,
così come la sua fascia e l’arco tendineo, che quindi rappresenta un solido punto di aggancio per la
contrazione del muscolo diaframma. Nella circostanza appena descritta il muscolo quadrato dei lombi svolge
un’azione inspiratoria.
Tuttavia al margine laterale del muscolo quadrato dei lombi, in particolare dalla sua fascia, si dipartono delle
fibre che vanno a costituire il muscolo trasverso dell’addome, muscolo che va da dietro in avanti aggirando e
disegnando il fianco. Ciascun fianco è infatti composto da cute, sottocute e 3 muscoli sovrapposti, uno dei
quali è il muscolo trasverso dell’addome. Se si contrae il muscolo trasverso dell’addome, quindi, la parete
anterolaterale dell’addome si appiattisce e la pressione intraddominale aumenta (questo avviene quando ci si
siede, quando ci si alza, quando ci si china, per defecare, per partorire, quando si ride, quando si tossisce,
quando si parla e quando si canta, è per questo che ci sono soggetti femmine, in particolare anziani, che
quando ridono hanno perdite di urina). La pressione si esercita sui luoghi di minor resistenza, uno dei quali è
il diaframma, che subisce una spinta verso l’alto, con conseguente schiacciamento delle basi del polmone
verso l’alto, quindi espirazione. Poiché il muscolo trasverso dell’addome si inserisce a muscolo quadrato dei
lombi, per massimizzare l’azione del trasverso bisogna prima contrarre il quadrato dei lombi; ma siccome
l’azione del trasverso dal punto di vista respiratorio svolge un’azione espiratoria accessoria, il quadrato dei
lombi è anch’esso un muscolo respiratorio accessorio.
Quindi il muscolo quadrato dei lombi è espiratorio se subito dopo la sua contrazione avviene la contrazione
del muscolo trasverso dell’addome che aumenta la pressione intraaddominale, mentre è inspiratorio negli
altri casi, in quanto la sua contrazione massimizza l’azione del diaframma.
Muscoli espiratori:
Muscoli intercostali interni:
I muscoli intercostali interni sono muscoli espiratori, cioè che con la loro contrazione riducono il volume
interno del torace e che non vengono utilizzati nella respirazione tranquilla. Essi infatti sono utilizzati
soltanto in circostanze in cui è necessario fare spazio per l’ingresso di una quantità di aria maggiore rispetto
al ciclo respiratorio precedente, cioè quando aumentano le necessità metaboliche. Questi muscoli tappezzano
da dentro gli spazi intercostali e anche in questo caso in maniera incompleta: sono sovrapposti da dentro ai
muscoli intercostali esterni, ma si estendono più o meno dall’angolo costale fino a circa l’inizio della
cartilagine costale, quindi nel complesso per circa mezza costa. Le fibre dei muscoli intercostali interni sono
orientate su un piano perpendicolare rispetto a quelle dei muscoli intercostali esterni, cioè dall’alto in basso e
da medio a lato, e questa disposizione è responsabile della trazione verso il basso e della rotazione caudale
delle coste, con conseguente riduzione del volume del torace.
Muscoli minimi:
Si classificano tra i muscoli intercostali interni, però non essendovi continui sono detti minimi. Essi sono
presenti soltanto ai lati dello sterno, all’altezza delle cartilagini costali e sono composti da fibre verticali.
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Inizialmente furono considerati muscoli inspiratori. In realtà oggi sono classificati come muscoli espiratori,
infatti sono muscoli sinergici ai muscoli intercostali interni.
Muscoli traversi del torace:
Dalla faccia interna del processo xifoideo dello sterno e della metà inferiore del corpo dello sterno si
dipartono a destra e a sinistra 5-6 capi che, come fossero tante “V” maiuscolo stampatello una dentro l’altra,
vanno a finire alla faccia interna delle cartilagini costali dalla 2° alla 6°. Ogni muscolo trasverso del torace è
composto quindi da 2 metà simmetriche. Essi sono muscoli espiratori, perché quando si contraggono non è
certo lo sterno a spostarsi verso l’alto, ma le coste dall’alto in basso e da lato a medio, determinando una
riduzione del diametro anteroposteriore del torace, quindi del suo volume interno.
Muscolo retto dell’addome:
Coppia di muscoli che completano anteriormente la parete addominale. Anch’essi sono muscoli che
istituzionalmente hanno un’altra funzione, cioè servono alla flessione del tronco sul bacino o del bacino sul
tronco, ma ogni volta che si contraggono determinano un aumento della pressione intraaddominale, quindi
anche i muscoli retti dell’addome hanno la funzione di muscoli espiratori accessori.
Faccia mediastinica del polmone di destra:
Complessivamente la faccia mediastinica del polmone è concava (così come la faccia costovertebrale è
convessa), ma oltre alla concavità complessiva sono presenti diverse concavità che si susseguono, dette
impronte: siccome il tessuto polmonare è tessuto spugnoso, esso si lascia facilmente improntare.
Queste impronte sono distribuite secondo una precisa geometria. Si prende come punto di riferimento l’ilo
del polmone, che si trova quasi al centro geometrico della faccia mediastinica del polmone e rappresenta il
luogo di ingresso e di uscita di una serie di formazioni: alcune sono condotti, altri sono strutture nervose.
Esiste quindi un unico punto al centro della faccia mediastinica del polmone attraverso il quale le strutture
che fanno capo al polmone entrano ed escono, l’ilo del polmone. L’ilo del polmone a destra ha la forma di
una racchetta da tennis, con la racchetta propriamente detta che guarda verso l’alto e il manico che guarda
verso il basso. Il perimetro dell’ilo è delimitato dalla linea di riflessione del foglietto viscerale della pleura
che a questo livello si ribalta per diventare parietale. L’elemento più stretto dell’ilo, che guarda in basso e
rappresenta il manico della racchetta, è il legamento polmonare.
Le strutture che si trovano nell’ilo del polmone sono:
- Bronco principale (in entrata)
- Arteria polmonare (in entrata)
- Arteria bronchiale (in entrata)
- Vena bronchiale (in uscita)
- 2 Vene polmonari (in uscita)
- Vasi linfatici (in uscita)
- Nervi (in entrata e in uscita)
Questi elementi sono distribuiti secondo una geometria ben precisa, dettata dalla loro posizione:
Bronco principale: nasce dalla divisione della trachea, che si biforca all’altezza di T4 ed è un organo
piuttosto dorsale del mediastino superiore (si trova al davanti esclusivamente dell’esofago, si localizza
all’interno della “V” rappresentata dall’arteria anonima e la carotide comune di sinistra, ma dorsalmente;
inoltre anteriormente a tutte queste strutture si trovano la vena brachicefalia di sinistra e, in un soggetto
giovane, anche il timo). Il bronco principale quindi, nascendo dalla trachea, si trova piuttosto in alto e
piuttosto in dietro: entra nella parte alta dell’ilo e dorsalmente.
Arteria polmonare: è un ramo di divisione del tronco polmonare, che dopo un breve tragitto in alto, a
sinistra e in dietro si biforca a T. Il tronco polmonare nasce a livello della valvola polmonare, che è
l’elemento più craniale del cuore, quindi il tronco polmonare e i suoi rami si trovano nella parte alta dell’ilo.
Inoltre, poiché il tronco polmonare, che alla sua origine è l’elemento più craniale e più ventrale del cuore, sta
al davanti della trachea, il ramo del tronco polmonare si trova al davanti del bronco. Quindi l’arteria
polmonare entra nella parte alta e anteriore dell’ilo.
Vene polmonari: le 2 vene polmonari sono dirette all’atrio di sinistra, che si trova inferiormente rispetto alla
valvola polmonare, è l’elemento più dorsale e si trova in basso rispetto alla biforcazione della trachea, e
passano dietro la vena cava superiore. Di conseguenza le 2 vene polmonari si trovano nella parte bassa
dell’ilo, una al davanti degli altri elementi dell’ilo, l’altra dietro al bronco principale in entrata.
Arteria e vena bronchiale: sia i vasi bronchiali sia i linfatici (in uscita) sia i nervi (in entrata e in uscita) si
dispongono tutt’attorno al bronco, quindi arterie e vena bronchiale si trovano attorno al bronco.
Linfonodi ilàri: in prossimità dell’ilo, all’intorno del bronco.
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Impronte e rapporti:
La faccia mediastinica del polmone di sinistra presenta numerose impronte:
- Impronta cardiaca: al davanti e inferiormente all’ilo, fossa relativamente grande lasciata dall’atrio di
destra, al di sotto di T4, a livello del 2° arco cardiaco di destra.
- Impronta della vena cava superiore: al davanti dell’ilo e sopra l’impronta cardiaca, lasciata dalla vena
cava superiore, vaso che viene dall’alto e diventa atrio di destra. L’impronta cardiaca e quella della vena
cava superiore sono in continuità l’una con l’altra.
- Impronta della vena azygos: sopra e dietro l’ilo, lo circonda da dietro, lo scavalca e finisce nell’impronta
della vena cava superiore. E’ generata dalla vena azygos, che sbocca quasi perpendicolarmente nella vena
cava superiore dopo aver scavalcato il peduncolo polmonare di destra.
Alcune impronte si trovano al di sopra dell’ilo del polmone:
- Impronta dell’arteria anonima: dietro l’impronta della cava superiore, appena accennata.
- Impronta dell’arteria succlavia di destra: l’arteria anonima dietro l’articolazione sternoclaveare si
divide in carotide comune di destra e succlavia di destra. Non c’è un’impronta della vena succlavia ma
soltanto dell’arteria perché l’arteria succlavia di destra per andare in regione sovraclaveare passa in uno
spazio tra il muscolo scaleno anteriore e il muscolo scaleno medio, quindi esce dal torace scavalcando la
1° costa per andare verso destra, appoggiandosi all’apice del polmone e lasciandovi un’impronta. La vena
succlavia compagna dell’arteria si trova al davanti dell’arteria, anch’essa deve entrare nel torace, ma lo fa
passando al davanti del muscolo scaleno anteriore, di conseguenza non può lasciare nessun’impronta sul
polmone, perché una volta arrivata dietro l’articolazione sternoclaveare lascia un’impronta ma non è più
vena succlavia: è diventata vena brachiocefalica di destra, che scende perpendicolarmente e diventa vena
cava. Questo è importante, perché la vena succlavia rappresenta uno degli accessi venosi centrali, strutture
tramite le quali si raggiunge il cuore: con un catetere si può accedere all’atrio di destra senza dover
tagliare la parete toracica, semplicemente inserendo un catetere nella vena succlavia, pratica necessaria
per l’impianto del pace maker nella parete dell’atrio di destra. Inoltre l’accesso venoso centrale è utilizzato
per le terapie croniche in cui si evita di utilizzare la vena basilica mediana, vena del gomito, o le vene del
dorso della mano perché i farmaci sono irritanti e producono una serie di fenomeni locali.
- Impronta dell’esofago: impronta minima, di poco interesse.
- Rapporto con il nervo frenico: (non lascia impronte, ma costituisce un rapporto importante) il nervo
frenico di destra viaggia attraverso il mediastino posteriore in compagnia della vena brachiocefalica
prima, poi della vena cava superiore. In seguito passa al davanti del peduncolo polmonare, quindi al
davanti dell’ilo, poi deve finire nell’emidiaframma, quindi attraversa la fossa cardiaca. E’ un rapporto
importante perché la sua irritazione può provocare singhiozzo irrefrenabile (vedi cap. mediastino).
Scissura principale: il cui piano è inclinato dal margine posteriore all’altezza di T3 fino al margine inferiore
all’altezza della 6° cartilagine costale, si presenta sulla faccia mediastinica sotto forma di una linea che
dall’alto scende vero il basso e anteriormente, raggiunge l’ilo, come se lo volesse attraversare, si interrompe
all’altezza della parte superiore dell’ilo, poi continua e divide in 2 la fossa cardiaca.
Scissura secondaria: è meno inclinata e sulla faccia mediastinica delimita superiormente la fossa cardiaca e
inferiormente la fossa della vena cava, ponendosi al confine tra queste (è un caso che si trovi tra queste due
strutture).
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Faccia mediastinica del polmone di sinistra:
Le strutture della faccia mediastinica del polmone di sinistra sono analoghe rispetto a destra. Anche qui è
presente un ilo circa a livello del centro geometrico, il quale presenta gli stessi elementi dell’ilo di destra
organizzati più o meno allo stesso modo: verso in dietro e in alto si trova l’ingresso del bronco, al cui intorno
ci sono i vasi bronchiali, i vasi linfatici e i nervi, in alto e davanti al bronco c’è l’arteria polmonare, in basso
una davanti e una dietro ci sono le 2 vene polmonari. Anche qui si trovano linfonodi ilàri al contorno del
bronco.
Impronte e rapporti:
- Fossa cardiaca: anteriormente e inferiormente rispetto all’ilo, più ampia rispetto a destra perché è lasciata
dal margine ottuso del cuore
- Impronta dell’aorta: al di sopra e al di dietro dell’ilo, la parte soprastante l’ilo lasciata dall’arco
dell’aorta (l’arco dell’aorta scavalca dal davanti al dietro e da destra verso sinistra il peduncolo polmonare
di sinistra), la parte dietro l’ilo dall’aorta discendente toracica.
- Impronta dell’arteria succlavia di sinistra: impronta che si continua dall’impronta dell’arco dell’aorta,
nasce dall’arteria succlavia di sinistra, il più dorsale e il più a sinistra dei 3 vasi epiaortici.
Ci sono altri rapporti, come quello con la trachea o l’esofago, che lasciano impronte poiché lo spazio del
mediastino è ridotto quindi possono avvicinarsi alle facce mediastiniche dell’apice del polmone lasciandovi
qualche impronta più o meno accentuata, a seconda dei soggetti.
- Rapporto con nervo frenico: il nervo frenico prende rapporto con la faccia mediastinica del polmone di
sinistra a livello dell’impronta dell’arteria succlavia, infatti inizialmente è compagno dell’arteria
succlavia, poi al davanti dell’ilo a livello della fossa cardiaca, attraversandola.
- Rapporto con il nervo vago di sinistra: il nervo vago di sinistra passa a sinistra dell’arco dell’aorta,
quindi se l’arco dell’aorta lascia un’impronta sulla faccia mediastinica, sicuramente c’è un rapporto tra
vago e polmone (non impronta perché è una struttura nervosa). A destra non c’è perché il vago scendendo
si sposta sempre più medialmente per arrivare all’esofago, quindi si allontana dalla faccia mediastinica di
destra, cosa che non può fare a sinistra a causa della presenza dell’arco dell’aorta che lo spinge
lateralmente.
Scissura principale: il piano della scissura principale di sinistra descrive anche a sinistra una linea che
comincia sul margine posteriore all’altezza di T3, si interrompe all’ilo e riprende in basso e anteriormente
rispetto all’ilo per attraversare obliquamente la fossa cardiaca.
Albero bronchiale - Polmone di destra
1) Bronchi: La trachea a circa T4 si divide dicotomicamente nel bronco di destra e di sinistra.
Il bronco di sinistra è più orizzontale rispetto al bronco di destra, che è più obliquo, a causa della presenza
del cuore a sinistra che spinge verso l’alto il bronco di sinistra. Questa asimmetria dei bronchi è importante
perché se un soggetto aspira un corpo estraneo c’è una probabilità maggiore che questo finisca nel bronco di
destra, poiché questo forma con la trachea un angolo più piatto, più ottuso. L’ingestione di corpi estranei
nelle vie aeree può causare anche polmoniti, dette “ab ingestis”, quindi è importante tenere conto di questa
organizzazione anatomica. Ciascun bronco da un punto di vista funzionale è un bronco terminale.
L’aggettivo terminale da un punto di vista funzionale si usa per indicare che un condotto, aereo o sanguigno,
è competente per un territorio e solo per quello, come accade per i vasi che irrorano il setto interventricolare:
i 2/3 anteriori sono irrorati dall’arteria interventricolare anteriore e il 1/3 posteriore dall’arteria
interventricolare posteriore, in maniera terminale, cioè che se si occlude uno dei 2 vasi la struttura di
competenza non riceve più irrorazione e si genera un infarto. Allo stesso modo il bronco di destra ventila il
polmone di destra in maniera terminale: se si occlude il bronco di destra il polmone di destra non è più
ventilato. Quindi il bronco di destra è funzionalmente terminale.
2) Bronchi lobari: Una volta entrato nell’ilo il bronco di destra si divide in 3 bronchi lobari, uno per
ciascun lobo:
- Bronco lobare superiore
- Bronco lobare medio
- Bronco lobare inferiore
Questa divisione avviene a livello dell’ilo, in alcuni soggetti anche leggermente prima dell’ingresso nell’ilo.
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Quindi anche i 3 bronchi lobari sono bronchi funzionalmente terminali, nel senso che se si occlude uno dei
bronchi lobari il lobo di competenza non ventila più.
Il bronco lobare medio è la continuazione del bronco principale, cioè ne segue l’inclinazione. Il bronco
lobare superiore si dirige verso l’alto, il bronco lobare inferiore si dirige verso il basso e il bronco lobare
medio è la continuazione del bronco principale. Questa nozione è importante perché nel caso di ingestione di
corpo estraneo nelle vie aeree si ha una maggiore probabilità che questo finisca nel lobo medio, dopo essere
entrato nel bronco di destra. Si descrive infatti la sindrome del lobo medio, in genere “ab ingestis”, in cui il
soggetto ha difficoltà ventilatoria, quindi respiratoria, del lobo medio e solo del lobo medio, fino a
determinare polmonite “ab ingestis”. Questo può accadere anche durante un’episodio di vomito, in cui può
succedere che si respiri il proprio vomito, con maggiore probabilità se il soggetto è incosciente, che può
provocare un disturbo respiratorio o una polmonite “ab ingestis”.
3) Bronchi zonali o segmentali: Ciascun bronco lobare a sua volta si suddivide in bronchi zonali o
segmentali:
- il bronco superiore si divide in 3 bronchi zonali superiori
- il bronco medio si divide in 2 bronchi zonali medi
- il bronco inferiore si divide in 5 bronchi zonali inferiori
In totale si formano 10 bronchi. Questo accade perché il lobo superiore è suddivisibile in 3 zone o segmenti,
il lobo medio in 2 e il lobo inferiore in 5, quindi ciascun bronco zonale ventila una zona o segmento
polmone. La zone (o segmenti) polmonari sono strutture piramidali, piriformi, disposte con le basi sulla
superficie esterna e con gli apici che convergono in un punto, l’ilo del polmone, le quali si assemblano a
formare il polmone.
Ciascun bronco zonale ventila una zona o segmento di un lobo, quindi del polmone. Di conseguenza i
bronchi zonali sono funzionalmente terminali, cioè ventilano ciascuno una zona una parte di parenchima
polmonare di forma piramidale (o piriforme, cioè simile ad una fiamma, “pira” in latino).
Ciascun bronco zonale si suddivide poi in una successiva generazione, i cui elementi hanno un calibro
minore e via via che l’albero bronchiale si ramifica il calibro dei singoli condotti si restringe sempre di più.
Il bronco zonale è l’ultima generazione bronchiale ancora è osservabile in una broncografia (o
broncoscopia). Le successive ramificazioni infatti hanno un calibro tanto piccolo che il mezzo usato per
l’esame non vi entra. Quindi in una broncografia il medico ha informazioni sul calibro interno del bronco
principale, del bronco lobare e del bronco zonale, ma non a valle.
I bronchi zonali sono 10 e sono orientati secondo una precisa geometria:
- i 3 bronchi zonali superiori (derivati dal bronco lobare superiore) si distribuiscono uno in alto, uno in
dietro e uno in avanti. Essi sono rispettivamente il bronco zonale superiore anteriore, il bronco zonale
superiore posteriore e il bronco zonale superiore apicale.
- i 2 bronchi zonali medi (derivati dal bronco lobare medio) sono orientati su un piano quasi orizzontale,
entrambi rivolti in avanti, uno più lateralmente e uno più medialmente. Essi sono il bronco zonale medio
laterale e il bronco zonale medio mediale.
- i 5 bronchi zonali inferiori (derivati dal bronco lobare inferiore) sono disposti uno in alto e 4 a croce.
Essi sono il bronco zonale inferiore apicale, anteriore, posteriore, laterale e mediale.
Poiché ciascuno di questi bronchi è funzionalmente terminale, in caso di asportazione di polmone si può
rimuovere singolarmente ciascuna zona polmonare risparmiando il resto.
N.B.: Il calibro di ciascun bronco principale è minore di quello della trachea, ma la somma delle sezioni dei
2 bronchi è maggiore di quella della trachea. Il calibro di ciascun bronco lobare è minore di quella del bronco
principale, ma la somma delle loro sezioni è maggiore del calibro del bronco principale. Il calibro dei
bronchi zonali è minore di quello del bronco lobare, ma la somma delle loro sezioni è maggiore. La
situazione è analoga a quella di un albero: il calibro di un ramo è minore rispetto al tronco, ma la somma
delle sezioni della 1° generazione di rami è molto maggiore.
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Albero bronchiale - Polmone di sinistra:
A sinistra c’è un’organizzazione analoga: anche a sinistra ci sono 10 zone e quindi 10 bronchi zonali, che
tuttavia si dividono diversamente rispetto a destra poiché ci sono soltanto 2 lobi.
- 5 bronchi zonali inferiori: sono pressoché simmetrici rispetto a quelli di destra e hanno gli stessi nomi,
cioè bronchi zonali inferiori apicale, anteriore, posteriore, laterale e mediale.
- 5 bronchi zonali superiori: 3 di questi sono speculari a quelli di destra, quindi si ha un bronco zonale
superiore apicale, anteriore e posteriore; i 2 restanti sono gli analoghi del lobo medio, tuttavia non sono
orientati su un piano orizzontale come a destra, poiché la presenza del cuore ne determina la diversa
disposizione su un piano verticale. Essi sono i bronchi zonali lingulari superiore e inferiore.
ppppppp
4) e 5) Bronchi sottosegmentali di 1° tipo e Bronchi sottosegmentali di 2° tipo: I bronchi zonali danno
origine ad un’altra generazione di bronchi, i bronchi sottosegmentali di 1° tipo, i quali a loro volta danno
origine ad un’altra generazione, i bronchi sottosegmentali di 2° tipo. Questi rappresentano rispettivamente la
4° e la 5° generazione bronchiale.
6) Bronchi lobulari o Bronchioli lobulari: In alcuni polmoni i bronchi sottosegmentali di 2° tipo danno
origine a bronchi lobulari, in altri ai bronchioli lobulari. I lobuli sono strutture piriformi o piramidali, con la
base rivolta verso l’esterno e l’apice rivolto verso l’ilo, che costituiscono le zone: assemblando più lobuli si
ottiene una zona (assemblando più zone si ottiene un lobo, assemblando 2 o 3 lobi si ottiene un polmone).
Il lobulo polmonare è la più piccola frazione di parenchima polmonare con dei confini ben definiti,
rappresentati da setti connettivali sottili che allo stesso tempo uniscono e separano un lobulo dall’altro.
L’insieme dei lobuli costituisce il parenchima polmonare: il parenchima polmonare è l’insieme dei lobuli.
Il bronco lobulare ventila in maniera funzionalmente terminale un lobulo. Il lobulo è una struttura
macroscopica: se si osserva un polmone si nota una trama sulla sua superficie esterna, costituita da piccole
tessere che rappresentano la base delle piramidi lobulari più periferiche (non tutti i lobuli vanno a costituire
la parete esterna del polmone, soltanto quelli periferici: internamente ci sono altri lobuli, con la base sempre
rivolta verso l’esterno ma che non costituisce la parete esterna del polmone). Ogni lobulo polmonare è
delimitato da setti connettivali, che li uniscono ad altri lobuli. A questo livello stocasticamente muoiono
macrofagi che hanno fagocitato particolato non metabolizzabile, che vi rimane fino alla morte ed è
responsabile del colore progressivamente sempre più tendente al grigiastro. Ci sono patologie che
coinvolgono proprio questi setti connettivali, come le silicosi, che ne determinano un ispessimento poiché si
ha un accumulo di particolato trasportato da macrofagi poi morti. Quest’ispessimento causa una riduzione
della componente funzionale respiratoria che determina disturbi respiratori.
Laddove la struttura che fa seguito ai bronchi sottosegmentali di 2° tipo è un bronco lobulare (cioè ha un
calibro uguale o superiore a 1 mm) questo, penetrando nel lobulo, si divide in una generazione successiva di
bronchioli intralobulari (7° generazione), ciascuno dei quali si divide in bronchioli terminali (8°
generazione).
Laddove la struttura che fa seguito ai bronchi sottosegmentali di 2° tipo è un bronchiolo lobulare (cioè ha
un calibro inferiore a 1 mm) questo una volta penetrato si divide direttamente nella generazione successiva di
bronchioli, i bronchioli terminali (7° generazione).
Da ciò deriva l’incertezza sul numero di generazioni, 8 o 9, a seconda che si passi o meno per lo stadio di
bronco lobulare.
N.B.:
Bronco: condotto aereo con un calibro >0 1mm
Bronchiolo: condotto aereo con calibro< 1mm
La divisione della trachea avviene in maniera dicotomica. Dai bronchi principali fino ai bronchi o bronchioli
lobulari, invece, la divisione è monopodica: similmente a ciò che accade in un albero, dal ramo principale si
dipartono generazioni di rami di calibro progressivamente più piccolo, formando con questo angoli acuti.
Questo tipo di divisione è detta monopodica, a differenza della divisione secca in 2, tipica della trachea.
Il bronchiolo lobulare infatti si divide in circa 10-15 bronchioli terminali, i quali si tornano a dividere
dicotomicamente in 2 bronchioli respiratori, i quali a loro volta danno origine a diversi condotti alveolari e
altrettanti sacchi alveolari.
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7) Bronchioli intralobulari: Generazione presente soltanto nel caso in cui a fare ingresso nel lobulo sia un
bronco lobulare, che si divide monopodicamente all’interno del lobulo in più bronchioli intralobulari.
7) o 8) Bronchioli terminali: Il bronchiolo terminale rappresenta la 7° generazione di ramificazione se
deriva da un bronchiolo lobulare che a sua volta deriva direttamente da un bronco sottosegmentale di 2° tipo,
mentre rappresenta l’8° generazione di ramificazione se deriva da un bronchiolo intralobulare che a sua volta
deriva da un bronco lobulare.
Il bronchiolo terminale è detto così non perché sia funzionalmente terminale, anche se lo è, ma perché
rappresenta l’ultima struttura bronchiale deputata soltanto al trasporto di aria. Infatti esistono dei condotti la
cui unica funzione è il trasporto dell’aria, ma ci sono anche, a valle del bronchiolo terminale, ulteriori
diramazioni che invece svolgono la funzione di scambio gassoso.
Questo determina che a livello, ad esempio, della trachea non avvengono scambi gassosi, perché il
diaframma (elemento divisorio) tra l’aria e il capillare è troppo spesso per permettere al gas di diffondere.
Quindi dal naso fino al bronchiolo terminale i condotti aerei hanno soltanto una funzione di trasporto di aria.
A valle del bronchiolo terminale c’è un’ulteriore generazione di bronchioli, i bronchioli respiratori, l’8° o 9°
generazione bronchiale.
Mentre il bronco o bronchiolo lobulare ventila il lobulo, il bronchiolo terminale ventila una frazione di
lobulo chiamata acino polmonare. Ogni lobulo contiene un certo numero di acini polmonari.
L’acino polmonare è l’unità funzionale del polmone, infatti ogni acino polmonare ha tutto quello che serve
perché si possa parlare di tessuto polmonare: un condotto che porta soltanto aria, il bronchiolo terminale, che
si divide in bronchioli respiratori, i quali si dividono ulteriormente per dare origine al tessuto a livello del
quale avvengono gli scambi gassosi.
8) o 9) Bronchioli respiratori: Il bronchiolo terminale dà origine a 2 bronchioli respiratori, tramite divisione
dicotomica, da ciascuno dei quali si originano i condotti alveolari. Il bronchiolo respiratorio dopo un breve
tragitto improvvisamente si dilata a formare delle strutture bitorzolute più o meno sferiche, simili a delle
more, i sacchi alveolari, ed ogni bronchiolo respiratorio dà origine a più sacchi alveolari.
Ogni sacco alveolare si dilata in numerose cavità più piccole, definite alveoli polmonari, che sono le
strutture a livello delle quali avvengono gli scambi gassosi. Il sacco alveolare è l’estrema diramazione
dell’albero bronchiale.
Il bronchiolo respiratorio è detto così perché è un condotto che non serve soltanto al trasporto dell’aria, ma
presenta sporadicamente lungo la sua parete degli alveoli, dove avvengono scambi gassosi.
A livello degli alveoli avvengono scambi gassosi, quindi la parete dell’alveolo dev’essere molto sottile.
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Struttura della via area (da trachea a bronco lobare):
(organizzazione dal punto di vista terminologico comune a tutta la via aerea fino al bronchiolo respiratorio
incluso, dal punto di vista strutturale in gran parte comune alle strutture fino al bronchiolo lobulare incluso).
La trachea ha la forma di un cilindro appiattito in senso posterò anteriore: la sua parete posteriore è piatta. La
trachea è un condotto la cui parete è composta da 4 strati concentrici, definiti tonache.
- Tonaca mucosa: tonaca più interna, quella a diretto contatto con l’aria. E’ composta da un epitelio
pseudostratificato che poggia su una membrana basale ed è sostenuto da uno strato di connettivo lasso, la
tonaca propria. Sulla membrana basale dell’epitelio di rivestimento poggiano 4 tipi di cellule:
1) Cellule staminali: cellule quiescenti che ogni 5-6 giorni si attivano e si differenziano in uno degli altri 3
tipi cellulari (in particolare in 2 di questi), perché l’epitelio respiratorio ha una durata di 6-7 giorni.
Infatti dopo questo tempo le cellule muoiono per apoptosi, morte programmata che, a differenza della
morte per necrosi, non dà origine a risposta infiammatoria.
2) Cellule caliciformi mucipare: cellule con la forma di un calice, il cui nucleo è in regione basale e il
citoplasma è pieno di vescicole che contengono muco. Il muco viene secreto nella via aerea in maniera
costitutiva (cioè senza regolazione né ormonale né nervosa, quindi continua) e si spalma sulla superficie
esterna dell’epitelio a protezione dell’epitelio, quindi di tutta la parete. Esso protegge da agenti estranei
contenuti nell’aria. Già la conformazione del naso ha l’obiettivo di ridurre l’afflusso di particolato grazie
alla presenza di 3 ossa turbinate o cornetti e di vibrisse che frenano la velocità di entrata dell’aria nel
naso, anch’esso produttore di muco. Il muco dev’essere eliminato.
3) Cellule ciliate: dove ci sono cellule mucipare sono presenti cellule ciliate, le cui ciglia battono in
un’unica direzione, in questo caso verso il cavo orale. Le ciglia infatti spingono il muco verso il laringe,
dove si accumula e stimola il riflesso della tosse, che consiste in un’espirazione esplosiva a glottide
inizialmente chiusa che spinge il muco nell’orofaringe per essere espulso o deglutito. Le cellule
mucipare e le cellule ciliate sono indispensabili, poiché il senza muco le cellule dell’epitelio sarebbero
esposte all’attacco da parte di agenti estranei contenuti nell’aria, mentre un’eccessiva quantità di muco
ridurrebbe lo spazio per il passeggio dell’aria. Quindi il muco non dev’essere né troppo poco né troppo.
4) Cellula APUD (“Amine Precursor Uptake and Decarboxylation”, cellula capace di captare ammine
biogene e decarbossilarle): cellule che producono serotonina per decarbossilzione, partendo da
un’amminoacido essenziale, il triptofano. Una volta prodotta la serotonina viene immagazzinata, pronta
per essere secreta al bisogno e diffusa localmente nello spessore della parete, non nel lume.
Queste cellule costituiscono un epitelio di rivestimento pseudostratificato in cui i nuclei sono disposti ad
altezze diverse, ma tutte le cellule poggiano sulla membrana basale.
La tonaca propria della tonaca mucosa è composta da connettivo lasso con la funzione di sostenere i
capillari, cellule del sistema immunitario, rami nervosi, ecc..
- Tonaca sottomucosa: circonda la mucosa ed è composta da tessuto connettivo. Nel caso delle vie aeree
sono presenti anche ghiandole tubulo-acinose a secrezione sierosa, le ghiandole sottomucose, che
produco e secernono un secreto fluido, acquoso. Questo secreto si stratifica sull’epitelio e idrata il muco,
fluidificandolo, rendendolo così più facilmente distribuibile sulla superficie e spostabile dalle ciglia.
Inoltre la componente acquosa di questo secreto ha anche la funzione di riscaldare e umidificare l’aria in
entrata: una volta secreto si stratifica sulla superficie del lume, che si trova alla temperatura di 37° C,
quindi la sua componente acquosa diventa vapore e entra a far parte dell’aria, portando con sé parte
dell’energia termica, con il duplice effetto di umidificazione e riscaldamento dell’aria. Questo evita lesioni
dell’epitelio dovute all’abbassamento di temperatura dell’aria e si riscalda l’aria in maniera tale che a
livello degli alveoli arrivi un’ira riscaldata e umidificata.
- Tonaca fibrocartilaginea: tonaca presente lungo tutta la via aerea, ma via via che si passa dalla trachea al
bronchiolo respiratorio si hanno variazioni dal punto di vista della composizione. La trachea è composta
da un tubo di tessuto fibroso piuttosto denso nel quale sono immersi periodicamente anelli di cartilagine
ialina incompleti posteriormente, a forma di ferro di cavallo. La cartilagine è presente dalla trachea fino al
bronchiolo lobulare (non sempre anelliforme) ed ha la funzione di dare rigidità al sistema con l’obiettivo
di impedire il collabimento delle pareti durante l’inspirazione. Gli anelli cartilaginei della trachea sono
incompleti posteriormente a livello della parte membranosa, non tanto per ridurre la resistenza
all’allargamento dell’esofago durante il passaggio del cibo, poiché se così fosse si avrebbe soltanto
connettivo lasso a questo livello, quanto per permettere la variazione del calibro delle trachea: ad unire i 2
estremi dell’anello cartilagineo è presente muscolatura liscia, il muscolo tracheale. La contrazione di
questa muscolatura determina una riduzione della distanza tra i 2 estremi dell’anello, con conseguente
riduzione del calibro della trachea e ostacolo al passaggio dell’aria. Ci sono infatti delle circostanze in cui
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è indispensabile che si riduca il calibro delle vie aeree, come nel caso in cui ci si trovi in un ambiente
molto polveroso o molto fumoso, che determina la sensazione di fame d’aria. Essa è dovuta in parte alla
contrazione del muscolo tracheale, quindi alla riduzione del calibro, che determina una situazione in cui
ad ogni atto respiratorio si ha l’ingresso di una quantità di aria inferiore a 500 mL. La sensazione di fame
d’aria induce l’allontanamento istintivo del soggetto, se cosciente, da quell’ambiente, alla ricerca di un
luogo più pulito. In sintesi quando ci si trova in ambienti polverosi o fumosi si ha broncocostrizione
(riduzione del calibro dalla trachea in giù), che induce fame d’aria, che a sua volta induce a cercare un
ambiente più pulito, quindi ha una funzione protettiva. Questo processo è istintivo, attiene cioè alla
memoria genetica, e si realizza grazie all’azione delle cellule APUD. Esse vengono stimolate dalla
presenza di fumo o particolato e secernono serotonina, che diffonde a livello della tonaca propria della
mucosa fino a raggiungere il muscolo tracheale o il suo analogo nei bronchi. Tra gli effetti della serotonina
c’è quello di stimolare la muscolatura liscia a contrarsi, quindi produce broncocostrizione. La funzione
delle cellule APUD quindi è quella di secernere serotonina al bisogno e in seguito a stimolazione, che
diffonde localmente per indurre contrazione della muscolatura liscia (indipendentemente dall’azione dei
nervi), quindi momentanea e improvvisa riduzione del calibro e conseguente induzione della sensazione di
fame d’aria che spinge il soggetto all’allontanamento da quell’ambiente.
- Tonaca avventizia: sottile strato di connettivo che chiude perifericamente la trachea, un semplice
involucro.
La struttura della trachea rappresenta la struttura base dell’albero respiratorio. Questa struttura si mantiene
circa fino ai bronchi o bronchioli lobulari: 4 tonache, più o meno con le stesse caratteristiche. A livello dei
bronchi principali la struttura è esattamente identica a quella della trachea, cioè ad anelli cartilaginei
incompleti posteriormente. Via via che si passa ai bronchi lobari, segmentali, ecc., la cartilagine non è più ad
anelli incompleti ma a placche e diminuisce in quantità. Il motivo è che si tratta di un albero respiratorio,
quindi un tronco principale che si divide in più generazioni, e via via che si passa dal centro alla periferia
diminuisce la resistenza al passaggio dell’aria: la stessa quantità di aria (500 mL) che deve attraversare la
trachea la attraversa con una certa difficoltà, perché il calibro della trachea è ridotto, ma siccome via via che
si va verso la periferia la sommatoria delle sezioni aumenta progressivamente, diminuisce la resistenza. Per
lo stesso motivo la probabilità di collabimento della parete si riduce, e siccome la cartilagine ha la funzione
di rendere rigido il sistema ed evitare che collabisca durante l’inspirazione, dalla trachea all’albero
bronchiale si riduce la componente cartilaginea. La tonaca continua a chiamarsi fibrocartilaginea anche in
assenza di cartilagine. Contemporaneamente alla diminuzione della componente cartilaginea nella tonaca
fibrocartilaginea aumenta la componente di muscolatura liscia.
Struttura della via aerea (a valle del bronco lobare):
Bronco lobare:
Il bronco lobare presenta 2 differenze rispetto alla struttura dei bronchi che lo precedono:
- a livello della tonaca fibrocartilaginea la cartilagine è disposta non più ad anelli incompleti, ma a placche;
- la muscolatura liscia, che prima costituiva il muscolo tracheale ed era formata da fibre trasversali, assume
una disposizione spiraliforme.
Bronchiolo terminale:
Il bronco o bronchiolo lobulare si divide monopodicamente in più bronchioli terminali. La differenza tra
bronchioli lobulari e terminali è che il bronchiolo terminale non presenta cartilagine: la tonaca
fibrocartilaginea (che continua ad essere chiamata così se pur in maniera impropria) non presenta più questa
componente perché il rischio di collabimento è azzerato. Al suo posto è presente muscolatura liscia.
Le fibre muscolari lisce nella via aerea, laddove la cartilagine è a placche, sono disposte in maniera
spiraliforme, né circolare né longitudinale. In un’arteriola la tonaca media è composta da muscolatura liscia
disposta circolarmente, quindi se si contrae il calibro diminuisce e aumenta la resistenza al flusso del sangue,
se si rilascia il calibro aumenta e la resistenza al flusso diminuisce. Se invece la muscolatura liscia fosse
disposta in maniera longitudinale ad ogni contrazione si accorcerebbe il tratto. Quindi nell’albero bronchiale,
in cui la muscolatura liscia è spiraliforme, quando questa si contrae si ottiene una restrizione di calibro e
un’accorciamento del condotto; se invece viene rilasciata il calibro aumenta e il condotto si allunga. La
disposizione spiraliforme delle fibre muscolari lisce nel corpo umano è appannaggio dell’albero bronchiale.
Questa organizzazione permette una variazione del calibro della via aerea al bisogno per soddisfare le
esigenze di ossigenazione. In caso di aumento delle necessità metaboliche interviene il simpatico a livello
cardiaco producendo i 4 effetti positivi finalizzati ad aumentare la velocità di circolo e la disponibilità di
sangue. Quest’evento è necessario ma non sufficiente: aumenta anche la frequenza e la velocità del respiro.
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Tuttavia questo non è ancora sufficiente: ci dev’essere anche broncodilatazione affinché nell’unità di tempo
in quella sezione passi più aria. Quindi nel caso di aumento della necessità metabolica avviene un aumento
della velocità di circolo, della frequenza e della profondità degli atti respiratori e si ha broncodilatazione. La
broncodilatazione è determinata dal rilasciamento (attivo) della muscolatura liscia tracheobronchiale, che si
accompagna ad un aumento di calibro che riduce la resistenza al passaggio dell’aria e aumenta l’efficienza
del sistema. Al contrario nel caso di diminuzione delle necessità metaboliche diminuisce la frequenza
respiratoria, aumenta leggermente la profondità del respiro e si ha una leggera broncocostrizione.
Quest’organizzazione ha la funzione rendere possibile l’adattamento del corpo alle esigenze metaboliche.
A determinare la broncodilatazione e la broncocostrizione è il sistema nervoso autonomo, che esiste nelle 2
componenti simpatica e parasimpatica. Nella via aerea il simpatico inibisce la contrazione e le secrezioni
tracheobronchiali, mentre il parasimpatico stimola la contrazione e le secrezioni tracheobronchiali,
esattamente il contrario di quello che succede a livello cardiaco: il simpatico non ha sempre funzione
stimolatoria e il parasimpatico non ha sempre funzione inibitoria.
Questa organizzazione delle vie aeree è molto importante dal punto di vista clinico. Ad esempio nei soggetti
asmatici durante le crisi alla condizione di infiammazione si aggiunge broncocostrizione, che contribuisce a
determinare fame d’aria. Anche nelle crisi di panico il soggetto ha fame d’aria, perché, benché a livello
cardiaco ci sia stimolazione, a livello respiratorio prevale l’azione del parasimpatico che causa
broncocostrizione.
Bronchiolo respiratorio:
Nel bronchiolo respiratorio, come nel bronchiolo terminale, è presente muscolatura liscia nella tonaca
fibrocartilaginea. Inoltre a questo livello si modifica la tonaca mucosa, sia l’epitelio di rivestimento sia la
tonaca propria. In realtà questo processo comincia a livello del bronchiolo terminale.
A livello dell’epitelio di rivestimento diminuisce fortemente la componente di cellule mucipare e, di
conseguenza, di cellule ciliate (le cellule ciliate esistono solo in funzione delle cellule mucipare). Il
vantaggio di questa condizione sta nel fatto che, dato che il calibro del bronchiolo respiratorio è strettissimo,
con la presenza di muco questo si ridurrebbe ulteriormente fino ad ostacolare il processo di ematosi. Quindi a
questo livello non sono presenti cellule caliciformi. La logica evoluzionistica è quella secondo cui, se il
particolato non è stato intrappolato dalle precedenti diramazioni bronchiali, difficilmente sarà intrappolato a
questo livello. Al loro posto sono presenti cellule di Clara, cellule globose che presentano a livello della
membrana apicale evaginazioni con lo scopo di aumentare la superficie. Le cellule di Clara all’interno sono
piene di granuli che contengono un secreto formato da una componente acquosa e da strutture dette corpi
lamellari, formati da più strati concentrici. Queste formazioni vengono liberate tonicamente, cioè
periodicamente, all’interno del lume del bronchiolo respiratorio. I corpi lamellari chimicamente sono doppi
strati fosfolipidici. In particolare si tratta di proteolipidi, aggregati di fosfolipidi disposti in doppio strato con
legate ogni tanto delle proteine (diversi dalle lipoproteine, che sono proteine che presentano un gruppo
prostatico di natura lipidica). Dunque a tappezzare la parete interna del bronchiolo respiratorio è presente
questa sostanza, con funzione tensioattiva: riduce la tensione superficiale di un liquido. Il bronchiolo
respiratorio rimane pervio sia durante l’inspirazione sia durante l’espirazione grazie all’azione del
tensioattivo che riduce le forze di coesione, le quali tenderebbero a far collabire le pareti sia durante
l’inspirazione sia durante l’espirazione. Il tensioattivo svolge quindi l’azione di ridurre la tensione
superficiale, cioè la forza che si esercita su una superficie. La presenza delle cellule di Clara è quindi
indispensabile alla vita. La controprova sta nel fatto che i bambini che nascono prematuri, i quali hanno una
minor produzione di tensioattivo, hanno gravi difficoltà respiratorie e necessitano di terapie al cortisone che
stimolano la maturazione delle cellule di Clara, affinché possa produrre una quantità di tensioattivo
sufficiente.
Il secreto delle cellule di Clara ha sia una componente lipidica, che spiega l’azione tensioattiva, sia una
componente proteica. Le proteine che ne fanno parte appartengono alla categoria delle opsonine, proteine
che una volta immessa in un ambiente ha la possibilità di legarsi a batteri. Una volta che il batterio viene
marcato dalla opsonina esso è riconoscibile dai macrofagi che popolano le vie aeree, che lo attaccano e lo
distruggono. Quindi il secreto delle cellule di Clara ha una duplice funzione: tensioattiva e immunitaria.
Inoltre livello della tonaca propria il bronchiolo respiratorio assume una composizione particolarmente ricca
di fibre elastiche, che sono presenti anche nelle precedenti diramazioni bronchiali ma con densità
progressivamente minore. Questa caratteristica è importante: significa che a quel livello è previsto un
movimento “a fisarmonica”. La presenza delle fibre elastiche nel parenchima polmonare ha un ruolo
essenziale ai fini dell’omeostasi e della funzione respiratoria.
Inoltre lungo la via aerea nella tonaca sottomucosa diminuisce progressivamente la presenza di ghiandole
sottomucose, tanto che nel bronchiolo terminale ce ne sono poche e nel bronchiolo respiratorio nessuna.
Questo perché a questo livello non servono più, anzi potrebbero rappresentare un danno, poiché il loro
eventuale secreto andrebbe a ridurre il calibro respiratorio.
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Sacco alveolare e alveolo polmonare:
Il sacco alveolare è composto da tante celle, gli alveoli, che si aprono nello stesso corridoio. All’esterno degli
alveoli è presente una rete vascolare che nasce dalla ramificazione dell’arteria polmonare, per dare poi
origine a capillari e vene che diventeranno le vene polmonari in uscita.
Ogni alveolo è piriforme e rappresenta una sezione di sfera (più di metà sfera) ingabbiata da una rete di
capillari. Ad ogni alveolo si accede attraverso un prolungamento del bronchiolo respiratorio, il condotto
alveolare. Questa struttura non è considerata come ramificazione dell’albero bronchiale.
La parete del condotto alveolare è esattamente identica a quella del bronchiolo respiratorio. Il condotto
alveolare non si trova soltanto all’apice dell’alveolo, ma anche dentro: il sacco alveolare è il risultato della
dilatazione della parete del condotto alveolare a formare tante celle che si aprono tutte sullo stesso spazio
aereo in tutte le direzioni. Di conseguenza la parete del sacco alveolare è uguale alla parete del singolo
alveolo.
Un alveolo ha la forma di una sezione di sfera, più di una emisfera (circa 3/5 di sfera). La parete di un
alveolo è composta soltanto da 2 tipi cellulari: cellule alveolari o pneumociti di 1° tipo e di 2° tipo.
Le cellule alveolari di 2° tipo ricordano molto le cellule di Clara: sono cellule globose, con evaginazioni a
livello della membrana apicale e che contengono corpi lamellari. Esse rappresentano il 60% della
popolazione cellulare alveolare e producono e secernono una sostanza tensioattiva detta surfattante. Il
surfattante forma un sottile film liquido che tappezza dall’interno la cavità dell’alveolo. Così come il secreto
delle cellule di Clara si stratifica sulla faccia interna del bronchiolo respiratorio, il surfattante si stratifica
sulla faccia interna dell’alveolo e agisce come tensioattivo.
Azione del surfattante nell’alveolo:
Durante l’inspirazione l’aria entra nell’alveolo grazie alla dilatazione dell’alveolo stesso, analogamente a ciò
che accade a livello cardiaco dive la dilatazione del ventricolo determina il passaggio del sangue dall’atrio al
ventricolo. Grazie all’azione dei muscoli respiratori infatti si crea una depressione che determina la
dilatazione dell’alveolo che a sua volta determina l’ingresso dell’aria (è la dilatazione a determinare
l’ingresso dell’aria e non l’ingresso dell’aria a determinare la dilatazione). In particolare la forza che dilata
l’alveolo è quindi la trazione generata dai muscoli respiratori (aumento dei vari diametri del torace,
dilatazione della pleura parietale solidale alla parete toracica, dilatazione della pleura viscerale solidale al
foglietto parietale, dilatazione della superficie esterna del polmone, quindi spostamento centrifugo della
periferia del polmone).
- Durante la inspirazione quindi forze centrifughe dilatano l’alveolo e l’aria entra. L’alveolo tuttavia non
deve dilatarsi a dismisura e per evitare che ciò accada il surfattante che ne tappezza la parete interna si
oppone alle forze centrifughe riducendo la tensione superficiale. Di conseguenza l’alveolo si dilata solo
fino ad un certo punto.
- Durante la espirazione a causa del ritorno elastico della parete dell’alveolo le forze che agiscono sono
centripete, quindi si ha una riduzione del volume interno dell’alveolo che genera un aumento di pressione
all’interno rispetto all’esterno. Tuttavia se queste forze agissero senza controllo si avrebbe il completo
svuotamento dell’alveolo e il collabimento delle pareti e laddove questo accadesse l’alveolo non si
dilaterebbe più alla successiva inspirazione. Questa rappresenta una condizione patologica detta
atelectasia, in cui una zona di polmone non ventila più poiché non riesce più a riempirsi.
La presenza di surfattante è quindi essenziale alla vita: durante l’inspirazione si oppone all’eccessiva
dilatazione dell’alveolo, durante l’espirazione si oppone all’eccessivo svuotamento dell’alveolo.
Infatti anche alla fine di un’espirazione forzata una parte di aria rimane nel polmone, detta volume residuo,
tale per cui se si fa la percussione alla fine di una espirazione comunque si sente suono di tamburo, a
dimostrazione del fatto che gli alveoli non si svuotano mai completamente. Ulteriore controprova è fornita
dal fatto che il volume che occupa un polmone isolato dal proprietario è minore rispetto a quello che occupa
alla fine di una espirazione all’interno del proprietario.
Il surfattante svolge un’ulteriore funzione. La forma a pera del sacco alveolare è funzionale alla distribuzione
uniforme dell’aria a tutti gli alveoli. Inoltre all’apice del sacco alveolare ci sono pochi alveoli affinché l’aria
non si concentri solo nella parte iniziale del sacco alveolare ma si distribuisca a tutti gli alveoli. Se tuttavia
non ci fosse surfattante questa organizzazione determinerebbe un’eccessivo riempimento degli alveoli posti
nella regione apicale del sacco alveolare. Quindi il combinato della forma a pera del sacco alveolare e
dell’azione del surfattante produce l’effetto generale che durante l’inspirazione tutti gli alveoli dello stesso
sacco ricevono aria e subiscono tutti una dilatazione circa della stessa entità. Il vantaggio di riempire
uniformemente tutti gli alveoli sta nel fatto che, essendo ogni alveolo circondato da una rete di capillari,
viene massimizzata la quantità di sangue che partecipa all’ematosi.
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Le forze centrifughe rendono possibile la dilazione dell’alveolo durante la dilatazione grazie alla presenza,
oltre alle cellule di 1° e di 2° tipo che rappresentano l’epitelio di rivestimento e alla membrana basale, di una
tonaca propria ricchissima di fibre elastiche, che permettono il movimento “a fisarmonica” degli alveoli: le
forze centrifughe che agiscono sull’alveolo sono dovute alla distensione delle fibre elastiche, le forze
centripete sono il risultato del ritorno elastico.
Esiste una patologia, l’enfisema polmonare, in cui si ha una perdita di fibre elastiche a seguito di un
processo infiammatorio cronico o di invecchiamento, demolite da elastasi prodotte ad esempio da macrofagi.
Il soggetto enfisematoso apparentemente avverte la sensazione di non riuscire a far entrare aria nei polmoni,
ma in realtà non riesce a svuotare sufficientemente gli alveoli a causa della mancanza del ritorno elastico,
quindi è impedito l’ingresso di aria nuova.
Struttura microscopica dell’alveolo:
Le cellule alveolari di 1° tipo sono cellule estremamente piatte, e sebbene siano numericamente inferiori
rispetto alle cellule alveolari di 2° tipo, la loro forma appiattita fa sì che occupino una superficie molto
ampia. Esse sono incollate le une alle altre e occupano la parete interna dell’alveolo. La loro funzione è
soltanto strutturale, servono solo a costituire la parete interna dell’alveolo.
Tra le cellule alveolari di 1° tipo e le cellule endoteliali dei capillari esiste uno spazio riempito dalle
membrane basali dell’epitelio alveolare e dell’endotelio e da uno strato di fibre elastiche. Nell’alveolo questo
spazio, cioè la distanza tra la superficie aerea e la superficie sanguigna, corrisponde a 500 nm, valore
massimo oltre il quale la diffusione di ossigeno e CO2 è impedita. Per questo motivo non ci possono essere
scambi gassosi nel circolo bronchiale: sebbene ci siano capillari, la distanza tra aria e il capillare è molto
maggiore di 500 nm.
All’interno degli alveoli si trovano macrofagi, che spostandosi da un alveolo all’altro fagocitano elementi
estranei e rimuovono vecchio surfattante, il quale viene rimpiazzato da nuovo surfattante. I macrofagi
possono anche risalire nel bronchiolo respiratorio e qui svolgere la stessa funzione di pulizia, rimuovendo
inoltre il secreto delle cellule di Clara (surfattante ricco di opsonine).
In sintesi via via che si passa dalla trachea alle ultime diramazioni bronchiali, cioè i bronchioli respiratori, si
ha una progressiva diminuzione della componente cartilaginea: già a livello del bronchiolo terminale non c’è
più cartilagine nella tonaca fibrocartilaginea. In contemporanea si ha un’aumento progressivo della densità di
cellule muscolari lisce organizzate con andamento a spirale, disposizione funzionale a rendere possibile
l’adattamento della funzione respiratoria alle necessità metaboliche. In particolare il sistema simpatico
inibisce la muscolatura liscia tracheobronchiale, quindi ne induce il rilasciamento che si traduce in un
aumento del calibro e contestualmente in un leggero allungamento del bronco; il sistema parasimpatico
invece eccita la muscolatura tracheobronchiale, quindi ne induce la contrazione che determina una leggera
broncocostrizione e contestualmente un leggero accorciamento del bronco, che compensando la riduzione di
calibro.
Questa regolazione non avviene soltanto quando si ha necessità di aumentare l’afflusso di aria (rilasciamento
della muscolatura) o quando non si ha necessità di grande ventilazione (contrazione della muscolature), ma
anche durante la respirazione tranquilla: durante l’inspirazione prevale momentaneamente l’attività
simpatica, quindi il calibro tracheobronchiale aumenta per facilitare l’ingresso dell’aria, mentre durante
l’espirazione prevale, se pur leggermente, il parasimpatico, quindi si ha una leggera broncocostrizione.
Sebbene ciò possa sembrare un controsenso, in quanto determinerebbe difficoltà del sacco alveolare a
svuotarsi quando invece ci si dovrebbe liberare di CO2, in realtà non lo è: se si riduce il calibro dell’albero
bronchiale si riduce il deflusso di aria dagli alveoli verso l’esterno, quindi l’aria inspirata rimane più a lungo
dentro il sacco alveolare.
Questo rappresenta un duplice vantaggio:
1) Posto che quando si inspira non tutto l’ossigeno dell’aria finisce nel sangue (se così non fosse sarebbe
inutile operare la respirazione bocca a bocca), ritardando il deflusso l’aria inspirata rimane più a lungo
all’interno dell’alveolo e si favorisce l’ematosi.
2) L’aria che rimane all’interno dell’alveolo esercita una pressione sulle pareti dell’alveolo, aiutando così il
surfattante ad impedire il collabimento delle pareti dell’alveolo.
La controprova sta nel fenomeno dell’aritmia respiratoria, che si manifesta nei soggetti giovani: durante
l’inspirazione profonda il battito cardiaco accelera, mentre durante l’espirazione forzata il battito decelera.
Ciò significa che durante l’inspirazione prevale l’attività simpatica che aumenta la frequenza cardiaca
(effetto cronotropo positivo), mentre durante l’espirazione forzata prevale il parasimpatico che diminuisce la
frequenza cardiaca (effetto cronotropo negativo).
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Linfonodi della via aerea:
A livello della via aerea si sono presenti, come in tutto il mediastino, numerose strutture linfonodali (14
catene linfonodali in tutto il mediastino). In particolare ci sono i linfonodi paratracheali, catene di linfonodi
che affiancano la trachea, i linfonodi della biforcazione a livello della biforcazione della trachea, altri
linfonodi attorno ai bronchi principali, i linfonodi ilàri a livello dell’ilo del polmone, ecc.. Tutti questi
linfonodi sono tra loro concatenati: c’è un primo linfonodo che riceve linfa dal tessuto e linfonodi successivi
che ricevono linfa uno dopo l’altro, secondo un flusso a senso unico obbligato dalla periferia al centro. Ci
sono linfonodi anche all’intorno dell’aorta e a livello dell’esofago, per la sua porzione sottostante la
biforcazione della trachea.
La linfa arrivata ai linfonodi finisce in 2 condotti linfatici molto sottili, i dotti broncomediastinici, di destra
e di sinistra, che sono dotti collettori della linfa che proviene dall’albero bronchiale, dal cuore, dall’esofago.
Queste strutture risalgono verso l’alto nel mediastino superiore e sboccano nei dotti succlavi, di destra e di
sinistra, compagni delle vene succlavie di destra e di sinistra, i quali a loro volta finiscono nel dotto
toracico. A sinistra può succedere che il dotto broncomediastinico finisca direttamente dentro al dotto
toracico. Questo perché il dotto toracico risalendo si sposta sempre più a sinistra della linea di mezzo per poi
scavalcare l’apice del polmone di sinistra e gettarsi nella vena succlavia di sinistra.
Tutta la linfa reflua dal torace, ma anche dal tratto superiore del collo, tramite il dotto toracico va a finire nel
circolo generale della vena succlavia di sinistra, quindi si mischia con il sangue: la linfa, sostanza derivata
dal plasma, viene recuperata tornando a far parte del plasma.
La funzione linfonodale è quella di processare la linfa eliminando sostanze che non vi devono essere e
recuperare liquidi. Tuttavia i linfonodi in caso di tumore hanno un’alta probabilità di ricevere metastasi dagli
organi vicini determinando la diffusione di cellule metastatiche nella linfa, quindi nel sangue e tramite questo
a tutto l’organismo (questo spiega la presenza di metastasi anche a grande distanza dall’organo di origine del
tumore). Inoltre la presenza di metastasi a livello linfonodale determina l’ingrossamento di queste strutture, il
che può causare la compressione di strutture vicine e dare quindi sintomi, come nel caso di compressione del
nervo frenico. Di conseguenza la componente linfonodale è importante, perché in caso di tumore non si
asporta soltanto l’organo dove si è generato il tumore, ma anche i linfonodi che ne drenano la linfa.
Ad esempio nel caso del cancro al seno non si opera soltanto la quadrantectomia (asportazione chirurgica di
una massa tumorale e del tessuto sano circostante, senza compromettere la funzionalità dell'organo o
dell’apparato) o, dove necessario, l’asportazione della mammella, ma si analizza anche la componente
linfonodale e, nel caso in cui il linfonodo sentinella (il primo linfonodo a essere raggiunto da eventuali
metastasi a partenza dai tumori maligni che diffondono per via linfatica) risulti positivo, si asportano anche i
linfonodi del cavo ascellare, in particolare un gruppo di linfonodi detti linfonodi anteriori.
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SCHELETRO DELL’ADDOME:
L’addome ha una componente scheletrica limitata, poiché gran parte della parete addominale è molle. Questa
condizione è necessaria per permettere i movimenti (flessione, estensione, inclinazione a destra e a sinistra e
torsione) ma soprattutto per permettere l’accrescimento dell’utero durante la gravidanza.
Lo scheletro dell’addome è composto dalla colonna lombare (L1-L5) e dalla grande pelvi.
Pelvi:
La pelvi è costituita dall’insieme di 3 ossa: 1 impari, l’osso sacro, e 2 pari, le ossa dell’anca.
L’osso sacro è un osso posteriore che visto dal davanti e dal dietro appare come un triangolo con l’apice in
basso e la base in alto, ma in realtà è un organo tridimensionale con una profondità, se pur ridotta. Esso si
articola a destra e a sinistra con le 2 ossa dell’anca, ognuno dei quali ha la forma di “8” ma con delle
particolarità: appare rovesciato, nel senso che la parte superiore è maggiore della parte inferiore; la parte
inferiore presenta una pervietà, il forame otturatorio, che invece la parte superiore non presenta; la parte
superiore e la parte inferiore non giacciono sullo stesso piano ma sono ruotati di circa 90° l’uno rispetto
all’altro, in particolare la parte superiore è disposta a formare una conchetta aperta in avanti e medialmente e
la parte inferiore volge medialmente, tanto che i due pubi al davanti e in basso si articolano tra loro a formare
quella che si chiama sinfisi pubica. Si parla di sinfisi quando le superfici ossee non sono articolari, quindi
non si articolano tra loro, ma in mezzo ad esse si pone un disco fibroso del tipo del disco intervertebrale. Le
sinfisi rappresentano articolazioni semi-mobili, una via di mezzo tra un’articolazione mobile e
un’articolazione immobile (sinartrosi), e presentano un piccolo grado di mobilità. Nel caso della sinfisi
pubica questo grado di mobilità è importante durante la gravidanza e soprattutto durante il parto: al momento
del parto grazie al progesterone il disco fibroso è reso più morbido (uno degli effetti del progesterone è
quello di ammorbidire il tessuto connettivo) quindi le 2 branche pubiche tendono ad allontanarsi per
facilitare l’espulsione del feto.
Posteriormente l’osso dell’anca, attraverso una superficie articolare molto rugosa che si trova sulla faccia
interna, si articola con un tratto laterale e superiore dell’osso sacro, una quasi omologa superficie articolare,
la superficie auricolare, a formare un’articolazione anch’essa semi-mobile, ma che non presenta disco
fibroso ed tenuta insieme soltanto da una serie di legamenti. La superficie auricolare del sacro riguarda
soltanto le prime 2 vertebre sacrali: i peduncoli delle prime 2 vertebre sacrali si associano per formare
un’unica superficie con cui l’osso sacro si articola con l’omologa superficie articolare dell’ileo.
Si viene così a creare una struttura a forma di conchetta detta bacino o pelvi.
La pelvi è formata da una parte superiore, grande pelvi, e una inferiore, piccola pelvi. La parte superiore è
più svasata verso l’alto e presenta diametri anteroposteriore e trasverso maggiori rispetto a quella inferiore.
Tra grande pelvi e piccola pelvi c’è un passaggio netto, rappresentato da una linea composta da 2 metà
simmetriche, ognuna delle quali si diparte dal promontorio del sacro (struttura che nasce dalla sporgenza in
avanti del corpo della 1° vertebra sacrale, simile al becco di un’anatra), attraversa sul davanti l’ala del sacro
corrispondente (le ali del sacro sono strutture formate dalla fusione dei peduncoli delle prime 2 vertebre
sacrali, a destra e a sinistra, che viste dall’alto sembrano le ali di un uccello la cui testa è il corpo della 1°
vertebra sacrale) e giunta all’altezza dell’articolazione sacroiliaca si continua lungo il confine tra ileo (osso
craniale dell’osso dell’anca) superiormente e branca superiore del pube inferiormente. Si disegnano così 2
semiellissi, ciascuna delle quali prende il nome di linea arcuata o linea innominata e seguendo le quali si
passa dall’ileo alla branca superiore del pube e da qui si arriva alla sinfisi pubica. Essendo le linee arcuate
simmetriche, esse disegnano uno spazio, che è vuoto: non presenta alcun tipo di diaframma.
La linea arcuata rappresenta una linea netta che segna il confine tra un piano più craniale e un piano più
caudale: la superficie interna dell’osso dell’ileo, la fossa iliaca, è concava fino al livello della linea arcuata,
dove termina la concavità e, come se si scendesse un gradino, si passa ad un piano più caudale.
Stretto superiore della pelvi:
Giustapponendo le 2 linee arcuate simmetriche si ottiene quello che si chiama stretto superiore della pelvi,
che marca il passaggio dalla piccola pelvi alla grande pelvi e viceversa (esiste anche uno stretto inferiore
della pelvi). Lo stretto superiore ha morfologia diversa nel maschio e nella femmina: nel maschio tende ad
essere più circolare, cioè presenta un diametro anteroposteriore molto simile al diametro trasverso, nella
femmina è ellittico, cioè presenta un diametro trasverso maggiore del diametro anteroposteriore. Questa
caratteristica risponde ad una necessità: attraverso questo stretto deve passare la testa del feto, la parte più
grande del feto, che ha la forma di ovoide, cioè presenta un diametro maggiore e uno minore. Infatti durante
il parto la testa del feto subisce una rotazione verso destra o verso sinistra in maniera tale che la fronte
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guarda verso una delle fosse iliache, così che il diametro maggiore della testa si infili nel diametro maggiore
della pelvi, quello trasverso.
Esiste un’altra differenza di sesso a livello della pelvi ed è relativa all’angolo sottopubico: le 2 ossa del pube
hanno la forma di “L” ruotata di 90° e sono affrontate per il lato corto, cioè la branca inferiore del pube. Le
branche inferiori del pube, oltrepassata la sinfisi pubica, tendono a divergere verso il basso e lateralmente per
poi diventare ischio. Così si viene a determinare un angolo, l’angolo sottopubico, che nel maschio è acuto e
nella femmina è ottuso a causa della presenza a quel livello del vestibolo vaginale, attraverso il quale deve
passare il feto.
Per convenzione tutto ciò che si trova sopra il piano immaginario dello stretto superiore della pelvi e sotto il
diaframma rappresenta l’addome, mentre tutto ciò che si trova sotto questo piano rappresenta la pelvi.
In realtà non esistono piani anatomici che dividono addome e pelvi: queste cavità comunicano liberamente.
Il piano immaginario poggiato sullo stretto superiore della pelvi è inclinato di circa 60°- 65° in basso e in
avanti. Quest’inclinazione è importante perché a causa di ciò gli organi pelvici proiettano sulla parete
superiore dell’addome, e ciò ne permette la visione anche attraverso un’ecografia.
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CAVITA’ ADDOMINALE:
Struttura e generalità:
Il limite superiore dell’addome è rappresentato dal diaframma, struttura cupoliforme il cui apice si trova
all’altezza del processo xifoideo dello sterno e proietta circa a T9, quindi non coincide con il profilo osseo
della gabbia toracica. Questo determina 2 conseguenze dal punto di vista della componente scheletrica di
torace e addome: lo scheletro del torace concorre a formare anche lo scheletro dell’addome e, al contrario,
non tutta la colonna lombare è addominale, perché i pilastri intermedi del muscolo diaframma finiscono a L4
e L5. Di conseguenza alcuni organi addominali sono incastrati nella concavità del diaframma e proiettano
sullo scheletro della gabbia toracica. Ad esempio i reni proiettano in parte a livello della parete molle
posteriore, in parte alle ultime 2 coste, ma non per questo sono organi toracici; allo stesso modo la milza
proietta a livello della parete costale di sinistra, ma trovandosi al di sorto del diaframma è un organo
addominale.
All’interno dell’addome non ci sono molti organi dal punto di vista numerico. Tuttavia si tratta di organi
grandi e/o lunghi. In particolare l’addome accoglie organi dell’apparato digerente (gran parte dell’apparato
digerente si trova nell’addome), organi dell’apparato urinario e 2 ghiandole endocrine (ghiandole surrenali).
Per descrivere in maniera compiuta la topografia degli organi addominali, importante ai fini della diagnosi
sia clinica sia strumentale e ai fini della terapia, soprattutto chirurgica, ci si avvale di un sistema di divisione
della parate addominale, in particolare del suo versante anteriore. Essa viene divisa in 9 quadranti, i cui nomi
si applicano anche alle corrispondenti parti profonde. A questo scopo vengono si individuano delle linee di
riferimento:
- 2 linee emiclaveari, che partono dal punto medio della clavicola e raggiungono il tubercolo pubico
(piccola protuberanza a livello della branca superiore del pube posta ad un paio di cm dalla sinfisi pubica),
una a destra e una a sinistra. Non sono parallele tra loro ma convergono in un punto inferiore.
- 3 linee parallele tra loro e parallele al piano terra: linea basisternale, che passa a livello dell’articolazione
tra corpo e processo xifoideo dello sterno; linea biscostale (o sottocostale), che va dalla parte più declive
di un’arcata condrocostale alla parte più declive dell’altra arcata condrocostale; linea bisiliaca, che unisce
le 2 spine iliache anteriori superiori (esistono anche le spine iliache inferiori), che rappresentano l’estremo
ventrale e craniale della cresta iliaca, il margine superiore dell’osso dell’anca, in particolare dell’ileo.
- 2 linee che uniscono le spine iliache anteriori superiori al tubercolo pubico (le uniche 2 linee che
corrispondono a qualcosa in un corpo umano: corrisponde alla piega dell’inguine, piega inguinale, di
destra e di sinistra, che marca il passaggio dalla parete addominale anteriore alla coscia sottostante).
- 2 linee (che corrispondono alle linee ascellari anteriori) che si dipartono dal margine laterale del muscolo
grande pettorale e raggiungono la spina iliaca anteriore superiore.
Si formano quindi 9 quadranti, 3 coppie laterali e 3 elementi singoli intermedi, che non sono né simmetrici
né di dimensioni uguali perché la linea emiclaveare non è perpendicolare al piano terra ma obliqua:
- Epigastrio: rappresenta il quadrante in alto e in mezzo, letteralmente significa “sopra lo stomaco” ed
effettivamente copre, tra le altre cose, lo stomaco.
- Ipogastrio: è il quadrante in basso e in mezzo, si trova immediatamente al di sopra della sinfisi pubica e
letteralmente significa “sotto lo stomaco”, ma questa volta non ha niente a che vedere con lo stomaco, il
nome deriva soltanto dall’assonanza con l’epigastrio.
- Mesogastrio: è il quadrante in mezzo al centro, regione tutt’attorno alla cicatrice ombelicale, “meso”
significa “in mezzo”, ad indicare che questa regione si trova tra epigastrio ed ipogastrio.
- Ipocondrio: con il termine ipocondrio si indicano i 2 quadranti laterali, di destra e di sinistra, in alto, ai
lati dell’epigastrio. Letteralmente significa “sotto la cartilagine”, intendendo per cartilagine l’arcata
condrocostale, ma si estende anche alla regione soprastante.
- Regioni del fianco: rappresentano i 2 quadranti laterali, di destra e di sinistra, in mezzo, sotto le regioni
ipogastriche, ai lati del mesogastrio.
- Regioni inguinoaddominali: rappresentano i 2 quadranti laterali, di destra e di sinistra, in basso, ai lati
dell’ipogastrio. Il nome deriva dal fatto che la piega inguinale marca il confine tra parete addominale
anteriore e coscia, quindi per indicare la regione che si trova sotto la linea bisiliaca e sopra la piega
inguinale si usa l’aggettivo inguinoaddominale (regione dell’inguine ma dal versante dell’addome),
mentre ciò che sta sotto la linea inguinale è la regione inguinofemorale o inguinocrurale (“crus-is” in
latino significa “coscia”).
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APPARATO DIGERENTE:
Se si asporta la parete anteriore dell’addome si osservano quasi esclusivamente organi dell’apparato
digerente, poiché gli organi dell’apparato urinario sono molto dorsali, quindi coperti (soltanto all’estremo di
sinistra, nell’ipocondrio di sinistra, si intravede un profilo della milza che sporge da dietro lo stomaco).
In particolare si individuano: l’ultima parte di esofago (esofago addominale), lo stomaco e da 8 a 10 m di
intestino, in parte piccolo o tenue, in parte grosso o crasso.
L’intestino crasso, o grosso intestino, ha anche un altro nome: colon, che viene dal greco e significa “pausa”,
“cosa che scorre lentamente”, poiché il suo contenuto viaggia molto più lentamente rispetto al piccolo
intestino, come se rallentasse. Il piccolo intestino è detto così perché ha un calibro di 3 cm, minore di quello
del grosso intestino, 6-7 cm. Tuttavia il piccolo intestino è mediamente lungo 6 m, mentre il grosso intestino
1,6-1,8 m.
Tutte queste strutture sono distribuite in serie, l’una dopo l’altra, formando nel complesso il tubo digerente.
Regione sopramesocolica:
La regione sopramesocolica risulta la sommatoria di ipocondrio si sinistra, ipocondrio di destra e epigastrio,
mentre la regione sottomesocolica coincide con i restanti 6 quadranti. I suoi limiti sono il colon trasverso e il
mesocolon trasverso inferiormente, il muscolo diaframma superiormente, posteriormente, lateralmente e fino
alle arcate condrocostali anteriormente, la regione di parete anteriore compresa tra le 2 arcate condrocostali
(che coincide con l’epigastrio e una piccola parte dell’ipocondrio) per la restante parte anteriormente. La
regione sopramesocolica appare come una bacinella rovesciata che accoglie una serie di organi, che non
sempre sono completamente visibili. Ad esempio la milza, gran parte del fegato e gran parte dello stomaco si
nascondono dietro la parete anteriore della gabbia toracica (sotto alla quale c’è diaframma, quindi anche
dietro al diaframma) e altri organi sono coperti da fegato, stomaco e milza.
Questa regione dunque è concava verso il basso e la sua concavità è riempita principalmente da 3 organi, da
destra a sinistra: fegato, stomaco e milza, imbricati tra loro, cioè parzialmente sovrapposti (come le tegole di
un tetto): il fegato copre parzialmente lo stomaco, che copre parzialmente la milza.
Ghiandole annesse all’apparato digerente:
Annesse al tubo digerente ci sono 3 ghiandole:
- Il fegato, l’organo più grande del corpo, arriva a pesare 1,6 kg ed è una ghiandola annessa all’apparato
digerente (non è semplicemente una ghiandola, ma un organo vitale, l’organo centrale di tutti e 3 i
metabolismi).
- Sotto al fegato si trova la colecisti o cistifellea, ghiandola che rappresenta il serbatoio della bile, sebbene
non la produca (la bile è prodotta dal fegato, quindi tecnicamente la colecisti non sarebbe una ghiandola).
La colecisti concentra e mantiene la bile prodotta del fegato e la secerne soltanto al momento
dell’introduzione di grassi attraverso la dieta.
- Il pancreas, nella sua componente esocrina, rappresenta la 3° ghiandola annessa all’apparato digerente.
Fegato, colecisti, stomaco, esofago addominale, una piccola parte del piccolo intestino e gran parte del
pancreas si trovano ad occupare ipocondrio di destra, ipocondrio di sinistra e epigastrio, quindi si trovano ad
occupare la regione più craniale dell’addome, mentre gran parte del piccolo intestino occupa tutte le altre
regioni, occupando uno spazio delimitato da una cornice costituita da gran parte del grosso intestino. Quindi
l’insieme della gran parte del piccolo intestino e della gran parte del grosso intestino si trovano nei restanti 6
quadranti inferiori.
In particolare le 3 ghiandole annesse all’apparato digerente, fegato, colecisti e pancreas, sono tutte
localizzate nella parte alta dell’addome. Questa localizzazione non è casuale, ma risponde ad una necessità.
Infatti gli enzimi digestivi che servono a digerire gli alimenti che passano nel piccolo intestino provengono
prevalentemente dal pancreas esocrino, struttura necessaria ma non sufficiente ad operare la digestione,
perché il piccolo intestino contribuisce con enzimi di sua produzione al completamento della digestione. La
posizione del pancreas, organo produttore di enzimi, deve essere quindi molto vicina all’inizio dell’intestino,
poiché queste sostanze devono esservi riversate: i condotti escretori del pancreas, che sono 2, devono
sboccare nella primissima parte dell’intestino. Questo spiega il motivo per cui il pancreas si trova nella parte
alta.
Inoltre affinché avvenga in maniera ottimale la digestione dei grassi e il loro assorbimento è necessaria la
presenza di un prodotto, la bile, fatta di sali biliari, molecole anfipatiche (con una parte polare e una parte a
polare), che di per sé è un prodotto di rifiuto. La bile è prodotta dal fegato, che la produce continuamente, 24
ore al giorno, da 500 a 600 mL al giorno. Questa sostanza viene poi eliminata con le feci ed ha una funzione
molto importante: funge da principale lubrificante del piccolo e (soprattutto) del grande intestino, serve a
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veicolare prodotti di rifiuto liposolubili, ad esempio ormoni stereoidei da smaltire o di farmaci liposolubili, e
l’emoglobina, prodotto del catabolismo dei globuli rossi. Per svolgere quest’ultimo compito la bile deve
necessariamente essere grassa e questa sua caratteristica viene sfruttata per lubrificare l’intestino (in realtà il
piccolo intestino non necessita di lubrificazione perché il contenuto che vi viaggia è fluido, il problema
insorge nel grosso intestino, in cui l’assorbimento di acqua e ioni aumenta la resistenza al passaggio). La bile
quindi, in quanto necessaria per ottimizzare la digestione dei grassi e per l’assorbimento di acidi grassi e
glicerolo, deve essere anch’essa riversata nella prima parte dell’intestino. Infatti fegato e colecisti immettono
bile circa nello stesso punto in cui vengono immessi gli enzimi pancreatici. Per questo motivo anche fegato e
colecisti sono localizzati nella parte alta dell’addome.
Ciò che è contenuto nel grosso intestino, considerando che anche acqua e ioni vengono assorbiti, da fluido si
compatta via via che progredisce, diventando sempre più solido e determinando un aumento della resistenza
al passaggio. Di conseguenza è necessario un lubrificante che favorisca il passaggio del contenuto
dell’intestino: la bile.
La bile è responsabile del colore delle feci. Dall’osservazione delle feci si traggono importanti informazioni:
feci chiare, dette poltacee, indicano una mancanza di bile, che può essere attribuita ad una serie di patologie
che riguardano le vie biliari o il fegato, mentre feci molto scure sono indice di emorragia alta del tratto
gastroenterico.
Il piano alto dell’addome è quindi occupato dallo stomaco e dalle 3 ghiandole annesse all’apparato digerente
(quelle del tratto sottodiaframmatico, esistono infatti anche altre ghiandole annesse all’apparato digerente, ad
esempio le ghiandole salivari).
Stomaco:
L’apparato digerente consta di una componente che appartiene allo splancnocranio. Il bolo (il cibo che viene
deglutito prende il nome di bolo) passa dalla bocca alla faringe e da qui raggiunge l’esofago. Bocca, faringe
ed esofago servono soltanto a trasportare il bolo deglutito allo stomaco, non hanno funzione digestiva
(soltanto la saliva prodotta dalle ghiandole salivari ha una debole funzione digestiva degli zuccheri grazie
all’amilasi salivare, ma è trascurabile). In seguito il bolo passa dall’esofago allo stomaco, organo di
lunghezza media di 35 cm circa situato nella parte alta dell’addome. Quest’organo è un tubo che si è dilatato
in maniera asimmetrica, conformazione funzionale ad accogliere il bolo deglutito e mantenerlo dai 30 ai 60
minuti circa, mescolandolo con il prodotto della secrezione dello stomaco, il succo gastrico. Lo stomaco
inoltre ha funzione digestiva: nello stomaco comincia la digestione delle proteine, sebbene non venga
completata (non ha nessuna funzione digestiva nei confronti né dei carboidrati né dei grassi). Lo stomaco ha
quindi 3 funzioni: accogliere e mantenere il bolo, mescolarlo con il succo gastrico e iniziare la digestione
delle proteine e la conformazione di tubo dilatato in maniera asimmetrica risponde alla necessità di svolgere
queste funzioni.
Regione sottomesocolica:
E’ detta regione sottomesocolica tutto ciò che sta sotto al piano del colon trasverso e sopra al piano dello
stretto superiore della pelvi.
In questa regione c’è un numero molto limitato di organi: gran parte del grosso intestino, dal suo inizio fino
al colon ileopelvico (e nemmeno tutto, perché in parte si trova nella pelvi), gran parte delle anse intestinali
del piccolo intestino, posteriormente i 2 ureteri e parti di rene.
Piccolo intestino:
Allo stomaco fa seguito il piccolo intestino che mediamente è lungo circa 6 m. A causa della sua notevole
lunghezza esso non può posizionarsi nella parte alta dell’addome, quindi si trova nella parte bassa.
Le funzioni del piccolo intestino sono 2: digestione e assorbimento. In particolare per digestione si intende il
completamento della digestione delle proteine e la digestione dei carboidrati e dei grassi, per assorbimento si
intende l’assorbimento delle molecole semplici che sono il prodotto della digestione. In particolare le
proteine vengono demolite in amminoacidi, i carboidrati, che sono zuccheri complessi, devono essere
demoliti in glucosio, i grassi vengono assorbiti senza bisogno di digestione se sono grassi semplici, mentre
devono essere digeriti nel caso degli zuccheri complessi (ad esempio i trigliceridi devono essere scissi in
glicerolo e acidi grassi).
La funzione di assorbimento deve necessariamente essere preceduta dalla funzione digestiva, quindi questi 2
eventi avvengono in successione temporale: non c’è assorbimento se prima non c’è digestione. Questo è
importante perché esistono sia disturbi della digestione sia disturbi dell’assorbimento, che presentano
sintomatologie simili ma hanno cause differenti, quindi necessitano di terapie differenti. E’ quindi sbagliato
identificare le 2 cose in una.
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Il piccolo intestino è particolarmente lungo perché il processo digestivo e successivamente il processo di
assorbimento avvengano contemporaneamente alla progressione di ciò che è passato dallo stomaco al piccolo
intestino verso il grosso intestino. Il fluido contenuto nel piccolo intestino sotto l’azione peristaltica
progredisce verso il grosso intestino e nello stesso tempo deve mescolarsi con enzimi litici (proteasi, lipasi,
amilasi, maltasi, ecc.) che digeriscono le componenti alimentari di questo fluido nel mentre che avanza. A
questo si deve la particolare estensione del piccolo intestino: grazie a ciò digestione e assorbimento
avvengono mentre il contenuto progredisce. Questi 2 eventi sono infatti di tipo stocastico, quindi la maggior
lunghezza aumenta le probabilità che avvengano, rendendoli possibili.
Il piccolo intestino, in quanto particolarmente lungo, non può essere contenuto nella parte alta dell’addome,
ma si posiziona nella parte bassa dell’addome, dove c’è più spazio. Il piccolo intestino va ad occupare uno
spazio delimitato dal grosso intestino, che quasi disegna una cornice intorno ad esso. Inoltre, visto che è
lungo circa 6 m e dev’essere posizionato in uno spazio relativamente ridotto, esso si dispone nell’addome in
maniera convoluta a formare delle anse, in modo tale da poter minimizzare il volume occupato.
Il piccolo intestino è suddiviso in 3 parti:
- Duodeno: la parte più corta del piccolo intestino, letteralmente significa “12 dita”, ad indicare che la sua
lunghezza corrisponde a circa 24-26 cm, proprio come la lunghezza di 12 dita.
- Digiuno: lungo circa 1,5 m, detto così perché nel cadavere è regolarmente vuoto, perché in questa
struttura il transito è veloce a causa della fluidità di ciò che l’attraversa.
- Ileo: il resto del piccolo intestino, lungo circa 4 m. Letterlmente significa “convoluto”, “contorto”, nome
che deriva dalla morfologia di questa struttura, organizzata ad anse. L’ileo si continua con il grosso
intestino.
Il grosso intestino si dispone a formare una specie di cornice la cui tela è rappresentata dalle anse del piccolo
intestino, soprattutto del digiuno e dell’ileo. Le anse del piccolo intestino hanno una posizione obbligata.
Il duodeno, la parte più corta, è un tubo disposto a formare una “C” aperta verso sinistra, infatti si parla di “C
duodenale”. Essa comincia in un punto che rappresenta la fine dello stomaco e termina risalendo,
continuandosi con il digiuno. Il digiuno deve necessariamente andare verso il basso, perché esso è contenuto
nel piano basso dell’addome quindi, dato che il duodeno si dispone a “C”, esso si trova al confine tra il piano
alto e il piano basso dell’addome. Conseguenza di ciò è che il passaggio tra duodeno e digiuno risulta netto, è
cioè presente un’altra flessura molto acuta: la flessura duodenodigiunale o flessura di Treits. Da questo
punto si sviluppano le anse del piccolo intestino.
Grosso intestino:
Il grosso intestino o intestino crasso o colon si suddivide in 6 segmenti:
- Intestino cieco: è la parte più corta del grosso intestino, è un “cul di sacco”, a fondo cieco, perché l’ultima
ansa ileale finisce ad angolo retto. Infatti mentre l’esofago è coassiale rispetto allo stomaco, che è
coassiale rispetto al duodeno, ecc., l’ileo si continua perpendicolarmente con il grosso intestino dando
origine a questa struttura a fondo cieco.
- Colon ascendente: struttura che sale, va dal basso verso l’alto. In clinica è anche detto colon di destra.
Proprio sotto al fegato cambia direzione e diventa colon trasverso. Il passaggio da colon ascendente a
colon trasverso è improvviso, forma una specie di punto di flesso ad angolo retto, tanto che prede il nome
di flessura colica di destra. Siccome si trova proprio sotto al fegato essa è nota anche come flessura
epatica.
- Colon trasverso: va da destra a sinistra, sebbene non parallelamente al piano terra. Arrivato a sinistra è
obbligato a piegare verso il basso per dare origine al colon discendente. Anche qui il passaggio è netto, si
forma un secondo punto di flesso questa volta ad angolo acuto verso il basso, che prende il nome di
flessura colica di sinistra. Questo accade perché, mentre a destra si trova il fegato che occupa un grande
spazio, a sinistra si trova un organo cavo, lo stomaco, che fa poca resistenza, e la milza, organo
relativamente piccolo, quindi c’è più spazio per il colon trasverso di risalire verso l’alto. Siccome questa
flessura ha rapporto con la milza è detta flessura splenica o lienale (aggettivi di “milza”).
- Colon discendente: è detto anche colon di destra.
Colon ascendente, trasverso e discendente si posizionano nello spazio lasciato libero dall’intestino, quindi
agli estremi.
- Colon ileopelvico o sigmoideo o sigma: è la parte di intestino che collega il colon discendente al retto. Il
colon discendente si estende dalla flessura splenica di sinistra, che si trova nell’ipocondrio di sinistra, fino
alla fossa iliaca di sinistra (da ciò deriva che il colon cieco si trova nella fossa iliaca di destra e che il
colon ascendente si estende dalla fossa iliaca di destra all’ipocondrio di destra). Tuttavia il colon retto si
trova nella piccola pelvi, quindi il tratto che unisce il colon discendente al retto deve essere in parte
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addominale e in parte pelvico. Da ciò deriva il nome ileopelvico, che indica che inizia nella fossa iliaca di
sinistra, che è addome, e finisce nella piccola pelvi. E’ anche detto colon sigma perché complessivamente
disegna una “S”: nel passare dall’addome alla piccola pelvi e da qui a formare il retto forma 2 curve
opposte tra loro.
- Colon retto: detto anche semplicemente retto, è l’ultima parte del grosso intestino. Esso si trova al davanti
dell’osso sacro e ne ricalca la convessità in avanti (cifosi sacrale). Si estende da S3 fino all’apertura anale,
quindi nella piccola pelvi.
La lunghezza del colon trasverso è variabile, mentre le 2 flessure sono fisse. Ciò determina che se è molto
lungo esso si imbarca, formando una struttura con concavità superiore.
Allo stesso modo è variabile la lunghezza del colon ileopelvico. Il colon ileopelvico dalla fossa iliaca di
sinistra scende per raggiungere il piano inferiore, la piccola pelvi, ma essendo obbligato a stare a contatto
con la parete della pelvi, deve flettersi formando una prima curva aperta in alto e medialmente. Questo
comportamento è obbligato, perché qualcosa spinge questo tratto di intestino contro la parete di sinistra. Il
retto si trova al davanti del sacro, in particolare delle ultime 3 vertebre sacrali, S3, S4 e S5. Anche il colon
ileopelvico segue la concavità del sacro, quindi è concavo verso l’avanti. Il colon ileopelvico, una volta
raggiunta la pelvi, nella sua parte sinistra, deve arrivare alla linea di mezzo all’altezza di S3. Nei soggetti che
hanno un colon ileopelvico corto il passaggio è breve: c’è un tratto di segmento che va da sinistra verso la
linea di mezzo quasi in maniera rettilinea e piega per diventare retto, costituendo la seconda curva. In questo
caso ha andamento sigmoideo ma con curve poco accentuate. Se il colon ileopelvico invece è lungo, una
volta raggiunta la pelvi esso compie un’ansa a convessità anteriore, quasi parallela al piano terra, che passa
da sinistra a destra, supera la linea di mezzo e devia verso il basso all’altezza di S3 per diventare retto. In
questo caso si ha una “S” con delle curve più accentuate.
Queste nozioni sono importanti per effettuare l’esame della colonscopia, in cui il gastroenterologo tramite
l’apertura anale fa risalire il colonscopio nel grosso intestino e grazie ad una telecamera può osservare la
parete del grosso intestino.
Mesentere:
Il duodeno è fissato alla parete posteriore e non può muoversi: è un organo immobile. Viceversa il digiuno e
l’ileo sono composti da anse che possono basculare, sono mobili, hanno possibilità di movimento.
Normalmente non si spostano, poiché la parete addominale le contiene (nelle 2 accezioni del verbo), ma
durante la gravidanza si spostano in seguito alla crescita dell’utero, che non potendosi accrescere verso il
dietro o verso il basso si accresce verso l'alto e verso l’avanti (questo è anche il motivo per cui la parete
addominale è molle). Tuttavia esse devono comunque essere connesse da qualcosa alla parete addominale
posteriore, in modo da poter basculare verso l’alto e verso l’avanti: devono essere fissate alla parete
posteriore ma non immobilizzate. La struttura che fissa le anse intestinali alla parete posteriore dell’addome
è il mesentere.
Il mesentere è il meso dell’intestino. Per meso si intende un mezzo di fissità. Esso è parte di una tonaca
sierosa, del tipo delle pleure e del pericardio sieroso, che tappezza da dentro la cavità addominale e quella
pelvica e si evolve in un foglietto parietale e uno viscerale, esattamente come le pleure e come il pericardio
sieroso. Questa tonaca sierosa è detta peritoneo.
Inizialmente il peritoneo è celoma, che contiene la cavità celomatica. In seguito alla formazione e alla
crescita dell’intestino al davanti della colonna vertebrale e dietro al celoma, il tubo intestinale, occupando
spazio, solleva il celoma in una piega. Crescendo in larghezza il tubo si sposta verso l’avanti (dietro c’è la
colonna vertebrale) accentuando la piega del celoma. A questo punto si smette di parlare di celoma e di
cavità celomatica e si comincia a parlare di peritoneo e cavità peritoneale. Il peritoneo, in quanto tonaca
sierosa, è formato da 2 foglietti, di cui uno, quello periferico, è parietale e l’altro, che avvolge
incompletamente l’organo, è viscerale. Tuttavia esistono alcune parti del peritoneo che non sono né parietali
né viscerali, ma che rappresentano la congiunzione tra peritoneo viscerale e peritoneo parietale. Si tratta dei
legamenti peritoneali, strutture del peritoneo che servono a collegare il viscere alla parete, senza tuttavia
immobilizzarlo.
Il mesentere è un legamento peritoneale che collega il digiuno e l’ileo alla parete posteriore dell’addome e ne
rappresenta quindi il mezzo di fissità. Per questo motivo digiuno e ileo rappresentano l’intestino
mesenteriale.
Siccome il duodeno finisce sul lato sinistro della linea di mezzo, è sul lato sinistro della linea di mezzo che
comincia il digiuno, quindi il mesentere, in particolare a livello dell’apice della flessura duodeno digiunale,
mentre termina nella fossa iliaca destra. La linea lungo cui si ha la radice del mesentere va dall’alto in
basso, da sinistra a destra e dall’altezza di circa L2 fino alla fossa iliaca destra. Di conseguenza le prima anse
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dell’intestino mesenterico, che sono anse digiunali, si posizionano nell’angolo della flessura colica di
sinistra; le successive anse vanno ad occupare lo spazio sotto al colon trasverso e lo spazio della flessura
colica di destra; in seguito le anse si posizionano nella regione del mesogastrio, sconfinando nella regione
della fossa iliaca di sinistra; infine attraversano da sinistra a destra e terminano nella fossa iliaca destra. Nel
complesso l’andamento delle anse disegna una specie di “Z” al contrario. Questa conformazione è diversa
rispetto alla linea della radice del mesentere. Il mesentere infatti ha una profondità diversa: nella prima parte
è più corto, nella parte intermedia è più lungo ed infine torna ad essere più corto. Questa differenza di
profondità del mesentere permette di collegare le anse, che devono essere mobili, alla parete posteriore e di
disporle prima nell’angolo della flessura splenica, poi nell’angolo della flessura epatica, poi nel mesogastrio
e nella fossa iliaca di sinistra ed infine nella fossa iliaca di destra, che sono strutture distanti diversamente
dalla radice del mesentere.
Questa organizzazione è tale che in caso di accrescimento dell’utero questo va verso l’alto e verso l’avanti,
spostando sui lati le anse del piccolo intestino.
In caso di parto cesareo il chirurgo, dopo aver tirato fuori il bambino e dopo aver ricucito la parete dell’utero,
deve riposizionare le anse intestinali. Grazie a questa disposizione anatomica per il chirurgo è sufficiente
riposizionare gruppi di anse seguendo l’andamento della linea della radice del mesentere, perché queste
automaticamente si dispongono ognuna al proprio posto: c’è una posizione obbligata.
Mesocolon trasverso:
Il mesentere, il legamento peritoneale più grande del corpo, collega l’intestino mesenteriale alla parete
posteriore dell’addome fornendogli fissità e mobilità.
A livello del colon trasverso c’è qualcosa di analogo. Infatti la posizione alta del colon trasverso non sarebbe
possibile senza una struttura di sostegno. Si tratta di un altro legamento peritoneale che prende il nome di
mesocolon trasverso. Grazie al mesocolon trasverso il colon trasverso potenzialmente potrebbe basculare in
senso verticale, sebbene ciò non succede perché inferiormente ci sono le anse dell’intestino mesenteriale e
superiormente ci sono fegato, stomaco e milza.
Il colon trasverso si estende da un punto a destra ad un punto a sinistra che non stanno sullo stesso piano.
Infatti la flessura colica di destra, o flessura epatica, si trova all’estremità mediale dell’ipocondrio di destra,
mentre la flessura splenica si trova nell’ipocondrio di sinistra leggermente più in alto, in prossimità della
parte più declive dell’arcata condrocostale di sinistra. Quindi in qualche modo il colon trasverso ed il suo
meso vanno circa dal punto più declive dell’arcata condrocostale di destra al punto più declive dell’arcata
condrocostale di sinistra. Non è esattamente così perché in realtà la flessura colica di sinistra si estende più in
alto rispetto a destra perché ha più spazio, ma concettualmente è così. La linea che unisce questi 2 punti è la
linea biscostale, che quindi dietro la parete addominale anteriore corrisponde al colon trasverso e al suo
meso. Sulla base di questo si sfrutta il colon trasverso e il mesocolon trasverso per suddividere l’addome in 2
regioni: la parte superiore dell’addome, più piccola, prende il nome di regione sopramesocolica e quella
inferiore, più grande, regione sottomesocolica.
Stomaco - Anatomia descrittiva, topografica e funzionale:
Lo stomaco fa seguito all’esofago. L’esofago è fissato nei luoghi in cui si trova: comincia a circa C5 nel
collo, invade il mediastino superiore, poi il mediastino inferiore posteriore e in tutte queste regioni non ha
possibilità di movimento a causa della presenza di organi e della sua tonaca avventizia di tessuto connettivo
che si connette al connettivo circostante. Inoltre l’esofago attraversa lo iato esofageo del diaframma che
rappresenta un ulteriore punto di fissità oltre il quale poi sconfina nell’addome. Dopo qualche cm di esofago
addominale il tubo digerente si dilata in maniera asimmetrica: il margine di destra si continua quasi
verticalmente verso il basso, mentre il margine di sinistra si deforma. Si forma lo stomaco, organo con la
forma di un otre capovolto (l’otre è un recipiente di cuoio che conteneva acqua, con una parte espansa
inferiore) cioè con la parte espansa che guarda verso l’alto e la parte sottile che guarda verso il basso.
Esso si trova nella cavità addominale subito sotto al diaframma, occupa l’ipocondrio sinistro e una parte
dell’epigastrio.
Lo stomaco, come tutti gli organi cavi, si descrive da vuoto. Esso, come l’esofago, è un organo appiattito in
senso anteroposteriore, che presenta quindi 2 facce: una faccia anteriore e una faccia posteriore. Gli
estremi delle facce sono 2 margini: il margine di destra e il margine di sinistra. Il margine di destra scende
quasi verticalmente verso il basso per poi flettere improvvisamente verso destra, verso l’alto e verso il dietro,
quindi in questo suo ultimo tratto presenta concavità verso l’alto, verso destra e verso il dietro. Questo
prende il nome di piccola curvatura (margine di destra non è corretto, poiché è composta anche da un
margine inferiore). Il margine di sinistra si deforma, disegnando prima una convessità verso l’alto, poi verso
sinistra ed infine verso il basso, per poi dirigendosi anch'esso in alto, a destra e in dietro. Il margine di
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sinistra prende il nome di grande curvatura (margine di sinistra non è corretto, poiché è composta anche da
un margine superiore e da un margine inferiore).
Il passaggio da esofago a stomaco è netto e la regione di passaggio prende il nome di cardias o cardia. Il
nome cardias deriva dal fatto che la parte superiore dello stomaco è a contatto con il diaframma, subito sopra
al quale si trova la faccia diaframmatica del cuore. Il cardias non è semplicemente un limite, ma ha un
importante ruolo funzionale: anatomicamente non è uno sfintere (non c’è un eccesso di muscolatura liscia),
ma funzionalmente lo è, poiché la sua muscolatura liscia circolare presenta un tono contrattile piuttosto
elevato. La regione di passaggio tra esofago e stomaco è detta regione cardiale.
Nella parte finale dello stomaco (verso l’alto, verso destra e verso il dietro) è presente una strozzatura
visibile anche in superficie determinata da un eccesso di muscolatura liscia circolare che rappresenta uno
sfintere anatomico. Questo sfintere prende il nome di piloro, che significa “guardiano”, e svolge un ruolo
molto importante nell’economia generale della funzione digerente. Esso trascorre gran parte della sua vita in
stato contratto, determinando un ostacolo al passaggio di sostanze dallo stomaco al duodeno, e si rilascia al
bisogno. Ad esempio durante il digiuno prolungato, in cui non viene introdotto nulla nello stomaco, esso è
contratto e si rilascia soltanto qualche volta. La regione di passaggio tra stomaco e duodeno è detta regione
pilorica.
Lo stomaco è quindi suddivisibile in 3 parti fondamentali:
- Fondo: prolungando verso sinistra e quasi parallelamente al piano terra la linea di divisione tra esofago e
stomaco si ottiene una regione, superiore a questa linea, che per convenzione prende il nome di b (è anche
detta grande tuberosità).
- Corpo: prolungando verso il basso la piccola curvatura nella sua parte verso il basso si ottiene una
regione, la più lunga e la più larga, che va dalla linea immaginaria che costituisce il pavimento del fondo
dello stomaco alla linea immaginaria che rappresenta il prolungamento della piccola curvatura: il corpo
dello stomaco.
- Parte pilorica: laddove finisce (per convenzione) il corpo dello stomaco, lo stomaco torna a restringersi e
ad acquisire un calibro di 3 cm, tipico del piccolo intestino. Si forma quindi una regione ad imbuto che
prende il nome di parte pilorica dello stomaco. Essa a sua volta viene distinta in 2 parti: la parte che fa
seguito al corpo prende il nome di antro pilorico, la parte successiva, finale, più stretta, prende il nome di
canale pilorico.
Da un punto di vista strutturale, cioè della composizione microscopica della parete dello stomaco le varie
parti dello stomaco non sono omologabili, hanno delle differenze. Inoltre, proprio perché lo stomaco è
relativamente lungo, è importante avere riferimenti più precisi per indicare zone particolari, soprattutto in
ambito chirurgico.
Laddove la grande curvatura presenta un altro punto di flesso, per andare verso destra, verso l’alto e verso il
dietro, prende il nome di piccola tuberosità, di contro alla grande tuberosità che si trova superiormente e che
corrisponde al fondo dello stomaco.
Il piloro si trova all’altezza di L1, subito a destra di L1, sempre nell’epigastrio ma al confine con
l’ipocondrio di destra, all’altezza della lordosi lombare (che in realtà è toracolombare, perché la convessità in
avanti comincia già a livello delle ultime 2 vertebre toraciche). Quindi lo stomaco, che passa al davanti della
lordosi lombare, necessariamente deve andare verso il dietro una volta che passa con la parte pilorica la linea
di mezzo, perché la lordosi rappresenta un ostacolo. In più a livello della lordosi lombare, proprio al davanti
delle vertebre lombari fino ad L4 si posiziona l’aorta addominale e la parte pilorica dello stomaco la incrocia
dal davanti, quindi è ancora più spostata verso l’avanti. Di conseguenza la parte pilorica oltre che a destra e
in alto va anche in dietro, perché sulla linea di mezzo c’è la lordosi toracolombare e l’aorta addominale.
Se si effettua un taglio xifopubico, dal processo xifoideo alla sinfisi pubica, la parte di stomaco visibile ha la
forma di un triangolo, circa all’altezza della piccola tuberosità, cioè al passaggio da corpo dello stomaco ad
antro pilorico e da antro pilorico a canale pilorico. E’ visibile soltanto una parte caudale dello stomaco perché
fondo e corpo si trovano nell’ipocondrio di sinistra, quindi sono nascosti dalle cartilagini costali di sinistra.
Inoltre la parte finale dello stomaco è coperta dal fegato, organo imbricato rispetto allo stomaco e così grande
che non gli basta lo spazio che ha nell’ipocondrio di destra, nella concavità del diaframma, e un po’ deborda
dall’arcata condrocostale destra e va verso sinistra coprendo lo stomaco.
Il risultato è che è presente una piccola parte dello stomaco a forma di triangolo, all’altezza della fine del
corpo dello stomaco e dell’antro pilorico, quindi più o meno della piccola tuberosità, che viene a contatto
nell’epigastrio direttamente con la parete anteriore dell’addome. Questo ha una serie di implicazioni
pratiche: se si subisce un trauma sotto al processo xifoideo dello sterno, oltrepassata la parete addominale si
entra nello stomaco. Inoltre questa caratteristica è sfruttata dal medico per nutrire il paziente che è in coma o
ha un disturbo neurologico che gli impedisce di deglutire, oppure che ha un cancro al fegato, per cui non può
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essere nutrito tramite sondino gastrico: il gastroenterologo incide la parete anteriore in regione epigastrica e
la parete dello stomaco e infila all’interno l’analogo del sondino gastrico affinché il soggetto venga nutrito.
Questo triangolo prende il nome di triangolo di Labbé. I suoi lati sono l’arcata condrocostale di sinistra il
lato di sinistra, il margine anteriore del fegato il lato di destra e la grande curvatura dello stomaco, in
particolare la piccola tuberosità. Per individuare il triangolo di Labbé si parte dalla 10° costa, sfruttando il
fatto che la parte più declive dell’arcata condrocostale appartiene alla 10° costa (l’11° e la 12° non hanno
cartilagine), ci si sposta 3-4 cm verso l’alto per raggiungere la 9° cartilagine costale, si uniscono i 2 punti
simmetrici a destra e a sinistra e si ottiene la base del triangolo di Labbé.
Lo stomaco si trova con il fondo e il corpo nell’ipogastrio di sinistra e con antro e canale pilorico
nell’epigastrio. Esso è poggiato sul colon trasverso e il mesocolon trasverso. Il triangolo di Labbé, che più o
meno corrisponde alla piccola tuberosità, si trova a ridosso della parete anteriore dell’addome.
Lo stomaco si inizia facendo seguito all’esofago addominale, organo molto dorsale, infatti incrocia dal
davanti l’aorta (organo estremamente dorsale) nel 2° incrociamento aortoesofageo. Quindi la parte cardiale
dello stomaco e il fondo si trovano in una posizione dorsale, mentre a livello del triangolo di Labbé esso è
molto ventrale. Di conseguenza lo stomaco si trova su un piano inclinato in basso e in avanti.
Rapporti dello stomaco:
Lo stomaco ha soltanto rapporti anteriori e posteriori, poiché presenta soltanto 2 facce, anteriore e posteriore.
Rapporti anteriori:
- Fegato: a livello del cardias, di quasi tutto il fondo e di quelle parti del corpo e della parte pilorica dello
stomaco prospicienti la piccola curvatura.
- Muscolo diaframma e arcata condrocostale di sinistra: con la restante parte del fondo e del corpo dello
stomaco (tranne il triangolo di Labbé che prende rapporto con la parete addominale anteriore).
Rapporti posteriori, dall’alto verso il basso:
- Diaframma: con il fondo dello stomaco
- Milza: con la sua porzione sinistra
- Ghiandola surrenale di sinistra
- Corpo e coda del pancreas
- Rene di sinistra e la sua pelvi
- Ultimo tratto di duodeno e primo tratto del digiuno, cioè flessura duodenodigiunale o di Treits.
L’aorta non si trova dietro allo stomaco: superiormente passa a destra rispetto alla piccola curvatura, più in
basso, a livello della parte pilorica dello stomaco, vi si frappone il corpo del pancreas e ancora più in basso vi
si frappone la flessura duodenodigiunale.
Funzione dello stomaco:
Lo stomaco ha 3 funzioni: raccogliere il bolo, mescolarlo con il succo gastrico e cominciare la digestione
delle proteine. Non ha una funzione di assorbimento (se non di acqua, zuccheri semplici e alcool). La
conformazione dello stomaco è funzionale alla sua funzione.
Il risultato del mescolamento del bolo deglutito con il succo gastrico da origine al chimo: lo stomaco
trasforma il bolo in chimo, mescolandolo con il prodotto della secrezione dello stomaco, il succo gastrico. Il
succo gastrico è composto da acqua, acido cloridrico e un enzima fondamentale, la pepsina (che al momento
della secrezione è pepsinogno, poi si trasforma in pepsina). Lo scopo dello stomaco è trasformare il bolo in
chimo, per questo il piloro si trova per la maggior parte del tempo chiuso.
Il cibo deglutito raggiunge lo stomaco non per gravità, ma è sospinto da un’onda contrattile che percorre
l’esofago, l’onda peristaltica. I segmenti dell’esofago si contraggono in sequenza obbligata dalla parte più
craniale alla parte più caudale. L’arrivo meccanico di un liquido e/o di un solido nello stomaco innesca in via
riflessa un’onda contrattile, una contrazione peristaltica. Questo accade indipendentemente dalla volontà,
anche durante il sonno o il coma. Lo stomaco quindi inizia a contrarsi, ma il piloro è chiuso. Si genera quindi
anche nello stomaco un’onda peristaltica, che lo percorre dal fondo al canale pilorico, che spinge il bolo
verso il canale pilorico. Tuttavia il piloro è chiuso, quindi non può raggiungere il duodeno. Nel frattempo
questo bolo subisce la spinta di altro bolo che sta arrivando a causa della successiva onda di contrazione e
così via, determinando la spinta del bolo che aveva raggiunto il canale pilorico lungo la piccola curvatura,
verso l’alto. Questo bolo non può rientrare nell’esofago, a causa della presenza del cardias, sfintere
funzionale che rimane chiuso, quindi subisce un’altra onda peristaltica che lo spinge nuovamente verso il
basso: fintanto che il piloro è chiuso il bolo compie un movimento continuo e ciclico dalla grande curvatura
in basso verso il canale pilorico, poi in alto lungo la piccola curvatura e di nuovo alla grande curvatura.
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Questo movimento facilita il mescolamento del bolo con il succo gastrico, un mescolamento dello stomaco è
grossolano.
La forma dello stomaco, quindi, è tale affinché quest’organo possa svolgere il suo compito: ha la forma di
tubo dilatato in maniera asimmetrica che finisce con lo sfintere pilorico perché la sua funzione è quella di
mescolare il bolo con succo gastrico per ottenere il chimo.
Osservazione dello stomaco:
Lo stomaco nelle illustrazioni anatomiche è solitamente rappresentato ingrossato, come se vi fosse aria
all’interno. Questo si deve al fatto che lo stomaco che si osserva nel cadavere è pieno di gas, prodotto di
rifiuto dei batteri che ospitano il piccolo e il grande intestino. Questi batteri, che nell’insieme prendono il
nome di microghiota, sono in numero di gran lunga superiore al numero delle cellule di cui un uomo è
composto e sono indispensabili alla salute. Dopo la morte i batteri sopravvivono per alcuni giorni, cibandosi
del cibo residuo nell’intestino e delle cellule di sfaldamento generate dalla degenerazione dell’intestino.
Normalmente questi batteri producono sostanze di rifiuto, tra cui prodotti gassosi, che da vivi viene espulso
all’esterno, ma nel cadavere non c’è possibilità di eliminare il gas, che si accumula e pervade grosso
intestino, piccolo intestino e stomaco. Di conseguenza lo stomaco appare ingrossato.
In una radiografia dello stomaco, in un soggetto in posizione ortostatica, a livello del fondo dello stomaco
può essere presente una formazione radiotrasparente. Si tratta della bolla gastrica, che misura il fondo dello
stomaco e si forma in seguito al fatto che nella deglutizione viene fatta entrare anche aria nello stomaco e al
fatto che il bolo, liquido e solido, si stratifica negli strati declivi dello stomaco mentre l’aria si sposta e si
accumula verso l’alto, nel fondo dello stomaco, disegnandolo. Se si effettua una “diretta del torace”,
radiografia del torace, a stomaco pieno si nota la bolla gastrica. Tuttavia il fondo dello stomaco proietta al 4°
e 5° spazio intercostale di sinistra, quindi a questo livello nella radiografia è presente una regione
radiotrasparente che può essere scambiata per qualcosa a livello dei polmoni, come una cisti.
E’ quindi importante che il medico che effettua la radiografia chieda al paziente se questo abbia mangiato,
ma soprattutto sapere che la bolla gastrica, che si forma nell’immediatezza della fine del pasto, è visibile
nella diretta del torace ed occupa il 4° e 5° spazio intercostale di sinistra.
In una radiografia con pasto baritato il piloro si individua grazie alla soluzione di continuità tra il canale
pilorico e il duodeno: sembra che non siano connessi, poiché a livello del piloro non c’è calibro interno.
Duodeno:
E’ lungo circa 25 cm e assume la forma di una “C” maiuscolo stampatello aperta verso sinistra e verso l’alto.
Quest’organo è diviso in 4 parti:
- Bulbo duodenale (o prima parte): è la parte più corta ed è detta così perché si origina dal piloro a livello
del quale è presente una strozzatura, quindi sembra che il suo calibro vada aumentando, in realtà
semplicemente riassume la sua normale dimensione, circa 3 cm.
- Duodeno discendente (o parte discendente): è la parte più lunga.
- Duodeno trasverso (o parte trasvesale).
- Duodeno ascendente (o parte ascendente).
Nel complesso il duodeno si diparte dal piloro all’altezza di L1 e termina a L2 dopo aver disegnato la “C”.
Esso per la sua parte iniziale si trova nell’epigastrio, poi sconfina nel mesogastrio. Il duodeno si individua
quindi tramite la linea biscostale, che segna il confine tra epigastrio e mesogastrio, e la cicatrice ombelicale,
che rappresenta centro geometrico del mesogastrio: la parte bassa del duodeno si trova circa all’altezza della
cicatrice ombelicale.
Le 4 parti del duodeno non insistono sullo stesso piano frontale: le parti dispari, 1° e 3°, sono disposte su un
piano più ventrale, quelle pari, 2° e 4°, su un piano più dorsale. L’aorta addominale si trova a sinistra della
linea di mezzo, ma scendendo si sposta sempre più verso la linea di mezzo. L’aorta si pone al davanti della
colonna vertebrale, quindi se si assume che l’aorta corrisponda alla linea di mezzo, la 1° e la 2° parte del
duodeno si trovano a destra della linea di mezzo, la 3° parte scavalca la linea di mezzo e la 4° parte si trova a
sinistra della linea di mezzo. Inoltre il duodeno si trova all’altezza della colonna lombare, dove si trova la
lordosi lombare che costituisce una convessità anteriore, accentuata dalla presenza dell’aorta addominale più
o meno sulla linea di mezzo e del pancreas, che si frappone. Il risultato è che il bulbo e la 3° parte del
duodeno, che si trovano lungo la linea di mezzo, si trovano su un piano frontale più ventrale spinte dalla
lordosi lombare, dalla presenza dell’aorta e dalla presenza del pancreas, mentre la 2° e 4° parte si trovano in
un piano frontale più dorsale perché si trovano ai lati della linea di mezzo, quindi hanno spazio per andare in
dietro. In particolare la parte più dorsale del duodeno è la parte discendente, cioè la 2°.
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Rapporti del duodeno:
Bulbo duodenale:
Il bulbo duodenale va verso l’alto, verso destra e verso il dietro. Esso prende rapporti con:
- Fegato: anteriormente, in particolare il lobo quadrato del fegato (il fegato ricopre in parte anche il
duodeno discendente).
- Pancreas (testa): inferiormente. Il duodeno ha la forma di una “C” all’interno della quale è incastrata la
testa del pancreas ed è quindi in rapporto con tutte le parti del duodeno.
- Fegato: superiormente.
Posteriormente:
- Vena porta: è una vena sui generis, perché non esce ma entra in organo, il fegato. Essa è un vena grossa e
corta (qualche cm), che riceve sangue refluo da quasi tutto il tratto digerente sottodiaframmatico e dalla
milza e lo porta al fegato. Di conseguenza subito dopo un pasto nella vena porta scorre sangue ricco di
nutrienti (non grassi). La vena porta si trova esattamente dietro al bulbo duodenale, frapponendosi tra
bulbo duodenale e vena cava inferiore, di conseguenza il bulbo duodenale non ha alcun rapporto con la
vena cava inferiore, poiché ne è separato dalla vena porta.
- Arteria epatica propria: è un’arteria diretta al fegato.
- Arteria gastroduodenale.
- Coledoco: condotto escretore finale attraverso cui la bile è veicolata nel duodeno.
Nessuna delle 4 strutture che si trovano posteriormente al bulbo duodenale si trova dietro ad altre parti del
duodeno: questi sono rapporti esclusivi del bulbo duodenale.
Duodeno discendente:
- Pancreas (testa): medialmente, a sinistra.
- Rene di destra, pelvi renale e uretere: posteriormente: il duodeno nello scendere copre parzialmente il rene
di destra, in particolare ne copre il profilo mediale, a livello del quale è presente l’ilo del polmone. In
particolare l’ilo del rene si posiziona al centro del profilo mediale, nel seno renale, e una delle sue strutture
principali è il condotto escretore dell’urina che deve essere eliminata, l’uretere. Esso nel suo primo tratto
ha un calibro espanso ad imbuto che proviene dal bacinetto renale (o pelvi renale) e anche queste strutture
sono coperte dal duodeno discendente, si vede soltanto una parte di uretere.
- Vena cava inferiore: posteriormente: la parte discendente del duodeno si pone tra il margine mediale del
rene e la cava inferiore, che si trova a sinistra del margine mediale del rene e subito a destra della linea di
mezzo.
- Fegato: anteriormente, copre la metà superiore.
- Colon trasverso: anteriormente, incrocia la metà inferiore.
- Colecisti (corpo): anteriormente, copre il tratto iniziale. La colecisti è una delle 3 ghiandole annesse
all’apparato digerente, ha la forma di pera ed è composto da fondo, corpo e collo. si posiziona al davanti
del passaggio tra la 1° e la 2° parte di duodeno e al davanti della parte craniale della 2° parte del duodeno.
Duodeno trasverso:
- Pancreas (testa): superiormente.
- Anse digiunali: inferiormente e anteriormente. Il colon trasverso, che attraversa la metà inferiore del
duodeno discendente, si trova su un piano trasverso inferiore rispetto al piano del mesocolon trasverso,
quindi il piano del mesocolon trasverso è inclinato in basso e in avanti e forma quindi uno spazio che
rappresenta la parte alta della regione sottomesocolica e che occupata da anse digiunali, le quali a loro
volta si pongono al davanti della 3° parte del duodeno perché è sospeso dal mesocolon trasverso.
- Arteria mesenterica superiore e vena mesenterica superiore: anteriormente, attraversano a croce la 3° parte
del duodeno. L’arteria mesenterica superiore prende origine dall’aorta addominale all’altezza di circa L1 e
va in basso passando dietro al pancreas e al davanti della 3° parte del duodeno. Essa è obbligata ad andare
verso il basso subendo una spinta verso il dietro da parte delle anse intestinali, quindi nasce dall’aorta
facendo un angolo acuto aperto verso il basso: l’angolo aorto-mesenterico. La 3° parte del duodeno quindi
passa all’interno dell’angolo aorto-mesenterico, in compagnia della vena renale di sinistra. L’angolo aortomesenterico è importante, poiché se è o diventa eccessivamente acuto strozza la 3° parte del duodeno con
conseguente ostacolo al passaggio del chilo e vomito. In particolare si ha vomito postprandiale, che cioè si
manifesta regolarmente a 40-50 minuti dalla fine del pasto. Il vomito postprandiale rappresenta una
condizione di emergenza, poiché esso può determinare disidratazione. L’angolo aorto-mesenterico stretto
può essere frutto di una malformazione congenita ed è una delle cause da prendere in considerazione in
caso di vomito postprandiale di un neonato. In realtà la causa più frequente del vomito postprandiale è la
gastrite. Un’altra causa può essere l’iperplasia del piloro: c’è iperplasia della muscolatura liscia e quindi
una stenosi del piloro che determina difficoltà di svuotamento dello stomaco con conseguente vomito
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nell’immediatezza del pasto, durante il pasto. L’ultima causa di vomito postprandiale è la condizione di
pancreas anulare, malformazione congenita: il pancreas nasce in età embrionale da 2 abbozzi, ventrale e
dorsale, di cui quello ventrale ruota di 180° intorno al duodeno per diventare parte superiore della testa del
pancreas, rotazione che normalmente avviene in senso orario. Nel caso in cui l’abbozzo anteriore si divide
in 2 e ruota sia in senso orario sia in senso antiorario si forma un pancreas ad anello che circonda il
duodeno discendente e impedisce alla parte discendente del duodeno di allargarsi, quindi si verifica un
restringimento. Il restringimento dell’angolo aorto-mesenterico può anche insorgere, in particolare nel
soggetto anziano, in seguito alla formazione di placche ateromatose (dovute ad aterosclerosi) all’origine
dell’arteria mesenterica superiore, che irrigidiscono questo primo tratto e spingono l’arteria verso l’aorta.
Anche questa condizione ha come conseguenza il restringimento dell’angolo aorto-msenterico, quindi
vomito postprandiale accompagnato da dolore colico nella parte dell’epigastrio, vere e proprie coliche
dovute alla forte contrazione della muscolatura liscia nel tentativo di superare l’ostacolo.
Posteriormente:
- Vena cava inferiore, la incrocia a croce.
- Aorta addominale, la incrocia a croce.
Duodeno ascendente:
- Pancreas (testa): a destra.
- Aorta addominale: posteriormente, perché la 4° parte del duodeno va in alto e a sinistra.
- Pancreas (corpo): inferiormente.
- Stomaco (parte pilorica): anteriormente, perché il duodeno ascendente va in alto e a sinistra.
- Rene di sinistra (pelvi): posteriormente, sempre perché il duodeno ascendente va in alto ma soprattutto a
sinistra. La flessura duodenodigiunale a livello del suo apice si trova proprio al davanti della pelvi renale
di sinistra, rapporto importante nella chirurgia della pelvi renale di sinistra.
N.B.: L’angolo aorto-mesenterico è dato dall’arteria mesenterica con l’aorta, non dalla vena.
Il duodeno può non essere a forma di “C”, ma anche a forma di “V” aperta in alto, in cui la parte discendente
e traversa sono un unicum, oppure a forma di “U”, in cui il passaggio dalla discendente alla traversa e da
questa all’ascendente non è netto ma dolce. Non ci sono conseguenze dal punto di vista chirurgico a questo.
Via biliare extra-epatica:
La via biliare extra-epatica rappresenta una serie di condotti destinati a convogliare la bile nel duodeno.
Il fegato produce bile e la secerne in un sistema di condotti extra-epatici che convergono a formare 2
condotti, il dotto epatico di destra e il dotto epatico di sinistra (alcuni ne hanno un 3°, il dotto epatico
accessorio), i quali convergono a formare un unico condotto che prende il nome di dotto epatico comune.
Dopo un breve tragitto verso il basso il dotto epatico riceve un altro condotto, il dotto cistico, che è il dotto
escretore di una ghiandola, o più propriamente un organo di riserva, la colecisti. Dalla convergenza del dotto
cistico con il dotto epatico comune si forma il dotto più grande di questo sistema, il coledoco.
Il coledoco sbocca a circa metà della parete posteromediale del duodeno discendente. Alla sua fine, nel tratto
di coledoco intramurale, che cioè si trova nello spessore della parete del duodeno, esso presenta uno sfintere,
cioè un guscio di muscolatura liscia circolare che prende il nome di sfintere coledocico o sfintere di Oddi.
Questo sfintere si trova per la maggior parte del tempo contratto, chiuso, come lo sfintere pilorico. Tuttavia,
diversamente dal piloro, la cui apertura è regolata da ormoni e dal sistema nervoso autonomo, lo sfintere
coledocico è controllato soltanto da un ormone: quando questo è in circolo lo sfintere si rilascia, quando non
è in circolo lo sfintere è contratto. Durante il periodo di digiuno lo sfintere coledocico è chiuso.
L’introduzione del cibo fa si che quando il chimo arriva nel duodeno esso induce la liberazione di
quest’ormone, che va in circolo e raggiunge lo sfintere inducendone il rilasciamento.
La produzione e secrezione di bile da parte del fegato è costante, quindi anche nel periodo del digiuno. In
questo periodo la bile scende comunque nel coledoco, ma trova lo sfintere chiuso, quindi, non potendo
confluire nel duodeno, sotto la spinta di altra bile che sta arrivando risale lungo il dotto cistico e finisce
dentro alla colecisti. Per questo la colecisti si configura come un serbatoio di bile: non produce bile, ma la
accumula. Tuttavia il fegato nelle 24 ore produce circa 600 mL di bile, che non può essere contenuta nella
colecisti perché le sue dimensioni non sono sufficientemente grandi (ha un’altezza di circa 8 cm, una
larghezza di 3 cm, quindi un volume interno di qualche decina di mL). Infatti la tonaca mucosa della colecisti
è capace di assorbire la componente acquosa della bile, quindi di concentrarla. Infatti la bile contenuta nelle
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vie biliari extraepatiche è diversa da quella contenuta nella colecisti: la prima è di colore giallo e poco
viscosa, la seconda è di colore verde intenso e molto viscosa poiché concentrata.
Nel momento in cui il chimo raggiunge il duodeno, specialmente se questo contiene grassi, induce la
liberazione di un ormone che agisce contemporaneamente per rilasciare lo sfintere coledocico e
contestualmente per far contrarre la colecisti, che si spreme per svuotarsi quanto più possibile, in condizioni
normali e fisiologiche completamente. Quindi subito dopo il pasto, ma anche durante, nel duodeno
discendente si riversa una quantità di bile molto concentrata.
Clinica della via biliare extra-epatica:
La colecisti non è un organo vitale. L’intervento di colecistectomia, cioè rimozione chirurgica della colecisti,
è piuttosto diffuso, in particolare tra pazienti femminili (regola delle 4 “F”: Female, Fatty, Fertile e Fourty).
La colecisti viene asportata quando vi si formano dei calcoli. Proprio perché la colecisti ha la funzione di
concentrare bile la probabilità di soprasaturazione della soluzione e quindi di precipitazione di sali biliari è
molto elevata, infatti si possono formare calcoli biliari. Se si formano calcoli di grandi dimensioni questi
possono irritare la parete della colecisti, provocando una colecistite sterile (non è determinata da batteri né da
virus né da funghi). La risposta della colecisti all’infiammazione è la contrazione, che provoca dolore, si ha
una vera e propria colica biliare.
Può anche succedere che durante una delle tante contrazioni della colecisti, un calcolo venga espulso e
finisca nel dotto cistico, con possibilità di occlusione dello stesso. In tal caso la colecisti non riesce a
svuotarsi, di conseguenza aumenta la sua contrazione, ma ogni volta che un viscere cavo si contrae con forza
insorge dolore.
Può anche succedere che il calcolo finisca all’interno del coledoco, bloccando la via ed impedendo alla bile
di raggiungere il duodeno. Il fegato continua a produrre e secernere bile, che risale nella colecisti, la quale
non riesce a svuotarsi, quindi si soprasatura e peggiora la sua situazione: si crea una condizione che facilita la
formazione di calcoli. La bile prova a portarsi verso il duodeno, ma non riesce a causa della presenza di un
calcolo. Contemporaneamente il fegato continua a produrre e secernere bile, ma la capacita della mucosa
biliare di concentrare bile è limitata, quindi ad un certo punto essa smette di accogliere bile, determinando un
aumento di pressione idrostatica all’interno del coledoco, poi del dotto epatico comune e via via si esercita
sempre più a monte, fino ad arrivare ai condotti microscopici in cui gli epatociti immette bile, i canalicoli
biliari, in una progressione di strutture analoghe a quelle dell’albero bronchiale. La pressione all’interno dei
canalicoli biliari è talmente alta che la bile si riversa nel sangue del fegato, provocando un ittero: la cute e le
sclere (parti normalmente bianche dell’occhio) si colorano di giallo. In particolare si ha una forma di ittero
provocato dalla stasi del deflusso biliare, detta ittero colestatico. Di conseguenza, per evitare di giungere
alla condizione di ittero colostatico, si asporta la colecisti o si frantuma il calcolo allo scopo di eliminarlo,
entrando con uno strumento nello sfintere coledocico e cercando di afferrare o frantumare il calcolo o tramite
litotrisia biliare.
Il coledoco prima è parallelo alla vena porta, poi deve raggiungere la parete posteromediale del duodeno
discendente più o meno alla sua metà, quindi è costretto a prendere rapporto con la testa del pancreas. Questo
rapporto è variabile: in alcuni il coledoco si frappone tra la testa del pancreas e parte discendente del
duodeno, in altri passa dietro la testa del pancreas e in altri passa dentro alla testa del pancreas. Questo è
importante, poiché nei casi di tumori della testa del pancreas il coledoco è la prima struttura a farne le spese,
venendo schiacciato. Da un punto di vista sintomatologico si ha esattamente la stessa situazione che
caratterizza l’ittero colestatico. Quindi la condizione di ittero colestatico può essere determinato da diverse
cause.
La colecisti non è un organo vitale. Infatti in seguito alla rimozione della colecisti il coledoco fa le veci della
colecisti: tende a dilatarsi formando una vescichetta e concentra la bile, poiché la mucosa è la stessa di quella
della colecisti. Quindi le persone che hanno subito colecistectomia conducono una vita alimentare normale.
In alcuni soggetti è presente un 3° condotto epatico, che si aggiunge al condotto epatico di destra e a quello
di sinistra, il condotto epatico accessorio. Essendo fegato, colecisti e pancreas ghiandole annesse all’apparato
digerente, esse si originano per evaginazione dall’intestino primitivo che poi si ramifica. Quindi, ad esempio,
del pancreas le strutture che si formano per prime sono i 2 condotti escretori, mentre del sistema della via
biliare ciò che si forma per primo è il coledoco, che si ramifica in dotto cistico, che si evolve in colecisti, e in
dotto epatico comune, il quale si divide normalmente in 2, ma in alcuni soggetti in 3. Il dotto epatico
accessorio non termina in un punto costante della via biliare extraepatica: mentre il dotto epatico comune
nasce regolarmente dall’unione di dotto epatico di destra e dotto epatico di sinistra, il dotto epatico
accessorio non sempre finisce nello stesso punto. Esso finisce con maggior frequenza nel dotto epatico
comune a livello dello sbocco dei dotti epatici di destra e di sinistra, ma può anche sboccare in un punto del
dotto epatico comune, nella confluenza tra dotto epatico comune e dotto cistico, nel coledoco oppure nel
dotto cistico. In caso di intervento di colecistectomia il chirurgo deve sapere se il paziente che sta per essere
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operato presenta un dotto epatico accessorio. In un fegato in situ l’unica parte della colecisti visibile è il
fondo, che corrisponde alla 9°-10° cartilagine costale. In particolare essa si trova nel punto di incontro tra la
bisettrice dell’angolo retto formato dalla linea xifopubica e la sua perpendicolare passante per la cicatrice
ombelicale e la linea dell’arcata condrocostale destra. Questo è detto punto cistico ed è utile per l’esame
obiettivo del paziente: il medico si posiziona posteriormente al paziente seduto, posiziona la mano sotto
all’arcata condrocostale di destra e chiede al paziente di fare un’inspirazione profonda; durante l’inspirazione
il diaframma riduce la sua convessità quindi il fegato, che gli sta sotto, viene spinto verso il basso; se è
presente un’irritazione a livello della colecisti appena il paziente inspira avverte dolore, a causa della
presenza della mano del medico.
In un intervento di colecistectomia è necessario incidere il dotto cistico, ma ciò non è possibile senza prima
aver suturato il dotto cistico a livello dei punti subito precedente e subito successivo il punto di sezione,
poiché altrimenti la bile contenuta nella colecisti e nel dotto epatico comune si riverserebbe sul peritoneo con
il rischio di insorgenza di peritonite.
Tuttavia nel caso in cui il paziente presenti un dotto epatico accessorio è necessario conoscere il punto in cui
esso termina, perché nel caso in cui esso finisca a livello del dotto cistico il chirurgo deve sezionare a monte
del punto di sbocco del dotto accessorio (verso la colecisti), in maniera tale da lasciare integra la
comunicazione tra dotto accessorio e dotto cistico. Se il chirurgo tagliasse a valle infatti ci sarebbe il rischio
di strappare il dotto epatico accessorio, con conseguente gocciolamento di bile sul peritoneo e rischio di
peritonite.
Se il chirurgo ha dubbi riguardo il punto di sbocco dell’eventuale dotto accessorio è necessario fare una
colecistografia intraoperatoria, cioè durante l’intervento chirurgico, che permette di disegnare la colecisti e la
via biliare extraepatica: si inietta liquido radioopaco nella colecisti con una pressione tale che esso diffonda
anche nella via biliare e in particolare nel dotto epatico accessorio, mostrandone l’andamento.
Fegato:
Il produttore della bile è il fegato. Esso è un organo molto grande: occupa l’ipocondrio di destra, l’epigastrio
e sconfina anche nell’ipocondrio di sinistra, tanto che copre una parte dello stomaco.
Il fegato è un semiovoide di colore rosso brunastro e di consistenza pastosa.
Esso rappresenta una struttura asimmetrica la cui parte destra è molto più grande di quella sinistra. Infatti se
si guarda un fegato di profilo esso risulta avere la forma di semiovoide, cioè un mezzo uovo ottenuto
tagliando lungo l’asse maggiore.
Ha colore rosso brunastro a causa della sua grande vascolarizzazione, infatti in ogni istante nel fegato
circolano 600 mL di sangue, cioè più del 10% della massa sanguigna circolante. Inoltre nel fegato c’è poco
connettivo, quindi assume il colore dell’elemento più abbondante, il sangue: colore rosso brunastro.
Se è vero che ogni istante circa 600 mL di sangue circolano nel fegato, corollario di ciò è che in caso di
trauma al fegato si ha un alta probabilità di morte per emorragia.
La consistenza pastosa è dovuta all’abbondante presenza di sangue, alla scarsa presenza di connettivo e alla
presenza di un’enorme massa di cellule epiteliali, gli epatociti, che forniscono scarsa resistenza, quindi esso
non può avere consistenza dura.
Ovviamente queste caratteristiche riguardano il fegato in condizioni normali e fisiologiche, perché ci sono
numerose malattie del fegato, come le fibrosi (che nel fegato sono dette cirrosi), in cui si ha un eccesso di
formazione di connettivo di tipo cicatriziale, con conseguente perdita della consistenza pastosa e
diminuzione del colore rosso brunastro (dove c’è connettivo si ha una riduzione della vascolarizzazione).
Inoltre il fegato non deve essere traslucido, bensì opaco. Se è traslucido infatti significa che al suo interno
presenta eccesso di grasso, in particolare dentro gli epatociti, condizione che prende il nome di steatòsi
epatica (la parola “steatosi” deriva dall’acido stearico, grasso con cui si fabbricano le candele, infatti il fegato
assume la traslucenza tipica delle candele). La steatosi epatica determina la morte per necrosi delle cellule
epatiche, piene di grasso, che suscita risposta infiammatoria locale che può condurre a cirrosi.
Il fegato presenta 2 facce: la faccia diaframmatica (o superiore) e la faccia viscerale (o inferiore).
Faccia diaframmatica del fegato:
La faccia diaframmatica rappresenta una superficie convessa in tutte le direzioni: in alto, in avanti, a destra e
a sinistra. Essa è visibile soltanto se si asporta il diaframma, in quanto lungo tutta questa superficie si ha la
sovrapposizione della concavità di questo muscolo e in alcuni punti addirittura il fegato vi è incollato. Esso
infatti non è visibile, se non per una piccolissima parte che deborda dall’arcata condrocostale di destra.
Corollario di ciò è che il fegato normalmente non è palpabile, quindi se alla palpazione si sente il fegato esso
dev’essere grosso, quindi necessita di indagine.
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Questa faccia è in rapporto con il diaframma e, tramite esso, con la base del polmone di destra, quindi anche
con la pleura che lo ricopre. Inoltre, visto che il fegato sconfina nell’ipocondrio di sinistra, sempre con
l’interposizione del diaframma esso prende rapporto anche con cuore e pericardio, in particolare con la faccia
diaframmatica.
Più o meno a livello della linea di mezzo a livello della faccia diaframmatica si disegnano 2 linee bianche
parallele tra loro: esse rappresentano le linee di inserzione alla faccia diaframmatica del fegato di un
legamento peritoneale chiamato legamento falciforme del fegato. Si tratta di 2 foglietti del peritoneo che si
guardano e che provengono dal davanti, in parte parete anteriore e in parte diaframma, per inserirsi lungo
questa linea alla faccia diaframmatica del fegato. Queste 2 linee parallele di inserzione rappresentano lo
spartiacque che fa si che a livello della faccia diaframmatica il fegato sia suddivisibile in 2 lobi: un lobo di
destra, molto più grande, e un lobo di sinistra, molto più piccolo. Si ha quindi una linea di demarcazione
anatomica che divide il fegato in 2 lobi. I lobi sono strutture che non presentano alcuna differenza dal punto
di vista funzionale (così come non ci sono differenze funzionali tra lobo superiore e inferiore del polmone),
ma sono importanti perché, siccome il fegato è un organo molto grande, risultano utili per individuare punti
precisi dell’organo.
Faccia viscerale del fegato:
Il fegato presenta anche un’altra faccia, visibile ribaltando il fegato di 180° verso l’alto. Si tratta della faccia
inferiore, detta faccia viscerale del fegato perché è a contatto con una serie di visceri. Essa è
complessivamente concava e, come nel caso della faccia mediastinica del polmone, sono presenti una serie di
concavità, fosse, generate dal rapporto che il fegato, di consistenza pastosa, ha con altri organi.
La faccia viscerale del fegato, che guarda verso il basso e verso il dietro, è solcata da 3 solchi che si
dispongono a formare una specie di “H” maiuscolo stampatello (mentre la faccia diaframmatica presenta una
sola linea di demarcazione che corrisponde circa al piano della linea di mezzo, dovuto al fatto che a questo
livello arrivano i 2 foglietti del legamento falciforme e tale per cui si ottiene un lobo di destra e un lobo di
sinistra): un solco longitudinale di destra, un solco longitudinale di sinistra e un solco trasverso.
Il solco longitudinale di sinistra è generato per la porzione anteriore dalla presenza di un legamento fibroso a
sezione circolare che prende il nome di legamento rotondo del fegato (è uno dei 3 legamenti rotondi
presenti nelle femmine e dei 2 che invece presentano gli uomini: un altro legamento rotondo è infatti
presente a livello dell’articolazione dell’anca, dove connette la testa del femore all’acetabolo, e un altro, solo
nelle femmine, si trova a livello dell’utero) e per la porzione inferiore dal tralcio del legamento venoso di
Aranzio. In genere si considera che il solco longitudinale di sinistra sia completamente generato dal
legamento rotondo del fegato, ma ciò non è corretto, poiché esso ne genera soltanto la porzione anteriore. Il
legamento rotondo del fegato rappresenta vestigia della vena ombelicale che, provenendo dalla placenta
materna, attraversa la parete addominale anteriore a livello della futura cicatrice ombelicale ed è diretta verso
fegato e vena cava inferiore. Appena si chiude il cordone ombelicale la circolazione di sangue si interrompe
e della vena ombelicale rimane un tralcio fibroso, il legamento rotondo del fegato. Inoltre dalla vena
ombelicale, che raggiunge il fegato ma deve portare sangue ricco di nutrienti e di ossigeno alla vena cava
inferiore, si origina uno shunt che raggiunge la vena cava inferiore, il dotto venoso di Aranzio. Al momento
del parto si chiude anche il dotto venoso di Aranzio e ne rimane ciò che erroneamente è chiamato legamento
rotondo del fegato, responsabile della formazione della parte posteriore del solco longitudinale di sinistra.
A destra del solco longitudinale di sinistra la parte della faccia viscerale viene suddivisa in 3 lobi, quindi la
faccia viscerale in totale presenta 4 lobi (mentre a livello della faccia diaframmatica ve ne sono 2):
- La parte di fegato a sinistra del solco longitudinale di sinistra si chiama lobo sinistro e corrisponde al lobo
sinistro visto dal davanti e da sopra. Esso è anche il lobo più piccolo e più sottile, perché il fegato
nell’andare da destra a sinistra si rimpicciolisce in tutti i diametri, compreso lo spessore, quindi si
assottiglia raggiungendo a questo livello il minimo di spessore. Il lobo di sinistra, mentre dalla parte della
faccia diaframmatica è convesso, a livello della faccia viscerale è concavo, poiché è in rapporto con lo
stomaco che vi lascia un’impronta, l’impronta gastrica.
- La parte di fegato compreso tra il solco trasverso, il solco longitudinale di sinistra e la vena cava
rappresenta il lobo caudato, poiché sporge leggermente in dietro. Esso è l’unico dei 4 lobi della faccia
viscerale del fegato che presenta una superficie convessa, a causa del rapporto posteriore con il diaframma
che gli permette di protrudere verso il dietro, quasi a disegnare una “coda”.
- La parte di fegato compresa tra il solco trasverso, la fossa cistica e il solco longitudinale di sinistra, a
sinistra della colecisti, rappresenta il lobo quadrato del fegato. Esso presenta una superficie concava, a
causa del rapporto con il bulbo duodenale e il duodeno discendente.
- La restante parte di fegato a destra, cioè ciò che sta a destra della fossa cistica e della fossa della cava
superiore prende il nome di lobo destro del fegato. Anch’esso è concavo, ma presenta 3 concavità che si
susseguono: l’impronta colica, la più caudale, che è anche quella che sta più a destra, deriva dal rapporto
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con la flessura colica di destra, detta infatti flessura epatica; l’impronta renale, più cranialmente, lasciata
dal rene di destra; l’impronta surrenale, la più craniale e la più piccola, è lasciata dal surrene di destra.
A destra del solco di sinistra è presente il solco longitudinale di destra, che tuttavia è poco accentuato e
rappresenta l’insieme di 2 fosse in serie. Di queste la fossa più ventrale accoglie la colecisti, quindi prende il
nome di fossa cistica, e rappresenta circa la meta ventrale del solco longitudinale di destra, mentre la fossa
più dorsale è lasciata dalla vena cava inferiore, quindi prende il nome di fossa della vena cava inferiore.
Questa fossa è piuttosto profonda, penetra nel fegato per un tratto di circa 7-8 cm, lasciandovi un’impronta
che rappresenta circa la metà posteriore del solco longitudinale di destra. Questo rapporto particolarmente
stretto tra vena cava inferire e fegato è dettato ha due cause: la prima è che questo tratto della vena cava
inferiore e la componente vascolare venosa del fegato hanno un’origine embriogenetica comune, cioè
derivano dal primitivo setto trasverso (il setto trasverso è infatti l’antenato del diaframma, ma anche della
vena cava inferiore e della componente vascolare venosa del fegato); la seconda è che a livello della faccia
anteriore di questo tratto della vena cava arrivano 2 o 3 vene reflue dal fegato, le vene epatiche o
sovraepatiche, le quali immettono sangue nella cava inferiore affinché raggiunga il circolo generale.
Il sangue refluo dal fegato è molto ricco di sostanze nutrienti, elaborate dagli epatociti ed arricchite di un alto
valore aggiunto. Il fegato infatti riceve “le materie prime” tramite la vena porta, che proviene dal tratto
digerente sottodiaframmatico, luogo deputato a digestione e assorbimento. Il sangue che circola nel fegato
non fuoriesce dall’ilo, ma dalla fossa della vena cava dove le vene sovraepatiche si gettano nella vena cava.
Quindi il fegato è una struttura che serve a far circolare sangue proveniente prevalentemente dal piccolo
intestino, ma anche da stomaco e milza, ricco di materie prime assorbite, che produce sostanze immesse
tramite le vene sovraepatiche nella vena cava inferiore. A questo si deve la grande quantità di sangue
circolante nel fegato, la sua consistenza pastosa e il suo colore rosso brunastro. Il fegato quindi può essere
considerato come un organo che si frappone tra 2 vene, non soltanto da un punto di vista anatomico, ma
anche funzionale.
Il solco trasverso si estende grossolanamente dal solco longitudinale di destra al solco longitudinale di
sinistra e contiene l’ilo del fegato.
L’ilo del fegato presenta gli elementi del peduncolo epatico, che sono:
- Vena porta (in entrata)
- Arteria epatica propria (in entrata)
- Nervi (pochi, scarsa innervazione)
- Vasi linfatici (in uscita)
- Via biliare (dotto epatico di destra, dotto epatico di sinistra e, se c’è, dotto epatico accessorio) (in uscita)
All’intorno dell’ilo si trovano linfonodi (dove c’è un ilo so trovano anche linfonodi, le stazioni linfatiche
esterne che ricevono i vasi linfatici provenienti dall’organo).
Il fegato presenta inoltre 2 margini:
- Margine inferiore: è anche anteriore, è molto sottile (un po’ come i 3/4 anteriori del margine anteriore del
polmone di destra) e si continua posteriormente nel margine posteriore.
- Margine posteriore: molto arrotondato a destra, al punto da essere considerato da alcuni una vera e
propria faccia, la faccia posteriore.
Il margine posteriore è in rapporto con il diaframma, tutto tranne una piccola parte, a sinistra della vena cava
inferiore, che disegna una concavità posteriore con cui il fegato prende rapporto con l’esofago addominale.
Per tutto il resto del margine posteriore esso prende rapporto con il diaframma.
Il margine anteriore è anch’esso quasi completamente in rapporto con il diaframma, tranne per una parte, che
si assottiglia e deborda leggermente dalla concavità diaframmatica, al di sotto dell’arcata condrocostale di
destra. Quindi in questo tratto il margine inferiore e la soprastante faccia diaframmatica sono in rapporto con
la parete molle dell’addome a livello dell’ipocondrio di destra e dell’epigastrio.
Questo rapporto è importante dal punto di vista della traumatologia e per l’esame obiettivo del paziente (vedi
sopra). Nonostante questo, in un soggetto in condizioni normali esso non è palpabile, poiché è molto sottile.
Se il fegato invece è ingrossato, come nel caso della steatosi in cui quest’organo è pieno di grasso, esso
deborda ed è più spesso, quindi risulta apprezzabile alla palpazione nell’esame obiettivo.
Andando a ritroso dal dotto epatico comune si assiste ad una ramificazione di ciascuno dei dotti epatici e
varie generazioni di rami, come nella via aerea, all’interno del fegato. Infatti, così come un polmone è
suddivisibile in 10 zone o segmenti polmonari, analogamente il fegato è suddivisibile in 8 zone epatiche,
ciascuna della quali riversa la propria bile in un gruppo di condotti biliari, e soltanto a quello (come se fosse
terminale), che fa capo al condotto epatico di sinistra o al dotto epatico di destra. Le zone epatiche sono
numerate con numeri da 1 a 8 partendo da una regione di faccia viscerale del fegato che sta sul lato sinistro
della vena cava inferiore, che ha la forma di un rettangolo e prende il nome di lobo caudato del fegato,
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perché sporge verso il dietro. Il lobo caudato rappresenta la zona 1, poi si procede in senso orario per tornare
al punto di partenza. Si definiscono così 8 zone biliari, le quali sono anche zone epatiche: per biliare si
intende soltanto la funzione biliare del fegato, che è soltanto una delle numerose funzioni epatiche.
Parallelamente alle vie biliari intra-epatiche si trovano vasi arteriosi e vasi venosi compagni, come succede
nell’albero bronchiale. Questo ha risvolti medico chirurgici: come nel caso della chirurgia polmonare, in cui
se è presente un tumore piccolo si rimuove soltanto la zona interessata, analogamente nella chirurgia del
fegato in caso di metastasi isolate si può rimuovere una singola zona epatica senza compromettere il resto.
Le 8 zone epatiche sono infatti indipendenti l’una dall’altra, presentano ognuna il proprio ramo della vena
porta, il proprio ramo dell’arteria epatica, ecc..
Rapporti del fegato:
Faccia viscerale:
Lobo destro:
- Ghiandola surrenale di destra
- Rene di destra
- Flessura colica di destra o epatica
Solco longitudinale di destra:
- Vena cava inferiore, posteriormente
- Colecisti, anteriormente
Lobo caudato:
- Diaframma, quindi polmone di destra (base)
Lobo quadrato:
- Bulbo duodenale e duodeno discendente
Lobo sinistro:
- Stomaco (fondo, corpo e antro pilorico prospicienti la piccola curvatura)
Faccia diaframmatica:
- Diaframma
- Polmone di destra (base, tramite il diaframma)
- Cuore (faccia diaframmatica, tramite il diaframma).
Pancreas:
Il pancreas è un organo lungo circa 17-20 cm e presenta, da destra verso sinistra, una testa, un corpo e una
coda, distribuite su un piano quasi frontale. Il pancreas infatti passa al davanti dell’aorta in un punto dove è
presente la lordosi lombare, quindi esso disegna una curva con convessità anteriore. Procedendo dalla testa
alla coda si percorre una linea inclinata in alto e verso sinistra: la coda raggiunge un punto che si trova ad
un’altezza superiore rispetto alla testa. Complessivamente il pancreas ha la forma di un martello, con una
testa e un manico, rappresentato dal corpo e dalla coda. Esso ha un colorito roseo tendente al rosso, in quanto
è un organo molto vascolarizzato, di consistenza relativamente molle, cioè né pastoso come il fegato né duro
come la milza o il rene, ma una via di mezzo.
La testa del pancreas può assumere morfologie diverse. In genere ha la forma della testa di un martello, ma
in alcuni soggetti con la parte inferiore passa dietro i vasi mesenterici superiori e li sopravanza, ponendovisi
a sinistra, tanto che se si guarda da dietro sembra che li avvolga. In questi casi questa parte del pancreas che
va verso sinistra prende il nome di processo uncinato del pancreas e il pancreas prende il nome di pancreas
a uncino, poiché disegna una specie di uncino o di amo.
Il pancreas si trova nell’epigastrio e sconfina nell’ipocondrio di sinistra.
Una volta formatosi il coledoco, esso si porta verso il basso per sfociare nella parte discendente del duodeno,
a livello della faccia posteromediale. Esso passa posteriormente al bulbo duodenale, prende rapporto stretto
con il pancreas e in maniera obliqua perfora la parete del duodeno discendente. Se si apre la parte del
duodeno, leggermente oltre la metà del duodeno discendente si può osservare e toccare il punto di sbocco del
coledoco perché in quel punto la parete del duodeno è rilevata verso l’interno a formare una struttura che
prende il nome di papilla duodenale maggiore o di Vater (si legge “Fater”). Essa si forma perché il
coledoco, che ha una certa dimensione (> 1 cm), entra obliquamente nella parete e solleva la parete; inoltre
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proprio alla sua estremità è presente lo sfintere coledocico di Oddi, che occupa spazio; in più attraverso la
papilla duodenale maggiore nel duodeno non arriva soltanto la bile, ma anche una parte del secreto del
pancreas. Infatti a livello di questa papilla sbocca sia il coledoco sia il condotto pancreatico maggiore o di
Wirsung, che raccoglie il secreto esocrino del pancreas proveniente da coda, corpo e parte inferiore della
testa.
Esiste anche un condotto pancreatico minore o di Santorini che raccoglie il secreto esocrino del pancreas
proveniente dalla parte superiore della testa. Questo, sboccando più o meno ad angolo retto a circa metà della
regione posteromediale del duodeno discendente e sollevando la parete, genera la papilla duodenale
minore. Questa organizzazione deriva dal fatto che il pancreas nasce da 2 abbozzi, uno ventrale e uno
dorsale, di cui quello ventrale, che ruota in senso orario, diventa la parte superiore della testa del pancreas e
quello dorsale tutto il resto.
Il condotto di Santorini e il condotto di Wirsung sono connessi: il condotto di Wirsung parte dalla coda e
percorre il corpo ad un certo punto si biforca ad ”Y”, la parte inferiore, più grande, continua ad essere
condotto di Wirsung, la parte superiore diventa condotto di Santorini. Questo significa che la secrezione di
coda, corpo e parte superiore della testa del pancreas può arrivare al duodeno seguendo 2 vie.
Lo sfintere coledocico di Oddi è costantemente contratto e ogni tanto, all’arrivo del segnale ormonale, si
rilascia. Esso si trova a livello dello sbocco del coledoco, quindi della papilla duodenale maggiore, mentre
non è presente alcuno sfintere a livello della papilla duodenale minore. Questo è importante perché il secreto
pancreatico proveniente da coda, corpo e parte superiore della testa arriva nel duodeno soltanto se lo sfintere
è rilasciato, cioè contestualmente all’arrivo della bile proveniente dal coledoco. Viceversa, proprio perché a
livello dello sbocco del condotto pancreatico minore non c’è lo sfintere, la secrezione pancreatica può
liberamente entrare nel duodeno, ma è comunque regolata, dallo stesso ormone che regola l’apertura dello
sfintere di Oddi e stimola la colecisti a contrarsi, che agisce sul pancreas per indurne la secrezione.
Quindi soltanto se c’è in circolo l’ormone il secreto pancreatico e il secreto biliare finiscono nel duodeno,
cioè soltanto se si ha introduzione di cibo (che determina il rilascio dell’ormone).
Il fatto che il pancreas derivi da 2 abbozzi che danno origine a 2 dotti escretori è importante in ambito
chirurgico. Infatti, qualora ve ne sia la necessità, è possibile rimuovere la parte inferiore della testa del
pancreas, senza compromettere la funzione del pancreas: sebbene il dotto di Wirsung venga rimosso è
presente il dotto di Santorini (non è compromessa nemmeno la funzione endocrina del pancreas grazie al
fatto che le insulae pancreatiche sono distribuite secondo un gradiente crescente dalla testa alla coda del
pancreas: nella testa ve ne sono poche).
Rapporti del pancreas:
Rapporti anteriori:
- Colon trasverso: copre solo parte della testa del pancreas
- Stomaco: dalla testa verso la coda, con la parte pilorica e parte del corpo dello stomaco.
Rapporti posteriori:
Testa:
- Coledoco, stretto rapporto
- Origine della vena porta, il tratto iniziale, dietro la parte superiore della testa del pancreas, quella che
corrisponde all’ex abbozzo ventrale. La vena porta si origina dalla confluenza della vena splenica, che
viene da sinistra e porta sangue refluo dalla milza, e della vena mesenterica superiore, che viene dal basso,
dalla regione sottomesocolica, ed è compagna dell’arteria mesenterica superiore. Nel suo tragitto verso
l’alto la vena mesenterica superiore scompare dietro alla testa del pancreas, dove confluisce con la vena
splenica per formare la vena porta. Questo rapporto è importante perché nelle situazioni di masse
occupanti spazio nella testa del pancreas, specialmente quelle che riguardano la parte superiore, la prima
struttura a subirne conseguenze è la vena porta, che può essere compressa con importanti conseguenze.
- Vena cava inferiore, dietro la parte posteriore della testa del pancreas. La vena cava infatti passa dietro il
duodeno trasversale e superato questo si posiziona dietro la parte inferiore della testa del pancreas. Anche
questo rapporto è importante, perché masse occupanti spazio nella testa del pancreas possono comprimere
la vena cava inferiore. Se la massa è molto grande subiscono compressione sia la vena cava inferiore sia la
vena porta, con conseguenze tragiche: la vena cava inferiore trasporta sangue refluo da tutto il distretto
sottodiaframmatico.
Corpo (da destra a sinistra):
- Radice dell’arteria mesenterica superiore
- Aorta addominale
- 1/3 superiore del rene di sinistra
- Ghiandola surrenale di sinistra
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Coda:
- Milza, arrivando addirittura all’ilo della milza
Il pancreas è l’organo più dorsale lungo la linea di mezzo: posteriormente c’è solo l’aorta.
Rapporti superiori: (soltanto di corpo e coda, la testa è incastrata nella “C” duodenale)
- Vasi splenici, arteria splenica e vena splenica
Rapporti inferiori:
- Flessura dudodeno-digiunale, il suo apice, in particolare il corpo del pancreas.
Grosso intestino - Anatomia descrittiva e topografica:
Il grosso intestino si dispone intorno alle anse del piccolo intestino, a formare una specie di cornice. Esso è
più grande rispetto al piccolo intestino e, mentre il piccolo intestino presenta una superficie continua e liscia,
il grosso intestino periodicamente presenta solchi circolari, ogni 3 cm circa, per tutta la sua lunghezza tranne
il retto. Questi sono detti solchi e internamente corrispondono a pieghe circolari, dette pieghe.
Tra solchi contigui esternamente sono presenti delle bombature, delle formazioni convesse, che prendono il
nome di gibbosità, a cui internamente corrispondono strutture cave, dette austrum (il plurale è austra).
In superficie il colon, dal cieco fino all’ultima parte del colon ileopelvico, quindi ancora escluso il retto, è
percorso da strisce vermiformi che prendono il nome di teniae coli. Esse inizialmente sono in numero di 3,
poi procedendo lungo il grosso intestino si riducono a 2 e a livello del retto scompaiono.
Il vantaggio evoluzionistico di questa conformazione, molto diversa a quella del piccolo intestino, sta nel
fatto che rallenta il passaggio del contenuto del grosso intestino verso il retto, allo scopo di dare tempo alle
cellule di assorbire acqua e ioni. Infatti le sostanze passano da una regione piuttosto ampia, l’austrum, ad una
regione a calibro inferiore, a livello della piega. Questa conformazione rappresenta il giusto compromesso tra
la necessità di far progredire il prodotto di rifiuto e quella di non farlo progredire troppo in fretta.
Il grosso intestino ha infatti la funzione di assorbimento soltanto di acqua e ioni, le uniche sostanze che
devono ancora essere assorbite. Assorbendo acqua il chilo (il chimo non appena lascia lo stomaco per
raggiungere l’intestino diventa chilo) diventa sempre più compatto, infatti se si aumenta la motilità del
grosso intestino, cioè il chilo permane troppo poco nel grosso intestino, si ha diarrea, se si riduce la motilità
del grosso intestino, cioè il chilo permane a lungo nel grosso intestino, si ha stipsi, che è quindi l’effetto del
rallentamento della progressione che determina un assorbimento maggiore di acqua a livello del grosso
intestino. Nel caso in cui l’evacuazione venga a lungo rimandata, per qualunque motivo, le feci rischiano di
diventare estremamente compatte e dure e si ha la formazione di fecalomi, che rappresentano un ostacolo alla
progressione.
Il vantaggio evoluzionistico di avere solchi che all’interno corrispondono a pieghe sta nel generare degli
ostacoli alla progressione.
Le teniae presenti sulla superficie esterne sono composte da muscolatura liscia disposta longitudinalmente.
La muscolatura liscia è totalmente assente a livello delle gibbosità: nel grosso intestino tutta la muscolatura
liscia longitudinale è concentrata nelle prima 3, poi 2, teniae coli.
Nel retto, da un punto di vista strutturale, la superficie torna ad essere come nell’esofago e nel piccolo
intestino, poiché non c’è più necessità di rallentare. Il retto infatti è soltanto un deposito momentaneo di feci:
riceve le feci in attesa della evacuazione, quindi non necessità più di questa organizzazione.
Mentre lo stomaco è coassiale con l’esofago, il duodeno è coassiale con lo stomaco e così via, il passaggio
dall’ileo al grosso intestino è tale per cui questi non sono coassiali, anzi l’ileo finisce ad angolo retto nella
parete del grosso intestino, a livello della faccia posteromediale. A causa di ciò tutto ciò che si trova al di
sotto del piano trasverso di ingresso del piccolo intestino nel grosso intestino è a fondo cieco, da cui deriva il
nome di colon cieco. L’ileo, nel punto in cui esso finisce nel cieco, presenta una rima, una fessura, limitata da
2 labbra, una superiore e una inferiore, che fanno parte della parete del cieco e che rappresentano un confine
netto tra ileo e cieco. Queste labbra delimitano quindi uno spazio aereo e formano una specie di valvola,
simile alla valvola mitralica, la valvola ileociecale, che permette il passaggio del chilo dall’ileo al cieco ma
non viceversa. Il vantaggio evoluzionistico della disposizione ad angolo retto tra ileo e cieco sta nel fatto che,
data la differenza di calibro tra queste 2 strutture, essa risulta la soluzione più semplice per permettere il
passaggio del chilo a senso unico e non viceversa (se ileo e cieco fossero stati coassiali, a causa della
differenza di calibro si sarebbe dovuta creare una struttura a forma di imbuto). Ci sarebbe infatti rischio che
il chilo si sposti in direzione inversa: quando l’intestino cieco viene percorso da un’onda peristaltica aumenta
la pressione all’interno del cieco e questa potrebbe determinare la risalta del chilo a ritroso, ma la valvola
ileociecale non lo consente.
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Appendice vermiforme:
Immediatamente sotto alla valvola ileociecale emerge dalla faccia posteromediale del cieco una struttura a
forma di verme, l’appendice vermiforme. Questa è la stessa che può essere soggetta a infiammazione, con il
rischio che la sua parete si rompa e che l’infiammazione finisca nella cavità peritoneale, con potenziale
peritonite, che rappresenta un’emergenza chirurgica. Di conseguenza in casi di infiammazione acuta
dell’appendice si procede con un intervento di appendicectomia. La funzione dell’appendice vermiforme è
sconosciuta.
Clinica dell’appendice vermiforme:
L’appendice vermiforme presenta una lunghezza variabile, ma in genere inferiore ai 10 cm. Essa crea delle
piccole anse che si dispongono in genere dietro al cieco e dietro all’ultima parte dell’ileo. Tuttavia se
l’appendice è particolarmente lunga può accadere che essa non si ponga dietro a cieco e all’ultima parte
dell’ileo, ma si spinga dietro la linea di mezzo oppure si disponga dietro al cieco e al colon ascendente,
verso l’alto, caso in cui si parla di appendice retrociecale (è limitativo: sta anche dietro al colon ascendente).
Queste informazioni sono importanti nel momento in cui l’appendice si infiamma, che determina dolore
causato da irritazione della mucosa e, localmente, anche del peritoneo che in qualche modo avvolge
l’appendice. Questo dolore generalmente si localizza in regione inguinoaddominale, a livello della fossa
iliaca di destra, si irradia fino alla cicatrice ombelicale e impedisce movimenti semplici e naturali, come il
sedersi, poiché questo implica la contrazione di muscoli della parete dell’addome, che determina un aumento
della pressione intraddominale, che si scarica anche a livello dell’appendice infimmata, provocando un
accentuazione del dolore.
Nel caso di appendice molto lunga che si posiziona trasversalmente, con l’estremo che finisce in regione
inguinoaddominale sinistra, la sintomatologia di appendicite non riguarda più la regione destra, ma la fossa
iliaca di sinistra. Questa sintomatologia però può anche riferirsi ad altre cause, come infezione della parete
del colon discendente.
Alcuni soggetti possono avere l’appendice a sinistra, nella fossa iliaca di sinistra, così come il retto e una
parte del colon ascendente. Questo è possibile perché la parte del tratto sottodiaframmatico che si sviluppa
inizialmente è il grosso intestino e soltanto in seguito si allunga il piccolo intestino. Il grosso intestino si
accresce dall’apertura anale verso l’alto, e siccome si allunga più della distanza tra lo stretto inferiore della
pelvi e il diaframma è costretto a creare delle anse. In particolare esso si allunga prima in senso
caudocraniale partendo dall’apertura anale verso sinistra e verso l’alto, poi compiendo un giro in senso
antiorario, quindi verso destra, intorno ai vasi mesenterici superiori, determinando l’arrivo del cieco alla
fossa iliaca destra. Può accadere che la parte finale dell’allungamento, quella che sarà la parte iniziale del
grosso intestino, e con essa l’appendice vermiforme, non arrivi a destinazione, ma rimanga nella fossa iliaca
sinistra: si ha ectopia del cieco e dell’appendice vermiforme. Questa condizione è compatibile con la vita, ma
nel caso di infiammazione dell’appendice la sintomatologia è speculare dal punto di vista della
localizzazione.
Può anche accadere che il cieco non completi la discesa, ma si fermi nell’ipocondrio di destra, cioè sotto al
fegato: in questo caso l’appendice vermiforme si trova a destra.
Milza - Anatomia topografica e descrittiva:
La milza è un organo del sistema immunitario, di per sé non ha a che fare con l’apparato digerente, però si
trova nell’ipocondrio sinistra e le sue funzioni sono strettamente connesse al fegato. Infatti la vena in uscita
dalla milza va direttamente al fegato tramite la vena porta, quindi tutto ciò che la milza fa è mediato dal
fegato.
La principale funzione della milza è quella di essere un organo emocateretico e in particolare
eritrocateretico: è l’organo principale impegnato nella distruzione dei globuli rossi invecchiati, che hanno
una vita di circa 120 giorni dopodiché necessitano di essere rinnovati.
Il prodotto della eritrocateresi, che è prodotto di rifiuto, deve essere smaltito, in particolare il gruppo
prostetico dell’emoglobina, il gruppo eme, responsabile del legame con l’ossigeno. Questa sostanza deve
essere smaltita il prima possibile perché nel sangue non può essere presente in grande quantità. Per questo la
milza si trova nella parte alta dell’addome, nell’ipocondrio di sinistra, per essere vicina al fegato, il quale poi
completa il catabolismo del gruppo eme e lo sfrutta per produrre bile.
La milza è un organo di colore rosso brunastro, leggermente più chiaro rispetto al fegato, molto più piccolo
del fegato e di consistenza relativamente dura in quanto, sebbene molto vascolarizzato, contiene molto
connettivo.
Ha la forma di un disco, con un diametro anteroposteriore inclinato in basso e in avanti parallelamente alle
coste più lungo del diametro trasverso e dello spessore.
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La milza presenta 3 facce, in particolare 2 facce fondamentali: una parietale, diaframmatica, convessa,
perché come nel caso della faccia diaframmatica del fegato si adatta alla concavità del diaframma, detta
faccia diaframmatica o laterale, che guarda verso l’esterno, e una viscerale. In realtà le facce viscerali sono
2, entrambe concave, una guarda in avanti e verso la linea di mezzo e l’altra guarda in dietro e verso la linea
di mezzo. La componente più dorsale della faccia viscerale prende il nome di faccia renale della milza
perché è a contatto con il rene di sinistra, mentre la componente più ventrale prende il nome di faccia
gastrica della milza perché è a contatto con lo stomaco.
Nella faccia gastrica si trova l’ilo della milza, che presenta le seguenti strutture:
- Arteria splenica (in entrata);
- Vena splenica (in uscita);
- Vasi linfatici (in uscita);
- Nervi (in entrata e in uscita).
La milza con le 2 facce viscerali si incastra tra rene di sinistra che sta dietro e stomaco che sta davanti, tanto
che se si guarda l’addome la milza si intravede appena, per la sua porzione che rappresenta il confine tra la
faccia parietale e la faccia gastrica.
Rapporti della milza:
- Rene di sinistra (faccia renale);
- Coda del pancreas;
- Stomaco (faccia gastrica);
- Flessura colica di sinistra (o flessura splenica).
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PERITONEO:
Il peritoneo è una membrana sierosa, del tipo delle pleure e del pericardio sieroso, ma molto più grande:
tappezza la cavità addomino-pelvica e riveste alcuni organi addominali e pelvici.
Origine embriologica:
L’embrione è inizialmente un disco piatto e allungato formato da 3 foglietti: un foglietto dorsale, il
neuroectoderma, un foglietto centrale, il mesoderma, e un foglietto ventrale, l’endoderma. In seguito
questi foglietti si sono evoluti e hanno dato origine a diverse strutture. In particolare:
- Endoderma: cresce prima lateralmente, poi verso l’avanti, trasformandosi in un cilindro cavo, il tubo
digerente, in particolare la componente epiteliale;
- Mesoderma: si divide inizialmente in 3 parti: mesoderma intermedio e mesoderma laterale di destra e di
sinistra. Successivamente queste 3 parti si dividono: il mesoderma intermedio origina la colonna
vertebrale, le meningi e l’aorta addominale, il mesoderma laterale, a destra e a sinistra, si divide in 2:
1) Mesoderma laterale dorsale: genera la parete che circonda il tronco (sottocute, muscoli, connettivo,
tendini, ecc.) ma non l’epidermide, che deriva dal neuroectoderma;
2) Mesoderma laterale ventrale: si adagia sull’endoderma e completa la costituzione della parete del
tubo digerente (elementi muscolari e connettivali del tubo digerente).
Il mesoderma ventrale e il mesoderma dorsale internamente, laddove essi si guardano, si specializzano in una
sierosa: il celoma, che delimita la cavità celomatica.
Ciò che inizialmente è celoma diventa peritoneo e ciò che inizialmente è cavità celomatica diventa cavità
peritoneale.
Il peritoneo copre in parte il mesoderma che è diventato parte della parete che avvolge l’endoderma, quindi
della parete del tubo digerente, e in parte il mesoderma che è diventato parete esterna del tronco. Quindi,
come nel caso del caso del pericardio sieroso e delle pleure, che si dividono in viscerale e parietale ma si
tratta dello stesso foglietto che si ribalta, il foglietto che riveste la parete del tubo digerente
sottodiaframmatico prende il nome di peritoneo viscerale perché riveste un viscere, mentre il resto prende il
nome di peritoneo parietale perché tappezza la parete interna del tronco, e questi 2 foglietti sono l’uno la
continuazione dell’altro.
Diversamente da pleure e pericardio, a causa del fatto che una volta che si forma la parete del tubo digerente
sottodiaframmatico esso si accresce in lunghezza, in larghezza e in alcuni casi si allontana dal luogo in cui è
nato, cioè si sposta ventralmente, si ha la formazione di 2 foglietti di peritoneo che si guardano, che non sono
né peritoneo parietale né peritoneo viscerale, ma costituiscono un legamento peritoneale. Un legamento
peritoneale collega un viscere alla parete addominale fissandolo, ma offrendogli una certa mobilità, se pur
limitata. Esso garantisce il giusto compromesso tra la necessità di fornire mobilità passiva all’intestino e
quella di fissarlo alla parete.
Mesogastrio dorsale e mesogastrio ventrale:
Il primo legamento peritoneale che si forma è il mesogastrio dorsale, che si estende lungo tutto il tubo
digerente sottodiaframmatico. Il termine “mesogastrio” indica il tratto di tubo digerente sottodiaframmatico
(è una sineddoche, una parte per il tutto), l’aggettivo “dorsale” indica che questo legamento connette il
peritoneo viscerale al peritoneo parietale che tappezza la prete posteriore del tronco e lo distingue da un altro
legamento peritoneale, il mesogastrio ventrale.
Dal tratto digerente destinato a diventare duodeno, dalla parete anteriore, viene fuori un condotto che si
ramifica e da origine a fegato e colecisti. In particolare della via biliare si sviluppa inizialmente il coledoco,
similmente a ciò che avviene nella formazione delle ghiandole esocrine, in cui la prima struttura a svilupparsi
è il condotto escretore che poi si ramifica e attorno alle ultime ramificazioni si organizza il parenchima (un
po’ come accade anche nello sviluppo del polmone).
Il peritoneo viscerale che si trovava anteriormente al duodeno si espande e si adatta all’organo appena
formatosi, che è cresciuto verso l’avanti: si forma un secondo legamento peritoneale, il mesogastrio
ventrale, che connette il fegato al duodeno. In questo modo l’ex cavità celomatica viene divisa in 2 regioni,
destra e sinistra, con in mezzo una serie di organi disposti sagittalmente.
Mentre il mesogastrio dorsale si trova lungo tutto l’intestino, quindi nella regione sopramesocolica, nella
regione sottomesocolica e nella piccola pelvi, il mesogastrio ventrale si trova solo in regione
sopramesocolica. Questo perché il il mesogastrio ventrale nasce in funzione di fegato e colecisti, che si
trovano in regione sopramesocolica, quindi non può trovarsi inferiormente ad essi.
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L’aorta, che si trova posteriormente, da origine ad esempio ad un vaso che raggiunge il duodeno e per farlo
attraversa il mesogastrio dorsale e ad un vaso che raggiunge il fegato e per farlo attraversa il mesogastrio
ventrale. Da ciò si deduce che i legamenti peritoneali servono, oltre che a collegare visceri
sottodiaframmatici alla parete del tronco, anche a permettere l’arrivo a di vasi, nervi, linfatici e condotti
escretori agli organi.
Sviluppo della cavità peritoneale:
Nella futura regione sottomesocolica gli organi sono inizialmente disposti in serie: stomaco e duodeno in
mezzo, fegato e colecisti davanti, milza dietro, contenuta nel mesogastrio dorsale.
La milza si forma dalla ramificazione dell’arteria splenica, similmente a ciò che accade nella formazione di
una ghiandola esocrina. Essa si forma dentro al mesogastrio dorsale e cresce al suo interno, spingendolo e
deformandolo. Dentro al mesogastrio dorsale si forma anche l’abbozzo dorsale del pancreas, mentre
l’abbozzo ventrale si forma all’interno del mesogastrio ventrale.
Inizialmente tutti questi organi sono disposti lungo la linea di mezzo. Poi però il fegato si accresce a
dismisura e non può più stare al davanti dello stomaco, cioè su un piano sagittale, ma deve spostarsi. In
particolare il fegato si sposta verso destra e questo non è casuale, ma risponde ad una necessità.
La vena cava inferiore forma un solco a livello del fegato, che la contiene e vi è intimamente connesso per 2
motivi:
1) in quel punto le 2-3 vene sovraepatiche che fuoriescono dal fegato (non dall’ilo ma da dietro) si gettano
nella vena cava inferiore;
2) il fegato può essere considerato un groviglio di vasi, compreso tra una vena che entra, la vena porta, e
2-3 vene che escono, le vene sovraepatiche (e quindi la vena cava inferiore), in cui si sviluppano
elementi epiteliali, gli epatociti: il fegato è un intreccio di 2 reti tridimensionali, una vascolare e una
epiteliale. La rete epiteliale origina dall’endoderma, in particolare dal primitivo duodeno, dalla stessa
componente che tappezza da dentro il coledoco, il dotto epatico comune, ecc., mentre la componente
vascolare (che nel fegato è prevalentemente venosa) deriva dal mesoderma, in particolare dalla
ramificazione della vena cava che ha dato origine alle vene sovraepatiche, le quali si sono ramificate
all’interno (la vena cava, per quel tratto, origina dal setto trasverso, quindi dal mesoderma).
Si ha quindi l’incontro di questi 2 abbozzi: uno epiteliale, ex duodeno, che viene da dietro, e l’altro
vascolare, ex mesoderma, che viene da dietro e da destra. A causa di ciò quest’incontro avviene a destra, e
questo è il motivo per cui il fegato si trova a destra: nasce a destra e qui rimane.
Contemporaneamente dentro al mesogastrio ventrale si sviluppa la milza e gran parte del pancreas.
Il fegato, quindi, nell’accrescersi è come se si spostasse dalla linea di mezzo verso destra. Questo determina
lo spostamento del primitivo mesogastrio dorsale che da sagittale diventa frontale. Inoltre milza e pancreas si
accrescono verso sinistra perché a destra non c’è spazio, di conseguenza stomaco e duodeno, che prima
erano su un piano sagittale, ruotano di 90° e diventano frontali.
Mesogastrio ventrale anteriore:
Il fegato con la sua faccia diaframmatica è connesso in parte al diaframma e in parte alla parete anteriore
dell’addome, sopra la futura cicatrice ombelicale, grazie ad una struttura peritoneale, un altro legamento, che
fa parte sempre del mesogastrio ventrale. Il fegato è quindi compreso tra i 2 foglietti del mesogastrio
ventrale.
Questo legamento si trova lungo la faccia diaframmatica del fegato a connetterlo al diaframma sopra, sotto e
in avanti, quindi alla parete addominale anteriore, ma fino alla futura cicatrice ombelicale.
La vena ombelicale che proviene dalla placenta penetra la parete addominale ed è diretta a fegato e vena
cava inferiore. Essa assicura che ossigeno e nutrienti arrivino al fegato, necessità fondamentale alla
sopravvivenza dell’embrione, oltre che al cuore destro tramite il dotto venoso di Aranzio. Si tratta di una
vena e non di un’arteria perché la resistenza al deflusso del sangue dev’essere minima, poiché la pompa che
spinge sangue è il cuore materno.
Affinché la vena ombelicale raggiunga il fegato, l’embrione si ripiega verso l’avanti contemporaneamente
alla formazione della vena ombelicale, che quindi viene inglobata dalla parete addominale. Di conseguenza il
peritoneo parietale della parete anteriore dell’addome e quello viscerale che copre il fegato si adatta alla
presenza della vena ombelicale, già presente.
Il legamento peritoneale che si forma costituisce quindi la parte anteriore del mesogastrio ventrale.
Il mesogastrio dorsale e il mesogastrio ventrale dopo l’organogenesi danno origine ai vari legamenti
peritoneali e mesi che connettono i visceri tra loro e alla parete addominale.
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Peritoneo a livello del fegato:
Il peritoneo, ex celoma, quindi di derivazione mesodermica, deve adattarsi agli organi che ricopre, cosa che
succede anche con il fegato.
Il fegato deve ricevere direttamente sangue ossigenato e ricco di nutrienti provenienti dalla placenta,
fondamentale per la sopravvivenza e per lo sviluppo dell’embrione, quindi deve esserci una vena (non
un’arteria per il fatto che la resistenza al flusso deve essere bassa) che entra nell’embrione e porta sangue al
fegato, la vena ombelicale.
Dalla fine dell’embriogenesi, cioè durante tutta la vita fetale, la presenza di questa vena impone un certo
comportamento al peritoneo, che vi si deve adattare. In seguito alla chiusura del cordone ombelicale accade
la stessa cosa, in quanto la vena ombelicale si trasforma in un tralcio fibroso, il legamento rotondo.
Inizialmente il celoma può essere immaginato come il guscio di un uovo, quindi il peritoneo, ancora
parietale, tappezza il diaframma, la parete anteriore dell’addome, la pelvi, la parete posteriore e la parete
laterale della cavità addominale (non è vero che prima si forma il peritoneo parietale e dopo si formano gli
organi, queste strutture crescono contestualmente, ma a fini didattici è utile immaginare che sia così). Ad un
certo momento dell’embriogenesi esternamente al celoma si sviluppa il tubo digerente, che si allunga e si
ingrossa e la sua velocità di ingrossamento è maggiore della velocità di allargamento del celoma. Di
conseguenza in una fase successiva il tubo digerente si trova in una posizione più ventrale rispetto a prima e
il celoma/peritoneo vi si adatta. Inoltre dall’aorta, che si trova posteriormente al tubo digerente, si dipartono
vasi che si dirigono verso il tubo digerente. Quindi l’ex celoma, il peritoneo, non è più soltanto parietale, ma
diventa anche viscerale perché avvolge dei visceri. E’ chiaro che nessun viscere è avvolto completamente da
peritoneo, perché deve esserci spazio per far entrare ed uscire strutture come vasi, condotti, nervi, ecc.. A
questo scopo si formano i legamenti peritoneali, strutture formate da foglietti di peritoneo affrontati, né
viscerale né parietale, che ne permettono il passaggio senza bucare il peritoneo. In particolare
l’accrescimento del primitivo tubo digerente e il suo spostamento verso l’avanti si forma un legamento
peritoneale detto mesogastrio dorsale.
Dall’intestino primitivo poi si formano una serie di abbozzi, tra i quali il futuro coledoco. Il coledoco è un
condotto escretore e tutte le ghiandole esocrine si formano in questo modo: prima si forma il condotto
escretore, poi le ramificazioni successive ed infine il parenchima. Questo condotto escretore si forma verso
l’avanti e il suo sviluppo determina la spinta verso l’avanti del peritoneo viscerale che ricopre il primitivo
tubo digerente: si forma così il fegato, pertanto il peritoneo si deve adattare e forma un nuovo legamento,
detto mesogastrio ventrale.
Formazione della vena ombelicale:
Quando si sviluppa una regione del soma, le strutture non si formano in successione, ma
contemporaneamente, in tutte le loro componenti delle varie regioni. Soltanto le strutture di formazione di
tipo ghiandolare sviluppano prima un condotto escretore, poi successive ramificazioni ed infine il
parenchima.
Quindi, ad esempio, quel tratto di vena cava inferiore intimamente connesso alla faccia viscerale del fegato si
è sviluppato in tempi simili rispetto allo sviluppo del tratto sottostante e della rete vascolare del fegato, che
mentre si stava formando si è incrociato con l’altro abbozzo del fegato, quello epiteliale.
Al fegato deve arrivare la vena ombelicale. Nella futura regione mesogastrica, cioè intorno alla futura
cicatrice ombelicale, mentre la parete addominale si sta chiudendo la vena ombelicale è già connessa al
fegato e quando si chiude la ingloba.
La vena ombelicale perfora tutti gli strati della parete addominale, tranne il peritoneo. Ciò è permesso dal
fatto che non avviene prima la chiusura della parete addominale e in seguito l’ingresso della vena, ma la
chiusura della parete anteriore avviene in concomitanza dell’ingresso della vena ombelicale.
Il peritoneo non può essere bucato (soltanto nelle femmine il peritoneo è bucato in 2 punti a livello delle
ovaie), infatti per far arrivare ad esempio un vaso arterioso dall’aorta all’intestino primitivo il peritoneo si
adatta formando un legamento, non viene perforato, così come non si buca per permettere la connessione
anatomo-funzionale tra fegato e duodeno tramite il coledoco.
La vena ombelicale perfora la parete addominale, ma non può perforare il peritoneo, quindi è come se
avvenisse così:
- prima l’embrione si chiude sul davanti;
- poi la vena ombelicale si inserisce, perforando la parete addominale anteriore, ma non il peritoneo;
- in seguito la vena ombelicale (che deve raggiungere il fegato in prossimità dell’ilo perché si deve generare
uno shunt che raggiunge la vena cava, che si trova a quel livello, quindi deve passare sotto al fegato) risale
tra peritoneo parietale e parete addominale anteriore;
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- in seguito essa spinge verso il dietro rettilinizzandosi, spostando il peritoneo e dando origine ad un
legamento peritoneale, il legamento falciforme;
- infine la vena ombelicale si accresce dentro al legamento appena formatosi e raggiunge il fegato.
In realtà ciò che avviene è che l’intreccio tra i 2 abbozzi del fegato, quello vascolare proveniente dalla vena
cava inferiore e quello epiteliale ex endoderma, dà origine anche alla vena porta e al ramo della vena porta
che corrisponde al tratto di vena ombelicale presente all’interno dell’embrione prima e del feto poi. La vena
ombelicale, infatti, si forma contemporaneamente in diverse regioni: in parte dal versante placentare, in parte
dal versante embrionale e in parte in mezzo, ma tutta insieme, e il peritoneo vi si adatta.
La formazione della vena ombelicale determina la costituzione del legamento falciforme del fegato, che si
estende dalla faccia diaframmatica, più o meno a livello della linea di mezzo, al diaframma superiormente e
in avanti verso la parete addominale fino alla cicatrice ombelicale, sotto alla quale chiaramente non può
estendersi (esso nasce a causa della presenza della vena ombelicale, che entra a livello della cicatrice
ombelicale, e si estende verso l’alto rispetto ad essa). Il foglietto destro del legamento va a coprire il lobo
destro del fegato, il foglietto sinistro copre il lobo sinistro.
La linea dove i 2 foglietti del legamento falciforme si piegano, che si estende in direzione sagittale quasi
parallela al piano terra, prende il nome di margine libero della piega.
Legamento falciforme:
Il legamento falciforme unisce il fegato al diaframma sopra e alla parete addominale anteriore sotto e
rappresenta l’ex porzione anteriore del mesogastrio ventrale.
Visto di profilo ha la forma della lama di una falce, a causa della presenza del diaframma, e contiene la vena
ombelicale.
Legamento rotondo:
La vena ombelicale dopo la nascita si trasforma in un tralcio fibroso a sezione circolare, che prende il nome
di legamento rotondo del fegato. Esso di fatto non è un vero e proprio legamento peritoneale, in quanto non
presenta 2 foglietti affrontati ma è costituito soltanto da un tralcio fibroso.
Il legamento rotondo forma la porzione anteriore del solco longitudinale sinistro. Esso si posiziona lungo il
margine libero della piega della porzione anteriore dell’ex mesogastrio ventrale, che poi diventa legamento
falciforme.
Zona nuda del fegato:
I 2 foglietti del legamento falciforme ricoprono prima la faccia diaframmatica, poi quella viscerale
ribaltandosi inferiormente a livello del margine anteriore. Essi provano a portarsi dietro, verso la faccia
viscerale, anche dall’alto, ma ciò non è possibile in quanto incontrano un ostacolo, rappresentato dal muscolo
diaframma. Il fegato, infatti, per la sua componente vascolare deriva dal setto trasverso (che dà origine al
tratto della vena cava inferiore intimamente connesso con la faccia viscerale del fegato, la quale dà origine
alla componente vascolare del fegato), struttura embrionale che dà origine anche al diaframma, quindi fegato
e diaframma sono adesi, quindi continui oltre che contigui. In una certa regione del fegato, quindi, il fegato
non è soltanto a diretto contatto con il diaframma, ma costituisce un tutt’uno con esso. La regione di fusione
tra fegato e diaframma, posto che la vena cava si trova sulla faccia viscerale e costituisce il tratto più craniale
del solco longitudinale di destra, deve trovarsi anch’essa nella parte posteriore del fegato: lungo il margine
posteriore del fegato, che a destra è arrotondato e a sinistra è più sottile, si trova una regione a forma di
losanga la cui superficie non è rivestita da peritoneo, quindi prende il nome di zona nuda del fegato. La zona
nuda del fegato è adesa, incollata al muscolo diaframma e corrisponde più o meno al margine posteriore del
fegato. A causa della comune derivazione embriologica la superficie di fegato corrispondente alla zona nuda
è la stessa che presenta la fossa della vena cava inferiore (il setto trasverso dà origine al diaframma e alla
vena cava inferiore, che a sua volta dà origine alla componente vascolare del fegato).
I foglietti di peritoneo provenienti dal legamento falciforme, giunti al confine dell’area nuda, in prossimità
dei lati superiori della losanga, si ribaltano in avanti, a destra e a sinistra, andando a tappezzare il tetto della
regione, cioè il muscolo diaframma.
I 2 foglietti ex legamento falciforme che arrivati al margine anteriore del fegato tappezzano dal basso verso
l’alto la faccia viscerale del fegato vanno incontro allo stesso destino: giunti ai lati inferiori della zona nuda
del fegato si ribaltano questa volta verso il dietro tappezzando il diaframma e diventando parietali.
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Legamenti triangolari:
Agli estremi destro e sinistro dell’area nuda del fegato, a causa del comportamento dei foglietti ex legamento
falciforme provenienti dal davanti e dal basso, si formano 2 nuovi legamenti peritoneali, detti legamenti
triangolari di destra e di sinistra.
I 4 foglietti che sono la continuazione dei 2 legamenti triangolari, 2 provenienti dal basso e 2 provenienti dal
davanti (che in realtà sono gli uni la continuazione degli altri), nell’insieme costituiscono il legamento
coronario del fegato. Gli estremi di questo legamento sono i 2 legamenti triangolari.
Il legamento falciforme, i legamenti triangolari, il legamento coronario e il tratto di vena cava inferiore
intimamente connessa con il fegato costituiscono i principali mezzi di fissità del fegato.
Questo è importante perché in caso di trapianto di fegato, ad esempio, il tratto di cava intimamente connesso
al fegato appartiene al donatore, mentre i tratti di cava superiore e inferiore a questo sono del ricevente.
Legamento epato-cavale:
Il foglietto ex destro del legamento falciforme, dopo aver girato l’angolo per ricoprire la faccia viscerale del
fegato, incontra un secondo ostacolo costituito dal tratto di vena cava inferiore intimamente connesso con il
fegato: diaframma, vena cava inferiore e componente vascolare del fegato sono un tutt’uno a cui il peritoneo
è costretto ad adattarsi. Di conseguenza questo foglietto peritoneale, che non può tappezzare tutta la faccia
viscerale del fegato, né può frapporsi tra cava inferiore e fegato a causa della presenza delle 2-3 vene
sovraepatiche, sul lato di destra si ferma a causa della presenza del diaframma e sul lato di sinistra risale a
lato della vena cava inferiore, per andare a tappezzare il lobo caudato del fegato (IMMAGINE 66 immagina che il foglietto ex destro del falciforme provenga dal basso).
Si formano così 2 foglietti che si guardano, che formano un altro legamento peritoneale: il legamento epatocavale o dorsale del fegato. Il legamento epato-cavale contiene il tratto di vena cava inferiore intimamente
connesso alla faccia viscerale del fegato, mentre il tratto inferiore della cava inferiore non è ricoperto da
peritoneo.
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Piccolo omento:
Il foglietto ex sinistro del legamento falciforme tappezza tutta la faccia diaframmatica del lobo sinistro del
fegato, poi gira l’angolo verso l’alto ed indietro e verso sinistra e tappezza tutta la faccia viscerale del lobo
sinistro, tranne che nella porzione corrispondente alla zona nuda del fegato. Tuttavia la faccia viscerale del
fegato, oltre che le varie fosse, presenta anche il setto trasverso, in cui si trova l’ilo, porta di ingresso ed
uscita di condotti arteriosi, venosi, linfatici, biliari e nervi (che entrano, non sono tanti: hanno la funzione di
regolare il flusso ematico ma nel fegato c’è un numero molto limitato di arteriole e la gran parte del flusso
nel fegato è assicurato dalla vena porta, quindi la presenza di innervazione non influisce funzionalmente sul
sistema). Le strutture presenti nell’ilo non possono perforare il peritoneo, quindi esso deve adattarvisi.
Infatti, siccome il fegati nace per la componente epiteliale dall’intestino primitivo, in particolare dal
coledoco, che poi si ramifica ecc., è chiaro che le strutture del peduncolo epatico si devono trovare
all’interno del mesogastrio ventrale, legamento peritoneale che connette il peritoneo che avvolge il tubo
digerente al peritoneo che avvolge il fegato. Infatti il peritoneo, che tappezza la faccia viscerale dal basso
verso l’alto, non può frapporsi tra le strutture dell’ilo e l’ilo, quindi vi si adatta. In particolare il foglietto
arrivato a livello dell’ilo del fegato lo aggira e si dispone tutt’attorno al peduncolo epatico avvolgendolo. Si
forma così un legamento peritoneale che, laddove esso contiene gli elementi del peduncolo epatico, prende il
nome di legamento epato-duodenale, che si estende dall’ilo del fegato al bulbo duodenale. Infatti questo
legamento contiene la via biliare extra-epatica, che confluisce nel coledoco, il quale sbocca nella faccia
postero-mediale del duodeno discendente.
I 2 foglietti del legamento epato-duodenale, uno anteriore e uno posteriore, sono l’uno la continuazione
dell’altro, si trovano su un piano frontale e derivano dal ripiegamento del foglietto che ricopre dal basso la
faccia viscerale, quindi questo legamento presenta un margine libero della piega, che si trova a destra.
Il fatto che il legamento epato-duodenale contiene gli elementi del peduncolo epatico determina che in caso
di rimozione della colecisti bisogna entrare dentro al legamento epato-duodenale, quindi incidere il
peritoneo, allo scopo di chiudere arteria e vena cistica, dotto cistico e individuare la presenza di un eventuale
dotto epatico accessorio.
Il legamento epato-duodenale rappresenta l’ex parte posteriore del mesogastrio ventrale, che prima si trova
su un piano sagittale e in seguito alla rotazione del fegato si pone su un piano frontale. Il duodeno fa
immediatamente seguito allo stomaco e il legamento epato-duodenale si continua verso sinistra per arrivare,
con entrambi i foglietti, alla piccola curvatura dello stomaco, allo scopo di dare origine ad un altro
legamento, il legamento epato-gastrico, il quale è la continuazione verso sinistra del legamento epatoduodenale.
Il legamento epato-duodenale e il legamento epato-gastrico formano il piccolo omento, struttura a forma di
ventaglio che rappresenta nel complesso l’ex parte posteriore del mesogastrio ventrale.
Il legamento epato-duodenale al tatto offre grande resistenza, perché contiene gli elementi del peduncolo
epatico, quindi prende il nome di pars tensa del piccolo omento.
Il legamento epato-gastrico invece non offre grande resistenza al tatto, perché non contiene gli elementi del
peduncolo epatico, quindi prende il nome di pars lassa del piccolo omento.
Il piccolo omento è quindi un legamento peritoneale che si trova su un piano frontale e connette il fegato al
bulbo duodenale. Esso è composto dal legamento epato-duodenale e dal legamento epato-gastrico. Esso
connette il fegato al bulbo duodenale e alla piccola curvatura dello stomaco e presenta un margine libero
quasi verticale. Il piccolo omento corrisponde a quella che era la parte posteriore del mesogastrio ventrale,
prima sagittale, poi frontale in seguito alla rotazione del fegato.
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Sviluppo del piccolo omento:
Il piccolo omento dall’ilo del fegato arriva alla piccola curvatura. Esso vi arriva con 2 foglietti, nel cui
spessore si individuano a destra gli elementi del peduncolo epatico (vena porta, coledoco, arteria epatica
propria, ecc.). Arrivati alla piccola curvatura i 2 foglietti del piccolo omento si separano: il foglietto anteriore
va a coprire la faccia anteriore dello stomaco, il foglietto posteriore va a coprire la faccia posteriore dello
stomaco.
Il foglietto posteriore del piccolo omento arrivato alla piccola curvatura va a coprire parte della faccia
posteriore dello stomaco, in direzione della grande curvatura. Questo foglietto tuttavia non raggiunge la
grande curvatura, perché dopo aver percorso gran parte della faccia posteriore fa una conversione a “U”,
torna indietro e diventa parietale: posteriormente a questo foglietto non c’è altro peritoneo, ma soltanto
strutture parietali (aorta, cava, pancreas,…). Questo accade perché il peritoneo che ricopre la faccia
posteriore dello stomaco ad un certo punto incontra un ostacolo, rappresentato dall’ilo della milza, cioè il
luogo dove entra l’arteria splenica ed esce la vena splenica.
Il foglietto anteriore del piccolo omento tappezza la faccia anteriore dello stomaco e arrivato in prossimità
della grande curvatura (in realtà la supera un po’) incontra anch’esso un ostacolo, sempre rappresentato
dall’ilo della milza, quindi inverte la rotta andando a rivestire prima la faccia gastrica della milza, poi la
faccia diaframmatica della milza, poi la faccia renale della milza e arrivato all’ilo è costretto a tornare
indietro per diventare peritoneo parietale.
Tutto torna con l’organogenesi: il piccolo omento è ex mesogastrio ventrale e la milza si sviluppa tra i 2
foglietti del mesogastrio dorsale. In questo modo i 3 organi principali della regione sopramesocolica, fegato,
stomaco e milza, sono tutti organi peritoneali.
Il foglietto ex posteriore dello stomaco, che ha fatto la conversione ad “U” ed è diventato parietale, in realtà
copre il pancreas. Infatti il pancreas è un organo retroperitoneale, perché sta dietro al peritoneo parietale.
Tra la coda del pancreas e l’ilo della milza si forma un legamento, detto legamento pancreatico-lienale.
Esso connette l’ilo della milza alla coda del pancreas e contiene gli elementi del peduncolo splenico: arteria e
vena lienale, vasi linfatici e nervi.
Tra la grande curvatura dello stomaco e l’ilo della milza si forma un legamento, detto legamento gastrolienale. Esso è disposto su un piano sagittale: il foglietto di destra rappresenta l’ex foglietto posteriore del
piccolo omento diventato posteriore dello stomaco, quello di sinistra l’ex foglietto anteriore del piccolo
omento diventato anteriore dello stomaco. Questo legamento contiene l’arteria e la vena gastro-epiploica di
sinistra (vedi poi).
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Grande omento:
Se alla piccola curvatura dello stomaco arriva il piccolo omento, dalla grande curvatura dello stomaco, nella
porzione relativa al corpo e alla parte pilorica, pende verso il basso una struttura piena di appendici grasse, le
appendici epiploiche, che prende il nome di grande epiploon o grande omento, detto anche grembiule
omentale perché è disposto al davanti delle anse del piccolo intestino similmente ad un grembiule.
Il grande omento in realtà non si diparte da tutta la grande curvatura dello stomaco, se così fosse si dovrebbe
ripartire dal cardias, ma dalla porzione di grande curvatura esclusa la parte che ricopre il fondo dello
stomaco, che si estende a partire dal punto in cui l’arteria splenica entra nella milza e ne esce la vena
splenica, cioè l’ilo della milza.
Il grande omento è formato dall’unione dei foglietti che coprono la faccia anteriore e la faccia posteriore
dello stomaco, i quali a livello della grande curvatura si riuniscono e scendono verso il basso rimanendo
affrontati. Essi arrivano circa a qualche cm sopra la
sinfisi pubica, quindi circa all’altezza del mesogastrio in un soggetto giovane, ma con l’invecchiamento il
peritoneo si atrofizza e il grande omento tende a ritirarsi. Raggiunto il limite inferiore entrambi i foglietti
risalgono posteriormente mantenendo la posizione che avevano e si forma così il grande omento.
Il grande omento risulta quindi la continuazione del piccolo omento, i cui foglietti a livello dello stomaco si
dividono per poi riunirsi a formare questa struttura.
I 2 foglietti che salgono, a sviluppo embrionale finito, quindi da circa il 3° mese della gravidanza in avanti,
raggiunto il colon trasverso, si separano nuovamente: il foglietto anteriore passa al davanti del colon
trasverso, poi sopra e poi indietro, quello posteriore passa sotto al colon trasverso e poi dietro. I 2 foglietti,
una volta ricoperto il colon trasverso, si riuniscono posteriormente a formare il mesocolon trasverso, che si
dirige verso la parete posteriore e risulta quindi la continuazione del grande omento, che a sua volta è la
continuazione del piccolo omento, il quale è a sua volta la continuazione del legamento falciforme.
Il colon trasverso è quindi un organo peritoneale. Esso si frappone tra i 2 foglietti ascendenti del grande
omento e il mesocolon trasverso.
I 2 foglietti del mesocolon trasverso vanno verso la parete posteriore e si separano nuovamente: il foglietto
superiore diventa parietale e si continua verso l’alto con il foglietto parietale della retrocavità degli epiploon,
il foglietto inferiore va verso il basso, diventa parietale per un tratto e poi va incontro a diverso sviluppo
(vedi poi).
Lo spazio che si forma tra le 2 coppie di foglietti del grande omento, quella che scende e quella che sale (che
in realtà è una sola che inverte il tragitto), prende il nome di recesso inferiore della borsa omentale. Si
tratta di uno spazio che comunica con la retrocavità degli epiploon (o borsa omentale) ed è molto importante
in clinica.
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Retrocavità degli epiploon:
In periodo embrionale, quando gli organi si trovano uno davanti all’altro (stomaco con davanti fegato e con
dietro l’abbozzo posteriore del pancreas e l’abbozzo della milza) la cavità peritoneale risulta divisa in 2, una
regione destra e una regione sinistra. In seguito alla rotazione del fegato la cavità di sinistra diventa anteriore
e quella di destra diventa posteriore. Sebbene quando gli organi sono su un piano sagittale i volumi di queste
cavità sono più o meno uguali, in seguito alla rotazione del fegato si ottiene una cavità anteriore, ex sinistra,
molto maggiore di quella posteriore, ex destra. La cavità posteriore è detta retrocavità degli epiploon o
borsa omentale.
I limiti della retrocavità degli epiploon sono:
- superiormente il peritoneo che copre la faccia viscerale del fegato*;
- inferiormente il mesocolon trasverso e colon trasverso;
- anteriormente il peritoneo che copre la faccia posteriore dello stomaco;
- posteriormente il peritoneo parietale che copre, da destra a sinistra, la cava inferiore, l’aorta, il corpo e la
coda del pancreas, il rene e il surrene di sinistra.
La parte pilorica dello stomaco va verso destra, verso il dietro e verso l’alto. Il fatto che vada a destra e dietro
è facilmente comprensibile, ma non che vada in alto. Lo stomaco non necessità di grandi mezzi di fissità, in
quanto esso è naturalmente sospeso perché fa seguito all’esofago, organo che viene dall’alto, passa per il
diaframma, è immerso in tessuto fibroso del mediastino che lo circonda, fa capo al faringe che è incollato
alla base del cranio, ecc.. Allo stomaco tuttavia fa seguito il duodeno, che è piccolo intestino e necessita di
essere fissato, altrimenti andrebbe verso il basso, in particolare viene fissato nella sua primissima parte, il
bulbo duodenale: in seguito alla rotazione del fegato, e quindi anche del duodeno, verso destra, il foglietto
posteriore, ex destro del duodeno (ex mesogastrio dorsale), si fonde con il peritoneo parietale, rendendo
tutt’uno questi 2 foglietti. Questa fusione coinvolge la parte di foglietto che copre posteriormente il duodeno
discendente, trasverso e ascendente, ma non il bulbo duodenale. Il bulbo duodenale è quindi peritoneale, il
duodeno discendente, trasverso e ascendente sono retroperitoneali. Infatti in caso si voglia spostare il
duodeno verso l’operatore è necessario prima incidere il peritoneo parietale.
Sperimentalmente risalendo con un dito lungo il duodeno discendente non vi si può porre posteriormente, ma
raggiunto un certo punto non soltanto si riesce ad arrivare dietro al bulbo duodenale, ma anche dietro allo
stomaco fino addirittura all’ilo della milza, passando al davanti del rene di sinistra. A questo livello si ha
l’ingresso nella ex cavità di destra dell’addome, che è diventata posteriore. Questo spazio di ingresso
rappresenta una fessura disposta su un piano sagittale e prende il nome di anello epiploico di Winslow
(alcuni lo chiamano foro, ma ciò non è corretto perché non si ottiene tagliando nulla). Attraverso l’anello
epiploico di Winslow si entra in uno spazio più ampio, che si apre ad imbuto, posto dietro allo stomaco: la
retrocavità degli epiploon (“retrocavità” perché è una cavità che sta dietro allo stomaco, “degli epiploon”
perché “epiploon” significa “omento”, cioè struttura con una serie di appendici, le appendici epiploiche) o
borsa omentale (“borsa” perché ricorda un otre disposto trasversalmente, “omentale” perché nel suo ingresso
è delimitata anteriormente dal piccolo omento e ha a che fare con il grande omento).
I limiti dell’anello epiploico di Winslow sono:
- anteriormente il legamento epato-duodenale;
- superiormente l’ilo del fegato;
- posteriormente la vena cava inferiore;
- inferiormente il peritoneo che risale per diventare parietale (proveniente dal bulbo).
Inferiormente la borsa omentale presenta uno spazio, delimitato dai 2 foglietti del grande omento che
pendono dalla grande curvatura dello stomaco e vanno verso il basso per poi risalire ed avvolgere il colon
trasverso: il recesso inferiore della borsa omentale.
*Il tetto della borsa omentale è rappresentato dal peritoneo che ricopre il fegato, ma verso sinistra il tetto diventa parte del
diaframma. In realtà il peritoneo che copre la faccia posteriore dello stomaco copre la parte pilorica e il corpo, ma non il fondo, che è
coperto solo davanti da peritoneo. Il peritoneo che copre la faccia posteriore dello stomaco, infatti, si ribalta prima sul diaframma,
tanto che la faccia posteriore del fondo dello stomaco è nuda, non ha rivestimento peritoneale, ma prende rapporto diretto con il
diaframma. Il tetto della retrocavità degli epiploon è quindi in parte peritoneo viscerale che ricopre fegato, lobo sinistro, e in parte
muscolo diaframma.
La colecisti può presentare diversi problemi. Essa può infiammarsi in maniera sterile, ma può anche
infiammarsi a causa di infezione batterica: i batteri presenti nel duodeno possono attraversare lo sfintere
coledocico di Oddi, risalire retrogradamente lungo il coledoco e raggiungere la colecisti, che si infetta. In tal
caso si forma un ascesso, formazione che contiene pus, quindi batteri, che prima o poi si apre e diffonde nella
cavità peritoneale, con possibilità di diffondere anche nella retrocavità degli epiploon. Nel frattempo i batteri
si moltiplicano, si sviluppa una peritonite che, nel caso di diffusione batterica nella retrocavità degli
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epiploon, insorge tardivamente e in una superficie diffusa. Infatti in questo caso i batteri hanno tutto il tempo
di moltiplicarsi prima di diffondere a livello peritoneale e quando l’infiammazione insorge la situazione è già
grave, mentre nel caso di diffusione batterica direttamente a livello peritoneale l’infiammazione insorge
subito e viene prontamente trattata. La peritonite è problematica in quanto il peritoneo è molto irrorato e in
caso di infiammazione l’afflusso di sangue aumenta, quindi in caso di peritonite molto diffusa molto sangue
raggiungerà il peritoneo e altri tessuti andranno incontro ad una carenza di afflusso. Inoltre in caso di
infiammazione si accumula liquido interstiziale, che proviene dal sangue, e questo determina un
ispessimento del sangue, perché si riduce la componente acquosa, che causa sovraccarico cardiaco. Si ha
quindi shock ipovolemico a causa della riduzione del volume di sangue non si trova più nel circolo ma fuori,
nell’interstizio, che rappresenta un’emergenza. E’ questo il motivo per cui si muore di peritonite, non per
l’infiammazione in sé. Infine se il soggetto ha ad esempio un disturbo coronarico, questa condizione può
generare anche un infarto, che aggiunge danno al danno.
L’immagine rappresenta una sezione parasagittale mediana
destra. Questa infatti passa per l’ilo del fegato, perché ci
sono 2 linee che vanno dalla faccia viscerale del fegato
verso una struttura di sezione grande, immediatamente
sotto al fegato e a forma di imbuto che si deduce essere la
parte pilorica dello stomaco, che si trova in regione
paramedica destra.
Il colon trasverso è connesso alla parete posteriore dal
mesocolon trasverso. Appoggiati alla parete posteriore,
dietro al colon trasverso, si trovano duodeno trasverso e
pancreas (in particolare corpo).
La struttura colorata in blu rappresenta la retrocavità degli
epiploon (molto ingrandita a fini didattici).
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Origine embriologica del grande omento:
Il grande omento appare come un enorme legamento gastro-colico, poiché si estende dallo stomaco al colon
trasverso (in realtà esiste un legamento che prende il nome di gastro-colico, non è il grande omento, ma
l’estremo laterale di sinistra e craniale del grande omento). Tuttavia da un punto di vista organogenetico è
strano che ci sia un legamento gastro-colico, in quanto il colon non fa seguito allo stomaco: a seguire lo
stomaco c’è duodeno, piccolo intestino e soltanto poi il colon. Il grande omento che pende dalla grande
curvatura dello stomaco di fatto rappresenta una parte del vecchio mesogastrio dorsale, quindi appare strano
che a sviluppo completo ci sia un legamento che connette lo stomaco, grande curvatura, direttamente al
colon trasverso, saltando piccolo intestino, cieco e colon ascendente.
In realtà i 2 foglietti del piccolo omento ricoprono lo stomaco, poi vanno verso il basso a formare il grande
omento e risalgono. In una fase precedente a quella definitiva, il colon trasverso ha il suo meso, il mesocolon
trasverso, ex mesogastrio dorsale, che avvolge completamente il colon trasverso, mentre entrambi foglietti
della componente del mesogastrio dorsale che rappresenta il grande omento passano davanti e sopra il colon
trasverso, al punto che primitivamente nella regione del mesocolon trasverso si avevano 4 foglietti disposti a
sfoglia, 2 inferiori del primitivo mesocolon trasverso e 2 superiori ex grande omento. Successivamente, per
la necessità di fissare il colon trasverso alla parete posteriore, dandogli però una certa mobilità passiva in
senso craniocaudale, e considerato il movimento del grosso intestino nel suo accrescimento, cioè in senso
antiorario scavalcando i vasi mesenterici, accade che dei 4 foglietti a livello della regione del mesocolon
trasverso, i 2 foglietti più interni vengono assorbiti, per cui alla fine rimane soltanto il definitivo mesocolon
trasverso. A questo si deve il fatto che ci sia un legamento molto ampio che connette la grande curvatura
dello stomaco al colon trasverso.
Il foglietto superiore del definitivo mesocolon trasverso diventa parietale e va a costituire la parete posteriore
della retrocavità degli epiploon, il foglietto inferiore scende verso il basso, coprendo parte del duodeno
discendente, duodeno trasverso e duodeno ascendente, dopodiché torna ad essere parietale (di fatto è già
parietale quando ricopre il duodeno, in quanto il foglietto di destra del duodeno, che aveva ruotato a destra, si
era fuso con il foglietto parietale).
Soltanto il bulbo duodenale e la prima parte del duodeno discendente sono peritoneali, poiché hanno
peritoneo anteriormente e posteriormente.
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Radice del mesocolon trasverso:
I 2 foglietti del mesocolon trasverso, alla loro origine sulla parete posteriore, rappresentano la radice del
mesocolon trasverso, che in qualche modo mima la posizione del colon trasverso: va dal basso verso l’alto e
da destra verso sinistra. Questa linea incrocia a croce dal davanti il duodeno discendente, tanto che la prima
metà del duodeno discendente, oltre che il bulbo duodenale, si trova in regione sopramesocolica, mentre tutto
il resto del duodeno si trova in posizione sottomesocolica, compresa la flessura duodeno-digiunale. Anche
parte della testa, corpo e coda del pancreas si trovano in regione sopramesocolica, mentre la restante parte
della testa è sottomesocolica.
Da un punto di vista pratico colon e mesocolon trasverso servono a suddividere la cavità addominale in
regione sopramesocolica e regione sottomesocolica. In particolare in regione sopramesocolica si trovano
fegato, colecisti, gran parte della via biliare exrta-epatica, stomaco, milza, parte di rene e surrene di destra e
sinistra, corpo, coda, e parte superiore della testa del pancreas, bulbo duodenale e la metà superiore del
duodeno discendente.
Per quanto riguarda i reni si può dire che approssimativamente una metà si trova in regione sopramesocolica
e una metà in regione sottomesocolica. In realtà, però, la radice del mesocolon trasverso si diparte a livello
del rene di destra in un punto inferiore rispetto a quello di sinistra: a destra si trova subito sotto al bacinetto
renale, a sinistra subito sopra ad esso. Di conseguenza a destra il bacinetto renale e ciò che si trova
superiormente sono sopramesocolici, a sinistra bacinetto renale e ciò che si trova inferiormente sono
sottomesocolici. Questa caratteristica anatomica ha importanti risvolti in ambito chirurgico: se si deve
intervenire a livello della pelvi renale a sinistra si raggiunge dal basso, a destra, non potendo essere raggiunta
dall’alto a causa della presenza del fegato, si raggiunge incidendo il peritoneo parietale sul lato destro del
duodeno discendente e spostando verso sinistra il duodeno.
Peritoneo del grosso intestino:
Il colon trasverso è un organo peritoneale in quanto la sua superficie è per la maggior parte ricoperta da
peritoneo.
Il cieco è decisamente peritoneale, perché è avvolto sul davanti, sui lati e in dietro da peritoneo, tanto che si
può infilare una mano posteriormente ad esso, nella fossa iliaca di destra. Addirittura anche l’appendice
vermiforme è anch’essa un organo peritoneale, che presenta un meso detto mesenteriolo.
Salendo dal cieco verso la flessura colica di destra si percorre il colon ascendente, organo invece
retroperitoneale. Esso tuttavia non è sempre stato tale, in quanto tutto il tubo digerente in una fase primitiva
dello sviluppo era ricoperto da mesogastrio dorsale. Accade che fino ad una certa fase primitiva dello
sviluppo il colon ascendente era connesso alla parte posteriore dell’addome attraverso un legamento, per cui
poteva basculare. Poi il colon ascendente cresce in larghezza molto più del suo peritoneo, quindi ad un certo
punto si trova schiacciato verso la parete posteriore coperto dal davanti dal peritoneo parietale. Quindi il
colon ascendente è retroperitoneale e fisso, non ha nemmeno mobilità passiva.
La stessa cosa accade nella maggioranza degli individui a livello del colon discendente: nella maggioranza
anche a questo livello c’è un mesocolon discendente che gli fornisce una certa mobilità passiva, poi il colon
discendente cresce più del suo peritoneo e diventa retroperitoneale.
Esiste una minoranza in cui si ha una situazione intermedia: il colon discendente mantiene tutto o una parte
del suo meso, quindi è dotato di mobilità passiva e non è retroperitoneale ma peritoneale.
Mesentere e radice del mesentere:
Il grosso intestino, cieco, colon ascendente, colon trasverso, colon discendente e colon ileopelvico
rappresentano la cornice all’interno della quale si trovano le anse del piccolo intestino. Il piccolo intestino
tuttavia, tranne il duodeno, dev’essere dotato di mobilità passiva, quindi il primitivo mesogastrio dorsale
deve mantenersi anche sviluppo completato ed è rappresentato dal mesentere. Il mesentere dev’essere
immaginato come un enorme ventaglio aperto il cui manico è rappresentato dalla radice del mesentere, che si
trova a livello della parete posteriore dell’addome ed è lunga circa 20 cm, la parte espansa si trova laddove i
2 foglietti si devono separare per accogliere il piccolo intestino ed è lunga poco meno di 6 metri.
Il piccolo intestino per poter essere contenuto in uno spazio relativamente piccolo deve formare una serie di
pieghe, che formano le anse dell’intestino mesenteriale. Visto che le anse devono occupare tutti gli spazi
della cavità addominale, la distanza tra la radice e la parte espansa del mesentere non può essere costante, ad
esempio all’inizio, a livello della flessura duodeno-digiunale, la distanza è piccola; poi però le anse si
sistemano prima nell’angolo della flessura colica di sinistra, poi nell’angolo della flessura colica di destra,
ma siccome il mesentere si diparte a livello dell’apice della flessura duodeno-digiunale, all’altezza di L2 sul
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lato sinistro della linea di mezzo, il mesentere delle prime anse digiunali è più corto rispetto al peritoneo
delle anse digiunali che devono sistemarsi nell’angolo della flessura colica di destra e di sinistra.
La radice del mesentere va dall’alto in basso e da immediatamente a sinistra della linea di mezzo alla fossa
iliaca di destra. Per comprendere la formazione del mesentere è utile confrontare la linea che indica la radice
del mesentere con la linea che indica la radice del mesocolon trasverso. Ad un certo punto si ha una
situazione in cui il foglietto inferiore del mesocolon trasverso emette una specie di evaginazione che diventa
la radice del mesentere, i cui 2 foglietti, di destra e di sinistra, fanno capo entrambi al foglietto inferiore del
mesocolon trasverso. Queste 2 radici si dispongono quindi a formare una specie di “T” maiuscolo
stampatello, leggermente storta in quanto il mesocolon trasverso va da destra verso sinistra e dall’alto verso
il basso e la radice del mesentere va dall’alto in basso e da sinistra a destra.
A causa di ciò la regione sottomesocolica viene suddivisa in diverse regioni, prendendo come punti di
riferimento la radice del mesentere, il colon ascendente e il colon discendete.
Inizialmente viene suddivisa in 2 spazi, uno di destra e uno di sinistra, di cui lo spazio di sinistra è molto
maggiore dello spazio di destra perché la radice del mesentere termina a livello della fossa iliaca di destra.
Ciascuno di questi spazi si dividono in uno spazio mesenterocolico e parietocolico.
Lo spazio parietocolico indica lo spazio compreso tra il colon ascendente, o discendente, e la parete laterale
dell’addome, a destra e a sinistra. In questo spazio si trovano alcune anse del piccolo intestino, che coprono
colon ascendente e discendente.
Lo spazio mesenterocolico è lo spazio, a destra, compreso tra radice del mesentere e colon ascendente, a
sinistra colon discendente e radice del mesentere.
Nei 2 spazi mesenterocolici, di destra e di sinistra, le strutture principali presenti sono le anse del piccolo
intestino, ma posteriormente ad esse si trovano strutture peritoneali. Ad esempio ci sono gli ureteri, di destra
e di sinistra, i vasi genitali (ovarici nelle femmine e testicolari o spermatici interni nei maschi) e in
particolare nervi del plesso lombare, in numero di 5, almeno nella loro componente iniziale: nervo
femorale, nervo otturatorio, inizio del nervo ileo-inguinale, inizio del nervo ileo-ipogastrico e l’inizio del
nervo genito-femorale. Questi nervi sono strutture retroperitoneali, quindi schiacciati contro la parete
posteriore, innervano la parete anteriore e laterale e l’arto inferiore. Di conseguenza in caso di masse
occupanti spazio si può avere la compressione di questi nervi, con conseguente dolore nevralgico che
interessa l’arto inferiore.
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Vascolarizzazione degli organi del tubo digerente
sottodiaframmatico:
Arterie freniche:
L’aorta emerge dallo iato aortico del diaframma all’altezza di T12. Appena supera lo iato ed entra
nell’addome dà origine a 2 arterie, le arterie freniche inferiori, di destra e di sinistra, che vanno ad irrorare
ciascuna un emidiaframma e sono per questo arterie parietali. Esse sono importanti non soltanto perché
irrorano un muscolo fondamentale per la respirazione, ma anche perché danno origine alle 2 arterie
surrenali superiori, che contribuiscono all’irrorazione delle ghiandole surrenali. La ghiandola surrenale
riceve sangue anche dalle 2 arterie surrenali medie, che si originano direttamente dall’aorta addominale, e
dalle 2 arterie surrenali inferiori, che provengono dalle arterie renali.
Tripode celiaco:
Subito sotto l’origine delle 2 arterie freniche inferiori, dalla faccia anteriore dell’aorta emerge un vaso impari
e mediano, molto corto ma molto grosso, il tronco celiaco. Esso nasce a circa T12, si dirige in basso e verso
destra e dopo qualche cm si divide in 3 vasi, tanto che prende anche il nome di tripode celiaco.
Il tronco celiaco si divide in 3 rami:
1) arteria gastrica di sinistra: la più piccola, appena nasce cambia direzione e torna in alto sulla sinistra,
quindi è un vaso ricorrente;
2) arteria gastroepatica o epatica comune: va a destra e in basso;
3) arteria splenica o lienale: va a sinistra, su un piano orizzontale, percorrendo il margine superiore del
corpo e della coda del pancreas.
1) Arteria gastrica di sinistra*:
L’arteria gastrica di sinistra va in alto e verso sinistra, quindi è ricorrente (cambia direzione rispetto al vaso
da cui si era originato), per raggiungere la regione cardiale, il passaggio da esofago a stomaco, per poter
raggiungere lo stomaco senza perforare il peritoneo. Una volta arrivata a livello della regione cardiale
cambia direzione e scende lungo la piccola curvatura dello stomaco (in realtà ve ne sono 2 in quanto appena
arrivata in regione cardiale quest’arteria dà origine ad un vaso anteriore e uno posteriore, che si trovano
entrambi lungo la piccola curvatura dello stomaco). Lungo questo tragitto irrora la regione cardiale, la faccia
anteriore del fondo dello stomaco (non la faccia posteriore) e le porzioni di entrambe le facce del corpo dello
stomaco prospicienti la piccola curvatura.
Lungo la piccola curvatura dello stomaco l’arteria gastrica di sinistra, in un punto, si anastomizza a pieno
canale con l’arteria gastrica di destra*, che proviene da destra.
Lungo la piccola curvatura si organizza quindi un importante circolo anastomotico, dato dall’arteria gastrica
di sinistra (che in realtà sono 2), che nasce direttamente dal tripode celiaco, e dall’arteria gastrica di destra,
che deriva anch’essa ma indirettamente dal tripode celiaco. L’arteria gastrica di destra si occupa di irrorare
anteriormente e posteriormente la parte pilorica dello stomaco prospiciente la piccola curvatura.
N.B.: L’arteria gastrica di sinistra raggiunge la regione cardiale per poi scendere lungo la piccola curvatura.
In realtà, siccome essa si dirige verso la regione cardiale, arrivata a questo livello ne approfitta e irrora
anteriormente il fondo dello stomaco prospiciente la piccola curvatura (la faccia posteriore è irrorata
dall’arteria gastrica posteriore o quando sono più dalle arterie brevi), anteriormente e posteriormente il corpo
dello stomaco prospiciente la piccola curvatura e dà origine a 2-3-4-5 arterie esofagee inferiori, che vanno
ad irrorare la parte addominale dell’esofago. Il sangue che circola nell’ultima parte dell’esofago finisce in
vene esofagee inferiori che sono tributarie della vena gastrica di sinistra, quindi anche questo sangue
raggiunge il fegato, o tramite la vena porta o direttamente al fegato tramite vene porte accessorie.
Questo è importante perché quando il problema della stasi sanguigna a livello del tubo digerente deriva da un
problema del fegato accade che anche le vene esofagee si gonfiano, perché c’è un aumento di pressione. Si
formano quindi delle vere e proprie varici a livello di queste vene, cioè dilatazioni, che possono causarne lo
scoppio, con sanguinamento e accumulo di sangue a livello retroperitoneale, con conseguente anemia e, in
caso di mancato intervento, shock ipovolemico. Può anche accadere che il sanguinamento sia così massivo
che il sangue si riversi all’interno dell’esofago e dello stomaco, quindi si può avere vomito sanguinolento.
2) Arteria gastroepatica o epatica comune:
Il vaso più grande del tripode celiaco, che difatti da qualcuno ne è considerato la continuazione, è l’arteria
gastroepatica o epatica comune, la quale si dirige verso il bulbo duodenale e una volta arrivata a questo
livello si divide in 2 arterie:
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- arteria gastroduodenale, che scende. Ha un decorso molto breve e si dirige dietro al bulbo duodenale. A
questo livello si divide in 2 rami:
- arteria gastroepiploica di destra*, che percorre da destra verso sinistra la grande curvatura dello
stomaco. Prende questo nome perché percorrendo la grande curvatura dal piloro verso il triangolo di
Labbé irrora, oltre che la parte pilorica dello stomaco, anche il grande omento, con una serie di vasi
epiploici;
- arteria pancreaticoduodenale superiore (in realtà ve ne sono 2, ma hanno lo stesso decorso), uno
che si colloca tra il duodeno e la testa del pancreas. Si anastomizza con l’arteria
pancreaticoduodenale inferiore.
- arteria epatica propria, che sale. E’ diretta al fegato e prima di arrivarci dà origine a 2 vasi:
- arteria gastrica di destra;
- arteria cistica, diretta alla colecisti.
3) Arteria splenica o lienale:
Il terzo ramo del tripode celiaco è l’arteria splenica o lienale, che raggiunge la milza dove deve ramificarsi.
Per arrivare alla milza quest’arteria approfitta della presenza di corpo e coda del pancreas: vi si poggia e
seguendone il margine superiore raggiunge l’ilo della milza (non a caso la coda del pancreas termina a livello
dell’ilo della milza), con un andamento tortuoso.
L’arteria splenica o lienale dà origine a diversi rami:
- arterie pancreatiche: durante il tragitto lungo il margine superiore del pancreas, irrorano corpo e coda
del pancreas (non la testa, che è invece irrorata dalle arterie pancreaticoduodenali);
- arteria gastroepiploica di sinistra*: prima di entrare nell’ilo della milza, percorre una parte della grande
curvatura dello stomaco, a partire dal punto all’altezza del confine tra fondo e corpo dello stomaco, e
lungo questa si anastomizza a pieno canale con l’arteria gastroepiploica di destra. Da questa arteria
nascono vasi che irrorano corpo dello stomaco e parte pilorica, anteriormente e posteriormente e vasi
epiploici che si anastomizzano con quelli che provengono dall’arteria gastroepiploica di destra;
- arteria gastrica posteriore o arterie gastriche brevi*: in alcuni soggetti dall’arteria splenica si origina
un vaso che va verso il fondo dello stomaco e si ramifica. Quando è un vaso singolo alla sua nascita
prende il nome di arteria gastrica posteriore, che sale, raggiunge il fondo dello stomaco e lì si ramifica,
irrorandolo. In particolare irrora la parte posteriore del fondo posteriore (anche se alcuni vasi scavalcano
la grande curvatura e si posizionano anteriormente), che non veniva irrorata dall’arteria gastrica di sinistra.
In altri soggetti dall’arteria splenica si originano più di un vaso, i quali vanno sempre ad irrorare la parte
posteriore del fondo dello stomaco ma prendono il nome di arterie gastriche brevi.
*In totale quindi lo stomaco riceve sangue da 5 ordini di arterie: arteria gastrica di destra, arteria gastrica
di sinistra, arteria gastroepiploica di destra, arteria gastroepiploica di sinistra e arteria gastrica posteriore /
arterie gastriche brevi. Questo è possibile che sia dovuto al fatto che lo stomaco necessita di grandi quantità
di sangue in quanto la sua parete è molto spessa, è formata da muscolatura liscia e svolge una notevole
attività. Questa caratteristica è importante dal punto di vista del drenaggio linfatico. Esiste infatti una
regola secondo cui i linfonodi che drenano linfa da un organo, in genere, si trovano lungo la/e arteria/e che
irrorano quell’organo, quindi, visto che a livello dello stomaco vi sono 5 ordini diversi di arterie, a drenare
lo stomaco ci sono 5 gruppi di linfonodi.
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L’arteria splenica, che decorre con andamento tortuoso lungo il margine di corpo e coda del pancreas,
raggiunge la milza, che tuttavia è un organo peritoneale. Quest’arteria quindi, che per quasi tutto il suo
tragitto è retroperitoneale (percorre il margine del pancreas che è retroperitoneale), per raggiungere l’ilo della
milza, che si trova nella faccia gastrica, non può fare altro che impegnarsi nel legamento pancreaticolienale.
Davanti al legamento pancreatico-lienale si trova il legamento gastro-lienale e a questo livello si stacca
dall’arteria splenica l’arteria gastro-epiploica di sinistra, che per arrivare alla grande curvatura dello stomaco
si impegna nel legamento gastro-lienale. L’incrociamento tra arteria splenica e grande curvatura dello
stomaco si ha circa al confine tra fondo e corpo dello stomaco.
Problema analogo hanno gli altri 2 rami del tripode celiaco, l’arteria gastrica di sinistra e l’arteria epatica
comune che poi diventa epatica propria.
L’arteria gastrica di sinistra risale verso la regione del cardias, poi scende percorrendo la piccola curvatura
dello stomaco. Essa va verso l’alto e poi scende perché soltanto verso l’alto, nella regione cardiale, trova il
varco per andarsi ad infilare tra le pagine di peritoneo, in particolare del legamento epato-gastrico. L’arteria
gastrica di sinistra infatti, così come l’aorta addominale, il tripode celiaco e i tutti i suoi 3 vasi, è
retroperitoneale, e necessita di infilarsi nel peritoneo per raggiungere lo stomaco.
L’arteria epatica propria, ramo dell’arteria epatica comune, deve raggiungere l’ilo del fegato, ma per farlo si
deve infilare tra i 2 foglietti del piccolo omento, in particolare del legamento epato-duodenale. Essa infatti
fa parte del peduncolo epatico, che è contenuto nello spessore del piccolo omento. A livello del bulbo
duodenale il foglietto anteriore del peritoneo, che proviene dal fegato, passa al davanti del bulbo duodenale e
diventa parietale, mentre il foglietto posteriore passa posteriormente ad esso e risale, perché il peritoneo che
scendeva si è fuso. L’arteria epatica propria raggiunge l’ilo del fegato passando tra il bulbo duodenale e il
foglietto posteriore del peritoneo che lo avvolge e poi risale, tanto che uno dei rapporti posteriori del bulbo
duodenale è con il peduncolo epatico.
Attraverso questi stratagemmi queste arterie raggiungono gli organi di competenza senza dover bucare il
peritoneo.
L’arteria gastroduodenale si trova dietro al bulbo duodenale in posizione retroperitoneale. Esso infatti
posteriormente prende rapporto, sebbene tramite l’interposizione del peritoneo, anche con l’arteria
gastroduodenale. Essa circa all’altezza del bulbo duodenale si divide in arteria gastroepiploica di destra,
che anch’essa deve entrare nel peritoneo, in particolare nella parte di sinistra del grande omento, e in arteria
pancreaticoduodenale superiore, che continua ad essere retroperitoneale e va ad infilarsi tra duodeno
discendente e testa del pancreas, irrorando queste strutture (in realtà sono 2). Esiste anche l’arteria
pancreatico-duodenale inferiore.
Arteria mesenterica superiore:
All’altezza di circa L1, inferiormente al punto di origine del tripode celiaco, dalla faccia ventrale dell’aorta
addominale emerge l’arteria mesenterica superiore, la quale passa dietro la testa del pancreas (o, nei
soggetti con pancreas ad uncino, all’interno della parte uncinata del pancreas), poi davanti al duodeno
trasverso, per poi raggiungere la fossa iliaca di destra, diretta quindi in basso e a destra. Essa è relativamente
corta rispetto al territorio in cui deve distribuirsi ed è incurvata, presenta cioè convessità verso sinistra e
concavità verso destra.
L’arteria mesenterica superiore di norma non si trova nello spessore dei 2 foglietti del mesentere, ma è
retroperitoneale ed ha un andamento tale per cui, sebbene sia simile a quello della radice del mesentere,
forma una specie di “X”. Durante il suo tragitto essa dà origine a molti rami: essa si occupa di irrorare tutto
l’intestino mesenteriale (digiuno e ileo), il mesentere, il cieco, l’appendice vermiforme, il colon ascendente e
il colon trasverso (oltre che contribuire ad irrorare pancreas e duodeno).
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Dal lato sinistro, cioè dalla parte convessa, dell’arteria mesenterica superiore emergono 3 rami:
1) Come primo ramo essa dà l’arteria pancreaticoduodenale inferiore (anch’essa, come la superiore, in
genere è doppia), che si trova anch’essa nella “C” duodenale, compresa tra duodeno, questa volta sia
discendente sia trasverso, e testa del pancreas, e si anatomizza a pieno canale con l’arteria
pancreaticoduodenale superiore. Quindi tra la “C” duodenale e la testa del pancreas è presente
un’arcata anastomotica composta dalle 2 arterie pancreaticoduodenali, la superiore, ramo dell’arteria
gastroduodenale, quindi che fa capo al tripode celiaco, la inferiore, che deriva direttamente dall’arteria
mesenterica superiore. Quest’arcata si occupa di irrorare il duodeno e il pancreas. In circa 1/3 dei
soggetti accade che dall’arteria mesenterica superiore emerge un vaso che percorre il margine inferiore
del corpo e della coda del pancreas e si occupa di irrorare soltanto queste strutture: l’arteria pancreatica
inferiore.
2) Subito sotto la nascita dell’arteria pancreaticoduodenale superiore, l’arteria mesenterica superiore da un
ramo, l’arteria colica media, che si impegna tra i 2 foglietti del mesocolon trasverso. Questo è uno dei
primi rami che si originano dall’arteria mesenterica superiore. Infatti la radice del mesentere origina dal
foglietto inferiore della radice del mesocolon trasverso ed ha andamento simile all’arteria mesenterica
superiore, che a questo livello emette un vaso, l’arteria colica media, il quale va a finire tra i 2 foglietti
del mesocolon trasverso, per poi dividersi a “T” in 2 rami, uno di destra e uno di sinistra, che si
ramificano e irrorano colon e mesocolon trasverso.
3) Dal lato convesso dell’arteria mesenterica superiore, quello che guarda a sinistra, vengono fuori da 12 a
20 vasi arteriosi che si trovano tra i 2 foglietti del mesentere, le arterie mesenteriali. Ciascuno di essi
dopo un breve tragitto si divide a “T” in 2 rami, uno che sale e uno che scende, i quali si anastomizzano a
pieno canale tra loro. Si origina così la prima arcata anastomotica, tra la 1° generazione di arterie
mesenteriali. Da ciascuna arcata mesenteriale di 1° generazione viene fuori un altro gruppo di vasi, i
quali si dividono a “T”, con un ramo che sale e uno che scende, e di nuovo si anastomizzano tra loro,
generando una 2° arcata anastomotica. Infine da ciascuna convessità della 2° arcata anastomotica viene
fuori una 3° generazione di vasi, i quali si dividono a “T” in 2 vasi, uno che sale e uno che scende, che si
anastomizzano tra loro. Qualsiasi parte di mesentere presenta minimo 3 arcate anastomotiche; laddove il
mesentere è più largo, ad esempio a livello delle anse che occupano l’angolo di destra della flessura
colica, si può trovare una 4° e 5° arcata anastomotica. Dall’ultima arcata anastomotica vengono fuori
arterie che penetrano nella parete del tubo digerente, ciascuna nel tratto di competenza, senza tuttavia
anastomizzarsi: sono vaso terminali. Questo è importante perché in caso di ostruzione di uno di questi
vasi, il tratto di intestino di competenza va in necrosi, con conseguente infarto intestinale. Analogamente
a ciò che accade a livello cardiaco, in cui si ha angina pectoris, cioè dolore retrosternale, tipico
dell’insufficienza coronarica che precede l’infarto, esiste anche l’angina abdominis, che si verifica in
particolare durante l’assorbimento, dopo i pasti, a causa del fatto che si ha un aumento dell’afflusso di
sangue necessario all’azione peristaltica.
Dal lato destro dell’arteria mesenterica superiore, cioè dalla concavità, vengono fuori 2 rami:
1) Uno è l’arteria colica di destra, che nasce circa a metà dell’arteria mesenterica superiore, va verso il
colon ascendente e si divide a “T”, in un ramo che sale e uno che scende. Il ramo che sale si anastomizza
a pieno canale con il ramo di divisione destro dell’arteria colica media (il punto di anastomosi non è
importante, poiché è a pieno canale). Da questa arcata anastomotica vengono fuori rami che vanno ad
irrorare una parte del colon ascendente e una parte del colon trasverso.
2) L’altro ramo del lato concavo dell’arteria mesenterica superiore, sempre diretto verso la fossa iliaca di
destra, nasce verso la fine della mesenterica e prende il nome di arteria ileocolica. Quest’arteria si
divide a “T”, con un ramo che sale che si anastomizza a pieno canale con il ramo di divisione
discendente dell’arteria colica di destra e un ramo che scende che si anastomizza a pieno canale con
l’arteria mesenterica superiore stessa. L’arteria ileocolica partecipa all’irrorazione della parte caudale del
colon ascendente, del cieco, e dell’appendice vermiforme tramite un piccolo vaso, l’arteria
appendicolare.
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Arteria mesenterica inferiore:
L’ultima parte di intestino che rimane da irrorare è il colon discendente, il colon ileopelvico e il retto.
All’altezza di L3 dall’aorta addominale si diparte un altro vaso, che va in direzione della fossa iliaca di
sinistra, l’arteria mesenterica inferiore, molto più corta della superiore.
Da essa si dipartono:
1) L’arteria colica di sinistra, che dopo un breve tragitto si divide a “T” con un ramo che sale e uno che
scende. Il ramo che sale si anastomizza a pieno canale con il ramo sinistro di divisione dell’arteria colica
media, più o meno all’altezza dell’angolo della flessura splenica, formando così un’arcata anastomotica.
2) Dalla parte finale dell’arteria mesenterica inferiore, sempre in posizione retroperitoneale (ma non a
livello della fossa iliaca di sinistra, molto prima), si originano 1, 2 o 3 arterie sigmoidee, che vanno ad
irrorare il sigma, il colon ileo-pelvico. Almeno la prima di queste, anch’essa si divide a “T” con un ramo
che sale e un ramo che scende. Il ramo che sale di anastomizza a pieno canale con il ramo di divisione
discendente dell’arteria colica di sinistra, il ramo che scende si anastomizza con il ramo ascendente di
divisione della seconda arteria sigmoidea. Da questa arcata anastomotica vengono fuori vasi che vanno
ad irrorare la parte iliaca del colon ileo-pelvico. L’ultima arteria sigmoidea, la seconda quando ce ne
sono 2, la terza quando ce ne sono 3, si continua verso il basso, scende nella piccola pelvi attraversando
in maniera retroperitoneale lo stretto della piccola pelvi, cambia nome e diventa arteria rettale
superiore, che si occupa dell’irrorazione del 1/3 superiore dell’intestino retto (esistono anche 2 arterie
rettali medie e 2 arterie rettali inferiori).
L’arteria colica media si impegna tra i 2 foglietti del peritoneo, in particolare nel mesocolon trasverso, quelle
di destra e di sinistra invece rimangono retroperitoneali, perché non hanno necessità di impegnarsi nel
peritoneo: nella maggioranza dei soggetti sia il colon ascendente sia il colon discendente sono
retroperitoneali, mentre nella minoranza che presenta un mesocolon discendente, questo accoglierà questi
vasi.
Le arterie sigmoidee devono raggiungere il sigma, quindi si devono impegnare nel legamento peritoneale del
sigma, il mesosigma, che unisce il colon sigmoideo alla parete posteriore. E’ intuitivo capire che il sigma
deve avere un meso, perché deve essere mobile: nel maschio riposa sulla vescica, nella femmina sull’utero,
che in gravidanza si accresce e deve avere spazio, quindi deve poter spostare il sigma lateralmente verso
sinistra, cosa che è permessa dalla presenza di un meso. Il mesosigma fa capo al peritoneo parietale, è
formato da 2 foglietti, uno continuazione dell’altro, che per la componente pelvica sono uno superiore e uno
inferiore e per la parte addominale sono uno di destra e uno di sinistra. I vasi che raggiungono il colon ileopelvico nascono in regione retroperitoneale e si infilano tra i foglietti del mesosigma per irrorare questo tratto
di intestino.
Il fatto che ci siano numerosi vasi significa che c’è un ampio territorio di distribuzione, dovuto un po’ alla
lunghezza del tubo digerente che questi vasi vanno ad irrorare e un po’ alla presenza del peritoneo, in
particolare mesentere, mesosigma e mesocolon trasverso, composto da cellule che necessitano irrorazione.
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Sistema della vena porta:
Il sangue refluo dal tubo digerente percorre vene compagne che prendono lo stesso nome delle arterie. Il
sangue refluo della vena mesenterica superiore e il sangue refluo dalla milza portato dalla vena splenica si
incontrano in un punto, dietro la parte superiore per la testa del pancreas, per dare origine alla vena porta.
La vena splenica prima di confluire con la vena mesenterica superiore a formare la vena porta riceve la vena
mesenterica inferiore, più lunga della compagna arteria: l’arteria nasce all’altezza di L3, mentre la vena, per
gettarsi nella splenica, deve superare il pancreas, quindi raggiungere l’altezza di L1-L2, a livello della
flessura duodeno-digiunale.
Nella vena porta è quindi presente sangue refluo da tutto l’intestino mesenteriale, da gran parte del grosso
intestino e dalla milza.
Il sangue refluo dalla grande curvatura dello stomaco finisce in gran parte nella vena splenica, in parte
direttamente nella vena porta, quindi in ogni caso raggiunge il fegato, mentre il sangue refluo dalla piccola
curvatura finisce tramite le vene gastriche destra e sinistra in genere nella porta, ma può succedere che le
gastriche, specialmente la gastrica di destra, vadano a finire nel fegato indipendentemente dalla porta, si
parla di vena/e porta/e accessoria/e, caratteristica non influente dal punto di vista funzionale.
In caso di compressione della vena porta, come ad esempio in caso di massa occupante spazio a livello della
testa del pancreas, oppure in caso di rallentamento del flusso all’interno del fegato, come nel caso di cirrosi
epatica (cirrosi epatica: fibrosi del fegato, il fegato è occupato da tessuto fibroso, che prende il posto di vasi
ed epatociti), si ha un aumento della pressione a monte, quindi si parla di ipertensione portale. Questo può
determinare un aumento della pressione a livello della milza, che si ingrossa e, visto che normalmente la
milza non è palpabile, se diventa palpabile è segno di alterazione, si parla di splenomegalia. Inoltre si può
avere stasi di sangue sia a livello dei vasi peritoneali, sia a livello della parete del tubo digerente, che
determina aumento dello spessore della parete intestinale, con alterazione delle funzioni intestinali e
diminuzione dell’assorbimento. Questo può anche sfociare in un aumento del liquido interstiziale, che può
accumularsi all’interno della cavità peritoneale il che, oltre a sottrarre liquido al circolo sanguigno, determina
gonfiore dell’addome, si parla di ascite.
La vena porta si impegna nel legamento epato-duodenale e si dirige in alto e verso destra in direzione dell’ilo
del fegato. Essa in genere riceve anche le vene gastriche destra e sinistra, le quali tuttavia possono, soltanto
una o entrambe, anche finire direttamente al fegato. La vena splenica riceve anche la vena mesenterica
inferiore.
Il sistema della vena porta rappresenta una situazione eccezionale, che presenta 2 variazioni rispetto alla
normalità:
- la vena porta entra nel fegato, quindi si ha una vena che entra in un organo, mentre normalmente le vene
escono dagli organi;
- una volta entrata nel fegato la vena porta si ramifica come se fosse un’arteria, con rami venosi compagni
dei rami dell’arteria epatica, che fa la stessa cosa entrando nel fegato, e rami della via biliare intra-epatica.
- La vena porta dà quindi origine a diverse generazioni di rami, i quali hanno calibro minore rispetto ai rami
della generazione precedente, fino ad arrivare a veri e propri capillari. Solitamente i capillari nascono
dalle arterie e poi convergono a formare vene, in questo caso nascono da una vena e convergono a formare
altre vene, di calibro sempre maggiore fino ad arrivare alle vene sovraepatiche, che escono dal fegato per
raggiungere la vena cava inferiore.
Si forma quindi un sistema portale che è rappresentato dalla successione alternata di capillari e di vene. In
questo caso si hanno capillari del tubo digerente sottodiaframmatico, della milza, del peritoneo viscerale e
legamenti peritoneali che danno origine alla vena porta, che si ramifica a formare nuovi capillari, quelli
all’interno del fegato, che convergono di nuovo a formare le vene sovraepatiche.
Per sistema portale si intende una sequenza: capillari - vena - capillari - vena.
Quello canonico è quello del fegato, ma ne esistono altri 2: il sistema portale surrenale a livello della
ghiandola surrenale e il sistema portale ipotalamo-ipofisario a livello dell’ipofisi.
Il fegato è un organo di consistenza pastosa e colorito rosso brunastro in cui in ogni istante circolano circa
600 mL di sangue, dei quali gran parte proviene dal sistema portale, perché l’arteria epatica ha un calibro
molto minore a quello della vena porta. Il fegato può quindi essere considerato un organo compreso tra 2
sistemi venosi, quello della vena porta e quello della vena cava inferiore. Questo è funzionale al compito che
il fegato deve svolgere: oltre alla funzione di produzione della bile, il fegato è al centro dei 3 metabolismi,
dei carboidrati, dei grassi e delle proteine, è l’unico produttore di una serie di fattori indispensabili alla vita,
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come il fibrinogeno e l’albumina, produce ormoni, ecc.. Il fegato può essere considerato come una fabbrica
che acquisisce materie prime, sostanze assorbite a livello intestinale, e le arricchisce di un importante valore
aggiunto, il cui prodotto cioè ha un valore superiore alla sommatoria degli elementi che lo compongono.
Questo sistema è funzionale a far arrivare al fegato prodotti piccoli (glucosio, amminoacidi, vitamine, ecc.),
che vengono elaborati e trasformati in prodotti ad alto valore aggiunto che vengono immessi nel circolo
sanguigno.
Tra le pagine del mesentere, lungo i vasi mesenteriali, ci sono un’infinità di linfonodi che drenano linfa che
si produce nel mesentere stesso e negli organi, in questo caso nell’intestino mesenteriale. La linfa è ex
liquido interstiziale che non fa in tempo a prendere la via sanguigna e prende la via linfatica. Anche le arterie
coliche e sigmoidee si accompagnano a catene di linfonodi, le prime in posizione retroperitoneale, le seconde
in posizione peritoneale. Come regola generale i linfonodi che irrorano l’organo si trovano lungo le arterie
che lo irrorano. Corollario di ciò è che più vasi irrorano un certo organo, più catene linfonodali saranno
presenti. Nel caso, ad esempio, dello stomaco, poiché irrorato da un grande numero di vasi, ciascuna parte
dello stomaco drena linfa verso alcune catene linfonodali piuttosto che altre, in particolare verso le catene
compagne delle arterie che irrorano quella particolare parte.
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APP. DIGERENTE - ANATOMIA MICROSCOPICA
Quando si parla di struttura di un organo si intende la sua anatomia microscopica, che è diverso dall’istologia
dell’organo con cui spesso viene confusa: per istologia si intende lo studio microscopico dei tessuti, per
anatomia microscopica si intende lo studio microscopico dei tessuti, ma intesi come elementi di un organo.
Dall’esofago al tubo digerente è presente una struttura base, che ricorda quella della via aerea, cioè composta
da 4 tonache concentriche: tonaca mucosa, tonaca sottomucosa, tonaca muscolare e tonaca avventizia.
Tonaca mucosa:
La tonaca mucosa presenta, dall’interno verso l’esterno:
- Epitelio di rivestimento, a diretto contatto con il lume;
- Lamina (o tonaca) propria, connettivo lasso;
- Muscularis mucosae, che significa “strato muscolare della tonaca mucosa”, nel senso di proprio,
esclusivo.
La composizione della tonaca mucosa del tubo digerente è una caratteristica propria dell’apparato digerente:
la muscularis mucose non non si trova in nessun altro viscere cavo.
Tonaca sottomucosa:
Composta da tessuto connettivo, sorregge vasi (generalmente più grandi rispetto a quelli sorretti dalla tonaca
sottomucosa della via aerea) ghiandole, ecc..
Tonaca muscolare:
Corrisponde alla tonaca fibro-cartilaginea della via aerea. Essa risponde al bisogno di svolgere la funzione di
peristalsi, necessaria per far progredire il cibo lungo l’intestino e per trasformare il bolo in chimo a livello
dello stomaco: se non c’è muscolo non può esserci movimento.
Questa muscolatura in genere è composta da 2 strati:
- muscolatura circolare interna, più interna;
- muscolatura longitudinale esterna, più esterna.
In una sezione trasversale di tubo digerente, ad esempio di esofago, al microscopio ottico le fibre dello strato
circolare interno appaiono tagliate longitudinalmente, mentre le fibre dello strato longitudinale esterno
appaiono tagliate trasversalmente.
Tonaca sierosa o avventizia:
L’ultima tonaca del tubo digerente è avventizia quando non presenta rivestimento peritoneale, come nel caso
della via aerea, mentre è una sierosa quando presenta rivestimento peritoneale. Ad esempio, nel caso del
colon ascendente, coperto solo davanti da peritoneo parietale, esso anteriormente presenta una tonaca
sierosa, ma posteriormente presenta una tonaca avventizia.
Questa è la configurazione di base del tubo digerente, che può presentare variazioni a seconda dell’organo
considerato, come nel caso dello stomaco e del duodeno. In particolare le principali differenze riguardano la
tonaca mucosa.
Tra i 2 strati della tonaca muscolare e tra mucosa e sottomucosa si trovano 2 strati di tessuto nervoso misto a
connettivo, in cui ci sono neuroni e glia, i plessi nervosi, che nell’insieme costituiscono il metasimpatico.
Questi svolgono un ruolo fondamentale nell’economia generale della funzione del tubo digerente: sia la
motilità sia la capacità di produrre secreti che vengono riversati nel lume dipendono in gran parte dall’attività
di questi 2 plessi. Il plesso compreso tra i 2 strati della tonaca muscolare, circolare interno e longitudinale
esterno, prende il nome di plesso mioenterico o di Auerbach, quello compreso tra la mucosa e la
sottomucosa prende il nome di plesso sottomucoso o di Meissner. La presenza di queste strutture nervose si
deve alla grande presenza di muscolatura liscia, che necessita di innervazione per svolgere la sua azione.
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Esofago - Anatomia microscopica:
L’esofago presenta una tonaca avventizia quasi ovunque, tranne per la porzione anteriore dell’esofago
addominale; una tonaca muscolare, composta dai 2 strati circolare interno e longitudinale esterno, tra i quali
si trova connettivo che contiene il plesso mioenterico; una tonaca sottomucosa piuttosto spessa; infine una
tonaca mucosa, composta da un sottile strato di muscolatura, la muscularis mucosae, internamente uno strato
di connettivo, la tonaca propria, e da ultimo l’epitelio di rivestimento.
Quando l’esofago è vuoto la sua cavità è virtuale, si genera soltanto al passaggio del bolo. La tonaca mucosa
e la tonaca sottomucosa formano delle pieghe longitudinali, che al passaggio del bolo scompaiono e si
riformano successivamente.
Tonaca mucosa:
A livello dell’esofago è presente un epitelio pluristratificato, esclusivamente di rivestimento (esistono organi,
ad esempio lo stomaco, in cui è presente un secondo tipo di epitelio, l’epitelio ghiandolare), dello stesso tipo
di quello presente in bocca. La presenza dell’epitelio di rivestimento pluristratificato nell’esofago è dovuta al
fatto che in quest’organo si ha il passaggio di solidi che potrebbero ledere la parete: necessita di protezione,
quindi di più strati epiteliali.
Tuttavia la capacità di protezione di quest’epitelio è limitata. Ad esempio in caso di reflusso gastro-esofageo
o di ernia iatale si possono presentare rigurgiti di chimo gastrico, estremamente acido (pH = 2), dallo
stomaco all’esofago. Questo può causare uno stato infiammatorio cronico della mucosa, che provoca dolore
e può determinare degenerazione cancerosa di questo tratto di esofago.
Tonaca sottomucosa:
La tonaca sottomucosa nell’esofago svolge la generale funzione di sostegno di vasi, nervi (plesso
mioenterico), ecc., ma presenta una particolarità: nello spessore della tonaca sottomucosa dell’esofago sono
presenti corpi ghiandolari di ghiandole funzionalmente mucose, dette ghiandole sottomucose (si chiamano
così perché il corpo ghiandolare si trova nella sottomucosa, ma il dotto escretore attraversa tutti gli strati
soprastanti per raggiungere il lume, simili alle ghiandole sottomucose della via aerea, che sono tuttavia
ghiandole siero-mucose). Esse servono a produrre in maniera costitutiva muco che, come nel caso ella via
aerea, si stratifica a protezione dell’epitelio dell’esofago. Queste ghiandole sono presenti soltanto in 2 organi
del tubo digerente, esofago e duodeno, poiché altrove non servono. Nell’esofago esse svolgono una ulteriore
funzione di protezione al passaggio dei solidi, infatti il muco che producono è molto viscoso, idratato
soltanto dai liquidi e dalla componente acquosa dei solidi ingeriti e dalla saliva.
Ciò non significa che altrove non ci sia muco, ma è prodotto da altri elementi, non da ghiandole sottomucose,
perché è necessaria protezione.
L’epitelio di tutto il tubo digerente, dall’esofago all’apertura anale, ha una funzione protettiva anche nei
confronti di batteri che vengono ingeriti, difatti viene chiamato anche barriera epiteliale.
Tonaca muscolare:
La tonaca muscolare dell’esofago è composta da 2 strati di muscolatura, circolare interno e longitudinale
interno. Quest’organizzazione è funzionale alla peristalsi, attività muscolare atta a far progredire il contenuto,
in questo caso bolo, in una direzione ma non in quella opposta, nello specifico in direzione craniocaudale.
Toncaca avventizia:
L’esofago è ricoperto da tonaca avventizia quasi ovunque, tranne che per la porzione anteriore del suo tratto
addominale, con la quale l’esofago è in contatto con peritoneo, quindi presenta una tonaca sierosa.
Deglutizione e peristalsi dell’esofago:
A livello del faringe e dell’istmo delle fauci è presente muscolatura scheletrica, che svolge il compito della
deglutizione e agisce in maniera riflessa. Si tratta di muscolatura scheletrica in modo da permettere di
deglutire volontariamente e di pronunciare le consonanti. La contrazione scheletrica è maggiore rispetto a
quella liscia, quindi in seguito alla deglutizione il bolo raggiunge l’esofago spinto da una forza notevole.
Nel tratto 1 dell’esofago, un attimo prima che il bolo passi dal faringe all’esofago, la muscolatura circolare
interna dell’esofago si rilascia e la longitudinale esterna si contrae, con il risultato che il calibro si allarga,
allo scopo di accogliere il bolo: questo tratto di esofago non si dilata a causa del passaggio del cibo, ma in
seguito all’azione della muscolatura liscia (similmente a ciò che accade nel ventricolo). Dopodiché il bolo
deve raggiungere il segmento successivo, quindi nel tratto 1 dell’esofago, sempre in via riflessa, la
muscolatura circolare interna si contrae e la muscolatura longitudinale esterna si rilascia, stimolata dalla
pressione dello stesso bolo sulla parete dell’esofago. La pressione della muscolatura tenderebbe a spingere il
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bolo sia verso l’alto che verso il basso, tuttavia esso non va verso l’alto grazie al fatto che l’ipofaringe, la
parte di faringe la cui parete muscolare scheletrica si è contratta per ultima, rimane contratta leggermente più
a lungo, per tutto il tempo in cui a livello del primo tratto dell’esofago la muscolatura circolare interna si
contrae e la longitudinale esterna si rilascia, così che il bolo non può far altro che andare verso il basso, tanto
più che nel momento in cui il tratto 1 dell’esofago si sta contraendo, nel tratto 2 dell’esofago la muscolatura
circolare interna si rilascia e la longitudinale esterna si contrae, per fare spazio al bolo che sta per arrivare. Il
combinato disposto dello spazio che si genera inferiormente e della spinta che si genera superiormente fa
progredire il bolo verso il basso.
Stessa cosa accade tra i tratti 2 e 3 dell’esofago, dove tuttavia per passare al segmento 3 non si fa più
affidamento sulla forza contrattile e sullo stato di contrazione della muscolatura scheletrica dell’ipofaringe,
ma sulla contrazione dello strato circolare interno del primo tratto di esofago, che rimane contratto più a
lungo, cioè anche durante la contrazione della muscolatura circolare interna del tratto 2, di modo che il bolo
progredisca verso il basso e raggiunga il tratto 3 dell’esofago.
Questo meccanismo avviene in tutto il tubo digerente, anche nello stomaco, alla cui valle però si trova il
piloro, che è chiuso, quindi la sua contrazione non produce sempre una progressione continua verso il basso,
soltanto quando il piloro è aperto.
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Stomaco - Anatomia microscopica:
Terminato l’esofago si arriva allo stomaco, dove si hanno 2 importanti cambiamenti, che sono improvvisi:
- A livello della tonaca muscolare: lo spessore della parete dello stomaco è molto maggiore di quello
dell’esofago, a causa del fatto che aumenta notevolmente lo spessore della tonaca muscolare. In
particolare lo spessore dello stomaco è poco inferiore a 5 mm e aumenta via via che si passa dal fondo alla
parte pilorica.
- A livello dell’epitelio della tonaca mucosa: dall’epitelio di rivestimento pluristratificato dell’esofago si
passa ad un epitelio monostratificato, che non è più soltanto di rivestimento, ma anche ghiandolare. Una
parte delle cellule epiteliali, infatti, si invagina insieme alla membrana basale a formare ghiandole tubulari
semplici. Dallo stomaco all’apertura anale l’epitelio della tonaca mucosa del tubo digerente è sia di
rivestimento sia ghiandolare.
Le ghiandole dello stomaco sono lunghe, tanto da raggiungere la muscularis mucosae, percorrendo tutto lo
spessore della tonaca propria. Esse sono molto numerose, in media sono circa 3,5 milioni, organizzate l’una
vicina all’altra, impacchettate. L’alto numero di queste ghiandole è indice di grande necessità del prodotto da
esse secreto, il succo gastrico, composto da acqua, ioni H+, ioni Cl- e pepsina.
La pepsina è un enzima, una proteasi, quindi capace di digerire le proteine. Essa tuttavia non scinde le
proteine nei singoli elementi di cui è composta, cioè in amminoacidi, ma si limita a scinderle in spezzoni di
amminoacidi, non ancora assorbibili, detti peptoni. La pepsina ha quindi la funzione di cominciare la
digestione delle proteine, e di nient’altro.
Tonaca mucosa in generale:
La mucosa dello stomaco presenta un colorito rosato, che diventa rosso più intenso se esso è riempito da
cibo, poiché aumenta l’afflusso di sangue.
La superficie interna dello stomaco è percorsa da una serie di pieghe, formate dal ripiegamento della mucosa
e della sottomucosa, come nell’esofago. Esse a livello del cardias si dispongono in maniera radiata, lungo la
piccola curvatura si dispongono parallelamente ad essa e tra loro e via via che ci si allontana dalla piccola
curvatura non sono più parallele tra loro ma tendono ad intrecciarsi.
Ad occhio nudo si vedono dei rilievi a forma di fungo, di circa 3-4 mm, quindi strutture macroscopiche, con
il gambo tozzo, ben separati gli uni dagli altri, che prendono il nome di areole gastriche.
Ghiandole del fondo e del corpo dello stomaco:
Lungo l’epitelio di rivestimento della superficie dello stomaco, nel fondo e nel corpo, ogni tanto si
incontrano delle fosse, le fossette gastriche, che rappresentano lo sbocco delle ghiandole e che in profondità,
cioè verso la muscularis mucosae, si biforcano a “Y”. Ognuna delle 2 diramazioni della fossetta rappresenta
una ghiandola, quindi ad ogni fossetta gastrica corrispondono in genere 2 ghiandole. Infatti le ghiandole sono
in numero di 3.5 milioni, le fossette gastriche 1.5 milioni, circa la metà. L’epitelio di rivestimento che
tappezza la mucosa gastrica tra l’inizio di una fossetta e l’altra prende il nome di cresta gastrica, struttura
convessa verso il lume dello stomaco.
Esistono diversi tipi cellulari che compongono le ghiandole tubulari semplici che popolano fondo e corpo
dello stomaco:
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- Cellule mucipare: sia la superficie sia la parete della fossetta gastrica sono rivestite da epitelio di
rivestimento e le cellule che lo compongono sono mucipare, che producono e secernono muco, composto
da PG neutri, cioè le cui cariche negative e positive sono bilanciate. Questo fa sì che la superficie interna
della mucosa gastrica sia tappezzata di muco, in quantità maggiore quando lo stomaco è in funzione, cioè
in seguito all’ingestione di cibo. Il muco ha funzione protettiva sia contro le sostanze solide che
potrebbero ledere la parete sia contro gli elementi del succo gastrico. Le cellule mucipare, oltre a muco
neutro, producono anche ione bicarbonato, HCO3-, che è intrappolato nel muco, quindi non si mischia con
il bolo: si frappone tra le cellule dell’epitelio di rivestimento e il contenuto dello stomaco, quindi non ha la
funzione di tamponare l’acidità dello stomaco nel suo complesso, ma soltanto localmente, a livello della
parete, allo scopo di proteggerla dall’erosione dello stomaco da parte degli idrogenioni del succo gastrico.
- Cellule del colletto: a livello della regione di divisione della fossetta gastrica, al confine con le ghiandole,
sono presenti cellule del colletto, anch’esse cellule mucipare, ma che producono muco composto da PG
acidi, cioè che presentano carica netta negativa. Queste cellule sono strategicamente poste allo sbocco
delle ghiandole, laddove comincia la fossetta gastrica. Infatti gli ioni prodotti dalle cellule parietali (vedi
sotto) si mescolano ad acqua e il liquido formatosi, il succo gastrico, percorre la ghiandola, arriva alla
regione del colletto e da qui raggiunge la fossetta gastrica e il lume dello stomaco. Tuttavia il punto di
sbocco delle 2 ghiandole rappresenta un restringimento, quindi la velocità di percorso degli idrogenioni
diminuisce e il succo gastrico tende a ristagnare in questa regione, rimando a contatto con la parete più a
lungo, quindi c’è rischio di erosione. Di conseguenza a livello del colletto si trovano cellule che
producono muco composto da PG acidi, cioè con carica negativa, che attrae gli idrogenioni che si trovano
nelle immediate vicinanze e tamponano quindi l’acidità del succo gastrico localmente, a livello della
parete, allo scopo di proteggerla.
- Cellule parietali: sono le cellule più grandi dello stomaco, per questo sono anche dette delomorfe, cioè
appariscenti. Esse sono di forma piramidale, la loro membrana plasmatica apicale si invagina e presenta
una serie di ripiegamenti, simili a microvilli, con la funzione di aumentarne la superficie. A livello della
superficie delle cellule parietali infatti si distribuiscono pompe protoniche, molecole intrinseche di
membrana capaci di estrudere protoni, in particolare H+, ma anche Cl-: le cellule parietali sono le
produttrici degli idrogenioni responsabili dell’acidità del succo gastrico. Le cellule parietali secernono
anche una proteina, il fattore intrinseco di Castle, che nel lume dello stomaco si associa alla vitamina
B12, la cobalamina, un fattore indispensabile per le ultime tappe del processo maturativo dei globuli rossi.
Essa dev’essere assorbita a livello del tratto gastroenterico e una volta in circolo raggiunge il midollo
osseo, dove è essenziale per la maturazione finale dei globuli rossi. In assenza di questa vitamina si ha una
patologia detta anemia megaloblastica o anemia perniciosa. La vitamina B12 serve anche alla formazione
della mielina, avvolgimento in una certa tipologia di assoni, detti assoni mielinici, della membrana
plasmatica di oligodendrociti nel sistema nervoso centrale e delle cellule di Schwann nel sistema nervoso
periferico. La mielina ha la funzione di aumentare la velocità di conduzione dell’impulso, quindi la
vitamina B12 è molto importante non soltanto per l’eritropoiesi, ma indirettamente anche per la vita di
relazione. Infatti in caso di ipocloridria la secrezione della cellula parietale è compromessa, quindi non si
ha liberazione di H+, Cl- e fattore intrinseco di Castle, che determina un mancato assorbimento della
vitamina B12, poiché non protetta dal fattore intrinseco e quindi distrutta dall’acidità dello stomaco (il
fattore intrinseco di Castle ha una funzione protettiva nei confronti della vitamina B12).
- Cellule principali o zimogeniche: cellule molto numerose, dette anche adelomorfe, che significa poco
appariscenti, al contrario delle cellule parietali che sono invece dette delomorfe. Esse producono un
enzima litico che prende il nome di pepsinogeno. Si tratta di un enzima in forma inattiva, in particolare
una proteasi, che per agire deve perdere un sito che blocca il sito attivo. Una volta che il sito attivo si
libera l’enzima raggiunge la sua forma attiva, trasformandosi in pepsina. Il processo di smascheramento
del sito attivo del pepsinogeno è svolto dallo ione idrogenione, tramite un processo di idrolisi acida. Se
non ci fosse il pepsinogeno la digestione avverrebbe comunque, grazie all’acidità dello stomaco, ma
impiegherebbe troppo tempo. Quindi interviene la pepsina che, in quanto enzima, accelera i tempi della
digestione delle proteine. Tuttavia se l’enzima fosse secreto nella sua forma attiva, durante il tragitto nel
lume della ghiandola e nella fossetta gastrica digerirebbe anche cellule dello stomaco. Quindi l’enzima è
secreto in forma inattiva e si trasforma nella forma attiva soltanto una volta che ha raggiunto il lume dello
stomaco, al contatto con l’idrogenione, che idrolizza il sito che ne blocca il sito attivo e lo trasforma in
pepsina. Lo ione H+ ha quindi la funzione di attivare il pepsinogeno trasformandolo in pepsina, rendendo
possibile l’inizio della digestione delle proteine. Nello stomaco non ci sono cellule in grado di digerire
carboidrati, tuttavia il bolo che raggiunge lo stomaco contiene ptialina, un’amilasi proveniente dalla saliva
prodotta nella bocca, quindi nello stomaco avviene anche l’inizio della digestione degli amidi. Nel pieno
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del pasto il pH del succo gastrico è circa 2, quindi, essendo composto da HCl, esso rappresenta una
soluzione 10 mM (10-2 M) di HCl.
- Cellule del sistema GEP: le cellule parietali e principali non sono attive sempre, ma si attivano in seguito
all’ingestione di cibo. Le cellule mucipare dell’epitelio di rivestimento e le cellule del colletto, invece,
secernono muco in maniera costitutiva, ma anch'esse aumentano la secrezione in seguito all’ingestione di
cibo. Esistono 2 sistemi di regolazione delle cellule della mucosa gastrica. Il primo è rappresentato dal
sistema nervoso autonomo che, come nell’apparato respiratorio, nella componente parasimpatica si
occupa di stimolare la produzione e la secrezione delle ghiandole e nella componente simpatica di inibirle
(la conseguenza pratica di ciò è che, ad esempio, durante attività fisica, in cui prevale il simpatico, si
blocca l’attività gastroenterica). Il secondo sistema di regolazione è costituito da altri tipi cellulari, che si
trovano in genere nel fondo delle ghiandole e sono vere e proprie cellule endocrine, che agiscono sia
endocrinamente, raggiungendo il circolo sanguigno, e sia paracrinamente, andando a colpire cellule che si
trovano nei paraggi. Queste cellule si trovano, oltre che nell’albero tracheobronchiale, nello stomaco,
nell’intestino e appartengono alla stessa categoria delle cellule delle insulae pancreatiche (alfa, beta, ecc.),
quindi si parla di sistema endocrino gastro-entero-pancreatico, in sigla GEP. Mentre nell’albero
tracheobronchiale esiste soltanto un tipo di cellula endocrina, in particolare una cellula A.P.U.D. che
produce serotonina, nel tubo digerente esistono diversi tipi cellulari del sistema GEP, ognuno dei quali in
genere produce uno specifico ormone:
1) Cellule a serotonina: cellule capaci di secernere serotonina, 5HT, che viene secreta in seguito
all’introduzione di cibo. La serotonina finisce in circolo e, siccome cellule a serotonina si trovano in
tutto il tratto gastroenterico, via via che il cibo progredisce, durante la digestione, nel sangue
aumentano i livelli di serotonina. La serotonina è l’ormone dello stato di benessere (da non
confondere con l’ormone del piacere, la dopamina), quindi da un punto di vista evoluzionistico
questo rappresenta un vantaggio, poiché induce il soggetto a cercare cibo e nutrirsi, condizione
necessaria alla sopravvivenza. L’effetto principale della serotonina tuttavia non è questo, ma quello
di stimolare la muscolatura liscia della muscularis mucosae alla contrazione (non della tonaca
muscolare perché è più difficile da raggiungere) tramite diffusione locale. La muscularis mucosae si
trova lungo la parete delle ghiandole, tra una ghiandola e l’altra, quindi la sua contrazione determina
una spremitura delle varie ghiandole con il risultato che il secreto fuoriesce e raggiunge il lume dello
stomaco.
2) Cellule a gastrina: cellule presenti soprattutto a livello della parte pilorica dello stomaco, secernono
un ormone proteico chiamato gastrina che viene secreto nel sangue, localmente non agisce, poiché
nella parte pilorica dello stomaco non ci sono cellule che ne presentano il recettore. Le cellule che
nello stomaco presentano recettore per la gastrina sono infatti le cellule parietali, che si trovano nel
fondo e nel corpo dello stomaco, quindi tramite il sangue la gastrina arriva alla cellula parietale e la
stimola a secernere ioni e fattore intrinseco. La gastrina è necessaria, ma non sufficiente, alla
liberazione di ioni H+, Cl- e fattore intrinseco, c’è bisogno di un’altra sostanza, prodotta da un altro
tipo cellulare, la cellula ad istamina. La gastrina ha infatti un’azione permissiva sull’istamina. Esiste
inoltre un meccanismo di feedback negativo che fa sì che quando il pH scende al di sotto del valore
soglia di 2 lo stesso pH, gli stessi idrogenioni, inibiscono le cellule parietali che producono H+. Di
conseguenza il pH inizia ad alzarsi e questo rappresenta un segnale per le cellule parietali, che si
attivano nuovamente. Si ha quindi alternanza tra attivazione e inibizione delle cellule parietali fino a
quando lo stomaco non si svuota: essendo la presenza di sostanze nutrienti il fattore principale che
innesca l’attività delle cellule g.e.p. il sistema si spegne e non si ha più secrezione di succo gastrico.
La gastrina ha come bersaglio anche la muscolatura liscia in generale, per esempio la muscularis
mucosae e la tonaca muscolare di stomaco, piccolo e grosso intestino, con effetto inibitore della
motilità (al contrario della serotonina).
3) Cellule ad istamina: in realtà è l’istamina che induce la cellula parietale a secernere, ma solo se è
presente gastrina. La gastrina ha quindi un ruolo permissivo per l’azione dell’istamina.
4) Cellule a somatostatina: si trovano anch’esse nella parte pilorica dello stomaco e producono
somatostatina, ormone antagonista della gastrina. Essa agisce sulle cellule parietali, ma mentre la
gastrina, insieme all’istamina, stimola, la somatostatina ne inibisce l’attività. Anche la somatostatina,
in quanto si trova nella parte pilorica, per raggiungere le cellule parietali dev’essere secreta nel
sangue.
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5) Cellule a grelina: La grelina è un peptide prodotto da più tipi cellulari, in particolare nello stomaco,
e secreto durante il digiuno, quindi l’assenza di cibo nello stomaco rappresenta uno stimolo. Anche
il sistema nervoso autonomo, in particolare il simpatico, agisce su queste cellule per stimolarne la
secrezione. La grelina entra in circolo ed agisce a livello dell’ipotalamo, regolatore di tutte le attività
viscerali, per indurre il senso di appetito, che consiste in una sensazione percepita a livello
dell’epigastrio ed è dovuta a due fattori: ad un aumento di secrezione gastrica e ad un aumento della
motilità gastrica, sostenuta dal nervo vago, parasimpatico.
6) Cellule a leptina: La leptina, al contrario, è l’ormone che induce al digiuno e anch’essa agisce
livello dell’ipotalamo. Nello stomaco sono presenti poche cellule a leptina, il più grande produttore
di leptina è l’adipocita bianco. La secrezione di leptina è indotta dal riempimento dello stomaco.
7) Cellule staminali: A livello del fondo delle ghiandole sono presenti cellule staminali,
quiescenti, che si attivano e si differenziano negli altri 5 tipi cellulari.
Ghiandole della regione cardiale:
A livello della regione del cardias si trovano ghiandole tubulari composte, in cui non ci sono né cellule
parietali né cellule zimogeniche, ma prevalgono cellule secernenti muco: eccezion fatta per le cellule
endocrine, presenti anche in questa regione, le cellule delle ghiandole del cardias secernono muco, poiché il
cardias si trova al confine tra esofago e stomaco, quindi c’è bisogno di una grande quantità di muco per
proteggere dai reflussi gastrici che possono aver luogo.
Ghiandole della parte pilorica:
A livello della parte pilorica si trovano ghiandole tubolari ramificate, che anch’esse non presentano né cellule
parietali né zimogeniche, ma in cui prevalgono cellule mucipare e sono particolarmente abbondanti le cellule
del sistema g.e.p., che in questa regione si trovano alla più alta densità.
A livello della tonaca propria della tonaca mucosa dello stomaco si trovano degli agglomerati di cellule
bianche, linfociti, che rappresentano noduli linfatici (da non confondere con i linfonodi, strutture più grandi,
visibili ad occhio nudo e fuori dagli organi), nello spessore della parete. I noduli linfatici sono strutture con
funzione protettiva, in cui si concentrano cellule bianche in grado di combattere le infezioni. Esse si trovano
nello stomaco e in numero ancor maggiore nell’intestino.
Tonaca muscolare:
La tonaca muscolare dello stomaco rappresenta un’eccezione rispetto a tutto il tubo digerente, poiché
presenta 3 strati di muscolatura liscia:
- longitudinale esterno;
- circolare intermedio;
- fibre oblique.
Gli strati longitudinale esterno e circolare intermedio hanno la stessa funzione che hanno nell’esofago, cioè
sono responsabili della peristalsi. In particolare la contrazione delle fibre di questi 2 strati avviene in maniera
sfasata e si propaga dalla regione del cardias verso la parte pilorica.
Le fibre dello strato circolare intermedio considerate nel complesso non sono circolari, ma ellissoidi, mentre
le fibre dello strato longitudinale esterno considerate nel complesso non sono longitudinali, ma paraboliche,
e presentano 2 punti di flesso, uno a livello della grande tuberosità o fondo dello stomaco, uno a livello del
triangolo di Labbé o piccola tuberosità. Questo risponde ad una necessità: siccome la peristalsi nello stomaco
inizia nel fondo e finisce nella parte pilorica, il contenuto viene spinto dalle fibre muscolari della prima
parabola verso il basso e dalle fibre muscolari della seconda parabola verso la regione pilorica. Tuttavia esso
incontra lo sfintere pilorico chiuso e risale lungo la piccola curvatura. Il cibo quindi, grazie alla disposizione
dello strato longitudinale esterno, percorre un tragitto chiuso continuo necessario al mescolamento con il
succo gastrico.
Anche lo strato circolare intermedio contribuisce al mescolamento del cibo, contraendosi in maniera sfasata
rispetto alla longitudinale.
Lo strato di fibre oblique dello stomaco è presente soltanto a livello del fondo (in particolare parte inferiore)
e del corpo, nella parte pilorica è poco presente. Le fibre sono disposte a ventaglio, si dipartono dalla regione
cardiale e raggiungono fondo e corpo. Esse si trovano sia a livello della parete anteriore sia a livello della
parete posteriore dello stomaco, ma lo strato ventrale non si fonde con quello dorsale. Le fibre si
contraggono in maniera sfigmica, si tratta sempre di una peristalsi, e questo ne determina l’accorciamento,
che a sua volta tende a far avvicinare la grande curvatura alla regione cardiale, facendo sobbalzare il
contenuto favorendone il mescolamento con il succo gastrico.
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Piccolo intestino - Anatomia microscopica:
Il piccolo intestino è un tubo con la parete molto sottile, circa 2 mm. Essa è composta da 4 tonache
concentriche e, specialmente nei primi tratti, internamente presenta pieghe semicircolari che insistono su un
piano perpendicolare all’asse maggiore dell’intestino. Esse sono anche dette pieghe di Kerkring o valvole
conniventi (sebbene non abbiano alcuna funzione valvolare) e sono disposte in successione, quindi tra una
piega e la successiva si trova un avvallamento. Le pieghe semicircolari sono costituite dal ripiegamento della
mucosa e della sottomucosa, come nell’esofago e nello stomaco, e hanno la funzione di aumentare la
superficie, allo scopo di aumentare la probabilità statistica di (completamento della) digestione e
assorbimento. Un 1° sistema di aumento della superficie è rappresentato dalla notevole lunghezza del piccolo
intestino (6 metri circa), quello delle pieghe semicircolari è il 2° (in totale ne esistono 4).
Tutta la superficie, sia dove ci sono le pieghe sia dove non ci sono, è sollevata in estroflessioni a dito di
guanto, i villi intestinali. Essi sono formati dal ripiegamento della sola tonaca mucosa, in particolare
dell’epitelio di rivestimento e della tonaca propria, e rappresentano il 3° sistema di aumento della superficie
dell’intestino. Nella celiachia, malattia autoimmune, si ha un’atrofia dei villi, che si infiammano e
diminuiscono in numero e in altezza, con conseguente compromissione delle 2 funzioni dell’intestino:
completamento della digestione e assorbimento.
Tra un villo e l’altro è presente uno spazio che a ridosso della muscularis mucosae si interrompe e appare
riempito. In realtà a questo livello sono presenti ghiandole note come cripte intestinali, ghiandole tubolari
semplici, chiamate così perché “cripta” significa “nascosta”.
Epitelio dell’intestino:
L’epitelio dell’intestino è monostratificato, come nello stomaco e nel grosso intestino, tappezza tutta la
superficie, sia quella del villo sia quella della cripta, e come nello stomaco è in parte di rivestimento, quello
del villo, e in parte ghiandolare, quello delle cripte.
Tipi cellulari a livello dell’epitelio di rivestimento (del villo):
- Enterociti: la maggior parte delle cellule che compongono l’epitelio di rivestimento, circa il 95%, con
vita di circa 7 giorni e in costante rinnovamento;
- Cellule caliciformi mucipare: sono in minoranza, producono muco (PG nutri e ioni bicarbonato), ma
siccome sono poche la quantità di muco che si stratifica su quest’epitelio è poca;
- Cellula col ciuffo: sporadiche, si chiamano così perché presentano la regione apicale che si rileva in
microvilli, producono e secernono sostanze oppioidi nell’interstizio, non nel lume. Queste sostanze, al pari
della morfina, hanno un’azione miorilassante nei confronti della muscolatura liscia, che limita la peristalsi,
quindi queste sostanze, che diffondono per via paracrina, hanno la funzione di regolare la motilità della
muscularis mucosae. Anche la gastrina ha un effetto miorilassante, cioè riduce la motilità gastroenterica.
Tipi cellulari a livello dell’epitelio ghiandolare (delle cripte):
- Cellule staminali: si trovano verso il fondo della cripta, sono quiescenti e provvedono al rinnovamento
dell’epitelio settimanalmente.
- Cellule del sistema gastro-entero-pancreatico (g.e.p.):
1) Cellule a gastrina: si trovano specialmente nel duodeno, nel bulbo duodenale e nel duodeno
discendente, molto presenti anche nello stomaco, in gran parte concentrate nella parte pilorica (le cellule
del sistema g.e.p. nello stomaco si concentrano nella parte pilorica). C’è quindi una distribuzione di
queste ghiandole a destra e a sinistra del piloro e la loro densità va scemando. Esse, quando il chimo
arriva nel duodeno, essa secerne gastrina, che va nel sangue e arriva alle cellule parietali, inducendone la
secrezione di ioni H+ e Cl- e fattore intrinseco, e alla muscolatura liscia, riducendone la motilità.
2) Cellule a somatostatina: hanno la stessa distribuzione delle cellule a gastrina, a destra e a sinistra del
piloro, la cui densità via via va scemando. La funzione è quella di bloccare l’azione della gastrina, in
quanto la somatostatina è un antagonista della gastrina.
3) Cellule a serotonina: la serotonina stimola localmente la contrazione della muscolatura liscia, della
muscularis mucosae, come nello stomaco, ma a questo livello, siccome la parete del piccolo intestino è
sottile, essa può diffondere nella tonaca muscolare e indurre la peristalsi.
4) Cellule a colecistochinina-pancreozimina: cellule stimolate dalla presenza di nutrienti, in questo caso il
chimo che arriva dallo stomaco. Questa molecola per la sua componente colecistochininica agisce da
stimolatore della peristalsi, sia localmente che non, ma soprattutto va nel sangue e, oltre a raggiungere
tutta la muscolatura liscia gastroenterica, stimolandola, raggiunge la colecisti e ne induce la contrazione:
la colecistochinina è l’unico stimolatore della contrazione della colecisti. Lo svuotamento della colecisti
è necessario affinché la bile finisca nel duodeno, ma non sufficiente: è necessaria anche l’apertura dello
sfintere coledocico di Oddi. La colecistochinina provvede anche a questo, agendo su un recettore diverso
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rispetto a quello su cui agisce nella colecisti, a livello della muscolatura liscia dello sfintere, inducendone
il rilasciamento. La componente colecistochinina quindi stimola contestualmente la contrazione della
muscolatura della colecisti e il rilasciamento della muscolatura dello sfintere coledocico di Oddi. La
colecistochinina agisce anche a livello del sistema nervoso centrale, è l’ormone della sazietà: il cibo
ingerito raggiunge il duodeno e stimola la liberazione di colecistochinina nel sangue, che raggiunge il
sistema nervoso centrale e induce l’azione di interruzione del nutrimento. La componente
pancreoziminica, invece, agisce sul pancreas esocrino per indurre la secrezione del succo pancreatico. Il
succo pancreatico è composto da acqua, enzimi litici (tutti gli enzimi litici: proteasi, amilasi, maltasi,
lipasi, DNasi, RNasi, ecc.) e ione bicarbonato, è quindi in grado di demolire tutte le molecole biologiche
complesse. In realtà la pancreozimina si occupa di stimolare le cellule acinose del pancreas, che
producono pacchetti enzimi ma non lo ione bicarbonato, prodotto invece da un altro tipo cellulare del
pancreas, che viene stimolato da un altro ormone, la secretina.
5) Cellule a secretina: la secretina agisce sul pancreas esocrino non sulla cellula acinosa, ma su un altro
tipo cellulare, deputato a secernere lo ione bicarbonato. Il succo pancreatico è infatti composto anche da
ioni bicarbonato, che servono a tamponare l’acidità del chimo proveniente dallo stomaco. Lo ione
bicarbonato serve anche ad impedire che, a livello del pancreas, gli enzimi litici del succo pancreatico
digeriscano lo stesso pancreas: fa sì che il pH del succo pancreatico sia circa 8-9, valore al quale gli
enzimi pancreatici non sono attivi, poiché ogni enzima funziona entro certi valori di pH, al di fuori dei
quali l’enzima è inattivo, quindi serve a mantenere inattivi gli enzimi fintanto che essi raggiungono il
duodeno. Corollario di ciò è che in caso di blocco della secrezione del pancreas verso il duodeno, che
può essere dovuta a un calcolo nel dotto escretore del pancreas o a un cancro, accade che il bicarbonato
non è sufficiente a dare il pH necessario, gli enzimi si attivano e si ha autodigestione di una parte del
pancreas, che determina pancreatite acuta, che a sua volta può sfociare in peritonite (il pancreas
anteriormente è coperto da peritoneo parietale).
6) Cellule a enteroglucagone: l’enteroglucagone agisce a livello delle cellule in cui si trovano riserve di
glicogeno, cioè negli epatociti e nei muscoli striati, sia cardiaco sia scheletrico, in particolare è uno
stimolatore della glicogenolisi. L’enteroglucagone fa sì che ci sia una continua immissione di glicogeno
nel sangue, svolge la stessa funzione del glucagone.
- Cellule di Paneth: si trovano nel fondo della cripta, hanno 2 funzioni: protettiva in quanto producono
molecole antibatteriche, coadiuvando il sistema immune (il lume del tubo digerente è a contatto con
l’esterno); le cellule di Paneth inoltre si associano alle cellule staminali presenti nel fondo della cripta, a
causa di una necessità: le cellule di Paneth servono a costituire un microambiente finalizzato a mantenere
la staminalità delle cellule staminali del piccolo intestino.
*Ovviamente a livello del piccolo intestino non sono presenti cellule ad istamina, perché non ci sono cellule
parietali.
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Enterocita:
L’enterocita è la cellula più presente nel piccolo intestino, ce ne sono miliardi. E’ una cellule cilindrica (o
prismatica) che presenta numerosi mitocondri, indice di grande dispendio energetico. A livello della
membrana plasmatica apicale, o luminale, presenta numerosi microvilli, che nell’insieme costituiscono
l’orlato a spazzola. Questo rappresenta il 4° sistema di aumento della superficie, insieme alla lunghezza
dell’intestino, alle pieghe semicircolari e ai villi.
Laddove ci sono microvilli in genere si trova anche una formazione detta glicocalice, formato da
proteoglicani e glicoproteine, che avvolge i microvilli: il glicocalice rappresenta una rete tridimensionale in
cui i microvilli sono immersi, come un pettine tra i capelli.
L’enterocita non ha soltanto la funzione di assorbimento, ma è indispensabile al completamento della
digestione, quindi una duplice funzione. La digestione comincia in bocca tramite la ptialina, un amilasi
contenuta nella saliva, che inizia la digestione degli zuccheri complessi e continua la sua azione anche a
livello dello stomaco. La ptialina tuttavia non riesce a risolvere lo zucchero complesso, l’amido, in glucosio,
condizione invece necessaria affinché venga assorbito dall’enterocita, che non sa assorbire né polisaccaridi
né disaccaridi, ma soltanto monosaccaridi. Nemmeno gli enzimi litici del pancreas, amilasi e maltasi, sono in
grado di scindere gli zuccheri complessi in monosaccaridi, ma soltanto in disaccaridi. Gli enterociti quindi
risultano essenziali al completamento della digestione, quindi anche all’assorbimento, poiché i 2 eventi
avvengono in sequenza. Essi infatti producono e immettono nel glicocalice disaccaridasi, enzimi che
scindono i disaccaridi in monosaccaridi, che non vanno nel lume, ma rimangono intrappolati nella rete
tridimensionale del glicocalice in modo tale che i disaccaridi vengono metabolizzati a monosaccaridi nelle
vicinanze dell’enterocita e questi vengono subito assorbiti.
Stesso discorso vale per le proteine: la digestione delle proteine comincia a livello dello stomaco, dove
l’acidità del succo gastrico attiva il pepsinogeno in pepsina, che comincia a digerire tutte le proteine. La
pepsina tuttavia non riesce a digerire completamente le proteine nei singoli amminoacidi, ma si ferma a
spezzoni di amminoacidi chiamati peptoni. Questi passano nel piccolo intestino, dove si mescolano con il
secreto biliare, pancreatico e intestinale e si forma il chilo, sostanza fluida. Gli enzimi litici del pancreas,
tripsina e chimotripsina, aggrediscono i peptoni, ma non riescono a digerirli nei singoli amminoacidi, le
uniche sostanze che gli enterociti riescono ad assorbire (gli enterociti non sono in grado di assorbire né
proteine né peptidi, se così non fosse queste raggiungerebbero il circolo sanguigno e susciterebbero risposte
immuni che porterebbero a shock, quindi a morte). A completare la digestione delle proteine è l’enterocita,
che produce e secerne nel glicocalice endopeptidasi, enzima litico che risolve i peptidi nei singoli
amminoacidi a livello del glicocalice, nelle vicinanze dell’enterocita, in modo da assorbirli appena
metabolizzati.
I monosaccaridi e gli amminoacidi assorbiti dall’enterocita raggiungono il versante opposto della cellula, la
membrana abluminale o baso-laterale, e da qui vengono immessi nell’interstizio, da dove possono diffondere
nei capillari sanguigni, quindi raggiungono il fegato tramite il sistema della vena porta.
I grassi subiscono un processo diverso rispetto a zuccheri e proteine. Essi possono essere trigliceridi, quindi
grassi complessi, oppure semplici acidi grassi senza glicerolo. Gli acidi grassi e il glicerolo sono pronti per
essere assorbiti dall’enterocita, non necessitano di un enzima apposito, non sono ulteriormente scomponibili.
I grassi composti, come trigliceridi, non sono invece assorbibili, ma necessitano di essere scomposti acidi
grassi e glicerolo tramite lipasi, prodotte prevalentemente dal pancreas (in minima quantità anche dalla
cellula zimogenica dello stomaco). Il grasso in ambiente acquoso tende a formare strutture di forma sferica,
sulla cui superficie si dispongono e agiscono le lipasi, ma se questo sistema fosse l’unico i grassi verrebbero
digeriti in un tempo troppo grande. Quindi interviene la bile, rilasciata in seguito all’introduzione di grassi
nel duodeno, che determina il rilascio di colecistochinina-pancreozimina che stimola la colecisti alla
contrazione e rilascia lo sfintere coledocico di Oddi. La bile è un emulsionante dei grassi, in particolare di
quelli composti, cioè divide i grassi composti in più micelle, emulsionandoli, determinando un aumento della
superficie totale e quindi il vantaggio che lo stesso numero di lipasi pancreatiche possono aggredire i grassi
lungo una superficie maggiore, accelerandone la digestione. La bile quindi, oltre alla funzione di lubrificante
del tratto intestinale, ha anche la funzione di emulsionante dei grassi.
Sia gli acidi grassi sia il glicerolo sono molecole che presentano una superficie idrofobica e una componente
polare, che non può attraversare la membrana biologica, doppio strato di fosfolipidi in cui le code
idrofobiche sono a contatto tra loro perché espellendo acqua si attraggono e le teste polari si trovano agli
opposti. Infatti nelle membrane biologiche sulla la superficie esterna prevalgono cariche positive mentre
negli acidi grassi a livello della regione polare c’è una carica netta negativa, che viene attratta dalla carica
positiva delle teste polari dei fosfolipidi di membrana, ma non può attraversare lo strato di code idrofobiche.
Stessa cosa vale per il glicerolo, quindi le singole molecole di acidi grassi e glicerolo si associano a sali
biliari della bile, i quali si dispongono intorno avvolgendo momentaneamente la molecola grazie al fatto che
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anche i sali biliari della bile sono molecole anfipatiche, quindi in grado di associarsi a residui idrofobici o a
residui polari. Questo complesso di acidi grasso o glicerolo e sali biliari riesce ad oltrepassare per diffusione
passiva il doppio strato fosfolipidico della membrana, fondendosi con la componente lipidica della
membrana biologica ed entrando nell’enterocita. La bile quindi non serve soltanto per lubrificare l’intestino e
per emulsionare i grassi accelerando l’azione delle lipasi, ma anche per assorbire i grassi. Una volta che acidi
grassi e glicerolo entrano nell’enterocita si ricostituiscono a trigliceridi, formando gocce di grasso le cui
dimensioni aumentano progressivamente via via che, con meccanismi di trasporto interno, si spostano dalla
superficie luminale a quella basolaterale, dalla quale tramite esocitosi fuoriescono dall’enterocita e
raggiungono l’interstizio.
Nell’interstizio queste gocce di grasso non riescono ad entrare nei capillari sanguigni, perché troppo grandi,
quindi sono escluse dal circolo sanguigno e non arrivano al fegato, ma finiscono in un vaso chilifero. Il vaso
chilifero è un vaso linfatico a tutti gli effetti, in particolare è un capillare linfatico, ce n’è uno per villo, è
immerso nella sua tonaca propria e ne rappresenta l’asse. Ciascun vaso chilifero converge con i vasi chiliferi
dei villi vicini per formare condotti linfatici via via maggiori, fino ad arrivare ai linfonodi mesenteriali, poi a
quelli dell’arteria mesenterica superiore , poi a quelli preaortici e da qui ai retroaortici, che si continuano con
il dotto toracico, il quale si getta nella vena succlavia di sinistra, che converge con la vena giugulare interna a
formare la vena brachiocefalica di sinistra, che converge con la vena brachiocefalica di destra a formare la
cava superiore, che finisce nell’atrio e da qui ovunque. Ciò significa che i grassi assorbiti si diluiscono in
quasi 5 L di sangue e arrivano al fegato tramite l’arteria epatica, a differenza di glucosio e amminoacidi che
arrivano al fegato tramite la vena porta. L’arteria epatica è più piccola rispetto alla vena porta, quindi ha una
portata minore, inoltre i grassi arrivano diluiti in tutto il sangue, perché gli epatociti del fegato non sono
attrezzati per metabolizzare grandi quantità di grassi. Infatti se l’epatocita riceve eccessive quantità di grassi
si gonfia e muore, determinando la condizione patologica di steatosi epatica. Entro certi limiti il fegato ha la
capacità di rigenerarsi, ma a lungo andare gli epatociti morti vengono sostituiti con fibroblasti, tessuto
connettivo cicatriziale che determina la condizione di fibrosi del fegato, detta cirrosi epatica.
2 problemi:
1) Come fanno queste gocce di grasso ad entrare nel vaso linfatico?
Il vaso chilifero non ha membrana basale, condizione necessaria ma non sufficiente. Infatti l’endotelio che
compone il vaso chilifero è discontinuo: mentre nella maggioranza dei capillari le cellule endoteliali sono
disposte a “uovo fritto” a formare uno strato continuo, nell’endotelio discontinuo lungo un lato della cellula
endoteliale non c’è aderenza con l’analogo simmetrico lato della cellula endoteliale contigua, ma c’è uno
spazio, tanto grande da permettere l’ingresso delle gocce di grasso.
2) Come si sposta la linfa contenuta nel vaso chilifero?
Zuccheri semplici e amminoacidi finiscono direttamente nel circolo sanguigno, tramite il quale raggiungono
il fegato, il tutto grazie alla forza motrice esercitata dal cuore. I vasi chiliferi invece sono a fondo cieco,
quindi la forza che determina è fornita dalla contrazione della muscularis mucosae. La muscularis mucosae
del piccolo intestino, come quella della mucosa gastrica, si trova dentro al villo, nella sua tonaca propria, con
le fibre disposte longitudinalmente, quindi la sua contrazione determina l’accorciamento del villo, il che
rappresenta la spinta per spostare la linfa presente a livello del vaso chilifero.
Il villo è quindi un’espansione della tonaca propria del piccolo intestino, con una superficie esterna luminale
composta da epitelio monostratificato, composto da 3 tipi cellulari (vedi sopra), il cui asse è composto da
tonaca propria e contiene capillari sanguigni, assialmente un vaso chilifero, alcuni fascetti di muscolatura
liscia della muscularis mucosae (non tutta la muscularis mucosae, solo alcune sue fibre).
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Diagnosi istologica di duodeno, digiuno e ileo:
Il piccolo intestino è diviso in 3 parti, duodeno, digiuno e ileo. Questa è una distinzione che attiene
all’anatomia macroscopica, ma esistono anche parametri istologici per distinguere ciascuna di queste
strutture.
Ileo:
L’ileo si riconosce microscopicamente grazie a 2 caratteristiche:
- a parità di ingrandimento presenta una scarsa probabilità di individuare 2 pieghe vicine, cioè le pieghe
sono più rade, anche se ciò è vero per le parti finali dell’ileo, non per quelle iniziali, quindi non è
sufficiente;
- nella tonaca propria della mucosa ci sono numerosissimi noduli linfatici (non linfonodi, che stanno invece
fuori dagli organi), agglomerati di cellule bianche, così numerosi da:
1) quasi far scomparire la tonaca propria;
2) dare origine delle formazioni di grandi dimensioni, le placche di Peyer.
Duodeno:
Lo spessore della tonaca muscolare del duodeno è dell’ordine di quello dell’ileo, quindi non può costituire un
criterio distintivo. Nello spessore della sottomucosa del duodeno, e solo nel duodeno nell’ambito
dell’intestino, si individuano corpi di ghiandole sottomucose, come quelle dell’esofago, a secrezione mucosa,
molto numerose, che immettono muco nel duodeno. Queste ghiandole si trovano soltanto nel duodeno,
quindi esse costituiscono un tratto distintivo rispetto a digiuno e ileo.
Nel duodeno sono necessarie le ghiandole sottomucose poiché esso riceve il chimo proveniente dallo
stomaco, molto acido e contenente pepsina, enzima litico. Questo rappresenta un rischio per la parete del
duodeno, che quindi si protegge producendo muco. Nel piccolo intestino il numero di cellule mucipare a
livello dell’epitelio del villo è piccolo, e il muco prodotto è poco. La funzione delle ghiandole sottomucose
non sarebbe potuta essere svolta dalle cellule mucipare, perché ne sarebbero necessitate molte e avrebbero
sostituito gli enterociti sulla superficie del villo, quindi queste ghiandole si trovano nella tonaca sottomucosa.
Il muco prodotto dalle ghiandole della sottomucosa del duodeno ne protegge la parete dall’acidità del chimo
proveniente dallo stomaco, dalla pepsina e dagli enzimi litici provenienti dal pancreas. Queste ghiandole
prendono il nome di ghiandole sottomucose o ghiandole duodenali di Brunner (si pronuncia come si
scrive: “brùnner”). Esse non si trovano né a livello del digiuno né a livello dell’ileo perché a questo livello
gli enzimi pancreatici sono stati diluiti nei liquidi provenienti dallo stesso succo pancreatico, dalla bile,
dall’acqua ingerita, dall’acqua contenuta negli alimenti ingerito, ecc.. Di conseguenza la probabilità statistica
che questi enzimi colpiscano la mucosa a valle del duodeno è molto bassa, praticamente zero, mentre nel
duodeno arriva una quantità molto concentrata di enzimi.
Digiuno:
Il digiuno si riconosce per esclusione: non presenta ghiandole sottomucose, quindi non si tratta di duodeno, e
non presenta aggregati linfatici, quindi non è ileo. Ulteriore conferma è lo spessore della tonaca muscolare:
nel piccolo intestino lo spessore della tonaca muscolare raggiunge il massimo verso la fine dell’ileo, prima è
sottile, molto più sottile di quello dello stomaco, perché il contenuto è più fluido, quindi offre una resistenza
minore, e per spostarlo tramite la peristalsi è necessaria meno muscolatura, mentre verso la fine dell’ileo
diventa più solido e richiede una forza maggiore per essere spostato alla stessa velocità, quindi più
muscolatura.
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Grosso intestino - Anatomia microscopica:
Il grosso intestino è più corto e più largo rispetto al piccolo intestino: è lungo circa 160-180 cm ed è largo
6-7 cm. Periodicamente, ogni 3-4 cm, presenta delle strozzature, i solchi, che all’interno corrispondono a
pieghe e che determinano la formazione delle gibbosità, che all’interno corrispondono agli spazi concavi
chiamati austra. Il retto non presenta solchi e austra, strutture presenti fino al colon ileopelvico.
In superficie, sempre tranne che a livello del retto, il grosso intestino presenta delle formazioni allungate,
nastriformi, le tenie coli, che inizialmente sono 3, poi si riducono a 2 e nell’ultima parte del colon
ileopelvico e nell’intestino retto. Le tenie sono costituite da fibre muscolari lisce disposte longitudinalmente.
Tonaca muscolare:
Il grosso intestino presenta 2 stati di muscolatura, uno circolare interno e uno longitudinale esterna. Tuttavia
mentre la muscolatura circolare interna è disposta lungo tutta la parete, la muscolatura longitudinale esterna è
tutta concentrata nelle 3 tenie e non è presente fuori da esse.
A livello dei solchi alcune fibre longitudinali delle tenie improvvisamente cambiano direzione, deviano quasi
ad angolo retto e diventano circolari (assumendo andamento simile ad un lazzo). A livello dei solchi c’è
quindi un eccesso di fibre circolari, perché alle fibre dello strato circolare interno già presenti si aggiungono
quelle provenienti dalle tenie. Questo spiega la formazione delle pieghe che, diversamente da quelle di
esofago, stomaco e piccolo intestino, non riguardano soltanto la tonaca mucosa e sottomucosa, ma anche la
tonaca muscolare, quindi tutti gli strati. A causa di ciò le pieghe del grosso intestino non si svolgono: mentre
le pieghe dell’esofago, dello stomaco e teoricamente* del piccolo intestino si spianano in caso di grande
riempimento, quelle del grosso intestino no, poiché la strozzatura è più forte e stabile. Questa conformazione
è funzionale al rallentamento della velocità del chilo: rappresenta il giusto mezzo tra la necessità di far
progredire il chilo e quella di non farlo progredire troppo velocemente.
Il transito troppo veloce dovuto ad eccesso di peristalsi del grosso intestino determina diarrea, ma questa può
essere dovuta ad altre cause: ad esempio in caso di malattie infettive non c’è aumento di peristalsi ma
interferenza da parte di tossine con il meccanismo di assorbimento di ioni e acqua.
Nel grosso intestino a livello della tenia la parete è molto spessa, mentre nell’intervallo tra una tenia e l’altra
la parete è sottile, perché a questo livello manca lo strato di muscolatura longitudinale esterna. Questa
caratteristica oltre i 50 anni può rappresentare un problema, perché la parete tende ad essere meno resistente
all’urto meccanico delle feci, che via via che viene assorbita acqua diventano sempre più composite. A causa
di ciò un certo numero di soggetti oltre i 50 anni presenta la formazione di diverticoli, cioè protrusioni della
parete verso l’esterno, la cui parete è quindi più sottile: si parla di diverticolosi. I diverticoli si concentrano a
livello del colon discendente e del colon ileopelvico, non del retto perché a questo livello scompaiono le
tenie e la muscolatura longitudinale si distribuisce lungo tutta la superficie, non nel colon ascendente e
trasverso perché in questi organi il transito è più fluido e più veloce. Il problema è costituito dal fatto che i
diverticoli diventano delle nicchie all’interno delle quali si concentrano le feci, che possono irritarne la
parete e causare infiammazione, determinando la condizione di diverticolite. L’infiammazione può
interessare anche il peritoneo, a seconda di dove si trova il diverticolo infiammato, che può determinarne
addirittura la perforazione. Quindi quest’organizzazione, che rappresenta un vantaggio, ha anche risvolti
negativi.
*A livello del piccolo intestino non si creano mai le condizioni per cui le pieghe si appianino, poiché il contenuto è molto fluido e il
transito è veloce, ma potenzialmente è possibile.
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Tonaca mucosa:
La tonaca mucosa del grosso intestino presenta una muscularis mucosae, una tonaca propria e un’epitelio, sia
ghiandolare sia di rivestimento. Essa ricorda molto quella dello stomaco, con la differenza che la densità
delle ghiandole tubulari semplici è molto minore rispetto a quella dello stomaco.
L’epitelio di rivestimento è composto in grandissima parte da enterociti con funzione assorbente: hanno il
compito di assorbire ioni e acqua*.
Le ghiandole tubulari semplici sono composte da diversi tipi cellulari:
- Cellule staminali;
- Cellule caliciformi mucipare: producono grandi quantità di muco che secernono sulla superficie del colon.
Il muco ha la funzione di protezione della mucosa dall’azione meccanica e chimica delle feci che si stanno
compattando. Le feci infatti, oltre ad esercitare un’azione meccanica, dal punto di vista chimico sono
irritanti;
- Cellule GEP: cellule che producono e rilasciano una serie di peptidi, la maggioranza dei quali regolano,
alcuni stimolandola, altri inibendola, la muscolatura liscia;
- Cellule sensoriali: cellule che presentano strutture simili a microvilli sulla membrana apicale, che
recepiscono la presenza di sostanze all’interno del grosso intestino e, tramite i plessi mioenterico e
sottomucoso che le innervano, innescano la muscolatura liscia, determinando la peristalsi (epitelio di
rivestimento).
Appendice vermiforme - Anatomia microscopica:
L’appendice vermiforme presenta una struttura uguale a quella del grosso intestino dal punto di vista della
composizione, ma presenta qualche elemento in più.
A livello della tonaca propria della mucosa si trovano noduli linfatici che caratterizzano l’appendice
vermiforme e rappresentano la causa per cui questa struttura si infiamma molto frequentemente. Il calibro è
molto piccolo, quindi una parte del chilo vi si può inserire, ma grazie alla presenza di muscolatura liscia si
attiva la peristalsi e il chilo fuoriesce. Tuttavia può accadere che queste sostanze, a causa di una ridotta
motilità della parete, non riescano a fuoriuscire, quindi permangono dentro l’appendice e gli enterociti
assorbono ioni e acqua, solidificando il chilo, che contiene anche batteri, i quali proliferano e determinano
infiammazione. A ciò si deve la grande presenza di noduli linfatici.
*La capacità di assorbire ioni e acqua è tipica di tutte le mucose, non solo del grosso intestino, ma siccome nelle strutture del tubo
digerente che precedono il grosso intestino le sostanze transitano velocemente a questo livello non si ha grande assorbimento di
acqua e ioni. Conferma di ciò è che si può vivere anche senza grosso intestino, situazione in cui la funzione di assorbimento di acqua
e ioni è vicariati dal piccolo intestino
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Fegato - Anatomia microscopica
Il fegato è un organo vitale, in quanto è al centro di tutti e 3 i metabolismi (dei grassi, degli zuccheri e delle
proteine), inoltre partecipa all’eritrocateresi, l’eliminazione dei globuli rossi invecchiati, svolge un ruolo
importantissimo nella detossificazione e nell’eliminazione di farmaci, ed è anche una ghiandola endocrina.
Il fegato ha una struttura molto semplice, definita “modulare”: se si effettua una sezione di fegato, in
qualsiasi parte di esso si ottiene sempre la stessa immagine, riconducibile ad un pavimento formato da tante
mattonelle, di forma leggermente variabile, pentagonali, esagonali o ettagonali. Se si effettuano delle sezioni
seriate, cioè una di seguito all’altra, ci si accorge che la morfologia generale della sezione è sempre la stessa,
variano soltanto le dimensioni delle “mattonelle”, che aumentano o diminuiscono progressivamente. Questo
permette di concludere che ciascuna delle “mattonelle” non è altro che la sezione trasversa o obliqua di una
struttura tridimensionale a forma di piramide ad apice tronco. Per comodità si considera una piramide a base
esagonale, che rappresenta l’unità anatomofunzionale del fegato, prende il nome di lobulo epatico. Di
conseguenza ognuna delle strutture poligonali che si individuano in una sezione, ossia ognuna delle
“mattonelle” che compongono il pavimento, non è altro che la sezione, trasversa o obliqua, di un lobulo
epatico.
I lobuli epatici sono tra loro molto vicini e incastrati, cosa che si deduce dal fatto che le sezioni di ciascun
lobulo epatico risultano adiacenti l’una all’altra. I limiti che dividono un lobulo dall’altro in una sezione non
sono netti. Tali limiti, che rappresentano i lati del poligono e le facce della piramide, sono costituiti da
tessuto connettivo, sono vere e proprie lamine connettivali. Esse delimitano il singolo lobulo ma, in virtù del
fatto che le piramidi sono accostate le une alle altre, ciascun lobulo condivide le pareti con altri lobuli. Infatti
le lamine connettivali dividono e separano i vari lobuli, ma nello stesso tempo li uniscono, rendendoli tra
loro solidali.
Ciascuna sezione di lobulo è attraversata, più o meno al centro geometrico, da una struttura più o meno
circolare. Questa rappresenta un vaso, in particolare una vena, la vena centrolobulare, che percorre il lobulo
assialmente, come l’altezza di una piramide ad apice tronco. Trattandosi di una vena, questa deve nascere
dalla confluenza di più capillari sanguigni (in realtà dal punto di vista istologico la vena centrolobulare è una
venula, è per questo che si forma dalla confluenza di capillari, mentre se fosse stata una vena si sarebbe
formata dalla confluenza di venule).
Lobulo epatico classico:
SINUSOIDI EPATICI:
I capillari la cui confluenza dà origine alla vena centrolobulare all’interno del lobulo si dispongono
radialmente intorno ad essa, in quanto essa si trova circa al centro del lobulo e percorre l’asse della piramide.
In una sezione microscopica 10x un capillare vulgaris non risulta visibile, poiché ha un diametro troppo
piccolo, in genere di circa 10-12 µm. Tuttavia in una sezione epatica con ingrandimento 10x sono visibili
spazi vuoti che corrispondono a capillari, da cui si deduce che il loro diametro è necessariamente maggiore a
10-12 µm, in quanto visibili a tale ingrandimento.
Inoltre gli spazi vuoti visibili non sono dritti, da cui si deduce che questi capillari non hanno un andamento
rettilineo verso la vena centrolobulare, ma formano anse, e per questo prendono il nome di sinusoidi epatici.
Questi capillari sanguigni sono presenti in gran numero nel lobulo epatico, decine di migliaia per ogni
lobulo, tanto che ne vanno a costituire gran parte della massa.
I sinusoidi epatici provengono tutti dalla periferia del lobulo, dalle lamine connettivali, quindi ci si
aspetterebbe che lungo le lamine si trovino i precursori di questi sinusoidi; tuttavia, mentre normalmente i
capillari fanno seguito a delle arteriole, in questo caso ciò non avviene, se non in minima parte. Questa
costituisce una delle 3 fondamentali eccezioni di questo tipo presenti nel corpo umano, che prendono il nome
di sistemi portali, cioè sistemi vascolari in cui la capillarizzazione avviene per conto di venule anziché di
arteriole.
Il sangue che scorre nel sistema portale epatico è quello proveniente dai capillari disposti nella parete dello
stomaco, del piccolo intestino, di gran parte del grosso intestino e nel peritoneo, che fanno capo a venule, le
quali poi convergono a formare diversi vasi venosi (la vena gastrica destra, la vena gastrica sinistra, la vena
gastroepiploica di destra e di sinistra, la vena gastrica inferiore, la vena gastrica posteriore o le vene gastriche
brevi, le vene pancreatico-duodenali superiore e inferiore, le vene mesenteriali, la vena ileocolica, la vena
colica di destra, la vena colica intermedia, la vena colica media, la vena colica di sinistra, le vene sigmoidee,
ecc.), i quali poi confluiscono, direttamente o indirettamente, nella vena porta, oppure danno origine a delle
vene porte accessorie, ad esempio la vena gastrica di sinistra (ma non solo). In seguito la vena porta entra
nell’ilo del fegato (caratteristica che anch’essa rappresenta un’eccezione alla regola, in quanto solitamente le
vene fuoriescono dall’organo) e vi si ramifica: le venule poste a livello delle lamine che delimitano il lobulo
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epatico, che generano i sinusoidi, altro non sono che il risultato delle ramificazioni della vena porta a livello
del fegato.
In particolare la vena porta si ramifica in 8 vasi principali, in quanto nel fegato sono presenti 8 zone, a livello
di ciascuna delle quali le vene si ramificano ulteriormente fino ad arrivare a formare le vene perilobulari, le
vene che si trovano intorno al lobulo, sostenute dal connettivo delle lamine. Per dare origine ai sinusoidi
epatici tali vene si ramificano ulteriormente. Si costituisce così una situazione particolare, in cui una vena
grande, la vena porta, si ramifica in vene più piccole all’interno del fegato, le quali poi danno origine alle
vene perilobulari, le quali infine danno origine ai sinusoidi, che confluiscono nella vena centrolobulare. La
vena porta tuttavia nasce a sua volta da capillari, quindi si ha una situazione caratterizzata dalla successione,
nell’ordine, di:
CAPILLARI → VENA → CAPILLARI → VENA
(intestinali)
(vena porta)
(sinusoidi)
(vena centrolobulare)
Si tratta di una sequenza particolare, in quanto una sequenza normale è formata dalla successione,
nell’ordine, di arteriola, capillari e vena. Quello appena descritto prende il nome di sistema portale, che si
trova, oltre che nel fegato, anche a livello dell’adenoipofisi e a livello della ghiandola surrenale.
SPAZIO PORTOBILIARE:
Alla convergenza di 3 lobuli, quindi a livello dello spigolo di ciascun lobulo, si ha un particolare
addensamento di connettivo, perché si ha la convergenza di 6 facce, 2 per ciascun lobulo, e a questo livello
sono presenti 4 tipologie di strutture, le stesse che compongono l’ilo del fegato:
- una vena, ramo della vena porta
- (almeno) un’arteria a parete muscolare, un’arteriola, ramo dell’arteria epatica;
- (almeno) un condotto biliare;
- (almeno) un vaso linfatico.
In particolare a questo livello si trova una vena, figlia del circolo portale, di calibro decisamente superiore
alle venule che ci si aspetta di trovare, appena visibili, a livello delle lamine connettivali; insieme ad essa, a
livello di tale convergenza di spigoli sono presenti anche una o più arteriole, rami dell’arteria epatica propria
(il fegato ha infatti una specie di doppia irrorazione in entrata: una è costituita dalla vena porta, che trasporta
nutrienti assorbiti e non solo, l’altra è costituita dall’arteria epatica propria, che trasporta ossigeno e nutrienti
necessario al metabolismo proprio del fegato); un altro elemento presente a questo livello sono i condotti
biliari, che rappresentano la prima parte della via biliare intra-epatica. Per questo motivo, la regione dello
spigolo che rappresenta la convergenza di 3 o 4 lobuli prende il nome di spazio portobiliare di Kiernan.
Oltre al ramo della vena porta, al ramo della via biliare intra-epatica e al ramo dell’arteria epatica, è presente
anche un vaso linfatico, a formare lo spazio portobiliare.
Alcuni sinusoidi epatici provengono dalla regione dello spazio portobiliare, quindi si dirigono direttamente
verso la vena centrolobulare; altri sinusoidi invece provengono dalla regione della lamina, ma risultano
sempre generati dalla vena che è un ramo della vena porta dello spazio portobiliare. Infatti le vene dello
spazio portobiliare, che si trovano ai vertici di ciascun lobulo, sono anastomizzate tra loro tramite delle vene
di calibro minore, che percorrono lo spessore della lamina connettivale e che si dirigono trasversalmente da
un ramo della vena porta all’altro. Attraverso questo sistema il letto vascolare intraepatico viene aumentato a
dismisura: il risultato è che, essendo i lobuli epatici presenti in decine di migliaia, si hanno milioni di
sinusoidi epatici, che costituiscono un letto vascolare enorme.
Inoltre l’afflusso sanguigno è implementato da un’altra componente vascolare, costituita dai rami dell’arteria
epatica presenti a livello degli spazi portobiliari, i quali si scambiano rami che percorrono trasversalmente le
lamine connettivali. Questi vasi hanno la funzione di rifornire di ossigeno le cellule epatiche, quindi
anch’essi danno origine, come tutte le arteriole, a capillari, che tuttavia non sono sinusoidi, ma capillari che
vi si gettano.
Infatti lungo il tragitto dei sinusoidi epatici verso la vena centrolobulare, essi ricevono capillari, in genere di
breve lunghezza, che derivano dall’arteria che si trova nel connettivo tra i lobuli. Ne consegue che nel
sinusoide epatico scorre sangue misto, in parte deossigenato, quello proveniente dalla vena porta, in parte
ossigenato, quello proveniente dall’arteria epatica. Se si considerano i volumi, tuttavia, all’interno dei
sinusoidi epatici prevale di gran lunga il sangue deossigenato proveniente dalla vena porta, da cui si deduce
che le cellule epatiche sopravvivono ad una concentrazione di ossigeno relativamente bassa.
La struttura del fegato determina una grande vascolarizzazione, a cui sono da ricondurre sia il colore del
fegato, rosso brunastro, sia la consistenza pastosa (la pastosità è anche dovuta al fatto che si tratta di un
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organo parenchimatoso, quindi che presenta poco connettivo, presente soltanto alla periferia del lobulo). In
ogni istante infatti nel fegato circolano circa 600 mL di sangue, che rappresenta più del 10% della massa di
sangue circolante nel corpo. Conseguenza di ciò è che un trauma epatico può generare un’emorragia che
nella maggioranza dei casi è fatale.
L’organizzazione microscopica del fegato fa sì che il sangue, che percorre i sinusoidi, vasi di calibro
relativamente elevato e con andamento tortuoso, fluisce con una velocità particolarmente lenta. Questa
caratteristica è dovuta al fatto che la maggior parte di questo sangue deriva da una venula (quindi la forza di
spinta della pompa cardiaca è minima), dal fatto che il calibro dei vasi è grande e dal fatto che il loro
andamento è di tipo sinusoidale. Il sangue tuttavia non ristagna nel fegato, cosa che accade invece in caso di
insufficienza ventricolare destra, con conseguente epatomegalia. Il vantaggio del fatto che il sangue scorre
molto lentamente nei sinusoidi epatici verso la vena centrolobulare è paragonabile a quello che si ha a livello
della via aerea, in cui durante la espirazione si ha una leggera broncocostrizione sostenuta dall’innervazione
vagale, di tipo parasimpatica, che ha lo scopo, paradossalmente, di ritardare l’efflusso dell’aria, con il
vantaggio di aumentare il tempo di stazionamento dell’aria negli alveoli, che costituisce un doppio
vantaggio, contribuire ad evitare il collabimento delle pareti dell’alveolo e fornire un tempo maggiore
all’eritrocita per l’ematosi. A livello epatico il funzionamento è lo stesso: se il sangue scorre lentamente nel
sinusoide, le strutture preposte hanno più tempo per assumere i nutrienti appena assorbiti. Questo è il motivo
dell’organizzazione vascolare del fegato, che è funzionale a regolare il flusso di sangue all’interno del lobulo
epatico a beneficio delle cellule che formano il parenchima epatico.
SPAZIO DI DISSE:
Parallelamente agli spazi che occupano i sinusoidi epatici, nella struttura del fegato sono presenti cordoni
composti da cellule mononucleate, tra le più grandi del nostro organismo, gli epatociti. Infatti ogni singolo
sinusoide epatico è circondato un monostrato di epatociti, che si distribuiscono a formare un manicotto, che
può essere ricondotto ad uno strato di mattoni che costituiscono una parete. Infatti gli epatociti sono disposti
a formare delle pareti, che prendono il nome di muraglie di Elias. Da questa caratteristica si deducono
diverse nozioni:
- che l’epatocita è una cellula poliedrica, cioè deve necessariamente presentare pareti squadrate, che sono in
numero di circa 5-6;
- che sicuramente alcune pareti dell’epatocita sono a contatto con alcune pareti dell’epatocita accanto;
- che altre facce dell’epatocita, almeno 2 per ciascun epatocita, si affacciano sul sinusoide.
Le muraglie di Elias, analogamente alle pareti di una stanza che presentano porte e finestre, non sono
continue, ma sono attraversate da sinusoidi anastomotici che connettono 2 sinusoidi. Infatti i sinusoidi
all’interno di un lobulo epatico sono tra loro anastomizzati, il che contribuisce ad aumentare il letto vascolare
e di conseguenza a rallentare il flusso del sangue, per un principio fisico che prende il nome di flusso
laminare (se ne parlerà in merito alla descrizione del rene).
Tra ciascun sinusoide epatico e la muraglia di Elias che lo circonda è presente uno spazio, infatti tra il
sinusoide e gli epatociti non c’è contatto diretto. Questo spazio prende il nome di spazio pericapillare o
perisinusoidale, anche detto spazio di Disse.
Ognuna delle facce dell’epatocita che si affaccia sullo spazio di Disse, che lo delimita, prende il nome di
polo vascolare dell’epatocita. Dato un epatocita, almeno 2 facce delimitano gli spazi di Disse, ma possono
essere anche 3 o 4, e ognuna di esse rappresenta un polo vascolare. Si considera polo vascolare la faccia
dell’epatocita che si affaccia sullo spazio di Disse, ma per estensione si può dire che un epatocita presenta un
polo vascolare che rappresenta l’insieme delle facce di quell’epatocita che si affacciano sul sinusoide
epatico. Di conseguenza ciascun epatocita presenta un polo vascolare, anche se composto da più facce.
Questo concetto è importante perché l’epatocita tramite altre facce è a contatto con altri epatociti, e laddove
c’è contatto tra più epatociti essi sono incollati l’uno all’altro: la membrana plasmatica del primo epatocita,
tramite vari sistemi di adesione intercellulare, è incollata alla membrana plasmatica dell’altro epatocita,
anche se questo contatto molto stretto non è continuo, perché circa a metà del contatto, all’interno, si trova
uno spazio vuoto (di cui si tratterà più avanti).
La faccia dell’epatocita che si affaccia sul sinusoide epatico, che costituisce il polo vascolare dell’epatocita,
in realtà si affaccia sullo spazio di Disse e lo delimita. Lo spazio di Disse non è vuoto, ma contiene un fluido,
cioè plasma sanguigno. Ciò appare strano, perché solitamente una cellula, che non sia parte dell’endotelio di
un vaso, non è bagnata da plasma, ma da liquido extracellulare. Il liquido extracellulare è una specie di
ultrafiltrato composto di acqua, ioni, nutrienti e proteine a piccolo peso molecolare, e non corrisponde al
plasma sanguigno, che invece è la parte liquida del sangue ed è composto da acqua, ioni, vitamine, molecole
semplici, ma anche proteine di grosso peso molecolare, ad esempio albumina (67 kDa), fibrinogeno,
lipoproteine, ecc..
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Stravasamento del sangue nello spazio di Disse:
Il plasma deriva, per definizione, dal sangue, e il plasma presente nello spazio di Disse proviene
necessariamente dal sangue che circola nei sinusoidi. Il sinusoide epatico è un capillare già definito
particolare per 2 motivi, cioè calibro maggiore e andamento tortuoso, e a questi se ne aggiunge un terzo.
Data una qualsiasi cellula che non sia un epatocita, essa è bagnata da liquido interstiziale; esso deriva dal
sangue, in particolare dal plasma, ma non è il plasma. Ciò significa che tra l’ambiente interno di un qualsiasi
capillare e l’ambiente esterno ci dev’essere una barriera, un filtro, che trattiene molecole grandi e permette il
passaggio di molecole piccole. Questo filtro è rappresentato in parte dalle stesse cellule endoteliali, ma
soprattutto dalla membrana basale basale dell’endotelio, un vero e proprio filtro, in quanto composta da
molecole che si distribuiscono a formare una tela porosa, cioè che presenta pori, del diametro di circa 6-7 nm
(visibili soltanto al microscopio elettronico ad alta risoluzione). Se però nello spazio di Disse è presente
plasma, e non già liquido interstiziale, necessariamente l’endotelio del sinusoide epatico non presenta
membrana basale, caratteristica che rappresenta una condizione necessaria per la presenza di plasma nello
spazio di Disse.
Tuttavia tale condizione è necessaria ma non è sufficiente, infatti è necessario anche che l’endotelio che
costituisce la parete dei sinusoidi epatici sia discontinuo e fenestrato: “discontinuo” significa che le cellule
endoteliali non sono a contatto per tutta la loro periferia con la periferia delle cellule endoteliali vicine, ma ci
sono dei luoghi in cui è presente discontinuità; “fenestrato" significa che l’endotelio presenta dei buchi, delle
fenestrature.
Il combinato disposto dell’assenza di membrana basale e della presenza di discontinuità e fenestrature
determina che attraverso questi pori riesce a passare plasma, che fuoriesce e inonda lo spazio di Disse,
riempiendolo. Ovviamente, in quanto si tratta di plasma, nello spazio di Disse non sono presenti elementi
corpuscolati, nemmeno piastrine, grandi circa 3 µm. Da ciò consegue che le discontinuità e le fenestrature
hanno un calibro medio inferiore a 3 µm, in particolare molto inferiore, di circa 300-400 nm.
CELLULA STELLATA DI ITO:
Questa caratteristica da adito ad un problema: considerato che una delle funzioni della membrana basale di
un endotelio è quella di rappresentare un sostegno su cui si appoggiano le cellule endoteliali, come fanno le
cellule endoteliali dei sinusoidi epatici a reggersi?
Tutt’attorno all’endotelio dei sinusoidi è presente un intreccio di fibre collagene, una sorta di gabbia, che ha
la funzione di sostenere l’endotelio ma che, grazie alla presenza di grandi spazi, permette il passaggio del
plasma dai capillari allo spazio di Disse. Queste fibre collagene sono prodotte dal terzo tipo cellulare di cui si
compone il fegato (il primo è l’epatocita, il secondo è la cellula endoteliale), che si trova nello spazio di
Disse e prende il nome di cellula stellata di Ito, la quale svolge anche qualche funzione nel metabolismo
della vitamina A, ma soprattutto è importante come produttrice del collagene delle fibre che sostengono le
cellule endoteliali dei sinusoidi epatici.
CELLULA DI KUPFFER:
Il 4° tipo cellulare prendente nel fegato prende il nome di cellula di Kupffer, un vero e proprio macrofago
presente all’interno del sinusoide epatico. Appartiene infatti alla tipologia dei macrofagi residenti, si trova
nel sangue ma non scorre con esso, in quanto è attaccato alla parete interna del sinusoide e resiste al flusso
del sangue (che comunque è lento). Questo macrofago, come tutti i macrofagi, pattugliano costantemente il
territorio in cui si trovano allo scopo di tenerlo pulito (motivo per il quale non si utilizza più l’aggettivo
“quiescente” per i macrofagi). In particolare la cellula di Kupffer, nel caso in cui qualche fenestratura o
discontinuità dell’endotelio si otturi, a causa ad esempio della presenza di qualche piastrina che si incastri,
attraverso la liberazione locale di metalloproteasi della matrice (proteasi che digeriscono localmente la
matrice extracellulare), che i macrofagi producono per farsi strada nei tessuti, disincastrano la piastrina che
ottura la discontinuità o la fenestratura.
Inoltre, essendo i macrofagi in grado di emettere pseudopodi, qualche pseudopodio può infilarsi anche in una
discontinuità così da pulire anche lo spazio di Disse.
La cellula di Kupffer ha anche funzione eritrocateretica. Questa funzione è appannaggio fondamentalmente
della milza, tuttavia in maniera marginale anche la cellula di Kupffer funziona come i macrofagi della milza,
cioè riconosce i globuli rossi invecchiati e partecipa alla loro eliminazione. Infatti nei soggetti che subiscono
asportazione della milza, la funzione della milza viene assolta dalle cellule di Kupffer del fegato, che si
sostituiscono alla milza nella funzione della eritrocateresi.
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Polo vascolare dell’epatocita:
La membrana plasmatica del polo vascolare dell’epatocita è sollevata in una miriade di microvilli. Da questo
si deduce che a quel livello si ha un intenso scambio di sostanze, secrezione o assorbimento.
Il plasma esce dai sinusoidi e riempie lo spazio di Disse, ma non vi rimane, bensì circola, tanto che il plasma
fuoriuscito dalle discontinuità e dalle fenestrature poi può rientrare nel sinusoide, per poi magari riuscirne e
rientrarvi e così via. Dopo i pasti il plasma è ricco di glucosio, amminoacidi, acqua, minerali, un po’ di acidi
grassi, ossia tutti “mattoni” a partire dai quali l’epatocita fabbrica elementi più grandi con valore aggiunto:
con gli amminoacidi produce proteine, con il glucosio glicogeno (oltre a consumarne una parte per la sua
stessa attività) e gli acidi grassi vengono utilizzati a scopi energetici, in particolare per ricavare 9 kcal da
ciascun acido grasso. Per fare arrivare elementi semplici al fegato non sembrerebbe necessaria tutta questa
organizzazione, in quanto essi raggiungono anche qualsiasi altra cellula del corpo. Tuttavia l’epatocita non è
una cellula qualsiasi, ma è una cellula che importa materie prime e fabbrica elementi ad alto valore aggiunto,
ad esempio il fegato è l’unico produttore di fibrinogeno e di albumina: l’albumina è presente nel sangue in
quantità di 5 g/100 mL di sangue e, considerando che in media un essere umano presenta 5 L di sangue,
l’albumina è presente nella quantità complessiva di 250 g, quindi la sua produzione avviene in quantità
notevoli. La carenza di albumina genera marasma, una forma di ascite caratterizzata dall’accumulo di acqua
nella cavità peritoneale, causata dal fatto che la scarsa presenza di albumina nel sangue impedisce il
trattenimento dei liquidi: una delle funzioni dell’albumina è quella di trattenere acqua, infatti è una molecola
estremamente igroscopica. L’acqua nel plasma è trattenuta da sodio e albumina, senza i quali il sangue scorre
più lentamente, poiché se c’è meno acqua il sangue si ispessisce, il che comporta uno sforzo maggiore per il
cuore.
La struttura del fegato ricorda molto una spugna: una spugna appare come un trabecolato tridimensionale in
cui le trabecole sono separate le une dalle altre da spazi vuoti; una volta bagnata, l’acqua va a finire in questi
spazi. A livello del fegato la situazione è analoga: il trabecolato della spugna ricorda le muraglie di Elias, le
parti vuote ricordano le parti occupate dai sinusoidi epatici. Questa organizzazione nasce dal fatto che il
fegato embriogeneticamente nasce da 2 abbozzi, uno di natura epiteliale, ex duodeno, che dà origine agli
epatociti, l’altro ex setto trasverso, che dà origine agli elementi non epiteliali, ad esempio mesodermici, come
i vasi e i condotti di qualsiasi natura, comprese le cellule di Ito, che si intersecano tra loro in una rete
tridimensionale.
La ragion d’essere di questa organizzazione, e in particolare del fatto che il polo vascolare dell’epatocita è
costantemente bagnato da plasma e non da liquido interstiziale, sta nel fatto che durante i pasti e dopo i pasti,
sostanze semplici assorbite da stomaco, piccolo intestino e grosso intestino, che prendono la via della vena
porta e vanno a finire nei sinusoidi epatici, devono poter arrivare all’epatocita velocemente, quindi senza
ostacoli. Questo è garantito da alcune caratteristiche, prima fra tutte la presenza di discontinuità e
fenestrature, che fanno sì che, ad esempio, il glucosio arrivi facilmente a contatto con il polo vascolare degli
epatociti.
A livello del polo vascolare degli epatociti è presente in grande quantità una molecola trasportatrice di
glucosio, detta GLUT4. Questo trasportatore prende il glucosio dallo spazio di Disse e lo sposta all’interno
dell’epatocita. Il glucosio assorbito viene concentrato all’interno dell’epatocita, infatti si tratta di un
assorbimento attivo che avviene contro gradiente, quindi il glucosio si accumula. Una parte di questo
glucosio viene utilizzato dall’epatocita per le proprie necessità metaboliche, ma soprattutto viene utilizzato
dallo stesso per produrre granuli di glicogeno: all’interno dell’epatocita avviene, attraverso un sistema
enzimatico relativamente semplice, il fenomeno della glicogenosintesi, la fase anabolica del metabolismo del
glucosio. Il glicogeno è un polimero di glucosio e può essere metaforicamente ricondotto al conto in banca,
cioè un luogo in cui viene depositato il denaro, ossia il glucosio, per evitare di tenerlo in casa.
Al bisogno avviene il processo inverso, cioè una serie di enzimi, sotto l’azione di vari ormoni, scindono il
glicogeno in glucosio, dando luogo alla glicogenolisi, la fase catabolica del metabolismo del glucosio. In
questa fase il glucosio diffonde liberamente, dall’epatocita va nello spazio di Disse, attraverso le
discontinuità e le fenestrature entra nel torrente ematico e tramite il sinusoide arriva alla vena centrolobulare.
Da ciò si deduce che la presenza di discontinuità e fenestrature, unita alla mancanza di membrana basale,
oltre a quella di permettere la fuoriuscita del glucosio dal torrente ematico verso l’epatocita, ha anche la
funzione di far sì che il glucosio immesso durante la glicogenolisi rientri nel torrente ematico altrettanto
velocemente. Il sangue della vena centrolobulare si raccoglie, insieme a quello di altre vene centrolobulari, in
vene più grandi che prendono il nome di vene sottolobulari, le quali poi diventano tributarie delle vene
sovraepatiche, che escono dal fegato all’altezza della parte posteriore del solco sagittale di destra, quello che
presenta la fossa della vena cava, e vanno a finire nella vena cava superiore, per poi tornare al cuore e quindi
in circolo.
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REGOLAZIONE DEL METABOLISMO DEL GLUCOSIO:
Insulina:
Durante un pasto vengono ingeriti anche carboidrati, che vengono digeriti e viene assorbito glucosio, il quale
va a finire nel sistema portale, poi nel sinusoide e fuoriesce nello spazio di Disse. Il glucosio entra
nell’epatocita grazie alla presenza di una molecola, il GLUT4, trasportatore di glucosio.
Questa molecola viene espressa soltanto in piccola parte costitutivamente dall’epatocita, pertanto è
necessario che l’epatocita aumenti l’espressione a livello della membrana plasmatica del GLUT4, processo
di cui si occupa un ormone vitale, che prende il nome di insulina. Quest’ormone viene prodotto e secreto
soltanto ed unicamente dalle cellule beta delle insulae pancreatiche, nessuna cellula intestinale lo produce né
secerne. L’insulina ha come effetto l’aumento dell’espressione di GLUT4 e quindi della sua densità a livello
delle membrane degli epatociti, così che il glucosio viene portato dentro all’epatocita.
L’epatocita esprime un’enorme quantità di recettori per l’insulina, che significa che l’interazione tra insulina
e suo recettore a livello dell’epatocita attiva una cascata di eventi. In particolare nell’epatocita questo porta
alla fosforilazione del glucosio a glucosio-6-fosfato. Questo lascia il citoplasma, poiché deve andare incontro
a metabolizzazione, quindi la concentrazione di glucosio non fosforilato all’interno del citoplasma crolla; si
crea dunque un gradiente che favorisce il passaggio di glucosio dall’esterno verso l’interno attraverso il
trasportatore del glucosio, GLUT4. L’insulina è talmente importante che senza di essa quest’evento è
terribilmente ritardato, così che il glucosio all’interno del plasma rimane alto e si ha iperglicemia. Di
conseguenza l’entrata di glucosio nell’epatocita è dipendente dall’ormone insulina. L’insulina tuttavia non
induce la trascrizione del GLUT4, trasportatore del glucosio che viene invece costitutivamente espresso.
Nell’immediatezza del pasto la glicemia, cioè il tasso ematico di glucosio, aumenta, passando da 70-100 mg/
100 mL a un valore anche doppio durante la prima ora. L’elevata glicemia viene rilevata dalle cellule beta del
pancreas e questo rappresenta il segnale affinché esse secernano insulina nel sangue. Le cellule che
presentano un maggior numero di recettori per l’insulina sono l’epatocita, la cellula muscolare striata e
l’adipocita. Una volta che, a seguito dell’azione dell’insulina, il glucosio viene trasportato dentro queste
cellule, la glicemia si abbassa.
In sintesi, a digiuno la glicemia ha un valore compreso tra 70 e 100; dopo i pasti la glicemia aumenta,
raggiungendo valori di circa 150-160, in seguito all’assorbimento di glucosio; appena la glicemia comincia
ad aumentare, la cellula beta comincia a immettere insulina, che agisce e a distanza di 2 ore dal pasto la
glicemia torna ai valori di partenza, tuttavia lo zucchero non è stato consumato, bensì immagazzinato.
Il valore di glucosio che viene preso in considerazione e misurato è quello che si trova nel sangue, cioè il
valore della glicemia, che fornisce un indice del metabolismo del glucosio, cioè informazioni sul
funzionamento o meno del sistema dell’insulina. Ad esempio in un soggetto diabetico, per diversi motivi, è
come se ci fosse meno insulina, quindi i valori di glucosio nel sangue sono maggiori di quelli normali.
L’insulina è un ormone ipoglicemizzante, in quanto la sua azione ha l’effetto di abbassare la glicemia.
Glucagone:
Nell’intervallo tra un pasto e l’altro, ad esempio durante la notte, in condizioni normali e fisiologiche, la
glicemia misura un valore più o meno costante di circa 70 mg/100 mL. In quel momento l’intestino non sta
assorbendo glucosio, quindi necessariamente il glucosio proviene dal glicogeno, quindi ci dev’essere
qualcosa che invia un segnale di trasformare il glicogeno in glucosio alle cellule deputate, ad esempio
l’epatocita, la cellula muscolare striata e l’adipocita, affinché questo venga immesso nel circolo. Questo
segnale è operato da un ormone, che presenta 2 varianti: una variante è prodotta dalla cellula del sistema
endocrino GEP dell’intestino, l’enteroglucagone, l’altra è un ormone prodotto dalle cellule alfa delle insulae
pancreatiche, il glucagone.
Enteroglucagone e glucagone hanno la funzione di agire attraverso loro recettori, ad esempio, sull’epatocita,
inducendolo a demolire glicogeno. Ciò avviene quando la glicemia tende a scendere, fenomeno che
rappresenta un segnale per le cellule endocrine GEP e per le cellule alfa del pancreas che producono e
secernono questi ormoni. Si ha quindi glicogenolisi, il glucosio diffonde passivamente nello spazio di Disse,
entra nel sinusoide, va a finire nella vena centrolobulare e da qui prende la via del piccolo circolo, prima, e di
grande circolo, poi.
Il glucagone è un ormone iperglicemizzante, perché la sua azione ha l’effetto di aumentare la glicemia.
Insulina e glucagone sono ormoni opposti come azione, il primo è ipoglicemizzante, il secondo è
iperglicemizzante, ma questi devono agire in maniera concertata, allo scopo di mantenere costante il tasso
ematico di zucchero, la glicemia. Queste attività sono vitali, in quanto si può morire di ipoglicemia o di
iperglicemia. Si tratta di un esempio di omeostasi, di equilibrio e di regolazione di equilibrio.
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L’epatocita utilizza le riserve di glicogeno in parte per i suoi bisogni metabolici, ma soprattutto per
immettere glucosio nel circolo sanguigno, cosa che non fanno invece le altre cellule. Infatti, contrariamente
al glicogeno epatico, quello contenuto nel muscolo scheletrico, in seguito all’arrivo del segnale per la
demolizione del glicogeno, il glucagone, non può essere rilasciato nel circolo ematico per essere sfruttato da
altri tessuti, ma viene utilizzato solo dal muscolo stesso per i propri bisogni metabolici.
Ciò costituisce un vantaggio, poiché altrimenti non ci sarebbe glucosio a sufficienza per cuore e muscoli
scheletrici, come i muscoli della respirazione, il cui funzionamento è fondamentale. Di conseguenza
l’epatocita è l’unica cellula che fornisce glucosio ai tessuti.
Corollario di ciò è l’importanza fondamentale di questa cellula nell’economia generale dell’organismo, e di
conseguenza del fegato come organo vitale, poiché il fegato è centrale nel metabolico del glucosio e, nel caso
di malfunzionamento, si hanno problemi che riguardano il metabolismo del glucosio.
REGOLAZIONE DEL METABOLISMO DELLE PROTEINE:
Il fegato non è centrale soltanto ai fini del metabolismo glucidico, ma anche ai fini del metabolismo delle
proteine. Questo perché l’epatocita è l’unico produttore di fibrinogeno e di albumina, il primo essenziale ai
fini della coagulazione del sangue, il secondo indispensabile per trattenere acqua nel sangue: il sangue è
fluido perché c’è il plasma, che serve a trattenere acqua.
L’acqua viene trattenuta grazie alla pressione oncotica o pressione colliodo-osmotica. La pressione oncotica
o colloido-osmotica dà la misura della forza con cui l’albumina trattiene acqua nel torrente ematico, si parla
di pressione perché l’albumina si trova nel plasma, che è un liquido contenuto in un sistema di canali, quindi
esercita una pressione sulle pareti.
È importante che l’acqua venga trattenuta, perché quando si ha una perdita di acqua, ai fini dell’equilibrio,
un po' di acqua del plasma dev’essere ceduta per ripristinare il liquido interstiziale e il citoplasma delle varie
cellule, con il risultato che il sangue si ispessisce, con conseguente forte aumento del valore ematocrito:
questo rappresenta un rischio sia per il cuore, che deve spingere sangue che offre una resistenza maggiore,
ma soprattutto per il fatto che si aumenta la probabilità statistica che qualche vaso si occluda, con
conseguente infarto. È quindi fondamentale mantenere fluido il sangue, che avviene tramite il trattenimento
di acqua da parte dell’albumina.
Se non si riescono a produrre sufficienti quantità di albumina, per qualsiasi motivo, si ha ipoalbuminemia,
con la conseguenza che meno acqua è trattenuta nel sangue, quindi è libera di confluire nel liquido
interstiziale; in particolare quest’acqua finisce nel peritoneo, con conseguente ascite, tipica del marasma dei
soggetti denutriti, nei quali la mancanza di introduzione di proteine animali o vegetali nell’organismo genera
ipoalbuminemia.
L’ascite tuttavia non è causata soltanto da ipoalbuminemia, ma anche da occlusione del sistema della porta,
con conseguente aumento della pressione a monte e manifestazione di numerosi segni, tra i quali l’ascite. Ad
esempio in caso di patologie che comportino distruzione di epatociti, l’organismo risponde facendo dividere
gli epatociti sopravvissuti, tamponando la perdita di cellule; questo fenomeno rigenerativo non è infinito, e se
la causa di distruzione persiste l’organismo non riesce a soppiantare gli epatociti morti con altri epatociti,
quindi per riempire il vuoto produce tessuto connettivo (in piccola parte anche grasso) tramite le cellule di
Ito. In caso di epatite cronica, ad esempio dovuta a sofferenza alcolica, si ha una risposta infiammatoria, con
formazione di tessuto cicatriziale, quindi fibrosi epatica: si parla di cirrosi epatica. Nella cirrosi epatica viene
scardinata l’architettura del fegato, poiché il connettivo si deposita in maniera del tutto disordinata al posto di
alcune muraglie di Elias, quindi alcuni sinusoidi vengono compressi e schiacciati da questo tessuto, con la
conseguenza che a livello dei vasi venosi in periferia la pressione aumenta: si ha ipertensione portale da
cirrosi epatica. Il risultato è che il cirrotico epatico presenta una milza grossa, una stasi di sangue a livello
dello stomaco, dell’intestino e del peritoneo, con disturbo sia delle funzioni digestive sia delle funzioni
assorbenti, e accumulo di liquido interstiziale nella cavità peritoneale; contestualmente è presente un minor
numero di epatociti che regolano il metabolismo dello zucchero e capaci di fabbricare fibrinogeno e
albumina, con conseguenza che nel soggetto cirrotico epatico si hanno disturbi della coagulazione e
ipoalbuminemia, che aggiunge danno alla già presente ascite. I soggetti cirrotici epatici hanno un’aspettativa
di vita inferiore rispetto alla media, a causa o di insufficienza epatica cronica, che prima o poi evolve in
coma epatico per eccesso di incapacità a smaltire lo ione ammonio, tossico per i neuroni; oppure a causa
della rottura di varici esofagee, vene esofagee inferiori tributarie della gastrica di sinistra, dovuta a
ipertensione portale, quindi emorragia, che peraltro ha difficoltà ad essere interrotta per la mancanza di
fibrinogeno.
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Polo biliare dell’epatocita:
Oltre al polo vascolare l’epatocita presenta anche un polo biliare, anch’esso formato da più facce. Laddove
un epatocita è a contatto con l’altro, è vero che le membrane dell’uno e dell’altro sono incollate tramite
giunzioni intercellulari, ma più o meno nella parte intermedia delle membrane plasmatiche dell’uno e
dell’altro epatocita, queste sono scavate in 2 emidocce, che giustapposte formano un canale. Questo canale
prende il nome di canalicolo biliare ed è tale perché laddove la membrana plasmatica dell’epatocita è
scavata nell’emidoccia, è presente in macchinario molecolare indispensabile per la secrezione della bile.
L’epatocita è infatti centrale non soltanto ai fini dei 3 metabolismi, ma anche ai fini della produzione e
secrezione di bile: non esiste altra cellula in grado di svolgere tale compito. Il canalicolo biliare è un
cilindretto, a livello del quale avviene la secrezione della bile.
Mentre il sangue nel lobulo epatico decorre in direzione centripeta, dalla periferia alla vena centrolobulare, la
bile decorre in direzione opposta, perché deve andare a finire inizialmente nei canalicoli biliari, la cui parete
è costituita dalle membrane di 2 epatociti giustapposti, quindi non hanno parete propria, e successivamente in
condotti che presentano parete propria, che costituiscono la via biliare intra-epatica, che poi diventerà dotto
epatico di destra, di sinistra e, quando c’è, accessorio.
I primi condotti biliari con parete propria si trovano a livello degli spazi portobiliari, all’estrema periferia del
lobulo. Infatti a questo livello, dove c’è connettivo, la bile va a finire in radici del condotto biliare, le quali
pescano nella periferia del lobulo epatico, ricevendo linfa dai canalicoli biliari (privi di pareti) presenti alla
periferia del lobulo, quindi sono beanti, e continuandosi nei condotti biliari del connettivo perilobulare. Essi
prendono il nome di colangioli. In questo modo la bile viene incanalata in condotti di calibro sempre
maggiore fino ad arrivare prima alla via biliare intraepatica e poi alla via biliare extraepatica.
Il flusso della bile in questo sistema in parte è passivo: la bile è secreta nel canalicolo biliare in maniera
attiva, con spesa energetica, quindi le componenti biliari successive spingono quelle precedenti, che vanno
verso i luoghi di minor resistenza, cioè verso la periferia; poi però, una volta che si costituisce il condotto
biliare con parete propria, questo è dotato di muscolatura liscia che attraverso la sua contrazione spinge la
bile verso l’ilo del fegato.
Il polo biliare dell’epatocita è molto importante e rappresenta un luogo critico, perché il canalicolo biliare è
isolatissimo dal resto, in quanto da un lato e dall’altro sono presenti giunzioni serrate che fanno si che i 2
epatociti siano incollati l’uno all’altro. Il polo biliare è relativamente distante dal sinusoide epatico, quindi in
condizioni normali e fisiologiche la probabilità statistica che bile e sangue si incontrino è pari a 0: né il
sangue riesce ad infilarsi per andare a finire dentro la via biliare, né la bile riesce a diffondere nel sangue.
Se tuttavia si ha una distruzione massiva di epatociti, come nel caso di epatite acuta, può succedere che uno
dei 2 epatociti che forma un canalicolo biliare muoia e che l’altro sopravviva; questo continua a produrre e
secernere bile, che non viene secreta più nel canalicolo biliare, non più presente a causa della morte dell’altro
epatocita, ma nell’emidoccia che è rimasta; non essendo più presente l’altro epatocita la bile diffonde nel
sinusoide, quindi nel torrente sanguigno, e di conseguenza inonda di sé il sangue, causando il fenomeno
dell’ittero.
Analogamente, in presenza di un calcolo che occlude il coledoco o lo sfintere di Oddi, oppure di un cancro
del coledoco o della testa del pancreas che comprime il coledoco dall’esterno, si ha un restringimento del
coledoco. In questi casi la bile, secreta dal fegato ad ogni pasto, non riesce a raggiungere il duodeno, di
conseguenza la pressione all’interno della via biliare extraepatica tende ad aumentare, si ha dilatazione dei
condotti, che tuttavia non è sufficiente a contenere l’aumento di pressione, che continua ad aumentare fino a
raggiungere il canalicolo biliare. Questo provoca l’allargamento dello spazio del canalicolo biliare, fino alla
separazione delle 2 cellule che lo compongono, con conseguente passaggio di bile dal canalicolo biliare al
torrente ematico. Anche in questo caso si ha una condizione di ittero, che prende il nome di ittero colestatico,
che rappresenta un brutto segno diagnostico e prognostico: nella migliore delle ipotesi indica un calcolo
all’interno del coledoco, nella peggiore delle ipotesi è segno di un cancro o del coledoco, in genere, o del
pancreas.
Lobulo portale e Acino epatico:
LOBULO PORTALE:
La descrizione della struttura epatica finora ha preso in considerazione il lobulo epatico classico, che viene
definito tenendo conto del flusso del sangue, il quale circola in direzione centripeta dalla periferia al centro.
Le caratteristiche strutturali finora descritte hanno poco a che vedere con l’apparato digerente, ma il fegato è
definito una ghiandola annessa all’apparato digerente. Infatti, dal versante della produzione e secrezione di
bile, tramite la via biliare intraepatica, prima, extraepatica, poi, il fegato immette bile nel duodeno, quindi da
questo punto di vista rappresenta a tutti gli effetti una ghiandola esocrina.
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È possibile descrivere il lobulo epatico tenendo conto della funzione di ghiandola esocrina del fegato, cioè
tenendo conto della secrezione biliare: se anziché porre al centro del sistema la vena centrolobulare, si pone
al centro del sistema uno spazio portobiliare, e si uniscono idealmente 3 vene centrolobulari, si considera la
struttura dal punto di vista della secrezione biliare. Infatti alla periferia del lobulo, il condotto biliare di
calibro maggiore ci si aspetta di trovarlo a livello dello spazio portobiliare: il condotto biliare presente nello
spazio portobiliare, parallelo alla vena porta, all’arteria epatica, ecc., è un dotto che accoglie i condotti biliari
più vicini. Questa struttura prende il nome di lobulo portale, dove portale indica che alla periferia del lobulo
è posta la vena centrolobulare, elemento del circolo portale, mentre al centro è posto lo spazio portobiliare.
ACINO EPATICO:
Un terzo modo di descrivere la struttura epatica prende in considerazione la pressione parziale di ossigeno.
Questa rappresentazione pone al centro 2 spazi portobiliari, uniti da una lamina connettivale, che limita 2
lobuli classici, e le 2 vene centrolobulari dei relativi lobuli epatici classici, a formare una struttura a forma di
losanga. Nel sottile connettivo del fegato presente a livello della lamina connettivale è presente una fitta rete
di vasi anastomotici, arteriosi e venosi, dai quali partono dei sinusoidi diretti in più direzioni; tuttavia il
sinusoide, capillare del sistema della porta, riceve un capillare piccolo, ramo di un ramo dell’arteria epatica
propria, con il risultato che all’interno del sinusoide epatico decorre sangue misto, in parte venoso e in parte
arterioso, in parte deossigenato e in parte ossigenato. Se questo è vero, si può immaginare che gli epatociti
che si trovano a ridosso della lamina connettivale, di un lobulo o dell’altro, ricevano più ossigeno rispetto
agli epatociti che si trovano a livello della vena centrolobulare, da una parte e dall’altra, e via via che ci si
sposta dalla periferia del lobulo verso la vena centrolobulare, si incontrano epatociti sempre meno ossigenati.
Questo concetto è molto importante, poiché in caso di danno epatico, i primi epatociti a morire sono quelli
peggio ossigenati, quindi quelli che si trovano tutt’intorno alla vena centrolobulare, di conseguenza la
probabilità che intorno alla vena centrolobulare si depositi tessuto fibroso è molto elevata; se si deposita
tessuto fibroso intorno alla vena centrolobulare, questa vena sarà ostruita sempre di più, fino all’occlusione,
con aumento della probabilità statistica di ipertensione a monte.
Via linfatica del fegato:
Nel connettivo circostante il lobulo epatico, sia lo spazio portobiliare sia la lamina connettivale che unisce 2
spazi portobiliari contigui, si ha una rete di vasi del sistema della porta, del sistema dell’arteria epatica, di via
biliare intraepatica e linfatici. Ciò significa che il fegato produce linfa e la esporta, come tutti gli organi,
sebbene non sia un grande produttore e esportatore di linfa, soprattutto in relazione alla sua grandezza.
La linfa è ex liquido interstiziale, liquido che in gran parte riprende il circolo ematico attraverso i capillari,
mentre la parte che non riesce a riprendere il circolo sanguigno entra nel circolo linfatico; per quella che è
l’organizzazione del fegato, non ci si aspetta che nel fegato ci sia una grande quantità di liquido interstiziale,
perché è un organo molto parenchimatoso, tanto che ha consistenza pastosa. Inoltre, se si va considera la
citoarchitettura delle pareti di Elias, si capisce che all’interno del lobulo epatico non c’è liquido interstiziale,
dal momento che gli epatociti sono bagnati da plasma, che non è liquido interstiziale. L’unico luogo in cui
può trovarsi liquido interstiziale è il connettivo, in particolare degli spazi portobiliari e in minor parte delle
lamine connettivali, che tuttavia nel fegato è poco, quindi a questo livello si produce linfa, ma in quantità
ridotte.
Inoltre a livello delle lamine connettivali e ancor più a livello degli spazi portobiliari, i condotti linfatici
presenti nascono da piccoli rami che pescano dentro allo spazio di Disse delle parti più periferiche del lobulo
epatico. Nello spazio di Disse è presente plasma, che in gran parte rientra nel circolo ematico attraverso le
stesse porte da cui è uscito, le discontinuità e le fenestrature, e in piccola parte imbocca la via dei capillari
linfatici che vi pescano dentro, per percorrere poi i vasi linfatici e “diventare” linfa.
Quindi la linfa prodotta dal fegato in parte è linfa canonica, ex liquido interstiziale del connettivo, in gran
parte è ex plasma. Si tratta di una linfa molto particolare, l’unico caso di linfa che non deriva esclusivamente
dal liquido interstiziale. L’estrema periferia dello spazio di Disse in cui pescano i rami beanti dei capillari
linfatici prende il nome di spazio di Mall.
La linfa prodotta dal fegato raggiunge i linfonodi dell’ilo del fegato e da questi i linfonodi pre-aortici, i
linfonodi retro-aortici, i linfonodi para-aortici ed infine il dotto toracico.
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Pancreas - Anatomia microscopia:
Il pancreas è una ghiandola “doppia”: presenta sia una componente esocrina, per la maggior parte, sia una
componente endocrina, in parte minore. Infatti, sebbene sia una ghiandola annessa all’apparato digerente,
con la funzione di immettere nel duodeno al bisogno enzimi litici necessari al processo digestivo, è anche
una ghiandola endocrina.
È un organo di colorito roseo, il che significa che si tratta di un organo molto vascolarizzato. Il suo nome
deriva da una parola greca che letteralmente significa “tutto carne”, ad indicare una consistenza carnosa,
dovuta alla sua natura parenchimatosa, con poco connettivo (sebbene molto di più rispetto al fegato in
proporzione). Si tratta di un organo parenchimatoso, in quanto il parenchima sopravanza lo stroma, cioè il
connettivo. Esso infatti è formato da lobuli, i quali nascono da una specie di capsula fibrosa che sta
all’esterno e che manda dei setti che lo separano.
COMPONENTE ESOCRINA:
Il pancreas è per la maggior parte una ghiandola esocrina, composta da lobuli delimitati da connettivo,
ciascuno dei quali contiene un certo numero di adenomeri, gli acini pancratici.
Da un punto di vista esocrino il pancreas è una ghiandola tubulo-acinosa composta.
In una sezione al microscopio ottico di pancreas si individua poco connettivo, di conseguenza si deduce che
si tratta di un organo parenchimatoso, e si individuano diverse strutture di varia forma, circolare, ellittica,
allungata, ecc., quindi si conclude che si tratta di un’organizzazione ghiandolare di tipo esocrino. Una cosa
simile si vedrebbe se si facesse una sezione di ghiandola parotide, un po’ diversa in una sezione di ghiandola
salivare o di ghiandola sottolinguale, esattamente uguale in una sezione di ghiandola lacrimale, tanto che in
una sezione istologica è praticamente impossibile distinguere una sezione di pancreas da quella di ghiandola
lacrimale se non si individua un’insula pancreatica.
Le formazioni visibili in una sezione di pancreas al microscopio ottico rappresentano acini, cioè aggregati di
ghiandole tubulo-acinose. Una ghiandola tubulo-acinosa è più o meno un ghiandola a forma di ciliegia, che
presenta un condotto escretore, dotto intercalato o intercalare, riconducibile al picciolo. Più acini
condividono lo stesso condotto escretore, dotto intercalato o intercalare, tanti dei quali convergono a formare
dotti di calibro maggiore, che a loro volta confluiscono in dotti di calibro ancora maggiore, fino ad arrivare al
dotto principale di Wirsung, che percorre tutta la coda, il corpo e la parte inferiore della testa del pancreas, e
il dotto secondario di Santorini, che invece drena la parte superiore della testa del pancreas.
Produzione enzimi litici:
Gli acini in grandissima parte sono formati da cellule piramidali ad apice tronco, con una membrana apicale
dotata di una discreta quantità di microvilli che aggetta nel lume e una membrana basolaterale, o abluminale,
più grande, a contatto con la membrana basale. Queste cellule presentano un intenso reticolo endoplasmatico
rugoso, che indica una intensa attività proteosintetica, in particolare queste cellule producono una grande
quantità di enzimi litici, di natura proteica, proteasi, lipasi, maltasi, amilasi, DNA-asi, RNA-asi, ecc..
Il reticolo endoplasmatico rugoso è perinucleare, quindi confinato alla regione basolaterale della cellula.
La parte apicale della cellula, invece, è piena di granuli secretori, nei quali vengono immagazzinati i prodotti
di secrezione, pronti ad essere riversati nel lume della ghiandola, attraverso un processo di esocitosi, in
seguito all’arrivo dello stimolo, costituito ad esempio da parte della colecistochinina-pancreozimina, per poi
raggiungere il duodeno.
Tutt’attorno a ciascun acino si trovano cellule extra-piatte, che presentano numerose ramificazioni, le cellule
mioepitelioidi. Queste cellule si trovano anche nelle ghiandole salivari e nella ghiandola mammaria. Esse
sono dotate di un citoscheletro molto reattivo, capace di modificarsi rapidamente, che rende queste cellule
delle vere e proprie cellule contrattili. Le cellule mioepitelioidi, all’arrivo dello stimolo rappresentato dalla
componente pancreoziminica della colecistochinina-pancreozimina, cambiano rapidamente forma in modo
da spremere l’acino e determinare così la fuoriuscita del secreto.
Produzione ione bicarbonato:
In una sezione istologica di pancreas si ha l’impressione di vedere, all’interno dell’acino, alcune cellule: tutti
gli acini pancreatici contengono cellule all’interno, tanto che prendono il nome di cellule centro-acinose.
Questa caratteristica permette di distinguere una sezione istologica di pancreas da quelle di ghiandola
salivare parotide o di ghiandola lacrimale, le quali invece non presentano cellule centro-acinose.
Le cellule cubiche che compongono i condotti del pancreas si invàginano leggermente all’interno dell’acino,
similmente a ciò che succede al picciolo delle mele: il condotto intercalare è composto da cellule cubiche
che, per la porzione di condotto che si invàgina, vanno a tappezzare l’interno e a frapporsi tra la cellula
acinosa e il lume della ghiandola, ma in maniera discontinua, così da creare spazio attraverso cui il secreto
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dell’acino passa. Queste cellule, insieme alle cellule centro-acinose, sono le cellule responsabili della
produzione e della immissione nel secreto di ioni bicarbonato e di acqua.
Il succo pancreatico è infatti caratterizzato per la presenza di 2 elementi fondamentali, enzimi litici e ioni
bicarbonato. Mentre le cellule acinose subiscono l’azione della colecistochinina-pancreozimina, le cellule
centro-acinose e le cellule del condotti subiscono l’azione della secretina, responsabile della secrezione di
ione bicarbonato.
Lo ione bicarbonato è essenziale, sia perché nel duodeno tampona l’acidità del chimo gastrico, ma anche
perché mantiene il succo pancreatico ad un pH compreso tra 8 e 9, valori in cui gli enzimi litici non sono
attivi (ciascun enzima è attivo in un range di pH ottimale, al di sopra e al di sotto del quale l’enzima non
funziona). Ciò è molto importante, tanto che in seguito alla fuoriuscita degli enzimi litici del pancreas, essi
possono dare luogo a pancreatite, dovuta ad autodigestione del pancreas da parte degli enzimi da esso stesso
prodotti. Ciò provoca una necrosi cellulare che scatena una risposta infiammatoria e, proprio perché il
pancreas è retroperitoneale, si ha anche digestione del connettivo retroperitoneale e del peritoneo che
tappezza da davanti il pancreas, con conseguente infiammazione peritoneale, peritonite.
COMPONENTE ENDOCRINA:
Una parte della coda, una parte più piccola del corpo e una parte ancora più piccola della testa, rappresentano
la componente endocrina del pancreas.
Le cellule endocrine che compongono il pancreas sono concentrate in isolotti, raggruppamenti, che prendono
il nome di insulae pancreatiche di Langerhans, distribuite in maniera progressivamente minore dalla coda
alla testa del pancreas. Quest’ultimo concetto è importante, poiché ogni volta che si hanno patologie del
pancreas, sia di natura neoplastica sia di natura infiammatoria, altro è che sia interessata la coda, altro è che
sia interessata la testa, anche in relazione alle insulae pancreatiche: se si ha un problema alla coda del
pancreas, la probabilità statistica che ci sia un problema alla struttura delle insulae pancreatiche è molto
maggiore.
Le insulae pancreatiche sono dette così perché sono immerse nel tessuto esocrino, ma sono ghiandole
endocrine. Ciascuna insula è composta da diversi tipi cellulari ammucchiati tra loro ed è a contatto con un
capillare sanguigno, separata dal resto dell’organo da un sottile strato connettivale.
In particolare le insulae pancreatiche sono composte da 4 tipi cellulari, 3 dei quali sono già stati analizzati,
che appartengono al sistema endocrino gastro-entero-pancreatico (GEP). Ciascun tipo cellulare è
caratterizzato da una distribuzione topografica molto precisa all’interno dell’insula.
Cellule beta:
La parte centrale dell’insula è composta da cellule dette cellule beta o cellule B, le cellule presenti in
maggioranza, che hanno la funzione di produrre e secernere al bisogno l’ormone insulina.
Queste cellule sono le uniche in grado di produrre e immettere nel sangue insulina, quindi molto importanti:
in caso di distruzione delle cellule beta il soggetto non ha possibilità di produrre insulina e va incontro a
diabete. La produzione di insulina da parte di queste cellule non è costante ma è di tipo oscillante. Il segnale
per la secrezione di insulina è rappresentato dalla stessa glicemia, cioè dal tasso ematico di glucosio: le
cellule beta del pancreas, bagnate dal liquido interstiziale che presenta la stessa concentrazione di glucosio
del sangue, avvertono quando la glicemia supera un certo valore soglia e rispondono producendo e liberando
insulina. L’insulina va in circolo e induce l’ingresso del glucosio nelle cellule, sottraendolo al liquido
interstiziale e quindi al plasma, perciò è detto un ormone ipoglicemizzante. Chiaramente se la glicemia si
abbassa, questo rappresenta il segnale per le cellule beta di interrompere l’immissione di insulina nel sangue.
Un difetto di secrezione di insulina si traduce nell’incapacità di controllare la glicemia, che dopo i pasti e a
digiuno rimane a valori molto elevati. Questo rappresenta un gravissimo danno: se è presente molto zucchero
nel sangue, questo scarseggia nelle cellule; le cellule non sono in grado di sintetizzare zucchero,
fondamentale per la produzione di energia, quindi l’assenza di insulina già rappresenta una mancanza di
zucchero a disposizione delle cellule.
Inoltre la permanenza di zucchero in eccesso nel sangue, che implica la presenza di grandi concentrazioni di
zucchero nel liquido interstiziale, di per sé è un fenomeno grave, perché attraverso reazioni non enzimatiche,
quando c’è eccesso di zucchero nell’interstizio, questo va a legarsi a molecole della matrice a formare i
cosiddetti prodotti finali di glicazione avanzata, in sigla AGE (Advanced Glycation End-product). Quindi
nella matrice, e addirittura a livello della parte esterna delle membrane biologiche, si formano queste
sostanze, AGES, terribilmente dannosi, perché vanno ad attivare in particolare un recettore che normalmente
non viene espresso dalle cellule. Se si sottopone infatti una cellula a queste sostanze, avvengono delle
reazioni che si traducono nell’immediato nella produzione nella cellula di specie ossigeno reattive, cioè
radicali liberi, le quali attivano un fattore di trascrizione, detto NF-kB, che codifica per l’espressione di
citochine infiammatorie e non solo. Ciò significa che ogni volta che accumula glucosio nell’interstizio e si
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formano questi prodotti finali di glaciazione avanzata, a distanza di tempo si ha l’attivazione di cellule
infiammatorie, come macrofagi e microglia nel cervello (la microglia è l’insieme dei macrofagi residenti nel
SNC). Questi macrofagi, una volta attivati, sono in grado di secernere citochine e chemochine, le quali non
fanno altro che amplificare la risposta infiammatoria. In un qualsiasi tessuto ci sono cellule particolarmente
sensibili a questo tipo di ambiente, pieno di macrofagi e citochine, cioè le cellule endoteliali, in particolare
quelle del microcircolo, cioè le cellule endoteliali dei capillari sanguigni, che sono quelle più a diretto
contatto con il liquido interstiziale e quindi quelle che subiscono i danni maggiori. A seguire, subiscono
danni anche i tessuti irrorati da quei capillari, le cui cellule endoteliali sono state lesionate.
Esiste però un’ulteriore conseguenza. Il glucosio è solubile in acqua, e la gran parte delle sostanze
idrosolubili è eliminabile soltanto attraverso la funzione renale; esso inoltre è anche molto igroscopico, cioè
attrae acqua, un po’ come sodio e albumina. La parola diabete deriva da una parola greca che significa “io
bevo”, perché il diabetico, soprattutto il diabetico scompensato, cioè colui che nonostante la terapia e la dieta
continua a presentare livelli alti di glicemia, è costantemente assetato, a causa del fatto che perde liquidi
attraverso le urine a causa del fatto che, quando la glicemia è alta, lo zucchero presente nel sangue che
dev’essere filtrato dal rene trattiene acqua, quindi il rene è meno capace di riassorbire acqua; se il rene
riassorbe meno acqua, il soggetto urina molto e molto spesso, con tendenza alla disidratazione, condizione
che stimola il senso di sete, avvertito a livello della mucosa orale, quindi il soggetto beve molto allo scopo di
dissetarsi, ma in realtà di reintegrare liquidi.
Di conseguenza la iperglicemia, qualunque ne sia la sua causa, è un elemento negativo perché, oltre a
produrre il danno di limitare la quantità di zucchero alle cellule, e quindi ridurne l’energia a disposizione,
produce un danno al microcircolo e ai tessuti e provoca disidratazione, tanto che se la glicemia aumenta fino
a raggiungere valori molto elevati, come 300-400 mg/100 mL, il soggetto corre il rischio di andare incontro
ad una forma di coma detta coma diabetico, dovuto a disidratazione: i neuroni sono cellule particolarmente
sensibili alla disidratazione, in quanto necessitano di una grande quantità di acqua, e ogni volta che essi si
disidratano la loro funzione è compromessa, tanto da causare il coma. Questo, sommato al fenomeno di
ispessimento del sangue, può causare anche morte. Il controllo della glicemia è quindi un elemento
essenziale per il benessere e l’insulina ha un ruolo estremamente importante da questo punto di vista. Il
controllo della secrezione dell’insulina avviene ad opera dello stesso glucosio, sistema molto rudimentale;
interviene in piccola parte anche il nervo vago, del sistema parasimpatico, ma l’elemento importante della
regolazione della secrezione di insulina è la glicemia.
Cellule alfa:
Tutt’attorno alle cellule beta, nella periferia delle insulae pancreatiche ci sono altri 3 tipi cellulari. Uno di
questi è rappresentato dalle cellule alfa o cellula A, cellule che producono e secernono l’ormone glucagone,
simile all’enteroglucagone del sistema endocrino GEP. La sua funzione è opposta a quella dell’insulina:
laddove l’insulina abbassa la glicemia, perché fa scomparire lo zucchero dal sangue per farlo entrare nelle
cellule, il glucagone aumenta la glicemia. È un ormone molto importante durante, ad esempio, il digiuno
prolungato, in cui non viene introdotto cibo e ci si aspetta che il tasso ematico di glucosio scenda; tuttavia ciò
non accade, poiché anche l’ipoglicemia è una condizione grave e può causare la morte, quindi la glicemia
deve rimanere costante. Questa condizione è garantita dal fatto che in questa situazione avviene il fenomeno
contrario a quello descritto per l’insulina: a causa della mancata introduzione di cibo, la glicemia tende ad
abbassarsi, fenomeno che rappresenta un segnale per le cellule alfa a glucagone delle insulae pancreatiche e
per le cellule ad enteroglucagone dell’intestino affinché immettano nel circolo glucagone e enteroglucagone
rispettivamente. Il bersaglio del glucagone è l’epatocita: quest’ormone induce l’epatocita, reagendo con un
suo recettore, alla demolizione di glicogeno; questo provoca il rilascio nell’epatocita di glucosio che,
attraverso i canali di membrana, diffonde nello spazio di Disse e da qui entra in circolo. Il risultato è che la
glicemia torna ad elevarsi. Il glucagone è quindi un ormone iperglicemizzante, sebbene non l’unico, che
svolge una funzione vitale.
Se si distruggono le insulae pancreatiche, oltre all’insorgenza di diabete in seguito alla mancanza di insulina,
non si ha un disturbo analogo che riguarda il glucagone, perché le cellule alfa, diversamente dalle cellule
beta, non sono le uniche capaci di liberare glucagone, ma esistono anche le cellule ad enteroglucagone del
piccolo intestino.
Cellule delta:
Il 3° tipo cellulare è rappresentato dalle cellule delta o cellule D, che producono e secernono l’ormone
somatostatina. Ciascuna di queste cellule in genere si trova alla periferia dell’insula, a contatto con la cellula
alfa e può arrivare a contattare anche la cellula beta, contatto funzionale al fatto che la somatostatina
controlla negativamente la liberazione di glucagone, ma anche di insulina. Infatti tra le numerose funzioni
della somatostatina c’è quella di inibire la liberazione di glucagone e, in minor parte, anche di insulina.
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Questa cellula è innervata da fibre soprattutto parasimpatiche, quindi all’attivazione del parasimpatico si ha
stimolo della cellula delta a produrre somatostatina, che inibisce la liberazione di glucagone.
A loro volta la cellula alfa e la cellula beta possono stimolare la cellula a somatostatina, inducendola quindi a
frenare la produzione di glucagone e insulina.
Di conseguenza non è soltanto la glicemia a controllare la produzione ormonale delle insulae pancreatiche,
ma anche l’azione stessa delle varie cellule che compongono l’insula.
A ciò si aggiunge che la somatostatina non è prodotta soltanto dalle cellule delta delle insulae pancreatiche,
ma anche dalle cellule endocrine del sistema GEP, situate in particolar modo nella parte pilorica dello
stomaco e nella prima parte del duodeno, cellule a somatostatina, che secernono somatostatina con la
funzione di bloccare l’attività della gastrina. In particolare ciò avviene non paracrinamente, in quanto nella
parte di stomaco popolata da cellule a somatostatina non ci sono cellule parietali, dunque la somatostatina
deve andare nel circolo ematico. In questo modo la somatostatina gastrica e duodenale circola nel torrente
ematico, raggiunge le cellule parietali delle ghiandole gastriche propriamente dette, ma raggiunge anche le
cellule alfa e beta del pancreas, inibendo anch’essa la produzione sia di glucagone sia di insulina.
Questo rappresenta un esempio di regolazione della comunicazione intracellulare, realizzata dalle cellule a
somatostatina, sia delle insulae pancreatiche, quindi con azione paracrina e immediata, sia dello stomaco e
del duodeno, con azione sistemica.
Esiste una logica retrostante a questo tipo di organizzazione. Infatti la relativamente grande produzione di
somatostatina in seguito all’introduzione di cibo ha la funzione di bloccare insulina per impedire che essa
determini un totale assorbimento del glucosio a livello epatico, anziché parziale, e la funzione di bloccare il
glucagone per impedire che esso determini glicogenolisi.
Cellule a VIP:
Il 4° tipo cellulare presente a livello delle insulae pancreatiche, sebbene molto poco rappresentato, è la
cellula a VIP (Vasoactive Intestinal Peptide). Questa sostanza ha un effetto di stimolo nei confronti della
muscolatura liscia del piccolo intestino.
Cellula a gastrina:
Alcuni soggetti, ma non tutti, presentano un 5° tipo di cellula, la cellula a gastrina. In ogni caso se presenti,
tali cellule sono in numero molto limitato. Si tratta di cellule che producono e secernono gastrina. La gastrina
è una sostanza prodotta anche dalle cellule endocrine del sistema GEP dello stomaco, che agisce sulla cellula
delomorfa o parietale e la stimola, in presenza di istamina, a liberare acido cloridrico e fattore intrinseco.
Nell’uomo si può avere qualche cellula a gastrina a questo livello. Non vi si può fare affidamento per
regolare l’attività delle cellule parietali o delomorfe delle ghiandole gastriche, in quanto sono presenti in
numero molto limitato; infatti fisiologicamente averle o non averle è la stesa cosa. Il punto è che,
fortunatamente raramente, in qualche soggetto queste cellule aumentano inizialmente di dimensioni,
ipertrofia, successivamente di dimensioni, iperplasia, a costituire un vero e proprio tumore di natura benigna,
nel senso che non metastatizza, ma in quanto tumore altamente differenziato, si ha una produzione
industriale di gastrina, che viene secreta anche quando non è necessario. Il risultato è che il soggetto va
incontro a ripetute ulcere gastroduodenali, a costituire quella che prende il nome di sindrome di ZollingerEllison o SZE.
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Milza - Anatomia microscopica:
La milza si colloca nell’ipocondrio di sinistra, è un organo discoidale, di colorito rosso brunastro, sebbene
molto meno rispetto al fegato, che significa che anch’esso è un organo molto vascolarizzato. Infatti essa
riceve un vaso, l’arteria splenica (il vaso più grande di quelli che originano dal tripode celiaco), che è molto
grande in relazione alle sue dimensioni, quindi la milza riceve una grande quantità di sangue ogni istante.
Essa presenta 3 facce, una diaframmatica e 2 viscerali, una gastrica e una renale. Presenta un asse maggiore
parallelo all’andamento della 12° costa di sinistra e proietta sulla parete laterale dell’ipocondrio di sinistra.
La milza è un organo di consistenza più dura rispetto a quella del fegato, a causa della notevole maggiore
presenza di connettivo, infatti essa presenta una capsula periferica di connettivo, la capsula splenica, che
periodicamente dà origine a setti connettivali che si approfondano e vanno come i raggi di una bicicletta
verso il centro geometrico ideale dell’organo. La grande presenza di connettivo ha la funzione di sostenere
vasi, in particolare venosi, reflui, che diventano poi tributari della vena splenica. Tuttavia i setti connettivali
non sono distribuiti in maniera periodica, ma a caso, quindi non si può parlare né di lobi splenici né di lobuli
splenici.
Polpa bianca e polpa rossa:
Se si osserva una milza che non abbia subito il processo di perfusione, si nota che il parenchima della milza,
tra un setto connettivale e l’altro, è popolato da strutture rotondeggianti di colore chiaro che somigliano alle
isole di un arcipelago. Queste strutture prendono ciascuna il nome di corpuscolo splenico di Malpighi,
rappresentano dei veri e propri noduli linfatici (da non confondere con i linfonodi, i quali si trovano tutti
all’esterno e sono relativamente grandi), simili ai noduli linfatici presenti nell’esofago, pochi, nello stomaco,
un po’ più, nel piccolo intestino, soprattutto nell’ileo, in cui si associano a formare le placche di Peyer,
moltissimi, localizzati nella tonaca propria della mucosa. Queste strutture nell’insieme costituiscono la polpa
bianca della milza e sono immerse in una sostanza che prende il nome di polpa rossa, che rappresenta tutto
il resto, cioè tutto ciò che della milza non è polpa bianca, la quale appare rossa in quanto ricca di sangue.
Se si osserva invece una milza che ha subito il processo di perfusione, così da lavarla e liberarla dai globuli
rossi, si notano sempre i corpuscoli splenici di Malpighi, ma la polpa rossa risulta decisamente meno rossa,
da cui si deduce che il colore rosso della polpa rossa è determinato dalla presenza di eritrociti.
Capillari con guscio:
L’arteria splenica dà origine a rami di divisione che poi danno origine a rami più piccoli, molti dei quali si
trovano nei setti connettivali e dai quali, rami settali, vengono fuori delle arteriole (tutti i libri parlano di
arterie, ma quando il calibro scende al di sotto di un certo valore si hanno arteriole), le quali percorrono
assialmente il corpuscolo splenico. Si dice che lo percorrono assialmente perché un corpuscolo splenico nelle
3 dimensioni dello spazio risulta della forma di un uovo o pallone di rugby: presenta un diametro
longitudinale maggiore del diametro trasverso. Queste arteriole passano dentro al corpuscolo splenico, in
posizione più o meno eccentrica, e durante questo passeggio danno origine a qualche piccolo vaso che serve
ad irrorarlo; dopodiché escono dal corpuscolo splenico e percorrono un certo breve tragitto in maniera
rettilinea, tanto che prendono il nome di arterie penicillari, e subito dopo si capillarizzano, come tutte le
arteriole.
I capillari sanguigni delle arterie penicillari sono particolari, tanto da costituire una tipologia caratteristica ed
esclusiva della milza. In particolare questi capillari per la stragrande maggioranza finiscono in maniera
tronca, sono quindi beanti (in genere un vaso è beante se viene tagliato, ad esempio per opera del chirurgo,
normalmente non esistono in natura). La conseguenza di questa caratteristica è che il sangue che circola
all’interno di questi capillari diffonde liberamente, fuoriesce, quindi i globuli rossi stravasano fuori dai
capillari.
Prima che ciascun capillare finisca beante, accade che nella porzione terminale esso viene circondato da un
manicotto di cellule, a formare una specie di guscio, alle quali si deve il nome di quest’ultima parte del
capillare, cioè capillare con guscio. Si pensa che le cellule che formano il guscio dei capillari con guscio,
dotate di un citoscheletro molto reattivo, possono cambiare di forma, quindi ridurre l’uscita del sangue al
bisogno, ad esempio in una situazione di pericolo in cui è necessario un maggior afflusso di sangue a muscoli
e cervello.
Doppia rete connettivale e cellulare:
All’esterno sia dei corpuscoli sia dei capillari con guscio, cioè per la grandissima parte, la milza è fatta di un
trabecolato, un po’ di natura connettivale, ma soprattutto composto da cellule a forma di stella, tra loro
connesse a formare una rete tridimensionale, che prendono il nome di cellule reticoloendoteliali. Questo
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doppio reticolo serve a dare supporto, un po’ come il trespolo di un pappagallo, a macrofagi, a cellule
dendritiche o APC (cellule presentanti l’antigene) e anche a piastrine. Facendo stravasare sangue in questa
rete tridimensionale si ha l’effetto di aumentare il numero di globuli rossi che vengono a contatto con i
macrofagi sostenuti dal trabecolato.
Il globulo rosso ha una vita di circa 120 giorni e quando invecchia si depriva di un residuo zuccherino, una
glicoproteina, l’acido sialico, ad opera di una neuraminidasi, per cui nella popolazione di eritrociti fuoriusciti
dal capillare alcuni lo presentano ancora, altri non più, il che rappresenta il segnale che sono vecchi.
L’assenza di acido sialico sulla superficie del globulo rosso rappresenta un segnale che il macrofago avverte
e che lo induce ad ucciderlo. Si tratta di un sistema per distruggere i globuli rossi invecchiati, dunque la
milza, tramite i suoi macrofagi, svolge una funzione eritrocateretica. Chiaramente i globuli rossi
sopravvissuti, che non hanno ancora perso il residuo di acido sialico, momentaneamente fuori dal circolo
sanguigno, rientrano nel circolo sanguigno; infatti il cuore genera un’onda elastica che raggiunge anche
questi capillari, e questa forza spinge non soltanto il sangue in tutto il circolo arterovenoso, ma anche sangue
che è stravasato.
Capillari con cellule a doghe di botte:
Nella milza esiste un 2° tipo di capillare, completamente diverso dal capillare con guscio, di dimensioni
molto grandi, tanto che ricorda il sinusoide epatico, ma abbastanza corto; prende il nome di capillare con
cellule a doghe di botte. Questi capillari sono fatti di cellule endoteliali come tutti i capillari, che tuttavia
risultano piuttosto allungate rispetto alle comuni cellule endoteliali dei capillari (che sono “a uovo fritto”).
Queste cellule si dispongono l’una accanto all’altra a cerchio, delimitando uno spazio, e, diversamente dai
comuni capillari, non presentano membrana basale, ma vengono sostenute da fibre collagene, come le cellule
endoteliali dei sinusoidi epatici. Le cellule a doghe di botte sono separate le une dalle altre, l’endotelio
presenta discontinuità, che sono così ampie che premettono il passaggio dei globuli rossi.
Il risultato è che i globuli rossi che sono usciti dal capillare con guscio, una volta subito il processamento da
parte dei macrofagi, vengono spinti in tutte le direzioni, tra cui anche verso le discontinuità del capillare con
cellule a doghe di botte; di conseguenza i globuli rossi passano dall’esterno del capillare all’interno. Questo
capillare è corto, si unisce ad altri capillari per dare origine ad una vena, che va a finire in una vena più
grande, terminale, che prende la via della vena splenica.
Il combinato disposto della presenza di una doppia rete, reticolare e cellulare, in cui si trovano macrofagi e
del fatto che il sangue stravasa costituisce un sistema estremamente efficace affinché il maggior numero di
globuli rossi venga a contatto con il maggior numero di macrofagi.
Circolo chiuso della milza:
Questa descrizione riguarda il circolo aperto della milza, quello più rappresentato nella milza dell’uomo,
che riguarda circa l’80-90% della struttura della milza, definito così in quanto il sangue scorre in un capillare
che ad un certo punto si interrompe e rientra nel circolo sanguigno tramite un successivo capillare che è
sconnesso dal precedente.
Tuttavia in alcune zone della nostra milza, che riguarda il 10-20% della struttura della milza, in altri animali
invece preponderante, esiste un altro tipo di circolo, detto circolo chiuso. Questo tipo di organizzazione
rappresenta una variazione sul tema del precedente, in cui i capillari con guscio non sono beanti, ma si
continuano direttamente con il capillare con cellule a doghe di botte. In questo circolo, essendo sempre
presenti le ampie discontinuità dei capillari con cellule a doghe di botte, il sangue esce, i globuli rossi
vengono processati e quelli che sopravvivono rientrano dalle stesse discontinuità da cui sono usciti. Tuttavia,
diversamente dal circolo aperto, la fuoriuscita del sangue non avviene per interruzione dei capillari ma per la
presenza delle discontinuità.
Funzione immunitaria della milza:
La funzione principale della milza è quindi quella dell’eritrocateresi, eliminazione dei globuli rossi
invecchiati, ma questa non è l’unica funzione della milza. Essa infatti partecipa anche alla risposta immune:
in caso di alcune infezioni si ha una forte risposta della milza, in particolare della polpa bianca, i cui noduli
linfatici diventano luogo di attiva proliferazione di linfociti. Quindi la milza al bisogno può immettere nel
sangue linfociti, grazie alla presenza di noduli linfatici che presentano centro germinativo all’interno, quindi
ha la possibilità di far moltiplicare i linfociti.
Inoltre la milza rappresenta il luogo di maggior concentrazione di cellule presentanti l’antigene (APC). Nella
risposta immunitaria la prima linea è rappresentata dai neutrofili, che sono quindi le prime strutture ad
arrivare a livello del focolaio infiammatorio; in seguito arrivano i macrofagi, i quali hanno la funzione di
completare l’opera di pulizia cominciata dai neutrofili, cioè eliminare sostanze quali resti di cellule morte. A
differenza dei neutrofili, i macrofagi emettono citochine che hanno il compito di richiamare altri monociti dal
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sangue, per farli diventare macrofagi, e richiamare ed attivare i linfociti, che rappresentano l’ultima linea di
difesa, estremamente specializzata. I macrofagi hanno anche un’altra funzione, cioè quella di agire come
cellule presentanti l’antigene: in seguito alla fagocitosi, essi espongono molecole in superficie, che
rappresentano il segnale per il linfocita affinché esso riconosca quell’antigene e combatterlo.
Tuttavia nella milza i macrofagi si trovano nella polpa rossa, mentre i linfociti si trovano nella polpa bianca,
per questo dentro al corpuscolo splenico di Malpighi si trovano anche cellule dendritiche o cellule
presentanti l’antigene (APC). Si tratta di cellule che non hanno attività macrofagica, ma hanno il compito di
presentare l’antigene. Si trovano tutte all’interno dei corpuscoli splenici e, in seguito al passaggio di
macrofagi che presentano l’antigene, esse fanno proprio l’antigene e lo presentano ai linfociti che si trovano
dentro al corpuscolo di Malpighi.
La milza ha quindi anche un ruolo molto importante in tutte le infezioni, in particolare quelle batteriche.
Infatti molte malattie infettive si manifestano con splenomegalia, cioè ingrossamento della milza, a seguito
della proliferazione cellulare e dell’intenso afflusso di sangue.
Deposito di piastrine:
Da ultimo, la milza ha la capacità di sequestrare piastrine. Essa infatti presenta al suo interno un grande
numero di piastrine, che arrivano dal circolo sanguigno in quanto la loro capacità di rientrare nel circolo
sanguigno una volta fuoriuscite è minore di quella dei globuli rossi e dei globuli bianchi, con il risultato che
vi si concentrano. Le piastrine sono presenti nel sangue in numero di circa 200 mila/mL, valore importante
perché in alcune patologie la milza sequestra piastrine in maniera massiva, tanto che il soggetto sarà
piastrinopenico, cioè in difetto di piastrine.
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APPARATO URINARIO:
L’apparato urinario è localizzato nella cavità addomino-pelvica, in gran parte nell’addome, in minor parte
nella pelvi, soltanto nel maschio esso presenta un’appendice al di fuori delle grandi cavità corporee,
rappresentata dall’uretra la quale, a differenza di quella femminile, è contenuta in una delle radici del pene.
L’apparato urinario consta di una serie di organi, alcuni pari, altri impari: 2 reni, 2 ureteri, condotti che
collegano i 2 reni all’unico organo impari successivo, la vescica urinaria, la quale altro non è che un
serbatoio momentaneo di urina, in quanto essa non modifica l’urina, così come gli ureteri.
L’unico organo in grado di modificare il precursore dell’urina è il rene: una volta che l’urina abbandona il
rene per entrare nell’uretere e da questo nella la vescica, essa è definitiva e immodificabile. La vescica
urinaria consente un’autonomia di qualche ora, che a sua volta permette all’uomo una vita di relazione;
infatti senza la vescica urinaria la vita di relazione sarebbe molto limitata. Tuttavia, benché la capacità della
vescica di contenere urina è molto elevata, arrivando a contenere anche 2-3 L di urina, allorché questa si
riempie oltre un certo valore soglia, tramite sensori presenti a livello della sua parete interna, essa genera lo
stimolo ad urinare, informazione che raggiunge la corteccia cerebrale.
Urinare significa svuotare la vescica urinaria. In uscita da questa, nel maschio come nella femmina, è
presente un condotto impari e mediano che prende il nome di ùretra; nella femmina è particolarmente corta e
si interrompe relativamente presto, nel maschio è più lunga e si continua inizialmente in una porzione fissa
del pene, una delle 3 radici del pene, quella impari e mediana, per poi proseguire nella porzione mobile del
pene. Una delle differenze sostanziali tra maschio e femmina è che nel maschio l’uretra, oltre ad essere più
lunga, per la sua parte iniziale è circondata da un organo sessuale maschile, la prostata.
Il maschio è molto più protetto della donna per quanto attiene a infezioni retrograde: nella femmina l’uretra è
molto più corta e comunica direttamente con l’esterno attraverso l’orifizio uretrale esterno, il quale si apre
nel vestibolo vaginale; il vestibolo vaginale, a sua volta, è a contatto diretto con l’esterno e anche molto
vicino all’apertura anale, di conseguenza la probabilità statistica di infezione retrograda, e quindi per
esempio di cistite (infiammazione della vescica urinaria sostenuta nella maggioranza dei casi da infezione
batterica) è molto più elevata nella femmina che non nel maschio. Nel maschio, infatti, l’orifizio uretrale
esterno è molto lontano dall’orifizio anale; in più in genere il maschio non utilizza strumenti sanitari, come
pannolini, cosa che aumenta la probabilità di infezione.
Inoltre la presenza della prostata nel maschio fa sì che l’incontinenza urinaria nel maschio sia un evento poco
frequente, a differenza di quanto accade nella femmina, in particolare in età avanzata. Se la femmina ha
partorito diverse volte la tendenza all’incontinenza urinaria aumenta, perché ogni parto trans-vaginale
rappresenta una forma di trauma.
Reni:
I reni sono 2, sono organi pari, e ciascuno di esso è localizzato nella parte alta della cavità addominale,
quindi si tratta di organi addominali a tutti gli effetti, in posizione retroperitoneale, addossati alla parete
posteriore della cavità addominale. Il rene si trova in posizione relativamente alta, tanto che proietta a livello
delle ultime 2 coste. Questo potrebbe trarre in inganno, inducendo a pensare che i reni si trovino nella cavità
toracica, ma questo non è vero, in quanto il diaframma presenta concavità verso il basso.
Ciascun rene ha la forma di un fagiolo, lungo circa 13 cm, largo circa 6 cm e spesso circa 3 cm. La
morfologia e le dimensioni del rene sono molto utili ai fini diagnostici, in quanto esistono patologie in cui il
rene cambia forma e dimensioni, rilevabili anche tramite una semplice ecografia.
Il rene ha colorito roseo intenso tendente al rosso, che significa che si tratta di un organo particolarmente
vascolarizzato, ed ha consistenza relativamente dura, come quella della milza e anche un po’ più, a causa
della presenza di una capsula fibrosa, della presenza di connettivo, del fatto che gli elementi vascolari sono
numerosissimi e del fatto che gli elementi cellulari sono impacchettati tra loro.
Nel rene si distinguono un polo superiore e un polo inferiore, una faccia anteriore e una faccia posteriore e 2
margini, un margine mediale e uno laterale, molto arrotondati. Inoltre, in quanto a forma di fagiolo, un
margine, quello laterale, è convesso, e l’altro, quello mediale, presenta un’alternanza di convessità e
concavità, in particolare nel 1/3 intermedio è concavo, mentre a livello del 1/3 superiore e del 1/3 inferiore è
convesso.
I reni si trovano allocati al confine tra l’ultimo tratto della colonna toracica e il primo tratto della colonna
lombare, quindi sono molto alti e proiettano anteriormente all’altezza della regione epigastrica,
posteriormente tra T11 e L3 (pur essendo addominali proiettano a T11 e T12, in quanto il diaframma presenta
concavità verso il basso).
Il rene di sinistra è localizzato leggermente più in alto di quello di destra, di circa 1/2-1 corpo vertebrale,
circa 2 cm: se si traccia una linea orizzontale parallela al piano terra appoggiata al polo inferiore del rene di
destra, questa non tocca il polo inferiore del rene di sinistra. Questa asimmetria destra sinistra è dovuta al
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fatto che a destra il rene superiormente ha a che fare con un organo enorme, il fegato, che lo spinge verso il
basso; a sinistra è presente un organo grande, ma è cavo, lo stomaco, e un organo pieno, ma è piccolo, la
milza, dunque il rene ha un po’ più di spazio verso l’alto. Questo determina che, oltre che anteriormente pre
la presenza di organi impari non disposti lungo la linea di mezzo, neanche posteriormente i rapporti dei reni
sono perfettamente simmetrici.
I reni sono gli organi più dorsali. Nel torace, a livello della parete posteriore, a causa della presenza delle
coste, in particolare testa, collo e angolo costale, è presente la doccia paravertebrale, a destra e a sinistra,
destinata ad accogliere il margine posteriore del polmone che, infatti, è arrotondato. Un’analoga doccia
paravertebrale, a destra e a sinistra, è presente anche in regione lombare, formata da un piano muscolare, ma
nello scheletro non è visibile, a causa dell’assenza di coste; tuttavia il tessuto molle che compone la parete
addominale si dispone a formare una una struttura che non è piatta, ma convessa verso il dietro.
Considerando in più che a questo livello è presente lordosi, si viene a formare una vera e propria doccia, che
rappresenta la continuazione ideale della doccia paravertebrale toracica, destinata ad accogliere ciascun rene.
Il risultato di ciò è che se si appoggia un piano frontale su L1, esso passa anteriormente ai 2 reni: i reni si
trovano posteriormente al piano frontale appoggiato ad L1. Questo dà ancora di più la misura di quanto i reni
siano dorsali.
Inoltre, a causa di quanto descritto finora, cioè che i reni si trovano nella doccia paravertebrale a ridosso
della colonna vertebrale, quella che è stata definita faccia anteriore del rene tecnicamente è anterolaterale,
mentre quella che è stata chiamata faccia posteriore è posteromediale, a causa del fatto che l’asse trasverso
del rene si incontra con quello del rene controlaterale in un punto anteriore rispetto al piano frontale passante
per L1.
L’asse maggiore del rene non è perpendicolare al piano terra, ma i 2 assi maggiori, “verticali”, si incontrano
in un punto sopra la testa, cioè sono inclinati in basso e lateralmente o in alto e medialmente.
Essendo il rene un organo molto dorsale, in particolare l’organo più dorsale dell’addome, posteriormente ad
esso c’è soltanto parete, mentre anteriormente è in rapporto con numerosi organi.
I reni sono gli organi più a ridosso della colonna vertebrale, che risulta quindi affiancata dai 2 reni. Quando
si dice però che i reni sono ai lati della colonna vertebrale non si intende dire che i reni sono incollati ad essa:
tra i reni e la colonna vertebrale toracolombare è presente un piano muscolare costituito essenzialmente da
un muscolo, uno a destra e uno a sinistra, che prende il nome di muscolo grande psoas: questo muscolo
separa la colonna vertebrale, a destra e a sinistra, dal rene.
RAPPORTI DEI RENI:
Mentre posteriormente i rapporti del rene sono pressoché simmetrici, quasi speculari, quelli anteriori non lo
sono, in quanto davanti ai reni sono presenti molti organi impari i quali non si dispongono tutti lungo la linea
di mezzo, quindi i rapporti anteriori del rene di destra sono diversi da quelli del rene di sinistra.
Innanzitutto le 2 arterie renali non sono simmetriche, perché esse originano dall’aorta, che non è lungo lianea
di mezzo, ma spostata leggermente a sinistra, quindi l’arteria renale di sinistra è più corta di quella di destra;
inoltre, siccome il rene di destra si trova in una posizione leggermente inferiore a quello di sinistra, l’arteria
renale di destra oltre che più lunga è anche più obliqua di quella di sinistra.
Il discorso contrario vale per le vene renali, le quali devono andare a finire nella vena cava inferiore che è
spostata a destra della linea di mezzo, quindi la vena renale di destra è più corta di quella di destra.
Inoltre l’arteria renale di destra, per arrivare al rene passa dietro la vena cava inferiore, mentre la vena renale
di sinistra, per raggiungere la cava inferiore, oltre a percorrere un tragitto più lungo, deve passare al davanti
dell’aorta nell’angolo aorto-mesenterico.
Rapporti anteriori - sopramesocolici:
Destra:
Anteriormente al rene di destra è presente il fegato, in particolare la faccia viscerale del lobo destro, tanto
che a livello di questa è presente l’impronta renale: gran parte della faccia anteriore del rene di destra è
coperta dal fegato.
Una piccola parte della faccia anteriore del rene di destra, prossima al margine mediale, in cui il rene di
destra è coperto dal duodeno discendente, il quale si trova tra il rene e la vena cava inferiore.
Inoltre il margine mediale del rene di destra è in rapporto con la vena cava inferiore.
Inoltre, proprio perché il rene arriva a circa L3 e proprio perché l’asse maggiore è orientato verso il basso e
verso destra, la faccia anteriore del polo inferiore del rene di destra è coperta dalla flessura colica di destra.
Infatti a livello del fegato la faccia viscerale del lobo di destra presenta 3 impronte in sequenza, dall’alto in
basso e dal dietro in avanti si individua l’impronta surrenale, l’impronta renale e l’impronta colica, quindi le
impronte renale e colica sono confinanti, che significa che è presente un rapporto tra rene e flessura colica di
destra.
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Sinistra:
A sinistra sono presenti molti più organi che prendono rapporto con il rene di sinistra. Tra questi c’è quello
con corpo e coda del pancreas, ma siccome il pancreas è disposto quasi trasversalmente e il rene è disposto
quasi verticalmente, questo rapporto non è ampio, in particolare la parte del rene coperta da corpo e coda del
pancreas è quella al confine tra il 1/3 medio e il 1/3 superiore; verso l’alto, laddove il rene di sinistra non è
incrociato da corpo e coda del pancreas, il rene prende rapporto con la faccia posteriore dello stomaco, in
particolare con la parte alta del corpo dello stomaco; il margine laterale del rene di sinistra, che è arrotondato,
e in parte anche con la faccia anteriore, nella sua porzione più esterna, prende rapporto con la milza, che si
incastra tra stomaco e rene di sinistra, ma riguarda soltanto la metà superiore del rene. Questo per quanto
riguarda la parte superiore del rene di sinistra.
Rapporti anteriori - sottomesocolici:
I reni sono entrambi retroperitoneali, cioè sono allocati dietro al peritoneo parietale, che si trova nell’addome
e nella pelvi; il peritoneo parietale che ricopre i reni dal davanti è quello che tappezza la parete posteriore
della cavità addomino-pelvica. Gli organi peritoneali della cavità addomino-pelvica possono essere asportati
tagliando vari legamenti, i mesi; ad esempio se si vuole asportare il colon trasverso è necessario tagliare il
mesocolon trasverso, cosa che permette di vedere la radice del mesocolon trasverso, obliqua, orientata
dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra, i cui 2 capi sono localizzati uno sopra il terzo medio del
rene di sinistra e l’altro sotto il terzo medio del rene di destra. Ciò significa che c’è una parte di entrambi i
reni che si trova in regione sopramesocolica e una parte di entrambi i reni che si trova in posizione
sottomesocolica.
Definito ciò, i rapporti della faccia anteriore del rene di destra e di sinistra prima citati sono relativi alla sua
porzione sopramesocolica.
Destra:
La porzione sottomesocolica, a destra, prende rapporto in parte con la flessura colica di destra e soprattutto
con le anse digiunali, che infatti si pongono al di sotto del mesocolon trasverso.
Sinistra:
A sinistra più della metà inferiore della faccia anteriore del rene è in rapporto con strutture sottomesocoliche,
che sono la flessura duodeno-digiunale, che si colloca, soprattutto con la parte digiunale, al davanti della
pelvi renale di sinistra, le prime anse digiunali e la flessura colica di sinistra che, trovando più spazio che a
destra, si inerpica verso l’alto, fino quasi a circondare il polo inferiore del rene di sinistra.
Rapporti posteriori:
La distanza tra il margine mediale del rene e la colonna vertebrale è di qualche cm a destra e a sinistra,
distanza occupata da 1/2 corpo vertebrale e dal muscolo grande psoas.
Posteriormente il rene di sinistra proietta per circa il 40% sulla parete toracica tramite l’interposizione del
diaframma, mentre per circa il 60%, la parte inferiore, non è protetto da ossa ma è a contatto con parete
molle; a destra essenzialmente avviene la stessa cosa, perché la differenza è di circa un paio di cm. Ciò
avviene perché, a causa della concavità del diaframma, una parte del rene proietta sulla parete del torace, pur
essendo un organo addominale. Ovviamente, siccome la 12° costa ha un andamento obliquo verso il basso e
lateralmente, questa divisione non avviene secondo un piano trasverso, ma secondo un piano che passa per la
12° costa, a sinistra come a destra. Questo determina tutta una serie di conseguenze nell’ambito pratico. Una
di queste è che la parte superiore del rene risulta impossibile da palpare, perché è coperta da una parete fatta
di tessuto duro; al massimo è possibile palpare il 60% inferiore, in quanto è coperto soltanto da tessuti molli,
ma anche in questo caso la palpazione normalmente non avviene, se non in casi di ipertrofia del rene.
Un’altra è che nella maggior parte dei casi in cui bisogna intervenire chirurgicamente sul rene, l’accesso è
posteriore. Se la porzione di rene di interesse è inferiore, l’operatore deve oltrepassare soltanto tessuto molle,
mentre se la porzione di interesse è superiore, il lavoro è più complicato e l’operatore deve tener conto che ci
sono 2 spazi intercostali, che non si perforare casualmente uno spazio intercostale, a causa della presenza del
seno costo-pleurico, sebbene non necessariamente il polmone, e a seguire anche il muscolo diaframma (ma
questo non sarebbe un grande problema). Per evitare ciò, l’operatore si muove dal basso verso l’alto,
infilando l’ago sotto la 12° costa, in quanto a quel livello non ci sono né importanti strutture vascolari né
visceri.
La parete molle dell’addome, che copre il rene, è formata da diversi muscoli, oltre che ad cute e sottocute.
Tra la cresta iliaca e la 12° costa è presente un piano muscolare, sotto al sottocute, costituito dal muscolo
grande dorsale, un muscolo grossolanamente a forma di triangolo rettangolo la cui ipotenusa guarda
lateralmente, il cateto minore in prossimità della spina della scapola e il cateto maggiore lungo la colonna
vertebrale, a destra e a sinistra. Si tratta di un muscolo che contribuisce all’estensione e un po’ anche
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all’abduzione dell’arto superiore. Esso fa parte della parete e copre quasi la metà inferiore il rene, ma non vi
è a contatto diretto, in quanto tra muscolo grande dorsale e rene si frappone un altro muscolo, il muscolo
quadrato dei lombi, che va dalla 12° costa al 1/2 mediale della cresta iliaca e può funzionare sia durante
l’inspirazione profonda, in quanto contraendosi fissa la 12° costa verso il basso fissandola e favorendo
l’azione del diaframma, sia durante l’espirazione forzata, in quanto dal suo margine laterale si diparte la
fascia di un altro muscolo, il muscolo trasverso dell’addome, che tramite la sua contrazione contribuisce
all’aumento di pressione intraddominale, ma soprattutto fa parte della parete. Una parte del rene lateralmente
deborda dal muscolo quadrato dei lombi, ma essa è coperta dal muscolo trasverso dell’addome, che si
diparte dal margine laterale del muscolo quadrato dei lombi e che completa posteriormente, lateralmente a
anteriormente la parete dell’addome, disegnando il fianco.
Il risultato è che laddove il rene non è coperto né dal muscolo grande dorsale né dal muscolo quadrato dei
lombi, esso è coperto dal muscolo traverso dell’addome e soltanto da questo, a destra come a sinistra.
Esternamente (cioè al davanti) al muscolo trasverso dell’addome è presente un altro muscolo, piccolo, il
muscolo obliquo interno.
Tra queste strutture è possibile individuare un triangolo formato in alto dalla 12° costa, medialmente dal
margine laterale del muscolo quadrato dei lombi e lateralmente dal margine libero del muscolo obliquo
interno, che rappresenta il luogo di elezione per accedere al rene durante un intervento chirurgico, che
consente di tagliare meno muscoli possibile.
Il punto importante è che circa la metà inferiore del rene proietta su parete molle, quindi è aggredibile
chirurgicamente al di sotto dell’ultima costa.
Rapporti superiori:
Ciascun rene, a destra e a sinistra, è sormontato dalla ghiandola surrenale o surrene, ghiandola endocrina
(in realtà 2 in una), di forma piramidale con apice superiore e base concava perché si adatta alla convessità
del polo superiore del rene; si chiama surrene perché si trova letteralmente sopra il rene. La ghiandola
surrenale di destra prende un rapporto anteriore e mediale con la vena cava inferiore, mentre la ghiandola
surrenale di sinistra prende rapporto mediale con l’aorta addominale. Le 2 ghiandole surrenali non sono
perfettamente simmetriche, neanche nella morfologia, a causa del fatto che il rene di sinistra è leggermente
più craniale di quello di destra e questo comporta una sorta di scivolamento del surrene di sinistra sul lato
mediale del rene. Le ghiandole surrenali sono vitali, senza di esse non si può vivere.
Tramite l’interposizione del muscolo diaframma, il rene e il surrene sono in rapporto con le basi dei polmoni,
di destra e di sinistra.
Loggia renale:
I reni non hanno rapporti anteriori e posteriori diretti con gli organi, poiché i reni sono allocati in uno spazio
ben delimitato chiamato loggia renale. Si parla di loggia renale al singolare, benché essa avvolge entrambi i
reni. La loggia renale è delimitata da una fascia connettivale, la fascia renale, cioè una lamina connettivale,
presente tipicamente o intorno a muscoli o a coprire parete o, talvolta, ad avvolgere visceri. La fascia renale è
una derivazione del tessuto connettivo retroperitoneale, che si ispessisce e dà origine ad una sottile lamina,
formata da un foglietto anteriore e un foglietto posteriore. Gli organi che sono soltanto coperti dal davanti da
peritoneo, e non avvolti, vengono definiti organi retroperitoneali. Gli organi retroperitoneali risultano
immersi in un tessuto connettivo retroperitoneale, che prende il nome di retroperitoneo, particolarmente
abbondante nella parte dorsale e nella parte inferiore della cavità addomino-pelvica. Si tratta di tessuto di
supporto, in gran parte tessuto connettivale, in parte tessuto adiposo. Laddove si trovano i reni, parte di
questo tessuto retroperitoneale si specializza a formare una fascia, un involucro, la fascia renale. Essa è
composta da 2 foglietti, uno anteriore, la fascia di Gerota, e uno posteriore, la fascia di Zuckerkandl,
entrambi di derivazione del retroperitoneo. I 2 foglietti della fascia renale, a livello del margine laterale di
ciascun rene si fondono, diventano tutt’uno, formando un unico foglietto, il quale si continua con la fascia
del muscolo trasverso dell’addome. A livello del margine mediale invece i 2 foglietti rimangono separati, in
particolare il foglietto posteriore si inserisce e diventa tutt’uno con la fascia muscolare del muscolo grande
psoas, il quale che si trova a ridosso della colonna vertebrale (motivo per cui i 2 reni sono si trovano proprio
a ridosso della colonna vertebrale), mentre il foglietto anteriore di destra attraversa la linea di mezzo senza
interrompersi e si unisce a quello di sinistra e viceversa. Questa organizzazione, vista dall’alto, ricorda la
montatura degli occhiali, dove le lenti sono le sezioni trasverse dei reni, il foglietto anteriore è la parte
superiore della montatura e il foglietto posteriore la parte inferiore. Lo spazio delimitato dalla fascia renale,
composta quindi da una metà destra e una metà sinistra, cioè la loggia renale, non contiene soltanto i reni.
Intanto, al di sopra di ciascun rene, appoggiati al polo superiore di ciascun rene si trova, a destra e a sinistra,
a inoltre il foglietto anteriore, nel passare da destra a sinistra o viceversa, copre i grossi vasi della regione,
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una ghiandola endocrina vitale, la ghiandola surrenale o surrene. Le 2 ghiandole surreale si trovano
anch’esse nella loggia renale, quindi sono anch’esse avvolte dalla fascia renale.
Inoltre all’altezza di circa T12-L1, tra il foglietto anteriore della loggia la colonna vertebrale, a sinistra della
linea di mezzo è presente l’aorta e a destra della linea di mezzo la vena cava inferiore. Quindi la loggia
renale contiene anche un tratto di aorta addominale e un tratto di cava, a cui si aggiungono alcuni vasi diretti
al rene, come l’arteria e la vena renale di destra e di sinistra, l’origine dell’arteria mesenterica superiore, i
linfonodi, il plesso nervoso mesenterico superiore e l’origine dei vasi genitali, arteria e vena genitale
superiore o testicolare, nel maschio, e arteria e vena ovarica, nella femmina.
Tuttavia neanche la fascia renale aderisce direttamente alla superficie di ciascun rene, ma vi è separata,
perché tra la fascia renale e il rene si frappone tessuto adiposo che prende il nome di corpo adiposo del rene
o tessuto adiposo perirenale. Il corpo adiposo di un rene è un tutt’uno con il corpo adiposo dell’altro rene,
perché questo va a riempire tutti gli spazi che altrimenti sarebbero vuoti, così da creare una riserva energetica
e allo stesso tempo sostenere meccanicamente i reni. Per questo motivo le 2 metà della loggia renale, di
destra e di sinistra, non comunicano tra loro. Questo è importante nella clinica perché in caso di ascesso
renale, cioè un accumulo di pus per morte di neutrofili in un rene, che in quanto tale è destinato ad aprirsi,
non passerà mai da una parte all’altra della loggia renale, proprio perché c’è un ostacolo costituito dai 2
grossi vasi e dal tessuto adiposo. Di conseguenza, se un paziente presenta un ascesso in una parte e un’altra
patologia dalla parte controlaterale della loggia renale, bisogna dedurre che questi ha 2 problemi, non uno
che è passato da una parte all’altra.
Oltre al grasso perirenale, direttamente a contatto con la capsula che avvolge il rene, in quanto si trova dentro
la loggia renale, è presente tessuto adiposo anche all’esterno della loggia renale, che prende il nome di
grasso pararenale. Il grasso pararenale è tessuto retroperitoneale, fa parte cioè del retroperitoneo, il quale è
fisso, dunque anche il grasso pararenale risulta fisso; ma siccome al grasso pararenale si incolla la fascia
renale, alla quale si incolla a sua volta il grasso perirenale, che è incollato alla capsula del rene, il rene
diventa solidale, a destra e a sinistra, con il retroperitoneo, quindi è fisso. Il tessuto adiposo del rene
rappresenta quindi uno dei mezzi di fissità che mantiene il rene nella sua posizione.
Esiste poi un altro mezzo di fissità, rappresentato dai vasi renali, in particolare l’arteria renale. Essa nasce
dall’aorta, che è fissa, ed è a parete elastica, ma l’elasticità si esercita soltanto in senso trasversale, non in
senso longitudinale, quindi più di tanto non può essere stirata, cosa che limita lo scivolamento del rene e lo
rende fisso.
Andando verso l’alto i 2 foglietti della fascia renale avvolgono completamente i 2 surreni, di destra e di
sinistra. In più poco prima di avvolgere i surreni, andando verso l’alto, questi 2 foglietti si scambiano un
setto connettivale, che va a separare ciascuna metà della loggia renale in una parte inferiore, molto maggiore,
in cui si alloca il rene, e una parte superiore, più piccola, che accoglie la ghiandola surrenale. Quindi,
sebbene ciascun surrene sia seduto sul polo superiore del rene, esso non vi è a diretto contatto.
Una volta ricoperto il surrene i 2 foglietti della loggia renale proseguono verso l’alto e si fondono tra loro,
prima di fondersi a loro volta alla fascia muscolare che copre la faccia addominale, concava, del diaframma,
sigillandosi verso l’alto e rappresentando un ulteriore mezzo di fissità per il rene.
Mentre normalmente verso l’alto i 2 foglietti si uniscono e si fondono, verso il basso i 2 foglietti si
comportano con estrema variabilità a seconda dei soggetti, cioè possono incollarsi l’uno all’altro, ma
possono anche rimanere separati. Questo è molto importante perché nei soggetti in cui i 2 foglietti sono
separati è come se mancasse l’appoggio del rene verso il basso, cosa che aumenta la probabilità statistica che
in determinate circostanze il rene scivoli verso il basso qualche centimetro, determinando un fenomeno che
prende il nome di ptosi renale. La ptosi renale avviene in alcune particolari circostanze, come ad esempio la
caduta in piedi da una certa altezza oppure, più frequentemente, in un altro caso: il rene è avvolto da un
corpo adiposo, anch'esso contenuto nella loggia renale, che aumenta o diminuisce con l’ingrassare e il
dimagrire del proprietario; questo tessuto, oltre che funzione energetica, ha anche funzione di sostegno e, in
soggetti che diminuiscono in un lasso di tempo relativamente breve, c’è il rischio che il tessuto perirenale
abbia meno aderenza, quindi offra meno sostegno, con la possibile conseguente discesa di uno dei 2 reni. In
ogni caso il rene interessato non va a finire nella fossa iliaca o nella pelvi, in quanto comunque ci sono i vasi
renali che lo trattengono verso l’alto, ma può scivolare di circa 2-3 cm, circa un corpo vertebrale.
Ovviamente ciò avviene soltanto nel caso in cui il soggetto presenti una loggia renale i cui foglietti non
risultino uniti posteriormente.
Il 1/3 intermedio del margine mediale del rene è concavo, mentre gli altri sono convessi, e presenta uno
scavo, un’insenatura, che prende il nome di seno renale, a livello del quale si trova l’ilo renale. Questo è
composto da arteria renale, vena renale, vasi linfatici e bacinetto renale o pelvi renale, la struttura
immediatamente precedente all’uretere, destinata ad accogliere l’urina definitiva prodotta dal rene, la quale
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poi scivola per gravità, e soltanto per gravità, verso l’uretere. Dall’uretere alla vescica, invece, l’urina si
sposta attraverso onde peristaltiche che percorrono l’uretere.
Il passaggio tra la pelvi renale e l’uretere è marcato da un piccolo restringimento naturale, che segna la fine
della pelvi e l’inizio dell’uretere, che prende il nome di giunzione pielo-ureterale, anche detto giunto pieloureterale (“pielo” è l’aggettivo di “pelvi”). In particolare questo restringimento segna all’interno dell’uretere
l’inizio della presenza di una tonaca muscolare, assente a livello della pelvi.
Anche l’uretere è un organo retroperitoneale ed è immerso nel tessuto retroperitoneale, fatto di connettivo e
di tessuto adiposo, che lo rende immobile. Di conseguenza nel caso di ptosi renale, in cui il rene scivola di
qualche cm, l’uretere, che invece rimane fisso, va incontro ad inginocchiamento (espressione tecnica), che
avviene a livello del giunto pielo-ureterale. Questo fenomeno, insieme al fatto che fisiologicamente a quel
livello è presente un restringimento, comporta che l’urina abbia difficoltà a progredire dal bacinetto renale
all’uretere, quindi tende ad accumularsi nella pelvi renale, che a sua volta tende a dilatarsi per accogliere
l’urina, e quindi a ristagnare nel rene, col risultato di un progressivo aumento della pressione a monte della
pelvi e conseguenze a livello della funzione renale, si parla di nefròsi, che si accompagna a disfunzione
renale. Inoltre, dato che quando l’urina ristagna i sali che essa contiene vanno in soprassaturazione dei soluti,
si ha una precipitazione di sali, che dà origine a piccole formazioni chiamate calcoli renali. Questi
tenderebbero ad essere sospinti verso l’uretere, tuttavia l’uretere già è stretto a causa della presenza del
giunto pielo-ureterale, in più il calibro si restringe in seguito al suo inginocchiamento, quindi l’uretere ha
difficoltà a far progredire l’urina che arriva dalla pelvi renale. Inoltre, siccome ogni volta che in un viscere
cavo dotato di parete muscolare liscia aumenta la resistenza al tragitto, se l’inginocchiamento dell’uretere
avviene inferiormente al giunto pielo-ureterale, la muscolatura, in via riflessa, aumenta la sua contrazione per
superare l’ostacolo. Siccome l’eccessiva contrazione provoca l’insorgenza di dolore, si determina il
fenomeno impropriamente chiamato colica renale, propriamente denominato colica ureterale (così come non
esiste la colica epatica, in quanto il fegato non è un viscere cavo, ma esiste la colica biliare).
Di conseguenza il problema del grasso perirenale riguarda la possibilità che i 2 foglietti della fascia renale
siano più o meno beanti verso il basso, caso che determina la possibilità che si verifichi ptosi renale, che in
sé non è un problema, ma determina l’inginocchiamento dell’uretere, con conseguente insorgenza di colica
ureterale.
Grazie all’organizzazione anatomica della fascia renale, nella ptosi renale, tuttavia, il surrene non viene
coinvolto nello scivolamento: esso non è solidale con il rene a causa della presenza del setto che unisce su un
piano trasverso il foglietto anteriore e il foglietto posteriore della fascia renale.
Via urinaria intra-renale:
Nel rene a livello del 1/3 intermedio è presente un’insenatura, il seno renale, a livello del quale si trova la
pelvi renale (o bacinetto renale). Si tratta di una formazione cava praticamente piatta in senso
anteroposteriore, che ricorda molto un giglio, di cui l’uretere è il gambo e i calici maggiori rappresentano i
petali: all’estremo mediale e caudale della pelvi renale si trova l’origine dell’uretere, all’estremo opposto la
pelvi renale è ramificata in un certo numero, mezza dozzina circa, di cosiddetti calici maggiori: un po’ come
il metacarpo si ramifica in 5 dita, la pelvi renale si ramifica in circa mezza dozzina di calici maggiori.
I calici maggiori sono una specie di cilindretti cavi, i quali a loro volta si ramificano in un certo numero di
calici minori, 2-3 ciascuno, in numero complessivo variabile da 12 a 18.
L’insieme dei calici minori, che convergono a formare i calici maggiori, che convergono a formare la pelvi
renale, sono nascosti alla vista, quindi rappresentano la parte intra-renale della via urinaria (analogamente
alla via biliare intraepatica). Il liquido che queste strutture contengono è urina definitiva, col quale termine si
intende che da questo punto in avanti non è più modificabile dal punto di vista chimico-fisico, nel senso che
la concentrazione dell’urina, che si intende dovuta alla presenza di metaboliti e sali, rimane immutata dal
calice minore fino all’uretra.
L’estremo libero di ciascun calice minore pesca in una struttura chiamata piramide renale di Malpighi. Si
tratta di una formazione che, a discapito del nome, ha forma di un cono appiattito, che in sezione appare
triangolare, con un apice arrotondato che pesca dentro all’estremità libera di un calice minore. Ciascun calice
minore riceve una sola piramide di Malpighi, ne consegue che esiste un numero di piramidi di Malpighi pari
al numero di calici minori. L’apice arrotondato della piramide del Malpighi prende il nome di papilla renale.
L’insieme delle piramidi di Malpighi rappresenta la parte di rene più vicina all’apparato escretore, cioè ai
calici minori, e ciascuna di esse è circondata in maniera incompleta da un’altra formazione renale. Per
comodità l’insieme delle piramidi di Malpighi costituisce la sostanza midollare del rene, mentre la sostanza
renale che si trova all’esterno di ciascuna piramide di Malpighi e che all’estrema periferia è continua è detta
sostanza corticale del rene. La sostanza midollare appare più chiara, in quanto meno vascolarizzata, mentre
la corticale appare più scura in quanto più vascolarizzata. Si può dire che ciascuna piramide di Malpighi è
circondata da sostanza corticale, la quale si dispone a “C” intorno ad essa, un po’ come la “C” duodenale si
dispone attorno alla testa del pancreas, quindi in maniera incompleta: l’apice della piramide non è circondato
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da sostanza corticale, né potrebbe esserlo, altrimenti si vanificherebbe la funzione renale, in quanto l’apice
della piramide pesca nel calice minore.
L’insieme di una piramide di Malpighi più la corticale che la circonda prende il nome di lobo renale,
ciascuno dei quali condivide la sostanza corticale con il lobo che gli sta accanto. La porzione di sostanza
corticale compresa tra una piramide e l’altra prende il nome di colonna di Bertin.
Anatomia funzionale del rene:
Per comprendere a fondo l’anatomia funzionale del rene, quindi la struttura sottostante, è necessario seguire
l’irrorazione del rene, cioè i suoi vasi arteriosi. Infatti, essendo il rene l’organo deputato di liberare il corpo
umano dell’eccesso di acqua, di ioni e di tutti i catabolismi idrosolubili, è ovvio che debba arrivare sangue al
rene e che questo debba essere in qualche modo filtrato, affinché tale eccesso venga eliminato.
I 2 reni ricevono il 20% della gittata cardiaca. Per gittata cardiaca si intende la quantità di sangue pompata
dal cuore nell’unità di tempo, con riferimento, nel caso del rene, al ventricolo di sinistra. Per calcolare la
gittata cardiaca è quindi necessario conoscere il volume di sangue immesso dal ventricolo sinistro per ogni
sistole, che in condizioni di riposo è circa 65 mL, e moltiplicarlo per il numero di contrazioni del cuore al
minuto. Il 20% di 65 mL è 13 mL, i reni sono 2, quindi dei 65 mL di sangue che fuoriescono dal ventricolo
sinistro ad ogni pulsazione, 6,5 mL raggiungono il rene di sinistra e 6,5 raggiungono il rene di destra.
Siccome i battiti al minuto sono circa 70, in ogni minuto mediamente circa 1 L di sangue viene pompato
verso i reni, 500 mL a sinistra, 500 mL a destra, quindi nelle 24 ore vengono pompati verso i reni
complessivamente tra i 1400 e i 1500 L di sangue.
Di questa notevole quantità di sangue passata attraverso i reni nelle 24 ore, si ha traccia nell’urina eliminata,
che nelle 24 ore corrisponde ad un valore compreso tra 1 e 1,5 L. L’incertezza di questo valore è dovuta al
fatto che la quantità di urina prodotta dipende da molti fattori: idratazione, cioè quanti litri di acqua vengono
introdotti con la dieta; temperatura ambiente, in quanto a temperature più elevate si ha sudorazione, allo
scopo di abbassare la temperatura corporea, cosa che comporta perdita di acqua, quindi diminuzione
dell’urina prodotta; attività fisica, che anch’essa comporta sudorazione. Questo è il motivo per cui la quantità
di urina prodotta nella giornata è molto variabile, in base alle circostanze. Ad ogni modo, sicuramente 1,5 L
di urina rappresentano una percentuale irrisoria rispetto alla quantità di sangue che nelle 24 ore passano per i
reni.
Vascolarizzazione macroscopica del rene:
Come già detto, per comprendere la struttura microscopica del rene è necessario seguire il sangue, in quanto
l’urina, come tutti i liquidi organici, è ex plasma.
I reni ricevono le arterie renali, che emergono dall’aorta addominale all’altezza di circa L1-L2, una a destra e
una a sinistra, ciascuna delle quali raggiunge il rene di pertinenza. Esse presentano elementi di asimmetria:
- l’arteria renale di destra in genere è più lunga di quella di sinistra, perché l’aorta si trova leggermente a
sinistra;
- l’arteria renale di destra è leggermente più inclinata di quella di sinistra rispetto al piano terra, in quanto il
rene di destra si trova leggermente più in basso di quello di sinistra;
- l’arteria renale di destra per raggiungere il rene passa dietro alla vena cava inferiore.
Anche i vasi in uscita dal rene, la vene renali, presentano elementi di asimmetria:
- la vena renale di sinistra è più lunga di quella di destra, perché la vena cava si trova leggermente a destra;
- la vena renale di sinistra, per andare a sfociare nella cava inferiore, passa attraverso l’angolo aortomesenterico, cosa che non fa la vena renale di destra;
- la vena renale di sinistra riceve la vena genitale di sinistra, mentre la vena genitale di destra sfocia
direttamente nella cava inferiore.
Ciascuna arteria renale, prima di entrare dentro al seno renale, si divide in una serie di rami, che prendono il
nome di arterie segmentali, in numero in genere fisso di 5 (come il numero delle dita). Ciascuna arteria
segmentale, che nasce prima che l’arteria entri nel seno renale, ha un proprio territorio di distribuzione,
quindi è un’arteria anatomicamente, quindi funzionalmente, terminale: se si chiude un’arteria segmentale si
ha infarto di un certo segmento del rene, di competenza di quell’arteria. Di queste 5 arterie segmentali, 4
passano al davanti del bacinetto renale e una soltanto passa dietro ad esso.
La faccia anteriore del rene infatti è suddivisibile in 4 segmenti, irrorato ciascuno da una delle 4 arterie
segmentali che passano anteriormente al bacinetto renale, mentre l’arteria segmentale posteriore ha un
territorio di distribuzione più ampio, presente a livello della faccia posteriore del rene. Le 2 arterie che
irrorano la regione dei poli irrorano sia la loro faccia anteriore sia la loro faccia posteriore. Questa
organizzazione nasce dal fatto che il rene umano presenta una marcata asimmetria anteroposteriore, cioè c’è
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più parenchima sulla faccia anteriore che sulla faccia posteriore, di conseguenza la faccia posteriore è
irrorata un solo vaso, mentre quella anteriore da 4.
Ogni arteria segmentale, passando davanti o dietro al bacinetto renale, si dirige in prossimità del calice
minore, poco prima del quale, in particolare in prossimità dell’apice delle piramidi, dà origine ad almeno 2
arterie interlobari, cioè tra i lobi. Queste arterie percorrono, in genere dividendosi “a diapason”, ma può
succedere che non si dividano, il tratto di corticale renale denominato colonna di Bertin, cioè quello che si
trova tra 2 piramidi di Malpighi, senza variare il loro nome (anche nel caso in cui siano 2). Laddove sono
presenti 2 o più arterie interlobari, caso più frequente, esse non si anastomizzano tra loro, ma rimangono
separate.
Una volta che le arterie interlobari hanno terminato di percorrere la colonna di Bertin, esse si avvicinano alla
base della piramide di Malpighi, dove ciascuna di esse piega quasi ad angolo retto e dà origine alle arterie
arcuate o arciformi, che percorrono la base della piramide di Malpighi.
Da ciascuna arteria arcuata, vengono fuori un certo numero di rami disposti centrifugamente, quasi paralleli
tra loro, chiamati arterie interlobulari, tra i lobuli.
Infatti per convenzione, la parte di parenchima renale (a questo livello solo corticale) delimitato da 2 arterie
interlobulari contigue prende il nome di lobulo renale.
Da ciascuna arteria interlobulare vengono fuori dei rami, ciascuno dei quali prende il nome di arteriola
afferente, nome che deriva dalla locuzione latina “ad fero”, che significa “porto a”.
Ogni arteriola afferente, sia che si trovi nel lobulo renale sia che si trovi nella colonna di Bertin, dopo un
brevissimo tragitto si capillarizza in un gomitolo di capillari che prende il nome di glomerulo renale. Questo
gomitolo di capillari derivati dall’arteriola afferente, diversamente dalla stessa arteriola afferente, dall’arteria
interlobulare e da quella lobare, non è isolato, ma è inglobato ciascuno in una capsula, detta capsula
glomerulare di Bowman. L’insieme di glomerulo più capsula di Bowman forma il cosiddetto corpuscolo
renale di Malpighi. Questa struttura vista dall’esterno non permette di vedere i capillari che contiene, in
quanto essi sono nascosti all’interno della capsula di Bowman.
I corpuscoli sono presenti ovunque si trovi un’arteriola afferente, quindi sia nel lobulo renale sia nella
colonna di Bertin. Essi si trovano soltanto a livello della corticale, che può essere sia quella posta all’esterno
della base della piramide sia quella posta tra una piramide e l’altra, ma non nella midollare, in quanto i vasi
arteriosi della midollare non si capillarizzano a formare glomeruli.
In ogni rene sono presenti in media 700 mila corpuscoli. Questo numero è importante perché, posto che
l’urina è il risultato della filtrazione del sangue, o meglio della ultrafiltrazione del sangue, e posto che a
livello dei corpuscoli renali si trova il glomerulo, che è fatto di capillari, il luogo del rene dove effettivamente
viene filtrato il plasma del sangue è il glomerulo del corpuscolo renale, perché a livello dei capillari si ha
produzione di liquido interstiziale. Ovviamente la quantità di ultrafiltrato che si produce nelle 24 ore è in
funzione, oltre che della gittata cardiaca e del numero di pulsazioni, anche del numero di corpuscoli. Ciò
significa che, se un soggetto, a causa di una qualche patologia, presenta un numero ridotto di corpuscoli, la
capacità di quel rene di produrre urina diminuisce.
In un qualsiasi tessuto un capillare da origine ad una venula, ma in questo caso ciò non avviene: i capillari
dei corpuscoli renali si riuniscono a formare una seconda arteriola, la quale emerge dal corpuscolo, che a
causa di ciò prende il nome di arteriola efferente. In schema, a livello renale si ha la successione vascolare:
ARTERIOLA AFFERENTE → GLOMERULO RENALE → ARTERIOLA EFFERENTE
Si tratta del primo ed unico caso in cui capillari confluiscono a formare un’arteriola, cosa che rappresenta
un’eccezione alla regola.
Il calibro dell’arteriola afferente è maggiore rispetto a quello dell’arteriola efferente. Questo è molto
importante perché, se a valle del corpuscolo renale è presente un’arteriola e non una venula, si ha resistenza
al flusso in uscita, dal momento che una venula offre una resistenza quasi nulla e un’arteriola, in quanto
formata da parete dotata di muscolatura liscia, offre resistenza maggiore; di conseguenza se il calibro
dell’efferente è minore dell’afferente, la resistenza al flusso in uscita del sangue è ancora maggiore. È
proprio sfruttando il gradiente di resistenza tra queste 2 arterie che si genera la forza necessaria per ottenere
dal plasma l’ultrafiltrato glomerulare, l’anticamera dell’urina definitiva.
La grande quantità di litri di sangue che nelle 24 ore viene pompata verso i reni, circa 1500 litri, suddivisa
per il numero totale di corpuscoli renali presenti nei 2 reni, cioè circa 1,5 milioni, determina che nelle 24 ore
per ciascun corpuscolo renale passa circa 1 mL di sangue.
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ANATOMIA MICROSCOPICA DEL RENE:
La regione corticale comprende sia la parte di rene posta a ridosso della base della piramide sia la parte di
rene presente a livello della piramide di Bertin. In sezione istologica la corticale presenta una struttura
modulare, caratterizzata dalla presenza di formazioni tondeggianti con all’interno una struttura
apparentemente compatta centrale, circonda da uno spazio vuoto. Si tratta di corpuscoli renali di Malpighi, di
dimensioni che variano circa da 150 µm a 250 µm, quindi visibili ad occhio nudo (100 µm è 1/10 di mm). I
corpuscoli non appaiono vicini, ma come isolotti immersi in un mare di altri elementi: ciascun corpuscolo
renale di Malpighi, composto da glomerulo e capsula di Bowman, è soltanto una parte, in particolare l’inizio,
dell’unità anatomo-funzionale del rene, che prende il nome di nefrone.
Infatti il corpuscolo renale ad un estremo si continua in un tubicino, un tubulo, di lunghezza variabile (che ha
un significato anatomo-funzionale), che inizialmente per un certo tratto disegna una serie di anse. A causa di
ciò questa parte del tubulo renale prende il nome di tubulo contorto o convoluto prossimale, perché fa
immediatamente seguito al corpuscolo e perché ne esiste un altro da cui va distinto. Le anse del tubulo
contorto prossimale si trovano tutt’attorno al corpuscolo del nefrone cui appartengono. Successivamente il
tubulo contorto prossimale diventa rettilineo e apparentemente si dirige dall’estrema periferia dell’organo
verso la midollare, senza tuttavia raggiungerla o raggiungendola di poco, ossia in prossimità della base della
piramide, formando quello che si chiama tratto discendente del tubulo. Più o meno all’altezza del confine tra
base della piramide e corticale, il tubulo improvvisamente cambia direzione, fa una conversione ad “U”,
generando quella che prende il nome di ansa tubulare di Henle, per poi dirigersi verso l’alto, raggiungendo
circa l’altezza del corpuscolo da cui è derivato e formando il tratto ascendente. Il tratto ascendente del
tubulo, rettilineo, in prossimità del corpuscolo forma nuovamente delle anse, a formare la quinta ed ultima
parte del tubulo, il tubulo contorto o convoluto distale, che deve questo nome al fatto che, sebbene si trovi
anch’esso molto vicino al corpuscolo da cui è derivato, se si rettilinizzasse il tubulo renale esso si troverebbe
a l’estremo del nefrone opposto al corpuscolo. Le varie porzioni del tubulo sono molto importanti, poiché a
ciascuna di queste parti corrisponde una determinata funzione.
L’insieme del corpuscolo renale e del tubulo renale che gli fa seguito costituisce l’unità anatomo-funzionale
del rene, che prende il nome di nefrone.
Il tubulo convoluto distale converge poi con i tubuli convoluti distali di nefroni vicini a formare un altro
tubulo, che raggiunge la midollare, il tubulo collettore. Questa struttura percorre la corticale e arriva ad
invadere la midollare, dove più tubuli collettori convergono a formare un dotto di calibro maggiore, il
condotto papillare di Bellini, il quale sbocca a livello della papilla, l’apice della piramide, in cui sono
presenti una serie di fori, ciascuno dei quali corrisponde allo sbocco di un condotto papillare e attraverso i
quali sgocciola, 24 ore al giorno, 60 secondi al minuto, l’urina definitiva, che si raccoglie nel calice minore.
Il numero di tubuli convoluti distali presenti in ciascun rene corrisponde al numero di nefroni, cioè
mediamente circa 700 mila; il numero di tubuli collettori è invece minore; ancor minore è il numero dei
condotti papillari, circa una decina per ciascun calice minore.
Il liquido che si trova nei calici minori è esattamente uguale a quello dei calici maggiori, della pelvi renale,
dell’uretere e della vescica, perché si tratta di urina definitiva, se fosse stato necessario modificare qualcosa
dal punto di vista chimico-fisico, sarebbe stato prima. Anche il liquido che si trova nel condotto papillare è
urina definitiva, cosa che non si può invece dire del liquido presente a livello di tutti gli altri tubuli: il tubulo
convoluto prossimale, il tratto discendente, l’ansa di Henle, il tratto ascendente, il tubulo convoluto distale e
il dotto collettore presentano un liquido che ancora non è urina definitiva, ma ultrafiltrato glomerulare. La
composizione chimica di questo liquido, e di conseguenza anche le proprietà fisiche, cambia via via che si
passa dall’inizio del tubulo convoluto prossimale alla fine del tubulo collettore.
Circa l’80% dei corpuscoli renali, e in particolare l’80% più periferico del rene, fanno parte di nefroni detti
nefroni corticali, così chiamati perché pressoché tutto il nefrone è contenuto nella corticale e soltanto una
piccola parte supera il confine tra corticale e midollare; nel restante 20% di nefroni i corpuscoli si trovano
nella corticale, in quanto non ci sono corpuscoli nella midollare, ma i vari tratti del tubulo sono contenuti
pressoché completamente nella midollare, di conseguenza prendono il nome di nefroni iuxtamidollari
(“iuxta” significa “vicino”).
Le differenze finora analizzate tra un nefrone corticale e un nefrone iuxtamidollare sono che i tratti rettilinei
ascendente e discendente del tubulo del nefrone corticale sono più lunghi di quelli del nefrone iuxtamidollare
e che il tubulo del nefrone corticale è contenuto per gran parte nella corticale, quello del nefrone
iuxtamidollare è contenuto nella midollare. Esistono tuttavia anche differenza morfologiche. Nel nefrone
infatti, in particolare nel tratto discendente e nel tratto ascendente, si distinguono 2 tipologie di tubulo, uno
spesso e uno sottile: il tratto sottile è pochissimo rappresentato nel nefrone corticale e si trova soltanto a
livello del tratto discendente, mentre nel nefrone iuxtamidollare rappresenta gran parte della parte rettilinea
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del tubulo, sia il discendente sia l’ascendente, compresa l’ansa di Henle. Queste differenze morfologiche
rimandano a differenze nella funzione svolta.
FORMAZIONE DELL’ULTRAFILTRATO GLOMERULARE:
Il corpuscolo renale rappresenta il primo dei “punti critici” che si incontrano nel nefrone e per certi aspetti
anche il più importante. Si tratta di una formazione con un diametro variabile, tra 150 e 250 µm, che nasce
dalla capillarizzazione di un’arteriola afferente (originata a sua volta da un’arteria interlobulare), che si
ramifica a formare un ciuffo di capillari, il glomerulo, da cui si diparte poi l’arteriola efferente. Il calibro
dell’arteriola efferente è significativamente minore del calibro dell’arteriola afferente.
Durante le 24 ore nel corpuscolo, e di conseguenza nell’arteriola afferente, passa circa 1 mL di sangue, che
corrisponde ad 1 cm³. Considerato che un corpuscolo renale ha mediamente un diametro di circa 200 µm,
cioè 0,2 mm, quindi un volume molto piccolo, si comprende il motivo per cui 1 mL di sangue impiega 24 ore
per attraversare questa struttura.
Filtrazione in un capillare vulgaris:
Se si considera un capillare qualsiasi, ad esempio di quelli che avvolgono gli alveoli polmonari, questo
risulta composto da una membrana basale su cui poggiano cellule “a uovo fritto”. Le membrane basali dei
capillari, sebbene sembrino strutture continue, in realtà sono altamente porose, con pori (non “fori”)
distribuiti in maniera geometrica che, in genere, hanno un diametro di 6-7 nm; considerato che un globulo
rosso ha un diametro di circa 6-7 µm, i pori delle membrane basali sono circa 1000 volte più piccoli.
Attraverso i pori delle membrane basali possono passare sostanze che al massimo presentano un calibro di
6-7 nm, tra cui l’acqua, gli ioni, gli amminoacidi, il glucosio, gli acidi grassi, le vitamine, ecc.. Esistono
anche piccole proteine plasmatiche che riescono ad attraversare questi pori, come l’insulina, che pesa circa
6000 ed ha un diametro inferiore a 6 nm, quindi in genere gli ormoni proteici e i fattori di crescita, come
citochine, riescono ad superare quest’ostacolo. Nel sangue, tuttavia, ci sono anche altri elementi, come
albumina e fibrinogeno, che sono proteine grandi che tendono a non passare attraverso questi pori, perché
l’albumina ha un paso molecolare di 67 mila, il fibrinogeno di 220 mila, così come le immunoglobuline (in
più l’albumina è una proteina di tipo fibroso, quindi ha una forma affusata, e questo determina maggiore
difficoltà al passaggio). In genere quindi i nutrienti riescono ad attraversare la membrana basale porosa dei
capillari, mentre molecole più grandi non passano.
Il sangue è composto da 2 parti, una parte corpuscolata e una parte liquida, il plasma, una soluzione molto
concentrata di acqua, ioni, vitamine, proteine, amminoacidi, acidi grassi, glucosio, ecc., mentre la parte
corpuscolata presenta globuli rossi, globuli bianchi e piastrine; considerato che un capillare è destinato a
trasportare sangue, allo scopo di trasportare i nutrienti alle cellule del corpo, come riescono queste sostanze
ad uscire per andare a nutrire una cellula?
La porosità della membrana basale è essenziale, ma è necessario che anche le cellule endoteliali facciano
passare i nutrienti. Una molecola che si sposta dal punto A, interno del capillare, al punto B, esterno del
capillare, deve necessariamente essere stata sottoposta all’azione di una forza, che nel caso specifico è la
pressione idrostatica.
Il sangue contenuto in un vaso, ad esempio in un capillare, esercita una pressione sulle sue pareti, detta
pressione idrostatica, e se la parete è permeabile a piccole molecole, tali molecole abbandonano il letto
vascolare e raggiungono l’interstizio. La pressione idrostatica all’interno di un qualsiasi capillare, ad
eccezione dei sinusoidi e dei capillari renali, ha un valore di 30-32 mmHg. Tuttavia deve esserci un bilancio
tra la pressione idrostatica e la pressione oncotica, detta anche colloido-osmotica, cioè bisogna dividere la
pressione in 2 parti: una pressione idrostatica che si esercita sulla pareti del vaso, quindi centrifuga, e una
pressione oncotica o colloido-osmotica che al contrario tende a trattenere acqua, quindi si oppone alla
precedente. In un capillare qualsiasi la pressione oncotica è paria circa 30 mmHg, quindi dei 32 mmHg
misurati all’interno del capillare, soltanto 2 corrispondono alla pressione utile alla filtrazione, detta pressione
di filtrazione, perché allorché una molecola piccola piccola riesce ad abbandonare il capillare per andare
fuori in realtà questa è stata filtrata, quindi le cellule endoteliali e la membrana basale costituiscono un vero e
proprio filtro, che permette il passaggio di alcune molecole, quelle che hanno diametro minore di 7 nm, e
trattiene tutte le altre, tra cui la parte corpuscolata del sangue. Tuttavia, affinché questo succeda,
normalmente un capillare è sottoposto ad una pressione idrostatica, di filtrazione, pari a 2 mmHg.
Ovviamente in caso di ipoalbuminemia la pressione oncotica diminuisce, e se ad esempio diventa 20 mmHg,
la pressione idrostatica di ultrafiltrazione diventa di 10-12 mmHg, che spiega il fenomeno della perdita di
acqua, tipiche delle gravi insufficienze epatiche e renali, con conseguente formazione di edemi declivi, cioè
nelle parti più basse del corpo o dorsali se il soggetto è costretto a letto, a causa della diminuzione della
pressione colloido-osmotica.
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Ultrafiltrazione nel capillare renale:
Nel rene la situazione è diversa: se si misura la pressione in un qualsiasi capillare glomerulare, non importa
se corticale o iuxtamidollare, si ottiene un valore di poco meno di 60 mmHg, quindi poco meno del doppio di
32 mmHg.
A livello dei capillari renali è presente un filtro, rappresentato sostanzialmente dalla membrana basale dei
capillari, quindi le sostanze che fuoriescono subiscono un processo di filtrazione, che viene detto
ultrafiltrazione, tramite il quale alcune sostanze passano e altre vengono trattenute. Si parla di
ultrafiltrazione perché esiste un limite di esclusione, in inglese detto “cut off”, che equivale a circa 35 kDa,
che corrisponde ad un diametro di circa 6 nm: le sostanze minori di 6 nm di dimensioni e meno di 35 kDa di
peso passano, ciò che è maggiore e più pesante viene trattenuto. Si ha filtrazione anche nel caso del sinusoide
epatico, in cui la parte corpuscolata rimane dentro e tutto il plasma esce, ma in questo caso si ha filtrazione
del plasma, che è già un prodotto di filtrazione, quindi prende il nome di ultrafiltrazione.
Se si misura la pressione a livello di un capillare glomerulare, e non semplicemente renale, si ottiene un
valore complessivo di 58-60 mmHg, quasi il doppio rispetto a quella che si misura in un capillare normale.
Questo è dovuto al fatto capillari glomerulari successivamente convergono non in una venula, come di norma
accade, ma un’altra arteriola, l’arteriola efferente, che peraltro presenta un calibro minore rispetto
all’arteriola afferente che origina i capillari glomerulari.
Questa organizzazione rappresenta una necessità, perché grazie alla maggiore pressione complessiva che si
misura nel capillare glomerulare, 58-60 mmHg, si ottiene una pressione di ultrafiltrazione che già
intuitivamente si può definire maggiore di 2 mmHg: la pressione colloido-osmotica non varia, anche nel
capillare glomerulare corrisponde a 30 mmHg, perché la quantità delle proteine rimane invariata, quindi se la
pressione complessiva aumenta significa che aumenta la pressione idrostatica. In particolare il valore che si
ottiene corrisponde a circa: 60 - 30 = 30. Tuttavia, se ci si limitasse a questo si commetterebbe un errore,
perché questo calcolo porterebbe all’erronea conclusione che all’interno del capillare glomerulare si ha una
pressione di filtrazione utile pari a 30 mmHg, che in realtà non è.
Per spiegare questo concetto si torna a fare riferimento al fatto che la morfologia sottende alla funzione. Il
corpuscolo renale di Malpighi si compone di 2 parti, il glomerulo renale e la capsula di Bowman; ad un certo
livello la capsula, composta da cellule ultrapiatte, genera una specie di cilindro di imbuto, che rappresenta
l’inizio del tubulo convoluto prossimale: ad un certo punto della sfera ideale formata dalla capsula di
Bowman, questa diventa un tubicino in uscita, a formare una struttura che ricorda un imbuto. Ciò significa
che se dai capillari glomerulari sgocciola un ultrafiltrato (che è liquido interstiziale in quanto filtrato dai
capillari), esso va a finire in questo spazio, che prende il nome di camera o spazio di filtrazione, destinato a
raccogliere liquido interstiziale fuoriuscito dai capillari glomerulari. Il liquido contenuto in tale spazio
imbocca il luogo di minor resistenza, cioè l’inizio del tubulo, e comincia a percorrere il tubulo renale.
Benché l’uscita di liquido dai capillari glomerulari sia costante, il liquido che si trova nello spazio di
filtrazione esercita una pressione sulle sue pareti, che inevitabilmente si esercita anche sui capillari
sanguigni. Questa pressione ammonta a circa 18 mmHg e, siccome si esercita anche sui capillari, si oppone
all’uscita di liquido: a fronte di una pressione teoricamente enorme, 30 mmHg, che spinge l’acqua e i
nutrienti ad uscire, si ha ultrafiltrato che esercita una forza contraria, di 18 mmHg, che si oppone a quella di
spinta. Sottraendo quindi alla pressione di spinta, 30 mmHg, la pressione contraria esercitata
dall’ultrafiltrato, 18 mmHg, si ottiene una pressione utile di ultrafiltrazione a livello di un corpuscolo renale
di 12 mmHg. Questo valore è circa 5-6 volte superiore a quella di un capillare normale quindi, nell’unità di
tempo, rispetto ad un qualsiasi altro tessuto, nel corpuscolo renale si ha una quantità 5-6 volte maggiore di
ultrafiltrato glomerulare, del tutto identico al liquido interstiziale presente nei tessuti.
In particolare, dei circa 1500 litri di sangue che passano nelle 24 ore negli 1,5 milioni di corpuscoli renali, si
producono da 160 a 180 litri di ultrafiltrato e 1,5 litri di urina, cioè circa l’1% dell’ultrafiltrato prodotto: nelle
24 ore bisogna far circolare 1500 litri di sangue, per ottenere circa 160-180 litri di ultrafiltrato glomerulare,
allo scopo di eliminarne 1,5 litri, l’1%.
Il processo è così complesso e coinvolge grandi volumi perché in questo modo si aumenta la probabilità
statistica che tutto ciò che è necessario eliminare venga effettivamente eliminato: si tratta di un sistema per
aumentare l’efficienza della funzione renale. Affinché questo avvenga, è necessario che il sangue circoli nel
rene diverse volte, con la conseguente produzione di circa 160-180 litri di ultrafiltrato nelle 24 ore, ma
successivamente è necessario recuperare circa il 99% di quello che è stato momentaneamente filtrato. Il
nefrone si compone quindi di 2 strutture: un corpuscolo renale, deputato a generare i 160-180 litri di
ultrafiltrato glomerulare ogni 24 ore, e un sistema di tubuli in successione, il tubulo renale, incaricato del
compito di recuperare e rimettere in circolo il 99% di quello che è stato momentaneamente eliminato, così
che dopo 24 ore rimangano circa 1,5 litri di urina, che viene espulsa. È molto importante che a livello del
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tubulo il riassorbimento avvenga in maniera selettiva, affinché le sostanze di rifiuto vengano efficacemente
eliminate e i nutrienti trattenuti.
STRUTTURA DEL CORPUSCOLO RENALE:
Il punto di entrata nel corpuscolo dell’arteriola afferente è molto vicino al punto di emergenza dell’arteriola
efferente, tanto che questi punti si possono ricondurre ad uno unico, che viene per questo chiamato polo
vascolare del corpuscolo.
Dalla parte opposta del polo vascolare si localizza il punto di emergenza del tubulo e, siccome in questa
struttura passa ultrafiltrato glomerulare che diventerà urina, questa parte del corpuscolo prende il nome di
polo urinario o urinifero del corpuscolo.
In realtà l’involucro che contiene il glomerulo non è fatto da un’unica parete, ma da un foglietto di cellule
che a livello periferico è piatto e che, all’altezza del polo vascolare, si riflette per avvolgere ogni singola ansa
vascolare, esattamente come il peritoneo viscerale è la continuazione del peritoneo parietale. Infatti attorno
ad ogni singolo capillare è presente una porzione del foglietto della capsula di Bowman che si è invaginato a
livello del polo vascolare ed è andato, seguendo le anse dei capillari, a formare il foglietto viscerale: si parla
di foglietto parietale e foglietto viscerale anche per la capsula di Bowman.
Il rene nasce da 2 abbozzi, un abbozzo mesenchimale, che dà origine al sistema dei tubuli, che termina con
una formazione sferica, e un abbozzo vascolare, costituito da un’arteria, l’arteriola afferente, dà origine
prima ad un ciuffo di capillari e poi all’arteriola efferente. Questi 2 abbozzi si incontrano e il ciuffo di
capillari spinge verso la formazione sferica dell’abbozzo mesenchimale, così da ottenere una formazione
dalla vaga forma di una chiave inglese, la quale al suo interno contiene il ciuffo di capillari, il glomerulo. Il
risultato è che il foglietto viscerale della capsula di Bowman è ex foglietto parietale, che è diventato viscerale
in seguito alla spinta dei capillari glomerulari, un po’ come il foglietto viscerale del peritoneo è ex peritoneo
parietale, che sotto la spinta dell’organo che si è accresciuto si è allontanato dalla parete e ha finito per
avvolgerlo.
Il capillare glomerulare non è esattamente uguale ad un capillare qualsiasi, perché il suo endotelio è
fenestrato, pur presentando membrana basale (rappresenta una sorta di via di mezzo tra un capillare vulgaris
e un sinusoide epatico). Le fenestrature dell’endotelio capillare renale hanno un calibro di 200-300 nm
(0,2-0,3 µm). Attraverso esse, come in genere attraverso tutte le fenestrature capillari, passa il plasma, ma
non parte corpuscolata, cosa che facilita il contatto tra il plasma e la membrana basale del capillare. Infatti le
fenestrature dei capillari renali hanno il compito non tanto di filtrare, passa tutto il plasma, quanto di
facilitare l’accesso del plasma verso la membrana basale, che rappresenta il vero e proprio filtro.
Di conseguenza a livello dei capillari renali si ha un doppio vantaggio: il primo è una pressione netta di
filtrazione 5-6 volte superiore rispetto ad un capillare qualsiasi, il secondo è che tale pressione è facilitata
dalla presenza di fenestrature attraverso cui passa facilmente plasma, che poi viene filtrato dalla membrana
basale.
Il tipo cellulare che compone il foglietto viscerale della capsula di Bowman è completamente diverso dal tipo
cellulare che compone il foglietto parietale. Il foglietto viscerale consta di un monostrato di cellule a forma
di “piovra”, che prendono il nome di podociti. Essi presentano ciascuno un corpo cellulare che contiene il
nucleo e una 1° generazione di prolungamenti, ognuno dei quali si ramifica a sua volta in prolungamenti di
2° ordine, i quali ancora si ramificano in prolungamenti di 3° ordine, che prendono il nome di pedicelli e
sono visibili soltanto al microscopio ottico.
I prolungamenti di 1° tipo e di 2° tipo, ma non quelli di 3° tipo, si interdigitano tra loro con quelli di un
podocita vicino, mentre quelli di 3° tipo, i pedicelli, si vanno ad applicare esternamente al capillare. Gli spazi
della parete esterna del capillare che non vengono occupati dai pedicelli prendono il nome di fessure di
filtrazione. Di conseguenza, se una molecola è riuscita a passare attraverso la membrana del capillare e vuole
raggiungere la camera di filtrazione, deve passare tra un pedicello e l’altro, cioè attraverso la fessura di
filtrazione.
Se non ci fossero i pedicelli, si otterrebbe una superficie di filtrazione del capillare enorme, in quanto
qualsiasi punto della membrana basale potrebbe far passare le sostanze; invece gran parte della superficie
utile per il passaggio dal versante esterno è occupata dalla giustapposizione dell’apice dei pedicelli. Questa
organizzazione morfologica ha la funzione di limitare l’ingresso di ultrafiltrato glomerulare nella camera di
filtrazione: è il giusto compromesso tra la necessità di ultrafiltrare e quella di non ultrafiltrare troppo.
Esistono condizioni che determinano morte dei podociti o anche distorsione della loro morfologia, tale per
cui si ha un eccesso di superficie utile per il passaggio sostanze, con conseguente eccesso di produzione di
ultrafiltrato, il quale non può essere riassorbito nella canonica percentuale del 99%, e viene quindi eliminato
in eccesso sotto forma di urina. Questo costituisce per il soggetto una condizione di continua necessità di
riimmissione di acqua, ioni, amminoacidi, glucosio, ecc. nel sistema.
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In sintesi quindi la quantità di ultrafiltrato che si trova nella camera di filtrazione nell’unità di tempo, è la
somma algebrica di una serie di fattori: 1. l’enorme pressione utile di filtrazione all’interno del capillare
glomerulare, 10-12 mmHg; 2. le fenestrature del capillare; 3. la porosità della membrana basale; 4. lo spazio
utile per il passaggio verso l’esterno, che è la sommatoria di tutte le fessure di filtrazione.
In realtà anche il podocita presenta una sua personale membrana basale. La capsula di Bowman inizialmente
è formata da uno strato cellulare, circondato all’esterno da una membrana basale. Il foglietto viscerale della
capsula di Bowman nasce dall’invaginazione del foglietto parietale sotto la spinta dei capillari sanguigni.
All’interno del foglietto viscerale ci sono capillari, quindi le 2 membrane basali, dei podociti e dei capillari,
sono giustapposte. Tra le 2 membrane basali giustapposte è presente un 3° tipo cellulare (il 1° è la cellula
endoteliale, il 2° il podocita), non molto rappresentato, che prende il nome di cellula del mesangio interno.
Questa cellula si frappone tra podocita e capillare, presenta proprietà contrattili grazie ad un citoscheletro di
actina e di miosina molto dinamico (come le cellule mioepitelioidi o i macrofagi, che grazie alla forte
dinamicità del citoscheletro sono in grado di cambiare forma, dare origine a pseudopodi e fagocitare), non ha
una forma stabile, in quanto si adatta all’esterno. Viene classificata tra i macrofagi, è considerata una specie
di macrofago, sebbene altamente specializzato, ed è programmata per lustrare lo spazio tra i capillari e i
podociti. Quindi la funzione della cellula del mesangio interno è quella di tenere pulito l’ambiente, come tutti
i macrofagi residenti di qualsiasi tessuto, e in particolare le 2 membrane basali, che sono porose, da qualche
molecola che vi si è incastrata. Inoltre queste cellule hanno la funzione di eliminare i resti delle cellule delle
porzioni della membrana basale che sono state demolite ai fini del rinnovamento.
Inoltre, siccome le cellule del mesangio interno per muoversi devono avere un citoscheletro di actina e
miosina molto efficace, esse possono anche assumere forme più strane, tanto che alcune di esse circondano il
capillare abbracciandolo, e questo è molto importante: queste cellule sono sensibili ad una serie di fattori,
molecole rilasciate nel citoplasma al bisogno, e può succedere che l’abbraccio del capillare sia così stretto
che il calibro di quel capillare viene ridotto, con conseguente riduzione della velocità del flusso. Quindi le
cellule del mesangio non hanno soltanto il compito di tenere pulito lo spazio tra una membrana basale e
l’altra, e quindi rendere efficace ed efficiente il sistema della ultrafiltrazione, ma anche quello di regolare il
flusso del sangue all’interno dei capillari glomerulari.***
La fessura di filtrazione è lo spazio tra un pedicello e l’altro, nonché quello utile per il passaggio di ciò che è
stato ultrafiltrato. In realtà però 2 pedicelli contigui sono uniti da sottili formazioni che prendono il nome di
diaframmi di filtrazione. Queste strutture nascono dalla polimerizzazione di una singola molecola proteica
chiamata nefrina, prodotta dallo stesso podocita, che si organizza a formare una rete e rappresenta un
ulteriore elemento del filtro.
Una molecola di sostanza che si trova nella camera di filtrazione ha dovuto attraversare la fenestratura del
capillare, la membrana basale del capillare, la membrana basale del podocita (laddove essa è libera, cioè non
ha pedicelli giustapposti) e il diaframma di filtrazione.
Nel corpuscolo renale i capillari sono disposti a formare tante piccole anse affiancate l’una all’altra. In ogni
capillare sanguigno, a livello dell’ansa, il sangue si muove in una certa direzione, ma i 2 elementi dell’ansa
capillare presentano una o più anastomosi. Questo rappresenta un sistema per aumentare il letto vascolare e
di conseguenza rallentare la velocità di flusso all’interno di questi capillari, cosa che rappresenta un
vantaggio: il liquido che deve uscire ha a disposizione un tempo maggiore per essere pompato all’esterno.
Nei capillari il flusso del sangue è detto flusso laminare: il sangue è fatto di 2 componenti, una corpuscolata
e una fluida, il plasma, quindi è una sospensione; queste 2 componenti sono soggette ad una spinta, che le fa
progredire; se questa sospensione attraversa un tratto di capillare, la parte corpuscolata del sangue si dispone
nella parte centrale, mentre il plasma si distribuisce tutt’attorno ad essa. Questo è il significato di flusso
laminare, cioè una partizione precisa della parte corpuscolata, lungo l’asse ideale del condotto capillare, e
della parte liquida, alla periferia di tale asse. Nel capillare renale questa distribuzione è utilissima, perché in
questo modo è facilitata la diffusione del plasma attraverso le fenestrature: la distanza che il plasma deve
percorrere per raggiungere le fenestrature è praticamente 0.
La conseguenza del flusso laminare all’interno dei capillari è che nell’anastomosi che si forma tra le 2 parti
dell’ansa del capillare glomerulare circola soltanto plasma, non parte corpuscolata, in quanto essa si trova
assialmente nella parte centrale del capillare, quindi è difficile che questi pieghino ad angolo retto ed entrino
nel ramo anastomotico. Il risultato è che queste anastomosi, oltre alla funzione di rallentare la velocità di
flusso del sangue, hanno anche quella di favorire l’arrivo del plasma alla membrana basale.
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Nefrone corticale:
Il nefrone corticale consta di un tubulo convoluto prossimale che si continua con un tratto discendente,
un’ansa, un tratto ascendente e un tubulo convoluto distale.
Nei nefroni corticali le dimensioni, in termini di spessore del tubulo, sono essenzialmente costanti passando
dal prossimale al distale, tranne un piccolissimo tratto della parte discendente, più sottile, che tuttavia a causa
delle ridotte dimensioni è trascurabile.
Nel nefrone corticale, in termini di morfologia e quindi di funzione, ciò che vale per il tubulo convoluto
prossimale vale anche per la porzione spessa del tratto discendente, cioè per tutto il tratto discendente eccetto
la piccola porzione sottile prima citata.
Il tubulo prossimale e la porzione spessa del tratto discendente sono costituiti da un monostrato di cellule,
chiamate epiteliali, che tuttavia tecnicamente non lo sono, in quanto non derivano dall’ectoderma, bensì dal
mesoderma. Si tratta di cellule di forma vagamente piramidale tronca, e non potrebbe essere diversamente, in
quanto esse si dispongono a formare un cerchio, un tubulo, che per definizione deve avere una parte centrale
vuota, quindi assumono la stessa forma di “fette di ciambella”. Queste cellule poggiano su una membrana
basale, presentano un nucleo più o meno centrale, una membrana apicale che si affaccia nel lume e una
membrana baso-laterale che poggia su una membrana basale.
La membrana apicale, detta anche luminale, è sollevata in una miriade di microvilli, caratteristica che
permette di intuire che si tratta di una cellula implicata in un’intensa attività di assorbimento, al pari
dell’enterocita, che infatti presenta una morfologia simile. Il diametro del tubulo a questo livello è di circa
40-50 µm, di cui gran parte è costituita dallo spessore delle cellule, quindi il volume interno utile, in cui va a
finire l’ultrafiltrato glomerulare in uscita dal corpuscolo, è molto limitato. Inoltre i microvilli delle cellule
aggettano centripetamente verso l’interno, con il risultato che il lume del tubulo, nelle colorazioni con
ematossilina-eosina, appare come sporco, velato, perché i microvilli non si vedono, ma offuscano
l’immagine. Proprio perché lo spazio interno del tubulo contorto prossimale e della parte spessa del tratto
discendente è limitato e ricco di microvilli, il flusso dell’ultrafiltrato lungo il tubulo non è veloce, a causa del
disturbo meccanico. Questo rappresenta un vantaggio, in quanto laddove si ha un luogo di scambio il flusso
del liquido dev’essere lento.
Tale conformazione si deve al fatto che circa il 70% della componente acquosa ultrafiltrata nell’unità di
tempo, viene riassorbito da tutti i tubuli contorti prossimali e dalle parti spesse dei tratti discendenti (siano
essi nefroni corticali o iuxtamidollari). Questo riassorbimento è di tipo costituitivo, che significa che non è
regolato da niente (ormoni, citochine, fattori di crescita, stimoli nervosi, ecc.): queste cellule sono fabbricate
per avere il macchinario molecolare che funziona sempre.
Queste cellule, sebbene deputate ad un riassorbimento notevole, non sono dotate né di pompe né di
trasportatori dell’acqua, ma soltanto di canali dell’acqua, le acquaporine, quindi esistono semplicemente i
varchi attraverso cui acqua e ioni possono passare. È quindi evidente che esista una forza che determina lo
spostamento dell’acqua dall’interno del tubulo all’interno delle cellule.
RIASSORBIMENTO A LIVELLO DEL TUBULO CONVOLUTO PROSSIMALE E DEL TRATTO
DISCENDENTE SPESSO:
L’acqua non si muove, a meno che non venga attratta. L’elemento che attrae l’acqua per eccellenza è il sodio
(Na). Il liquido che fluisce nel tubulo sarà composto, oltre che da acqua, anche da sodio, in particolare la
soluzione fisiologica è composta dallo 0,9% di sodio, cioè 0,9 g di sodio ogni 100 mL di liquido, pari a circa
150 mmol di sodio nel plasma, quindi nel liquido interstiziale, quindi nell’ultrafiltrato. È quindi presente
molto sodio nell’ultrafiltrato, che trattiene acqua. Il sistema tramite il quale il tubulo riesce a riassorbire
acqua si basa sul principio secondo il quale se si riesce a recuperare sodio, l’acqua viene attratta da questo.
Così lungo i microvilli, dotati di un’ampia superficie complessiva, sono presenti numerose pompe di sodio
che, con enorme spesa energetica, consumo di ATP, recuperano sodio (in realtà sodio e cloro), il quale attrae
e si porta con se l’acqua, così che sodio e acqua arrivano nell’immediata vicinanza della membrana
plasmatica del microvillo, a livello della quale questi si separano, il sodio viene preso dalla pompa, che lo
porta dentro, e l’acqua, attratta dal sodio, entra nella cellula attraverso le acquaporine. Sodio e acqua sono
legati fino all’arrivo alla membrana plasmatica; a questo livello la pompa strappa il sodio e lo porta dentro;
l’acqua rimane momentaneamente “orfana”, trova l’acquaporina e “intravede” il sodio aldilà della membrana
plasmatica, che l’attrae, quindi attraversa il canale ed entra dentro la cellula, dove si riunisce al sodio.
L’acqua viene dunque riassorbita passivamente, a seguito dell’assorbimento attivo del sodio. Con questo
sistema viene riassorbito circa il 70% dei 160-180 litri di ultrafiltrato glomerulare. Siccome questo processo
ha un costo energetico molto elevato, è necessaria una continua produzione di ATP per far fronte a questa
spesa, così questa cellula è ricchissima in mitocondri. Tuttavia se questa cellula si limitasse a riempirsi di
acqua e sodio, nel tempo tenderebbe ad aumentare le sue dimensioni; invece le sue dimensioni rimangono
costanti, di conseguenza se acqua, sodio e cloro entrano nella cellula, alla stessa velocità con cui entrano
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devono uscire dalla cellula. L’acqua infatti passa dal lume del tubulo all’interstizio, tramite l’intermediazione
di questa cellula.
Questo impone che tale cellule sia dotata, sulla porzione baso-laterale, anche di un macchinario molecolare
capace di estrudere sodio, cloro e acqua ed immetterli nell’interstizio. Siccome questa cellula ha bisogno di
strutture molecolari come pompe, acquaporine, trasportatori, ecc., ma anche di spazio fisico nel quale
localizzarle, al pari dei microvilli della membrana apicale, essa presenta una membrana baso-laterale molto
particolare: è dotata di una serie di invaginazioni (e non evaginazioni), che rappresentano il minimo
indispensabile per avere molto spazio su cui annettere queste strutture molecolari, utili alla fuoriuscita di
sodio, cloro e acqua. Questo rappresenta l’unico esempio nel corpo umano di una cellula che presenta
specializzazioni sia della membrana apicale, i microvilli, sia della membrana baso-laterale, le invaginazioni.
Avendo generato questo spazio, la cellula lo sfrutta anche per distribuire mitocondri tra un’invaginazione e
l’altra, a formare una specie di “palizzata”. Queste strutture ai primi osservatori apparvero erroneamente
come bacilli, tanto che questo veniva chiamato epitelio bacillare. Questi mitocondri assicurano l’energia
necessaria per far entrare sodio e cloro, che attraggono acqua, e per far uscire sodio, cloro e acqua
nell’interstizio.
RIASSORBIMENTO A LIVELLO DELL’ANSA, DEL TRATTO ASCENDENTE E DEL TUBULO
CONVOLUTO DISTALE:
Tralasciando momentaneamente la piccola porzione sottile del tratto discendente del tubulo, e considerando
l’ansa di Henle, il tratto ascendente e il tubulo contorto distale, è possibile distinguere queste parti, spesse,
dalle parti prima descritte, tubulo contorto prossimale e tratto discendente, anch’esse spesse: l’ansa, il tratto
ascendente e il tubulo contorto distale presentano un epitelio più basso, quindi con un lume decisamente più
grande rispetto agli altri tratti spessi. Infatti le cellule dell’epitelio tendono al cubico, cosa che già di per sé
aumenta il lume del tubulo rispetto a cellule piramidali, come sono nelle altre porzioni, e presentano un
numero molto inferiore di microvilli; inoltre queste cellule hanno molte meno invaginazioni a livello della
membrana baso-laterale, quindi anche meno mitocondri. Queste differenze morfologiche sono espressione di
una diversa funzione.
Nelle porzioni prima descritte viene assorbito circa il 70% dei 160-180 litri di ultrafiltrato glomerulare;
rimane il restante 30% e, considerato che l’1% viene eliminato sotto forma di urina, il 29% deve ancora
essere riassorbito.
Ruolo dell’aldosterone:
Le cellule che costituiscono l’ansa di Henle e il tratto ascendente del tubulo assorbono costitutivamente
sodio, ma non acqua, in quanto esse non presentano acquaporine.
Le cellule del tubulo convoluto distale, molto simili a quelle del tratto ascendente, anch’esse non presentano
acquaporine, quindi non sono in grado di assorbire acqua, e assorbono sodio; tuttavia in questo caso il
riassorbimento di sodio, e in particolare l’attività delle pompe di sodio, non è costitutivo, ma è regolato da un
ormone, che prende il nome di aldosterone. Si tratta di un ormone mineralcorticoide, prodotto e secreto da
una parte della corteccia del surrene, e come tutti gli ormoni viene secreto al bisogno. Il tubulo contorto
distale, grazie a pompe sodio, prende il sodio e lo immette nell’interstizio; quest’azione è regolata
dall’aldosterone: in assenza dell’ormone, questo processo non avviene. In più, non essendoci acquaporine,
non può uscire acqua.
In realtà l’aldosterone non agisce genericamente sulla pompa del sodio, ma su uno scambiatore sodioidrogenione (Na+/H3O+), presente a livello dei microvilli delle cellule: sotto l’azione dell’aldosterone, per
ogni molecola di sodio che esce dal tubulo, entra nella cellula e viene immessa nell’interstizio, la cellula
immette nell’ultrafiltrato glomerulare un idrogenione. Questo rappresenta un duplice vantaggio: il primo è
che viene recuperato sodio, che viene immesso nell’interstizio; il secondo è che, essendo il valore di pH
fisiologico circa 7,4, che le cellule non sono in grado di sopravvivere ad un pH inferiore a questo (condizione
chiamata acidosi, che può causare morte) e che quindi è necessario mantenere il meno acido possibile il
sangue, il liquido interstiziale e il citoplasma, questo rappresenta un importante sistema di eliminazione di
idrogenioni ai fini del mantenimento del pH fisiologico del sangue. Ciò significa che il rene non ha soltanto
un ruolo importante ai fini della detossificazione, cioè l’eliminazione di prodotti di scarto (urea, acido urico,
ioni ammonio, ecc.), non ha soltanto un ruolo nel regolare l’equilibrio idrico salino, cioè la giusta quantità di
acqua e di sali, ma ha un ruolo anche nella regolazione del pH, molto importante, perché di acidosi si può
morire.
Quando c’è troppo aldosterone in circolo, come in alcune circostanze parafisiologiche e poi patologiche, gli
scambiatori sodio-idrogenione funzionano in maniera notevole, con la conseguenza che ad un certo punto la
riserva di idrogenioni della cellula si esaurisce, quindi la cellula, essendo comunque indotta dall’aldosterone
a riprendersi sodio, anziché scambiarlo con gli idrogenioni lo scambia con il potassio (K). La conseguenza di
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ciò è che in tutti i casi in cui si ha una condizione di iperaldosteronismo, si ha un eccesso di sodio in tutti i
liquidi organici e una tendenza a perdere potassio, si parla di ipocaliemia. Questo fenomeno non è positivo
perché quando la caliemia, cioè la concentrazione ematica di potassio, scende al di sotto di un certo valore
soglia accade che, posto che tutti i tessuti eccitabili funzionano grazie all’entrata di sodio dentro la cellula e
all’uscita di potassio, aumenta l’eccitabilità delle cellule eccitabili. Tra le cellule eccitabili ci sono i neuroni,
le cellule muscolari lisce e scheletriche, i cardiomiociti e le cellule del sistema di conduzione cardiaco. In
caso di ipereccitabilità di queste cellule si possono avere delle contratture a livello nervoso che il cervello
non riesce a controllare. Invece a livello cardiaco si scardina l’equilibrio che fa si che il nodo del seno
scarichi con la frequenza necessaria, si scardina l’equilibrio in base al quale i singoli cardiomiociti si
contraggono (il combinato disposto dell’arrivo dell’impulso e della contrazione “ad ondate” dei
cardiomiociti dall’apice del cuore verso la base è indispensabile per l’efficienza e l’efficacia della sistole
ventricolare), con il risultato che insorge fibrillazione: i cardiomiociti non si contraggono più in maniera
ordinata, ma in maniera disordinata. La fibrillazione atriale non porta di per sé a morte, ma aumenta
terribilmente la formazione di trombi, che possono andare ad occludere qualche vaso arterioso, determinando
un infarto a livello periferico; la fibrillazione ventricolare è invece una condizione molto più grave, che è
incompatibile con la vita, in quanto la contrazione delle fibre avviene in maniera da non generare una forza
sufficiente a spingere sangue.
A livello gastroenterico l’ipocaliemia determina un aumento dell’attività gastroenterica, che quindi
rappresenta una sorta di segnale di allarme utile per risalire a questa condizione.
Ruolo dell’ADH:
Ciascun tubulo è circondato da un interstizio, la cui osmolarità è equivalente a quella all’interno del tubulo. Il
liquido interstiziale, in quanto contiene ioni, in particolare sodio, è caratterizzato da una sua osmolarità, che
corrisponde a circa 295 mOsm/L. Se l’osmolarità di una soluzione aumenta, l’aumentata concentrazione dei
soluti richiama acqua, mentre se l’osmolarità diminuisce l’acqua abbandona la soluzione.
Come già detto, l’osmolarità che si misura all’interno del tubulo è esattamente la stessa che si misura a
livello del liquido interstiziale che lo circonda esternamente, in quanto le cellule del tubulo immettono
nell’interstizio sodio e acqua, non soltanto sodio o soltanto acqua, quindi gli ambienti interno e esterno del
tubulo sono isosmotici.
Tuttavia nelle porzioni dell’ansa, del tratto ascendente e del tubulo contorto distale, il tubulo permette la
fuoriuscita di sodio ma non di acqua, quindi ci si aspetterebbe che la parte ascendente del tubulo sia
circondata da un ambiente ipertonico, ma ciò non accade: benché queste cellule immettano sodio
nell’interstizio, l’ambiente che le circonda non è ipertonico. Si deduce che il sodio fuoriuscito nell’interstizio
è stato diluito da acqua. Infatti il sodio appena immesso nell’interstizio dal tratto ascendente del tubulo viene
annacquato da acqua proveniente dal tubulo collettore.
Affinché ciò accada è necessario l’intervento di un altro ormone. Infatti il tubulo collettore è composto da
cellule molto simili da quelle del tratto ascendente e del convoluto distale, che però non risentono dell’azione
dell’aldosterone, non avendo recettori per quest’ormone, ma presentano recettori per l’ormone antidiuretico,
ADH, anche detto vasopressina. Quest’ormone è prodotto e conservato in granuli di secrezione da un
piccolo gruppo di neuroni ipotalamici, che innervano direttamente un endotelio capillare. Al bisogno, questi
neuroni secernono questi granuli di ADH nei capillari della neuroipofisi. Questo gruppo di neuroni
ipotalamici sono raggruppati in una famiglia di neuroni che nell’insieme forma il nucleo sopraottico della
neuroipofisi. L’ADH agisce in diversi distretti, tra i quali il rene, dove agisce esclusivamente su recettori di
superficie delle cellule del tubulo collettore, inducendo una reazione a cascata di eventi biochimici, che
arriva alle acquaporine, abbondantemente espresse a livello di queste cellule. Le acquaporine permettono il
passaggio dell’acqua dal tubulo collettore all’interstizio soltanto in presenza di ADH, senza il quale queste
cellule non funzionano.
L’ADH facilita l’uscita dell’acqua da dentro il tubulo collettore all’esterno, ma questo sistema funziona e si
compie soltanto se all’esterno c’è sodio libero. Tuttavia il sodio recuperato dal tratto discendente non è
libero, perché è già legato con acqua, che lui stesso ha attratto e indotto ad uscire: il sodio libero è quello
fuoriuscito dal tratto ascendente del tubulo, che determina un ambiente ipertonico attorno a questa porzione
di tubulo.
All’arrivo dell’ADH, esso agisce sulle cellule del tubulo collettore, permettendo il passaggio di acqua che,
attratta dal sodio presente nell’interstizio, fuoriesce e determina la diminuzione dell’osmolarità di
quest’ambiente, che così raggiunge i livelli dell’ambiente intorno al tratto discendente del tubulo. Infatti
l’ADH determina la fuoriuscita di acqua, ma non di sodio, in quanto rende possibile il passaggio di acqua
attraverso le acquaporine. Alla base di questo meccanismo c’è la differenza di struttura tra il tratto
ascendente, permeabile al sodio ma non all’acqua, e il tubulo collettore, permeabile all’acqua ma non al
sodio.
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Non ci sono condizioni di iperproduzione di ADH, ma esistono condizioni in cui quest’ormone non viene
secreto, in seguito ad un disturbo a livello dell’ipotalamo, deputato a produrre ADH. In questo caso l’acqua
non può abbandonare il tubulo collettore per essere attratta dal sodio dell’interstizio, ma continua il suo
tragitto verso il dotto papillare, poi i calici minori, i calici maggiori, ecc., fino ad essere eliminata; questa
condizione è patologica e prende il nome di diabete insipido, “diabete” in quanto il soggetto, perdendo molta
acqua con le urine, ha sete, esattamente come il soggetto diabetico, “insipido” in quanto l’urina risulta dolce,
perché presenta zucchero (si capirà più avanti il perché). Non si può sopravvivere con il diabete insipido, il
soggetto muore disidratato.
Regolazione della secrezione di ADH:
Chiaramente deve esistere una regolazione a livello dei neuroni ipotalamici che producono ADH, i quali non
possono produrlo continuamente.
Se non si introduce acqua per molte ore e se la temperatura ambientale è elevata, l’urina prodotta è poca, in
quanto per compensare la perdita di liquidi avvenuta tramite sudorazione e perspiratio insensibilis, viene
trattenuta più acqua, e scura, perché se viene ridotta la componente acquosa dell’urina, essa si concentra (in
clinica spesso si effettua il test di concentrazione delle urine, che consiste nel sottoporre il paziente a diverse
ore di non introduzione di liquidi, per poi raccogliere l’urina, che viene analizzata allo scopo di misurare
alcuni parametri, che danno informazioni molto importanti per capire se il rene del soggetto ha la capacità o
meno di concentrare le urine). In queste condizioni il rene compensa trattenendo acqua, ma comunque si ha
una perdita netta di acqua. Ciò significa che, se non vengono introdotti liquidi, posto che una parte di acqua
viene eliminata con la perspiratio insinsibilis (la traspirazione) e con la sudorazione, posto che una parte di
acqua viene eliminata attraverso la respirazione, i liquidi organici tendono a concentrarsi, ad esempio i
liquidi interstiziali, e tra questi anche quello dei neuroni del nucleo sopraottico: dopo un certo tempo
vengono a trovarsi bagnati da un liquido interstiziale ipertonico, cioè molto concentrato. Questo evento
rappresenta il segnale per queste cellule di secernere nel sangue ADH.
In questo sistema esiste anche un meccanismo di inibizione. Infatti in seguito alla secrezione di ADH, esso
agisce sul tubulo collettore e lo induce a riassorbire acqua, quindi l’acqua va nell’interstizio e torna in
circolo; di conseguenza si diluisce l’interstizio, che a sua volta diluisce il sangue, che a sua volta diluisce il
liquido interstiziale che esso stesso produce, tra cui quello dei neuroni del nucleo sopraottico, il quale quindi
diventa ipotonico. Questo rappresenta il segnale per smettere di secernere ADH.
Riassorbimento obbligatorio e facoltativo:
Nell’ambito del complessivo riassorbimento di liquidi da parte del rene, compresi i tubuli collettori, si
possono distinguere un riassorbimento obbligatorio e un riassorbimento facoltativo.
Il riassorbimento obbligatorio è quello operato dal tubulo convoluto prossimale e dal tratto spesso
discendente, è costitutivo e non è regolato da niente, ma permette di assorbire “soltanto” il 70%.
Il resto, cioè il riassorbimento di sodio senza acqua a livello del tratto ascendente e del tubulo contorto
distale, che determina riassorbimento di acqua a livello del tubulo collettore, è definito riassorbimento
facoltativo, che consiste in un riassorbimento di quantità variabile, in base alla temperatura, all’attività fisica,
all’idratazione, ecc.. Questo tipo di riassorbimento è sottoposto ad una regolazione di tipo chimico, in modo
tale che, ad esempio, se il soggetto si dimentica di bere, viene prodotta una maggiore quantità di ADH, per
far riassorbire una quantità di acqua maggiore e urinare meno, così da compensare il difetto di introduzione
di liquidi con un aumento del risorgimento renale di liquidi. Viceversa, se il soggetto introduce troppa acqua,
questi liquidi non possono essere mantenuti all’interno, in quanto aumenterebbe la massa circolante e il
cuore dovrebbe spingere con maggiore forza, quindi viene ridotta la produzione di ADH.
In particolare la quantità di ultrafiltrato su cui è possibile giocare equivale a circa il 7%.
Il sistema di riassorbimento facoltativo permette di gestire in maniera facoltativa la quantità di acqua da
riassorbire o da eliminare, in funzione delle circostanze ambientali: in questo senso il rene controlla
l’equilibrio idrico-salino.
Carico tubulare massimo:
Il tubulo contorto prossimale e la parte discendente spessa riassorbe il 70% di acqua e sodio in maniera
costitutiva; queste cellule non hanno soltanto questo ruolo, ma anche quello di riassorbire dall’ultrafiltrato
glomerulare ioni bicarbonato (HCO3+), vitamine insolubili, glucosio, che passano momentaneamente
nell’ultrafiltrato ma non devono essere eliminati.
Tuttavia, ad esempio nel caso del glucosio, queste cellule non hanno una capacità infinita di riassorbimento.
Se un soggetto presenta una glicemia a digiuno di circa 70-75 mg/100 mL si trova in condizioni normali, ma
se questa è di 150 mg/100 mL il soggetto si trova in una condizione di diabete franco. In questo caso anche
nell’ultrafiltrato ci sarà una concentrazione di 150 mg/100 mL, le cellule del tubulo contorto prossimale e del
tratto spesso discendente riescono comunque a riassorbilo tutto, per cui se si analizzano le urine, queste in
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ogni caso non presenteranno glucosio. Tuttavia se la glicemia è di 180 mg/100 mL queste cellule non sono
più in grado di riassorbirlo tutto, in quanto il limite è 150-160 mg/100 mL, e il glucosio in eccesso viene
perso con le urine, determinando la condizione chiamata glicosùria.
Tutto ciò si esprime dicendo che le cellule del tubulo convoluto prossimale e della parte discendente spessa
hanno un carico tubulare massimo per il glucosio: fino a circa 150-160 mg/100 mL di glicemia, che
significa la stessa concentrazione nel liquido interstiziale, quindi nell’ultrafiltrato, queste cellule riassorbono
tutto il glucosio, oltre non riescono, quindi la restante parte viene persa con le urine.
Un paziente che perde glucosio con le urine presenta tutta una serie di problemi: innanzitutto ha meno
glucosio da consumare a fini energetici; inoltre, siccome il glucosio è igroscopico, in caso di perdita di
glucosio si ha anche perdita di acqua, motivo per il quale il soggetto diabetico è scompensato e per cui a
valori elevati di glicemia, 300-400-500 mg/100 mL, si ha rischio che il soggetto muoia per disidratazione;
infine l’eccesso di glucosio determina la produzione di AGES (Advanced Glycation End-products), che
producono stati infiammatori cronici deleteri per il microcircolo.
Nell’ultrafiltrato glomerulare sono presenti anche amminoacidi, anche per i quali esiste un carico tubare
massimo, e piccole proteine plasmatiche, quelle che pesano meno di 35 kDa e hanno un diametro inferiore a
6 nm, tra cui tutti gli ormoni proteici e i fattori di crescita. Questi elementi non possono essere persi, quindi
le cellule del tubulo contorto prossimale e del tratto spesso discendente le riassorbono, in seguito ad una serie
di processi enzimatici che le frammentano (non viene recuperata, ad esempio, insulina nella sua struttura
definitiva, ma gli amminoacidi che derivano dalla sua demolizione). Per questo motivo nelle urine non
devono essere presenti proteine, nel caso contrario significa che il rene non funziona bene o è in atto
un’infezione.
L’albumina merita un discorso a parte: essa è una proteina fibrosa e a causa della sua morfologia, per
oltrepassare la membrana basale è necessario che arrivi ad essa con un particolare orientamento, altrimenti
non riesce ad oltrepassarla. Stocasticamente quindi l’albumina, sebbene in quantità limitata, è presente
nell’ultrafiltrato, ma viene tuttavia anch’essa recuperata e i suoi amminoacidi riciclati.
Le cellule del tubulo hanno quindi una funzione vitale, infatti agiscono in maniera costitutiva.
Riassorbimento del calcio:
Le cellule del tubulo convoluto distale, sotto l’azione dell’aldosterone, recuperano sodio senza acqua
attraverso lo scambio inizialmente con idrogenioni, che rappresenta un vantaggio, e se necessario in seguito
anche con potassio.
Queste cellule sono strutturate per riassorbire anche lo ione calcio, sotto l’azione di un altro ormone, il
paratormone, PTH, l’ormone prodotto dalle ghiandole paratiroidi, che serve a facilitare l’assorbimento
intestinale del calcio, a riassorbire il calcio fissato nelle ossa agendo sugli osteoclasti e, agendo a livello
renale, induce le cellule del tubulo convoluto distale a riassorbire calcio, che viene riimmesso nel sistema.
VASCOLARIZZAZIONE DEL NEFRONE CORTICALE:
L’arteriola afferente, figlia dell’arteria interlobulare, si ramifica a formare un glomerulo, che viene avvolto
nel doppio strato, foglietto parietale e foglietto viscerale, della capsula di Bowman; in seguito dal polo
vascolare del corpuscolo renale emerge l’arteriola efferente. L’arteriola efferente in uscita fa quello che fa
una qualsiasi arteriola, cioè si capillarizza, ma mentre l’afferente dà origine ad un numero molto limitato di
capillari, l’efferente si ramifica e dà origine ad un numero elevatissimo di capillari, che si dispongono intorno
a tutti i tubuli di quella regione, cioè intorno al tubulo convoluto prossimale, al tratto discendente spesso, al
tratto discendente sottile, all’ansa di Henle, al tubulo ascendente, al tubulo convoluto distale e al tubulo
collettore, a formare una rete a mo’ di “gabbia di canarino”. Questi capillari prendono il nome di capillari
peritubulari, il sangue che percorre la rete da essi formata si muove inizialmente verso il basso, cioè verso
l’ansa, per poi risalire: questa rete pericapillare è presente dal corpuscolo all’ansa, si dispone parallelamente
al tratto discendente e ascendente del tubulo, quindi disegna una specie di parabola con una parte discendente
e una parte ascendente. Questo sangue finisce in venule compagne delle arterie interlobulari, le quali vanno a
finire nelle vene arcuate, per poi fuoriuscire.
Il significato morfo-funzionale di questa organizzazione è duplice: mentre in un qualsiasi altro organo i
capillari hanno le funzioni di assicurare l’afflusso di nutrienti e eliminare le sostanze di rifiuto, nel rene i
capillari peritubulari, ex arteriole efferenti, dei nefroni corticali hanno la doppia funzione di nutrire le cellule
dei tubuli ed eliminare le sostanze di rifiuto e di riprendere le sostanze utili finite nell’interstizio a causa del
riassorbimento delle cellule dei vari tubuli, in particolare del tubulo contorto prossimale e del tratto
discendente spesso, per poi rimetterle in circolo, il tutto grazie a questa disposizione strategica. Infatti i
liquidi e le sostanze recuperate, una volta finite nell’interstizio, devono tornare in circolo, e lo fanno
passando per gradiente all’interno di questi capillari.
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Nefrone iuxtamidollare:
Se si fa una sezione di un rene perfuso e la si colora con ematossilina-eosina, laddove ci si aspetta di vedere
una piramide di Malpighi si osserva una struttura chiara. Ciò significa che se si guardasse la stessa struttura
prima della perfusione, si noterebbe un colore rosa intenso per via della presenza di sangue, quindi si intuisce
che a questo livello sono presenti molti vasi sanguigni. Tuttavia, se invece di fare una sezione lungo l’altezza
della piramide si fa una sezione trasversale, si osserva tutta una serie di strutture circolari, che corrispondono
ad un sistema di tubuli, alcuni dei quali riempiti con sostanza di colore rosso, quindi si deduce essere vasi,
ma non si osservano corpuscoli renali. Essendo queste strutture circolari tagliate allo stesso modo, e stessa
cosa vale per sezioni seriate, si deduce che ciascuna di queste strutture corrisponde alla sezione traversa di un
tubulo, che o sta salendo o sta scendendo, e alcuni di essi sono vasi, in particolare capillari.
Siccome nella midollare non si individua nemmeno un corpuscolo, automaticamente non sono presenti
nemmeno tubuli contorti, né prossimali né distali, in quanto sia a livello dei nefroni corticali sia dei nefroni
iuxtamidollari si trovano tutti attorno al corrispettivo corpuscolo renale. Ovviamente si possono trovare
sezioni di tubuli collettori e, se si compie la sezione in prossimità della papilla renale, si individuerebbero
anche condotti papillari. Quindi la midollare è sostanzialmente composta da tubuli, con qualche vaso
capillare.
I tubuli dei nefroni iuxtamidollari non sono esattamente uguali ai tubuli dei corpuscoli corticali, perché
prevalgono le porzioni sottili. Tuttavia ciò non significa necessariamente che il calibro interno sia minore,
infatti le cellule che li compongono, invece di essere piramidali con apice tronco, tendono al cubico, quindi è
lo spessore della parete che è minore, ma il calibro rimane costante, tranne laddove sono presenti microvilli.
Questa diversa morfologia tra nefroni corticali e iuxtamidollari rimanda intuitivamente ad una differenza di
funzione.
Convenzionalmente quando si disegna l’immagine schematica di un lobulo renale, si rappresenta la corticale
adiacente alla base della piramide, in genere non si rappresenta la corticale delle colonne di Bertin, cosa che
può trarre in inganno: la midollare è “abbracciata”, ai lati, dalla corticale delle colonne di Bertin, che tuttavia
presenta esclusivamente corpuscoli di tipo iuxtamidollare, cioè con i tratti discendente e ascendente sottili.
Ciò significa che nella midollare del rene, di tratti discendenti e ascendenti spessi ce ne sono pochi, perché
sono tutti localizzati in prossimità della base della piramide.
La funzione dei tubuli sottili dei nefroni iuxtamidollari è stata scoperta per serendipità, in seguito ad un
evento che portò alla conclusione che la midollare fosse ipertonica rispetto alla corticale, presentava più
soluto disciolto nel liquidi da essa contenuti, che con molta probabilità poteva essere costituito da ioni,
conclusione che fu poi confermata. Studi successivi dimostrarono che la midollare è infatti più ricca in ioni
di quanto non sia la corticale, tuttavia l’ipertonicità non è uniforme dalla base all’apice della piramide, è
molto maggiore a livello dell’apice della piramide e poi decresce sino alla base. In particolare alla base della
piramide si ha una concentrazione di 295 mOsm/L, mentre all’apice della piramide si ha una concentrazione
di 1200 mOsm/L. Il valore di 295 mOsm/L è tipico dell’osmolarità della corticale, di un capillare, di
un’arteriola afferente, di un’arteriola efferente, ecc., della corticale. Tuttavia, dall’apice alla base della
piramide non si ha un gradiente continuo, cioè che varia progressivamente in maniera direttamente
proporzionale, ma un gradiente discontinuo di osmolarità. In particolare la distribuzione degli strati in
termini di osmolarità è di tipo logaritmo in base 10.
MECCANISMO DI MOLTIPLICAZIONE E SCAMBIO CONTROCORRENTE:
Tratto discendente sottile:
La parte discendente sottile dei tubuli dei nefroni della midollare è liberamente permeabile a sodio e acqua,
vale a dire che se è presente una soluzione iperconcentrata che percorre questo tubulo in discesa, mentre
questa scende il sodio e l’acqua vanno all’equilibrio con l’interstizio, cioè esce acqua ed entra sodio, in modo
tale che dato un punto qualsiasi di questo tubulo, l’osmolarità che si misura dentro al tubulo è esattamente la
stessa che si misura fuori, nell’interstizio, allo stesso livello. Se tuttavia dal dato sperimentale si ottiene che
lungo l’altezza della piramide di Malpighi è presente un gradiente di concentrazione su base logaritmo in
base 10, succede che per ogni livello si ha una certa osmolarità, uguale dentro e fuori a parità di livello, ma
diversa da quella successiva, che è diversa da quella successiva e così via.
Quindi una colonnina di ultrafiltrato che imbocca il tubulo discendente, questa all’inizio presenta
un’osmolarità di circa 295 mosmoli/L, poi progredisce e il valore della sua osmolarità aumenta, ma continua
ad essere uguale a quello dell’ambiente interstiziale che circonda quel punto di tubulo. Ciò accade perché,
nel percorrere questa distanza, per ogni frazione di spazio percorsa avviene uno scambio acqua-ioni tale per
cui, ad esempio, l’acqua contenuta nella colonnina esce verso l’esterno, attratta dal sodio che sta fuori;
contestualmente un certo numero di ioni sodio entrano dentro al tubulo, perché le soluzioni devono
raggiungere l’equilibrio. Questo fa sì che, mentre all’altezza della base della piramide si ha un’osmolarità di
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295 mosmoli/L, a circa metà si ha un’osmolarità di circa 300-400 mosmoli/L (certamente non corrisponde
alla la metà della differenza tra il valore maggiore e quello minore, in quanto la scala è logaritmica). Il
risultato è che a livello dell’ansa propriamente detta si ha una soluzione di circa 1200 mosmoli/L, quindi
molto concentrata.
Tratto ascendente sottile:
Ad un certo punto questa soluzione molto concentrata imbocca la via del tratto ascendente del tubulo, che
tuttavia è permeabile al sodio ma non all’acqua, a causa dell’assenza di acquaporine. Di conseguenza nel
momento in cui questa soluzione inizia a risalire il tratto ascendente, le prime cellule del tubulo si trovano ad
essere bagnate da una soluzione 1200 mosmoli/L. Queste cellule non sono permeabili all’acqua, quindi
l’acqua non passa, ma sono invece permeabili al sodio e, dato che l’alta osmolarità della soluzione è
determinata dall’alta concentrazione di sodio, queste cellule immettono molto sodio nell’interstizio
circostante, per cui questa colonnina di ultrafiltrato in questa regione perde una certa quantità di sodio,
mentre l’acqua rimane costante.
In seguito, sotto la spinta dell’ultrafiltrato che sta arrivando dal basso, questa colonnina si sposta verso l’alto,
dove incontra cellule identiche a quelle del primo tratto, che compiono la stessa azione, cioè prendono sodio
e lo immettono nell’interstizio, ma ne trovano una quantità inferiore rispetto a prima, perché un po’ di sodio
già è stato perso nel primo tratto.
Stessa cosa vale per il tratto successivo, e così via, fino ad arrivare alla base della piramide, dove
l’ultrafiltrato bagna cellule con le stesse proprietà, ma che hanno ancora meno sodio a disposizione da
immettere nell’interstizio.
Si conclude che il gradiente, massimo a livello dell’apice della piramide e minimo a livello della base della
piramide, si genera grazie al fatto che le cellule della parte ascendente del tubulo sono permeabili al sodio ma
non all’acqua, essendo queste cellule prive di acquaporine. Questo prende il nome di meccanismo di
moltiplicazione e scambio controcorrente. Tramite questo meccanismo si crea un gradiente ipertonico dalla
base all’apice della piramide.
Riassorbimento nel nefrone iuxtamidollare:
L’ultrafiltrato glomerulare che entra nel tratto discendente del tubulo a 295 mosmoli/L, si trova in un
ambiente progressivamente più ipertonico, che attrae acqua, la quale da dentro va fuori, e una piccola
quantità di sodio entra, il tutto fino a raggiungere l’equilibrio. Si potrebbe pensare che la quantità di acqua
che esce dal tubulo è proporzionale all’iperosmolarità dell’ambiente, progressivamente maggiore, ma ciò non
è così, perché una certa quantità di acqua già esce nei primi strati, quindi la concentrazione dell’ultrafiltrato
aumenta e si avvicina a quella dell’ambiente via via che esso percorre il tratto discendente: questo spiega il
motivo per cui a livello dell’ansa l’ultrafiltrato presenta un’osmolarità di 1200 mosmoli/L, all’equilibrio con
l’ambiente. In seguito le cellule successive non presentano acquaporine, ma possono estrudere sodio con
dispendio energetico, e questo genera il gradiente di osmolarità. Si ha così una sorta di circolazione di acqua
e sodio: nel tratto ascendente il sodio esce, nel tratto discendente il sodio rientra nel tubulo e esce acqua.
L’acqua che esce lungo il tratto discendente del tubulo non annacqua l’interstizio, e quindi non dissipa il
gradiente, perché nel frattempo il cuore continua a pompare, determinando un contestuale filtraggio di
sangue e quindi produzione di ultrafiltrato, che comporta un continuo apporto di sodio che viene immesso
nell’interstizio dal tratto ascendente del tubulo. Inoltre, e soprattutto, il tratto ascendente del tubulo nella
midollare è accompagnato per tutto il suo tragitto da una uguale ansa capillare, composta da capillari che
provengono dalle arteriole efferenti dei corpuscoli iuxtamidollari, chiamate arterie rette spurie, ma anche da
arteriole che nascono direttamente dall’arteria arcuata o dall’arteria interlobulare, chiamate arterie rette vere.
Nella corticale si ha una rete di capillari, grossomodo disposta a formare un’ansa, mentre nella midollare non
si ha tanto una rete, quanto capillari che scendono e poi risalgono, a formare vere e proprie anse, parallele
all’ansa complessiva che fa ciascun tubulo. Questa disposizione vascolare è strategica e ha la funzione di
riprendere sodio e acqua dall’interstizio e immetterlo in circolo. Questo assicura che in ogni midollare ci sia
quella certa quantità di acqua e quella certa quantità di sodio, più o meno costanti, quindi quella certa
osmolarità. In questo modo gran parte di ciò che è stato riassorbito riprende la via del sangue.
Conclusione di ciò è che l’organizzazione architettonica del rene, corticale e midollare, nefroni corticali e
nefroni iuxtamidollari, vasi disposti a rete nella corticale e vasi disposti ad ansa nella midollare, compresa la
citoarchitettura, è finalizzata a recuperare il 99% di ultrafiltrato glomerulare prodotto nelle 24 ore e ad
eliminarne l’1% circa sotto forma di urina, utile ad eliminare l’eccesso di acqua, ioni e prodotti del
catabolismo delle proteine, urea e ione ammonio, e degli acidi nucleici, acido urico.
Questo permette di avere un tasso ematico di acido urico normale, che nel caso aumentasse, iperuricemia,
potrebbe rappresentare un segno di disturbo della funzione renale, ma potrebbe rappresentare anche un
segno di eccessiva distruzione di cellule (non certo di globuli rossi, che non hanno nucleo). In più l’acido
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urico quando è in eccesso nel sangue, è in eccesso anche nell’interstizio, con conseguente precipitazione di
sali, detti urati, formando delle pietruzze che irritano localmente e inducono una risposta infiammatoria,
determinando una condizione che prende il nome di gotta, che causa delle vere e proprie artriti acute, oltre al
problema di impegnare eccessivamente il rene.
Non si possono mantenere elevati certi valori nel sangue di urea e ione ammonio, in quanto oltre certi livelli
sono tossici per molti tessuti, in primis per il sistema nervoso centrale, e possono determinare coma uretico.
Queste sostanze devono quindi essere eliminate, e ciò avviene tramite l’acqua, quindi una certa quantità di
acqua deve comunque essere eliminata. Per ottenere la purificazione di 5 litri di sangue, considerato che
nelle 24 ore nei 2 reni passano circa 1400 litri di sangue, il sangue deve circolare più volte nei 2 reni durante
le 24 ore. Durante queste circolazioni si produce un ultrafiltrato che è in grandissimo eccesso rispetto a
quello da eliminare, ma questo rappresenta un grande vantaggio: in questo modo l’evento di purificazione
del sangue viene diluito nelle 24 ore, attraverso il trucco di far circolare numerose volte la stessa quantità di
sangue attraverso i 2 reni. Questo sistema tuttavia presenta il “limite” di generare una grande quantità di
ultrafiltrato, che impone un sistema di recupero del 99% di esso, ma questo si rivela essere un ulteriore
vantaggio, in quanto tale sistema permette di riassorbire più o meno acqua, in base alle condizioni
ambientali, all’idratazione, all’attività fisica, ecc..
I capillari renali, in particolare i capillari tubulari, in particolare quelli della midollare, sono talmente
importanti che in corso di gravi emorragie è fondamentale immettere liquidi nel sistema circolatorio del
soggetto, perché altrimenti si corre il rischio, tra i più temuti, che diminuendo il flusso di sangue, quindi di
ossigeno e nutrienti, che arriva ai capillari renali, soprattutto quelli della midollare, i tubuli muoiono
improvvisamente, in una condizione che prende il nome di necrosi tubulare acuta, che rappresenta un
evento di codice rosso in quanto può mettere fuori uso i reni.
SISTEMA RENINA/ANGIOTENSINA/ALDOSTERONE:
La regione corticale del rene al microscopio si distingue da quella midollare per la presenza di corpuscoli.
Nell’ambito del corpuscolo si distingue il tubulo contorto prossimale dal distale in quanto il primo presenta
cellule alte, che aggettano con microvilli dentro al lume, mentre il secondo presenta cellule meno piramidali
e più cubiche e meno microvilli, così che il calibro interno si presenta più grande.
A livello del polo vascolare del corpuscolo si evidenzia, in una o più sezioni, la presenza di un tubulo, che
sicuramente è convoluto distale, in quanto è molto vicino al corpuscolo e ha un calibro maggiore a causa
della scarsa presenza di microvilli. La parete del tubulo convoluto distale, in un punto preciso perfettamente
a ridosso dell’arteriola afferente, presenta alcune cellule piccole, più piccole delle cellule ad esse vicine, cosa
che si deduce dalla presenza di numerosi nuclei ammucchiati. Queste cellule sono state chiamate per questo
cellule della macula densa, cioè “macchia scura”. Vista la diversa struttura è presumibile che tali cellule
svolgano una diversa funzione. Infatti la macula densa nel suo complesso è un chemocettore, cioè un
recettore sensibile alla variazione di una certa sostanza chimica disciolta nel fluido che bagna quella cellula.
A bagnare queste cellule c’è l’ultrafiltrato glomerulare e, siccome si trovano a livello del tubulo convoluto
distale, si trovano nella regione corticale del rene; in questa regione non ci sono gradienti, ma tutto è
all’equilibrio, quindi dentro a questa parte del tubulo si ha un liquido isotonico con l’interstizio, che è a sua
volta isotonico con il sangue dei vasi presenti a questo livello. Ogni volta che diminuisce la tonicità
dell’ultrafiltrato glomerulare che sta passando in quel punto, queste cellule “si allarmano”.
Non è un caso che le cellule della macula densa si trovino a ridosso dell’arteriola afferente: la porzione di
arteriola afferente a contatto con le cellule della macula densa presenta una struttura diversa da ciò che sta
prima e ciò che sta dopo. Infatti ci si aspetterebbe di trovare un endotelio che riposa su una membrana basale,
che a sua volta poggia su una tonaca media fatta di fibrocellule muscolari lisce disposte circolarmente e
all’esterno una sottile avventizia. Invece la tonaca media di quel tratto di arteriola afferente non presenta
fibrocellule muscolari lisce, le quali sono sostituite con cellule mioepitelioidi, ricche in granuli che
contengono quantità più o meno standard di renina, un enzima litico inattivo, in particolare una proteasi (non
è un ormone), che è inattivo fino a che rimane all’interno dei granuli di secrezione. Si tratta di cellule che
prendono il nome di cellule iuxtaglomerulari, in quanto si trovano in quella porzione di arteriola afferente
che sta per entrare nel glomerulo.
La renina rimane all’interno dei granuli fino a che il liquido che percorre la porzione di tubulo a contatto con
l’arteria presenta un’osmolarità di 295 mosmoli/L, e questo riguarda sia i nefroni corticali sia i nefroni
iuxtamidollari. Se tuttavia l’osmolarità si abbassa al di sotto di un certo valore soglia, questo rappresenta un
segnale affinché le cellule della macula densa comunichino alle cellule iuxtaglomerulari di secernere nel
sangue questo enzima.
La renina ha un unico bersaglio, un unico substrato, che è un proormone prodotto dal fegato,
l’angiotensinogeno, parola composta da “angio”, che sta per “vaso”, “tensi”, che sta per “tensione”, “geno”,
che sta per “generare”, quindi etimologicamente questa parola significa “generatore si una sostanza capace di
variare la tensione (la pressione) nei vasi”, in particolare la pressione sanguigna.
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L’angiotensinogeno è assolutamente inattivo, fino a che non incontra la renina, che agisce su di esso, lo taglia
in un punto e lo trasforma in angiotensina I.
Tuttavia neanche l’angiotensina I è ancora attiva, per attivarla è necessaria un’altra proteasi, dalla sigla ACE,
che sta per “Angiotensin I-Converting Enzyme", cioè “enzima di conversione del’angiotensina I”, in quanto
tagliando un altro pezzo dell’angiotensina I, la trasforma in angiotensina II, biologicamente attiva.
L’ACE viene prodotto e rilasciato dalle cellule endoteliali dei capillari alveolari. Infatti il sangue che entra
nei polmoni, ammesso che abbia angiotensina I, se non è stato secreto ACE, continua ad avere in uscita dai
polmoni angiotensina I; viceversa, nelle condizioni in cui è necessario il funzionamento di tale sistema, il
sangue in uscita dai polmoni è ricco di ACE. La liberazione di ACE è costante, ma in assenza di angiotensina
I l’ACE non ha alcuna funzione.
L’angiotensina I si genera soltanto se la cellula iuxtaglomerulare ha immesso renina nell’arteriola afferente,
ma affinché questa immetta renina deve aver ricevuto lo stimolo dalla cellula della macula densa, che
avviene soltanto se la concentrazione dell’ultrafiltrato glomerulare che sta passando in quel punto del tubulo
sia l di sotto di 295 mosmoli/L. Se questo evento avviene si ha il risultato che l’ACE converte l’angiotensina
I in angiotensina II.
L’angiotensina II compie 2 azioni:
- far aumentare la pressione, in particolare la pressione diastolica, quella responsabile del nome
“angiotensina”, nonché quella scoperta per prima;
- indurre la secrezione di aldosterone: l’angiotensina II è il più potente stimolatore della secrezione di
aldosterone.
Azione sull’aldosterone dell’angiotensina II:
L’aldosterone è un ormone mineralcorticoide secreto da una parte della corteccia del surrene, la cui funzione
a livello renale è quella di agire sul tubulo convoluto distale per permettere un assorbimento regolato di sodio
senza acqua, in realtà uno scambio con idrogenioni prima, potassio dopo (prima e dopo in relazione alla
quantità di aldosterone: se ce n’è troppo si arrivano a scambiare anche ioni potassio, altrimenti no).
L’aldosterone, insieme agli altri ormoni secreti dalla corteccia del surrene, viene secreto in quantità basale
sotto l’azione di un ormone ipofisario chiamato ACTH, adenocorticòtropo, qualche ora prima del risveglio.
Questo assicura una secrezione basale, ma la parte di corteccia di surrene che secerne aldosterone è sensibile
anche, anzi molto di più, all’angiotensina II, che è il più potente tra gli stimolatori della liberazione di
aldosterone.
Quindi sotto l’azione dell’angiotensina II si ha liberazione di aldosterone, che va in circolo e agisce sul
tubulo convoluto distale per aumentare la quantità di sodio da recuperare. Recuperando una maggiore
quantità di sodio, senza acqua, questo va nell’interstizio e aumenta l’attrazione di acqua dal tubulo collettore.
Dopo un certo numero di cicli, a livello delle cellule della macula densa torna a scorrere un liquido isotonico,
quindi queste cellule smettono di avvisare le cellule che producono renina, che non viene più prodotta,
quindi il processo si interrompe in quanto non avviene l’attivazione dell’angiotensinogeno in angiotensina I.
Questo sistema nel complesso ha il nome di sistema renina/angiotensina/aldosterone, si innesca soltanto
allorché l’ultrafiltrato glomerulare che sta passando nel tubulo contorto distale è ipotonico rispetto
all’interstizio circostante. Le cellule della macula densa, infatti, interpretano l’ipotonicità come una
diminuzione di sodio nell’organismo, quindi attivano il sistema affinché venga aumentata la quantità di sodio
senza acqua da riassorbire, che viene quindi recuperato.
Questo sistema è di per sé positivo, perché aiuta a ristabilire l’equilibrio; tuttavia se la corteccia del surrene
smette di funzionare correttamente e immette una eccessiva quantità giornaliera di aldosterone, si produce un
danno, in quanto viene riassorbito un eccesso di sodio in assenza di bisogno e si ha perdita di potassio, come
già detto, fenomeno tipico dell’iperaldosteronismo, possibile risultato, ad esempio, di un tumore benigno
della corteccia del surrene.
Azione vascolare dell’angiotensina II:
In realtà l’angiotensina II prende questo nome dalla prima funzione che è stata imputata ad essa, cioè quella
di agire in genere sulle arteriole, ma in particolare sull’arteriola efferente, allo scopo di ridurne il calibro.
Quindi nel caso in cui si ha angiotensina II nel sangue, viene recuperata una maggiore quantità di sodio senza
acqua, che già di per sé determina un aumento della volemia, ma oltre a questo, l’angiotensina II agisce
sull’arteriola efferente, allo scopo di ridurne il calibro. Tuttavia, se viene ridotto ulteriormente il calibro
dell’arteriola efferente, si ha l’immediato effetto di aumento di sangue a livello del corpuscolo, con
conseguente aumento della pressione complessiva all’interno del glomerulo. L’immediato effetto di ciò è
l’aumento della formazione di ultrafiltrato, perché aumenta la pressione netta di filtrazione, quindi il sangue
in uscita dall’efferente risulta più concentrato, in quanto ha perso una maggior quantità di acqua. Quindi in
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tutti i sistemi dei capillari, quello della rete pericapillare della corticale e i capillari ad ansa della midollare,
sono percorsi da un sangue molto più concentrato, che di conseguenza è più capace di richiamare acqua
dall’interstizio, acqua che porta con sé sodio.
Anche tale sistema è di per sé positivo, perché al bisogno serve a recuperare quanto più acqua possibile, cosa
che è possibile fare soltanto a livello del rene. Questo accade, ad esempio, in tutte le emorragie imponenti.
Nei casi di ipertensione renale, a causa di un eccesso di renina, che rappresenta il punto critico, il sistema è
scompensato, quindi il soggetto ha una pressione elevata, che rappresenta un carico inutile per il ventricolo
di sinistra, quindi il medico cerca di abbassare la pressione ad esempio tramite diuretici, che agiscono sul
tubulo renale e inducono a urinare; non sempre i farmaci diuretici funzionano, quindi si ricorre agli ACEinibitori, allo scopo di ridurre la quantità di angiotensina II prodotta, per ridurre la secrezione di aldosterone
e quindi l’attivazione di questo sistema.
Il sistema renina/angiotensina/aldosterone funziona in diverse circostanze, ad esempio in caso di grave
emorragia, oltre i 500 mL in poco tempo, in cui il sistema richiama acqua dagli interstizi per sostenere la
volemia (l’acqua è fondamentale in quanto rappresenta il solvente del plasma). Questo sistema non è
perfetto. Infatti l’arteriola efferente, sotto l’azione dell’angiotensina II, ha un calibro ridotto a meno della
metà; la pressione nel corpuscolo è elevatissima e il flusso a valle è minore, quindi nell’unità di tempo,
siccome i capillari che escono dai corpuscoli hanno la doppia funzione di riprendere le sostanze eliminate ma
anche nutrire, si riduce la quantità di glucosio e ossigeno a disposizione delle varie cellule di cui si compone
il rene. Queste condizioni sono sopportabili per qualche decina di minuti, dopodiché le cellule muoiono: si
ha necrosi tubulare acuta, che rappresenta una condizione di elevata emergenza, in quanto è un evento
irreversibile, i tubuli non si ricostituiscono più. Ma senza arrivare a questo, il sistema renina/angiotensina/
aldosterone è responsabile della condizione chiamata ipertensione renale, dovuta al fatto che, in genere sotto
l’azione del sistema simpatico, si ha un eccesso di contrazione dell’arteriola efferente. L'ipertensione renale
rappresenta la forma di ipertensione più difficile da combattere.
PRODUZIONE EPO:
Un’altra funzione del rene coinvolge una serie di cellule, che assomigliano a fibroblasti, disposti
nell’interstizio del rene, che producono e secernono un fattore di crescita chiamato eritropoietina, EPO. Si
tratta di un fattore di crescita, che agisce sulle cellule mieloidi per stimolare la produzione di globuli rossi,
che comporta un aumento dell’ematocrito, cioè il rapporto tra parte corpuscolata e parte liquida del sangue.
Questo fattore di crescita è essenziale per l’eritropoiesi: in mancanza di eritropoietina si ha difetto di
produzione di globuli rossi, quindi anemia. Corollario di ciò è che i malati cronici renali sono anche anemici.
L’eccesso di eritropoietina provoca un ematocrito elevato, quindi una capacità del soggetto di trattenere
ossigeno. Un ematocrito troppo elevato fa sì che il sangue si ispessisce, che si traduce in un aumento di
carico a livello del ventricolo sinistro (ma anche destro).
AZIONE DEL FATTORE NATRIURETICO ATRIALE:
A livello del tubulo collettore, e probabilmente anche a livello del tubulo contorto distale, indipendentemente
dal tipo di corpuscolo, corticale o iuxtamidollare, agisce un altro ormone. Finora gli ormoni considerati sono
due: l’ormone antidiuretico, ADH, e l’aldosterone (in realtà esiste anche l’angiotensina II, che però non
agisce sul tubulo); esiste un altro ormone, che si chiama fattore atriale natriuretico, ANF, il quale viene
prodotto e liberato da alcuni cardiomiociti dell’atrio di destra, tanto che anche il cuore è una ghiandola
endocrina, e agisce in parte sul tubulo contorto distale e in gran parte sul tubulo collettore. La sua azione è
opposta a quella dell’aldosterone, è il principale antagonista dell’aldosterone, e quindi anche dell’ADH: fa in
modo che venga riassorbito meno sodio e meno acqua. In altre parole, agendo su queste cellule, fa sì che più
sodio, quindi più acqua, rimanga nel tubulo contorto distale e nel tubulo collettore, quindi più acqua finisca
nel bacinetto renale e quindi in vescica. Questo fattore viene secreto allorché la parete atriale destra si dilata
oltre un certo valore soglia ad ogni diastole atriale; infatti durante la diastole atriale l’atrio si riempie di
sangue e nel caso aumenti la volemia, per qualunque motivo, ad ogni diastole atriale l’atrio destro risulta più
dilatato, perché deve accomodare più sangue. Questa dilatazione è lo stimolo meccanico che rappresenta il
segnale affinché questi cardiomiciti secernano il fattore atriale natriuretico, che va in circolo e agisce sul
tubulo collettore per favorire la natriùresi, cioè l’eliminazione tramite urine di sodio, quindi anche di acqua,
che determina un abbassamento della volemia.
FUNZIONI DEL RENE IN SINTESI:
1) L’equilibrio idrico-salino può essere scardinato, come nel caso di idratazione imponente e in breve
tempo, che tende a diluire sangue e liquido interstiziale, ma siccome non si può sopravvivere in tali
condizioni, i neuroni ipotalamici cessano di produrre ADH, il che determina un mancato riassorbimento
di acqua a livello renale, quindi venie urinata: il sistema si squilibra momentaneamente, ma si riequilibra
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2)
3)
4)
5)
subito dopo. Allo stesso modo, infatti, se non viene introdotta acqua si ha un duetto di acqua, quindi un
eccesso di sodio, di conseguenza viene aumentata la secrezione di ADH nel tentativo di recuperare
acqua. Da ciò deriva il concetto che il rene è l’organo principale dell’equilibrio idrico-salino.
Il rene, facendo passare “n” volte una certa quantità di sangue per il rene, da 1400 a 1500 litri nelle 24
ore, cioè 1 mL per ogni nefrone nelle 24 ore, aumenta la probabilità statistica che una molecola di rifiuto
venga eliminata. Quindi la funzione principale del rene è la depurazione del sangue dalle sostanze di
rifiuto.
La terza funzione del rene è quella determinata dal fatto che a livello di tutti i tubuli convoluti distali
agisce l’aldosterone, che inizialmente prende sodio e immette nell’ultrafiltrato idrogenioni, tanto che il
pH delle urine normalmente non deve superare 5,5. Ciò significa che il sistema toglie idrogenioni
dall’organismo e li elimina tramite le urine, e questo è un processo fondamentale: il rene è un organo
importante ai fini del mantenimento dell’equilibrio acido-base.
La quarta funzione è incentrata sul sistema renina/angiotensina/aldosterone, che da un punto di vista
morfologico corrisponde all’insieme di macula densa, cellule iuxtaglomerulari, che producono e
secernono renina, una proteasi (non è un ormone), la quale ha come substrato un’unica molecola,
l’angiotensinogeno, un pro-ormone prodotto e secreto dall’epatocita. L’angiotensinogeno necessita di
essere attivato dalla renina, per essere trasformato in angiotensina I, che a sua volta è inefficace e
necessita di attivazione da parte dell’enzima di conversione dell’angiotensina I, ACE, prodotto e secreto
dall’endotelio dei capillari polmonari. L’angiotensina II è attivo e ha 2 funzioni: agisce sull’arteriola
efferente, aumentandone lo stato di contrazione, ed è il più potente stimolatore della liberazione di
aldosterone. La prima azione fa sì che il calibro dell’arteriola efferente diminuisce, così da aumentare la
pressione complessiva dei capillari che stanno a monte, compresa la componente della pressione utile di
filtrazione, che in queste condizioni, invece che essere 10-12 mmHg, è molto maggiore, così che
nell’unità di tempo si produce più ultrafiltrato glomerulare, con la conseguenza che il sangue in uscita si
concerta, così che lungo i capillari, sia della corticale che della midollare, è più prono a richiamare
acqua, aumentando la volemia e quindi sostenendo la pressione, in particolare quella diastolica.
L’aldosterone, invece, agisce sul tubulo convoluto distale per incrementare il recupero di sodio senza
acqua, sistema che si innesca allorché l’ultrafiltrato che vi scorre è ipotonico, cioè inferiore a 295
mosmoli/L, interpretando quest'informazione come segnale di ipotonicità dell'intero organismo. Il
recupero di sodio determina la ristabilizzazione dell’equilibrio, così che dopo un certo tempo
l’ultrafiltrato che scorre nel tubulo contorto distale torna ad essere isotonico, quindi le cellule deputate al
riassorbimento di sodio senza acqua si inattivano e il sistema torna all’equilibrio. Il risultato complessivo
finale è l’aumento della pressione, prima diastolica, poi anche sistolica, quindi il rene è un organo che
controlla la pressione arteriosa.
La quinta ed ultima funzione del rene è quella che riguarda la produzione di eritropoietina, quindi il rene
è un organo che contribuisce all’eritropoiesi.
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PELVI:
La pelvi o bacino nasce dalla giustapposizione di 3 ossa, 2 pari, le ossa dell’anca, e 1 impari, posteriore e
mediano, l’osso sacro.
L’osso dell’anca è composto da 3 ossa, ileo, ischio e pube. Esso ha la forma di “8” ritorto, con la parte
superiore espansa, l’ileo, a forma di trapezio, una parte anteriore anteriore, il pube, fatto di una branca
superiore o orizzontale e di una branca verticale (che di fatto non è verticale) o inferiore, e per questo a
forma di “L” capovolta. La branca inferiore del pube si continua senza soluzione di continuità nel terzo osso,
l’ischio, che completa posteriormente, in basso e in dietro la cosiddetta branca ischiopubica, fino ad arrivare
ad una parte piuttosto espansa, la tuberosità ischiatica (quando si è seduti ci si poggia sulle 2 tuberosità
ischiatiche). Dopo la tuberosità ischiatica l’ischio risale, per andare a connettersi con una delle basi dell’ileo.
A causa di questa organizzazione si viene a creare una parte inferiore e mediale dell’osso dell’anca che
presenta un grande foro, il foro otturatorio, il più grande foro dell’organismo. Si chiama foro otturatorio in
quanto risulta chiuso da una membrana, la membrana otturatoria.
Il margine superiore dell’ileo prende il nome di cresta iliaca, in quanto è convessa verso l’alto ed è rugosa,
frastagliata, perché vi si inseriscono 2 muscoli molto utilizzati, e siccome l’osso è plastico si formano questi
rilievi irregolari responsabili della rugosità. L’estremo anteriore della cresta iliaca prende il nome di spina
iliaca anteriore superiore, mentre l’estremo posteriore prende il nome di spina iliaca posteriore superiore.
Al di sotto di ciascuna di queste spine, anteriore e posteriore, si trovano una spina iliaca anteriore inferiore
e una spina iliaca posteriore inferiore, quindi ci sono coppie di spine agli estremi.
Lungo la branca pubica superiore è presente un rilievo che prende il nome di eminenza ileopettinea.
Andando sempre più verso la linea di mezzo si osserva che a circa 2 cm lateralmente dalla sinfisi pubica è
presente un altro rilievo, quasi puntiforme, un tubercolo, che prende il nome di tubercolo pubico.
Se si guarda di profilo un osso dell’anca si nota che subito sopra la tuberosità ischiatica l’ileo si risolve in
un’altra spina, la spina ischiatica.
Assemblando queste 3 ossa si ottiene una formazione a mo’ di bacinella, da cui il nome bacino o pelvi, che
ricorda un imbuto in cui il tubo in uscita non è sottile, ma largo. Infatti guardando dal davanti e dall’alto si
nota un confine molto preciso, che corrisponde al confine inferiore interno dell’ala dell’ileo e si continua con
la branca orizzontale del pube, a disegnare una linea, detta linea arcuata o linea innominata, una a destra e
una a sinistra. Le 2 linee arcuate dell’ileo disegnano nel complesso una parte si ellisse, che si continua e si
completa posteriormente con l’ala del sacro e il promontorio del sacro, disegnando così una specie di
circonferenza, all’interno della quale è presente un grande foro, che prende il nome di stretto superiore della
pelvi. Si tratta di un luogo di passaggio, dal momento che immette dalla grande pelvi, tutto ciò che si trova
sopra il piano immaginario poggiato sullo stretto superiore della pelvi, alla piccola pelvi, che si trova sotto lo
stretto superiore della pelvi. Quindi la grande pelvi rappresenta la parte espansa dell’imbuto, mentre la
piccola pelvi rappresenta il tubo in uscita, che tuttavia non è un tubo, in quanto è molto più largo.
La piccola pelvi è delimitata dalle 2 branche ischiopubiche, di destra e di sinistra, dal resto dell’ischio, e
dalla faccia anteriore del sacrococcige. Il sacrococcige infatti non ha nulla a che fare con la grande pelvi, ma
soltanto con la piccola pelvi.
Il piano immaginario poggiato sullo stretto superiore della pelvi è inclinato in basso e in avanti di circa 60°.
Questo è un concetto importante, poiché determina che organi pelvici, maschili e femminili, proiettano sulla
parete anteriore dell’addome, informazione molto utile nella palpazione e nell’ecografia addomino-pelvica.
Dalla sinfisi pubica si dipartono le 2 branche ischiopubiche, che però divergono andando in dietro, in basso e
lateralmente, disegnando una “V” capovolta, a formare il cosiddetto angolo sottopubico. Proseguendo in
dietro, in basso e lateralmente diventano quasi parallele al piano terra, inclinate di 10°-15°. A questo livello si
riscontra la prima differenza sessuale: nel maschio l’angolo sottopubico è regolarmente acuto, cioè meno di
90°, mentre nella femmina è regolarmente ottuso, cioè maggiore di 90°, in quanto nella femmina nell’angolo
sottopubico si localizza il canale del parto, quindi è necessario più spazio.
STRETTO INFERIORE DELLA PELVI:
Se si guarda da dietro uno scheletro si nota che esistono una serie di strutture dell’osso dell’anca e del sacro
che concorrono a formare nello scheletro una specie di apertura, composta da 2 triangoli con la base in
comune, che rappresenta lo stretto inferiore della pelvi ed è il luogo dove ciascuno di noi “finisce”. Come
punti di riferimento si prendono dal davanti il limite inferiore e posteriore della sinfisi pubica, del disco, tra
le 2 branche ischiopubiche, e le 2 branche ischiopubiche, fino alla tuberosità ischiatica. Da qui si possono
disegnare 2 linee immaginarie che vanno dalle tuberosità ischiatiche all’apice del coccige, a destra e a
sinistra. Si ottengono così 2 triangoli con la base in comune, uno anteriore e uno posteriore. In particolare nel
quale soltanto l’apice è formato da osso, mentre le linee che vanno dall’apice alle 2 tuberosità ischiatiche, i
luoghi dove finiscono le branche ischiopubiche, e la base sono linee immaginarie. La linea immaginaria che
unisce le 2 tuberosità ischiatiche, che rappresenta la base dei triangoli, prende il nome di linea bisischiatica.
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In un soggetto in posizione clinostatica e supina (a pancia in su), con le cosce divaricate, cioè in posizione
ginecologica, si possono disegnare gli stessi triangoli. Questi limiti, in parte reali e in parte immaginari,
rappresentano nell’insieme lo stretto superiore della pelvi, che è il confine caudale del corpo, la parte più
distale (che non sono gli arti inferiori, in quanto gli arti si sono evoluti soltanto in seguito).
Tutti gli organi che si trovano sopra il piano immaginario dello stretto superiore sono organi addominali, ad
esempio nelle fosse iliache si localizzano in genere a destra il cieco, l’appendice vermiforme e la parte
ascendente del colon, a sinistra la parte discendente del colon e l’inizio del colon ileopelvico, a destra e a
sinistra qualche ansa dell’intestino tenue, ma si tratta di organi addominali. Viceversa tutti gli organi che si
trovano sotto al piano immaginario poggiato sullo stretto superiore della pelvi sono organi pelvici
propriamente detti.
Dismorfismi sessuali:
In questa regione si individuano numerose differenze sessuali tra gli organi. Ad esempio nel maschio
l’angolo sottopubico è acuto e lo stretto superiore tende più alla circonferenza che non all’ellisse, mentre
nella femmina l’angolo sottopubico è ottuso e lo stretto superiore è ellittico, con asse maggiore trasverso, in
seguito ad un allontanamento dei 2 acetaboli, differenza sessuale molto importante, anch’essa finalizzata al
parto in quanto al momento del parto in genere la testa del feto, che ha una forma ovoidale, cioè con un asse
maggiore degli altri, in particolare quello che va dal vertex (dove si trova la “chierica”) fino al mento, si
impegna nello stretto superiore della pelvi. È infatti importante che ci sia spazio sufficiente ad accogliere la
testa, poiché in un neonato le dimensioni della testa sono pari a quelle del tronco e a quelle degli arti
inferiori, oltre al fatto che la testa è relativamente dura, mentre il resto è acqua: il neonato è al 95% formato
da acqua, che è deformabile, a differenza della testa, che nel feto è leggermente comprimibile, ma non più di
tanto, oltre che leggermente comprimibile, grazie alla presenza delle “fontanelle”, cioè spazi a livello di
alcune articolazioni del neurocranio utili al restringimento del cranio durante il parto. In particolare il feto
impegna l’asse maggiore della testa lungo l’asse trasverso dello stretto superiore. Stabilita questa differenza è
stato necessario adattare tutto il resto, ad esempio i grandi trocanteri del ferme sono più sporgenti nella
femmina che non nel maschio, caratteristica che dà alla femmina la morfologia del bacino e delle cosce
tipica, che rappresenta un forte richiamo sessuale.
Un’altra differenza tra maschio e femmina è che l’osso sacro nella femmina è meno verticale, cioè più
parallelo al piano terra, che nel maschio, caratteristica che determina una maggiore distanza tra coccige e
sinfisi pubica, quindi un allargamento del canale del parto.
PAVIMENTO PELVICO:
In realtà, guardando dal davanti la pelvi dopo aver asportato visceri, vasi e nervi non è visibile lo stretto
inferiore della pelvi, a causa del fatto che esso è chiuso da un piano muscolare, chiamato genericamente
pavimento pelvico, che sostiene gli organi pelvici. Esso è composto da 2 strati sovrapposti, uno superiore e
uno inferiore, il primo chiamato diaframma pelvico, il secondo chiamato perineo.
Il pavimento pelvico è composto da 2 metà simmetriche, destra e sinistra, e risulta incompleto, a differenza
del diaframma addominale, che è di fatto completo, sebbene forato. Prende il nome di “diaframma” per
assonanza con il diaframma addominale, che tuttavia è concavo verso il basso e separa torace da addome,
mentre questo è concavo verso l’alto, molto più piccolo e sostiene e separa gli organi pelvici dagli organi
sottostanti, gli organi perineali.
Diaframma pelvico:
Il piano muscolare costituito dal diaframma pelvico è attraversato necessariamente da colon retto e uretra
nella femmina e nel maschio, dalla vagina nella femmina. Ciascuna metà di diaframma pelvico è fatta di 3
muscoli, per un totale di 6, chiamati pubococcigeo, ileococcigeo e ischiococcigeo.
Il muscolo ischiococcigeo, uno a destra e uno a sinistra, è un muscolo a ventaglio di cui il manico coincide
con la spina ischiatica e la parte espansa va ad inserirsi al coccige e all’ultima parte del sacro. Questo
muscolo va da un osso iper-rigido, la spina ischiatica, ad un osso altrettanto rigido, il sacrococcige, quindi la
sua contrazione non può generare un accorciamento. Infatti la contrazione della muscolatura scheletrica può
anche avvenire senza accorciamento, cioè essere isometrica (“stessa lunghezza”), caso in cui il muscolo
comunque si indurisce e aumenta il suo ventre. La contrazione del muscolo ischiococcigeo è isometrica ed ha
la funzione di opporre resistenza all’aumento della pressione intraddominale, così che essa si scarichi
soltanto a livello dei visceri cavi. Questa coppia di muscoli si contrae automaticamente ad ogni aumento di
pressione intraddominale, ma può anche essere contratta volontariamente.
Il muscolo pubococcigeo, uno a destra e uno a sinistra, si chiama così in quanto si diparte dalla faccia
posteriore della branca orizzontale del pube, quindi ai lati della sinfisi pubica, e si dirige apparentemente
verso il coccige, così da disegnare complessivamente una “V” parallela al piano terra aperta in avanti.
Tuttavia il muscolo pubococcigeo di fatto non raggiunge il coccige, ma si inserisce ad un tralcio fibroso teso
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tra il coccige e la faccia posteriore del canale anale, che prende il nome di rafe anococcigeo (un rafe è una
struttura di natura connettivale cui in genere si inseriscono muscoli), quindi aggira e passa molto vicino al
canale anale.
Non tutto il muscolo pubococcigeo raggiunge il rafe anococcigeo: una parte delle sue fibre si fermano prima,
finiscono al davanti del canale anale. Se si osserva questa coppia di muscoli sembra che le fibre più mediali
di destra si continuino con le fibre più mediali di sinistra, ma ciò non è possibile, in quanto per ciascun
muscolo scheletrico vale la regola per cui entrambi i suoi 2 capi devono essere connessi a strutture fisse o
rese fisse. Infatti ciò che succede è che le fibre di destra passano a sinistra e quelle di sinistra passano a
destra, intrecciandosi lungo la linea di mezzo, al davanti del canale anale.
Anche il muscolo pubococcigeo complessivamente inteso, cioè sia le fibre più laterali sia quelle più mediali,
di destra e di sinistra, si contrae in via riflessa ogni volta che aumenta la pressione intraddominale, quindi da
questo punto di vista i 2 muscoli pubococcigei svolgono la stessa funzione degli ischiococccigei: offrono
resistenza all’aumento di pressione intraddominale. Tuttavia, mentre nel muscolo ischiococcigeo questa è
l’unica funzione, nel pubococcigeo è una di 3 funzioni: oltre alla contrazione isometrica, si può avere un
reale accorciamento dei 2 muscoli, che comporta 2 eventi separati e distinti. Il primo, legato
all’accorciamento del muscolo, è che, essendo questi muscoli disposti quasi parallelamente al piano terra,
quando questo muscolo si contrae il rafe anococcigeo viene tirato in avanti e leggermente verso l’alto, ma
siccome esso si trova posteriormente all’apertura anale, l’apertura anale viene tirata leggermente in avanti e
verso l’alto. Il secondo, legato all’aumento del ventre del muscolo, è che quando questo muscolo si accorcia
e il ventre muscolare si ingrossa, con la conseguenza che il canale anale che si trova in mezzo viene
costretto. Infatti questo muscolo si utilizza tutte le volte in cui insorge lo stimolo di defecare ma non si può
defecare, cioè permette di rinviare a defecazione ad un momento più opportuno (sebbene non sia l’unico
sistema del genere). La dimostrazione di ciò è che un bambino che comincia a controllare la defecazione per
prima cosa impara ad utilizzare i muscoli pubococcigei. Questa rappresenta la funzione principale di questo
muscolo, pertanto dal punto di vista della vita di relazione è terribilmente importante.
Inoltre tra i 2 muscoli pubococcigei, al davanti del retto, c’è uno spazio che nella femmina accoglie 2
condotti, il condotto vaginale e l’uretra al davanti, nel maschio soltanto l’uretra. Quando si contrae
fortemente il muscolo pubococcigeo nella femmina accade che, siccome il ventre muscolare si ingrossa e
questo spazio si riduce, si ha uno strozzamento anche del canale vaginale. Questo è importante in 2 momenti:
l’accoppiamento sessuale e il parto. Durante l’accoppiamento sessuale può succedere che la femmina che
inconsciamente ha deciso di non essere penetrata contragga fortemente questa muscolatura, che determina lo
strozzamento del condotto vaginale, per cui il pene non può in nessun modo penetrare quella vagina. Questa
condizione si chiama dispareomia, rappresenta un disturbo del comportamento sessuale femminile, ma
accade anche durante le violenze sessuali. Durante il parto, invece, deve succedere esattamente il contrario,
cioè il canale vaginale si deve ampliare quanto più possibile, quindi è necessario rilasciare i muscoli
pubococcigei per ridurre la resistenza al passaggio.
Il terzo muscolo prende il nome di muscolo ileococcigeo. Questo nome è fuorviante in 2 sensi: primo perché
neanche il muscolo ileococcigeo si inserisce al coccige, ma anch’esso si inserisce al rafe anococcigeo;
secondo perché questo muscolo non si origina dall’osso ileo (né potrebbe: esso si trova al di sopra della linea
arcuata che definisce lo stretto superiore dellapelvi). Infatti anche questo muscolo è a ventaglio, triangolare,
però è disposto in maniera antiparallela all’ischiococcigeo: il manico si trova a livello del rafe anococcigeo,
che ne rappresenta l’inserzione, mentre la parte espansa si origina ad una struttura fibrosa chiamata, arco
tendineo o tendine arcuato, il quale in realtà è un ispessimento lineare di una fascia connettivale che ricopre
un altro muscolo, che non ha nulla a che fare con il diaframma pelvico, il muscolo otturatorio interno. La
fascia che copre questo muscolo prende il nome di fascia otturatoria, la quale lo copre soltanto dall’interno.
Il muscolo otturatore interno si inserisce lungo il contorno superiore interno del gran forame otturatorio per
poi le sue fibre aggirare l’ischio, fuoriuscire dal bacino e inserirsi ad una protuberanza ossea del femore,
quella mediale, chiamata piccolo trocantere. Si tratta di un muscolo che fa parete, copre la parete laterale
della piccola pelvi, a destra e a sinistra, inoltre andando al piccolo trocantere, quando si contrae determina la
rotazione esterna del femore e avvicina il femore alla linea di mezzo, quindi è un muscolo extra-rotatorio e
adduttore (“portare a”) del femore.
In genere i muscoli scheletrici sono o coperti o avvolti da fasce muscolari, in questo caso la fascia otturatoria
si limita a coprire la faccia interna posteriore del muscolo, ma non gli passa davanti. Questa fascia si
ispessisce a formare l’arco tendineo che rappresenta un luogo utile per l’origine del muscolo ileococcigeo.
Per ottimizzare la contrazione del muscolo ileococcigeo è necessario prima irrigidire il muscolo otturatorio
interno, fissandolo e fissando la sua fascia, che diventa un utile punto di origine per l’ileococcigeo.
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La sua contrazione ne determina un accorciamento, quindi contribuisce a offrire resistenza all’aumento di
pressione intraddominale, ma soprattutto è sinergica con quella del muscolo pubococcigeo: la sua funzione è
strozzare il canale anale e la vagina.
Inoltre, come nel caso del pubococcigeo, anche questo muscolo tira verso l’avanti e verso l’alto il rafe
anococcigeo, l’insieme del muscolo pubococcigeo e del muscolo ileococcigeo forma un’unica unità
funzionale che prende il nome di muscolo elevatore dell’ano, uno a destra e uno a sinistra: “muscolo” perché
è un muscolo, “elevatore dell’ano” perché la contrazione di queste coppie di muscoli fa sì che il canale anale,
e quindi l’apertura anale, venga tirata leggermente in avanti ma anche verso l’alto. Tuttavia le funzione
importante di questi 2 muscoli non è quella di elevare l’ano, bensì quella di opporre resistenza all’aumento di
pressione intraddominale, così che i visceri non fuoriescano e la pressione si eserciti su di essi, e quella di
strozzare il retto (e nella femmina la vagina), così da rimandare la defecazione. Nel complesso il diaframma
pelvico ha la forma della parte espansa di un imbuto, che tuttavia presenta 2 strutture in uscita nel maschio e
3 nella femmina.
Il muscolo pubococcigeo che si contrae nella femmina determina una costrizione della vagina, mentre nel
maschio lo spazio anteriore al canale anale è occupato dall’uretra, il condotto che fuoriesce dalla vescica
urinaria. Tuttavia, nel maschio l’uretra è circondata da un organo sessuale maschile, la prostata, quindi
l’uretra attraversa la prostata. Di conseguenza nel maschio la contrazione del muscolo pubococcigeo, in
realtà del muscolo elevatore dell’ano, determina aumento del ventre e accorciamento della distanza, a spese
della prostata e indirettamente dell’uretra. Tuttavia in genere, durante la contrazione di questi muscoli, non si
ha costrizione dell’uretra, in quanto la distanza è notevole, ma in un soggetto con ipertrofia prostatica
benigna, condizione molto diffusa nei maschi dai 55-60 anni in avanti, in cui si ha un aumento delle
dimensioni della prostata, la contrazione di questi muscoli comprime lateromedialmente, cioè verso la linea
di mezzo, la prostata, che a sua volta comprimerà l’uretra. Il risultato è che, se un soggetto prostatico
rimanda la minzione, accade che al momento di urinare ha difficoltà nel far uscire l’urina, dovuta al fatto che
se il muscolo elevatore dell’ano, soprattutto nella componente pubococcigea, è stato a lungo contratto, si ha
difficoltà nel rilasciarlo, con la conseguenza che al momento della minzione la vescica non si svuota
completamente, quindi dopo un certo tempo, circa mezz’ora, il soggetto ha bisogno di urinare nuovamente.
Sfintere volontario dell’ano:
Se si guarda dall’esterno e da dietro la regione pelvica si nota che tutt’intorno al canale anale è presente un
altro piano muscolare, che non è né il pubococcigeo né l’ileococcigeo. Il muscolo che si trova intorno al
canale anale è un’entità anatomica separata e distinta dal resto e prende il nome di sfintere volontario
dell’ano o sfintere volontario anale. L’aggettivo “volontario” è fondamentale in quanto a quel livello è
presente anche uno sfintere liscio, che nasce dall’ipertrofia dello strato muscolare interno della tonaca
muscolare dell’ultima parte del retto, esternamente al quale si trova lo sfintere volontario. Esso è composto
da tessuto muscolare scheletrico striato, appartiene al pavimento pelvico, ma non al diaframma pelvico, al
quale è sottostante, dunque è una struttura perineale, in particolare del perineo posteriore. L’apertura anale
non ha sezione circolare, ma ellittica con l’asse maggiore sagittale, e il muscolo volontario anale
apparentemente si dispone a circondare questo estremo del canale anale. Tuttavia non è possibile che un
muscolo scheletrico sia composto da fibre circolari o ellittiche, perché per definizione un muscolo scheletrico
necessita di almeno 2 punti di inserzione, rigidi o resi rigidi, altrimenti la sua contrazione risulta inefficace.
Non c’è eccezione a questa regola, infatti le fibre scheletriche dello sfintere anale non sono circolari, ma ve
n’è un gruppo sul lato di destra e uno sul lato di sinistra, e ciascun gruppo di fibre, dietro all’apertura anale e
davanti all’apertura anale, si incrocia con quelle controlaterali, un po’ come le fibre mediali del muscolo
pubococcigeo fanno al davanti del retto. Un’organizzazione del genere permette che quando queste fibre
vengono contratte la distanza tra le parti laterali dell’apertura anale si riduce e il ventre muscolare aumenta di
dimensioni, con il risultato che lo sfintere anale rimane strozzato. Questo meccanismo viene utilizzato allo
scopo di trattenere le feci, anche se in realtà esiste una gradazione al trattenimento delle feci: normalmente è
sufficiente l’azione dello sfintere volontario, quando lo stimolo a defecare aumenta aldilà di un certo valore
soglia viene chiamato in causa anche il muscolo elevatore dell’ano; tutto ciò avviene in automatico.
I punti fissi di inserzione delle fibre dello sfintere volontario dell’ano corrispondono in parte al rafe
anococcigeo, posteriormente all’apertura anale, e in parte ad un cercine (struttura sferica delle dimensioni di
un pisello) fibroso situato al davanti dell’apertura anale, il centro tendineo del perineo, anteriormente
all’apertura anale. Tuttavia questi punti non sono fissi e, affinché la contrazione si traduca nella costrizione
dell’apertura anale, necessitano di essere resi fissi. Il rafe anococcigeo può essere irrigidito in quanto è di
natura fibrosa, fa capo al coccige e, se si contrae il diaframma pelvico, in particolare il muscolo elevatore
dell’ano, si fissa in un punto più elevato e più ventrale il rafe anococcigeo, quindi questo punto diventa reso
rigido. Per irrigidire il centro tendineo del perineo è presente un altro meccanismo, di cui si dirà in seguito.
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Pelvi maschile:
In una sezione sagittale mediana di una pelvi maschile si osserva il promontorio del sacro, all’altezza del
quale, in profondità, si individua il disco intervertebrale tra L5 e S1, e anteriormente il disco fibroso della
sinfisi pubica, quasi parallelo al piano terra: il suo asse maggiore è inclinato in basso e soprattutto indietro. Il
piano immaginario che va dal promontorio del sacro a poggiare sulla parte superiore del disco fibroso della
sinfisi pubica coincide con il piano immaginario appoggiato sullo stretto superiore della pelvi: tutto ciò che
sta dietro e inferiormente a questo piano è piccola pelvi e gli organi contenuti sono organi pelvici; tutto ciò
che invece si trova sopra e al davanti di questo piano immaginario è addome e gli organi contenutivi sono
organi addominali. Come già detto, essendo questo piano inclinato di circa 60°, numerosi organi pelvici
proiettano sulla parete anteriore dell’addome, caratteristica importante sfruttata in sede di ecografia pelvica.
La pelvi maschile, a livello di contenuto, è diversa da quella femminile.
Nella pelvi propriamente detta esistono strutture comuni a maschio e femmina, mentre altre tipiche dell’uno
e dell’altro sesso. Gli organi pelvici comuni a maschio a femmina sono la vescica urinaria, il retto, la parte
pelvica del colon ileopelvico, la parte iniziale dell’uretra, la parte pelvica degli ureteri e qualche ansa ileale,
mentre gli organi pelvici maschili sono la prostata, le 2 ampolle deferenziali e le 2 vescichette seminali, tutti
organi riproduttori maschili.
In una pelvi maschile dal davanti verso il dietro lungo la linea sagittale mediana si colloca la vescica
urinaria, proprio dietro la sinfisi pubica, ma non a ridosso; dietro la vescica urinaria si collocano 2 coppie di
organi sessuali maschili, ogni coppia composta dall’ampolla deferenziale e dalla vescichetta seminale, una a
destra e una a sinistra; posteriormente a queste 4 strutture si posiziona il retto, in particolare l’ampolla
rettale, l’ultima parte del retto, chiamata così perché il retto per uscire si restringe, diventando canale anale,
circondato dallo sfintere volontario dell’ano, quindi la parte soprastante appare dilatata, a causa della
presenza di feci che frequentemente vi sono contenute; al di sotto della vescica urinaria si trova la prostata,
altro organo sessuale maschile, a forma di castagna, che circonda la prima parte dell’uretra ed è una
ghiandola tubulo-alveolare, cioè ha un’organizzazione microscopica del tipo di quella descritta nel sacco
alveolare di un polmone (nel maschio è presente un’unica ghiandola tubulo-alveolare, la prostata, nella
femmina anche, la ghiandola mammaria). La prostata durante la eiaculazione immette nell’uretra prostatica il
liquido prostatico, che si unisce al liquido della vescichette seminali per diluire e nutrire gli spermatozoi.
Tutti gli organi fin qui elencati sono organi pelvici, inferiormente ai quali nel maschio si trovano organi
perineali, che sono comunque organi pelvici ma, siccome si trovano al di sotto del piano del diaframma
pelvico, si trovano nel perineo. Essi sono il resto dell’uretra, le 3 radici del pene e la parte mobile del pene.
Pelvi maschile - descrizione generale:
Mentre l’ampolla rettale risulta relativamente dilatata dalla presenza di feci al suo interno, la vescica urinaria,
per convenzione internazionale, si descrive vuota, perché una vescica piena può assumere dimensioni molto
variabili. Complessivamente la vescica appare come un tetraedro, cioè una piramide a base triangolare,
quindi presenta 4 facce, tutte triangolari. Per motivi embriogenetici che si descriveranno in seguito, la faccia
posteriore della vescica è la base della vescica (faccia posteriore o base della vescica indicano la stessa
cosa), che guarda in dietro e leggermente verso il basso. La faccia superiore della vescica urinaria viene
chiamata volta della vescica, che nel maschio prende anche il nome di faccia intestinale, per il fatto che
sulla volta della vescica poggiano anse ileali, ma può poggiarvi anche la parte di sigma che fa una curva con
convessità anteriore, specialmente nei soggetti che presentano un colon sigma lungo. Nella vescica la volta
della vescica può apparire convessa verso l’alto a causa della presenza di urina, ma siccome la vescica si
descrive vuota, la volta della vescica è leggermente concava verso l’alto. Le restanti facce sono le 2 facce
anterolaterali, in quanto si trovano sui lati e convergono verso l’avanti, a disegnare qualcosa che somiglia la
poppa di una nave.
La porzione di uretra che attraversa la prostata, di lunghezza di circa 3 cm, è detta uretra prostatica.
Tra la base della vescica e il retto si trovano 2 coppie di elementi, disposti pressoché sullo stesso piano, che
nell’insieme disegnano 2 “V” aperte verso l’alto che giacciono l’una dentro l’altra, una “V” periferica che
contiene una “V” centrale, le ampolle deferenziali e le vescichette seminali.
L’ampolla deferenziale è la parte finale di un condotto, chiamato dotto deferente, uno a destra e uno a
sinistra, che congiunge, indirettamente, il testicolo corrispondente all’uretra prostatica. La porzione terminale
del dotto deferente cambia nome in quanto risulta dilatata, a formare una struttura che è stata chiamata
ampolla deferente. Questa formazione ha ragione di esistere dal fatto che nel maschio l’uretra prostatica, e
l’uretra in generale, non è soltanto un organo urinario, cosa che invece vale per la femmina, ma è anche un
organo genitale. Infatti durante la eiaculazione gli spermatozoi, a partenza dall’epididimo di un testicolo,
percorrono tramite il dotto deferente un tragitto passando dall’esterno del soma, sulla borsa scrotale,
all’interno, prima nella cavità addominale, poi nella pelvi, allo scopo poi di arrivare dietro la vescica
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urinaria, uno a destra e uno a sinistra, dove tendono ad avvicinarsi disegnando una “V”. Questo lungo
tragitto è dovuto al fatto che la spermatogenesi avviene ad una temperatura ambientale più bassa dei 37°C
corporei (non si conosce bene il motivo), quindi le 2 gonadi maschili si collocano fuori dalle grandi cavità
corporee (in un soggetto neonato affetto da criptorchidismo, in cui uno o entrambi i testicoli si trovano
ancora nell’addome o lungo il tragitto che dall’addome lo porta alla borsa scrotale, è necessario operare
chirurgicamente e portare il testicolo o entrambi nello scroto, affinché la spermatogenesi avvenga alla
temperatura inferiore di 37°C e sia quindi efficace).
Il dotto deferente comincia nello scroto, a livello del testicolo, come continuazione dell’epididimo, e
attraverso un canale che si descriverà entra nella cavità addominale, poi scende nella cavità pelvica
attraversando lo stretto superiore, per andare a finire dietro la vescica urinaria, uno a destra e uno a sinistra,
disegnando la “V” più interna dilatandosi a formare l’ampolla deferenziale.
Laddove finisce l’ampolla deferenziale, in un punto dietro la vescica, ciascun dotto deferente si specializza in
una formazione, la vescichetta seminale, che gli sta all’esterno, un po’ come la colecisti si differenzia a
partenza dal coledoco. Ma siccome l’ampolla deferenziale è una derivazione del dotto deferente, ad un certo
punto l’ampolla deferenziale e la vescichetta seminale vengono a condividere un condotto, che prende il
nome di dotto eiaculatore, per unione della parte più caudale dell’ampolla deferenziale con la vescichetta
seminale, anch’esso posto dietro a base della vescica urinaria, presenti in numero di 2, uno a destra e uno a
sinistra, che penetrano nella prostata e vanno a sboccare nell’uretra prostatica.
Il risultato è che durante la eiaculazione gli spermatozoi passano dall’epididimo al dotto deferente, arrivano
all’ampolla deferenziale e da qui nel dotto eiaculatore, che li immette nell’uretra prostatica.
La vescichetta seminale funziona soltanto durante la eiaculazione, sotto l’azione di stimoli del sistema
nervoso autonomo, in particolare sotto l’azione della componente parasimpatica. Essa immette nel liquido
spermatico che sta provenendo dal testicolo un fluido, il secreto, liquido seminale, che serve a diluire gli
spermatozoi, allo scopo di evitare che si formi un “tappo” di spermatozoi che poi avrebbero difficoltà ad
attraversare le varie parti dell’uretra, quindi per ridurre la resistenza al passaggio durante la eiaculazione.
Se si infila un dito dentro l’ampolla rettale di un soggetto maschio e si spinge in avanti, verso la sinfisi
pubica, attraverso la parete anteriore dell’ampolla rettale è possibile apprezzare la prostata e, spingendo il
dito più avanti e più in alto, le vescichette seminali e le ampolle referenziali, cioè quello che l’urologo
compie durante quella che si chiama esplorazione rettale in un maschio. In un’esplorazione rettale in un
maschio in condizioni normali e fisiologiche non si riesce ad apprezzare gran che, ma se la prostata è
ingrossata a seguito di un’infiammazione, prostatite, o se c’è un processo infiammatorio a carico
dell’ampolla deferenziale o della vescichetta seminale, si apprezzano tali strutture e viene suscitato dolore
nel paziente.
Mezzi di fissità della vescica:
- Peritoneo:
Il peritoneo copre la sola volta della vescica, in particolare il peritoneo che sta tappezzando la parete
anteriore dell’addome. Esso scende fino alla sinfisi pubica e si inflette per coprire la volta della vescica, che
quindi è da considerarsi un organo retroperitoneale. Tuttavia il peritoneo è molto flessibile, caratteristica che
permette l’ingrossamento della vescica in seguito al suo riempimento.
- Fascia vescicale o vescico-prostatica:
Il muscolo otturatorio interno è tappezzato da dentro da una fascia muscolare, la fascia otturatoria. Anche il
muscolo elevatore dell’ano è avvolto da sopra e da sotto da una fascia, che copre tutto il diaframma pelvico,
prende genericamente il nome di fascia pelvica parietale, in quanto i muscoli del diaframma pelvico ne
costituiscono la parete. Anche la fascia otturatoria fa parte della fascia pelvica parietale.
Ad un certo punto del suo decorso, la parte di fascia pelvica parietale che copre il muscolo elevatore dell’ano
dà origine ad una dipendenza, che va a coprire sui lati la prostata, poi si estende verso l’alto per coprire le
facce laterali e la base della vescica. Si viene così a costituire una fascia pelvica viscerale, perché sta a
contatto con dei visceri, che nello specifico prende il nome di fascia vescico-prostatica nel maschio, perché
ricopre la vescica e la prostata, e fascia vescicale nella femmina, perché ricopre soltanto la vescica.
Quindi la pelvi presenta una struttura ad imbuto grande, il muscolo elevatore dell’ano, dentro al quale si
trova un altra struttura, sempre a forma di imbuto ma più piccola, che nel maschio contiene prostata, uretra
prostatica e vescica urinaria, la fascia vescico-prostatica, e nella femmina soltanto la vescica, la fascia
vescicale. Infatti questa struttura ricopre la vescica soltanto a livello della base e delle facce laterali, non a
livello volta, perché, essendo composta da tessuto connettivale, ciò impedirebbe la distensione della vescica,
quindi anch’essa assume la forma di un imbuto. La volta della vescica infatti risulta coperta soltanto da
peritoneo, che invece ne permette la distensione in quanto non è di natura connettivale.
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La fascia vescico-prostatica (o vescicale) rappresenta uno dei mezzi di fissità della vescica e nel maschio
anche della prostata, in quanto essa da una parte è incollata a queste strutture e dall’altra è una dipendenza
della fascia pelvica parietale, che è fissa.
La fascia vescico-prostatica non aderisce direttamente alla vescica o alla prostata, ma si frappone uno spazio
riempito da tessuto connettivale e da una serie di vasi venosi che nel complesso formano nel maschio il
plesso vescico-prostatico, nella femmina il plesso vescicale. Questo è importante perché nella chirurgia della
prostata determina un inevitabile sanguinamento, da tenere in considerazione; inoltre nei casi di ipertrofia
prostatica può succedere che l’ingrossamento della prostata determini una compressione di queste vene, che
trasportano sangue refluo da prostata, vescica e pene, con conseguente stasi di sangue a monte, ad esempio a
livello del pene o a livello della regione che contiene la prostata, che può tradursi in una sensazione di
desiderio sessuale.
- Uretra:
Un altro mezzo di fissità della vescica è rappresentato dall’uretra: essa finisce, nel maschio come nella
femmina, all’esterno, attraversando un piano muscolare sottostante il diaframma pelvico, che la immobilizza,
quindi è fissa.
- Ureteri:
Gli ureteri che arrivano in vescica sono un ulteriore mezzo di fissità della vescica, in quanto sono immersi
nel retroperitoneo, quindi sono fissi.
- Fascia prevescicale:
Un altro mezzo di fissità della vescica è rappresentato dalla fascia prevescicale, da non confondersi con la
fascia vescicale. Letteralmente significa una fascia che sta al davanti della vescica, si trova tra la sinfisi
pubica e la vescica urinaria. Mentre la fascia vescicale è una dipendenza della fascia pelvica parietale, la
fascia prevescicale è ex peritoneo. La vescica urinaria a livello della volta è già ricoperta da peritoneo
parietale, che arriva da dietro, ma può arrivare anche da davanti, cioè dalla parete anteriore dell’addome,
quindi il peritoneo parietale che ricopre la volta della vescica non è altro che peritoneo che viene dall’alto,
scende, arriva alla sinfisi pubica, incontra l’ostacolo della volta della vescica e la ricopre.
Durante lo sviluppo embrionale il peritoneo parietale non si porta sulla volta della vescia, ma scende al di
dietro della sinfisi pubica, poi si ripiega perché incontra la parete del diaframma pelvico e torna su per
avvolgere dal davanti la vescica urinaria. La stessa cosa accade posteriormente alla vescica, tra la vescica e e
vescichette seminali, e tra le vescichette seminali e il retto. Infatti c’è un periodo della vita embrionale in cui
il peritoneo scende dall’alto e non si porta subito ad avvolgere la volta della vescica, ma prima si estende
dietro la sinfisi pubica, poi fa una conversione a “U”, copre l’aspetto anteriore della vescica per poi coprire la
volta della vescica, copre parte della base, risale su avvolgendo le vescichette seminali, scende di nuovo e
risale un’ultima volta avvolgendo il retto e proseguendo addossato alla aprete. Questa condizione tuttavia
non garantisce un solido fissaggio delle strutture avvolte, quindi, come succede per fissare il duodeno (il
duodeno ruota verso destra e l’ex foglietto di destra del mesoduodeno si fonde con il peritoneo parietale),
prolifera tessuto connettivale nello spazio tra i foglietti che sono affrontati all’interno dei vari spazi tra i
visceri in questione. Questi spazi, prima peritoneali, vengono riempito di connettivo e il peritoneo non
scende più in basso per risalire in alto, ma semplicemente passa dalla parete alla volta della vescica, da
questa alla parte superiore del retto ed infine alla parete posteriore.
In particolare lo spazio che si trova tra la sinfisi pubica e la vescica, prima peritoneale e ora connettivale,
prende il nome di spazio prevescicale. Questo spazio rimane, anche alla fine dell’embriogenesi, delimitato da
ex peritoneo, che ora prende il nome di fascia prevescicale, la quale ha le funzioni di fissare la vescica
urinaria alla faccia posteriore della sinfisi pubica e di creare una specie di ammortizzatore tra la vescica
urinaria e il duro della sinfisi pubica.
Lo spazio e la fascia prevescicale sono importanti per il chirurgo e l’urologo. Infatti in caso di ingrossamento
della prostata può essere necessario l’intervento chirurgico, al fine di ridurne le dimensioni. A tale scopo si
può tagliare la parete anteriore dell’addome, intervenendo dall’alto, oppure si può fare un intervento in
maniera trans-uretrale, sfruttando l’elasticità dell’uretra, quindi intervenendo da dentro. Tuttavia esiste anche
un altro accesso, che sfrutta proprio l’organizzazione anatomica dei questa regione, cioè tagliando la parete
anteriore dell’addome, entrando nello spazio prevescicale, tessuto connettivo, fino a raggiungere la prostata
lasciando integro il peritoneo.
- Elementi ex peritoneali:
In un soggetto maschio di qualunque età il peritoneo che viene dall’aver coperto la volta della vescica va a
coprire il fondo delle vescichette seminali, lambisce le ampolle deferenziali, arriva al retto e si ribalta verso
l’alto per coprire dal davanti il retto, ma non tutto. Infatti l’intestino retto comincia per convenzione
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all’altezza di S3 e può essere diviso in 2 parti, una parte superiore, coperta dal davanti da peritoneo, e una
parte inferiore, che con il peritoneo non ha niente a che fare dalla fine della vita embrionale in poi, perché nel
maschio si trova dietro le vescichette seminali, dietro le ampolle deferenziali e dietro la prostata, dove il
peritoneo non è presente. In questo senso il retto è un organo retroperitoneale, ma in qualche modo al davanti
del retto c’è peritoneo, sebbene soltanto nella parte superiore. Tuttavia durante la vita embrionale il peritoneo
che veniva dall’aver coperto la volta della vescica, andava in giù per un certo tragitto a coprire la base della
vescica, poi si ribaltava a coprire le vescichette seminali e le ampolle deferenziali, poi passava tra le ampolle
deferenziali e il retto, per infine ribaltarsi e coprire dal davanti quasi tutto il retto, con andamento
sinusoidale. Poi, rivelandosi questo peritoneo inutile, utilizzando il metodo utilizzato per il duodeno i 2
foglietti del peritoneo al davanti delle vescichette seminali e delle ampolle deferenti e i 2 foglietti dietro alle
vescichette seminali si incollano, ottenendo delle strutture utili per connettere le vescichette seminali e le
ampolle deferenziali, incollandole, alla base della vescica urinaria e alla faccia inferiore del retto, così da
rendere solidali, da davanti versi dietro, sinfisi pubica, vescica urinaria, vescichette seminali, ampolle
deferenziali e retto. Queste strutture hanno dei nomi, ad esempio tra il retto e la vescica è presente il setto
retto-vescicale, sebbene sia chiamato così impropriamente perché a quel livello di spazio tra retto e vescica
nel maschio è poco, in quanto tra vescica e retto si frappongono vescichette seminali e ampolle deferenziali,
tanto che si può fare esplorazione rettale e avere informazioni su queste strutture. Dunque anche questi
elementi del peritoneo sono mezzi di fissità per la vescica urinaria.
- Legamenti pubo-vescico-rettali:
Un ultimo mezzo di fissità della vescica urinaria è rappresentato dai 2 legamenti pubo-vescico-rettali, uno a
destra e uno a sinistra, “legamenti” perché sono strutture legamentose, quindi fatte di tessuto fibroso, poco
vascolarizzato, abbastanza dure, “pubo-vescico-rettali” in quanto tengono insieme la sinfisi pubica, la
vescica urinaria e il retto. Questi vanno dalla faccia posteriore della sinfisi pubica a raggiungere il sacro, cioè
il tessuto retroperitoneale che sta al davanti del sacro, dal davanti in dietro, passando ai lati, “abbracciando”,
della vescica urinaria e del retto. Nel fare questa operazione i legamenti pubo-vescico-rettali si incollano alla
superficie esterna della fascia vescico-prostatica (o vescicale) che copre la vescica e poi si incollano anche a
quella parte di fascia pelvica viscerale che va a coprire la parte anteriore del retto e alla fascia rettale, che
copre i lati del retto.
VESCICA URINARIA:
A livello della faccia interna della base della vescica sono presenti 2 orifizi ureterali interni, che
rappresentano i luoghi di sbocco degli ureteri in vescica. Essi definiscono una piega, un rilievo orizzontale,
che va da un orifizio ureterale all’altro e prende il nome di piega interureterica. Sempre a livello della faccia
interna della base della vescica si individua un altro orifizio, che corrisponde al luogo di inizio dell’uretra,
l’orifizio interno dell’uretra. Se si uniscono i 2 orifizi ureterali interni con l’orifizio interno dell’uretra,
insieme alla piega interureterica si definisce una struttura triangolare, che prende il nome di trigono
vescicale. Il trigono vescicale rappresenta la faccia interna della base della vescica urinaria.
Se si taglia l’uretere e vi si infila dentro un catetere, facendolo emergere dentro alla vescica urinaria, a destra
e a sinistra, ci si accorge che l’uretere non finisce ad angolo retto con la base della vescica, ma percorre
parzialmente lo spessore della vescica all’altezza della base del triangolo costituito dalla base della vescica,
in maniera obliqua, tanto che il catetere, dilatando l’uretere, solleva un po’ la parete interna della vescica.
Questo tratto dell’uretere è chiamato tratto intramurale. Per questo motivo l’orifizio interno dell’uretere,
laddove sbocca, è delimitato non da un cerchio ma da un’ellisse. Il tratto intramurale dell’uretere è
importante perché in questo modo la parte più laterale della emergenza dell’orifizio ureterale dentro la
vescica si comporta come una specie di valvola, che si apre per far passare l’urina sotto la spinta della
peristalsi dell’uretere ma, quando la vescica urinaria comincia a riempirsi, con il rischio che parte dell’urina
riprenda la via dell’uretere, viene chiusa dall’urina stessa. Questo risultato si ottiene facendo entrare l’uretere
in vescica obliquamente, non perpendicolarmente.
In un soggetto adulto a riposo la parete della vescica ha uno spessore di circa 1 cm, cioè tanto quanto lo
spessore della parete ventricolare sinistra, quindi uno spessore notevole. Questo spessore è costituito in gran
parte da una tonaca muscolare liscia, da una sottile tonaca sottomucosa e da una tonaca mucosa, composta da
un epitelio di transizione che riposa su una tonaca propria (per l’esattezza si tratta di un urotelio).
La tonaca muscolare osservata al microscopio da l’impressione di essere formata da 3 strati concentrici: uno
strato longitudinale esterno, uno strato circolare intermedio e uno strato longitudinale interno (in qualche
modo ricorda la parete dello stomaco a livello dello stomaco, in cui ci sono 3 strati di muscoli), che nel
complesso costituiscono il cosiddetto muscolo detrusore della vescica.
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In realtà le fibre del muscolo detrusore, tridimensionalmente considerate, hanno un andamento parabolico
con il punto di flesso a livello della base, orientate perpendicolarmente alle fibre dello strato adiacente. Tutti i
punti di flesso delle fibre sono a livello della base della vescica, all’altezza del trigono vescicale.
Questa organizzazione comporta che la contrazione di questo muscolo determina una forza che è massima a
livello dei punti di flesso, quindi a livello del trigono vescicale. Se si fanno coincidere i punti di flesso delle
parabole costituite dalle singole fibrocellule muscolari in un punto, durante la minzione si ha una spremitura
molto efficace, in quanto tutti e 3 gli strati si contraggono e spingono l’urina verso un punto.
Questa organizzazione è tale in quanto la vescica urinaria primitiva ha forma a fiasco, con un condotto
escretore rivolto verso la futura cicatrice ombelicale, che prende il nome di uraco, il quale si dirige dal basso,
dalla pelvi, verso l’alto, all’addome, per emergere dalla futura cicatrice ombelicale e svuotare il contenuto
della vescica. Siccome però la vescica urinaria funziona anche in questo periodo, essa deve contrarsi, quindi
le fibre muscolari della vescica si dispongono parabolicamente con il punto di flesso a livello della base della
vescica, che coincide con il tetto del seno urogenitale (sottostante), poiché così ad ogni contrazione l’urina
viene spinta nell’uraco e fuoriesce velocemente, così che la vescica si svuota e la base della vescica assume
una posizione quasi parallela al piano terra.
Tuttavia alla fine dello sviluppo embrionale la vescica non ha più come elemento di scarico l’uraco, ma
l’uretra, che si origina dal seno urogenitale: mentre l’uraco si oblitera, si viene a creare una comunicazione
tra la vescica urinaria e una parte del seno urogenitale, che diventa uretra. Inoltre la vescica urinaria, da
struttura a forma di fiasco, ruota di 90° verso l’avanti e cambia forma, diventando un tetraedro, e la base,
prima parallela al piano terra, diventa quasi perpendicolare al piano terra.
La conseguenza di questa organizzazione muscolare è che in caso di ipertrofia prostatica, in cui c’è un
disturbo al deflusso dell’urina e la vescica reagisce aumentando la forza di contrazione, si verifica ipertrofia
del muscolo detrusore, che è massima a livello del trigono vescicale. Il risultato di ciò è che ai lati della
regione del trigono fibroso si vengono a creare delle specie di sacche, cioè rigonfiamenti, a destra e a sinistra,
così che la vescica assume una morfologia che ricorda un trifoglio. La conseguenza pratica di questo
fenomeno è che l’urina tende a ristagnare nella vescica urinaria e, in quanto ricca in soluti, per fenomeni di
saturazione si possono formare dei precipitati, dei calcoli, che possono far fatica a passare attraverso l’uretra,
cosa che determina dolore ad urinare e può irritare l’epitelio, favorendo l’insorgenza di infezioni retrograde.
In particolare si tratta di infezioni causate da batteri che normalmente vengono eliminati con il flusso
dell’urina, ma che in questo caso hanno il tempo di colonizzare questa regione e dare origine alle cosiddette
cistiti, cioè infiammazioni della mucosa della vescica urinaria, in genere causate da infezioni.
La vescica urinaria è un organo la cui funzione è quella di dilatarsi progressivamente per accogliere
momentaneamente urina; tuttavia, mentre la vescica cede sotto l’arrivo dell’urina, contestualmente tale
muscolo si contrae per contenerla, per adattarsi al volume interno: la parete della vescica urinaria mentre la
vescica si sta riempendo non è inerte, passiva, ma produce una contrazione contro la forza centrifuga della
pressione idrostatica, che prende il nome di contrazione peristolica (la stessa cosa succede anche nello
stomaco). Allorché la vescica urinaria si dilata oltre un certo valore soglia, quando la parete è sia distesa sia
contratta, insorge lo stimolo ad urinare e, se è possibile, viene rilasciato lo sfintere volontario dell’uretra.
Tuttavia lo svuotamento della vescica urinaria non avviene passivamente, per ritorno elastico, ma per
contrazione del muscolo detrusore, che si contrae progressivamente per svuotare la vescica contestualmente
al rilasciamento dello sfintere. Quindi sia durante il riempimento della vescica sia durante lo svuotamento
della vescica il muscolo detrusore si contrae.
URETERI:
Nella pelvi si individuano anche i 2 ureteri, in particolare le loro porzioni pelviche. Essi provengono
dall’alto, dal bacinetto renale, scendendo attraversando l’addome, superano lo stretto superiore della pelvi e
passano nella pelvi, dove sboccano in vescica urinaria. In particolare essi sboccano a livello degli angoli
superiori e laterali del triangolo che esternamente coincide con la faccia posteriore o base della vescica, a
destra e a sinistra.
Rapporti degli ureteri:
È intuitivo pensare che ci sia un tragitto dall’alto in basso che questi 2 organi compiono. Essi si originano
nell’addome, alla fine del bacinetto renale, a livello della quale si localizza il giunto pielo-ureterale, piccolo
restringimento che rappresenta l’inizio dell’uretere, dopodiché scendono verso il basso nel retroperitoneo,
quindi sono circondati da tessuto connettivo retroperitoneale. Questo è importante innanzitutto perché dà
ragione del fatto che si tratta di organi fissi, che non possono muoversi, e secondo, essendo immersi nel
tessuto retroperitoneale, visti da lato seguono tutte le sinuosità della parete posteriore dell’addome. Ciò
significa che, mentre dal davanti sembrano dritti, visti da lato si adattano alla morfologia generale della
parete posteriore.
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In particolare la parete posteriore a livello dell’addome prima e della pelvi poi è costituita dal muscolo
grande psoas, che scende parallelo alla colonna lombare. L’uretere nel suo tragitto verso il basso scende a
ridosso del muscolo grande psoas, che ne costituisce la totalità dei rapporti posteriori nel tratto addominale,
fino all’altezza dello stretto superiore della pelvi, dove essi si separano.
Al davanti dei 2 ureteri si trovano anse del piccolo intestino, in maniera simmetrica a destra e a sinistra.
Stessa simmetria si ha per i rapporti che ciascun uretere prende anteriormente con i vasi genitali, arteria e
vena, che hanno a che fare nel maschio con i testicolo e nella femmina con le ovaie. Questi vasi hanno nomi
diversi nel maschio e nella femmina, in particolare arteria ovarica e vena ovarica nella femmina, arteria
testicolare e vena testicolare nel maschio, sebbene in genere si utilizzino i nomi di arteria spermatica
interna e vena spermatica interna. Tra i 2 ureteri si localizzano i grossi vasi della regione lombare, a destra
la cava inferiore, a sinistra l’aorta. Ad una certa altezza, circa L2-L3, dall’aorta addominale si diparte, una a
destra e una a sinistra l’arteria genitale, l’arteria spermatica interna nel maschio, l’arteria ovarica nella
femmina. Queste arterie genitali nell’addome si dirigono quasi ad incontrare gli ureteri, e laddove li
incontrano vengono raggiunte dalla vena genitale corrispondente, la vena spermatica interna nel maschio, la
vena ovarica nella femmina. A questo punto le coppie di vasi genitali si sono costituite e, mentre prima questi
vasi genitali si trovavano mediamente rispetto all’uretere addominale, dal punto in cui arteria e vena si
uniscono questi 2 vaso scavalcano dal davanti l’uretere, incrociandolo a “X”, e proseguono verso il basso
lateralmente ai 2 ureteri. Si forma così una specie di tripletta, formata da un uretere e 2 vasi, arteria e vena
genitale, che scendono insieme verso il basso fino a circa lo stretto superiore della pelvi, a livello del quale
ureteri e vasi genitali si separano. Questo rapporto è molto importante, in particolare nella terapia chirurgica
dell’uretere, in quanto esiste il rischio di ledere questi vasi.
Esistono elementi di asimmetria nei rapporti tra i 2 ureteri, perché essendo essi organi retroperitoneali
anteriormente ad essi si trovano anche strutture impari che non stanno lungo la linea di mezzo.
L’uretere di sinistra è incrociato dal davanti dall’arteria colica di sinistra, che prende origine dall’arteria
mesenterica inferiore e incrocia dal davanti anche i vasi genitali, e anche dagli ultimi rami dell’arteria
mesenterica inferiore, cioè le arterie sigmoidee. Queste elementi sono presenti a sinistra, ma non a destra, in
quanto a destra non è presente l’arteria mesenterica inferiore, quindi non ci sono arteria colica di sinistra e
arterie sigmoidee.
L’uretere di destra è incrociato dal davanti dalla radice del mesentere, dall’arteria colica di destra, che va da
mezzo a destra, dall’ultimo ramo collaterale dell’arteria mesenterica superiore, l’arteria ileocolica, e dai vasi
mesenterici superiori.
Proseguendo verso il basso l’uretere incontra numerose strutture. Esso ad un certo punto scavalca, a destra e
a sinistra, una coppia di vasi. All’altezza di L4 termina l’aorta, dividendosi in 2 grossi vasi e continuandosi
con un piccolo vaso impari e mediano, l’arteria sacrale media, che scende passando al davanti del
promontorio del sacro e si pone al davanti del sacro, che di fatto è la continuazione dell’aorta. I 2 grossi rami
che originano dall’arteria sono disposti a “V” capovolta e prendono il nome di arteria iliaca comune di
destra e arteria iliaca comune di sinistra. Si tratta di vasi grossi, relativamente corti, qualche cm, e sono
diretti dall’alto in basso e da medio a lato. Essendo anche questi vasi coperti da peritoneo parietale, come gli
ureteri e l’aorta, risultano schiacciati contro la parete posteriore, che a quel livello, L4-L5, è caratterizzata da
lordosi lombare, quindi questi vasi vanno in basso e lateralmente, ma anche indietro, fino alle ali del sacro, in
realtà fino all’articolazione sacroiliaca. A questo livello si parla ancora di addome, quindi queste 2 arterie
sono a tutti gli effetti strutture addominali: nascono addominali e muoiono addominali, in quanto una volta
arrivate al davanti dell’articolazione sacroiliaca, a destra e a sinistra, ciascuna arteria si divide in 2 arterie,
l’arteria iliaca esterna e l’arteria iliaca interna, anche detta arteria ipogastrica. Mentre l’arteria iliaca
esterna rimane struttura addominale, in quanto percorre la fossa iliaca quasi parallelamente alla linea
innominata (quindi rimane sempre nella fossa iliaca), passa al di sopra della branca orizzontale del pube e
sfocia nella coscia, dove diventa arteria femorale, l’arteria iliaca interna scende nella pelvi attraverso lo
stretto superiore della pelvi e, essendo sempre disposta posteriormente, perché sempre retroperitoneale, si
occupa di irrorare organi pelvici, ma anche perineali. Ad accompagnare sia l’arteria iliaca comune sia
l’arteria iliaca esterna sia l’arteria iliaca interna ci sono vene compagne, cioè una vena iliaca comune, una
vena iliaca esterna e una vena iliaca interna. Addirittura le 2 vene iliache comuni sono le radici della vena
cava inferiore, specularmente rispetto all’aorta che dà origine alle 2 arterie iliache comuni. Gli ureteri
scavalcano i vasi iliaci comuni, laddove l’arteria iliaca comune sta per dividersi, superano lo stretto superiore
della pelvi ed entrano nella piccola pelvi. Tuttavia risulta improprio dire che gli ureteri scavalcano i vasi
iliaci comuni, in quanto in realtà l’uretere di destra scavalca l’inizio dell’arteria iliaca esterna, mentre
soltanto l’uretere di sinistra scavalca i vasi iliaci comuni, a causa del fatto che l’arteria iliaca comune di
destra è leggermente più lunga di quella di sinistra. Per semplicità però si dice che gli ureteri scavalcano i
vasi iliaci comuni laddove finisce l’arteria iliaca comune. Anche qui si ha un incrociamento a “X” stretta.
Nella pelvi i rapporti dell’uretere sono diversi nel maschio e nella femmina.
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Nel maschio, siccome la vescica urinaria è più spostata in avanti, l’uretere, una volta entrato nella piccola
pelvi, deve andare da dietro in avanti.
Sempre nel maschio, essendo sempre in posizione retroperitoneale, in particolare sottoperitoneale, l’uretere
non ha rapporti particolari se non con dell’intestino retto, passandovi ai lati, cosa che succede anche nella
femmina.
Gli ureteri raggiungono la vescica a livello dell’incontro tra la volta e la base della vescica urinaria, punto in
cui gli ureteri sono scavalcati dai 2 dotti deferenti. Il dotto deferente infatti, di destra e di sinistra, sta
venendo dal davanti e per passare dietro la vescica scavalca dall’alto ciascuno il proprio uretere.
Struttura dell’uretere:
L’uretere presenta la classica costituzione di un viscere cavo, con una tonaca mucosa, un accenno di tonaca
sottomucosa e una tonaca muscolare.
La tonaca mucosa dell’uretere è esattamente identica alla tonaca mucosa della vescica, cioè che presenta un
epitelio di transizione che poggia su una tonaca propria; la sottomucosa non presenta caratteristiche
particolari; la tonaca muscolare è responsabile della peristalsi che spinge l’urina dal bacinetto renale alla
vescica urinaria (l’urina non si sposta per gravità!).
L’uretere può essere suddiviso in 3 porzioni: 1/3 craniale, 1/3 intermedio e 1/3 caudale.
A livello del 1/3 caudale dell’uretere, cioè quella parte di uretere che sta arrivando in vescica,
sostanzialmente la porzione pelvica, la tonaca muscolare presenta 3 strati, esattamente come nella vescica
urinaria: longitudinale esterno, circolare intermedio e longitudinale interno. Salendo verso il 1/3 intermedio
l’uretere tende a perdere lo strato longitudinale esterno, fino a che prossimità del bacinetto renale la tonaca
muscolare è formata soltanto da 2 strati, uno strato circolare esterno e uno longitudinale interno.
L’uretere presenta 3 restringimenti fisiologici.
Il primo restringimento è detto giunto pielo-ureterale, è presente sia all’interno che all’esterno e marca la fine
del bacinetto renale e l’inizio dell’uretere. Esso rappresenta un punto critico, in quanto al suo livello può
incastrarsi un calcolo.
Il secondo restringimento si trova nel punto in cui l’uretere scavalca i vasi iliaci comuni, ossia scavalca la
linea arcuata o innominata, per entrare in pelvi, dovuto al fatto che essendo l’uretere un organo
retroperitoneale, esso è schiacciato contro la parete posteriore, e siccome a livello dello stretto superiore della
pelvi è presente un vero e proprio gradino, in più si ha la fine dei vasi iliaci comuni, a quel livello si
determina un punto di riduzione di calibro fisiologico, un altro punto critico a livello del quale si può fermare
un calcolo.
Il terzo restringimento è localizzato nel punto di ingresso dell’uretere all’interno della vescica urinaria, a
livello della parte intramurale dell’uretere, che entra obliquamente, in quanto esso è schiacciato dalla
notevole muscolatura liscia della parete della vescica.
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Pelvi femminile:
Per convenzione la descrizione della pelvi femminile si compie di un soggetto in piedi, sessualmente maturo,
non gravido e con retto e vescica vuoti.
La pelvi propriamente detta femminile presenta somiglianze e identità con quella maschile, ma anche delle
differenze.
Le somiglianze e identità si individuano fondamentalmente nella vescica urinaria, infatti tutto ciò che è stato
detto della vescica urinaria nel maschio si applica anche alla femmina, con la differenza che la femmina non
presenta prostata, quindi non può avere ipertrofia prostatica benigna né pertanto modificazioni dello spessore
della parete della vescica dovuta ad ipertrofia prostatica.
Alcune delle differenze esistenti tra pelvi femminile e pelvi maschile si incontrano nelle strutture che si
trovano tra vescica urinaria e retto. In particolare tra vescica urinaria e retto nella femmina è presente il
condotto vaginale o vagina e, in qualche modo, anche l’utero. La vagina è l’organo della copulazione,
complementare rispetto al pene maschile, mentre l’utero è l’organo della gestazione, cioè il luogo in cui si
impianta l’oocita fecondato per il suo sviluppo. Queste sono le strutture presenti nella femmina e non
presenti nel maschio.
A questi bisogna aggiungere altri organi: come nel maschio esistono altri organi genitali, cioè il dotto
deferente, le ampolle deferenziali, le vescichette seminali e la prostata, nella femmina esistono le 2 tube e le
2 ovaie (“ovaio” al singolare, “ovaie” al plurale).
In una sezione parasagittale sinistra (60) si individua l’osso sacro, che si riconosce per la sua concavità
anteriore e per il fatto che da esso emergono grosse strutture, che sono le radici del più grosso nervo del
corpo, il nervo ischiatico o sciatico, e il promontorio del sacro posteriormente, mentre anteriormente si
individua la branca superiore del pube. Si deduce che si tratta di una sezione parasagittale sinistra perché è
visibile la superficie esterna della vescica urinaria di cui, se la sezione fosse sagittale mediana, sarebbe
visibile l’interno; inoltre a livello della vulva è visibile il grande labbro di destra, il piccolo labbro di destra e
il piccolo labbro di sinistra, ma non il grande labbro di sinistra, ciò significa che al sezione è verso sinistra.
La vescica urinaria si riconosce in quanto al suo davanti non si trovano altri visceri. La struttura sollevata è
peritoneo. Individuato il retto, si osserva che la vagina viene a trovarsi tra la base della vescica urinaria e la
faccia anteriore del retto, fino ad essere schiacciata nella sua parte pelvica in senso anteroposteriore tra la
base della vescica, che sta davanti, e il retto, che sta dietro.
VAGINA E UTERO:
Il canale vaginale o vagina è un condotto che in condizioni di riposo presenta una cavità virtuale, formata da
2 facce giustapposte. Essa presenta un estremo craniale che si continua, senza soluzione di continuità, con
l’utero (entrambi originano dai dotti di Müller) e un estremo caudale che invece emerge all’esterno, a livello
di una regione che prende il nome di vestibolo vaginale, non distante dall’apertura anale.
L’asse maggiore della vagina è inclinato di circa 70° in basso e in avanti ed essa è lunga mediamente circa
7-8 cm (la lunghezza di un dito indice), in particolare la parete anteriore è più corta e la parete posteriore è
più lunga.
L’utero fa seguito cranialmente alla vagina, anch'esso presenta una cavità virtuale ed è un organo piriforme,
leggermente schiacciato in senso anteroposteriore o craniocaudale, con l’estremità apparentemente craniale
arrotondata. Si tratta di un organo relativamente piccolo, suddivisibile in 3 parti: quella che si osserva dal
davanti una volta aperta la parete addominale è il cosiddetto fondo dell’utero, seguito dal corpo dell’utero e
dal collo dell’utero, dal davanti verso il dietro.
Il confine tra fondo e corpo dell’utero è una linea immaginaria che passa ventralmente rispetto all’inizio
dell’utero, mentre il confine tra corpo e collo dell’utero è un istmo, un restringimento, visibile all’esterno,
che dal corpo dell’utero immette nel collo. Il collo dell’utero, anche detto cervìce uterina, pesca
parzialmente nella parte più craniale della vagina, tanto che è suddivisibile in una parte intravaginale e una
parte extravaginale.
Agli estremi ventrali e laterali del fondo si trovano i cosiddetti corni uterini, ciascuno dei quali, senza
soluzione di continuità, si continua in un condotto, la tuba uterina, a destra e a sinistra.
A causa del suo schiacciamento in senso anteroposteriore o craniocaudale è possibile distinguere 2 facce, una
faccia ventrale e una faccia dorsale, e 2 margini, un margine destro e un margine sinistro, anche se piuttosto
arrotondati.
La faccia ventrale dell’utero, quella che guarda in basso e in avanti, è anche chiamata faccia vescicale, dal
momento che con questa sua faccia l’utero poggia sulla volta della vescica. Per converso la faccia della
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vescica che nel maschio prende il nome di faccia intestinale, nella femmina prende il nome di faccia uterina
della vescica.
Viceversa la faccia dorsale dell’utero prende anche il nome di faccia intestinale, dal momento che essa
prende rapporto superiormente con le anse del piccolo intestino e, a seconda delle lunghezze, con parte del
colon ileoplevico, tanto che per osservarla è necessario asportare anse del piccolo intestino e colon
ileopelvico.
A causa della posizione dell’utero si viene a creare un piccolo spazio tra la volta della vescica e la faccia
vescicale dell’utero, sostanzialmente virtuale, che prende il nome di spazio vescico-uterino.
Si forma invece uno spazio più grande tra la faccia intestinale dell’utero e il retto, che prende il nome di
scavo o cavo di Douglas, che non è virtuale ma è reale e contiene anse ileali, ma anche una piccola quantità
di liquido peritoneale, liquido che si trova all’interno della cavità peritoneale e va ad allocarsi nei luoghi più
declivi. Per questo motivo non esiste rapporto topografico tra utero e retto, se non indiretto e a distanza, tanto
che si parla anche di scavo retto-uterino, che contiene anse del piccolo intestino.
Il collo dell’utero, o cervice uterina, pesca dentro la parte craniale della vagina, cioè è parzialmente
invaginato in vagina. Mentre il passaggio da esofago a stomaco è segnato dal cardias, o il passaggio da
stomaco a duodeno è segnato dal piloro, l’esofago non è invaginato nello stomaco né lo stomaco è invaginato
nel duodeno. L’utero invece, per la sua porzione estrema dorsale, penetra parzialmente dentro la vagina, e le
2 pareti della vagina, quella anteriore e quella posteriore, si dispongono “a ponte” sull’esterno del collo
dell’utero per inglobarne una parte. Questa organizzazione anatomica ha un nome: proprio perché il collo
dell’utero è parzialmente scivolato nella vagina, si vengono a formare i cosiddetti fornici vaginali (“fornice”
deriva dal latino “fornix, fornicis”, che significa “ponte”). Il termine fornici vaginali indica lo spazio
circolare, ad anello, che si viene a creare tra collo dell’utero e pareti anteriore e posteriore della vagina; se ne
parla al plurale, cioè fornice anteriore, fornice posteriore, fornice di destra e fornice di sinistra, sebbene la
cavità attorno alla parte intravaginale del collo dell’utero sia una sola, perché la profondità dei fornici non è
costante, in particolare la profondità massima è all’altezza del fornice posteriore, il minimo all’altezza del
fornice anteriore e profondità intermedia a livello dei fornici laterali.
Questa organizzazione ha importanti risvolti pratici, tutti riguardanti in particolare il fornice posteriore e il
fatto che esso presenta una profondità maggiore rispetto agli altri.
Il primo è che il ginecologo attraverso lo speculum allontana la faccia anteriore della vagina dalla faccia
posteriore e infila una delle valve dello strumento proprio nel fornice posteriore; lo speculum ha un manico
che somiglia a quello di una forbice e quando si stringe le valve si allargano: l’operazione è tale per cui si
afferra il collo dell’utero e lo si cerca di mettere il più coassiale possibile con l’asse della vagina, allo scopo
di poter osservare anche il labbro posteriore del collo dell’utero, non soltanto quello anteriore, operazione
nota con il nome di PAP test. Questo test è molto importante da eseguire oltre i 45 anni circa, in quanto aldilà
di questa età aumenta la probabilità statistica che insorga il cancro del collo dell’utero, che più
frequentemente ha come causa un’infezione dal papilloma virus. Si tratta di un virus che non abita
stabilmente a livello del collo dell’utero, ma ci viene portato, in quanto invece abita abbastanza stabilmente a
livello del glande del pene. Da quando è stato introdotto il PAP test la mortalità del cancro del collo uterino è
crollata. Per effettuare il PAP test è necessaria una manovra invasiva imposta dall’anatomia, in quanto la
cervice uterina guarda verso la parete posteriore della vagina e ne è occlusa, a causa del fatto che tra l’asse
della vagina e l’asse del collo dell’utero si disegna un angolo, l’angolo di versione, di circa 110°, tra l’asse
del collo e l’asse longitudinale della vagina. Il ginecologo durante la colposcopia si posiziona al davanti della
donna in posizione ginecologica e osserva il collo dell’utero, in particolare il colore, che dev’essere rosa
uniforme, senza escrescenze e senza fissurazioni, in quanto queste rappresenterebbero un campanello
dall’arme.
Il secondo risvolto pratico che concerne i fornici vaginali, e in particolare il fornice posteriore, riguarda il
fatto che durante l’accoppiamento finalizzato alla procreazione, siccome è necessario fare in modo che il
seme eiaculato raggiunga l’utero, è utile assumere alcune posizioni che favoriscano questo processo, le quali
determinano che il seme eiaculato si raccolga nel fornice posteriore, il quale, grazie alla sua maggiore
profondità, rappresenta un ricettacolo per gli spermatozoi.
Il terzo motivo per cui è importante conoscere il fornice posteriore è che esso rappresenta un luogo di
accesso alla cavità peritoneale che non prevede tagli a livello della parete addominale anteriore, utile per
aspirare liquido e constatare la presenza o meno di emorragia, in base all’aspirazione o meno di sangue dallo
spazio di Douglas. Questo accesso è molto utile anche in caso di fecondazioni assistite, in cui è necessario
prelevare l’oocita dall’ovaio di una donna donatrice, che rappresenta un’alternativa all’accesso in
laparoscopia dalla parete anteriore dell’addome.
L’asse del collo dell’utero forma un angolo di 110° con l’asse della vagina, e quest’angolo prende il nome di
angolo di versione, per cui l’utero si dice essere anteverso, cioè presenta un’inversione di 110° che si
misurano nell’angolo anteriore. A questo si aggiunge che passando dal collo fino al fondo dell’utero il
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tragitto non è rettilineo, in quanto l’asse del collo e l’asse del corpo formano un un altro angolo, di circa
150°, che prende il nome di angolo di flessione, per cui l’utero di dice essere anteflesso.
In sintesi quindi l’utero è anteverso e anteflesso, condizione importante a livello ginecologico, in quanto
esistono casi di retroversione e/o retroflessione dell’utero che possono avere importanti implicazioni ai fini
della riproduzione.
Mezzi di fissità di vagina e utero:
Un mezzo di fissità di vagina e utero è rappresentato da un setto connettivale, il setto vescicovaginale, che
incolla la parete anteriore della vagina ala base della vescica urinaria. Un analogo setto posteriore, chiamato
setto rettovaginale, incolla la parete posteriore della vagina alla faccia anteriore del retto. Quindi la vagina è
resa solidale con la vescica urinaria e con il retto, strutture a loro volta solidali tra loro. In realtà il setto
vescicovaginale e il setto rettovaginale sono di fatto ispessimenti del tessuto retroperitoneale, più esattamente
sottoperitoneale.
I 2 foglietti del legamento largo, via via che vanno dal davanti in alto verso il dietro e in basso, seguendo
l’utero, si allontanano, cioè sono molto più vicini nel punto di flesso a livello del fondo dell’utero. Lo spazio
tra i 2 foglietti del legamento largo a livello della base dell’utero, a destra e a sinistra, che si è allargato e
all’interno del quale è contenuto connettivo, prende il nome di parametrio (“metrio” è un suffisso usato per
le strutture che riguardano l’utero).
L’ultima parte dell’uretere, andando esso a finire in vescica ed essendo costretto a passare ai lati del collo
dell’utero, percorre la base del legamento largo, dove si trova il parametrio. Questo costituisce quindi un
altro sistema per fissare l’ultima parte di uretere.
A sua volta il parametrio è parte di una struttura più complessa, che è genericamente tessuto connettivale
retroperitoneale, o sottoperitoneale, il quale nella femmina si organizza a formare tutta una serie di
legamenti. Questi legamenti contribuiscono a rinforzare il pavimento pelvico, posto all’altezza del piano del
diaframma pelvico, ossia dell’insieme dei muscoli elevatori dell’ano e muscoli ischiococcigei. Il termine
“legamenti” è improprio, in quanto si tratta soltanto di tessuto peritoneale che si addensa in maniera ordinata,
tanto da far pensare a legamenti. Secondo alcuni quella che è stata definita fascia vescicale, dipendenza della
fascia pelvica parietale, non è una fascia ma tessuto sottoperitoneale che si addensa al di dietro della base
della vescica, sulle facce laterali della vescica, ma non sulla volta, e contribuisce anche a formare il setto
vescicovaginale. Allo stesso modo si forma il setto rettovaginale.
Nel parametrio è presente un ispessimento dello stesso parametrio, che va dal corno uterino al polo inferiore
dell’ovaio dello stesso lato, il legamento uterovarico.
Un altro legamento presente a livello del parametrio è il legamento rotondo dell’utero, uno dei 3 legamenti
rotondi che si individuano complessivamente nell’organismo (uno a livello del fegato, uno a livello del
femore, si diparte dalla testa del femore e si inserisce circa al centro geometrico dell’acetabolo). Si tratta di
un cordone fibroso che si diparte dal corno uterino, va lateralmente quasi in maniera parallela rispetto
all’istmo della tuba poi, mentre la tuba risale verso l’alto, il legamento dell’utero piega in alto e in avanti,
verso la parete anteriore dell’addome, quindi esce dalla piccola pelvi e raggiunta la parete attraversa il canale
inguinale, che nel maschio è attraversato dal dottor deferente, per fissarsi infine al grande labbro della vulva.
Il legamento rotondo dell’utero origina dal dotto metanefritico di Wolf, che nel maschio diventa dotto
deferente che fa capo al testicolo dopo aver attraversato il canale inguinale, mentre nella femmina diventa un
tralcio fibroso, senza particolari funzioni. Questa caratteristica fa sì che nella femmina in genere non
insorgono ernie inguinali dirette o oblique.
Nella femmina, specialmente ai lati del collo dell’utero, è presente connettivo retroperitoneale, il quale
proviene dal parametrio e si spinge lateralmente in maniera molto ordinata, aprendosi a ventaglio per andare
a collegarsi a tessuto retroperitoneale presente a livello della faccia laterale della piccola pelvi, formando i
cosiddetti legamenti cardinali dell’utero, di destra e di sinistra, i quali contribuiscono a fissare l’utero. Essi
si trovano soltanto a partenza dalla base del legamento largo, quindi dal parametrio, cioè non oltre il collo
dell’utero altrimenti l’utero verrebbe imprigionato e ciò non sarebbe funzionale all’accrescimento dell’utero.
Esistono anche altri legamenti che si dipartono dal parametrio, il quale rappresenta una specie di nucleo
centrale, che si portano in dietro e in avanti, quasi a disegnare una specie di croce, a destra e a sinistra. Lo
stesso tessuto retroperitoneale che dà origine ai legamenti cardinali dà origine anche a legamenti che vanno
in dietro, passando ai lati del retto, che prendono il nome generico di legamenti pubo-vescico-rettali,
presenti anche nel maschio. Queste strutture si dipartono dal pube, aggirano la vescica, la vagina, il collo
dell’utero (ma non oltre) e il retto, organi che quindi vengono a trovarsi immersi nel parametrio. Questi
legamenti hanno la funzione di rendere solidali queste strutture, in particolare di fissare vagina e collo
dell’utero.
I legamenti pubo-vescico-rettali nella femmina possono essere suddivisi in legamenti sacrouterini, di destra
e di sinistra, legamenti che aggirano la vescica urinaria e vanno a finire al pube, i legamenti pubovescicali, i
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quali poi si continuano come legamenti vescicouterini. Tramite questo sistema di strutture vengono
immobilizzate le facce laterali della vescica urinaria, il collo dell’utero e il retto, così da rendere solidali
queste strutture.
L’uretere si trova in posizione posteriore e laterale, quindi nella piccola pelvi deve andare in avanti e
medialmente in quanto deve andare a finire nella vescica urinaria. Dal momento che il collo dell’utero si
trova, così come il corpo e il fondo, sopra la vescica urinaria, in particolare in prossimità della base della
vescica, l’uretere, prima di andare a finire in vescica passa ai lati del collo dell’utero, leggermente al di sopra
dei fornici vaginali, formando con questo un rapporto molto stretto. Si tratta di un rapporto importante sia
nella chirurgia dell’utero sia nelle patologie tumorali del collo dell’utero: una massa occupante spazio a
livello del collo dell’utero prima o poi comprime uno o entrambi gli ureteri, mentre nella chirurgia dell’utero,
l’isterectomia, il chirurgo deve prestare attenzione nell’allontanare i 2 ureteri, soprattutto in un intervento di
isterectomia transvaginale, in cui il chirurgo si fa largo attraverso un colposcopio attraverso la vagina e deve
incidere i fornici per scollare l’utero, per poi asportarlo.
TUBE UTERINE:
A partire dai corni uterini, essendo essi gli estremi laterali e ventrali del fondo dell’utero, si trovano, a destra
e a sinistra, 2 condotti, che vengono chianti con diversi nomi, quali tube uterine, in quanto sono condotti,
ovidotti, in quanto sono condotti che conducono l’oocita, salpingi (plurale di salpinge), tanto che le
infiammazioni della tuba si chiamano salpingiti, e tube di Falloppio.
La tuba è un condotto che in realtà ha una lunghezza maggiore dello spazio che ha a disposizione: la distanza
tra il fondo dell’utero e la parete laterale della pelvi, verso la quale ciascuna tuba si dirige, è di qualche cm,
mentre la lunghezza della tuba è maggiore, quindi si dispone a disegnare una “L” maiuscolo stampatello. In
particolare ciascuna tuba si dirige inizialmente in maniera orizzontale al piano terra verso la parete laterale
della pelvi, costituendo quello che prende il nome di istmo della tuba, in quanto è la porzione di tuba che
presenta il calibro minore; poi, raggiunta la parete laterale della piccola pelvi e non avendo quindi più spazio,
si dirige verso l’alto, prendendo rapporto topografico con l’ovaio e costituendo una porzione verticale
caratterizzata da un calibro progressivamente maggiore dalla parte terminale dell’istmo verso l’alto, per cui
prende il nome di ampolla tubarica; nell’ultima porzione della tuba essa scende verso il basso, cioè è
ricorrente rispetto all’ampolla, prendendo anch’essa rapporto molto stretto con l’ovaio, costituendo
l’infundibolo. La tuba uterina termina in maniera improvvisa, costituendo l’unico caso nell’organismo di un
condotto che ad un estremo si continua con un organo cavo, l’utero, e dalla parte opposta si continua con il
vuoto, in particolare sfiocca in tante frange, che prendono il nome di fimbrie (plurale di fimbria).
Siccome la tuba finisce in maniera tronca e siccome proviene dall’utero, che proviene dalla vagina, che
proviene dal vestibolo vaginale, succede che c’è comunicazione tra vestibolo vaginale e cavità addominale,
caratteristica importante per 2 motivi: il primo è che se aumenta la carica di un batterio patogeno a livello
della vagina è possibile che i batteri risalgano lungo l’utero e le tube, finendo nella cavità addominale; il
secondo è che in una donna sospettamente sterile è necessario conoscere se le sue tube sono pervie, caso nel
quale risulterebbe impossibile il concepimento, quindi si effettua una isterosalpingografia, che consiste
nell’iniettare con una certa forza una sostanza oleosa nell’utero per farla andare dentro le tube, e nel
accertarsi che gocce di sostanza radiopaca raggiungano o meno la cavità addominale, a destra a sinistra.
La tuba è quindi suddivisibile in 3 parti (anche se qualcuno individua una quarta parte, cioè la parte iniziale
che si trova nello spessore dell’utero, che viene chinata parte intramurale dell’utero), che sono la porzione
orizzontale, l’istmo dell’utero, che si continua nella parte ascendente, l’ampolla tubarica, la quale fa una
deviazione ad “U” per continuarsi nella terza ed ultima parte, l’infundibolo dell’utero (che significa
“imbuto”), chiamato così perché questa porzione si espande e si sfrangia, in delle formazioni che prendono il
nome di fimbrie, una delle quali presenta è più lunga delle altre, la fimbria major.
La tuba a livello dell’infundibolo finisce in maniera improvvisa, non si continua con nulla e, siccome essa è
implicata nell’accoglienza dell’oocita espulso e nel suo convogliamento sino all’utero, si pone il problema di
come far entrare fisicamente l’oocita nell’infundibolo e di come far progredire l’oocita all’interno della tuba
fino all’utero.
In particolare l’oocita progredisce nella salpinge in quanto essa è dotata di muscolatura liscia, disposta in
maniera simile a quella dell’intestino, cioè circolare interna e longitudinale esterna, quindi essa è percorsa
dall’infundibolo all’utero da un’onda peristaltica, che determina lo spostamento dell’oocita.
Questa condizione tuttavia è necessaria ma non sufficiente. Se si osserva l’anatomia microscopica della tuba,
oltre alla tonaca muscolare e alla tonaca sottomucosa, si osserva una tonaca mucosa che ricorda molto quella
respiratoria: ci sono cellule ciliate e cellule mucipare a formare l’epitelio, le prime secernono muco,
appiccicoso, quindi in grado di legare l’oocita, le seconde fanno battere le proprie ciglia in direzione
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dell’utero, processo che unito all’onda peristaltica determinata dalla muscolatura liscia, fa sì che l’oocita
arrivi all’utero.
Anche queste caratteristiche costituiscono una condizione necessaria ma non sufficiente. La tuba tramite la
parte ampollare e infundibolare è strettamente connessa all’ovaio; l’ovaio si trova, a destra e a sinistra, nella
piccola pelvi, quindi al di sotto del piano poggiato sullo stretto superiore della pelvi, addossato alla parete
laterale della pelvi, più o meno in corrispondenza dell’acetabolo, che si trova a quel livello esternamente.
Proprio perché la parete della tuba presenta muscolatura liscia e un epitelio ciliato e mucoso, anche le
fimbrie si muovono, cioè l’onda peristaltica interessa anche la componente muscolare delle fimbrie, che
quindi si muovono. Appena l’oocita emerge alla superficie dell’ovaio, alla fine dell’ovulazione, il movimento
delle fimbrie è tale che, stocasticamente, questo viene a contatto con l’epitelio della fimbria e vi si appiccica.
Il resto necessario alla progressione delle ciglia è svolto dalle ciglia e dalla contrazione peristaltica.
Peritoneo a livello delle tube uterine:
Nella vescica urinaria la volta è coperta da peritoneo. Nel maschio questo peritoneo va indietro, copre il
fondo delle ampolle e poi si ribalta a coprire il retto; nella femmina accade la stessa cosa: scende dalla parete
anteriore dell’addome, passa sulla volta della vescica e la copre, arrivando alla base della vescica, dove è
costretto a fare una conversione ad “U” perché c’è l’ostacolo rappresentato da vagina e utero, quindi si
ribalta a rivestire la faccia vescicale dell’utero, arriva al fondo dell’utero, lo avvolge, poi si ribalta per
coprirne la faccia intestinale e la faccia dorsale del collo, per poi fare nuovamente inversione ad “U” a livello
del retto e risalire, in quanto non può inserirsi tra vagina e retto.
Tuttavia dal fondo dell’utero emergono le 2 salpingi, di conseguenza, posto che lungo i margini dell’utero i 2
foglietti del peritoneo tendono ad accollarsi, il passaggio dal foglietto ventrale al foglietto dorsale avviene
proprio attorno alla parte istmica e ampollare della tuba, quindi la tuba è un organo rivestito da peritoneo. Il
peritoneo che avvolge la salpinge prende il nome di mesosalpinge.
Siccome ai lati dell’utero sono presenti 2 foglietti di peritoneo affrontati di cui uno è la continuazione
dell’altro si ha un legamento peritoneale, per definizione si forma un legamento peritoneale, che prende il
nome di legamento largo dell’utero, uno a destra e uno a sinistra, che prende questo nome in quanto
presenta una superficie relativamente ampia. I 2 legamenti larghi dell’utero si dirigono da medio a lato, verso
la parete laterale della pelvi, dove devono diventare parietali, anche perché in genere un legamento
peritoneale collega peritoneo parietale a peritoneo viscerale (ma esistono delle eccezioni, ad esempio il
piccolo omento, che non va da parete a organo, ma da organo a organo). Tuttavia la tuba non è rettilinea, ma
descrive una “L”, e il peritoneo ne segue l’andamento, rimanendo legamento largo. Di conseguenza mentre a
livello dell’istmo ci sono 2 foglietti per ciascun legamento largo, uno ventrale e uno dorsale, il primo che
guarda verso il basso, il secondo verso l’alto, di cui uno è la continuazione dell’altro, a livello dell’ampolla e
della parte infundibolare il foglietto ex ventrale diventa laterale e il foglietto ex dorsale diventa mediale.
In seguito il foglietto ex ventrale diventato laterale inverte la sua posizione e va a tappezzare la parete
laterale della pelvi, costituita dalla fascia che copre il muscolo otturatorio interno, verso l’avanti, mentre il
foglietto ex dorsale continua il suo tragitto e tappezza posteriormente la parete laterale della pelvi. Questo
peritoneo, arrivato a rivestire ogni singola fimbria, laddove finisce la tuba è bucato: nella femmina, e soltanto
nella femmina, la cavità peritoneale comunica con l’esterno (a questo punto si corregge la nozione
precedentemente espressa riguardo la comunicazione, nella femmina, tra esterno e cavità addominale in
comunicazione tra esterno e cavità peritoneale).
Conseguenza di questa caratteristica è che batteri possono risalire retrogradamente dal vestibolo vaginale alle
tube, provocando salpingiti e addirittura ovariti, in genere si usa il termine di annessite, che indica
un’infiammazione agli annessi, termine onnicomprensivo che indica l’insieme di tube e ovaio, che sono
annessi uterini.
L’organizzazione della tuba presenta una serie di aspetti negativi, per cui l’efficienza del sistema riproduttivo
della specie umana è relativamente bassa, in quanto una donna può concepire un figlio alla volta non più di
uno all’anno. Per questo motivo, mentre le femmine di altre specie, dotate di un sistema riproduttivo più
efficiente, ovulano poco frequentemente, la femmina dell’uomo ovula più frequentemente, circa 13 volte
l’anno: la scarsa efficienza del sistema viene compensata dall’aumento di frequenza di cicli ovulatori.
Normalmente accade che gli spermatozoi depositati in vagina in gran numero prendono la via dell’utero,
dopodiché una parte di essi va nella tuba di destra e una parte in quella di sinistra; la fecondazione avviene
nella tuba, nella porzione istmica, cioè in prossimità dell’utero, da dove viene trasportato nell’utero; tuttavia
non è detto che la fecondazione avvenga a quel livello, ma può avvenire anche in altre zone, come ad
esempio nell’infundibolo, da cui l’ovocita fecondato non riesce a raggiungere l’utero, ma si impianta
direttamente nella mucosa della tuba. Si parla di gravidanza extrauterina, in genere nella tuba, che non può
essere portata a termine, in quanto la struttura della mucosa della tuba è diversa da quella dell’utero, e si ha
aborto spontaneo, con fenomeni di necrosi, rottura della parete della tuba, sanguinamento e quindi emorragia
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interna, che rappresenta un emergenza chirurgica: oltre all’emorragia in sé, c’è rischio di irritazione dl
peritoneo, in quanto l’uovo abortito finisce in cavità peritoneale.
In sintesi utero e tube sono organi peritoneali; inoltre, così come la tuba ad un suo estremo laterale è pervia e
beante, a quel livello anche il peritoneo è pervio.
OVAIO:
Le ovaie sono organi pari localizzati nella piccola pelvi. L’ovaio ha la forma di una mandorla disposta
sagittalmente, quindi schiacciato in senso lateromediale, con un diametro verticale maggiore degli altri lungo
circa 3 cm. L’ovaio presenta dunque una faccia laterale e una mediale, un margine anteriore e un margine
posteriore, un polo superiore e un polo inferiore.
L’ovaio non è un organo peritoneale, ma non è nemmeno un organo retroperitoneale: esso è l’unico organo
intraperitoneale, cioè si trova nella cavità peritoneale. Il motivo di questa caratteristica è da ricercarsi
nell’embriogenesi.
Subito dopo la fecondazione e l’impianto, non è possibile stabilire se l’embrione è maschio o femmina,
nemmeno se si osservano le gonadi, in quanto inizialmente la gonade è indifferenziata. Il celoma, futuro
peritoneo, di un embrione che si è chiuso verso l’avanti, cellule germinative progenitrici della gonade vanno
a colonizzare il celoma paravertebrale, in regione lombare alta, all’altezza di circa L1. La gonade infatti si
forma nello spessore del celoma, si accresce e ad un certo punto dello sviluppo è formata da 2 porzioni, la
corticale, che si affaccia verso l’interno, e la midollare, che si affaccia verso l’esterno. Se la gonade è
maschile, la parte corticale scompare e rimane soltanto la parte midollare che guarda verso l’esterno, la quale
diventerà testicolo; se invece la gonade è femminile, la parte midollare si riassorbe e la corticale, che sporge
verso l’interno della cavità celomatica, dà origine all’ovaio, circondato da una parte di celoma che diventa
poi epitelio germinativo (termine improprio perché non germina nulla, è un semplice rivestimento che
avvolge la superficie dell’ovaio).
Successivamente l’ovaio, in seguito alla chiusura verso l’avanti dell’embrione, segue la parete, che si spinge
verso l’avanti e verso il basso, così che arriva nel luogo definitivo, cioè la piccola pelvi, a ridosso della faccia
laterale, all’altezza dell’acetabolo. Nella discesa dell’ovaio (di fatto l’ovaio non si sposta, viene trasportato),
esso porta con sé i suoi vasi e i suoi nervi, tanto che nella femmina adulta l’arteria genitale nasce all’altezza
di L2, così come anche la vena genitale si trova in alto rispetto all’ovaio, in quanto esso si è “spostato” e si è
portato dietro le strutture vascolari e nervose, ma anche linfatiche, infatti il drenaggio linfatico dell’ovaio
avviene a livello dei linfonodi paraortici.
Proprio perché l’ovaio nasce dalla specializzazione della parte corticale, o interna, della gonade primitiva, e
proprio perché il celoma che circonda l’ovaio non diventa peritoneo ma epitelio germinativo, esso sporge
nella cavità peritoneale fin da subito e vi rimane: si trova dentro alla cavità peritoneale. Questo rappresenta il
sistema più efficace per rendere possibile che al momento dell’ovulazione l’ovocita si trovi nella giusta
condizione per entrare nella tuba, dove il peritoneo è bucato. Quindi la femmina è l’unica proprietaria di un
organo intraperitoneale.
Mezzi di fissità dell’ovaio:
A questo punto sorge il problema di come possa l’ovaio, che si trova nel peritoneo, a reggersi nel luogo in cui
si trova: devono esistere dei mezzi di fissità. Infatti l’ovaio deve trovarsi sempre vicino alla tuba, in
particolare alla sua porzione infundibolare. Quando una donna va in gravidanza, a partire da un certo numero
di settimane l’addome di questa donna si gonfia, a causa del fatto che l’utero si ingrossa progressivamente
sotto l’azione di numerosi ormoni e fattori di crescita per accogliere il prodotto del concepimento e i suoi
annessi. In particolare l’utero si accresce in alto e in avanti, le uniche direzioni verso le quali può andare a
causa della presenza di ostacoli, quali il diaframma e il pavimento pelvico, dal fatto che la cervice uterina
non subisce grandi modificazioni né durante il ciclo mestruale né durante la gravidanza, così che l’unico
luogo di minor resistenza è lo stretto superiore della pelvi e la parete anteriore dell’addome, che è molle.
Mentre l’utero si ingrossa le tube seguono i corni uterini, quindi il fondo dell’utero, di conseguenza le tube si
raddrizzano e l’estremo infundibolare delle tube si viene a trovare un po’ distante dal luogo di partenza,
spostato verso l’alto e in dietro, così come l’ovaio, anch’esso spostato in alto e in avanti, in quanto segue la
parte infundibolare della tuba. Una volta che la donna partorisce l’utero torna alle dimensioni iniziali e anche
le tube e l’ovaio tornano alla morfologia e alla posizione iniziali. I mezzi di fissità dell’ovaio danno ragione
del fatto che durante la gravidanza quest’organo cambia di posizione, per poi tornare alla posizione iniziale
una volta terminata la gravidanza.
Un primo mezzo di fissità dell’ovaio è rappresentato da un tralcio fibroso che si diparte dal margine laterale
dell’utero al polo inferiore dell’ovaio, che prende il nome di legamento uterovarico.
Il secondo mezzo di fissità dell’utero è rappresentato dai vasi ovarici, arteria e vena. Si tratta di vasi che sono
inizialmente addominali, in particolare l’arteria ovarica nasce a circa L2 dall’aorta addominale, ma poi, se
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raggiungono l’ovaio, devono diventare pelvici, quindi devono attraversare lo stretto superiore della pelvi. I
vasi ovarici nel passare dall’addome alla pelvi sono immersi nel tessuto retroperitoneale, addossati alla
parete dal tessuto retroperitoneale e dal peritoneo parietale, dunque fissi, e siccome raggiungono l’ovaio,
automaticamente esso è fissato dai suoi vasi, che ne rappresentano un mezzo di fissità. In particolare questi
entrano tra i 2 foglietti del legamento largo laddove questi diventano parietali. Tanto i vasi dell’ovaio ne
rappresentano un mezzo di fissità che il rilievo che lo spessore dei vasi determina a livello del peritoneo
parietale, sollevandolo, viene definito legamento sospensore dell’ovaio.
Esiste un ulteriore mezzo di fissità: il peritoneo che avvolge la tuba, in particolare il solo foglietto ex dorsale
del legamento largo diventato mediale dell’ampolla, presenta una piega, con un margine libero della piega,
lungo il quale è incollato il margine anteriore dell’ovaio. Questa piega prende il nome di mesovario, è molto
piccolo e prende questo nome, nonostante in genere i mesi siano strutture relativamente grandi, anche perché
ricorda la posizione del mesocolon trasverso, che permette al colon trasverso di basculare, cosa che però non
succede all’ovaio. Quindi l’ovaio risulta incollato tramite il suo margine anteriore e basculante per il resto,
come una specie di “bandiera”.
Siccome però l’ovaio occupa spazio, la sua presenza fa sì che il foglietto mediale del peritoneo, ex dorsale
del legamento largo, all’altezza dell’ampolla, in avanti, e della parte infundibolare, dietro, sia un po’ incavato
per accoglierlo, a formare un infossamento, una nicchia. Questo spazio di cavità peritoneale occupato
dall’ovaio prende il nome di borsa ovarica.
L’ampolla tubarica e il relativo peritoneo “abbracciano”, coprendolo, il margine anteriore dell’ovaio, che
quindi non risulta visibile, nonché parte della sua faccia mediale; la parte infundibolare della tuba invece
copre il polo superiore dell’ovaio e scende verso il basso passandovi dietro, più o meno a contatto con il suo
margine posteriore. In qualche modo i vasi ovarici, che provengono dall’alto e raggiungono l’ovaio, devono
entrare dentro alla porzione del legamento largo: questi vasi si ramificano nello spessore del legamento largo
e bucano il peritoneo proprio a livello del mesovario per raggiungere il margine anteriore dell’ovaio,
attraverso il quale entrano nell’ovaio (o vi escono). Per questo motivo i vasi ovarici rappresentano per
l’ovaio un mezzo di fissità.
Fossa ovarica:
La borsa ovarica non va però confusa con la fossa ovarica, termine con il quale si intende una regione della
parete laterale della piccola pelvi quadrangolare, in particolare a forma di losanga, extraperitoneale, ossia
fuori dal peritoneo (per osservarla è necessario rimuovere il peritoneo). Essa è delimitata da 4 lati, si trova
subito sotto alla linea arcuata e, tappezzata da peritoneo parietale, accoglie l’ovaio, pur essendo le strutture
della fossa ovarica separate dall’ovaio tramite peritoneo parietale.
Il lato superiore della fossa ovarica è rappresentato dai vasi iliaci esterni, anche se queste non sono strutture
pelviche, bensì addominali, ma percorrendo essi la linea innominata si trovano al confine tra queste 2
regioni.
Il margine anteriore è rappresentato dalla parte ampollare della tuba, con il suo peritoneo.
Il margine posteriore è la parte iniziale dell’uretere pelvico: l’uretere infatti, schiacciato contro la parete
posteriore, deve entrare nella pelvi e in questo tragitto passa immediatamente dietro l’ovaio, prendendovi
rapporto topografico (sebbene che l’ovaio non è un organo peritoneale e che l’uretere è un organo
retroperitoneale), tanto che nei casi di masse e occupanti spazio nell’ovaio, la probabilità statistica che
l’uretere venga compresso è molto elevata, con la conseguenza che l’uretere, il bacinetto renale, i calici
maggiori e i calici minori si dilatano, mentre il rene si gonfia di un’urina che non può espellere, condizione
che prende il nome di nèfrosi e che nella femmina presenta tra le cause il cancro dell’ovaio.
Il quarto lato della fossa ovarica è rappresentato dall’arteria ombelicale, ramo di un ramo dell’arteria iliaca
interna, importante durante la circolazione fetale in quanto le 2 arterie ombelicali trasportano sangue refluo,
benché arterie, dal feto alla placenta (se ne parlerà in seguito). Esso contribuisce all’irrorazione della vescica,
quindi, essendo retroperitoneale, deve portarsi in avanti per raggiungere la vescica, disegnando il lato
inferiore della fossa ovarica.
Quindi la fossa ovarica è una piccola regione della parete laterale della pelvi laddove si appoggia o proietta
l’ovaio, delimitata in alto dai vasi iliaci esterni, anteriormente dall’ampolla tubarica, posteriormente
dall’uretere e inferiormente dall’arteria ombelicale. L’ovaio si trova all'altezza della fossa ovarica in una
donna nullipara, cioè che non ha mai avuto gravidanze, perché invece nella donna multipara, cioè la donna
che ha portato a termine almeno una gravidanza, l’ovaio non sempre ritorna nel luogo iniziale.
La fossa ovarica è attraversata obliquamente da una quinta struttura, il nervo otturatorio. Esso per la parte
motoria innerva i muscoli adduttori e per la parte sensitiva innerva la parte mediale della regione del
ginocchio. Esso è molto importante dal punto di vista clinico, in quanto masse occupanti a livello dell’ovaio
possono comprimere questo nervo e determinare dolore urente e in alcuni casi lancinante, tipici della
nevralgia, proprio a livello della regione mediale del ginocchio.
I rapporti con uretere e nervo otturatorio rimangono invariati anche nella donna multipara.
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PERINEO:
Il perineo è un piano musco-membranoso posto sotto al diaframma pelvico. L’insieme di diaframma pelvico
e di perineo forma il pavimento pelvico, quindi il perineo rappresenta lo strato inferiore del pavimento
pelvico.
Il perineo è individuabile tramite dei punti di riferimento precisi posti al suo esterno. In un soggetto in
posizione clinostatica supina con le cosce divaricate, se si sposta la borsa scrotale verso l’alto, si individuano
tali punti: un punto è rappresentato dalla sinfisi pubica; verso il basso, a destra e a sinistra, seguendo quelle
che corrispondono alle branche ischiopubiche, che divergono in basso, lateralmente e soprattutto in dietro, si
individuano altri 2 punti, che rappresentano le tuberosità ischiatiche, di destra e di sinistra. Se si uniscono
questi primi 3 punti si disegna un triangolo isoscele, che prende il nome di triangolo anteriore del perineo, la
cui base è rappresentata dalla linea che unisce le tuberosità ischiatiche e prende il nome di linea bisischiatica.
Dietro a questo triangolo, lungo la linea di mezzo è presente un punto duro, immediatamente dietro
l’apertura anale, che corrisponde all’apice del coccige. Unendo questo punto con i 2 punti corrispondenti alle
tuberosità ischiatiche si disegna un secondo triangolo, il triangolo posteriore del perineo.
Questi 2 triangoli nel complesso non formano una losanga, in quanto non insistono sullo stesso piano.
In superficie al triangolo posteriore, nella femmina come nel maschio, è presente l’apertura anale. Nel
triangolo anteriore, invece, ci sono numerose differenze, in particolare nel maschio il triangolo anteriore
presenta cute e tessuti sottocutanei, ma non soluzioni di continuità, mentre nella femmina è presente
un’ampia soluzione di continuità rappresentata dal vestibolo vaginale.
Se si taglia cute e sottocute perineale si incontra una parete chiara, cioè una fascia connettivale che prende il
nome di fascia perineale superficiale.
Perineo superficiale maschile:
Nel maschio il perineo anteriore è continuo, cioè non presenta soluzioni di continuità.
MUSCOLI DEL PERINEO ANTERIORE:
In profondità alla fascia perineale superficiale si osserva la presenza di 3 coppie di muscoli sottili e allungati,
2 dei quali coprono visceri.
In particolare parallelamente alle 2 branche ischiopubiche sono presenti 2 muscoli allungati, a destra e a
sinistra, che decorrono ciascuna branca ischiopubica dalla sinfisi pubica fino quasi alla tuberosità ischiatica,
e che prendono il nome di muscoli ischiocavernosi.
Inoltre ai lati della linea di mezzo è presente un altro muscolo, il muscolo bulbocavernoso, fatto di 2 metà
simmetriche, che nel maschio, non essendoci soluzioni di continuità a questo livello, si uniscono per quasi
tutta la lunghezza lungo la linea di mezzo (se ne parla al singolare ma è fatto di 2 metà simmetriche).
Infine quasi a segnare la base del triangolo anteriore del perineo c’è un muscolo che va da destra a sinistra e
viceversa, che prende il nome di muscolo trasverso superficiale del perineo.
I muscoli ischiocavernosi di destra e di sinistra si dispongono a disegnare il triangolo anteriore del perineo,
mentre il muscolo bulbocavernoso ne disegna l’altezza.
Il muscolo ischiocavernoso non aderisce per tutta la sua lunghezza alla branca ischiopubica, in quanto tra la
faccia interna di tale muscolo e la branca è presente una struttura, che rappresenta una delle cosiddette radici
del pene. Il pene conta 3 radici, 2 pari e 1 impari. Le 2 radici pari sono incollate alla branca ischiopubica
corrispondente e ciascuna di esse è coperta dal muscolo ischiocavernoso.
Ciascuna delle radici pari del pene è fatta di tessuto cavernoso ed è ricoperta da una tonaca connettivale. Il
tessuto cavernoso è un tessuto vascolare, riconducibile ad una grossa vena, che presenta all’interno una rete
tridimensionale che ricorda una spugna, cioè che presenta all’interno pareti che delimitano piccole cavità,
l’una in comunicazione con l’altra, le quali sono riempite di sangue. Il sangue contenuto in questi spazi
normalmente è in quantità molto ridotta, ma quando comincia l’erezione del pene l’afflusso di sangue a
questi 2 corpi aumenta: l’erezione è un evento di natura idraulica.
I 2 muscoli ischiocavernosi seguono l’andamento delle branche ischiopubiche, quindi si inseriscono agli
estremi di tali ossa, così che l’andamento delle miofibre di questi muscoli è parallelo alla branca
ischiopubica. Il risultato è che, contraendo questi muscoli (non contraibili separatamente), si ha una
contrazione isometrica che determina lo schiacciamento del tessuto cavernoso delle radici contro il duro
della branca ischiopubica; siccome dentro al tessuto è presente del liquido, il sangue, questo viene spinto
verso i luoghi di minor resistenza.
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Tra i 2 corpi cavernosi del pene pari, coperti ciascuno dal proprio muscolo cavernoso, si trova il muscolo
bulbocavernoso. Incidendo tale muscolo lungo la linea di mezzo è visibile una struttura a forma di conca
aperta verso il dietro, deputata ad accogliere la terza radice del pene, quella impari e mediana, che prende il
nome di corpo cavernoso dell’uretra, a causa del fatto che essa è attraversata longitudinalmente da una parte
di uretra maschile. Al suo inizio, cioè in prossimità del muscolo trasverso superficiale del perineo, esso è più
grande, quindi questa sua porzione prende il nome di bulbo del corpo cavernoso dell’uretra. Il bulbo del
corpo cavernoso dell’uretra è contenuto nella conchetta generata dalla giustapposizione delle 2 metà del
muscolo bulbocavernoso, per il muscolo prende questo nome in quanto contiene e copre la parte bulbare del
corpo cavernoso dell’uretra.
Le 2 metà del muscolo bulbocavernoso nell’andare dal basso verso l’alto e da dietro in avanti, sebbene
inizialmente esse siano unite, verso la sinfisi pubica si separano e ciascuna delle metà, che ora diventano 2
muscoli distinti, vanno verso l’avanti ad inserirsi proprio sotto la sinfisi pubica, all’osso; all’estremità
opposta, posteriormente, a livello del centro della base del triangolo anteriore e posteriore, le 2 metà del
muscolo bulbocaversono si inseriscono, questa volta unite, in un punto che corrisponde ad un cercine
fibroso, che prende il nome di centro tendineo del perineo, struttura connettivale.
Il centro tendineo del perineo rappresenta anche il punto di inserzione delle 2 metà del muscolo trasverso
superficiale del perineo, muscolo che disegna la base dei triangoli, fatto di due metà simmetriche che vanno
dalla branca ischiopubica in prossimità della tuberosità ischiatica, struttura ossea, verso il centro tendineo del
perineo. Di conseguenza, avendo la capacità di contrarre le 2 metà del muscolo trasverso superficiale
(anch’esse contraibili solo contemporaneamente), il cercine fibroso viene tirato con la stessa forza verso
destra e verso sinistra, quindi viene fissato e irrigidito momentaneamente, così da diventare un punto fisso
per il muscolo bulbocavernoso, che altrimenti dissiperebbe la contrazione nel far avvicinare il centro
tendineo del perineo alla sinfisi pubica.
Contraendo la coppia di muscoli del bulbocavernoso, che sono disposti a conca, questo muscolo si
appiattisce verso il dietro e, essendovi al suo interno il corpo cavernoso dell’uretra, che ha sangue, viene
spinto e spremuto il bulbo del corpo cavernoso e il sangue contenutivi si sposta verso il luogo di minore
resistenza. Questo meccanismo non è alla base dell’erezione del pene, altrimenti la semplice contrazione di
tali muscoli, volontariamente possibile, determinerebbe un’erezione, bensì è necessaria una serie di stimoli,
di diversa natura, che tramite una circuiteria del sistema nervoso autonomo aumentano l’afflusso di sangue
alle 3 radici del pene, fenomeno che determina l’erezione. Questi muscoli hanno la funzione di spingere
sangue verso la parte mobile del pene eretto, che aiuta a mantenere l’erezione; inoltre hanno la funzione,
contraendosi in via riflessa in maniera ritmica, di sospingere gli spermatozoi che hanno raggiunto l’uretra
lungo il resto della stessa ai fini della eiaculazione.
PENE:
I 3 corpi cavernosi, 2 pari e 1 impari, convergono tra loro verso la sinfisi pubica e passano al davanti della
sinfisi pubica. Nel fare questa operazione i 3 corpi, che inizialmente costituiscono la parte fissa del pene,
tendono a legarsi l’uno all’altro e, oltre la sinfisi pubica, formano un’unica struttura, la parte mobile del
pene, sempre costituita da 3 corpi, 2 pari e 1 impari.
In particolare i 2 corpi cavernosi pari nella parte mobile del pene si avvicinano l’uno all’altro e diventano
adiacenti, dando origine ventralmente ad una sorta di doccia che accoglie il corpo spongioso dell’uretra, cioè
il corpo cavernoso impari. Il corpo cavernoso dell’uretra finisce dilatandosi in una formazione, chiamata
glande, che presenta una superficie esterna grossolanamente convessa in tutte le direzioni e una superficie
inferiore concava per adattarsi all’estremità più o meno appuntita dei 2 corpi cavernosi pari del pene. Quindi
il pene presenta, sia nella parte fissa sia nella parte mobile, tessuto cavernoso.
In un pene eretto il corpo spongioso dell’uretra si pone al davanti degli altri 2 corpi cavernosi, quindi la
faccia che si osserva frontalmente è quella prospiciente al corpo cavernoso dell’uretra e rappresenta la faccia
ventrale, mentre l’altra faccia è quella dorsale. Viceversa in un pene non eretto, cioè con la parte mobile
verso il basso, la faccia che si osserva è quella dorsale, mentre quella che non si vede è la faccia ventrale, in
quanto il pene si descrive da eretto.
Nel complesso i 3 corpi cavernosi del pene risultano avvolti da uno strato connettivale, che rappresenta lo
strato superficiale della tonaca albuginea.
Ciascun corpo cavernoso risulta invece rivestito singolarmente da un altro strato connettivale, che
rappresenta lo strato profondo della tonaca albuginea.
Alla superficie del pene sono presenti uno strato di cute e uno strato di sottocute molto lassi, in quanto
devono accomodare le variazioni di volume e di dimensioni della parte mobile del pene, che si ingrossa, si
allunga e si indurisce. L’erezione del pene è regolata dall’attività del sistema nervoso autonomo, in
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particolare dal sistema nervoso parasimpatico, tramite nervi che producono un’intensissima vasodilatazione
locale.
A livello della faccia dorsale del pene si trovano 4 vasi, 2 coppie. 2 sono arterie, pari, prendono il nome di
arterie dorsali del pene, destra e sinistra, e sono contenute nello spessore dello strato superficiale della
tonaca albuginea; esse sono accompagnate da una coppia di nervi del sistema nervoso parasimpatico. Tra le 2
arterie dorsali del pene, nello strato superficiale della tonaca albuginea, si trova una vena, la vena dorsale del
pene profonda, dorsalmente alla quale si trova, nel sottocute, e quindi visibile ad occhio nudo attraverso la
cute del pene, una seconda vena, la vena dorsale superficiale. Si tratta di vene di scarico, che devono
raggiungere il plesso vescico-prostatico, e per farlo passano sotto la sinfisi pubica. Durante l’erezione le
caverne si riempiono di sangue, il pene cambia forma e dimensioni e viene spinto contro il duro della sinfisi
pubica; ma se a questo livello sono localizzate le vene dorsali, queste, in particolare quella superficiale,
vengono schiacciate dall’esterno dalla sinfisi pubica, con il risultato che il sangue non defluisce. Infatti la
posizione assunta dal pene durante l’erezione, che ne determina lo schiacciamento contro la sinfisi pubica, è
funzionale al mantenimento dell’erezione per il fatto che la via di uscita è chiusa.
Questa organizzazione anatomica spiega il motivo per cui il soggetto con ipertrofia prostatica avverte
desiderio sessuale: l’ingrossamento della prostata determina la compressione dei vasi del plesso vescicoprostatico, che a sua volta determina stasi di sangue anche a livello del pene, in quanto le vene dorsali del
pene sono tributarie del plesso vescico-prostatico.
I vasi arteriosi che irrorano il pene sono funzionali all’erezione, ma anche al nutrimento del pene, quindi se
l’erezione persistesse dopo un certo tempo ossigeno e nutrienti verrebbero consumati, quindi i tessuti del
pene inizierebbero a soffrirne, con conseguente cianosi e dolore. Questo fenomeno si chiama priapismo,
fenomeno in genere non naturale, ma conseguente all’uso di farmaci vasodilatatori per indurre erezione.
Tra la faccia esterna della sinfisi pubica e il dorso del pene, nel punto in cui la parte fissa del pene diventa
mobile si trova un’assetto connettivale disposto longitudinalmente, che prende il nome di legamento
sospensore del pene, poco importante di per sé, ma che entra in gioco nella chirurgia del pene che si effettua
in soggetti che abbiano intenzione di aumentare le dimensioni del proprio pene: in questi casi il chirurgo
taglia a zig-zag il legamento sospensore, così da allontanare questa parte di pene dalla sinfisi pubica,
generando la falsa illusione che il pene diventi più lungo.
Perineo superficiale femminile:
Mentre nel maschio il perineo anteriore è continuo, nella femmina esso presenta soluzioni di continuità,
costituite dall’apertura vaginale e dall’orifizio dell’uretra. La soluzione di continuità nella femmina riguarda
cute, sottocute, fascia perineale superficiale e muscolo bulbocavernoso.
VULVA:
In una donna in posizione ginecologica si osserva ciò che prende il nome di vulva, che occupa grandissima
parte del perineo anteriore femminile in superficie.
La vulva presenta 2 coppie di pieghe cutanee, di cui una sta all’interno dell’altra, a forma di parentesi tonde:
le grandi labbra della vulva, all’esterno, e le piccole labbra della vulva, all’interno. Esse sono pieghe
cutanee più o meno evidenti, particolarmente pigmentate, che presentano tutte le caratteristiche della cute,
cioè ghiandole sudoripare, ghiandole sebacee e bulbi piliferi, che sono la continuazione dei bulbi piliferi che
la femmina, come il maschio, presenta in regione ipogastrica.
Le grandi labbra posteriormente sono unite da una commessura, detta commessura posteriore, piuttosto
dolce, convessa, mentre anteriormente sono unite dalla commessura anteriore, più netta, meno dolce.
L’unione delle grandi labbra a livello della commessura anteriore avviene proprio al davanti della sinfisi
pubica, in particolare al davanti dell’estremo più ventrale della sinfisi pubica, tanto che se si osserva la
femmina in posizione clinostatica supina con le cosce addotte (avvicinate) si intravvede la fessura che
separa/unisce le 2 grandi labbra. Le grandi labbra sono dotate, oltre che di bulbi piliferi, anche di ghiandole
sudoripare e di ghiandole sebacee, quindi si tratta di cute a tutti gli effetti, simile alla cute ascellare.
Anche le piccole labbra sono delle pieghe cutanee, ma sono una vai di mezzo tra cute e tonaca mucosa. Esse
presentano un derma, un sottocute, poco rappresentato e privo di grasso, a differenza delle grandi labbra, per
cui le piccole labbra appaiono di colore rossastro-violaceo e somigliano molto alle labbra dell’apertura
buccale, con un epitelio pluristratificato cheratinizzato relativamente sottile, che passando dalla faccia
laterale alla faccia mediale perde la cheratinizzazione.
Le piccole labbra, a differenza delle grandi labbra, sono particolarmente sottili e allungate, inoltre sporgono
in avanti, tanto che se si avvicinano le grandi labbra verso la linea di mezzo una parte delle piccole labbra
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sporge attraverso la fessura delimitata dalle grandi labbra (nella bambina non succede in quanto le grandi
labbra risultano molto grandi in proporzione).
Anche le piccole labbra sono unite anteriormente e posteriormente da commessura anteriore e commessura
posteriore delle piccole labbra. A livello della commessura anteriore le piccole labbra coprono una
formazione cavernosa, che prende il nome di clitoride, una formazione di circa 1-1,5 cm di lunghezza,
l’analogo femminile del pene, che si trova all’altezza della commessura anteriore delle piccole labbra. La
commessura anteriore e il clitoride che esse ricoprono viene a trovarsi al davanti della sinfisi pubica, in
particolare del suo estremo inferiore. Si tratta di una posizione strategica per il clitoride, in quanto in questo
modo si viene a trovare a ridosso di una superficie dura e lo strofinamento del clitoride è alla base
dell’orgasmo femminile. Questo perché il clitoride è fatto di tessuto erettile e rappresenta la struttura
corrispondente della parte di pene mobile composta dai 2 corpi cavernosi del pene, infatti il clitoride nasce
dalla convergenza di 2 piccoli corpi cavernosi.
Mentre i corpi cavernosi pari del pene sono lunghi quasi quanto la branca ischiopubica corrispondente, le
radici del corpo cavernoso del clitoride, di destra e di sinistra, sono di circa 2 cm e convergono anch’esse a
formare il clitoride. Dalla superficie esterna tutto ciò non è visibile, se non il clitoride, di cui si intravede il
clitoride propriamente detto, in quanto il corpo del clitoride risulta coperto dalla commessura anteriore delle
piccole labbra, flaccido, che appare come un piccolo rilievo longitudinale. Durante l’eccitazione sessuale,
essendo il clitoride fatto di tessuto erettile, esso si riempie di sangue e diventa leggermente più evidente. Si
intravede anche l’apice del clitoride, una specie di glande del clitoride che ne rappresenta l’estremo.
Immediatamente posteriormente al clitoride, tra le piccole labbra, si trova l’orifizio esterno dell’uretra.
Immediatamente posteriormente all’orifizio esterno dell’uretra si trova l’orifizio vaginale.
VESTIBOLO VAGINALE:
Il vestibolo vaginale è la parte perineale della vagina, laddove essa sbocca all’esterno, delimitato
lateralmente dalle piccole labbra e posteriormente da una membrana, visibile nella donna vergine e anche
nella donna che ha avuto rapporti sessuali, ma non più visibile nella donna che ha avuto un parto, che prende
il nome di imene. In realtà l’imene è una membrana discontinua, aperta, se ne osserva il profilo, che può
assumere varie forme, con un’apertura di circa 1,5 cm piuttosto rotonda con dei margini molto regolari nella
donna che non ha ancora avito il primo rapporto sessuale.
Di norma l’imene presenta un’unica aperture, in alcuni casi esso è sepimentato, cioè è presente un tralcio
fibroso che unisce 2 estremi, anteriore e posteriore, in altri casi esso è cribroso, cioè bucherellato, in casi rari
esso è imperforato. In genere accade che al primo flusso mestruale (o menarca) l’imene sepimentato o
cribroso si perfora completamente, in casi molto rari è imperforato, caso tuttavia in cui la membrana è così
sottile che al primo flusso mestruale essa si rompe spontaneamente, creando un varco.
Dopo il primo rapporto sessuale l’apertura dell’imene si ingrandisce e la periferia dell’imene diventa
piuttosto frastagliata, mentre dopo il primo parto l’imene sparisce, a causa del passaggio del feto.
Tutto ciò che sta aldilà dell’imene è vagina, quindi tecnicamente il vestibolo vaginale non è vagina.
Ghiandole vestibolari di Bartolino:
Nella femmina in questa regione, in profondità rispetto alla fascia perineale superficiale, diversamente dal
maschio, in prossimità della commessura posteriore delle piccole labbra, nello spessore delle piccole labbra,
si trovano le strutture analoghe delle ghiandole bulbouretrali maschili, che però hanno un nome diverso in
quanto non vanno nella parte bulbare dell’uretra (la femmina non ha parte bulbare dell’uretra), cioè
ghiandole vestibolari di Bartolino. Il secreto di queste ghiandole viene immesso nella parte dorsale (cioè
verso l’apertura anale) del vestibolo vaginale, per lubrificarlo e facilitare la penetrazione.
Le ghiandole vestibolari di Bartolino, una di destra e una di sinistra, sono nella femmina elementi del
peritoneo superficiale. Esse si trovano ai lati della commessura posteriore delle piccole labbra, proprio sotto
il bulbo del vestibolo, quindi in posizione piuttosto dorsale, vicino all’apertura anale, e il loro condotto
immette nel vestibolo vaginale durante l’eccitazione sessuale (da qui il nome “ghiandole vestibolari”). Il
secreto delle ghiandole vestibolari è molto simile a quello delle ghiandole bulbouretrali, la sua funzione è
quella di favorire la penetrazione da parte del pene. In assenza di lubrificazione del vestibolo il rapporto
sessuale è doloroso, per entrambi i partner. Sebbene anche in questo caso la secrezione sia determinata dal
parasimpatico, come nel maschio, gli ormoni femminili hanno un ruolo molto importante nella produzione
del secreto: la stimolazione del parasimpatico è necessaria ai fini della secrezione, non della produzione.
Infatti dopo la menopausa, in quanto non ci sono più ormoni estrogeni e progestinici, la produzione di
liquido da parte delle ghiandole bulbouretrali si azzera, con il risultato che la vulva è secca durante il
rapporto. Proprio perché questo condotto sbocca nel vestibolo vaginale, la probabilità statistica che la
ghiandola di Bartolino venga infettata è relativamente alta. Questo fenomeno, che prende il nome di
bartolinite, non è frequentissimo, ma si verifica, sebbene sia ostacolato dal fatto che le piccole labbra
rimangono giunte per gran parte del tempo. È una condizione molto dolorosa, vi si pone rimedio con la
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terapia antibiotica e, se questo non è sufficiente, è necessario effettuare una piccola incisione tra il piccolo
labbro e il grande labbro per favorire l’uscita del pus.
L’uretra corta nella femmina può essere problematica dopo una certa età per i motivi di cui sopra. In realtà
prima di quella certa età l’uretra corta può essere problematica per un altro motivo, legato al fatto che
essendo corta, la probabilità statistica che la femmina vada incontro a cistiti, ossia infezioni della vescica
urinaria, è sicuramente più elevata che nel maschio. Infatti, facilitato da una frequenza molto elevata di
rapporti sessuali, può verificarsi che il pene che penetra e viene a contatto con l’apertura sia contaminato da
batteri, che percorrono in via retrograda l’uretra e diano origine a cistite, evento facilmente risolvibile con la
terapia antibiotica.
MUSCOLI DEL PERINEO ANTERIORE:
Se si incidono le grandi labbra e le piccole labbra dalla superficie in profondità e in senso sagittale si osserva
che nel perineo femminile anteriore si collocano esattamente gli stessi muscoli descritti nel maschio: il
muscolo trasverso superficiale del perineo, i muscoli ischiocavernosi e il muscolo bulbocavernoso. L’unica
differenza è che, a causa della presenza della soluzione di continuità costituita da vagina e uretra, mentre il
muscolo bulbocavernoso nel maschio è unico, nella femmina esso è composto da 2 muscoli separati, il
muscolo bulbocavernoso di destra e il muscolo bulbocavernoso di sinistra. La separazione di questi 2
muscoli avviene per permettere la fuoriuscita del condotto vaginale e dell’uretra femminile.
Il muscolo bulbocavernoso, di destra e di sinistra, nella femmina assume la forma di parentesi tonda, proprio
ai lati del piccolo labbro, quindi esso si trova in profondità rispetto al grande labbro. Se si incide il grande
labbro, cute e sottocute, si arriva alla fascia perineale superficiale, tagliando la quale si arriva al muscolo
bulbocavernoso, a destra e a sinistra.
Come nel maschio le 2 metà di muscolo bulbocavernoso si fondono per creare una conca che accoglie il
bulbo del corpo spongioso dell’uretra, nella femmina c’è qualcosa di analogo: il muscolo bulbocavernoso
non fa altro che creare una doccia che accoglie un corpo cavernoso, uno a destra e uno a sinistra, che
corrisponde a metà del bulbo del corpo cavernoso dell’uretra, detto bulbo del vestibolo, molto più grande del
corpo cavernoso del clitoride. I bulbi del vestibolo di destra e di sinistra convergono verso l’avanti per
arrivare alla radice del clitoride. Il bulbo del vestibolo è circa 4-5 volte maggiore rispetto al corpo cavernoso
del clitoride, ma anch’esso è fatto di tessuto erettile (o cavernoso).
Si spiega dunque la ragion d’essere del muscolo bulbocavernoso anche nella femmina: esso durante
l’eccitazione sessuale e durante l’orgasmo esso si contrae per comprimere il bulbo del vestibolo. [Quindi
anche nella femmina durante l’eccitazione sessuale la contrazione dei muscoli bulbocavernosi produce lo
schiacciamento del bulbo del vestibolo, quindi l’afflusso di sangue al clitoride, condizione che, come nel
maschio, è necessario ma non sufficiente.]
Invece il muscolo ischiocavernoso nella femmina copre, specialmente verso l’apice del triangolo anteriore,
un accenno di corpo cavernoso, molto corto e sottile, che nel maschio corrisponde alla radice del pene, che
converge con quello controlaterale a formare il clitoride. Il clitoride infatti è formato dall’unione di 2 corpi
cavernosi, che si incontrano proprio al di sotto e al davanti della sinfisi pubica.
Quindi come nel maschio durante l’eccitazione sessuale si determina l’afflusso di sangue ai vari corpi
cavernosi, quindi la variazione di forma, dimensioni e consistenza della parte mobile del pene, analogamente
nella femmina durante l’eccitazione sessuale si determina un afflusso di sangue al tessuto cavernoso del
bulbo del vestibolo, di destra e di sinistra, e del corpo cavernoso del clitoride, che inturgidiscono la regione,
aumentando le dimensioni della struttura in maniera che la stimolazione abbia maggior probabilità di indurre
l’orgasmo.
Episiotomia:
Il condotto vaginale rappresenta il canale del parto. In genere succede che, sotto l'azione della ossitocina,
ormone neuroipofisario secreto in grandi quantità per indurre il parto, si ha da un lato la contrazione della
muscolatura uterina, che è disposta un po' come quella della vescica urinaria, cioè tante fibre paraboliche che
spingono, ma anche un certo ammorbidimento del collo dell’utero, già preparato dall’enorme quantità di
progesterone in circolo. Inoltre il liquido dell’amnios si inserisce fuori dal collo dell’utero per allargare come
un cuneo idraulico il collo dell’utero e quindi il condotto vaginale, tale per cui con la rottura delle acque
succede che il parto può essere più o meno precipitoso. Questo evento, di norma, non richiede nessun altro
intervento. Può però succedere che le dimensioni della testa del feto sono superiori allo spazio utile per il
passaggio; in genere il collo dell’utero si dilata alla fine del periodo del travaglio per raggiungere il diametro
di circa una decina di cm, sufficiente per far impegnare la testa del feto. Può però succedere che tale
dilatazione non sia ottimale, quindi per evitare il parto cesareo l’ostetrico cerca di allargare il canale del
parto, tramite un taglio, che prende il nome di episiotomia. L’ostetrico preferisce fare questo taglio anziché
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avere una lacerazione di collo dell’utero e parete laterale della vagina, in genere piccolo labbro, a causa del
passaggio del feto, in quanto tale lacerazione in genere non dà origine a margini netti, caratteristica che pone
dei problemi per l’operatore che deve ricucire, cosa che invece non accade quando deve ricucire un taglio
che esso stesso ha effettuato. In particolare l’operatore non può tagliare sagittalmente, perché altrimenti verso
il basso andrebbe a tagliare lo sfintere volontario dell’ano e la stessa parete anale, cosa che assolutamente
non deve succedere, in quanto altrimenti la vita di relazione della donna viene compromessa, e verso l’alto il
clitoride, con conseguenze analogamente nefaste; quindi si taglia obliquamente dal davanti indietro e da
medio a lato, in genere sul lato di destra. Ciò avviene aggirando l’apertura anale, ma tagliando una delle 2
metà del muscolo trasverso superficiale. Tagliando in questo modo si risparmia il bulbo del vestibolo, che
peraltro determinerebbe sanguinamento, e il taglio è favorito dal fatto che in questa regione non ci sono
visceri ma grasso, che può essere tagliato senza particolari problemi.
In seguito al secondamento (fuoriuscita della placenta) l’operatore ricuce i vari strati tagliati: in parte il
grande labbro, il piccolo labbro, la parete della vagina, in parte il muscolo bulbocavernoso, ma
fondamentalmente il muscolo trasverso superficiale del perineo, mentre si bada bene a lasciare indenne il
muscolo elevatore dell’ano.
Si può fare questa operazione in quanto dopo la ricucitura della metà del muscolo trasverso superficiale del
perineo, la funzione di irrigidimento del centro tendineo del perineo non è compromessa, perché l’altra metà
è integra. Questo evento si applica molto spesso alla primipara, donna che ha per la prima volta un parto, ma
in caso di un secondo parto la stessa donna può andare incontro allo stesso problema, quindi è necessaria una
seconda episiotomia, che necessariamente deve avvenire dalla stessa parte della volta precedente, per avere
almeno una metà di muscolo trasverso superficiale integra tale che, tramite la sua contrazione, possa mettere
in tensione il cercine fibroso, che assicura la funzione della chiusura volontaria dell’ano.
Perineo profondo:
Nel perineo maschile, così come nel perineo femminile, profondamente al piano in cui si collocano le 3
radici dei corpi cavernosi del pene, la parte fissa del pene e i muscoli ischiocavernosi, bulbocavernoso e
trasverso superficiale del perineo, è presente un altro piano, che prende il nome di perineo profondo.
Il perineo profondo si individua soltanto a livello del triangolo anteriore, mentre nel triangolo posteriore non
c’è perineo profondo.
In quanto si trova in profondità rispetto al perineo superficiale, esso viene a collocarsi tra le strutture del
perineo superficiale e il diaframma pelvico.
Nel perineo superficiale maschile si trovano il muscolo bulbocavernoso, il muscolo ischiocavernoso, il
muscolo trasverso superficiale, le 3 radici del pene (il bulbo del corpo spongioso dell’uretra e le radici dei
corpi cavernosi del pene) e l’uretra bulbare; nel perineo superficiale femminile si trovano gli stessi muscoli
che si trovano nel maschio, i bulbi del vestibolo in sostituzione del bulbo del corpo cavernoso dell’uretra e le
radici del corpo cavernoso del clitoride in sostituzione delle radici dei corpi cavernosi del pene, oltre che
ovviamente il clitoride. Queste strutture rappresentano nel maschio e nella femmina il piano del triangolo
anteriore.
In profondità rispetto al piano del triangolo anteriore si individua una struttura triangolare con le
caratteristiche di una fascia muscolare, che prende il nome di fascia perineale profonda. Essa è tesa tra le 2
branche ischiopubiche ed è formata da 2 foglietti giustapposti, uno ventrale e uno dorsale, all’interno dei
quali è presente uno spazio. Il perineo profondo è riconducibile ad un “tramezzino”, che è formato da 2 fette
di pane triangolari all’interno delle quali è contenuto companatico, il cui spessore complessivo corrisponde a
circa 1 cm, quindi è relativamente sottile.
L’insieme dei 2 foglietti della fascia perineale profonda e di ciò che essi contengono prende il nome di
trigono urogenitale. Questa viene definita una struttura muscolo-membranosa: il termine “membranosa”
deriva dal fatto che questa struttura è delimitata da 2 foglietti di una fascia muscolare, il termine “muscolare”
deriva dal fatto che una delle strutture contenute all’interno dei 2 foglietti è muscolo, il muscolo trasverso
profondo del perineo.
Il muscolo trasverso profondo del perineo è un muscolo scheletrico formato da fibre che in gran parte vanno
da destra a sinistra e viceversa e in parte, verso l’apice del triangolo (verso la sinfisi pubica), non sono
esattamente trasverse, ma tendono a ondularsi, formando una specie di sfintere, che prende il nome di
sfintere volontario dell’uretra. Infatti tra le 2 facce della fascia perineale profonda, oltre al muscolo
trasverso profondo, sono contenuti anche altri elementi, tra cui una porzione dell’uretra, che attraversa
perpendicolarmente il trigono genitale, nel maschio come nella femmina, e che per questo prende il nome di
uretra membranosa.
La contrazione delle fibre del muscolo trasverso profondo del perineo, non potendo avvicinare le branche
ischiopubiche, determinano la tensione di questo piano, mentre per la componente che forma lo sfintere
volontario dell’uretra la contrazione determina la compressione in senso anteroposteriore dell’uretra. Lo
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sfintere volontario dell’uretra, in quanto formato da fibre scheletriche, è controllato da nervi somatici, non
dal sistema nervoso autonomo. La contrazione di questo muscolo permette di rimandare la minzione.
PERINEO PROFONDO MASCHILE:
Nel maschio ma non nella femmina, tra le 2 facce della fascia perineale profonda si trova, agli angoli
posteriori del trigono urogenitale, una coppia di ghiandole che prendono il nome di ghiandole bulbouretrali
di Cowper, il cui condotto escretore immette nel tratto iniziale dell’uretra bulbare. Il secreto di queste
ghiandole è un liquido trasparente e molto viscoso che agisce da lubrificante dell’uretra, prodotto durante
l’eccitazione sessuale e spontaneamente si libera nell’uretra per lubrificarla e favorire il passaggio degli
spermatozoi durante la eiaculazione. Questo liquido può, spinto da altro liquido, spontaneamente proseguire
lungo il resto dell’uretra, per finire all’esterno e lubrificare il glande, favorendo la penetrazione de pene.
PERINEO PROFONDO FEMMINILE:
Nella femmina il muscolo trasverso profondo del perineo verso la base del trigono urogenitale è fatto di fibre
che vanno da destra a sinistra e viceversa, mentre verso l’apice del trigono urogenitale le fibre cambiano
disposizione e si organizzano a formare intorno alla vagina un muscolo chiamato impropriamente sfintere
vaginale, in quanto si tratta di muscolo striato che non può essere composto da fibre circolari (solito discorso
di fibre che incrociano avanti e in dietro, in questo caso, al condotto vaginale). Questo muscolo è presente
soltanto nella femmina.
Un’altra parte del muscolo trasverso profondo del perineo si organizza a formare un altro sfintere, al davanti
della vagina, attorno all’uretra, lo sfintere volontario dell’uretra, struttura presente anche nel maschio. Al
davanti della vagina, cioè dietro la sinfisi pubica, questo muscolo si organizza a formare, sempre con il solito
dispositivo di fibre che si incrociano 2 volte davanti e dietro, lo sfintere volontario dell’uretra.
Nel complesso la muscolatura che forma lo sfintere vaginale e lo sfintere volontario dell’uretra prende il
nome di sfintere uretrovaginale. Essendo questo un muscolo volontario, una femmina può volontariamente
contrarlo, in modo da costringere la vagina e soprattutto l’uretra, così da bloccare il deflusso dell’urina.
Durante l’orgasmo femminile, invece, la contrazione di questo muscolo costringe l’uretra e la vagina,
occupata in quel momento dal pene, che contribuisce a generare la sensazione di piacere che prende il nome
di orgasmo.
FOSSA ISCHIORETTALE:
Il canale anale e lo sfintere dell’ano sono formazioni impari e mediane e sono affiancate da altri tessuti. In un
soggetto, maschio o femmina, ai lati dell’apertura anale, prima di arrivare alle 2 tuberosità ischiatiche non ci
sono ossa, ma tessuto molle. Se si incide ai lati dell’apertura anale si trova cute e sottocute, sottocute molto
abbondante, che permette di andare dalla superficie in profondità per qualche cm prima di arrivare al piano
muscolare del muscolo elevatore dell’ano. Durante questo tragitto non si incontra nulla di particolare, ma
soltanto grasso, a destra e a sinistra. In particolare questa regione rappresenta uno dei 2 recessi, a destra e a
sinistra, posti ai lati dell’apertura anale, medialmente al muscolo otturatorio interno, ciascuno dei quali è
delimitato in superficie da cute e cranialmente dal muscolo elevatore dell’ano. Quindi in una sezione frontale
(quindi in 2 dimensioni) si osservano schematicamente 2 triangoli rettangoli speculari, in ciascuno dei quali
l’ipotenusa è costituita dal muscolo elevatore dell’ano, il cateto minore da cute e sottocute perinatale, a
destra e a sinistra dell’apertura anale, e il cateto maggiore dalla parete composta dal muscolo otturatorio
interno. Se si fanno delle sezioni frontali seriate si osservano sempre triangoli di dimensioni diverse in
ciascuna sezione, quindi si deduce che tali triangoli rappresentano sezioni frontali di una struttura
tridimensionale, che prende il nome di fossa ischiorettale, in quanto delimitata lateralmente da parete
composta dalla branca ascendente dell’ischio coperta dal muscolo otturatorio interno, rettale perché si trova
ai lati dell’apertura anale. Questo spazio si riduce progressivamente da dietro in avanti.
La fossa ischiorettale è importante per 3 motivi.
Il primo è che quando si fa la episiotomia si taglia lateralmente ai lati del retto, e si può tagliare grazie al
fatto che in questa regione presente solo cute, sottocute e grasso.
Il secondo è che nel corso di infezioni della parete del canale anale, che poi evolvono in ascessi, l’ascesso si
forma a partire dalla parete del canale del retto, ma poi si spinge verso la fossa ischiorettale, andandola ad
occupare. In questi casi il soggetto riferisce un dolore intenso che si acuisce quando è seduto e l'ascesso
rettale o pararettale deve essere inciso: il medico incide ai lati dell’ascesso e crea un varco utile a far
fuoriuscire il pus. Il chirurgo una volta inciso non ricuce, perché mano a mano che il pus esce si ha la
rigenerazione tissulare, che produce nuovo tessuto di sostegno nella fossa ischiorettale, il quale va a riempire
lo spazio lasciato vuoto dall’ascesso e contemporaneamente spinge, facilitando lo svuotamento dell’ascesso.
Si parla di “guarigione di seconda intenzione”, che si ha quando i due lembi di una ferita vengono lasciati
aperti. Tuttavia non sempre tale ascesso ha esito felice, in quanto può succedere che, in seguito a ripetuti
eventi ascessuali ignorati, si venga a formare un canale tra il canale anale e la sacca ascessuale che sta a lato,
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in quanto l'impressione che dà origine a tale ascesso proviene dal canale anale; si parla di fistola perianale. Il
risultato è sia che batteri possono andare dal canale anale alla sacca asessuale, riproponendo l'infezione, sia il
contrario, cioè che batteri presenti nella sacca vadano a finire nel canale anale. Quindi il medico deve
assicurarsi, prima di chiudere la ferita, che non ci sia una fistola, casa in cui deve intervenire per chiuderla.
Il terzo motivo è che in realtà nella fossa ischiorettale c’è un fascio vascolo-nervoso, che si trova al lato
estremo della fossa rettale, che prende il nome di fascio vascolo-nervoso pudendo interno, in quanto è
composto da arteria pudenda interna, vena pudenda interna e nervo pudendo. Questo fascio vascolo-nervoso
percorre da dietro in avanti la fossa ischiorettale, ma non all'interno, bensì schiacciato sui lati, in uno
sdoppiamento della fascia otturatoria interna, quindi lontano dalla forbice che sta facendo episiotomia o dal
bisturi che sta incidendo per svuotare un ascesso perianale.
Organogenesi del perineo:
Se si osserva un embrione allo stadio indifferenziato dall’esterno non è possibile stabilire se è maschio o
femmina, in quanto la regione genitale è identica nei 2 sessi.
Se in questa fase si osserva il futuro perineo, al di sotto della sinfisi pubica si osserva una struttura, il
tubercolo pubico, uguale nel maschile e nella femmina. Dietro al tubercolo pubico si trovano 2 aperture,
quella più posteriore è il canale anale, quella più anteriore è l’apertura di uno spazio, che prende il nome di
seno urogenitale, nome che deriva dal fatto che questa struttura è destinata a dare origine ad elementi sia
dell’apparato urinario sia dell’apparato genitale.
In questa situazione la vescica urinaria ha la forma di un fiasco, con la base inferiormente e l’apice
superiormente, che finisce ad imbuto nel condotto chiamato ùraco. La base della vescica riceve gli ureteri
definitivi, ma riposa, cioè fa da tetto, al seno urogenitale, dietro al quale è posto l’abbozzo di retto. La
vescica urinaria riceve i 2 ureteri, che provengono dall’abbozzo metanefritico, abbozzo quasi finale del rene
primitivo; in realtà però durante lo sviluppo la formazione del rene primitivo e del suo condotto è preceduta
da una fase in cui il rene non è metanefro, ma mesonefro e pronefro, cioè forme primitive di rene, ciascuna
delle quali ha il suo condotto escretore: il condotto escretore del pronefro prende il nome di dotto
pronefritico di Müller, quello del mesonefro prende il nome di dotto mesonefritico di Wolf. Le fasi di
pronefro e mesonefro durano per un tempo breve, si arriva al metanefro abbastanza in fretta, ma questo
passaggio evolutivo e questi 2 condotti, di destra e di sinistra, sono sfruttati per ricavare altri organi. In
particolare, sia il dotto di Müller sia il dotto di Müller vanno dal rene primitivo al seno urogenitale, dunque
c’è un momento di breve durata della vita embrionale durante il quale nella regione perineale anteriore vanno
a finire 6 condotti, 3 coppie: 2 ureteri che vengono dal metanefro e vanno nella vescica urinaria, 2 condotti di
Müller che vanno nel seno urogenitale e 2 condotti di Wolf che vanno nel seno urogenitale.
Se il proprietario è femmina il dotto di Wolf si oblitera, mentre il seno urogenitale cambia posizione e da
verticale diventa quasi orizzontale, diventando il vestibolo vaginale, deputato ad accogliere la vagina, la
quale è una specializzazione della parte finale del dotto di Müller; di fatto i 2 condotti di Müller,
filogeneticamente più antichi, diventano le 2 tube, l’utero e la parte pelvica della vagina: i dotti di Müller
sono fabbricati per poi ricavarne degli organi precisi. Le 2 tube rimangono separate e distinte, l’utero nasce
dalla fusione della parte intermedia del dotto di Müller, così come la vagina, tanto che si possono verificare
difetti come la presenza di 2 metà giustapposte ma separate del condotto vaginale e soprattutto dell’utero,
condizioni incompatibili con la gravidanza, la prima per la difficoltà del pene di penetrare in una delle 2
metà, la seconda per l’incompatibilità di un utero doppio a portare avanti una gravidanza.
Al contrario, se il proprietario è maschio il condotto pronefritico di Müller si riassorbe, rimane il condotto
mesonefritico di Wolf, che si associa alla parte più esterna della gonade primitiva, cioè la parte midollare che
diventerà il testicolo, e l’intero dotto di Wolf diventa il dotto deferente. In seguito la gonade maschile
primitiva scende nella borsa scrotale e il dotto deferente, che già finiva nel seno urogenitale primitivo, va a
finire come dotto deferente e dotto eiaculatore nella parte prostatica dell’uretra. Il seno urogenitale nel
maschio da origine a tutta l’uretra, alle ghiandole bulbouretrali e alla prostata.
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Vascolarizzazione della piccola pelvi:
A circa L4 l’aorta addominale si divide in 3 rami, 2 grandi e 1 molto piccolo e mediano. Le 2 arterie grandi
che nascono dall’aorta addominale sono l’arteria iliaca comune di destra e di sinistra, il ramo impari è
l’arteria sacrale media, che rappresenta di fatto la continuazione dell’aorta.
L’arteria iliaca comune va in basso, lateralmente e in dietro, a causa della convessità della lordosi lombare, e
proprio sopra l’articolazione sacroiliaca si divide in arteria iliaca esterna e arteria iliaca interna.
L’arteria iliaca esterna rimane addominale, in quanto decorre lungo la fossa iliaca, in prossimità della linea
arcuata e, senza scendere nella pelvi, scavalca la branca superiore del pube, quando cessa di chiamarsi arteria
iliaca esterna e scende nella coscia con il nome di arteria femorale.
Arteria iliaca interna:
L’arteria iliaca interna, sebbene nasca nella parte inferiore dell’addome, scende nella piccola pelvi, restando
sempre retroperitoneale, quindi risulta schiacciata contro la parete posteriore della pelvi. Questa, che prende
anche il nome di arteria ipogastrica, appena entra nella pelvi si divide in 2 grossi tronchi, un tronco anteriore
e un tronco posteriore. Il tronco posteriore si occupa soltanto di irrorare elementi parietali, non irrora visceri,
mentre il tronco anteriore irrora sia parete sia visceri.
- Il tronco posteriore dà origine a diversi vasi:
- arteria sacrale laterale, ramo parietale che va verso la linea di mezzo ad irrorare il sacro e
ovviamente il retroperitoneo, ad esempio radici di nervi che devono andare all’arto inferiore, come
quelle del plesso sacrale, che dà origine a vari nervi, tra cui il più grande dei nervi, il nervo ischiatico
o sciatico. Quest’arterie, una a destra e una a sinistra, insieme all’arteria sacrale media, che
rappresenta il ramo di continuazione dell’aorta, che si dispone al centro della faccia anteriore del
sacro, irrorano il sacro e i relativi dintorni.
- arteria glutea superiore, che contribuisce ad irrorare la regione glutea, che coincide con la parte
molle che ricopre e disegna la natica, a destra e a sinistra, e si estende anche un po’ in basso, per
quasi abbracciare la parte più craniale del femore. La zona glutea è ricca di molti elementi muscolari,
per raggiungere questa regione l’arteria attraversa una struttura, di scarsa importanza, il grande
forame ischiatico. Se si osserva uno scheletro da dietro si nota che ai lati del sacro c’è uno spazio
vuoto, soltanto oltre tale spazio si arriva all’ischio. Se si accarezza la branca ischiopubica fino ala
tuberosità ischiatica per poi salire si torna all’ileo, ma disegnando la branca ascendente o posteriore
dell’ischio, la quale diventa tutt’uno con l’ileo; da qui si può continuare fino alla spina iliaca
posteriore inferiore, per poi scendere lungo il margine laterale del sacrococcige. In questo modo si
disegna una specie di parabola, una a destra e una a sinistra. Lo spazio vuoto compreso tra il sacro
medialmente e la branca ischiatica lateralmente prende il nome di incisura ischiatica, una a destra e
una a sinistra. Si tratta di un’incisura: non esiste niente che connetta dal punto di vista scheletrico la
tuberosità ischiatica e la parte più declive dell’osso dell’anca con il sacrococcige. Tuttavia nel
cadavere fresco e nel vivente esiste un legamento, che prende il nome di legamento sacrotuberoso,
uno a destra e uno a sinistra, che si estende dal sacrococcige alla tuberosità ischiatica, che è
sufficiente a trasformare questa incisura in un grande forame. In realtà però, cranialmente al
legamento sacrotuberoso, ne esiste un altro che unisce la spina ischiatica al sacrococcige, quindi
prende il nome di legamento sacrospinoso. Per cui in questa regione ci sono 2 legamenti, uno
inferiore, il sacrotuberoso, e uno superiore, il sacrospinoso, quindi quella che inizialmente era
un’incisura ora viene distinta in 2 forami, uno più craniale e più grande, il grande forame ischiatico,
e uno più caudale e più piccolo, il piccolo forame ischiatico. L’arteria iliaca superiore per uscire
dalla piccola pelvi e raggiungere la regione glutea attraversa il grande forame ischiatico,
approfittandone per irrorare i muscoli della regione. Una volta arrivata in regione glutea l’arteria
glutea superiore si divide in 2 rami, uno profondo e uno superficiale:
- ramo profondo ha il compito di irrorare la parte muscolare della regione glutea, ma con
qualche suo ramo si anastomizza con l’arteria glutea inferiore;
- ramo superficiale va in superficie, in qualche modo è un ramo ricorrente, in quanto si dirige in
avanti pur restando sempre all’esterno della regione glutea, verso la parte anteriore della cresta
iliaca e, mentre fino a lì contribuisce a irrorare le strutture molli della regione glutea, muscoli e
sottocute, a livello della cresta iliaca emette dei rami che abbracciano il terzo anteriore della
cresta iliaca, da fuori a dentro, e qui contribuiscono ad irrorare muscoli della parete addominale
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anteriore, anastomizzandosi inoltre con un’arteria, l’arteria ileolombare, altro ramo del ramo
posteriore dell’arteria iliaca interna.
- arteria ileolombare, che rappresenta il terzo ramo di divisione del tronco posteriore ed è un’arteria
che nasce nella piccola pelvi e va verso l’alto, quindi va a finire nell’addome: anch’essa è ricorrente.
Appena l’arteria ileolombare arriva nell’addome si divide in 2 rami:
- ramo lombare, che va verso l’alto parallelamente alla colonna lombare e al muscolo grande
psoas, importante perché in quanto ramo parietale irrora la parete, a livello della quale sono
presenti strutture come il muscolo grande psoas e il muscolo quadrato dei lombi, e perché entra
nei forami di coniugazione delle vertebre lombari per andare ad irrorare il contenuto del canale
vertebrale in quel punto, cioè l’ultima parte del midollo spinale e una serie di radici nervose
importanti per il ramo superiore, quindi il ramo lombare dell’arteria ileolombare è molto
importante per il sistema nervoso centrale e periferico;
- ramo iliaco, che viaggia lungo la parte superiore della fossa iliaca in prossimità della cresta
iliaca si dirige verso la spina iliaca anteriore superiore. Questo ramo è quello che riceve
l’anastomosi del ramo superficiale dell’arteria glutea superiore. Infatti in prossimità della cresta
iliaca e della spina iliaca anteriore si stabilisce un’anastomosi molto importante tra vasi che
hanno lo stesso progenitore, il tronco posteriore dell’arteria iliaca interna. Inoltre il ramo iliaco
dell’arteria ileolombare lungo la cresta iliaca si anastomizza con un’arteria chiamata arteria
circonflessa iliaca profonda, uno degli unici 2 rami che nascono dall’arteria iliaca esterna, poco
prima che essa finisca nella coscia. Essa prende questo nome perché percorre la cresta iliaca
dalla spina iliaca anteriore superiore a quella posteriore disegnando un arco. Ciò significa che
lungo la cresta iliaca avvengono anastomosi tra rami dell’arteria iliaca esterna e rami
dell’arteria iliaca interna, e laddove ci sono anastomosi di tipo arterioso, che in genere sono a
pieno canale, la struttura da irrorare è importante, come nel caso della piccola e grande
curvatura dello stomaco, alle arcate anastomotiche dei vasi mesenteriali, ecc.. In particolare
lungo la cresta iliaca si ha l’incontro di 3 vasi, 2 che provengono dall’arteria iliaca interna e 1
dall’arteria iliaca esterna, il ramo superficiale dell’arteria glutea superiore, il ramo iliaco
dell’arteria ileolombare, che origina dal tronco posteriore dell’arteria iliaca interna, e l’arteria
circonflessa iliaca profonda, che origina dall’arteria iliaca esterna.
I vasi che nascono dal tronco anteriore rimangono tutti nell’ambito della piccola pelvi, alcuni sconfinano nel
perineo, che fa comunque parte della piccola pelvi. Alcuni di questi rami sono parietali e altri sono viscerali.
- Il tronco anteriore dà origine a:
- arteria glutea inferiore, la quale anch’essa va in regione glutea, e per farlo deve anch’essa
attraversare il grande forame ischiatico. In regione glutea quest’arteria, contribuisce ad irrorare i
muscoli che si trovano al passaggio dalla pelvi alla regione glutea, i muscoli della regione glutea e
con una serie di rami, oltre che anastomizzarsi con l’arteria glutea superiore, si anastomizza, intorno
all’articolazione dell’anca, con arterie provenienti dall’arteria femorale, che irrorano l’articolazione
dell’anca e il reparto posteriore della coscia. Quindi a livello della parte posteriore della coscia si
organizza un’estesa rete anastomotica tra il circolo dell’arteria iliaca interna e quello dell’arteria
iliaca esterna. Questo è un circolo che non viene utilizzato in condizioni normali e fisiologiche, ma
che diventa importante ogni volta che ci sono ostruzioni dell’arteria femorale da aterosclerosi,
evento abbastanza frequente, in particolare nella popolazione maschile dopo una certa età. Nel
soggetto che presenta quoto tipo di problema, durante una passeggiata, dopo un certo numero di
metri, siccome aumenta il consumo di glucosio e ossigeno e è necessario un maggior afflusso di
sangue, la richiesta di ossigeno e glucosio è superiore all’apporto, quindi il soggetto va in debito di
ossigeno, che determina dolore transitorio all’arto inferiore, che cessa nel momento in cui il soggetto
si ferma e riprende non appena esso riprende a camminare. La riduzione del calibro dell’arteria
femorale non dà segni subito, in quanto c’è un intervallo di tempo in cui intervengono i vasi
anastomotici tra il circolo della femorale, ex iliaca esterna, e il circolo dell’arteria iliaca interna, i
quali compensano, addirittura aumentando il loro calibro, oltre al fatto che per via via che il tessuto
va in debito di ossigeno avvengono degli eventi di natura biochimica che portano alla nascita di
nuovi vasi di piccolo calibro, cioè neoangiogenesi determinata da ipossia. Quindi quando insorge
questa sintomatologia, che prende il nome di claudicatio intermittens, il processo è già avanzato.
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- arteria otturatoria, ramo che si dirige da dietro in avanti, sempre in posizione retroperitoneale, verso
il grande forame otturatorio. Durante questo tragitto ne approfitta per irrorare i muscoli del
diaframma pelvico, ma il suo obiettivo è il forame otturatorio, che attraversa per andare a finire nella
parte mediale, interna, della coscia, dove irrora i muscoli del comparto mediale della coscia, che
prendono il nome di muscoli adduttori, che vengono utilizzati bilateralmente per avvicinare le cosce
verso la linea di mezzo e in maniera alternata durante la deambulazione. Il mantenimento della
deambulazione infatti avviene grazie all’azione bilanciata e ordinata dei muscoli adduttori, che
determinano lo spostamento della coscia verso la linea di mezzo, e dei muscoli abduttori, che invece
determinano lo spostamento della coscia verso l’estero.
- arteria ombelicale, una di destra una di sinistra, che durante la vita intrauterina portano sangue
deossigenato dal feto alla placenta, quindi si trovano nel cordone ombelicale, il quale si diparte dalla
futura cicatrice ombelicale. L’arteria ombelicale deriva dal tronco anteriore dell’arteria iliaca interna,
quindi alla sua origine si trova nella piccola pelvi, ma la cicatrice ombelicale si trova circa all’altezza
di L4, quindi risulta intuivo pensare che quest’arteria, a destra e a sinistra, per arrivare a questo
punto deve andare da dietro in avanti e poi inerpicarsi lungo la faccia interna della parete anteriore
dell’addome. Tuttavia dopo la nascita quest’arteria, che serviva al trasporto di sangue deossigenato
dal centro alla periferia, cioè dal feto alla placenta, non serve più, quindi la parte verticale di
quest’arteria si oblitera, diventando un tralcio fibroso; tuttavia esiste un tratto, quello orizzontale
pelvico (l’arteria ombelicale inizialmente presenta un andamento a “L”, cioè un tratto verticale
addominale e un tratto orizzontale pelvico) che rimane, poiché, siccome questo tratto va da dietro in
avanti, si approfitta per far originare da questo:
- arteria vescicale superiore, una a destra e una a sinistra, rami diretti alla volta della vescica.
- arteria uterina / arteria vescicolodeferenziale: dal tronco anteriore nella femmina si origina l’arteria
uterina. L’utero tuttavia nasce dai 2 condotti di Müller che si fondono, quindi ogni metà dell’utero ha
la sua arteria uterina, di destra e di sinistra, se non che le 2 arterie uterine si scambiano moltissimi
rami anastomotici, così da assicurare che l’utero non rimanga mai senza sangue. Il maschio non ha
l’utero, ma esiste l’analogo dell’arteria uterina, che prende il nome di arteria vescicolodeferenziale,
che si diparte dal tronco anteriore e va ad irrorare le vescichette seminali e il dotto deferente e,
siccome le vescichette seminali nell’ultima parte del dotto deferente, l’ampolla deferenziale, si
trovano incollate alla base della vescica, questo vaso irrora anche la base della vescica, motivo per
cui esso presenta 2 nomi. È chiaro che, essendo il dotto deferente un dotto che nasce lontano e
percorre un lungo tragitto per arrivare dove arriva, un ramo dell’arteria vescicolodeferenziale segue
il dotto deferente a ritroso verso il testicolo, quindi è un’arteria lunga che si trova in tutti i luoghi che
percorre il dotto deferente. Nella femmina l’arteria uterina percorre il diaframma pelvico da lato a
medio, nella base del legamento largo, cioè nel parametrio, arrivando al collo dell’utero, in
particolare prende rapporto con la parte sopravaginale del collo dell’utero. Essa irrora il collo
dell’utero e la regione dei fornici vaginali, poi cambia direzione e si dirige verso il corno uterino
fiancheggiando il margine laterale dell’utero, sempre tra le pagine del legamento largo. Lungo questo
tragitto da ciascuna arteria uterina nascono sia vasi dorsali sia vasi ventrali e i vasi di destra si
anastomizzano con i vasi di sinistra, così che l’utero non rimanga mai senza sangue. L’arteria uterina
una volta raggiunto il corno dell’utero da un ramo per la tuba, l’arteria tubarica:
- arteria tubarica: nasce dall’arteria uterina a livello del corno dell’utero, a sua volta dà origine
al ramo ovarico dell’arteria tubarica:
- ramo ovarico: si anastomizza a pieno canale con l’arteria ovarica che sta venendo
dall’alto, sempre nello spessore del legamento largo. Quindi l’ovaio riceve sangue da 2
ordini di arterie, l’arteria ovarica e il ramo ovarico dell’arteria tubarica, a sua volta ramo
dell’arteria uterina. Da questa anastomosi si originano dei vasi che percorrono il
mesovario fino ad entrare nel margine anteriore dell’ovaio come i denti di un pettine. Il
risultato è che, a differenza del testicolo che è invece irrorato da un unico vaso, l’ovaio è
irrorato da 2 vasi, uno è l’arteria ovarica, il suo vaso personale, che viene direttamente
dall’aorta, l’altro il ramo ovarico dell’arteria uterina, figlia del ramo anteriore dell’arteria
iliaca interna.
- arterie vescicali inferiori, che sono dirette alla vescica e sono in numero maggiore a 1 per ogni lato.
Esse tuttavia nel maschio prendono il nome di arterie vescicoprostatiche, in quanto sono arterie che
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vanno ad irrorare base e facce laterali della vescica e prostata, mentre nella femmina prendono il
nome di arterie vescicovaginali, in quanto vanno ad irrorare base e facce laterali della vescica e la
parte pelvica della vagina. Il nome comune di queste arterie rimane tuttavia arterie vescicali inferiori.
- arteria pudenda interna: è l’ultimo ramo del tronco anteriore, prende questo nome in quanto irrora
genitali esterni e la regione perianale. In particolare nella femmina irrora la vulva, ma non la vagina,
mentre nel maschio irrora la cute dello scroto e tutto il pene. Questo vaso, essendo un ramo del
tronco anteriore dell’iliaca interna, nasce nella piccola pelvi. Tuttavia esso deve andare ad irrorare la
regione del perineo posteriore. Questo ramo nasce al di sopra del piano del diaframma pelvico e, per
poter andare al piano di sotto, cioè nel perineo, inizialmente esce dal bacino e poi vi rientra. Essa
esce dal bacino attraverso il grande forame ischiatico, quindi insieme all’arteria glutea inferiore e
all’arteria glutea inferiore, poi, aggirando la spina ischiatica, rientra nel bacino attraverso il piccolo
forame ischiatico. Una volta che rientra attraverso il piccolo forame ischiatico si trova sotto al piano
del diaframma pelvico, quindi si trova nel perineo, in particolare quello posteriore, nella fossa
ischiorettale, addossata alla parete laterale, protetta dallo sdoppiamento della fascia otturatoria,
quindi una volta che rientra può passare da dietro in avanti, sempre stando addossata alla parete
laterale. Appena arriva al piano di sotto quest’arteria si occupa di dare:
- arteria rettale inferiore o emorroidaria inferiore: quindi l’intestino retto riceve 5 vasi: 2
coppie, le arterie rettali medie e le arterie rettali inferiori, che hanno in comune una
progenitrice, l’arteria iliaca interna, e 1 impari, l’arteria rettale superiore, che ha come
progenitrice l’arteria mesenterica inferiore. Inoltre intorno al retto, nello spessore del retto si
formano ampie anastomosi del circolo dei 3 gruppi di arterie in senso laterolaterale, quindi a
livello del retto si ha un luogo di anastomosi del circolo dell’arteria mesenterica inferiore con il
circolo dell’arteria iliaca interna, anastomosi che insistono sia dal versante arterioso sia dal
versante venoso, cioè vena emorroidale inferiore, media e superiore. Queste vene
anastomizzate tra loro danno origine ai così detti plessi emorroidali. Ciò spiega perché le
emorroidi prendono questo nome: si tratta di vere e proprie varici, vene dilatate, che possono
interessare il plesso emorroidale inferiore o quello medio, ma anche entrambi; spesso sono
innocue, ma insorgono in soggetti stitici, che sforzano per defecare, in quanto aumenta la
pressione intraddominale, che determina una riduzione dell’afflusso di sangue verso il sistema
della vena cava inferiore e verso il sistema della vena porta, con il risultato che si formano
queste varici. A volte le emorroidi non sono sintomo di niente di grave, se non del fatto che il
soggetto è stitico, ma altre volte, caso in cui esse prendono il nome di emorroidi sentinella,
sono segno di ipertensione portale o di cancro di colon retto. L’insorgenza di emorroidi è più
frequente nei soggetti di sesso femminile, in quanto le femmine tendono ad essere stitiche, a
causa del fatto che le femmine per 2 settimane ogni ciclo mestruale sono immerse in una ganze
quantità di progesterone, forte miorilassante, che riduce la motilità gastroenterica, per cui in
tutto il periodo post-ovulatorio, fino al successivo flusso mestruale, le femmine tendono ad
evacuare di meno. Quindi un soggetto di età avanzata che si lamenta di emorroidi che sono
insorte in un tempo recente (in quanto chi soffre di emorroidi non causate da tumore al retto ne
soffre fin da piccolo) necessita di una colonscopia. In seguito l’arteria pudenda interna si dirige
in maniera rettilinea verso il perineo anteriore, dove, a destra e a sinistra, dà origine a:
- arteria trasversa del perineo, che va ad irrorare il perineo superficiale, alla base del triangolo
anteriore, quindi all’altezza del muscolo trasverso superficiale del perineo, nel maschio e nella
femmina.
- arteria bulbare, che nel maschio va ad irrorare il bulbo del corpo cavernoso dell’uretra e tutta
l’uretra, nella femmina irrora il bulbo del vestibolo, cioè porta sangue al tessuto cavernoso
durante l’eccitazione sessuale, quando tale tessuto deve dilatarsi.
- arteria del pene / clitoride: questo vaso, nel maschio come nella femmina, a sua volta si divide
in 2 rami:
- arteria profonda del pene / clitoride: il ramo profondo entra fisicamente nel corpo
cavernoso e diventa corpo cavernoso: il corpo cavernoso è costituito da una serie di
lacune di sangue comunicanti delimitate tra loro, che prende origine dall’arteria profonda.
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- arteria dorsale del pene / clitoride: il ramo dorsale, invece, che poi si ritrova nello strato
superficiale della tonaca albuginea, ha funzione sostanzialmente nutritizia.
- rami scrotali / labiali: nel maschio i rami scrotali vanno a irrorare nel maschio gli strati
profondi della borsa scrotale, cioè non cute e sottocute ma la parete dello scroto; nella
femmina i rami labiali vanno ad irrorare le grandi labbra e le piccole labbra.
L’arteria pudenda interna di fatto non irrora pressoché nulla della cute e del sottocute dei triangoli anteriore e
posteriore del perineo, ma sono irrorate dalle arterie pudende esterne che nascono dalla femorale appena essa
scavalca la branca superiore del pube per passare dall’addome alla coscia.
L’arteria pudenda interna è fondamentale per l’erezione e per l’eccitazione, sia nel maschio sia nella
femmina, perché l’arteria pudenda interna, l’arteria trasversa del perineo e l’arteria bulbare danno origine a
rami che irrorano, nella femmina, le ghiandole di Bartolino o, nel maschio, le ghiandole bulbouretrali, la cui
secrezione è importante, lo dimostra il fatto che la donna dopo la menopausa si lamenta spesso di una vulva
secca, che interferisce con l’attività sessuale.
N.B.: Tutti i vasi che si trovano nella piccola pelvi sono retroperitoneali.
Linfonodi della regione perineale:
In genere la cute è un luogo di produzione di una grande quantità di linfa. Questa viene recuperata in parte da
capillari che diventano vene e in parte da capillari linfatici, i quali fanno a capo alla prima stazione
linfonodale che incontrano nel loro tragitto. La linfa della cute e dalla sottocute dei triangoli anteriore e
posteriore viene drenata da capillari linfatici, i quali mandano la loro linfa a linfonodi inguinali, che si
trovano nella parte alta della coscia anteriormente, in una regione che si chiama triangolo femorale di Scarpa,
proprio sotto la piega inguinale. Essi drenano linfa anche nella cute e nel sottocute dell’arto inferiore. Si
tratta di linfonodi superficiali, visibili se si ingrossano
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PARETE DELL’ADDOME:
La parete dell’addome è molle in quanto composta da cute, sottocute, fasce muscolari e muscoli, di scheletro
ce n’è poco, soltanto la colonna lombare, una parte dell’osso dell’anca, quella che delimita le fosse iliache, il
promontorio del sacro (e soltanto il promontorio), l’arcata condrocostale, cioè le ultime coste, e il processo
xifoideo dello sterno, in quanto i muscoli della regione si inseriscono direttamente o indirettamente al profilo
anteriore della gabbia toracica.
LEGAMENTO INGUINALE:
A circa 2 cm dall’estremo superiore della sinfisi pubica, a destra e a sinistra, la branca pubica presenta un
rilievo, il tubercolo pubico. Nel cadavere fresco e nel vivente, tra il tubercolo pubico e la spina iliaca
anteriore superiore è teso un legamento, il legamento inguinale. Il legamento inguinale una struttura fibrosa,
è lungo tra i 12 e i 14 cm a seconda delle dimensioni generali del proprietario, importante perché rappresenta
una linea di repere, dal momento che lungo la linea del legamento inguinale il sottocute è più aderente al
legamento, così che si genera una piega, la piega inguinale, che rappresenta il confine tra l’addome e la
coscia, a destra e a sinistra; in più il legamento inguinale serve a separare la parete anteriore dell’addome
propriamente detta da una regione sottostante e retrostante il legamento inguinale, che a sua volta è
suddivisibile in 2 parti, una laterale e una mediale, ciascuna delle quali prende il nome di lacuna, e in
particolare la parte laterale, più ampia, prende il nome di lacuna dei muscoli, la parte mediale, più piccola,
prende il nome di lacuna dei vasi. A separare le 2 lacune è un piccolo segmento fibroso, dal nome di
penderella ileopettinea, che è una dipendenza della fascia femorale o fascia alata.
MUSCOLI DELLA PARETE ADDOMINALE:
Muscolo ileopsoas:
Tra gli elementi parietali si annovera il muscolo grande psoas. Si tratta di un muscolo allungato, fusiforme,
che nasce dai corpi vertebrali delle ultime vertebre lombari e scende in basso, inizialmente in posizione
dorsale, poi diverge lateralmente e in avanti, tanto che percorre la fossa iliaca, in particolare verso la linea
innominata. Lungo questo tragitto si incontra e si unisce al muscolo iliaco, muscolo a ventaglio, la cui parte
espansa si inserisce a livello della faccia interna della fossa iliaca, mentre il manico scavalca la spina iliaca
anteriore inferiore (non superiore), esce dal bacino, si associa al tendine del miscelo grande psoas e si
inserisce al piccolo trocantere. L’incontro tra muscolo iliaco e muscolo grande psoas avviene sopra la parte
laterale della branca orizzontale del pube, tanto che si parla al singolare di muscolo ileopsoas, ma i muscoli
sono 2. Il tendine finale è comune, in quanto esso va ad inserirsi, una volta scavalcata la branca superiore del
pube, al piccolo trocantere del femore, protuberanza che si trova lungo la faccia mediale del femore, in
prossimità del collo del femore. Siccome però il muscolo ileopsoas supera la branca superiore del pube, esso
passa sotto al legamento inguinale, nella lacuna dei muscoli, che si chiama così proprio perché è attraversata
dall’ultima parte di questo muscolo. Questa coppia di muscoli forma parete: tappezza la fossa iliaca, inoltre
lungo il muscolo psoas è appoggiato l’uretere che sta scendendo e anche i vasi genitali, mentre all’altezza
dell’articolazione sacroiliaca dà appoggio ai vasi iliaci comuni.
Tecnicamente il muscolo iliaco che si associa allo psoas per formare il muscolo ileopsoas non è un elemento
parietale, o meglio è un elemento parietale ma non della parete dell’addome, in quanto è un muscolo
nascosto da osso, mentre la parte superiore del muscolo grande psoas, invece, è un elemento parietale, in
quanto si trova posizione paravertebrale.
Siccome il grande psoas si trova a livello della colonna lombare, questo muscolo copre alla sua origine, cioè
a livello parietale, gli elementi del plesso lombare, un plesso nervoso composto da nervi che in parte
innervano la parete dell’addome e in gran parte anche l’arto superiore. In particolare il muscolo grande psoas
nella regione lombare copre l’origine del nervo femorale, l’origine del nervo otturatorio e l’origine di 3 nervi
di cui si tratterà per il canale inguinale, i quali derivano dal plesso lombare. Questo rapporto è molto
importante, in quanto tramite il muscolo grande psoas i 2 reni sono appoggiati alla colonna lombare, quindi
in caso di masse occupanti spazio a livello renale gli elementi del plesso lombare possono venire compressi,
con conseguente insorgenza di dolore nevralgico a livello degli arti inferiori.
La contrazione del muscolo grande psoas e del muscolo iliaco è sinergica e produce 2 azioni diversi, a
seconda del punto fisso che si prende: se si fissa il bacino si ha flessione della coscia sul bacino, che avviene
ogni volta che si fa un passo, mentre se si fissa la coscia a terra si ha la flessione del tronco sul bacino, utile
per chinarsi.
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Muscolo quadrato dei lombi:
Posteriormente al muscolo grande psoas si trova il muscolo quadrato dei lombi, muscolo teso tra la parte
iniziale dell’ultima costa e il 1/3 posteriore della resta iliaca con funzione sia inspiratoria sia espiratoria, che
è un altro elemento della parete posteriore dell’addome.
Esistono poi altre 4 coppie di muscoli, 4 a destra e 4 a sinistra, che concorrono a formare lapperete posteriore
dell’addome.
Muscolo trasverso dell’addome:
Uno di questi muscoli, il più profondo, è il muscolo trasverso dell’addome, che prende questo nome perché
le sue fibre sono quasi parallele al piano terra, sebbene soltanto una parte, mentre altre fibre vanno in alto e
in avanti e altre ancora vanno in basso e in avanti, ma complessivamente esso va da dietro in avanti, quasi a
disegnare il fianco. Il muscolo quadrato dei lombi è avvolto dal davanti e da dietro da una fascia muscolare,
la fascia lombare, i cui 2 foglietti a livello del margine laterale del muscolo si uniscono e si fondono (un po’
come i foglietti della fascia renale). Laddove questi foglietti si uniscono, essi si ispessiscono, diventando un
punto di inserzione utile per il muscolo traverso dell’addome, il quale con fibre che descrivono una sezione
di ellisse si dirige anteriormente verso la linea di mezzo a ventaglio, disegnando il fianco. Durante questo
tragitto, nella parte posteriore le fibre di questo muscolo non si inseriscono a niente e vanno verso l’avanti,
ma via via che lo fanno esse tendono ad allontanarsi le une dalle altre, descrivendo quasi un trapezio la cui
base minore è a livello della inserzione alla fascia del muscolo quadrato dei lombi e la base maggiore è a
livello della linea di mezzo anteriore.
Le fibre del muscolo trasverso superiormente si inseriscono all’arcata condrocostale sul versante interno, già
incontrato come inserzione del diaframma: lungo la stessa linea interna dell’arcata condrocostale dall’alto si
inserisce l’emidiaframma, dal basso si inserisce il muscolo trasverso dell’addome, “come se” il diaframma
fosse una specie di continuazione del trasverso e viceversa. Le fibre che invece vanno verso il basso non si
inseriscono alla parte inferiore dello scheletro, ma si dirigono tutte verso la linea di mezzo, a destra e a
sinistra. Una volta raggiunta la linea di mezzo le fibre lasciano il passo ad una struttura connettivale, una
sorta di tendine largo e piatto, che prende il nome di aponevrosi. Le 2 aponevrosi dei muscoli trasversi
dell’addome vano a formare una struttura connettivale a mo’ di “chiusura lampo”, che prende il nome di
linea alba dell’addome, la quale si estende dall’estremo superiore della sinfisi pubica al processo xifoideo.
I 2 muscoli traversi dell’addome hanno 2 funzioni: una di tipo statico, formano la parete, e una di tipo
dinamico, si contraggono permettendo di appiattire l’addome e aumentare quindi la pressione
intraddominale, motivo per cui sono considerati anche muscoli espiratori accessori. Naturalmente per
rendere efficace l’azione del trasverso dell’addome è necessario contrarre prima il quadrato dei lombi, così
che diventa duro e offre resistenza.
Il muscolo trasverso dell’addome rappresenta lo strato più profondo della parete addominale ed è coperto dal
davanti da altri 2 muscoli.
Muscolo obliquo interno:
La seconda coppia di muscoli, a destra e a sinistra, è costituita da un muscolo che copre esternamente il
muscolo trasverso dell’addome, il muscolo obliquo interno. Anch’esso è un muscolo a ventaglio, il cui
manico, cioè l’origine del muscolo, si trova a livello dei 2/3 anteriori della cresta iliaca, in particolare il
labbro interno, soltanto una piccola porzione posteriore della cresta iliaca non funge da origine al muscolo
obliquo interno. In seguito queste fibre vanno in avanti e in alto, in avanti e in mezzo e in avanti e in basso,
espandendosi a ventaglio.
Le fibre che vanno verso l’alto si inseriscono all’arcata condrocostale, sempre dal versante interno.
Le fibre che vanno in direzione mediale cedono il passo ad un’aponevrosi, che lungo la linea di mezzo si
interdigita con quella controlaterale contribuendo a formare la linea alba dell’addome.
Una parte delle fibre che vanno verso il basso penetrano nel canale inguinale, entrando al suo interno e
costituendo un muscolo che avvolge le strutture del funicolo spermatico (vedi poi).
La sua contrazione produce diversi effetti: se la contrazione è isometrica e bilaterale si produce un aumento
di pressione intraddominale, mentre se la contrazione è bilaterale e non isometrica si ha o la flessione del
tronco sul bacino, se precedentemente vengono fissati bacino e femore, o la flessione del bacino sul tronco,
se non vengono prefissati bacino e femore; infine se la contrazione è unilaterale si produce la flessione del
tronco dal lato del muscolo contratto.
Prende il nome di muscolo obliquo interno in quanto questo piano muscolare è coperto da un altro muscolo
obliquo, che prende il nome di esterno.
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Muscolo obliquo esterno:
Il muscolo obliquo esterno copre in superficie il muscolo obliquo interno ed è il muscolo superficiale, tanto
che si trova subito in profondità rispetto a cute e sottocute addominale. Anch’esso è un muscolo a ventaglio,
con fibre il cui andamento è perpendicolare a quelle del muscolo obliquo interno: se le fibre dell’obliquo
interno complessivamente vanno dal basso in alto e da lato in medio, quelle dell’obliquo esterno vanno
dall’alto verso il basso e da lato a medio. Il muscolo obliquo esterno ha la sua origine a livello della faccia
esterna della parete toracica, lungo una linea che si diparte grossolanamente dal processo xifoideo dello
sterno ed è parallela al piano terra, leggermente obliqua in basso e lateralmente. Questo muscolo attraverso
5-6 digitazioni che si interdigitano con quelle del muscolo dentato anteriore*, tende a scendere verso il
basso, espandendosi a ventaglio.
Le fibre di questo muscolo vanno verso il basso, una parte diverge in dietro, una parte diverge verso l’avanti
e una parte si va ad intersecare con quelle controlaterali. Le fibre che vanno verso il basso, anch’esse si
inseriscono alla cresta iliaca, come quelle del muscolo obliquo interno, ma questa volta al labbro esterno e
soltanto alla 1/2 anteriore, fino alla spina iliaca anteriore superiore. Il muscolo obliquo esterno è il più
complesso.
Il muscolo dentato anteriore si origina posteriormente dal margine mediale della scapola, passa al davanti
della scapola e va da dietro e medialmente in avanti e lateralmente disegnando la parete toracica, inserendosi
all’aspetto interno del torace, lungo la linea interdigitazione con il muscolo obliquo esterno. Esso è un
muscolo inspiratorio accessorio, in quanto, se prende come punto fisso la scapola, precedentemente
immobilizzata attraverso l’azione di altri muscoli, la sua contrazione determina espansione del torace. Invece
se esso prende come punto fisso il torace, al sua contrazione determina abduzione delle scapole, azione che si
produce ad esempio quando si abbraccia qualcuno.
È importante considerare che se si contrae soltanto il muscolo obliquo interno di un lato, il tronco si flette e
si torce verso quel lato e viceversa dal lato opposto; invece, a causa dell’andamento delle fibre, se si contrae
soltanto il muscolo obliquo esterno di un lato, il tronco si flette e torce verso il lato opposto e viceversa. Di
conseguenza per eseguire una contemporanea torsione e flessione del tronco verso un lato è necessario
contrarre il muscolo obliquo interno dello stesso lato e il muscolo obliquo esterno del lato opposto.
Questa caratteristica ha implicazioni, oltre che nella semeiotica neurologica, anche in ambito chirurgico, in
quanto la parete anteriore dell’addome rappresenta un luogo che molto frequentemente viene reso
discontinuo da taglio per intervento chirurgico, con il risultato che alla fine dell’intervento è necessario
ricucire, quindi il soggetto per un certo periodo ha difficoltà a compiere azioni come tossire, ridere, defecare,
sedersi, ecc., in quanto nel compiere queste azioni insorge dolore. Quindi il soggetto, per un certo lasso di
tempo dopo l’intervento, deve stare attento a non contrarre questi muscoli. Questo è molto importante in
quanto i movimenti del tronco sono alla base di una serie infinita di movimenti finissimi che si compiono
durante la vita quotidiana.
In sintesi la linea alba dell’addome è formata dall’incontro delle aponevrosi di 3 coppie di muscoli.
Muscolo retto dell’addome:
Le 3 aponevrosi di destra convergono con quelle di sinistra, intrecciandosi a formare la linea alba, ma
soltanto dopo che queste aponevrosi hanno avvolto, da davanti e da dietro in alcuni punti, soltanto da davanti
in altri punti, un’altra coppia di muscoli, il muscolo retto dell’addome. Si tratta di una coppia di muscoli,
uno a destra e uno a sinistra, che vanno dall’alto in basso paralleli tra loro, con i margini mediali molto vicini
ma distaccati l’uno dall’altro. Essi sono i muscoli più mediali e delimitano ai lati la linea alba, si estendono
dal processo xifoideo dello sterno e anche alle ultime cartilagini condrocostali in prossimità del processo
xifoideo, cioè alle cartilagini condrocostali, fino alla sinfisi pubica, assottigliandosi via via che scendono,
finendo quasi “a cono”. In alcuni soggetti al davanti di ciascuno di questi muscoli in regione ipogastrica
presenta un piccolo muscolo, il muscolo piramidale, al davanti dell’ultima parte del muscolo retto, in
regione ipogastrica.
Per osservare i muscoli retti dell’addome è necessario incidere ai lati della linea alba, in genere a sinistra,
aggirando la cicatrice ombelicale, in particolare bisogna incidere cute, sottocute e uno spessore biancastro, di
connettivo, che rappresenta un insieme di aponevrosi di muscoli che vengono da lato e che si dispone al
davanti del muscolo retto dell’addome. Ciò potrebbe far erroneamente pensare che le aponevrosi delle 3
coppie di muscoli laterali passino tutte al davanti del muscolo retto dell’addome.
Il muscolo retto dell’addome può contrarsi in maniera isometrica, con il risultato di appiattimento
dell’addome, oppure può contrarsi accorciandosi, avvicinando la sinfisi pubica al processo xifoideo dello
sterno, quindi flettendo il bacino sul torace, o viceversa flettendo il torace sul bacino, quindi questi muscoli
sono flessori del bacino sul torace o flessori del torace sul bacino.
Le fibre del muscolo retto dell’addome non sono continue, non tutte si dipartono dall’alto e arrivano in
basso, ma anzi praticamente tutte dal versante interno sono interrotte da tendini intermedi, in numero di 3,
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che prendono il nome di inscrizioni tendinee, disposte parallelamente al piano terra e ortogonalmente
rispetto alle fibre, per cui dall’esterno questo muscolo è distinto in 4 parti. La presenza delle inscrizioni
tendinee consente di contrarre un gruppo di fibre separatamente dagli altri gruppi, a seconda della
contrazione necessaria. Inoltre la presenza di tali strutture tendinee è responsabile della convessità verso
l’avanti che i vari gruppi di fibre costituiscono in condizioni di ipertrofia.
Se si incide il muscolo retto dell’addome dietro ad esso ci si aspetta di trovare peritoneo parietale, cosa che
però non avviene. Ai lati dei muscoli retti dell’addome si trovano 3 muscoli, dall’esterno verso l’interno il
muscolo obliquo esterno, il muscolo obliquo interno e il muscolo trasverso. Essi terminano con
un’aponevrosi, una parte delle quali si dispone al davanti di ciascun retto per tutta la lunghezza di ciascun
retto (la prova è che per vedere il retto dal davanti è necessario incidere queste aponevrosi), mentre una parte
di esse si dispone posteriormente a ciascun retto, ma soltanto per la porzione inferiore.
In particolare se si fa una sezione trasversa al di sopra di un punto, che va da circa 10 cm sopra la sinfisi
pubica fino al processo xifoideo, si osserva la situazione in cui a livello del margine laterale di ciascun retto
l’aponevrosi dell’obliquo interno si divide in 2, per cui il muscolo retto risulta avvolto davanti e dietro da
uno sdoppiamento dell’aponevrosi dell’obliquo interno. In questo caso l’andamento delle altre 2 aponevrosi
è obbligato: l’aponevrosi dell’obliquo interno passa tutta al davanti del retto e quella del trasverso passa tutta
dietro al retto. Questa disposizione riguarda i 2/3 abbondanti superiori dei 2 retti.
Se invece si fa una sezione trasversa subito al di sopra della sinfisi pubica, cioè in regione ipogastrica,
l’organizzazione delle aponevrosi è differente: tutte e 3 le aponevrosi, arrivate al margine laterale del retto,
passano all’unisono al davanti del retto, per cui dietro questo 1/3 inferiore del muscolo retto dell’addome non
ci sono aponevrosi.
Posteriormente al muscolo retto, in entrambi i casi descritti, cioè dietro all’aponevrosi posteriore nel primo
caso e dietro al muscolo nel secondo caso, si trova la fascia trasversalis, fascia che rappresenta la
continuazione della fascia lombare, la quale arrivata all’origine del muscolo trasverso si continua con la
fascia trasversalis.
Internamente alla fascia trasversalis si dispone il peritoneo parietale.
Se si osserva il muscolo retto dell’addome dopo aver rimosso il peritoneo parietale e la fascia trasversalis
(18), si nota che il passaggio dalla regione del muscolo retto coperta posteriormente dalle aponevrosi,
superiore, e quella non coperta dalle aponevrosi, inferiore, è improvviso, disegnato da una linea. Questa linea
prende il nome di linea semicircolare di Douglas, al di sopra della quale il muscolo retto è coperto da
aponevrosi, al di sotto no. Questa linea nel percorrere il retto dall’estremo mediale verso il lato, ad un certo
punto scende verso il basso e poi circa ancora lateralmente, quasi a disegnare una sigmoide. Questa linea a
livello della parte discendente risulta spessa, a formare il legamento interfoveolare di Hesselbach. Questa
struttura si trova tra 2 fosse, la fossa inguinale laterale e la fossa inguinale intermedia (si vedrà poi). Il
legamento interfoveolare di Hesselbach rappresenta la linea di riflessione in avanti della metà posteriore
dell’aponevrosi dell’obliquo interno e la riflessione in avanti dell’aponevrosi del trasverso. Ciò significa che
i foglietti aponevrotici che si trovano posteriormente al muscolo retto, cioè il posteriore dell’obliquo interno
e il trasverso, raggiunta la distanza di circa 10 cm dalla sinfisi pubica, si portano sul davanti, formando una
linea di riflessione che diventa legamentosa e dura per l’addensamento di fibre.
Quindi la guaina connettivale del muscolo retto non è completa, in quanto circa un 1/3 di esso presenta
soltanto il rivestimento anteriore. Questa caratteristica è molto importante, specialmente nel maschio, a causa
del fatto che la costituzione anatomica della parete anteriore dell’addome, nella regione chiamata inguinoaddominale, quella che affianca l’ipogastrio, all’altezza della 1/2 mediale del legamento inguinale, maschi e
femmine presentano un canale scavato nello spessore della parete addominale, chiamato canale inguinale.
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Canale inguinale:
Il canale inguinale è un canale scavato nella parete anteriore dell’addome all’altezza della metà mediale del
legamento inguinale.
Nel maschio il canale inguinale rappresenta la via di comunicazione tra la borsa scrotale, dove è allocato il
testicolo, e la cavità addomino-pelvica. Nella femmina questo canale è presente ma il suo contenuto è
diverso rispetto a quello del maschio, in quanto nella femmina non c’è la necessità di far comunicare
qualcosa che sta fuori con la cavità addomino-pelvica.
CONTENUTO DEL CANALE INGUINALE:
Nella femmina il canale inguinale è destinato ad ospitare una parte del legamento rotondo dell’utero, che
sfrutta il passaggio in questo canale per raggiungere la base del grande labbro della vulva. In questo canale
nella femmina passa sia il legamento rotondo dell’utero sia 3 piccoli nervi, che vanno ad innervare in parte la
cute della regione inguinoaddominale, in parte le grandi labbra: il nervo ileoinguinale, che nasce da L1, il
nervo ileoipogastrico, anch’esso che nasce da L1, e il nervo gemitofemorale, che nasce da L1 e L2.
Si tratta di nervi sensitivi che aggirano la parete dell’addome per andare ad innervare cute della regione
inginoaddominale, ma con alcuni rami anche il grande labbro, che a tal fine passano nel canale inguinale.
Il canale inguinale nel maschio mette in comunicazione la borsa scrotale con la cavità addomino-pelvica. Lo
spazio delimitato dalle 4 pareti del canale inguinale nel maschio è attraversato dal così detto funicolo
spermatico, struttura che si compone di 10 elementi.
L’elemento più grande è il dotto deferente, condotto che parte dall’epididimo, quindi dalla borsa scrotale,
entra nel canale inguinale attraverso l’orifizio inguinale superficiale, lo percorre tutto ed emerge attraverso
l’orifizio inguinale profondo nella cavità addominale. Siccome il dotto deferente deve finire dietro la vescica
urinaria, che invece si trova nella pelvi, per poter andare dall’addome alla piccola pelvi deve attraversare lo
stretto superiore della pelvi, e lo fa a livello della parete anteriore dell’addome, piegando verticalmente in
basso ad angolo retto, in quanto a causa della presenza del peritoneo parietale esso risulta schiacciato contro
la parete, scende al piano di sotto, costeggia la vescica e raggiunge la posizione.
Il dotto deferente è accompagnato per tutto il suo tragitto dall’arteria deferenziale, ramo dell’arteria
vescicolo-deferenziale o vescico-deferenziale, quindi anche dalla rispettiva vena deferenziale.
Inoltre, siccome questo canale mette in comunicazione la cavità addominale con la borsa scrotale, che
contiene il testicolo, il quale è nato in regione lombare e in seguito si è spostato nella borsa scrotale,
portandosi con sé i suoi vasi, l’arteria genitale o spermatica interna o testicolare, che nasce direttamente
dall’aorta all’altezza di L2, e la vena spermatica interna corrispondente, entrambe facenti parte del funicolo
spermatico.
Il testicolo, così come il dotto deferente, è fatto di tessuti molli, e laddove ci sono tessuti molli in genere si
produce linfa, quindi nel funicolo spermatico devono esserci anche vasi linfatici, che portano linfa generatasi
nel testicolo, la quale tramite questi vasi va a finire ai linfonodi paraortici, in quanto il testicolo nasce in
posizione lombare. Ciò implica che in caso di tumore al testicolo i linfonodi interessati in caso di metastasi
sono quelli paraortici, non inguinali, di conseguenza in caso di tumore al testicolo e linfonodi inguinali
ingrossati le patologie presenti sono 2. Esistono tuttavia anche vasi linfatici che drenano linfa dal dotto
deferente, i quali non raggiungono i linfonodi paraortici, ma si dirigono ai linfonodi iliaci interni, cioè che si
trovano lungo i vasi iliaci interni.
Oltre queste strutture il funicolo spermatico è composto da 3 nervi: ileoinguinale, ileoipogastrico e
genitofemorale, in particolare il ramo genitale del nervo genitofemorale. Questi 3 nervi hanno radice
all’altezza di L1, sono tutti nervi sensitivi, cioè che portano sensibilità, l’ileoinguinale e l’ipogastrico
nascono dalla prima radice del plesso lombare ad L1, il genitofemorale nasce da L1 e L2. Questi nervi
percorrono tutto il canale inguinale da lato a medio e vanno ad innervare sensitivamente la cute della regione
ipogastrica e nel maschio contribuiscono a innervare la cute del pene; tuttavia la cute del pene non è
innervata soltanto da questi 3 nervi, ma anche da nervi del plesso sacrale (fortunatamente).
L’ultimo elemento è rappresentato da un tralcio fibroso, il legamento vaginale, che come tale non ha nessun
significato particolare, ma per tutto il periodo embrionale non è un legamento, bensì un condotto, il condotto
vaginale o peritoneo-vaginale, che dopo il periodo embrionale si oblitera.
STRUTTURA DEL CANALE INGUINALE:
Il canale inguinale presenta 2 orifizi, l’orifizio inguinale superficiale o sottocutaneo, quello che si trova più
vicino alla sinfisi pubica, e l’orifizio inguinale profondo o addominale, quello che si trova più lontano dalla
sinfisi pubica.
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L’orifizio inguinale superficiale è apprezzabile alla digitopressione a livello della parete addominale
anteriore. Esso si trova subito sopra e lateralmente al tubercolo pubico ed è scavato tra le aponevrosi del
muscolo obliquo esterno. In particolare esso è delimitato da 3 pilastri:
- pilastro laterale o inferiore: formato dall’aponevrosi dell’obliquo esterno che si inserisce al tubercolo
pubico omolaterale (il mignolo della mano);
- pilastro mediale o superiore: formato dall’aponevrosi dell’obliquo esterno che si incrocia con quella
controlaterale e si inserisce al tubercolo pubico controlaterale (l’indice e il medio della mano);
- pilastro posteriore: formato dall’aponevrosi dell’obliquo esterno che si incrocia con quella controlaterale
posteriormente al pilastro mediale e si inserisce al tubercolo pubico controlaterale (l’anulare della mano).
L’orifizio inguinale profondo si trova esattamente a metà della distanza del legamento inguinale, che è teso
tra il tubercolo pubico e la spina iliaca anteriore superiore. Esso non è presente in superficie, ma si apre nella
cavità addominale.
Il canale inguinale è delimitato da pareti:
- pavimento: il canale inguinale si trova immediatamente sopra alla metà mediale del legamento inguinale,
quindi il pavimento del canale inguinale è formato dalla stessa metà mediale del legamento inguinale;
- parete anteriore: il muscolo obliquo interno con alcune sue fibre si inserisce al legamento inguinale, di
conseguenza la parete anteriore del canale inguinale è formata dalla porzione del muscolo obliquo esterno
che sta per inserirsi al legamento inguinale, in particolare la parte che va alla metà mediale del legamento
inguinale;
- tetto: è costituito da una parte delle fibre del muscolo obliquo interno, quelle più caudali, che stanno per
diventare aponevrosi e formare la linea alba.
- parete posteriore: è costituita dalla fascia trasversalis, la fascia che riveste internamente il muscolo
trasverso dell’addome, in particolare la porzione di fascia trasversalis che si trova immediatamente sopra
alla metà mediale del legamento inguinale.
La fascia trasversalis che costituisce la parete posteriore del canale inguinale non è aderente alla guaina dei
retti, in quanto a questo livello l’aponevrosi dei retti si è già riflessa, quindi è l’unica struttura che forma la
parete posteriore del canale inguinale. Essa tuttavia è rinforzata in alcuni punti da 3 strutture:
- legamento interfoveolare di Hesselbach, che rappresenta il contorno mediale dell’orifizio inguinale
profondo o addominale;
- tendine congiunto, circa a metà del canale inguinale;
- legamento di Henle, verso la sinfisi pubica.
Ernia inguinale diretta:
Rimane una porzione della parete posteriore del canale inguinale di forma triangolare che non è rinforzata da
niente, delimitata inferiormente dal legamento inguinale, lateralmente dal legamento di Hesselbach e
medialmente dal tendine congiunto. Questo rappresenta un punto critico per la patologia. Infatti la fascia
trasversalis, in quanto fascia muscolare, non è particolarmente spessa; normalmente ogni volta che aumenta
la pressione intraddominale anse ileali vanno a sbattere contro la parete. La resistenza offerta dalla fascia
trasversalis dipende dalla sua componente connettivale, che varia da soggetto a soggetto, e via via che si
invecchia il tessuto connettivo diventa meno resistente alle pressioni. Se il soggetto tende ad aumentare la
pressione intraddominale spesso, per qualunque motivo, le spinte delle anse intestinali contro la parete
anteriore sono particolarmente frequenti, quindi a lungo andare la parete posteriore del canale inguinale,
tende a cedere. Si tende così a formare una sorta di sacco erniario, formato da anse ileali che protrudono
verso l’avanti, quindi dentro al canale inguinale, a comprimere, nel maschio, il funicolo spermatico: si ha
quella che si chiama ernia inguinale diretta. Il problema insorge nel momento in cui le anse non riescono
più ad uscire, con la conseguenza che i vasi vengono compressi e il tessuto va in sofferenza, quindi risulta
necessario l’intervento chirurgico.
Ernia inguinale indiretta (o obliqua) interna:
L’orifizio inguinale profondo o addominale si apre nella cavità addominale (non peritoneale). Esso
normalmente è sigillato da peritoneo, che lo copre internamente, tanto che se si osserva l’orifizio inguinale
profondo dall’interno, esso non è visibile.
Tra gli elementi del canale inguinale c’è una struttura connettivale fibrosa, il legamento vaginale. Questo
durante la vita embrionale è una formazione tubulare pervia, costituita da peritoneo, che prende il nome di
canale peritoneo-vaginale, ma che fine dell’embriogenesi si oblitera.
Il testicolo si forma in regione lombare dorsale, poi va incontro alla discesa (che di fatto non rappresenta una
vera e propria discesa, in quanto non è il testicolo a spostarsi, ma il ripiegamento dell'embrione verso l'avanti
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a determinarne un cambio della posizione), al termine della quale si posiziona in regione addominale,
all’imbocco del canale inguinale, cioè a livello dell’orifizio inguinale profondo. Il testicolo è avvolto
parzialmente da peritoneo (che prima era celoma), che prende il nome di tonaca vaginale. In questo
“tragitto” testicolo si porta dietro il peritoneo, il quale va a formare un tubo peritoneale che costituisce il
futuro condotto peritoneo-vaginale. In seguito il testicolo con questo peritoneo è come se attraversasse il
canale inguinale (anche se in realtà ciò non avviene), quindi il peritoneo ora si trova all’interno del canale
inguinale e qui forma il condotto peritoneo-vaginale. Di conseguenza in periodo embrionale la cavità
peritoneale comunica con lo scroto.
Alla fine del periodo embrionale il condotto peritoneo-vaginale si oblitera, diventando legamento vaginale, e
con esso anche l’orifizio inguinale profondo, che viene coperto da peritoneo. Mentre in genere si oblitera il
condotto peritoneo-vaginale, non si oblitera il peritoneo che avvolge parzialmente il testicolo. Questo
peritoneo è una specie di sacco, che ricopre soltanto una porzione ridotta della superficie del testicolo,
prende il nome di tonaca vaginale.
Se alla fine del periodo embrionale il processo di obliterazione del condotto peritoneo-vaginale non avviene,
il condotto peritoneo-parietale rimane pervio e persiste comunicazione tra il peritoneo che avvolge
parzialmente il testicolo e la cavità peritoneale. Fino a che il bambino non cammina questa caratteristica non
è rilevabile, ma quando questi assume la posizione eretta e la mantiene, la forza di gravità determina che il
liquido peritoneale finisce nella cavità delimitata dalla tonaca vaginale del testicolo, con conseguente
ipertrofia dell’emiscroto o di tutto lo scroto, si parla di idrocele comunicante.
Il vero problema insorge quando nel soggetto comincia ad aumentare la pressione intraddominale può
succedere che un’ansa intestinale dilati l’orifizio inguinale profondo e si infili nel condotto peritoneovaginale. Si parla di ernia inguinale indiretta (o obliqua) interna. Questo necessita l’intervento chirurgico,
allo scopo di chiudere l’ingresso al condotto peritoneo-vaginale, e durante il quale il chirurgo ne approfitta
per rinforzare la parete posteriore del canale vaginale, per impedire che in futuro a questo livello si generi
un’ernia inguinale diretta.
Ernia inguinale indiretta (o obliqua) esterna:
Il fatto che si chiuda l’accesso al condotto peritoneo-vaginale non impedisce del tutto che insorga ernia
inguinale obliqua. Infatti anche in un soggetto il cui condotto peritoneo-vaginale si sia obliterato
correttamente, con l’età può succedere che un’ansa intestinale si faccia strada tra gli elementi del funicolo
spermatico e il contorno dell’anello inguinale profondo, sebbene questo sia chiuso da peritoneo. Si parla di
ernia inguinale indiretta o obliqua esterna, che necessita lo stesso intervento chirurgico dell’ernia inguinale
indiretta interna.
In alcuni soggetti maschi, con l’avanzare dell’età accade che il liquido presente tra le 2 pagine della tonaca
vaginale aumenta, processo di cui non si conoscono le cause. Questo provoca l’ingrossamento dell’emiscroto
o di tutto lo scroto. Si parla di idrocele idiopatico, che è innocuo. Se tuttavia diventa fastidioso il chirurgo
interviene tramite un operazione di eversione della tonaca vaginale, in cui la tonaca vaginale viene tagliata,
spiegata e con un unico foglietto portata ad avvolgere tutto il testicolo, così da eliminare la cavità, risolvendo
così il problema.
Formazione del canale inguinale:
La gonade si forma nello spessore del celoma in regione lombare, in una formazione che presenta una
corticale che guarda verso l’interno e una midollare che guarda verso l’esterno, fatta di tubuli che
rappresentano i progenitori dei tubuli seminiferi.
Se il proprietario è maschio la corticale involve e rimane soltanto la parte esterna, la midollare. In questo
caso la gonade primitiva non rimane in regione lombare, infatti alla fine dell’embriogenesi il testicolo si
trova nella borsa scrotale: si parla di discesa del testicolo (si parla anche di discesa dell’ovaio, in quanto
anch’esso si forma in regione lombare e va a finire nella fossa ovarica, a causa del fatto che l’embrione si
chiude verso l’avanti). Il testicolo non si trova nella pelvi, ma nella borsa scrotale, che si trova nel perineo
anteriore: il testicolo deve poter fisicamente uscire dalla cavità addominale per andare a finire nella borsa
scrotale. Come nella femmina, anche nel maschio questo è determinato dal ripiegamento dell’embrione da
dietro in avanti e verso il basso.
Alla fine della discesa inizialmente il testicolo arriva in una regione che successivamente sarà l’orifizio
inguinale profondo. Questo potrebbe far pensare che prima si è formata la parete, che si è chiusa sul davanti,
e in seguito è arrivato il testicolo all’altezza dell’anello inguinale profondo, ma non è così. In realtà succede
che mentre si forma la parete anteriore dell’addome e le 2 pareti si chiudono lungo la linea alba, il testicolo
progressivamente passa da dietro in avanti e dall’alto in basso, spostandosi passivamente e portandosi dietro
i vasi sanguigni, i vasi linfatici, l’innervazione da parte del sistema nervoso autonomo e anche il peritoneo: a
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tappezzare la fascia trasversalis c’è peritoneo parietale. Quando nell’embrione si forma la parete che poi sarà
regione inguino-addominale succede che la essa, poco prima di fondersi con quella controlaterale a livello
della linea alba, con tutte le sue componenti, compreso il peritoneo, forma una piega, a destra e a sinistra, la
piega genitale.
Dalla parte interna della piega si forma un tralcio connettivale, il gubernaculum testis, la redine del testicolo,
che connette il fondo della piega, il punto di flesso, all’esterno del peritoneo, con il polo inferiore del
testicolo. In seguito, nel maschio e nella femmina, questa piega, a destra e a sinistra, non rimane in regione
inguino-addominale, ma si allunga verso il basso fino ad arrivare al triangolo anteriore del perineo. Ciò
significa che insieme alla piega si allungano verso il triangolo anteriore del perineo tutti gli elementi da essa
contenuti (elementi cutanei, muscolari, peritoneo, ecc.); ma siccome è presente il gubernaculum testis, che
non si allunga, il testicolo viene trascinato verso il margine libero della piega: laddove finisce la piega finisce
anche il testicolo.
Quando la piega genitale allungandosi abbandona la futura regione inguino-addominale e comincia a trovarsi
nella regione del perineo anteriore, questa piega si duplica: mentre prima si ha una “V” a destra e una
simmetrica “V” a sinistra, nel momento in cui la piega si allunga verso il basso, a destra e a sinistra, si ha una
specie di “W”.
La piega più interna continua a chiamarsi piega genitale, mentre la piega più esterna prende il nome di piega
labio scrotale. Queste 4 pieghe convergono l’una all’altra a livello del tubercolo genitale, posto al davanti
della sinfisi pubica.
Nel maschio queste pieghe si fondono a formare lo scroto, la piega genitale diventa la tonaca albuginea e la
cute della parte mobile del pene e la piega labio scrotale diventa la parete dello scroto.
Nella femmina queste pieghe rimangono separate, la piega genitale diventa il piccolo labbro della vulva e la
piega labio scrotale diventa il grande labbro della vulva, a destra e a sinistra, con all’interno una pervietà.
In sintesi il canale inguinale non è altro che la parte iniziale di piega, cioè quella che non è scesa verso il
basso: il canale inguinale si forma a causa del ripiegamento della parete, non è scavato.
Nel maschio può succedere che le 2 pieghe genitali interne non si chiudano completamente lungo la linea di
mezzo, con conseguente ipospadia, condizione in cui a livello della faccia ventrale del pene, proprio sotto il
glande, le 2 metà non sono completamente suturate. Questa condizione implica che l’urina non esca a livello
dell’orifizio uretrale esterno a livello dell’apice del glande, ma prima, da sotto, e che la fessurazione sia
talmente ampia che si tende ad infettare frequentemente.
Sempre nel maschio, un difetto di formazione può essere costituito dal fatto che il testicolo non segue il
margine libero della piega verso il perineo, ma rimane in regione inguino-addominale o addirittura dentro la
cavità addominale, ad esempio per un difetto di formazione del gubernaculum testis: si parla di
criptorchidismo. Questa condizione viene risolta chirurgicamente, in quanto altrimenti è compromessa la
spermatogenesi.
Laddove si determina il ripiegamento della parete addominale che porta alla formazione del canale inguinale,
tutti gli elementi parietali si ripiegano, anche il peritoneo, che forma all’interno del futuro canale inguinale il
condotto peritoneo-vaginale. Di conseguenza qualcosa del muscolo obliquo esterno, qualcosa del muscolo
obliquo interno, qualcosa del muscolo trasverso e qualcosa della fascia trasversalis si ripiega. Nell’adulto
rimane traccia di questo ripiegamento.
Il retaggio del condotto peritoneo-vaginale è il legamento vaginale, presente nel maschio e nella femmina.
Esiste anche una traccia della fascia trasversalis, subito esternamente al peritoneo parietale, ed è
rappresentata da una struttura che si trova dentro al canale inguinale e prende il nome di tonaca vaginale
comune, che avvolge tutti gli elementi del canale inguinale, compreso il legamento vaginale. Essa deriva
dalla fascia trasversalis che ricopre il muscolo trasverso. Ciò significa che gli elementi del funicolo
spermatico non sono in contatto con le pareti del canale inguinale, ma sono separati dalla tonaca vaginale
comune.
Esiste una traccia anche del muscolo obliquo interno, rappresentata dal muscolo cremastere, composto da
fascetti muscolari striati che avvolgono la tonaca vaginale comune, che a sua volta avvolge il funicolo
spermatico e raggiunge l’emiscroto.
Infine ad avvolgere il tutto, sebbene incompletamente, è una fascia connettivale che prende il nome di fascia
cremasterica, che deriva dall’aponevrosi muscolo obliquo esterno.
In sintesi si hanno 3 guaine concentriche disposte all’interno del canale inguinale e all’intorno del funicolo
spermatico: la tonaca vaginale comune, il muscolo cremastere e la fascia cremasterica.
Queste strutture sono importanti, in quanto quando il chirurgo incide per riparare un’ernia inguinale, di
qualunque tipo, questi deve sapere conoscere che il funicolo spermatico, a cui deve arrivare magari per
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chiudere un condotto peritoneo-vaginale pervio, non è subito visibile, ma deve incidere anche le 3 guaine,
per poi ricucirle.
LEGAMENTI OMBELICALI:
Al di sopra del legamento inguinale la parete posteriore risulta tappezzata da peritoneo parietale. A livello del
versante interno della parete anteriore, dalla cicatrice ombelicale in giù, la superficie non è pianeggiante, in
quanto se si attraversa da lato a medio e si passa dalla parte opposta, attraverso il peritoneo parietale si
apprezzano 5 formazioni allungate, 2 coppie e una struttura impari, disposte al davanti del peritoneo
parietale, quindi tra il peritoneo parietale e la fascia trasversalis, le quali vanno apparentemente dal basso
verso l’alto, quasi a convergere verso la cicatrice ombelicale.
Siccome si tratta di strutture allungate disposte al davanti del peritoneo parietale, quindi coperte da esso,
fatalmente il peritoneo parietale viene sollevato a formare 5 pieghe, 2 coppie e una impari. Queste 5 pieghe
si chiamano tutte legamenti ombelicali (termine non appropriato per tutte, ma soltanto per le 3 strutture
centrali, non per le 2 più laterali, in quanto esse non arrivano alla cicatrice ombelicale). In particolare esiste 1
legamento ombelicale mediano, 2 legamenti ombelicali intermedi ai lati e 2 legamenti ombelicali laterali
ancora più ai lati.
Il legamento ombelicale mediano va in maniera rettilinea dalla vescica urinaria alla cicatrice ombelicale.
Durante l’embriogenesi a percorrere questo tragitto è l’uraco, che dopo la nascita si oblitera, riempiendosi di
connettivo, ma ne rimane un legamento, il legamento ombelicale mediano.
Il legamento ombelicale intermedio, di destra e di sinistra, appare come un tralcio fibroso, che dalla cicatrice
ombelicale si dirige verso l’arteria ombelicale, di destra e di sinistra, ramo del tronco anteriore dell’iliaca
interna. L’arteria ombelicale durante la vita intrauterina porta sangue refluo dal feto alla placenta, poi, con la
chiusura del cordone ombelicale, questa funzione viene a mancare, e dell’arteria uterina rimane pervia
soltanto la sua porzione orizzontale, da cui si originano le arterie vescicali superiori, mentre la parte verticale
si oblitera e ne rimane il retaggio. Quindi il legamento ombelicale intermedio, a destra e a sinistra,
rappresenta vestigia del tratto verticale dell’arteria ombelicale.
Infine il legamento ombelicale laterale corrisponde in profondità ai vasi epigastrici inferiori, arteria
epigastrica inferiore e vena epigastrica inferiore. L’arteria epigastrica inferiore è uno degli unici 2 rami che
l’arteria iliaca esterna dà prima che si impegni sotto il legamento inguinale per diventare arteria femorale:
l’arteria iliaca esterna dà soltanto 2 rami, uno è l’arteria circonflessa iliaca profonda, che si anastomizza e
circonda la cresta iliaca, l’altro è l’arteria epigastrica inferiore. Nella parete addominale anteriore
internamente si hanno, a destra e sinistra, le 2 arterie epigastriche unite che si dispongono come 2 “bretelle”,
la superiore che scende, ex mammaria interna, e la inferiore che sale, ex iliaca esterna. L’arteria epigastrica
inferiore prende questo nome in quanto, come quella superiore, tende ad anastomizzarsi con i rami
provenienti dalla superiore in regione epigastrica, a formare un circolo anastomotico tra la mammaria interna
e l’iliaca esterna. Di conseguenza le 2 arterie epigastriche inferiori, raggiunta la cicatrice ombelicale non
scompaiono, ma la superano e proseguono verso l’alto, quindi tecnicamente non rappresentano legamenti
ombelicali.
FOSSETTE INGUINALI:
Proprio perché esistono 5 elementi disposti più o meno verticalmente, che formano le rispettive pieghe
peritoneali, tra una piega peritoneale e l’altra si individuano 3 fossette, a destra e a sinistra, che sono ciascuna
l’avvallamento tra 2 pieghe e prendono il nome di fossette inguinali.
La fossetta inguinale mediale è compresa tra il legamento ombelicale mediale e quello intermedio, la
fossetta inguinale intermedia è compresa tra il legamento ombelicale intermedio e quello laterale, la fossetta
inguinale laterale ha un limite mediale, rappresentato dai vasi epigastrici inferiori, ma non un limite laterale.
A livello della fossetta inguinale laterale si trova, verso il suo estremo inferiore, l’orifizio inguinale profondo,
mentre a livello della fossetta inguinale intermedia è presente la piccola regione triangolare suscettibile di
ernia, la porzione debole della parete posteriore del canale inguinale.
VARICOCELE:
Nel maschio il canale inguinale connette l’emiscroto con la parete addominale. Uno dei 10 elementi del
funicolo spermatico è rappresentato dalla vena spermatica interna, che porta sangue refluo dal testicolo,
finisce nel tronco anteriore della vena ipogastrica e raggiunge la vena cava inferiore a destra e la vena renale
a sinistra. Questa vena è di fatto un plesso venoso, tanto che si parla anche di plesso spermatico interno o
pampiniforme (i pampini sono i piccioli delle foglie della vite). I plessi hanno il difetto che in caso di stasi di
sangue tendono a dilatarsi, formando varici, di conseguenza si possono avere varici anche del plesso
pampiniforme, si parla di varicocele, che è in genere di entità minima a livello del canale inguinale e
massima a livello dell’emiscroto. Questa caratteristica determina stasi sanguigna, che può implicare
un’alterata spermatogenesi, quindi è necessario un intervento chirurgico, in cui il chirurgo incide la parete
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anteriore del canale inguinale e tira verso di sé il funicolo spermatico, che si porta dietro il testicolo, con tutto
il suo corredo, compreso il plesso pampiniforme. Per fare ciò il chirurgo deve tagliare il gubernaculum testis;
inoltre ne approfitta per incidere la tonaca vaginale del testicolo, si parla di eversione, per cui ne fa un unico
foglietto e azzera la probabilità che nel soggetto insorga idrocele idiopatico (senza causa apparente), cioè si
accumuli liquido tra i 2 foglietti della tonaca vaginale.
Le vene testicolari nel maschio, presenti in coppia, 2 per ciascun lato, risalgono verso l’alto, incrociano
l’uretere (ad incrociare l’uretere sono i vasi genitali, arterie e vene) e finiscono a destra direttamente nella
vena cava inferiore, a sinistra nella vena renale di sinistra, nel maschio e nella femmina. Il varicocele nel
maschio (la femmina non può avere varicocele, non ha la borsa scrotale) nella maggioranza dei casi è
idiopatico, cioè che non c’è una causa ed è in genere benigno. Esistono però anche varicoceli secondari (non
idiopatico): se il soggetto è affetto da cancro del rene, ad esempio del polo inferiore del rene di sinistra, esso
può comprimere la vena spermatica esterna di sinistra, così da determinare stasi a livello del plesso
pampiniforme di sinistra, che determina varicocele, che in questo caso è secondario al tumore. Di
conseguenza di fronte ad un caso evidente di varicocele è necessario un’ecografia addominale per escludere
la possibilità che questo sia il risultato del tumore del polo inferiore del rene di sinistra. Nel caso invece di un
varicocele a destra, in linea di massima, sebbene non con esatta certezza, si può escludere di avere tumore
del rene di destra, in quanto intanto la sua vena non riceve la vena spermatica interna, inoltre è leggermente
più in alto, ma è comunque possibile. Una seconda condizione di varicocele secondario a destra, più
frequente, ed è un cancro del fegato: la massa tumorale tende a spostarsi verso il basso, arrivando a
comprimere, oltre che la vena renale, anche la vena spermatica interna.
Linfonodi ipogastrici:
La linfa del testicolo finisce ai linfonodi paraortici.
Viceversa la linfa che si genera nel condotto deferente va a finire ai linfonodi iliaci interni, che si
distribuiscono a formare un plesso con tanti nodi, tanto che si parla di plesso linfonodale ipogastrico,
presente a destra e a sinistra, ma anche la linfa che si genera negli organi pelvici raggiunge i plessi
ipogastrici.
In genere le stazioni linfonodali che drenano un organo si trovano lungo l’arteria che irrora quell’organo.
Conseguenza di ciò è che, se un organo riceve più vasi arteriosi, esso ha più stazioni linfonodali, come nel
caso dello stomaco e del pancreas.
Detto ciò, è chiaro che il drenaggio linfatico degli organi pelvici avvenga a livello dei linfonodi ipogastrici
che, se ingrossati, si vedono ecograficamente. La linfa che arriva ai linfonodi ipogastrici va a finire ai
linfonodi iliaci esterni, che si trovano attorno alle 2 arterie iliache esterne, per poi raggiungere i linfonodi
paraortici, ai lati dell’aorta. Questo drenaggio linfatico riguarda gli organi pari, ivi compresi utero e vagina,
che sebbene organi impari, si formano dalla convergenza di strutture pari.
Esistono poi vasi impari, come la mesenterica superiore, la mesenterica inferiore, la splenica, ecc., che
nascono dal versante anteriore dell’aorta e attorno ai quali si trovano i linfonodi preaortici, al davanti
dell’aorta, che ricevono la linfa che si produce negli organi irrorati dal tripode celiaco, dalla mesenterica
superiore e dalla mesenterica inferiore.
Infine la linfa che arriva ai linfonodi preaortici e paraortici in genere viene convogliata verso i linfonodi
retroaortici, che si trovano dietro l’aorta, ma questi o sono pochi o inesistenti. Quindi, se ci sono i
retroaortici, da questi si origina il dotto toracico, se non ci sono il dotto toracico si ricava da vasi linfatici
effluenti, emissari, che provengono in genere dai paraortici.
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COLLO:
Scheletro del collo:
La colonna cervicale si continua inferiormente con la colonna toracica e superiormente, tramite atlante, con
l’osso occipitale, a formare l’articolazione atlo-occipitale, che permette la rotazione del capo (la rotazione è
il movimento di un corpo attorno al proprio asse, se invece un corpo ruota attorno ad un punto del proprio
asse si ha circonduzione). Quindi in questa sede interessa anche lo scheletro del cranio.
La regione che si trova intorno alla colonna cervicale è fatta di varie strutture, tra cui visceri, vasi, muscoli,
alcuni dei quali hanno un ruolo principale, quale determinare il movimento del capo. Di conseguenza lo
scheletro del cranio in qualche modo è interessato anche nell’ambito del collo.
Alcuni muscoli del collo vengono impiegati per abbassare la mandibola (“aprire la bocca”), perché di fatto
l’unica diartrosi presente a livello del cranio, a destra e a sinistra, è l’articolazione temporo-mandibolare,
quella che unisce il condilo della mandibola alla cavità glenoidea dell’osso temporale, a destra e a sinistra,
che permette di abbassare la mandibola, ma anche di serrarla (chiudere la bocca). In questa articolazione
soltanto la parte inferiore si sposta, non quella superiore. Quindi nell’ambito dello scheletro del collo
interessa anche la mandibola.
Inoltre alcuni mescoli del collo si inseriscono ad un osso sesamoide, cioè che non è articolato con nessun
altro osso, nascosto dietro la mandibola, una specie di “riassunto” della mandibola, che prende il nome di
osso joide.
Inoltre nella sede del collo bisogna accennare ad una parte dello scheletro che non ha nulla a che fare con il
collo, rappresentato dall’incisura giugulare dello sterno e dalla clavicola, ossa che indirettamente hanno a che
fare con il collo.
MANDIBOLA:
La mandibola è un osso impari e mediano, ma fatto di 2 metà simmetriche.
Esso è costituito da una parte inferiore, il corpo della mandibola, che nella posizione di riposo è parallelo al
piano terra, le cui 2 metà convergono anteriormente a formare il mento.
Nella parte posteriore del corpo della mandibola, a destra e a sinistra, si trova l’angolo della mandibola, a
partire dal quale si parla di ramo della mandibola, che risale in alto e leggermente in dietro: l’angolo della
mandibola rappresenta il punto in cui il corpo della mandibola si continua con il il ramo della mandibola.
Il ramo ascende e alla sua estremità craniale finisce con un margine che non è netto, ma presenta 2 processi
che divergono a “V”, uno posteriore, il processo condiloideo, in quanto finisce con un condilo (sporgenza
ossea a forma di mezzo uovo), con l’asse maggiore disposto trasversalmente, e uno anteriore, il processo
coronoideo, a spina di rosa.
I 2 processi, condiloideo e coronoideo, anteriore e posteriore, sono divisi da uno spazio, l’incisura
mandibolare.
Il condilo è complementare con la cavità glenoidea dell’osso temporale, analogamente alla testa del femore
con l’acetabolo e alla testa dell’omero con la cavità glenoidea della scapola, a formare l’unica articolazione
mobile del cranio, l’articolazione temporo-mandibolare, una diartrosi che rende possibile l’abbassamento e
l’innalzamento della mandibola. In particolare il movimento di innalzamento della mandibola è operato da
muscoli che devono inserirsi cranialmente al cranio e caudalmente alla mandibola, mentre per abbassare la
mandibola o si rilasciano questi muscoli o si contraggono altri muscoli, che si trovano inferiormente alla
mandibola e sopra al piano che passa per le clavicole e l’incisura giugulare dello sterno, che si connettono al
corpo della mandibola e si contraggono allo scopo di masticare, ma anche parlare. Siccome l’azione di
parlare è estremamente complessa, la situazione muscolare a questo livello è altrettanto complessa. Si tratta
di muscoli piccoli, che garantiscono un movimento fine, la cui contrazione dev’essere la più coordinata
possibile.
In realtà la regione del collo non è soltanto una regione di passaggio di strutture come vasi e di muscoli per il
movimento della mandibola, ma è anche un luogo di passaggio della via aerea, laringe e trachea, e della via
digerente.
La parte inferiore dell’apparato respiratorio nasce come gemmazione che proviene dal primitivo tubo
digerente, tanto che se si blocca la formazione del tubo digerente, si blocca anche quella della parte inferiore
dell’apparato respiratorio. Quindi da un unico tubo ne emergono 2, uno costituito da laringe e trachea, l’altro
dall’esofago. Il problema nasce dal fatto che durante la giornata si deglutisce moltissime volte, ognuna delle
quali è necessario evitare che quello che si sta deglutendo vada a finire nel tubo anteriore, garantendo che
vada invece nell’esofago. Per risolvere questo problema è presente un importante meccanismo, che si basa
sull’esistenza dell’osso joide, su muscoli della regione anteriore del collo, su muscoli della parte superiore,
cioè che dallo splancnocranio raggiungono il corpo della mandibola, e che attraverso un effetto domino porta
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a far si che il tubo anteriore, via aerea, venga tirato verso l’alto mentre si sta deglutendo, in maniera da
permettere la chiusura dell’ingresso all’adito laringeo. In questo caso il bolo, non potendo andare in laringe,
prende l’unica via disponibile, l’esofago.
In aggiunta al corpo e al ramo della mandibola è presente un margine superiore della mandibola, che prende
il nome di processo alveolare, che contiene una serie di fosse scavate, i processi alveolari, all’interno di
ciascuna delle quali si inserisce la radice di un dente. Laddove si ha un dente con una radice esiste un unico
alveolo che la contiene, laddove si ha un dente con più radici (ad esempio i molari ne hanno 3), per ciascun
dente ci sono più alveoli. Quest’organizzazione vale anche per l’osso mascellare che sta al di sopra della
mandibola e che non si muove.
A livello della mandibola esistono inoltre i 2 tubercoli mentali, più o meno evidenti, e sulla superficie
esterna del corpo della mandibola, all’altezza del 1°-2° dente premolare, a destra e a sinistra, si trova un foro,
il foro mentale (o mentoniero).
COLLO:
A livello del collo si individuano una regione anteriore, la più ampia, una regione posteriore e 2 regioni
laterali.
I confini della regione anteriore del collo sono rappresentati da 2 muscoli, i muscoli sternocleidomastoidei,
muscoli lenti, cioè molto resistenti alla fatica, relativamente grandi in funzione dell’uso. Funzionalmente
sono muscoli istituzionalmente rotatori del capo, ma al bisogno fungono da muscoli inspiratori accessori, in
quanto nascono dall’aspetto mediale dell’incisura giugulare dello sterno e dal 1/3 mediale della clavicola con
2 capi, i quali poi convergono andando in alto, in dietro e lateralmente, a formare un unico capo, detto
mastoideo, che si inserisce al processo mastoideo dell’osso temporale e alla parte dell’osso occipitale
posteriore al processo mastoideo. Questi muscoli sono lunghi a sufficienza per costituire il punto di
demarcazione della regione anteriore del collo: lo spazio compreso tra i 2 muscoli sternocleidomastoideo
costituisce la regione anteriore del collo.
La regione anteriore del collo può essere suddivisa in 2 sottoregioni contigue, una superiore, parallela al
piano terra, e una inferiore, perpendicolare al piano terra, separate dal confine rappresentato dall’osso joide,
osso sesamoide, che si trova a circa metà del collo, all’altezza di C4, poco visibile in quanto nascosto dal
corpo della mandibola e dai tessuti molli di questa regione. Siccome l’osso joide fa da confine tra la
sottoregione superiore e quella inferiore, la prima prende il nome di regione soprajoidea, la seconda prende
il nome di regione sottojoidea. Nella condizione di riposo le 2 regioni sono ortogonali l’una rispetto all’altra.
L’osso joide, osso sesamoide del collo, è tenuto nella sua posizione dai muscoli che vi si connettono, da
muscoli che fanno capo alla lingua e da una membrana che lo unisce alla radice della lingua. L’osso joide
quindi non è fisso, ma su muove verso l’alto, verso il basso, verso l’avanti e verso il dietro a seconda del
gruppo di muscoli che fanno capo ad esso che si contraggono.
Regione sottojoidea:
Se si incide cute e sottocute del collo si osserva una fascia, la fascia cervicale superficiale, che aderisce al
sottocute e contribuisce a creare la forma di cilindro un po’ appiattito posteriormente del collo.
MUSCOLI DELLA REGIONE SOTTOJOIDEA:
Nella regione sottojoidea, se si asporta cute, sottocute e fascia cervicale superficiale, si osserva un piano
muscolare che in realtà è un doppio strato, uno più superficiale e uno più profondo.
Strato muscolare superficiale:
Lo strato più superficiale è composto da 2 muscoli, 2 a destra e 2 a sinistra.
Un muscolo è quasi verticale, va dall’incisura giugulare dello sterno all’osso joide, quindi prende il nome di
muscolo sternojoideo.
L’altro muscolo sta a lato e posteriormente rispetto allo sternojoideo, prende il nome di muscolo omojoideo,
un muscolo particolare, in quanto presenta 2 ventri muscolari. In genere un muscolo ha un solo ventre
muscolare, mentre questo ne ha 2: si parla di muscolo digastrico. Tecnicamente soltanto il ventre superiore o
mediale del muscolo omojoideo è sottojoideo. Questo si inserisce all’osso joide e scende verso il basso,
inizialmente nascosto in profondità rispetto allo sternocleidomastoideo, dove incontra il tendine intermedio.
In questo punto esso termina e comincia il secondo ventre, il quale abbandona la regione sottojoidea e,
attraverso la regione sopraclaveare (regione dietro e sopra la clavicola, alla base del collo), va ad inserirsi al
margine superiore della scapola.
Questi muscoli, 2 a destra e 2 a sinistra, abbassano l’osso joide, o meglio lo fissano verso il basso.
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Strato muscolare profondo:
Se si rimuove questo strato muscolare superficiale si incontra un’altra coppia di muscoli, una a destra e una a
sinistra.
Una coppia è rappresentata dal muscolo sternotiroideo, che nasce dall’incisura giugulare dello sterno, si
dirige in alto e va ad inserirsi alla cartilagine tiroide del laringe. Nella regione sottojoidea, più o meno
laddove la regione sottojoidea confina con la soprajoidea, è presente una struttura dura, comunemente
chiamato “pomo d’Adamo”, che rappresenta l’estremità anteriore della cartilagine tiroide, cartilagine
propria del laringe (“tireos” in greco significa “scudo”), in quanto ha la forma di uno scudo. Essendo una
cartilagine fibrosa essa è dura, quindi si presta bene a dare inserzione al muscolo scheletrico. Siccome il
muscolo sternotiroideo va dal basso verso l’alto, dall’incisura giugulare dello sterno alla cartilagine tiroide,
prende il nome di muscolo sternotiroideo, uno a destra e uno a sinistra.
Più o meno a livello della stessa linea di inserzione dello sternotiroideo si diparte un altro muscolo, corto,
che va dalla cartilagine tiroide all’osso joide, chiamato muscolo tireojoideo.
In qualche modo il muscolo sternotiroideo e il muscolo tireojoideo sono l’uno la continuazione dell’altro.
Anche la loro contrazione ha la funzione di fissare verso il basso l’osso joide.
In sintesi i 4 muscoli della regione sottojoidea, a destra e a sinistra, sono il muscolo sternojoideo, il muscolo
omojoideo, il muscolo sternotiroideo e il muscolo tireojoideo, i quali hanno tutti la funzione di fissare verso
il basso l’osso joide.
Innervazione dei muscoli sottojoidei:
I muscoli sottojoidei sono innervati sostanzialmente dai primi 3 nervi cervicali, probabilmente con il
contributo del 12° nervo cranico o nervo ipoglosso.
VISCERI DELLA REGIONE SOTTOJOIDEA:
Se si rimuovono i muscoli sottojoidei e gli sternocleidomastoidei, si osservano i visceri più superficiali della
regione sottojoidea.
Partendo dal basso i più ventrali sono la primissima parte della trachea, che si origina nel collo all’altezza di
circa C6.
La trachea è sormontata dal laringe, che ne rappresenta la continuazione verso l’alto, organo della
respirazione e della fonazione, in particolare si incontra il versante anteriore del laringe, dato da 2 cartilagini,
la cartilagine tiroide e un’altra.
Proseguendo verso l’alto si arriva al confine dell’osso joide, di cui si osserva l’aspetto anteriore.
Al davanti dei primi anelli tracheali e al davanti, in parte, della cartilagine tiroide del laringe, è presente la
tiroide. Si tratta di un viscere molle di colore roseo, una ghiandola endocrina con doppia funzione, che vista
dal davanti ha la forma di una “H”, con 2 lobi uniti da un istmo. Davanti ai primi anelli tracheali si trova
l’istmo della tiroide, che si continua a destra e a sinistra con i 2 lobi, di forma ovoidale, allungati in maniera
asimmetrica in quanto la parte inferiore è più corta della parte superiore.
In profondità rispetto alla tiroide si trova un altro viscere, che si distribuisce in 4 formazioni, le ghiandole
paratiroidi, cioè “ghiandole in prossimità della tiroide”. Esse hanno la forma e la dimensione di un chicco di
caffè, disposte tra ghiandola tiroide e la cartilagine tiroide, ma molto spesso una o più di queste ghiandole
sono immerse nel parenchima della ghiandola tiroide, cosa che pone problemi nella chirurgia della tiroide e
delle paratiroidi.
Su un piano più profondo è presente l’ultimo viscere della regione, l’esofago, un cilindro appiattito in senso
anteroposteriore, al di dietro del quale connesso con una fascia c’è lo scheletro della regione, cioè la colonna
verticale.
In sintesi nella regione sottojoidea si trovano strutture che si trovano su un piano più superficiale e altre che
si trovano su un piano più profondo, il primo ospita trachea, tiroide e laringe, il secondo ghiandole parotidi
ed esofago.
Il collo è una specie di cilindro la cui superficie posteriore è piatta, per cui tutti gli elementi che situavano nel
versante anteriore e laterale del collo si distribuiscono secondo un semicerchio.
I lobi tiroidei si dispongono a circondare incompletamente la trachea e verso l’alto anche la cartilagine
tiroide: la ghiandola tiroide prende questo nome per via dello stretto rapporto con la cartilagine tiroide, non
viceversa. I lobi tiroidei divergono andando verso l’alto, lateralmente, ma anche in dietro, a circondare la
trachea, tanto che l’estremo posteriore dei lobi va a lambire i margini laterali dell’esofago. Si tratta di un
rapporto importante, in quanto in caso di ingrossamento di uno o entrambi i lobi della tiroide, per una
qualche patologia, essi si spingono così indietro da interferire con la funzione dell’esofago, andando a ridurre
lo spazio per il passaggio del bolo, di cui ci si accorge durante la deglutizione.
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La deglutizione, sebbene sia possibile deglutire anche volontariamente, è un’attività automatica, un processo
che avviene in via riflessa, che attiene alla memoria genetica. In caso di difficoltà di deglutizione si parla di
disfagia, che può essere generata da diverse cause.
I muscoli sottojoidei, parzialmente coperti dallo sternocleidomastoideo (che è un muscolo che va in alto, in
dietro e lateralmente, quindi questi 2 muscoli divergono in maniera obliqua), a loro volta coprono la tiroide.
La conseguenza pratica di questa caratteristica è che normalmente la tiroide non è palpabile, in quanto
coperta da questo piano muscolare. Corollario di ciò è che se si apprezza la tiroide alla palpazione, essa è
ingrossata.
FASCIO VASCOLO-NERVOSO DEL COLLO:
Lateralmente e posteriormente ai lobi tiroidei si trova una formazione nota come fascio vascolo-nervoso del
collo, che in realtà non appartiene a tutto il collo ma soltanto alla regione sottojoidea. Con il termine di
“fascio vascolo-nervoso” in anatomia si intende in genere l’associazione di 3 elementi, un’arteria, una vena e
un nervo. Il fascio vascolo-nervoso del collo, in regione sottojoidea, è costituito dall’arteria carotide
comune, l’elemento più mediale, dalla vena giugulare interna, sua vena compagna, che si colloca
lateralmente rispetto all’arteria, e dal 10° nervo cranico o nervo vago, posto nel così detto angolo diedro
posteriore, che si forma per l’avvicinamento dell’arteria carotide comune e della vena giugulare interna. Il
nervo vago nasce nel cranio e raggiunge il mediastino, passando necessariamente per il collo. Queste 3
formazioni sono una incollata all’altra, tenute insieme da una guaina di natura connettivale.
LINFONODI CERVICALI PROFONDI:
Nella regione sottojoidea, all’intorno della vena giugulare interna, si trovano i linfonodi cervicali profondi.
Essi si distribuiscono in genere all’intorno del fascio vascolo-nervoso, ma più vicini alla vena giugulare
interna. I infondi cervicali profondi drenano linfa dal collo, dallo splancnocranio, dal neurocranio. Essi non
sono apprezzabili alla palpazione, nemmeno se si ingrossano, in quanto sono coperti dal muscolo
sternocleidomastoideo, quindi per essere indagati è necessaria ecografia o risonanza magnetica. Quando
questi linfonodi sono ingrossati, per qualche patologia infiammatoria o, in genere, neoplastica, tendono ad
essere ingrossati anche i linfonodi superficiali del collo.
Oltre a queste strutture nella regione sottojoidea si collocano numerosi vasi, di cui si tratterà nella
vascolarizzazione del collo.
*A livello della regione sottojoidea esiste uno spazio che si trova tra la tiroide e tutto ciò che sta dietro e
medialmente ad essa, quindi lo spazio che sta al davanti dell’esofago. Questo spazio prende il nome di spazio
pericoloso, detto così in quanto a quel livello si trovano numerose vene reflue dalla tiroide (non è un plesso,
ma ci sono comunque molte vene), la cui eventuale lesione invaderebbe il campo operatorio di sangue,
inoltre perché a questo livello si collocano le 4 ghiandole paratiroidi, che possono trovarsi all’interno del
parenchima della tiroide, infine perché in questa regione si trovano i nervi laringei inferiori o ricorrenti
vagali (di cui quello di destra si stacca dal vago quando esso sta per entrare nel mediastino, cioè quando sta
passando al davanti dell’inizio dell’arteria succlavia, e anche quello di destra fa un’inversione a “U” e risale):
questi nervi vanno ad innervare alcuni muscoli del laringe, tutti tranne 1, quindi sono indispensabili ai fini
della fonazione, e si trovano in genere posteriormente a trachea e tiroide, ma è anche possibile che uno di
questi nervi passi per il parenchima tiroideo, caso in cui va individuato e lasciato illeso, in quanto altrimenti
nel soggetto insorgono problemi di fonazione.
Regione soprajoidea:
Il corpo della mandibola disegna una figura compresa tra una “V” e una “U”, con il vertice che guarda in
avanti, cioè convessa verso l’avanti.
L’osso joide si trova più o meno sul piano del corpo della mandibola e rappresenta una specie di riassunto
della mandibola, una formazione sottile anch’essa a forma di “U”, con il vertice che guarda in avanti, cioè
aperta in dietro. Esso si colloca immediatamente sopra il margine superiore della cartilagine tiroide, connesso
ad essa tramite la membrana tireo-joidea, all’altezza circa di C4.
MUSCOLI DELLA REGIONE SOPRAJOIDEA:
In un soggetto con il capo in posizione intermedia tra l’iperflessione e l’iperestensione, se si taglia cute,
sottocute e fascia cervicale superficiale, in regione soprajoidea, quella parallela al piano terra, si incontra un
piano muscolare fatto di 3 strati, uno sopra all’altro.
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1) Strato superficiale - Muscolo digastrico:
Lo strato più superficiale, più esterno, è composto da una coppia di muscoli, il muscolo digastrico (senza
aggettivi), uno a destra e uno a sinistra, che prende questo nome in quanto ha 2 ventri, uno anteriore e uno
posteriore. Nel suo complesso si tratta di un muscolo soprajoideo.
All’altezza dell’osso joide si trova il tendine intermedio, da cui si diparte il ventre anteriore, il quale si dirige
verso la superficie interna del mento e si inserisce ad essa, ma anche il ventre posteriore, che fa il percorso
inverso, cioè va dal basso verso l’alto, e dal davanti in dietro per inserirsi all’osso temporale, posteriormente
e medialmente rispetto al condilo della mandibola.
Quindi questo muscolo è disposto complessivamente a formare una specie di “V” molto aperta, con il punto
di passaggio tra il ventre anteriore e il ventre posteriore all’altezza di C4, quindi all’altezza dell’osso joide.
Da ciò la regione soprajoidea delimitata dai 2 ventri del muscolo digastrico prende il nome di angolo
digastrico (presenti in numero di 2 in quanto i muscoli digastrici sono 2).
Quando vengono contratti bilateralmente i 2 muscoli digastrici, e in particolare tutti e 4 i ventri, viene tirato e
fissato verso l’alto l’osso joide, che nel fare questo si porta dietro il laringe. È anche possibile contrarre
separatamente i ventri anteriori e i ventri posteriori: se si contraggono soltanto i ventri anteriori l’osso joide
viene tirato verso l’alto e leggermente verso l’avanti, mentre se si contraggono soltanto i ventri posteriori
l’osso joide viene tirato verso l’alto e leggermente verso il dietro.
La coppia di muscoli digastrici viene utilizzata tutte le volte che bisogna deglutire, allo scopo di spostare
verso l’alto il laringe impedendo così che il bolo deglutito vada a finire nel laringe, ma anche durante la
fonazione, caso in cui è necessario contrarre la coppia dei ventri anteriori separatamente dalla coppia dei
ventri posteriori, in funzione delle vocali e di qualche consonante, specialmente le gutturali, che si vuole
pronunciare. Quindi il muscolo digastrico è utilizzato durante la deglutizione e durante la fonazione.
2) Strato intermedio - Muscolo milojoideo:
In profondità rispetto al piano dei muscoli digastrici (quindi cranialmente, in quanto la regione soprajoidea è
parallela al piano terra), in particolare al piano dei ventre i anteriori, si trova un secondo piano muscolare,
che è il più ampio, costituito da una coppia di muscoli simmetrici, uno a destra e uno a sinistra, ciascuno dei
quali prende il nome di muscolo milojoideo. I 2 muscoli milojoidei sono uniti a livello mediano tramite il
rafe milojoideo.
Il piano muscolare costituito dai 2 muscoli milojoidei giustapposti rappresenta la parte portante, il
pavimento, del cavo orale o cavità buccale.
Si tratta di un muscolo particolare, in quanto è largo e piatto e ha la forma di un quadrangolo, cioè un piano
con 4 lati. Il lato più ventrale, che è anche il più laterale, è molto lungo e attraverso esso il muscolo si
inserisce ad una cresta ossea, la linea milojoidea, apprezzabile lungo la faccia interna del corpo della
mandibola; il lato mediale si inserisce al muscolo controlaterale; il lato più dorsale, il più piccolo, si inserisce
all’osso joide; il lato latero-dorsale è libero, non si inserisce a niente. I 2 muscoli non stanno esattamente
sullo stesso piano, ma sono leggermente imbarcati.
Dal punto di vista dinamico, quando questi muscoli si contraggono, cosa che in genere avviene
bilateralmente nello stesso momento, è molto improbabile che il mento venga tirato in dietro, bensì accade
che l’osso joide viene fissato verso l’alto e leggermente verso l’avanti, quindi l’azione del muscolo
milojoideo è sinergica, e addirittura più potente, a quella del ventre anteriore del muscolo digastrico (che
fissa l’osso joide verso l’alto).
Dal punto di vista statico il muscolo milojoideo rappresenta l’elemento più importante del pavimento della
cavità buccale.
3) Strato profondo - Muscolo geniojoideo:
In profondità rispetto al muscolo milojoideo si trova un altro muscolo soprajoideo, detto muscolo
geniojoideo, che è parallelo al ventre anteriore del muscolo digastrico, ma separato da esso tramite il
muscolo milojoideo.
Questo muscolo con un capo si inserisce all’osso joide, con l’altro capo, che corrisponde all’origine, si
inserisce alle così dette apofisi genie, dei tubercoli posti a livello della faccia interna del mento.
Anche il muscolo genio-joideo contraendosi è sinergico al ventre anteriore del muscolo digastrico, quindi
fissa verso l'alto e leggermente in avanti l’osso joide.
Muscolo stilojoideo:
Un altro muscolo della regione soprajoidea è il muscolo stilojoideo, si trova medialmente rispetto al al ventre
posteriore del muscolo digastrico ed è quasi parallelo ad esso, tanto che vi si incrocia a formare una “X”
molto stretta (che ricorda l’uretere con i vasi genitali o i vasi mesenterici con la radice del mesentere).
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Il muscolo stilojoideo prende questo nome in quanto si inserisce all’osso joide e, cranialmente, ad un
processo osseo dell’osso temporale che scende verso il basso quasi verticalmente, che prende il nome di
processo stiloideo in quanto somiglia ad uno “stilo”.
Si tratta di un processo a forma di cono, con la base tutt’una con l’osso temporale e il margine inferiore
libero, lungo circa 1,5-2 cm. Esso dà attacco a diversi muscoli, genericamente detti muscoli stiliani: il
muscolo stilojoideo, il muscolo stiloglosso e il muscolo stilofaringeo.
Muscolo joglosso e muscolo condroglosso:
Esistono poi altri 2 muscoli nella regione soprajoidea, entrambi molto piccoli e entrambi che si dipartono
dalla parte che sale dell’osso joide, uno si chiama muscolo joglosso, muscolo molto corto che si diparte
dall’osso joide e va ad inserirsi alla radice della lingua, l’altro si chiama muscolo condroglosso, che si
diparte dall’osso joide, in particolare da un processo cartilagineo dell’osso joide, e va verso la radice della
lingua (“glosso” sta per “lingua”).
I muscoli joglosso e condroglosso contraendosi possono compiere 2 azioni, a seconda del punto fisso che
viene predeterminato. In genere infatti i muscoli scheletrici che saltano un’articolazione mobile (ad esempio
il bicipite salta l’articolazione del gomito) hanno una doppia azione, a seconda del punto fisso che viene
utilizzato, cioè l’accorciamento può avvenire in una direzione o in quella opposta.
In particolare se i muscoli joglosso e condroglosso prendono punto fisso a livello dell’osso joide tirano verso
il basso e in dietro la radice della lingua, azione che si compie ogni volta che si mastica, con la funzione di
contribuire a far roteare la lingua per mescolare il bolo.
Al contrario durante la deglutizione c’è un attimo in cui la radice della lingua deve essere tirata in alto e in
dietro, atto indispensabile per spingere il bolo nel faringe, a mo’ di “catapulta”, che si compie anche grazie
alla contrazione di questi muscoli, quando essi prendono punto fisso a livello della radice della lingua, in
quanto ciò contribuisce a tirare verso l’alto l’osso joide, che porta con sé il laringe.
Innervazione dei muscoli soprajoidei:
Il ventre anteriore del muscolo digastrico e il muscolo milojoideo sono innervati dal 5° nervo cranico o nervo
trigemino.
Il ventre posteriore del muscolo digastrico e il muscolo stilojoideo sono innervati dal 7° nervo cranico o
nervo facciale.
Il muscolo geniojoideo è innervato da rami cervicali, fondamentalmente C2 e C3.
Il muscolo joglosso e il condroglosso sono innervati dal 12° nervo cranico o nervo ipoglosso.
A livello dello splancnocranio e in parte del faringe c’è ancora qualche incertezza circa la innervazione, in
quanto non ci sono importanti interessi allo studio dell’innervazione di questi muscoli.
AZIONE CONCERTATA DEI MUSCOLI SOTTOJOIDEI E SOPRAJOIDEI:
Come già detto, i muscoli sottojoidei hanno la funzione di tirare verso il basso, fissandolo, l’osso joide.
Grazie a quest’azione la contrazione dei muscoli sottojoidei porta all’abbassamento graduale della
mandibola, ad esempio durante la masticazione o durante la fonazione. I muscoli sottojoidei hanno quindi la
funzione di abbassare in maniera graduale la mandibola, ma sono anche muscoli respiratori accessori.
I muscoli soprajoidei, invece, siccome vanno dall’osso joide o alla mandibola o alla radice della lingua o al
processo stiloideo, possono, se si inverte la direzione della contrazione, tirare verso l’alto l’osso joide, ma
per compiere quest’azione è necessario rilasciare i muscoli sottojoidei, allo scopo di ridurre al minimo la
resistenza. Tirando verso l’alto l’osso joide questo porta con sé il laringe, processo indispensabile al
meccanismo della deglutizione, tramite il quale si occlude momentaneamente l’accesso del bolo che si sta
deglutendo al laringe, così che esso vada a finire nell’esofago.
Deglutizione:
Affinché avvenga il processo della deglutizione è necessario prima serrare la mandibola, azione che, grazie
alla presenza della lingua all’interno del cavo orale, apporta anche il vantaggio di ridurre lo spazio interno a
disposizione, così che il bolo generato attraverso la masticazione si trovi in un ambiente particolarmente
ridotto. La chiusura della mandibola ha infatti una duplice funzione: la prima è quella di poter utilizzare la
lingua per sospingere il bolo verso l’alto e farlo scivolare verso il dietro; la seconda è quella di far sì che il
corpo della mandibola diventi il punto fisso utile per la contrazione dei muscoli soprajoidei, che così possono
agevolmente tirare verso l’alto l’osso joide, azione indispensabile per la deglutizione.
In altre parole, la contrazione dei muscoli soprajoidei, finalizzata a tirare verso l’alto l’osso joide,
presuppone il fissaggio della mandibola in un piano superiore, cioè la sua chiusura, che avviene grazie alla
contrazione di altri muscoli, che si trovano nello splancnocranio, i muscoli masticatori. Nella deglutizione la
successione di muscoli che si contraggono è: muscoli masticatori, fissano la mandibola → muscoli
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soprajoidei, tirano l’osso joide verso l’alto. Si tratta complessivamente di 4 coppie muscoli, 4 a destra e 4 a
sinistra, il muscolo massetere, il muscolo temporale, il muscolo pterigoideo esterno e il muscolo
pterigoideo interno. Questi muscoli, in particolare 3 di questi, concorrono a fissare verso l’alto la mandibola,
azione che consente la deglutizione.
VISCERI DELLA REGIONE SOPRAJOIDEA:
Nella regione soprajoidea ci sono anche visceri.
L’angolo digastrico, i cui confini sono il margine inferiore del corpo della mandibola, la sua continuazione
ideale posteriormente e i ventri del muscolo digastrico, in gran parte è occupato, in particolare a livello
dell’angolo, da una ghiandola salivare maggiore, detta ghiandola sottomandibolare. In totale esistono 3
ghiandole salivari maggiori, le altre 2 sono la ghiandola parotide e la ghiandola sottolinguale.
Di fatto la ghiandola sottomandibolare rappresenta l’unico viscere della regione soprajoidea, quantomeno
della parte anteriore, in quanto tecnicamente esiste anche una regione posteriore della regione soprajoidea,
avendo stabilito che la regione anteriore del collo è quella compresa tra i 2 muscoli sternocleidomastoidei,
quindi posteriormente ad essi c’è uno spazio. Questo spazio viene riempito dalla parte più caudale del
faringe, detta ipofaringe, che da lì a poco si separa, continuandosi posteriormente con l’esofago e
anteriormente con il laringe. Tuttavia, mentre laringe e parte iniziale dell’esofago sono elementi della regione
sottojoidea, l’ipofaringe fa parte della regione soprajoidea, in particolare della porzione posteriore, tanto che
posteriormente al faringe c’è la colonna cervicale.
La ghiandola sottomandibolare e l’ipofaringe sono gli unici visceri della regione soprajoidea, tuttavia in
questa regione, in particolare la regione dell’angolo digastrico e la porzione ad essa posteriore, sono presenti
anche altre strutture. Infatti dal punto di vista chirurgico questa rappresenta una regione molto affollata,
piena di tanti piccoli elementi di natura vascolare e nervosa.
Delle 3 ghiandole salivari maggiori, a destra e a sinistra, 2 si trovano fuori dal cavo orale e 1 soltanto si trova
dentro al cavo orale, la ghiandola sottolinguale. Quindi il luogo di produzione di gran parte della saliva, che è
destinata al cavo orale, si trova fuori dal cavo orale, di conseguenza necessita di un sistema per inviare saliva
al cavo orale. A questo scopo la ghiandola sottomandibolare presenta un prolungamento che va in alto per
continuarsi in un condotto escretore che si trova dentro al cavo orale. Questa ghiandola ed il suo condotto
escretore sfruttano il margine libero del muscolo milojoideo: la ghiandola sottomandibolare si prolunga in un
processo, che poi continua in un condotto, il quale aggira il margine libero del muscolo milo-joideo per poi
ritrovarsi al piano di sopra, nel cavo orale (similmente a ciò che fa l’arteria pudenda interna). Di conseguenza
il margine libero del muscolo milo-joideo rimane libero per permettere la comunicazione tra la ghiandola
sottomandibolare, che sta fuori, e il cavo orale. In particolare il condotto della ghiandola sottomandibolare
attraversa il varco costituito dal margine libero del muscolo milojoideo da dietro, dirigendosi in avanti e
andandosi a posizionare proprio sotto la lingua.
Attraverso questo varco entrano, oltre al condotto escretore della ghiandola mandibolare, anche vasi, come
arteria e vena linguale, strutture nervose, come il nervo ipoglosso e il nervo linguale.
FASCE DEL COLLO:
Nel sottocute del collo, in regione anteriore e laterale, è presente una fascia, la fascia cervicale superficiale.
Ne esistono anche una media e una profonda, ma la superficiale è la più estesa. Si tratta di una fascia che
avvolge completamente, da davanti e da dietro, il muscolo sternocleidomastoideo, e si estende oltre questo.
In particolare anteriormente, a livello del margine anteriore del muscolo sternocleidomastoideo, i 2 foglietti
della fascia cervicale superiore che lo avvolgono si riuniscono e formano un unico foglietto, che si dirige
verso la linea di mezzo dove si incontra e si fonde con quello controlaterale, a formare quella che viene
chiamata “linea alba del collo” (termine improprio, non esiste la linea alba del collo). Ciò significa che ad
esempio i muscoli sottojoidei, ma anche trachea, laringe, tiroide, cioè tutti i visceri della regione, sono
coperti (non avvolti) dalla fascia cervicale superficiale.
Posteriormente, dal margine posteriore del muscolo sternocleidomastoideo, i 2 foglietti della fascia si
accollano e si forma un unico foglietto, che si dirige verso il dietro. In questo tragitto incontra i muscoli
scaleni, a livello dei quali si sdoppia avvolgendoli, e il muscolo trapezio, un altro dei muscoli rotatori del
capo insieme allo sternocleidomastoideo, anche a livello del quale si sdoppia per avvolgerne la parte
superiore.
Ancora più in dietro la fascia cervicale superficiale si continua con un’altra fascia, la fascia cervicale
profonda, che avvolge i muscoli posteriori del collo e i muscoli particolarmente vicini alla colonna
vertebrale, fino ad arrivare tappezzare sul davanti la colonna cervicale, dove serve a dare attacco al faringe,
superiormente, e all’esofago, inferiormente: indirettamente la fascia cervicale profonda rappresenta uno dei
principali mezzi di fissità per il faringe e per il sottostante esofago.
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Superiormente la fascia cervicale superficiale si fissa al margine inferiore del corpo della mandibola,
dopodiché si spinge verso l’alto, sconfinando nello splancnocranio, per andare a coprire il muscolo massetere
e a chiudere lo spazio che si forma tra il ramo della mandibola e il muscolo sternocleidomastoideo. A questo
livello essa cambia nome e diventa fascia parotideo-masseterina, in quanto avvolge la ghiandola parotide e
copre dall’esterno il muscolo massetere.
Verso il basso la fascia cervicale superficiale in parte si connette al 1/3 mediale della clavicola e in parte si
inserisce all’incisura giugulare dello sterno.
Il risultato è che dal condotto uditivo esterno in giù, passando per il margine inferiore del corpo della
mandibola, è presente una sorta di collarino che copre le varie strutture che incontra, costituito dalla fascia
cervicale superficiale.
L’ultima fascia cervicale è la fascia cervicale media (o omojoidea), la più piccola delle fasce cervicali, che si
trova soltanto in regione sottojoidea in quanto di fatto è la fascia del muscolo omojoideo.
A livello del margine anteriore di questo muscolo i 2 foglietti della fascia si accollano e vanno entrambi
verso la linea di mezzo, incontrando in questo tragitto gli altri muscoli sottojoidei, in particolare il muscolo
sternojoideo e il muscolo sternotiroideo, a livello dei quali si sdoppia e li avvolge. Arrivati al livello della
linea di mezzo le 2 metà della fascia si fondono, per cui la fascia cervicale media, o omojoidea, si trova
soltanto a livello dalla regione sottojoidea.
Superiormente la fascia cervicale media si inserisce all’osso joide, dove termina.
Inferiormente si inserisce all’incisura giugulare dello sterno, dietro l’inserzione della fascia cervicale
superficiale. In realtà inferiormente in parte si inserisce all’incisura giugulare dello sterno, in parte scende
verso il basso nel mediastino, passando al davanti della trachea, quindi ha anche una componente toracica.
Cavo orale:
Se si compie una sezione sagittale mediana dello splancnocranio e della regione del collo è possibile
osservare, dal davanti verso il dietro, le labbra, pieghe cutanee che delimitano uno spazio vuoto che prende il
nome di rima delle labbra, attraverso cui si accede al cavo orale, e subito dietro alle labbra ci sono le 2
arcate dentali superiore e inferiore, in particolare il loro aspetto anteriore, oltrepassate le quali si incontra il
cavo orale.
In posizione di riposo il cavo orale è una cavità virtuale, essa si presenta come cavità soltanto se si abbassa
completamente la mandibola, altrimenti la giustapposizione dell’arcata dentale superiore con quella inferiore
e la serratura delle labbra fa sì che il cavo orale sia una cavità virtuale. Esso è tale in quanto in grandissima
parte occupato dalla lingua, organo particolarmente grande.
I limiti del cavo orale sono:
- limite inferiore: il pavimento è costituito dai 2 muscoli milojoidei giustapposti;
- limite superiore: il tetto è rappresentato dall’osso mascellare, su cui sono impiantati i denti superiori, e in
parte dalle 2 ossa palatine, disposte posteriormente;
- limiti laterali: rappresentati dalle 2 guance, costituite da tessuto molle applicato alle facce laterali dell’osso
mascellare e al corpo della mandibola;
- limite anteriore, rappresentato dalle labbra.
Il tetto del cavo orale è rappresentato dal palato duro, che comincia dal colletto dei denti superiori e si
spinge posteriormente. Il palato duro è formato da 2 processi simmetrici dell’osso mascellare che si uniscono
lungo la linea di mezzo, che prendono il nome di processi palatini.
Il palato duro termina improvvisamente posteriormente e si continua con il palato molle, di consistenza
molle, incollato al margine libero del palato duro.
Il palato molle fa direttamente seguito al palato duro e si sviluppa in una formazione grossomodo conica, che
pende lungo la linea di mezzo a livello della parte più dorsale del cavo orale. Questa prende il nome di
velopendulo o ugola, formazione impari e mediana ma fatta di 2 metà simmetriche, che pende nella parte
posteriore della bocca ma, in quanto di forma conica, non occlude completamente il cavo orale, lasciando
spazio sia a destra sia a sinistra.
Quasi simmetricamente al velopendulo, dal basso, a livello del confine confine posteriore del cavo orale,
emerge una formazione che appartiene al laringe, una cartilagine. Essa prende il nome di epiglottide, che
letteralmente significa “sopra la lingua”, dove “lingua” non si riferisce all’organo, ma significa “emissione di
suoni”, processo che infatti avviene attraverso il laringe.
In sintesi a livello della regione posteriore del cavo orale, lungo la linea di mezzo ci sono 2 formazioni che
tenderebbero ad unirsi, una che scende dall’alto, il velopendulo, una che sale dal basso, l’epiglottide, ma che
non si raggiungono. Il risultato è che, anche in condizione di riposo, cioè a bocca chiusa e senza niente in
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bocca, si ha un libero passaggio dal cavo orale verso l’orofaringe e viceversa: questo spazio è sempre aperto,
si chiude soltanto durante la deglutizione, per un tempo limitatissimo. Questa organizzazione si deve al fatto
che il cavo orale, oltre che essere organo della masticazione, quindi dell’apparato digerente, è anche organo
della respirazione, quindi deve garantire il passaggio dell’aria.
Non esiste una vera e propria parete posteriore del cavo orale, in quanto altrimenti non ci sarebbe
comunicazione tra il cavo orale e il resto, ma posteriormente ad esso c’è una struttura che al bisogno è
presente e che quando non serve non c’è. Infatti posteriormente il cavo orale comunica liberamente con il
viscere postogli immediatamente dietro, rappresentato dalla parte intermedia del faringe, che prende il nome
di orofaringe o buccofaringe, anch’essa cavità virtuale in condizioni di riposo, appiattita in senso
anteroposteriore. Tuttavia la comunicazione tra il cavo orale e l’orofaringe non è fissa: in alcuni casi si
ampia, in altri si restringe, allo scopo di rendere possibili 2 eventi, la masticazione, in cui la comunicazione
dev’essere interrotta, e la deglutizione, in cui dev’esserci la massima comunicazione.
Il cavo orale può essere suddiviso in 2 parti. Una parte, la più esterna, prende il nome di vestibolo orale (o
buccale) e rappresenta tutto lo spazio che si trova all’esterno delle 2 arcate dentali. Si tratta di uno spazio a
forma di ferro di cavallo, che va dall’avanti in dietro a circondare l’arcata dentale superiore e l’arcata dentale
inferiore e che rappresenta una parte ridotta del volume complessivo.
L’altra parte prende il nome di parte linguale del cavo orale, in quanto il principale organo che essa contiene
è la lingua.
LABBRA:
Il labbro è una piega cutanea, in superficie formato fino ad un certo punto da epitelio pluristratificato
cheratinizzato, esattamente come quello dell’epidermide, che poi improvvisamente si modifica e tende a
diventare non cheratinizzato, per una superficie particolarmente ampia al passaggio dall’esterno all’interno,
di colorito roseo, che si continua lungo la faccia vestibolare, dove è presente un epitelio pluristratificato
decisamente non cheratinizzato, l’epitelio buccale, regolarmente umido perché bagnato da saliva. Si tende
istintivamente ad umettare periodicamente le labbra attraverso la lingua proprio perché la parte esterna rosea
del labbro ha praticamente la stessa costituzione della parte interna, quindi dev’essere umettata, tanto che se
questo non avviene o se l’evaporazione della parte acquosa della saliva è troppo veloce, a causa ad esempio
di vento secco, questo provoca lesioni e fissurazioni delle labbra.
L’epitelio del labbro ricopre un asse costituito da connettivo, nel quale si collocano vasi sanguigni, vasi
linfatici e, dal versante cutaneo, una serie di ghiandole fondamentalmente sudoripare e alcune sebacee e,
soprattutto nel maschio, bulbi piliferi, comunque presenti anche nella femmina. Infatti laddove sono presenti
ghiandole sebacee ci sono anche bulbi piliferi, e siccome il sebo dev’essere secreto anche nella femmina,
anch’essa presenta bulbi piliferi: la presenza del bulbo pilifero è funzionale alla ghiandola sebacea. I bulbi
piliferi normalmente assumono una posizione parallela alla superficie cutanea; essi sono connessi al
connettivo circostante tramite un piccolo muscolo, il muscolo erettore del pelo, la cui contrazione, operata
dal sistema nervoso simpatico, provoca l’accorciamento del muscolo che determina l’erezione di ciascun
pelo. Quest’azione ha la funzione di proteggere dal freddo, in quanto quando i peli sono eretti lo spazio aereo
tra un pelo e l’altro è massimo e, siccome l’aria rappresenta un pessimo conduttore di calore, la presenza di
questa aria contribuisce a ridurre la dissipazione di calore (genericamente si parla di “pelle d’oca”). Laddove
c’è un bulbo pilifero, nell’angolo tra il muscolo erettore del pelo e il bulbo è presente una ghiandola sebacea
che, in seguito alla contrazione del muscolo erettore del pelo, viene spremuta meccanicamente, così che il
sebo si stratifica sulla cute. Essendo il sebo composto da grasso, che è un ottimo isolante termico, questo
meccanismo ha la funzione di isolare termicamente.
Dal versante opposto, a livello della superficie vestibolare del labbro, non ci sono né bulbi piliferi né
ghiandole sudoripare né ghiandole sebacee, invece sono presenti moltissime ghiandole salivari minori, che
contribuiscono a secernere saliva nel cavo orale e sono strategicamente poste a livello delle labbra allo scopo
di umettare il più possibile la superficie interna del labbro.
L’asse propriamente detto del labbro è formato da un muscolo scheletrico, che prende il nome di muscolo
orbicolare delle labbra, le cui fibre vanno da destra a sinistra e viceversa, quindi in sezione sagittale esse
appaiono sezionate trasversalmente. Esso è presente sia nel labbro inferiore sia nel labbro superiore, la sua
funzione è quella di serrare le labbra, allo scopo anche di fischiare o baciare, quindi rappresenta una specie di
sfintere. Tuttavia non esistono sfinteri formati da muscoli scheletrici, quindi a livello degli angoli della bocca
il muscolo orbicolare del labbro superiore si intreccia con il muscolo orbicolare del labbro inferiore.
Quest’organizzazione ricorda lo sfintere dell’ano ed è molto simile a quella dei muscoli che determinano la
serratura delle palpebre.
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Nel labbro inferiore è presente poi un altro muscolo, il muscolo mentoniero o mentale, uno dei muscoli
mimici, che contraendosi permette di protrudere il labbro inferiore. Esiste qualcosa di analogo a livello del
labbro superiore, ma non ha lo stesso nome.
Lingua:
La lingua è un organo estremamente mobile, grazie all’azione di tutta una serie di muscoli che servono sia
durante la masticazione sia durante la fonazione, di forma grossolanamente conica, appiattito in senso
craniocaudale, la cui base si trova a livello del pavimento della cavità buccale e a livello dell’osso joide,
mentre l’apice guarda in avanti.
La lingua è avvolta da una mucosa, fatta di un epitelio pavimentoso stratificato non cheratinizzato nell’uomo,
ma cheratinizzato in altre specie.
Tuttavia, mentre a livello della faccia ventrale esso è esattamente identico a quello dell’epitelio buccale, a
livello del dorso l’epitelio è punteggiato da una serie di rilievi che genericamente prendono il nome di papille
gustative, a livello delle quali si trovano moltissimi recettori nervosi, in parte recettori termici, tattici e
dolorifici, in parte recettori per il gusto. Il gusto rappresenta una delle 4 modalità sensitive speciali, insieme a
vista, udito ed olfatto, che fanno parte di questa categoria in quanto si espletano a livello di organi appositi,
tutti concentrati a livello del cranio. In particolare i recettori per il gusto permettono di apprezzare 4 gusti
fondamentali, il salato, il dolce, l’amaro e l’acido (in realtà anche il gusto umami), combinando i quali si
ottiene un’infinita varietà gustativa, sebbene la capacità di apprezzare un gusto dipende in grandissima parte
dall’olfatto, tanto che il soggetto affetto da anosmia, ossia perdita del senso dell'olfatto per lesione delle vie o
dei centri olfattivi, non riesce a percepire il gusto di ciò che mangia.
Da un punto di vista anatomico la lingua a livello della sua radice è un tutt’uno con il pavimento del cavo
orale, con l’osso joide e con l’orofaringe, ma essa è anche connessa, sebbene in maniera lassa, al pavimento
del cavo orale, a livello della sua faccia ventrale, tramite una piega mucosa che percorre quasi tutta la
superficie visibile della faccia ventrale che prende il nome di frenulo linguale. Si tratta di un mezzo di
fissità, ma ha anche la funzione di limitare i movimenti della lingua in seguito alle sue contrazioni. Esso può
essere troppo corto, con conseguenze a livello della pronuncia di alcune consonanti, quindi questo frenulo è
molto importante per la vita di relazione.
Attraverso la tonaca mucosa della lingua è possibile vedere una coppia di vene che percorrono la faccia
ventrale, si chiamano vene ranine.
Al confine tra l’estremo posteriore ancora visibile della faccia ventrale della lingua e il pavimento del cavo
orale, ai lati del frenulo è presente una coppia di rilievi, a destra e a sinistra, che corrispondono ciascuno ad
una ghiandola sottolinguale, la più piccola delle 3 ghiandole salivari maggiori, l’unica che si trova
all’interno del cavo orale. Essa è diversa dagli altri 2 tipi in quanto è una ghiandola in gran parte a secrezione
mucosa, cioè la componente acquosa del secreto di questa saliva è minima. Somiglia molto alla ghiandola
lacrimale e al pancreas, solo che al posto di acini di tipo sieroso presenta acini di tipo mucoso. Questa
ghiandola non ha un condotto escretore, ma presenta una miriade di piccoli condotti escretori, che vanno a
finire tutti a livello di un altro condotto escretore, quello della ghiandola sottomandibolare, che si dirige sotto
la lingua, da dietro in avanti, per convergere con quello controlaterale a livello della base del frenulo della
lingua, uno a destra e uno a sinistra.
Proprio perché la secrezione della ghiandola sottolinguale è di tipo mucoso, il contenuto di acqua del suo
secreto è molto limitato, quindi può succedere che in soggetti che hanno una ridotta secrezione di saliva o
una preponderanza di secrezione mucosa, si possono venire a creare dei calcoli in seguito a precipitazione di
sali contenuti nella saliva, che determinano una sintomatologia dolorosa. In particolare il dolore viene
avvertito a livello della ghiandola interessata, in genere la sottolinguale.
La lingua, attraverso la mucosa della faccia dorsale, è un organo del gusto, una delle qualità sensitive
speciali, ed è un organo che si utilizza durante la masticazione, la deglutizione e la fonazione. Quindi la
lingua deve essere composta da muscolatura scheletrica, unico modo per compiere movimentai extra-fini
volontari, in particolare muscoli la cui forza di contrazione può essere dosata tra un minimo e un massimo.
Nella lingua ci sono molti muscoli, alcuni estrinseci e altri muscoli intrinseci.
MUSCOLI DELLA LINGUA:
Muscoli estrinseci della lingua:
I muscoli estrinseci finiscono o si originano a livello della lingua e si originano o finiscono altrove, per
esempio il muscolo stiloglosso, lo joglosso e il condroglosso, ma ne esiste anche un altro, che prende il nome
di muscolo genioglosso, il quale si origina dalle apofisi genie, che si trovano a livello della parte interna del
mento, e le sue fibre, con andamento a ventaglio, vanno ad inserirsi ad una struttura che percorre l’interno
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della lingua, il setto linguale, struttura fibrosa dalla forma della lama di una falce, con direzione compresa
tra 0° e 90°: alcune sono orizzontali, altre sono verticali e in mezzo hanno andamento intermedio.
Questo muscolo può essere contratto separatamente nella sua componente di fibre verticali o di fibre
orizzontali o di fibre intermedie.
In particolare se si contraggono le fibre orizzontali, non essendo possibile che il mento vada verso l’osso
joide, accade che la radice della lingua, legata all’osso joide, viene spostata verso il mento, cosa che serve
per spingere la punta della lingua per esempio verso l’arcata dentale superiore per pronunciare la “D” oppure
per tirare fuori la lingua.
Se si contraggono soltanto le fibre verticali la lingua viene appiattita sopra il pavimento della cavità buccale,
azione utile durante la masticazione.
Se si contraggono le fibre intermedie si ha un effetto composta di appiattimento e spostamento in avanti
della lingua, che si compie sia durante la masticazione sia durante la fonazione.
Questo muscolo è innervato dal 12° nervo cranico o nervo ipoglosso.
Muscoli intrinseci della lingua:
I muscoli intrinseci della lingua sono il muscolo longitudinale superiore e il muscolo longitudinale
inferiore, che vanno dalla base alla punto della lingua, da dietro in avanti, paralleli tra loro, il muscolo
verticale, le cui fibre sono disposte verticalmente da dietro in avanti, e il muscolo trasverso, di destra e di
sinistra.
Questi muscoli fanno capo al setto linguale e in parte alla membrana joglossa.
Il setto linguale è una lamina connettivale molto sottile che percorre tutto l’asse della lingua, dalla base fino
alla punta, che costituisce una sorta di scheletro della lingua. Si tratta di una specie di rafe che funge da
punto fisso per i muscoli scheletrici intrinseci della lingua. Esso si inizia a livello della radice della lingua,
laddove sessa è connessa all’osso joide attraverso una membrana, che invece è disposta sul piano frontale,
chiamata membrana joglossa.
- Il muscolo longitudinale superiore contraendosi retrae la lingua leggermente e sposta la lingua verso l’alto,
mentre la contrazione del longitudinale superiore sposta la lingua verso il basso.
- Il muscolo verticale appiattisce la lingua contro il pavimento della cavità orale.
- I 2 muscoli trasversi contraendosi avvicinano i 2 margini laterali alla lingua.
Dall’azione combinata di tutti questi muscoli si ottiene l’estrema varietà di movimenti della lingua, utili sia
durante la masticazione sia durante la fonazione.
Sebbene il numero di muscoli linguali è ridotto, il numero delle fibre linguali è elevato: esiste un intero nervo
deputato all’innervazione di tutti i muscoli della lingua, il 12° nervo cranico o nervo ipoglosso. Ciò rende
possibile contrarre gruppi selezionati di fibre dei singoli muscoli linguali, che permette movimenti poco
potenti ma molto fini, utili soprattutto ai fini della fonazione.
Esiste un altro muscolo linguale, che prende il nome di muscolo amigdaloglosso, nome che deriva dalla
forma a mandorla della tonsilla palatina, a livello della quale si origina dal faringe, e dalla radice della
lingua, a cui si inserisce. Questo muscolo sta al confine tra i muscoli estrinseci e i muscoli intrinseci della
lingua. È costituito da un fascetto parallelo al muscolo palatoglosso che entra in funzione allo scopo di
catapultare il bolo verso il dietro, in quanto avvicina la radice della lingua al velopendulo.
Istmo delle fauci:
La bocca termina in maniera incompleta, cioè con una parete che non è completa. Il palato molle è una
formazione che si diparte dal margine libero del palato duro, va in dietro e in questo tragitto si restringe, a
formare una struttura a forma di cono, il velopendulo. Questa formazione si continua a destra e in basso e a
sinistra e in basso, sdoppiandosi in 2 coppie di archi palatini, 2 anteriori e in 2 posteriori. Si tratta di 2
pieghe mucose che si dipartono da destra e da sinistra del velopendulo e vanno verso il basso e verso il lato
descrivendo un arco.
L’arco palatino anteriore, siccome va a finire e diventa tutt’uno con la radice della lingua, prende il nome di
arco glossopalatino o palatoglosso, di destra e di sinistra.
L’arco palatino posteriore, siccome va a finire e diventa tutt’uno con la parete del faringe, finendo
nell’orofaringe, prende il nome di arco faringopalatino o palatofaringeo, di destra e di sinistra.
I 2 archi di ciascun lato sono uno la continuazione dell’altro e all’interno dello spazio compreso tra i 2 archi
palatini di ciascun lato è presente una fossa, la fossa palatina, una a destra e una a sinistra, che in genere
ospita una struttura linfo-epiteliale, cioè formata dall’insieme di epitelio della mucosa e elementi di natura
linfoide, la tonsilla palatina. Questa rappresenta una formazione che si infiamma facilmente in seguito ad
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infezione, con conseguente suo ingrossamento e riduzione dello spazio libero a livello della parete posteriore
del cavo orale, che determina problemi durante la deglutizione, cioè disfagia. Nelle tonsilliti croniche le
tonsille diventano enormi, tanto da determinare ostacolo alla deglutizione, ma soprattutto alla respirazione.
Il palato molle, che si sviluppa nel velopendulo, e le 2 coppie di archi palatini costituiscono un limite
anatomico tra la cavità orale e l’orofaringe. Nell’insieme la struttura composta da 5 elementi, 2 coppie di
archi palatini e il velopendulo, prende il nome di istmo delle fauci.
L’istmo delle fauci rappresenta il confine, perennemente aperto in quanto la bocca è anche un organo della
respirazione, tra cavità buccale e orofaringe, ma può essere chiuso momentaneamente, cosa che avviene
durante la deglutizione: dopo che il bolo è stato spinto nell’orofaringe è necessario che questo passaggio si
chiuda momentaneamente, altrimenti il bolo tornerebbe in bocca. Quindi a livello dell’istmo delle fauci è
necessario collocare muscoli scheletrici, che assicurino una contrazione potente.
INTERRUZIONE DELLA COMUNICAZIONE TRA OROFARINGE E CAVITÀ ORALE
DURANTE LA DEGLUTIZIONE:
1) Riduzione della comunicazione tra cavità buccale e orofaringe:
A destra e a sinistra del velopendulo si trovano, a livello dell’arco palatoglosso, una coppia di muscoli a
forma di parentesi tonde, i muscoli palatoglossi, la cui contrazione, che avviene necessariamente
bilateralmente, ne determina l’accorciamento quindi, per via della disposizione a semicerchio, la riduzione
della distanza tra essi, quindi tra gli archi palatoglossi.
La stessa cosa succede per la piega posteriore, palatofaringea, la contrazione dei cui muscoli, detti muscoli
palatofaringei, produce l’avvicinamento dei 2 archi, quindi un restringimento del passaggio dalla bocca
all’orofaringe e viceversa.
Questi 4 muscoli in genere si contraggono contemporaneamente, quindi la loro azione è particolarmente
efficace.
Trattandosi di muscoli scheletrici, affinché la loro contrazione sia efficace è indispensabile che i 2 capi di
ciascun muscolo siano connessi a qualcosa di rigido o reso rigido. Uno dei punti rigidi, per ciascuna coppia,
è rappresentato dall’aponevrosi palatina e dal muscolo dell’ugola contratto. L’altro punto per il palatoglosso
è la radice della lingua, mentre per il palatofaringeo la parete faringea, in quanto esso andando verso il basso
diventa tutt’uno con la parete del faringe.
Il risultato è che la contrazione forte del muscolo dell’ugola rende possibile l’avvicinamento dei 4 archi.
2) Spostamento della lingua in alto e in dietro:
Ai fini di impedire che il bolo appena sospinto nell’orofaringe torni nella cavità orale, tuttavia, non è
sufficiente che si riduca lo spazio tra cavità buccale e orofaringe, ma è necessario anche che
contemporaneamente la lingua venga spostata in dietro e in alto.
Ciò avviene in parte grazie al ventre posteriore del muscolo digastrico e al muscolo stilojoideo, che tirano
l’osso joide in alto e in dietro, tirando in alto e in dietro anche la radice della lingua, connessa all’osso joide.
In più interviene anche un muscolo estrinseco della lingua, che prende il nome di muscolo stiloglosso, il
quale va dal processo stiloideo del temporale fino alla radice della lingua, parallelo allo stilojoideo: la sua
contrazione, non potendo tirare in basso e in avanti il processo stiloideo del temporale, tira in alto e in dietro
la radice della lingua.
Dall’azione combinata di questi muscoli si produce lo spostamento in alto e in dietro della lingua, con il
duplice effetto che anche il diametro verticale dell’istmo delle fauci si accorcia e che la radice della lingua
viene fissata e resa rigida in un punto più craniale e dorsale, il che permette l’azione efficace del
palatoglosso.
3) Fissaggio dell’aponevrosi palatina:
Il velopendulo presenta una struttura portante di natura fibrosa, che prende il nome di aponevrosi palatina,
alla quale si inserisce un muscolo proprio, intrinseco del velopendulo, il muscolo dell’ugola, la cui
contrazione è isometrica, cioè si contrae senza accorciarsi, provocando un indurimento del ventre, quindi
contribuisce a rendere più compatto il palato molle.
Tutto questo è necessario, ma non sufficiente. Infatti affinché l’aponevrosi palatina divenga un punto rigido,
il muscolo dell’ugola ha un ruolo importante ma marginale rispetto a quello di un’altra coppia di muscoli,
ciascuno a forma di “L”, che prende il nome di muscolo tensore del palato. Questo muscolo si inserisce
caudalmente all’aponevrosi palatina e cranialmente alla base del cranio, in particolare all’osso sfenoide. Il
ventre di questo muscolo va verso il basso verticalmente, a destra e a sinistra, per poi continuarsi nel suo
tendine, che è quasi orizzontale, il quale si inserisce all’aponevrosi. A formare l’angolo retto tra il muscolo
tensore del palato e il suo tendine è un piccolo processo osseo che appartiene ad una parte dell’osso sfenoide,
il processo pterigoideo dell’osso sfenoide, che prende il nome di uncino del processo pterigoideo.
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L’osso sfenoide è un osso che fa da architrave al pavimento del neurocranio, va da destra a sinistra e
viceversa, presenta un corpo centrale e 4 ali, 2 a destra e 2 a sinistra. Dalla grande ala dello sfenoide si
diparte un processo che verticalmente in basso, il processo pterigoideo, un cui processo, a sua volta, ha la
funzione di far cambiare direzione al muscolo tensore del palato.
I 2 muscoli tensori del palato non possono essere contratti separatamente, la loro contrazione bilaterale
produce una forza che va verso l’alto, essendo impossibile che la base del cranio venga tirata verso il basso,
con il risultato che l’aponevrosi palatina viene sottoposta a destra e a sinistra a forze uguali e contrarie che la
irrigidiscono momentaneamente.
L’azione combinata dei 2 muscoli tensori del palato e del muscolo dell’ugola rende l’aponevrosi palatina
rigida, condizione che rende efficace la contrazione dei muscoli degli archi palatini.
La contrazione di questi muscoli avviene in maniera concertata, cioè secondo una sequenza temporale
precisa, ed attiene alla memoria genetica, cioè non richiede apprendimento. In particolare prima avviene che
contemporaneamente la radice della lingua venga tirata in alto e in dietro e che l’aponevrosi palatina venga
irrigidita, poi avviene la contrazione dei muscoli dell’istmo delle fauci, ossia i muscoli degli archi palatini.
Quest’evento, che dura pochissimo, serve ad interrompere momentaneamente la comunicazione tra cavo
orale e orofaringe durante la deglutizione, ossia nel momento in cui il bolo è stato spinto (dalla stessa lingua)
dal cavo orale all’orofaringe, per impedire che esso torni nel cavo orale.
Questi eventi sono molto importanti, in quanto possono esserci affezioni locali che determinano difficoltà
nella deglutizione, disfagia, in seguito a faringite o a disturbi neurologici a carico del bulbo o a masse
occupanti spazio della regione perifarigea o periesofagea, caso in cui la disfagia dura per un tempo
prolungato, sintomo che non deve essere sottovalutato perché può essere spia di eventi terribili, come
malattie del sangue o sarcomi, che infatti hanno un’elevata incidenza a livello del collo.
INTERRUZIONE DELLA COMUNICAZIONE TRA OROFARINGE E RINOFARINGE DURANTE LA
DEGLUTIZIONE:
In condizioni di riposo la mandibola è serrata, la lingua occupa gran parte del cavo orale e anche l’orofaringe
ha una cavità virtuale, tuttavia esiste uno spazio tra la parete posteriore del faringe e l’istmo delle fauci,
seppur minimo. Infatti quando l’istmo delle fauci è decontratto, in quanto il soggetto non sta deglutendo,
l’aria passa lo stesso, perché percorre le cavità nasali, arriva alla rinofaringe e poi viene risucchiata dalla
laringe, quindi deve poter passare: lo spazio dell’orofaringe, per quanto virtuale, è sufficiente a far passare
mezzo litro di aria ad ogni inspirazione tranquilla. Quindi in condizioni di riposo non soltanto è pervio il
passaggio da bocca a orofaringe e viceversa, ma anche il passaggio tra cavità nasali e rinofaringe e,
soprattutto, tra rinofaringe e orofaringe.
In seguito alla deglutizione il bolo viene ad essere contenuto tra il piano dell’istmo delle fauci e la parete
posteriore dell’orofaringe, uno spazio limitato. La forza di contrazione dei muscoli è tale che il bolo venga
spinto verso il basso, ma se il passaggio tra rinofaringe e orofaringe è pervio c’è il rischio che esso si sposti
verso l’alto nella rinofaringe, quindi nella cavità nasale. Tuttavia ciò non avviene, in quanto quasi
parallelamente al muscolo tensore del palato è presente un’altra coppia di muscoli, che dalla base del cranio,
dallo sfenoide, si inserisce all’aponevrosi palatina, quindi va in basso e medialmente, a destra e a sinistra,
disegnando una “V” con apice in basso, ciascuno dei quali prende il nome di muscolo elevatore del palato.
Risultando impossibile che la contrazione di questi muscoli tiri verso il basso il pavimento del neurocranio,
questi muscoli hanno la funzione di tirare verso l’alto il palato molle. L’azione di questo muscolo durante la
deglutizione produce la rotazione di circa 90° verso l’alto e verso il dietro del velo del palato, che quindi si
orizzontalizza, con il risultato che viene interrotto momentaneamente il passaggio tra rinofaringe e
orofaringe. Questo è il motivo per cui non è possibile inspirare durante la deglutizione, evento che quindi
richiede l’interruzione della respirazione.
Il risultato è che il bolo che si trova nell’orofaringe non può andare verso l’alto a causa della presenza del
palato molle orizzontalizzato, non può andare verso l’avanti in quanto l’istmo delle fauci è contratto, quindi
va verso il basso.
Caudalmente il bolo può andare verso 2 luoghi, uno ventrale, l’adito laringeo, e uno dorsale, l’inizio
dell’esofago. Il bolo ingerito chiaramente non va nel laringe, in quanto il sollevamento dell’osso joide
operato dall’azione dei muscoli soprajoidei determina lo spostamento verso l’alto del laringe, così che il
passaggio tra orofaringe e laringe viene momentaneamente chiuso, altro motivo per cui la respirazione si
interrompe durante la deglutizione. Di conseguenza rimane un’unica via di ingresso per il bolo, verso il
basso e in dietro, cioè l’inizio dell’esofago.
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Il bolo non si sposta nell’esofago per gravità, in quanto anche a testa in giù il bolo si sposta caudalmente,
quindi a spingere il bolo è un fenomeno attivo, rappresentato dalla contrazione di muscoli propri del faringe,
presenti in numero di 3 coppie, di cui si dirà più avanti.
Cavità nasali:
Il confine tra le 2 cavità nasali e il rinofaringe è rappresentato da 2 aperture, sempre pervie, nella parte
posteriore della volta della cavità orale, che prendono il nome di coane, di destra e di sinistra. Le coane
servono a veicolare l’aria dalle cavità nasali al rinofaringe.
Esse sono separate dal setto nasale, il quale è formato da un osso impari e mediano presente a livello delle
cavità nasali medialmente, che prende il nome di vomere, il quale insieme ad una cartilagine che gli sta
davanti serve a separare il naso in 2 cavità. Il setto nasale in genere non è perfettamente rettilineo, ma è
leggermente deformato e spostato da un lato.
Le cavità nasali sono cavità aeree, ma all’interno di esse protrudono processi ossei, le ossa turbinate o
cornetti nasali, presenti in numero di 3 in ciascuna cavità, superiore, medio e inferiore. Si tratta di lamine
ossee che protrudono nelle cavità nasali, rivestite di mucosa respiratoria, dotata dello stesso epitelio della via
aerea. Questa organizzazione all’interno delle cavità nasali ha la funzione di ridurre il volume interno, allo
scopo di ostacolare l’aria che sta entrando con una certa forza e rallentare il flusso dell’aria, che viene a
contatto con una superficie umida e calda, così che si umidifica e si riscalda.
Faringe:
L’orofaringe si continua liberamente verso l’alto nella parte più espansa del faringe, quella che comunica
direttamente con il naso, che prende il nome di nasofaringe o rinofaringe, e si continua inferiormente
nell’ultima parte del faringe, la parte più caudale, che prende il nome di ipofaringe. Dall’ipofaringe poi si
può andare verso l’esofago o verso il laringe: se il soggetto sta respirando l’aria deve raggiungere il laringe,
se il soggetto sta deglutendo il bolo deve raggiungere l’esofago. Fare andare l’aria nel laringe è piuttosto
semplice, in quanto la depressione che determina l’inspirazione si genera a livello della via aerea
tracheobronchiale, quindi l’aria spontaneamente si dirige in quella direzione. Più complesso invece è fare
andare il bolo nell’esofago.
Il faringe si trova in parte nello splancnocranio (anche detto cranio viscerale, in opposizione al neurocranio
che contiene l’encefalo), in parte nel collo, sia in regione soprajoidea sia in regione sottojoidea. Si tratta di
una struttura fatta di 2 metà simmetriche destra e sinistra, che complesso appare come una mazza da
baseball, cioè si espande lateralmente verso la parte superiore. Esso è percorso posteriormente da un rafe
tendineo, il rafe faringeo, attraverso il quale si incolla alla colonna vertebrale. In genere un rafe ha la
funzione di dare attacco a muscoli scheletrici che, per motivi funzionali, non possono o non devono inserirsi
a ossa. Infatti gran parte dello spessore della parete del faringe, che è un organo cavo, è fatta da muscolatura
scheletrica, quindi deve esserci un punto di inserzione duro o reso duro, che in questo caso è rappresentato
dal rafe faringeo.
Il faringe, essendo un organo appartenente a 2 apparati, visto in sezione trasversa non presenta la morfologia
di esofago, stomaco, piccolo intestino, ecc., cioè quella di un cilindro, ma appare come un mezzo cilindro,
cioè un cilindro a cui sia stato asportato circa 1/3 anteriore, e laddove manca parete anteriormente esso
comunica superiormente con le coane, quindi con le cavità nasali, inferiormente con l’orofaringe e più in
basso con il laringe. Quindi il faringe presenta una parete posteriore e 2 pareti laterali, ma non la parete
anteriore.
Siccome l’uomo passa gran parte della vita respirando con il naso, esiste la necessità che il rinofaringe
comunichi liberamente con le cavità nasali, quindi non devono esserci ostacoli di nessun tipo. Superiormente
di conseguenza il rinofaringe comunica liberamente con le cavità nasali, quindi deve collocarsi
posteriormente ad esse, ma siccome le cavità nasali si trovano immediatamente sotto al neurocranio, il
rinofaringe verso l’alto è in contatto con la base del cranio, a livello della quale si inserisce. In particolare la
superficie di inserzione del faringe alla base del cranio, tramite la fascia faringea, dipendenza della fascia
cervicale profonda, interessa in mezzo una parte dell’osso basilare, che fa parte dell’osso occipitale,
lateralmente, a destra e a sinistra, la parte apicale della piramide dell’osso temporale (23) (si capirà poi).
RINOFARINGE:
L’aria che esce dalle cavità nasali passa attraverso le coane e finisce nel rinofaringe, che rappresenta la parte
più ampia del faringe in condizioni di riposo, cioè se non è presente bolo alimentare nell’orofaringe o
nell’ipofaringe.
La parete del rinofaringe ha una struttura tale da assolvere ad alcune funzioni di purificazione di aria da
sostanze estranee, come virus e batteri, ma è anche tale da permettere che, a livello della membrana del
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timpano, presente nell’orecchio a far da diaframma tra l’orecchio esterno e l’orecchio medio, la pressione
che si esercita sulla faccia esterna sia uguale a quella che si esercita sulla faccia interna, condizione
fondamentale per far sì che il timpano vibri in maniera ottimale in funzione delle onde sonore. A tale scopo è
presente una comunicazione tra rinofaringe e orecchio medio, per rendere possibile che le 2 facce della
membrana timpanica siano sottoposte alla stessa pressione atmosferica.
Il rinofaringe è la parte più espansa del faringe. Il tetto del rinofaringe coincide con il tetto del faringe,
superiormente al quale si trova in parte la piramide dell’osso temporale, in parte l’osso basilare, che
appartiene all’osso occipitale. Dal tetto del rinofaringe pende una formazione impari e mediana, la tonsilla
faringea, la quale presenta la stessa struttura linfo-epiteliale delle tonsille palatine e ha la funzione di
controllo dell’aria che entra. Essa può andare incontro a fenomeni di infiammazione acuta o cronica,
esattamente come le tonsille palatine, che tuttavia sono facilmente visibili, mentre le tonsilla faringea è più
difficile da osservare. Questo fenomeno ne determina l’ingrossamento, così che essa può protrudere verso il
basso e verso l’avanti, andando ad interferire con il passaggio dell’aria in entrata attraverso le coane. Si ha la
condizione che prende il nome di adenoidi.
A destra e a sinistra, prendendo come punto di riferimento la tonsilla faringea, sulla parete laterale del
rinofaringe sono presenti 2 aperture, una a destra e una a sinistra, circondate da un tessuto del tutto simile a
quello della tonsilla faringea e della tonsilla palatina sottostante, cioè tessuto linfo-epiteliale. Se si entra
attraverso questo foro si percorre la così detta tuba di Eustachio, condotto che mette in comunicazione il
rinofaringe con l’orecchio medio. La funzione della tuba di Eustachio è quella di equilibrare le pressioni
sulle 2 facce del timpano.
Isolotti sparsi dello stesso tessuto linfo-epiteliale si trovano lungo le facce laterali di tutto il rinofaringe,
disposto a formare una struttura che prende il nome di anello di Waldayer. Si tratta di un anello di tessuto
linfoide che circonda le coane e l'istmo delle fauci individuato da una linea chiusa che dalla tonsilla faringea
scende da ambo i lati alle tonsille tubariche, alle tonsille palatine terminando infine sulla tonsilla linguale.
In caso di faringiti ricorrenti tutto questo tessuto linfo-epiteliale aumenta di dimensioni, che si traduce in un
ostacolo all’ingresso dell’aria, con il risultato che il soggetto tende a respirare con la bocca. Questo
rappresenta un problema in termini di riscaldamento e umidificazione di aria, intanto perché lo spazio in cui
passa l’aria è relativamente largo rispetto a quello delle cavità nasali, poi perché determina secchezza delle
fauci, in quanto l’aria fa evaporare la componente acquosa della saliva, con possibile formazione di
fissurazioni, quindi dolore e rischio di infezione. Inoltre, siccome questi eventi interessano in particolar
modo i bambini, che non hanno un corpo ben formato, compreso lo splancnocranio, nei soggetti adenoidei
che respirano con la bocca invece che con il naso, essendo la funzione che fa la forma, il naso non si modella
come di norma, ma resta piccolo. Ciò determina un viso allungato, tipico dei soggetti adenoidei, in quanto la
mancata crescita delle cavità nasali fa sì che il palato duro divenga ogivale, cioè a forma di parabola stretta,
di arco, con le emiarcate dentali di destra e di sinistra molto vicine, alterando la normale occlusione dentale.
Questo è molto importane poiché l’articolazione temporo-mandibolare impone tutta una serie di attività
muscolari che dallo splancnocranio scendono al collo, al rachide, fino alle articolazioni dell’anca, quindi il
soggetto ha anche una postura deformata.
Un altro problema è rappresentato dal fatto che a questo livello si trovano le aperture delle tube di Eustachio,
che finiscono liberamente nel cavo rinofaringeo: se questo tessuto linfo-epiteliale si ingrossa l’apertura si
restringe, con conseguente mancato adeguamento della pressione tra le 2 facce della membrana timpanica,
con alterazione della vibrazione della membrana timpanica e ipoacusia, cioè indebolimento dell’udito. Se
questo fenomeno interessa un bambino, questi incontra difficoltà nell’apprendimento, soprattutto della
lingua, strumento principale della comunicazione. Questo spiega anche il fenomeno per il quale il soggetto
raffreddato è leggermente ipoacuso e ha necessità di “sturare le orecchie”, deglutendo o soffiando con forza
con il naso chiuso, in quanto l’infiammazione si diffonde anche alla tonaca mucosa delle tube di Eustachio,
riducendone lo spazio interno.
Il faringe è un organo particolarmente complesso, che appartiene in parte all’apparato respiratorio e in parte
all’apparato digerente. Si tratta di un organo che dal basso verso l’alto risulta espanso ed è molto dorsale,
subito al davanti della colonna cervicale e della fascia faringea.
RAPPORTI DEL FARINGE:
Per tutta la sua lunghezza il faringe è affiancato da un fascio vascolo-nervoso, fatto da un’arteria, una vena e
almeno un nervo, il fascio vascolo-nervoso del collo. In regione soprajoidea, in cui si trova la gran parte del
faringe, il fascio vascolo-nervoso del collo, che in regione sottojoidea è fatto dall’arteria carotide comune
medialmente, dalla vena giugulare interna lateralmente e dal nervo vago nell’angolo solido posteriore, è fatto
sempre dalla vena giugulare interna, sempre dal nervo vago ma, anziché che dall’arteria carotide comune,
dall’arteria carotide interna, uno dei 2 rami di divisione della carotide comune, vaso molto importante che
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entra nel cranio e irrora gran parte dell’encefalo. Così come in regione sottojoidea l’elemento più mediale dei
3 è l’arteria carotide comune, in regione soprajoidea l’elemento più mediale dei 3 è l’arteria carotide interna.
Laddove finisce il faringe, questo si continua superiormente con elementi del naso e della bocca,
inferiormente con elementi dell’esofago e del laringe.
MUSCOLATURA DEL FARINGE:
La parete del faringe è costituita dall’esterno dalla fascia faringea, dipendenza della fascia cervicale profonda
(secondo alcuni), poi da una parete muscolare striata, poi una sottile tonaca sottomucosa e una tonaca
mucosa.
La costituzione muscolare del faringe è importante ai fini della deglutizione, ma anche ai fini della
fonazione. Infatti il timbro del suono che si emette dipende molto dalla conformazione delle cavità
complessivamente formate da cavità nasali, cavità buccale e cavità del faringe, in particolare il suono sarà
più o meno grave. Queste cavità in parte sono costituite da tessuto osseo, indeformabile, ma in parte da
tessuto molle, a livello del quale sono presenti muscoli. La contrazione di questi muscoli permette la
fonazione, con le caratteristiche tipiche della lingua e della cadenza specifiche e del messaggio che si vuole
esprimere. I suoni emessi infatti possono essere modulati, sulla base di aggiustamenti del volume aereo
interno di queste strutture, laddove esso risulta modificabile. Di conseguenza l’insieme della muscolatura
presente a questo livello serve a generare quella che si chiama prosodia, cioè la musicalità della voce, molto
importante ai fini della comunicazione verbale, quindi della vita di relazione. Un ruolo molto importante ai
fini della generazione della prosodia è svolto dai muscoli del faringe, insieme agli altri.
Tuttavia la stessa muscolatura ha anche l’importantissima funzione di realizzare l’evento della deglutizione.
La componente muscolare della parete faringea è fatta di muscolatura scheletrica. Ciò è tale un po’ perché
assicura una forza di contrazione di gran lunga superiore a quella della muscolatura liscia, un po’ perché
mentre la muscolatura liscia è regolata dal sistema nervoso vegetativo, simpatico e parasimpatico, e da
ormoni, la muscolatura scheletrica funziona soltanto se riceve uno stimolo nervoso, altrimenti non si contrae.
Questo permette di inviare segnale elettrici con una certa frequenza, che permette di contrarre tutto il
muscolo o una frazione delle miofibre del muscolo che si contrae, quindi la forza di contrazione può essere
graduata.
La parete del faringe dal punto di vista muscolare è fatta dalla successione di 3 coppie di muscoli, 3 a destra
e 3 a sinistra: muscolo costrittore superiore, muscolo costrittore medio e muscolo costrittore inferiore.
1) Muscolo costrittore superiore: è il muscolo costrittore faringeo più complesso, in quanto consta di 4 capi,
ciascuno dei quali si inserisce posteriormente al rafe:
- Capo pterigoideo: è il capo più corto, parallelo al piano terra, va da dietro al rafe sino al processo
pterigoideo dell’osso sfenoide, disegnando una sorta di semicirconferenza. Quando questo capo si contrae,
insieme al corrispondente capo controlaterale, analogamente a ciò che accade al diaframma, il rafe non si
sposta, in quanto fissato alla colonna vertebrale, e nemmeno il processo pterigoideo, quindi il risultato è
che la semicirconferenza si appiattisce, così che lo spazio aereo da essa delimitato diminuisce perché
subisce una pressione. La contrazione di questo muscolo ha la funzione di variare, in particolare
diminuire, le dimensioni della cavità, allo scopo di variare il suono pronunciato. Tuttavia questo capo non
serve soltanto ai fini della fonazione, ma anche della deglutizione.
- Capo pterigomandibolare: si trova inferiormente al capo pterigoideo, nasce dal rafe e andando in avanti
va ad inserirsi ad un rafe tendineo teso tra il processo pterigoideo dell’osso sfenoide e la faccia interna del
ramo della mandibola.
- Capo milojoideo: è il capo più grande, si diparte dal rafe faringeo, si dirige in avanti parallelamente al
piano terra e raggiunge la linea milojoidea, la cresta ossea della faccia interna del corpo della mandibola,
dove si inserisce uno dei 4 lati del muscolo milojoideo. Quindi è come se il pavimento della cavità buccale
fosse fatto da un prolungamento di una parte del faringe: alla stessa linea milojoidea che si trova lungo la
faccia interna del corpo della mandibola si inserisce un muscolo soprajoideo, ma anche il capo milojoideo
del muscolo costrittore superiore del faringe.
- Muscolo faringoglosso: è l’ultimo capo, si diparte anch’esso dal rafe faringeo, va in avanti e si inserisce
alla radice della lingua. Si tratta di un capo che con la sua contrazione contribuisce a tirare in alto e in
dietro la lingua.
Questi 4 capi, soprattutto i primi 3, che vanno da un rafe immobile (è incollato alla colonna vertebrale) ad
elementi fissi, contraendosi appiattiscono verso la linea di mezzo il muscolo, che genera una forza che si
esercita sul bolo che è stato “catapultato” dietro con la lingua, mentre il 4° capo un po’ contribuisce a questo,
un po’ contribuisce a tirare in alto e in dietro la lingua, tanto che a tale scopo si si contrae qualche istante
prima degli altri.
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2) Muscolo costrittore medio: è un muscolo a ventaglio, il cui manico si trova a livello dell’estremo
posteriore dell’osso joide e le cui fibre si dirigono verso il rafe faringeo aprendosi a ventaglio. In particolare
le fibre si dirigono tutte posteriormente, ma alcune vanno anche in alto, altre soltanto dietro e altre anche in
basso.
3) Muscolo costrittore inferiore: è il più grande dei muscoli costrittori del faringe. Anche questo è un
muscolo a ventaglio, soltanto che questa volta il manico del ventaglio si diparte dalla cartilagine tiroide e
dalla cartilagine cricoidea, appartenente sempre al laringe, e le fibre vanno tutte posteriormente al rafe
faringeo, alcune andando anche in alto, altre soltanto in dietro e altre anche in basso.
La contrazione delle 3 coppie di muscoli costrittori del faringe avviene dall’alto verso il basso, cioè
inizialmente si contraggono i muscoli superiori, poi i medi ed infine inferiori, quasi a mimare una peristalsi.
Questa contrazione si innesca in via riflessa allorché il bolo arriva nell’orofaringe, la cui presenza
rappresenta uno stimolo meccanico per indurre un riflesso di contrazione. Si determina così un’onda
contrattile in direzione craniocaudale finalizzata ad aumentare la pressione all’interno della cavità faringea,
che si esercita sul bolo, il destinatario dell’aumento di pressione. Il bolo in seguito all’aumento di pressione
non può tornare in bocca perché l’istmo delle fauci è chiuso, non può risalire nel rinofaringe perché sono
avvenuti l’irrigidimento e la rotazione del palato molle, quindi può andare soltanto verso il basso. In
particolare verso il basso potenzialmente ha 2 possibilità, o va verso l’esofago o va verso il laringe, ma
siccome è stato preventivamente tirato verso l’alto l’osso joide, che si è portato dietro il laringe, chiudendo il
laringe, il bolo può soltanto andare nell’esofago, dove la contrazione peristaltica della muscolatura liscia lo
spinge nello stomaco.
La contrazione di questi muscoli non necessita di essere appresa, in quanto attiene alla memoria genetica,
avviene per via riflessa, riflesso che si basa su un’organizzazione anatomica ben precisa: prima scaricano
neuroni che determinano la contrazione del costrittore superiore, poi neuroni che determinano la contrazione
del costrittore medio ed infine neuroni che determinano la contrazione del costrittore inferiore, e nell’ambito
di ciascun muscolo prima le fibre craniali e poi quelle caudali.
INNERVAZIONE DEI MUSCOLI DELL’ISTMO DELLE FAUCI E DEL FARINGE:
Il muscolo tensore del palato è innervato dal 5° nervo cranico o nervo trigemino, lo stesso che innerva i 4
muscoli masticatori, il milo-joideo e il ventre anteriore del digastrico.
Il muscolo costrittore medio e il muscolo costrittore inferiore del faringe è innervato dal 10° nervo cranico o
nervo vago.
Il costrittore superiore in genere è innervato dal 9° nervo cranico o nervo glosso-faringeo.
Tutti gli altri, cioè i muscoli dell’istmo delle fauci, il muscolo dell’ugola e il muscolo elevatore del palato,
sono innervati da un plesso nervoso costituito in gran parte dall’11° nervo cranico o nervo accessorio del
vago e in parte anche dal 9° nervo cranico.
Nella regione di faringe e istmo delle fauci si ha quindi la convergenza di 3 nervi cranici, il 9°, il 10° e l’11°.
Tuttavia è presente grande incertezza circa quali nervi innervino quali strutture, a causa dell’elevata
complessità della regione, anche dal punto di vista organogenetico, per cui in genere si dice che il 9° e l’11°
nervo cranico cooperano nella innervazione del costrittore superiore e i muscoli dell’istmo delle fauci,
eccezion fatta per il muscolo tensore del palato, che certamente è innervato dal 5° nervo cranico.
Guancia:
La guancia è fatta di tessuto molle, cioè cute e sottocute, ed è coperta da una fascia che è una dipendenza
della fascia cervicale superficiale.
In profondità rispetto a cute e sottocute è presente un muscolo, che prende il nome di muscolo buccinatore,
fatto di fibre parallele al piano terra che vanno da dietro in avanti a coprire le 2 arcate dentali, superiore e
inferiore. Il muscolo buccinatore si diparte posteriormente dallo stesso rafe pterigomandibolare a cui arriva
da dietro il 2° capo del costrittore superiore del faringe, quindi è possibile considerare il muscolo buccinatore
come una sorta di continuazione verso l’avanti del capo pterigomandibolare del costrittore superiore del
faringe. L’inserzione di questo muscolo si ha intorno all’angolo della rima labiale, cioè va a finire in elementi
connettivali presenti a livello dell’angolo della rima delle labbra, superiore e inferiore.
Si tratta di un muscolo mimico, cioè è un muscolo da cui dipendono le espressioni del volto, che nell’uomo
hanno una valenza molto importante nella comunicazione non verbale. I muscoli mimici esistono in numero
molto ampio, sono piccoli di dimensione, quindi con forza contrattile limitatissima, e sono caratterizzati da
un basso rapporto di innervazione. Ciò significa che è possibile contrarre questi muscoli anche soltanto
parzialmente, cioè alcune fibre e non altre, così da poter dosare la contrazione di ciascun muscolo, ottenendo
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complessivamente un’enorme gamma di espressioni facciali, che rappresenta un potentissimo mezzo di
comunicazione, tanto che esistono anche neuroni in grado di percepire l’uso di questa vasta gamma
nell’interlocutore, che permette di capire le intenzioni della persona che ci sta davanti. Il muscolo
buccinatore, quando usato insieme a quello controlaterale, permette di soffiare, atteggiare le labbra a dare un
bacio, pronunciare consonanti come “S” e “F”, ecc..
In realtà però tra muscolo buccinatore e cute si frappone un sottocute che prende il nome di corpo adiposo di
Bichat, responsabile della conformazione generale della guancia. Si tratta di un grasso che viene consumato
dopo rispetto al resto del grasso, che ha una forte valenza comunicativa, in quanto è indice della quantità di
grasso presente nel corpo (se è diminuito significa che il soggetto ha perso molto peso).
Questo ha importanza per un altro motivo: più o meno al centro geometrico del muscolo esso è attraversato
da un condotto, che prede il nome di condotto parotideo di Stenone, il condotto escretore della ghiandola
parotide, ghiandola salivare maggiore.
Loggia parotidea:
STRUTTURE DELLA LOGGIA PAROTIDEA:
Ghiandola parotide:
La ghiandola parotide è una ghiandola salivare maggiore, la più grande delle 3, presente una a destra e una a
sinistra, di colorito roseo e consistenza carnosa (molto simile al pancreas).
Istologicamente è una ghiandola tubulo-acinosa a secrezione sierosa, molto simile al pancreas, ma diversa in
quanto non presenta cellule centroacinose, componente esocrina del pancreas. Essa ha la forma di una
piramide rovesciata, con l’apice in basso e la base in alto, allocata in uno spazio chiamata loggia parotidea,
le cui pareti sono costituite dallo sdoppiamento di una fascia muscolare, a sua volta derivazione della fascia
cervicale superficiale, la fascia parotideo-masseterina.
La fascia cervicale superficiale nel collo superiormente si inserisce lungo il margine inferiore del corpo della
mandibola; posteriormente e medialmente al ramo della mandibola la fascia si spinge in alto, perché deve
andare ad avvolgere anche la parte craniale di muscolo sternocleidomastoideo che sta in prossimità del
processo mastoideo: siccome la fascia cervicale superficiale è la fascia di questo muscolo, dove c’è muscolo
c’è fascia. Andando verso l’alto questa fascia ne approfitta e si sdoppia, generando uno spazio dove si alloca
la ghiandola parotide e altre strutture, quindi la ghiandola parotide viene ad essere fasciata lateralmente
posteriormente e mediamente. Tuttavia questa fascia, ex fascia cervicale superficiale che ricopre la ghiandola
parotide, in questa regione cambia nome e viene a chiamarsi fascia parotideo-masseterina. Essa prende
questo nome in quanto, oltre a ricoprire la parotide, in prossimità del ramo della mandibola questa fascia
copre anche il muscolo massetere.
Il muscolo massetere è uno dei 4 muscoli masticatori (quello che si sente all’angolo della mandibola
serrando la mandibola), molto potente, la cui origine è a livello dell’arcata zigomatica e l’inserzione a livello
della superficie esterna dell’angolo della mandibola, le cui fibre hanno un andamento leggermente obliquo in
basso e in dietro. Esso, innervato dal 5° nervo cranico, fa anche da parete, quindi contribuisce a dare la
morfologia del volto, ed è coperto (non avvolto, soltanto coperto) dall’esterno dalla fascia parotideomasseterina, prolungamento della fascia cervicale superficiale.
Per collocare la loggia parotidea si prendono come punti di riferimento il ramo della mandibola e il
padiglione auricolare con il condotto auditivo esterno, tanto che il nome parotide letteralmente significa “in
prossimità dell’orecchio” e tanto che questa è la ghiandola che si ingrossa nella parotite epidemica (gli
“orecchioni”).
A livello della parete laterale della faccia è presente uno spazio, chiamato fossa infratemporale,
inferiormente e medialmente all'arcata zigomatica. Appare come la diretta continuazione verso il basso della
fossa temporale. L’aggettivo “infratemporale” letteralmente significa “sotto al temporale”.
L’osso temporale sopra al ramo della mandibola presenta una porzione che prende il nome di squama del
temporale, che presenta un processo osseo che va in avanti e che la connette all’osso zigomatico,
responsabile degli zigomi, il processo zigomatico del temporale. Il processo zigomatico del temporale si
articola e forma una sinostosi (articolazione immobile) con il processo temporale dello zigomatico, formando
l’arcata zigomatica. Se si considera il piano immaginario parallelo al piano terra poggiato sull’arcata
zigomatica, si forma una fossa delimitata inferiormente da tale piano e medialmente dall’osso temporale, che
prende il nome di fossa temporale. Inferiormente a questo piano è presente un’altra fossa, sotto alla fossa
temporale, la fossa infratemporale.
Gran parte della fossa infratemporale è occupata dalla loggia parotidea, la quale tuttavia in qualche modo
aggira da dietro e lateralmente il ramo della mandibola, per cui è presente un po’ di ghiandola parotide anche
sulla superficie esterna del ramo della mandibola, in particolare in prossimità del margine posteriore del
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ramo della mandibola, tanto che un piccolo prolungamento della parotide va addirittura a coprire il
massetere, prende il nome di prolungamento masseterino della parotide. Esso ha la forma di un cono e si
continua con il condotto parotideo di Stenone, che perfora il buccinatore in quanto la saliva deve essere
depositata nel cavo orale.
Infatti la ghiandola parotide è una ghiandola salivare che si trova fuori dal cavo orale e per raggiungere
questa cavità si serve del condotto parotideo di Stenone, il quale incrocia dall’esterno il muscolo massetere,
incrocia in parte il muscolo buccinatore, lo perfora e perfora la tonaca muscosa che tappezza l’interno della
guancia all’altezza del 2° molare superiore, dove riversa la saliva, cioè nel vestibolo laterale della bocca, a
destra e a sinistra.
L’attività della ghiandola parotide in parte è costitutiva, ma al bisogno la secrezione può essere aumentata,
cosa che vale per tutte le ghiandole salivari, in seguito al riflesso salivatorio: ogni volta che si introduce
qualcosa in bocca, sia esso sapido o insipido, si genera il riflesso salivatorio, che non dipende dalla volontà
in quanto operato dal sistema nervoso autonomo, in particolare dal parasimpatico.
La loggia parotidea è contenuta nella loggia infratemporale, il cui punto di riferimento è il ramo della
mandibola. Verso il basso dal ramo della mandibola si arriva nella regione sottojoidea, che ospita la
ghiandola sottomandibolare, la quale si trova sotto al piano del muscolo milojodeo, e la ghiandola
sottolinguale, che si trova immediatamente sopra il milojoideo. Quindi in uno spazio ristretto si trovano tutte
e 3 le ghiandola salivari maggiori: la parotide, la sottomandibolare e la sottolinguale.
Linfonodo preauricolare:
All’interno della loggia parotidea ci sono anche altri elementi. Se si incide cute, sottocute e fascia parotideomasseterina si osserva fondamentalmente la ghiandola parotide e pochissimo riguardo altri elementi che
occupano la loggia, quindi sono strutture che si trovano o nello spessore della ghiandola o profondamente ad
essa, ma comunque nello spazio della loggia parotidea.
Un elemento visibile, situato nella parte alta della loggia parotidea, cioè verso la base della ghiandola
parotide, è un linfonodo posto proprio all’altezza del condotto auditivo esterno, ma non nel condotto, bensì
nella loggia parotidea, il linfonodo preauricolare, presente sulla parte più esterna.
Nervo facciale:
Gli altri elementi sono visibili soltanto se si incide o si sposta la ghiandola parotide. Uno di questi è il 7°
nervo cranico o nervo facciale, in particolare la sua porzione finale. Si tratta di un rapporto molto
importante, in quanto nella loggia parotidea, all’interno del parenchima parotideo, il 7° nervo cranico si
divide in 2 rami, uno che sale, il ramo temporofacciale, e uno che scende, il ramo cervicofacciale. Questi 2
rami innervano tutti i muscoli mimici dell’emivolto: se si taglia il 7° nervo cranico appena esso entra nella
loggia parotidea, prima di dividersi, si ha una completa emiparesi facciale. Questo determina profonda
asimmetria della faccia, perché dove c’è la paresi la palpebra inferiore è leggermente abbassata, in quanto
viene a mancare lo stato di contrazione minima del muscolo, in più, siccome i muscoli della faccia sono
flaccidi, anche l’angolo della bocca omolaterale alla lesione è abbassato, il che fa sì che la bocca rimanga
aperta e che la saliva tenda a scivolare da quell’angolo. Si parla di emiparesi completa in quanto si può avere
anche paresi parziale, siccome dentro alla loggia parotidea il nervo si separa nei 2 rami, ciascuno dei quali ha
un preciso territori di distribuzione: il ramo temporofacciale va ad innervare tutti i muscoli mimici posti
sopra la rima labiale, il ramo cervicofacciale innerva i muscoli mimici sotto questa linea, molto importante in
semeiotica neurologica. In caso di lesione del ramo cervicofacciale si ha paralisi dei muscoli sotto la rima
labiale, in caso di lesione del ramo temporofacciale si ha paralisi dei muscoli sopra la rima labiale.
La ghiandola parotide è una struttura che con una certa incidenza va incontro a degenerazione tumorale, in
genere tumori benigni (ingrossamento che non dà metastasi), che si manifestano con un ingrossamento della
ghiandola. Il problema nell’asportazione di questo tipo di tumore è che c’è il rischio di ledere uno o entrambi
i rami del nervo facciale, se non addirittura tutto il nervo facciale, che comporta una lesione senza possibilità
di recupero.
Arteria carotide esterna:
Dentro la loggia parotidea è necessario sistemare anche l’arteria carotide esterna, uno dei 2 rami di
divisione dell’arteria carotide comune, quello anteriore e laterale, e i suoi rami terminali, l’arteria temporale
superficiale e l’arteria mascellare interna.
Vena facciale posteriore:
Inoltre dentro la loggia parotidea è presente anche una vena, la vena facciale posteriore, che percorre
verticalmente la loggia parotidea, parallela all’asse maggiore della ghiandola, che rappresenta di fatto la vena
compagna dell’arteria carotide esterna.
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Vena giugulare esterna:
Nella loggia parotidea si trova anche l’origine della vena giugulare esterna. Siccome nella maggioranza dei
soggetti la vena giugulare esterna nasce da una vena che viene dall’alto, la vena auricolare posteriore, che
passa dietro il padiglione auricolare, necessariamente l’ultima parte di questa vena si trova nella loggia
parotidea.
Vaso comunicante intraparotideo:
Nella loggia parotidea si trova anche il vaso comunicante intraparotideo, in particolare si tratta di una vena.
Se la loggia parotidea è una parte della fossa infratemporale, che è già piccola, significa che la loggia, in essa
contenuta, è particolarmente piccola. Tuttavia è uno spazio con moltissime strutture, caratteristica importante
nella semeiotica e nella chirurgia.
RAPPORTI DELLA LOGGIA PAROTIDEA:
La ghiandola parotide nel suo insieme affianca, cioè si mette ai lati di, il faringe, quindi la faringe contrae
rapporto laterale con gli elementi della loggia parotidea e fondamentalmente con la parotide, all’altezza della
loggia parotidea.
Questo rapporto è importante quando un’infezione della tonsilla diventa purulenta, cioè si forma del pus,
ossia neutrofili morti che hanno inglobato l’agente patogeno, quindi si forma un ascesso, raccolta di pus
delimitata da una membrana di natura connettivale fabbricata dai fibroblasti locali sotto lo stimolo dei
macrofagi. Questa membrana, che prende il nome volgare di cencio, ha la funzione di delimitare il focolaio
dell’infezione, ma quando l’ascesso “si apre” non verso l’orofaringe, ma dalla parte opposta, esso arriva a
corrodere la parete del faringe, finendo a livello della loggia parotidea, quindi è necessario incidere e far
fuoriuscire il pus.
Vascolarizzazione del collo, dello splancnocranio e della
parte esterna del neurocranio:
ARTERIE:
Nella regione sottojoidea si trova il fascio vascolo-nervoso del collo, il cui elemento arterioso è dato
dall’arteria carotide comune. L’arteria carotide comune risale nel collo verticalmente e circa all’altezza
dell’osso joide, quindi del margine superiore della cartilagine tiroidea, a circa C4, si divide in 2 grossi vasi,
uno anteriore e leggermente laterale, l’arteria carotide esterna, e uno più mediale e più dorsale, l’arteria
carotide interna. Mentre la carotide interna non dà rami per il collo e per lo splancnocranio, ma si occupa
soltanto di irrorare il contenuto del neurocranio, la carotide esterna contribuisce a irrorare il collo e lo
splancnocranio.
- Arteria carotide esterna, si trova in regione soprajoidea, in quanto si origina all’altezza di C4, dove
proietta l’osso joide. Essa può essere suddivisa in 2 tratti, un primo tratto extraparotideo e un secondo
tratto intraparotideo, che entra nella loggia parotidea e passa dentro al parenchima della ghiandola
parotide.
- Tratto extraparotideo: Dal tratto extraparotideo si originano 6 vasi, a destra e a sinistra, di cui, 3
sono detti anteriori e 3 sono detti posteriori.
- arteria auricolare posteriore, il primo vaso posteriore, si dirige verso l’alto, verso la regione
dell’orecchio per passare tra il processo mastoideo del temporale e il condotto auditivo esterno.
Esso contribuisce ad irrorare in parte il padiglione auricolare, soprattutto cute, sottocute, cuoio
capelluto e periostio che si trova dietro e sopra il padiglione auricolare, cioè a livello delle
regioni temporale e parietale.
- arteria occipitale, il secondo vaso posteriore, si dirige verso l’alto, passa medialmente rispetto
al processo mastoideo, approfittando per irrorare anche questa regione, e si distribuisce alla
regione occipitale e un po’ alla regione patitale, per irrorare cute, sottocute, cuoio capelluto e
periostio.
- arteria faringea ascendente o arteria faringo-meningea, il terzo vaso posteriore, più piccolo
degli altri. Esso sale verso l’alto per andare ad irrorare il faringe, ma penetra anche all’interno
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del neurocranio e contribuisce a vascolarizzare le meningi della base del cranio, in particolare
della fossa cranica posteriore.
- arteria tiroidea superiore, il primo vaso anteriore, è un vaso ricorrente, cioè che fa un percorso
inverso rispetto al vaso che lo genera, che prende il nome di la quale scende verso il basso per
contribuire ad irrorare la tiroide, le paratiroidi, il laringe, ecc.. Ne esiste un’altra, l’arteria
tiroidea inferiore, che ha tutt’altra origine: nasce dal tronco tireo-cervicale, che a sua volta
nasce dall’arteria succlavia.
- arteria linguale, il secondo vaso anteriore, è parallelo al piano terra e percorre dal dietro in
avanti tutta la regione sottojoidea. In realtà percorre la regione sottojoidea, ma poi deve entrare
nel cavo orale, e lo fa sfruttando il margine libero del muscolo milojoideo. Essa irrora lingua,
pavimento della cavità buccale, ecc..
- arteria facciale o arteria mascellare esterna, il terzo vaso anteriore, è un’arteria grossa, lunga
e tortuosa. È un’arteria che si dirige inizialmente verso il ramo della mandibola, lo aggira
passando sotto al margine libero del corpo della mandibola e risale per percorrere tutta la
guancia fino alla radice del naso e all’angolo interno dell’occhio. In particolare essa è grossa e
lunga in quanto ha un territorio di distribuzione ampio, tortuosa in quanto, siccome si cambia
molte volte durante la giornata la morfologia della guancia, per abbassare la mandibola, talora
per serrarla, durante la masticazione, ecc., con questo sistema durante la distensione della
guancia quest’arteria non subisce trazione. Quest’arteria prima di girare l’angolo a livello
dell’angolo della mandibola dà un ramo per la regione soprajoidea. Una volta che essa si
impegna nello spessore della guancia ne irrora soltanto le parti molli, cioè cute, sottocute e
muscoli, arriva alla base del naso e raggiunge l’angolo interno dell’occhio, dove cambia nome
e si continua come arteria angolare, la quale all’altezza dell’angolo interno dell’occhio si
anastomizza a pieno canale con un ramo dell’arteria carotide interna, l’arteria oftalmica,
deputata alla vascolarizzazione di tutto il cavo orbitario, compreso l’occhio.
- Tratto intraparotideo, dà origine a 2 rami:
- arteria temporale superficiale, è quasi la continuazione della carotide esterna, va verso l’alto e
si dirige verso la fossa temporale. Nella fossa temporale è presente fondamentalmente un
muscolo masticatore molto potente, il muscolo temporale, muscolo a ventaglio che tira verso
l’alto la mandibola, quindi l’arteria temporale superficiale irrora questo muscolo, ma anche
cute, sottocute, cuoio capelluto e periostio della squama del temporale, della parte anteriore del
parietale e dell’osso frontale. Dall’arteria temporale superficiale si diparte un vaso:
- arteria trasversa della faccia, va in avanti on andamento rettilineo.
- arteria mascellare interna, “mascellare” in quanto si dirige verso la regione dell’osso
mascellare, quindi la regione mascellare, la parte alta dello splancnocranio, “interna” in quanto
va in avanti e medialmente, nascondendosi. Questo ramo dà origine ad una serie molto vasta di
vasi. In particolare in un primo tratto si nasconde medialmente rispetto alla parte alta ramo
della mandibola, dove non dà rami.
Dopo qualche centimetro si divide in 3 rami:
- arteria alveolare inferiore, che scende verso il basso, si occupa dell’irrorazione di tutti i
processi alveolari inferiori. Si tratta di cavità vicine le une alle altre, che si trovano a
livello del margine superiore del corpo della mandibola e del margine inferiore dell’osso
mascellare, in cui ci sono degli alveoli destinati ad accogliere la radice dei denti, in
numero pari al numero delle radici dei denti (non dei denti). In particolare l’arteria
alveolare inferiore si occupa soltanto di irrorare i denti inferiori, quindi l’osso
mandibolare, in particolare il corpo. Per entrare dentro all’osso essa scende verso il basso
e attraversa un orifizio marcato in superficie da un piccolo rilievo, la spina mandibolare di
Spix, posta al confine tra corpo e ramo dal versante interno, tramite il quale si accede ad
un canale scavato nel corpo della mandibola, che prende il nome di canale mandibolare.
Il canale mandibolare, che tecnicamente non percorre tutto il corpo della mandibola (in
pratica sì), perché esso, che si dirige da dietro in avanti seguendo l’arteria, ad un certo
punto finisce in superficie, all’altezza del 1°-2° dente premolare, con un foro, foro
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mentale (o mentoniero), per cui una parte degli elementi che percorrono questo, che è
fascio vascolo-nervoso (c’è un’arteria, una vena compagna e un nervo), emergono in
superficie. Siccome il forame mentale si trova all’altezza del 1°-2° premolare, in teoria i
denti anteriori non verrebbero irrorati, ma in realtà in qualche modo il canale mandibolare
si continua in avanti fino ad arrivare all’apice del mento. Durante questo tragitto l’arteria
alveolare inferiore dà una serie di rami, tanto quanti sono gli alveoli e le radici dei denti.
Tramite questo sistema si assicura vascolarizzazione all’osso, cioè al processo alveolare
complessivamente inteso, e alle singole radici dei denti inferiori. Inoltre una volta che
l’arteria alveolare inferiore esce attraverso il foro mentale, essa irrora cute, sottocute e
periostio dell’emimento.
- arteria meningea media, che sale verso l’alto. Si tratta di un vaso grande, che nel suo
tragitto verso l’alto incontra la base del cranio, a livello del quale si trova un foro scavato
nella grande ala dello sfenoide, il foro spinoso, perché si trova a livello della spina della
grande ala dello sfenoide, lo attraversa e fuoriesce dentro la base del cranio, in particolare
nella fossa cranica media. L’arteria meningea media è il più grosso vaso deputato
all’irrorazione delle meningi.
- arteria mascellare interna, il terzo ramo, il più grande, che continua a chiamarsi arteria
mascellare interna. Essa si occupa dell’irrorazione dell’arcata alveolare superiore e della
regione mascellare zigomatica, ma anche il palato molle e le cavità nasali da dentro, cioè
da dietro in avanti, passando a ridosso delle coane. A questo scopo nel suo tragitto dà
origine a diversi vasi. Mentre l’arcata alveolare inferiore riceve sangue da un’unica
arteria, l’arcata dentale superiore riceve sangue da 3 vasi anastomizzati tra loro dentro
all’osso mascellare. Si tratta delle arterie alveolare superiore posteriore, intermedia e
anteriore:
- arteria alveolare superiore posteriore, nasce direttamente dall’arteria mascellare
interna e prende origine da un tronco in comune con l’arteria infraorbitaria, che si
trova sotto l’orbita, lo spazio del neurocranio che contiene, a destra e a sinistra,
l’occhio e gli annessi oculari. Proprio sotto l’orbita l’osso mascellare è percorso da
un canale, che prende il nome di canale infraorbitario, e gli elementi che lo
percorrono sono detti “infraorbitari”, cioè l’arteria infraorbitaria, la vena
infraorbitaria e un nervo infraorbitario.
- arteria alveolare superiore intermedia, in genere nasce dall’arteria infraorbitaria,
prima che questa penetri nel canale infraorbitario (dettaglio poco importante).
L’arteria infraorbitaria è importante perché percorre l’omonimo canale, scavato tra la
parte superiore del mascellare e la base dell’orbita (che poi sono la stessa cosa) e,
subito prima che il canale finisce, dà origine ad un ramo:
- arteria alveolare superiore anteriore.
In genere le 3 arterie alveolari superiori si anastomizzano tra loro, formando
un’arcata anastomotica da cui si originano i rami per le singole radici dentali
dell’arcata superiore.
- arteria infraorbitaria: l’arteria infraorbitaria alla fine del canale infraorbitario esce
in superficie attraverso un foro che si trova sotto all’orbita, ai lati della cartilagine
della narice, la cartilagine alare, che prende il nome di foro infraorbitario. Una volta
uscita dal canale, l’arteria si sfiocca in una serie di rami che si distribuiscono come i
raggi di un ombrello e irrorano parti molli di questa regione, quelli che scendono
irrorano il labbro superiore, quelli che salgono irrorano la palpebra inferiore, quelli
che vanno medialmente irrorano la cute del corpo e del dorso del naso, quelli che
vanno lateralmente irrorano la regione zigomatica. L’arteria infraorbitaria, benché
sia un ramo relativamente grosso, nonché finale dell’arteria mascellare interna, di
fatto non è considerato il ramo finale dell’arteria mascellare interna, ma è
considerato un ramo collaterale.
- rami sfenopalatini: prima che l’arteria mascellare interna origina l’arteria
infraorbitaria, essa dà origine a rami sfenopalatini, i quali sono considerati i suoi
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rami terminali. L’osso palatino, di destra e di sinistra, è un piccolo osso, che si
dispone con quello controlaterale a formare 2 “L” che si guardano e si uniscono,
localizzate esattamente dietro l’osso mascellare. In particolare laddove finisce l’osso
mascellare, in regione posteriore, mediamente ad esso si trova la branca ascendente
dell’osso palatino, mentre la branca orizzontale, insieme a quella controlaterale, si
applica al profilo posteriore delle 2 ossa mascellari, andando a costituire la porzione
terminale del palato duro (il palato duro è per la maggior parte costituito da osso
mascellare, anteriormente, mentre la sua porzione posteriore è rappresentata dalla
branca orizzontale del processo palatino). L’osso palatino tuttavia non è visibile, in
quanto è nascosto dalla parte finale del mascellare (si dispone medialmente rispetto
al margine posteriore convesso del mascellare), è invece visibile il processo
pterigoideo dello sfenoide, e a questo livello l’arteria mascellare in questa regione dà
origine a molti rami sfenopalatini. Queste arterie irrorano il palato molle, importante
per i muscoli contenuti al suo interno; contribuiscono a irrorare le pareti laterali del
rinofaringe, laddove esse vanno al davanti per diventare tutt’uno con il margine
laterale delle coane (il faringe non ha una parete anteriore, ma le pareti laterali si
devono continuare con qualcosa, che nel caso del rinofaringe è il margine laterale
delle coane), che rappresentano l’ingresso posteriore delle cavità nasali: come
l’ipofaringe si continua in avanti con laringe ed esofago, come il buccofaringe si
continua in avanti con il cavo orale, il rinofaringe si continua in avanti con le cavità
nasali; irrorano inoltre anche mucosa e parete delle cavità nasali.
- arteria timpanica anteriore e arteria auricolare profonda: in realtà l’arteria
mascellare interna, quando ancora è nascosta mediamente al ramo della mandibola,
dà questi 2 vasi. Si tratta di vasi che hanno a che fare con l’orecchio,
fondamentalmente con l’orecchio medio e in parte l’orecchio esterno, all’altezza del
condotto auditivo esterno. Esse sono molto importante perché irrorano strutture
come la membrana timpanica e strutture nervosi che attraversano questa regione, ad
esempio 7° e 9° nervo cranico.
VENE:
Mentre alcune delle arterie analizzate finora hanno vene compagne, nella regione del collo si trovano anche
vene che tecnicamente non sono compagne di arterie. Si tratta di vene aggiuntive, in parte superficiali e in
parte profonde, allo scopo di aumentare il letto vascolare, così da aumentare la portata del flusso sanguigno,
allo scopo di facilitare il drenaggio venoso dallo splancnocranio e dal neurocranio. Infatti se facilita il
drenaggio venoso si ottengono 2 effetti positivi: aumenta la quantità di sangue reflua destinata al cuore,
sfruttando la forza di gravità, si allontanano velocemente le sostanze di rifiuto prodotte dall’encefalo.
Non esiste né vena carotide comune né vena carotide esterna (interna esiste, ma ha un altro nome).
Vena giugulare esterna:
La vena giugulare esterna è un vaso che scende verso il basso incrociando ad “X” dal davanti lo
sternocleidomastoideo: questo va dall’alto in basso, da dietro in avanti e da lato a medio, questa vena va
dall’alto in basso, da dietro in avanti e da medio a lato. La vena giugulare esterna va a finire nella vena
succlavia prima che questa si unisca alla giugulare interna, durante il quale tragitto riceve sangue da alcuni
vasi della regione, poco importanti da conoscere. Essendo superficiale essa può essere vista ed utilizzata
come accesso venoso, ma soprattutto rappresenta un segno di anormalità nel caso essa sia gonfia e molto
evidente, ad esempio un disturbo al deflusso della rispettiva vena brachiocefalica o della cava superiore.
Inoltre, in caso di grave insufficienza respiratoria queste vene sono dilatate in quanto il soggetto cerca di
espirare per far entrare nuova aria, cosa che determina aumento della pressione intratoracica, che determina a
sua volta l’ingrossamento di queste vene. La stessa cosa succede nel soggetto che presenta insufficienza
ventricolare destra. Quindi queste vene sono molto importanti nella semeiotica medica.
La vena giugulare esterna si origina all’interno della loggia parotidea. Di norma essa è la continuazione della
vena auricolare posteriore, compagna dell’arteria auricolare posteriore, che dalla regione del padiglione
auricolare scende, entra nella loggia parotidea e si continua come vena giugulare esterna. Ciò significa che la
sua origine è profonda e che poi, essendo superficiale, in un qualche punto deve perforare la fascia parotideomasseterina e diventare superficiale. Durante il suo tragitto dentro la loggia parotidea la vena giugulare
esterna dà origine ad un vaso, il vaso comunicante intraparotideo, che percorre in parte la loggia parotidea e
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poi esce, andando ad anastomizzare la giugulare esterna con la vena facciale, tributaria della giugulare
interna.
Vena giugulare interna:
La vena principale del collo, la più grossa, è la vena giugulare interna, piuttosto profonda, nascosta dallo
sternocleidomastoideo, che costituisce uno degli elementi del fascio vascolo-nervoso del collo, sia in regione
soprajoidea sia in regione sottojoidea. Essa è il principale vaso di deflusso del neurocranio. Emerge da un
foro della base del cranio chiamato foro giugulare e di fatto è la continuazione di un grosso vaso venoso
intracranico, chiamato seno sigmoideo. Essa inferiormente si unisce alla vena succlavia per dare origine alla
vena brachiocefalica, di destra e di sinistra.
La vena facciale, compagna dell’arteria facciale, è tributaria della giugulare interna, compagna della carotide.
Mentre le 3 arterie anteriori della carotide esterna nascono separatamente le une dalle altre, le 3 vene
compagne, la vena facciale o mascellare esterna, la vena linguale e la vena tiroidea superiore, portano tutte
sangue nella vena giugulare interna, ma ci vanno unendosi prima in un unico tronco, che prende il nome di
tronco tiro-linguo-facciale.
Dietro il ramo della mandibola, da esso nascosta, si trova una vena anch’essa tributaria della vena facciale
anteriore, la vena retromandibolare. Essa rappresenta il più grosso vaso venoso che porta sangue refluo dal
territorio dell’arteria mascellare interna.
Vena giugulare anteriore:
L’ultima giugulare è la vena giugulare anteriore, superficiale, cioè immediatamente nel sottocute,
all’esterno della fascia cervicale superficiale, tanto che è visibile e apprezzabile. Si origina in regione
soprajoidea raccogliendo vene reflue della parte molle della regione soprajoidea, scende in regione
sottojoidea verticalmente mantenendosi sempre all’esterno della fascia cervicale superficiale, fino a qualche
centimetro dalla incisura giugulare dello sterno, dove cambia direzione, va lateralmente, disegnando una “L”
speculare, per andare a finire in alcuni casi nella vena succlavia, in altri nella vena giugulare interna, in altri
nella vena giugulare esterna. Questa vena è visibile in pieghe che si formano in soggetti di una certa età a
livello dei tessuti della regione soprajoidea e sottojoidea, che diventano più lassi, pieghe che contengono la
vena giugulare anteriore. Queste vene, di destra e di sinistra, sono importanti perché esse, poco prima di
cambiare direzione, si scambiano una o più anastomosi, a formare il circolo anastomotico del giugulo, posto
qualche centimetro sopra l’incisura giugulare dello sterno, da tenere in considerazione in caso di
tracheotomia d’urgenza, necessaria ad esempio in caso di edema allergico (detto edema di Quincke) del
laringe, ma anche in caso di intervento in regione sottojoidea: questo circolo non dev’essere leso.
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Laringe:
Dal punto di vista macroscopico il laringe è un organo della respirazione, che nella nostra specie diventa un
organo importante ai fini della fonazione.
È situato in regione sottojoidea, immediatamente sotto l’osso joide, al quale esso è connesso tramite una
membrana, la membrana tirojoidea, e tramite una coppia di muscoli, i muscoli tirojoidei. Superiormente è
collegato alla trachea, a cui è connesso.
Il laringe ha grossolanamente la forma di una piramide tronca, con la base superiore e l’apice, tronco,
inferiore.
Siccome è un organo della fonazione, in particolare implicato nella pronuncia delle vocali, che sono presenti
in numero di 5 e variano a seconda degli accenti. Per assicurare l’emissione di questa vasta gamma di suoni
bisogna ricorrere a muscolatura scheletrica, l’unica controllabile tramite la volontà. Quando l’aria passa
attraverso una fessura produce un suono, cosa che accade anche a livello del laringe, infatti si parla durante
la espirazione, cioè allorché si emette aria da dentro a fuori e la si fa passare di fatto attraverso una fessura.
Siccome la varietà di vocali che possono essere pronunciate è vasta, la fessura attraverso cui passa l’aria
espirata non ha uno spessore costante, ma può essere variato da un massimo a un minimo. In particolare
quando il diametro di questa fessura, detta rima della glottide, è al massimo dell’ampiezza si pronuncia la
“U”, la vocale più grave, mentre quando è al minimo di ampiezza si pronuncia la “I”, la vocale più acuta. A
questo scopo è necessario disporre di muscolatura capace di variare l’ampiezza della rima della glottide.
Inoltre, in quanto vengono chiamati in gioco muscoli scheletrici è necessario disporre di uno scheletro o
qualcosa che funga da tale. Non potendo essere presenti nel collo strutture ossee, in quanto troppo pesanti e
poco plastiche, a livello del laringe si trovano cartilagini fibrose, le quali sono disposte in maniera tale da
generare una struttura portante a cui si inseriscono i vari punti dei muscoli che, tramite contrazioni che
avvengono in sequenza nello spazio e nel tempo, con forza minore o maggiore, assicurano la variazione della
rima della glottide tra un massimo e un minimo.
ELEMENTI SCHELETRICI DEL LARINGE:
Cartilagine cricoidea:
Il primo anello tracheale è sormontato da una struttura anelliforme, la cartilagine più caudale del laringe, che
prende il nome di cartilagine cricoidea o cricoide, che ha la forma di un “anello con castone”, dove il
castone è disposto posteriormente. Il castone di un anello rappresenta la parte incava all’interno della quale è
contenuta la gemma. Quindi la cartilagine cricoidea presenta anteriormente una porzione di anello sottile e
posteriormente una porzione di anello che si ingrossa a formare il castone.
Cartilagine tiroidea:
La cartilagine cricoidea è continua con l’ultimo anello tracheale inferiormente, mentre superiormente è
connessa alla cartilagine tiroidea, a forma di scudo. Essa presenta 2 lamine quadrangolari che si incontrano
incompletamente sul davanti, come a prua di una nave, a formare un angolo più acuto nel maschio e più
ottuso nella femmina. L’incontro anteriore delle 2 lamine avviene lungo una linea, dove esse si fondono ma
in maniera incompleta, in quanto per circa la 1/2 superiore le lamine non si incontrano e disegnano una “V”
aperta in alto. Le 2 lamine protrudono verso l’avanti, sebbene meno nella femmina e più nel maschio, in cui
formano il “pomo d’Adamo”.
A livello del lato più dorsale di ciascuna lamina quadrangolare sono presenti una serie di processi, 2 verso
l’alto e 2 verso il basso, ciascuno dei quali prende il nome di corno, corno superiore, di destra e di sinistra, e
corno inferiore, di destra e di sinistra, che la cartilagine tiroidea utilizza per connettersi con altre strutture
cartilaginee e legamentose. Posteriormente alle 2 lamine che si incontrano sul davanti c’è il vuoto, non
proseguono verso il dietro: la cartilagine tiroidea è incompleta posteriormente.
Cartilagini aritenoidee:
Esiste poi una coppia di cartilagini pari, le cartilagini aritenoidee, che hanno ciascuna la forma di una
piramide molto appiattita in senso anteroposteriore. Viste da dietro o da davanti hanno la forma di un
triangolo rettangolo, posizionati in modo da essere affrontati per i 2 lati maggiori. Esse sono sedute sul
castone della cartilagine cricoidea.
Cartilagini corniculate:
Inoltre esiste un’ultima coppia di cartilagini, molto piccole, a forma di uncino, che prendono il nome di
cartilagini corniculate, che si localizzano al di sopra di ciascuna cartilagine aritenoidea.
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Epiglottide:
Infine è presente un’ultima cartilagine, che prende il nome di epiglottide, nome che letteralmente significa
“che sta sopra alla lingua”, dove per “lingua” si intende “linguaggio”, quindi sintetizza una lunga perifrasi:
“cartilagine che in certi momenti va a chiudere la rima della glottide”. Essa ha grossolanamente la forma di
una foglia, ma soltanto se vista da dietro o dal davanti, in quanto non è una struttura piatta, ma disegna una
sorta di cucchiaino con concavità verso il dietro e convessità verso l’avanti. Il peduncolo dell’epiglottide è
incollato dal versante interno alla linea di giunzione delle 2 lamine della cartilagine tiroide.
MUSCOLI DEL LARINGE:
Giustapponendo la cartilagine tiroide e una parte della cricoide verso l’avanti e il castone della cricoide, le
aritonoidee e le corniculate verso il dietro si definisce uno spazio aereo, che apparentemente risulta molto
grande, ma ciò non è così. Questo spazio infatti è parzialmente occupato da muscoli che ne riducono il
volume, disposti in maniera tale da spostare una cartilagine rispetto all’altra, quindi modificare lo spazio
aereo, e da modificare una parte di questo spazio aereo che viene definita rima della glottide.
Dei muscoli del faringe che vengono analizzati, tutti tranne 2 hanno funzione fonatoria. Ciò significa che
tutti i muscoli intrinseci del laringe tranne 2 hanno la funzione di restringere la rima della glottide tra un
minimo e un massimo.
In particolare, dei 2 muscoli che non hanno funzione fonatoria, uno ha funzione respiratoria, nel senso che ha
la funzione di allargare la rima della glottide, l’altro ha la funzione di far basculare in dietro l’epiglottide
allorché durante la deglutizione è necessario evitare che il bolo vada a finire in laringe, chiudendo la rima
della glottide e aiutando l’innalzamento del laringe operato dai muscoli soprajoidei.
Muscoli cricotiroidei:
Alcuni muscoli vanno dall’estremo anteriore della cartilagine cricoide all’esterno della lamina quadrangolare
della cartilagine tiroide, che prendono il nome di muscoli cricotiroidei. Essi sono muscoli fonatori, la cui
contrazione fa ribaltare leggermente verso l’avanti la cartilagine cricoide, che si traduce nella tensione delle
corde vocali vere. Essi sono gli unici muscoli del laringe visibili dal davanti.
Muscoli cricoaritenoidei:
Alcuni muscoli vanno dal castone della cartilagine cricoidea alle cartilagini aritenoidee, che prendono il
nome di muscoli cricoaritenoidei, presenti in numero di 2 per ciascun lato, uno è il muscolo cricoaritenoideo
laterale e uno è il cricoaritenoideo posteriore.
In particolare il muscolo cricoaritenoideo posteriore è un muscolo posteriore, l’unico muscolo respiratorio
presente a questo livello, uno a destra e uno a sinistra. Infatti la sua contrazione non ha funzione nella
fonazione, ma determina una rotazione delle 2 cartilagini aritenoidee verso l’interno, che si traduce
nell’allargamento massimo della rima della glottide. Ciò avviene in automatico durante la inspirazione, al
fine di allargare quanto più possibile la rima della glottide.
Invece il muscolo cricoaritenoideo laterale è un muscolo fonatore, allorché riduce la rima della glottide.
Muscoli ariaritenoidei:
Alcuni muscoli vanno da una cartilagine aritenoidea all’altra, sono presenti in numero di 3, in particolare una
coppia di muscoli e uno impari e mediano, prendono il nome di muscoli ariaritenoidei.
La coppia prende il nome di muscoli ariaritenoidei obliqui, in quanto si incrociano ad “X”, mentre
inferiormente ad essi si trova il muscolo ariaritenoideo trasverso, che va da destra a sinistra e viceversa.
Questi 3 muscoli hanno funzione fonatoria, in quanto con la loro contrazione fanno ruotare l’ipotenusa (cioè
il margine laterale) delle 2 cartilagini aritenoidee verso l’avanti, che si traduce in un restringimento della
rima della glottide.
Muscolo tiroepiglottico:
Un muscolo del laringe va dall’interno della cartilagine tiroidea all’esterno della cartilagine epiglottide,
prende il nome di muscolo tiroepiglottico ed è un muscolo fonatore.
Muscolo ariepiglottico:
Un muscolo va dalla superficie esterna della cartilagine epiglottide alla cartilagine aritenoidea, a destra e a
sinistra, che prende il nome di muscolo ariepiglottico. Questo muscolo non è né respiratorio né fonatorio, ma
è disposto in maniera tale che la sua contrazione l’estremo libero della cartilagine epiglottide viene spostato
in dietro, così che l’epiglottide tende a diventare più orizzontale. Questo si traduce nella chiusura della rima
della glottide in quanto avviene mentre i muscoli soprajoidei stanno tirando verso l’alto l’osso joide, che
porta con sé il laringe, con il risultato che si chiude la rima della glottide e il bolo va a finire nell’esofago.
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Muscolo tiroaritenoideo:
Infine esiste