II. Il progetto salvifico di Dio in Cristo: aspetti della Scrittura e della storia teologica Nel capitolo precedente abbiamo messo in relazione la Rivelazione divina e il bisogno universale di salvezza presente in ogni uomo. Tra le idee emerse ci sembra opportuno evidenziarne due: in primo luogo la salvezza non può venire dalle creature poiché l’unico in grado di rispondere al bisogno di salvezza presente nell’uomo è Dio stesso; inoltre il nucleo della rivelazione cristiana è proprio nell’affermazione che Dio ha gratuitamente attuato la salvezza dell’uomo nell’evento di Gesù Cristo1. In questo capitolo ci soffermeremo sulla risposta cristiana alla questione della salvezza, risposta che si può sintetizzare nel ‘nome’ di Gesù Cristo e nella sua missione2. I grandi pensatori cristiani di ogni epoca hanno cercato di comprendere il senso generale della venuta di Gesù tra noi, si sono chiesti perché la salvezza avvenga in Gesù Cristo, ossia attraverso l’incarnazione del Verbo3, e quale sia il suo ruolo nel disegno divino. Una rilettura, seppur sintetica, di alcune delle risposte date a questi quesiti di notevole ampiezza teologica ci aiuterà a formare una visione unitaria e complessiva del mistero della salvezza in Gesù Cristo. 1. Paolo e Giovanni: Cristo rivelazione del disegno di Dio La teologia paolina offre un’ampia visione sul disegno divino dell’incarnazione e sulla sua convenienza per la salvezza4. Emblematico, a questo proposito, è il primo capitolo della lettera ai Colossesi, che riporta un inno cristologico (Col 1,13-20) incentrato sulla mediazione del Verbo5. Il testo risponde alla messa in questione dell’universalità e della singolarità della 1 Con questa premessa abbiamo voluto ricordare, per quanto implicitamente, che il discorso cristiano tocca ogni uomo nel vivo, e che dunque vale la pena ascoltarlo e meditarlo. Quanto il cristiano ha da dire ha una rilevanza decisiva e universale. 2 Consigliamo la lettura di G. Moioli, voce Cristocentrismo, in Nuovo Dizionario di Teologia, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1976, pp. 224-234. 3 L’espressione ‘incarnazione del Verbo’ si riferisce al fatto che il Verbo diventa uomo. In ambito cristologico questo evento può essere considerato in due modi: come mistero iniziale della vita umana di Gesù (e allora esso precede tutti gli altri, dalla nascita alla gloria), o come mistero fondante sul quale poggiano gli altri eventi della vita di Cristo. In quest’ultimo caso l’espressione comprende in sé l’intera ‘vicenda’ terrena e celeste di Gesù, la sua venuta tra noi e il suo ritorno glorioso al Padre. Qui intendiamo l’espressione in questa seconda accezione. 4 Cf. H. Schlier, Linee fondamentali di una teologia paolina, Queriniana, Brescia 1985; A. Valentini, Gesù Cristo secondo la teologia di S. Paolo, “Studia Missionalia” 50 (2001), 73-101; R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria, II: Gli sviluppi, S. Paolo, Cinisello Balsamo 1999, pp. 89-263. 5 15Egli (Cristo) è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; 16poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. 17Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui. 18Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. mediazione di Cristo. Sembra che nella Chiesa di Colossi, forse per influsso della teologia giudaica, si attribuisse una eccessiva importanza alla mediazione degli angeli o di potenze celesti, cui erano riservate venerazione e pratiche cultuali6. La mediazione unica del Verbo incarnato restava così nell’ombra. Ciò offrì a S. Paolo l’occasione di esprimere il suo pensiero su di essa7. Partendo dalla considerazione che Cristo è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura, l’apostolo riprende un complesso di idee già presenti nella letteratura sapienziale, che vedono la Sapienza come “un riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell’attività di Dio” (Sap 7,26), presente sin dall’inizio, all’origine, prima di ogni opera divina (cf. Prv 8,22). S. Paolo applica questi concetti a Cristo, al suo rapporto con il Padre (egli “è immagine del Dio invisibile”) e con la creazione (è “generato prima di ogni creatura”)8. Il suo intento è quello di affermare la preesistenza non soltanto intenzionale di Cristo, come progetto nella mente di Dio, ma anche reale, come Figlio nel quale quel progetto si attua. E riguardo al Figlio, destinato all’incarnazione, alla morte e alla resurrezione, l’apostolo afferma che “in lui furono create tutte le cose” (v. 16). È un rapporto di mediazione che mostra l’eccellente dignità di Cristo: le cose furono create in lui (en autō) (non in un altro). Il significato di questa espressione si chiarisce ulteriormente nel versetto successivo, in cui si afferma che “tutte le cose sussistono in lui”, che egli, cioè, è il centro supremo di unità, di coesione e di armonia, che dona al mondo il suo senso e la sua realtà. Altre sfumature della mediazione cosmica del Verbo sono evidenziate nel già citato verso 16: la creazione è stata fatta “per mezzo di” Cristo (di’ autou) e “in vista” di lui (eis auton); potremmo dire, in altre parole, che essa ha Cristo come causa e come fine. A. Feuillet riassume la teologia di questi versetti paolini affermando che Cristo incarnato è come lo “specchio nel quale Dio stesso ha contemplato il piano dell’universo quando lo ha creato”9. È questo il significato del concetto di ‘creazione in Cristo’. Nella seconda parte dell’inno la prospettiva diventa più storica, pur restando tuttavia ancorata all’idea centrale di mediazione: dalla mediazione cosmica si passa infatti alla mediazione storico-salvifica di Cristo. Cristo è il capo del corpo che è la Chiesa (v. 18). Con questa affermazione l’apostolo intende evidenziare l’autorità del Risorto sulla Chiesa, che è parallela alla sua autorità sulla creazione. Attraverso Cristo, per mezzo di lui, la gloria di Dio giunge alla Chiesa; egli, quindi, è 19Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza 20e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli. 6 Cf. P. T. O’Brien, Colossians, Philemon, Word Books, Waco (TX) 1982, pp. xxx-xli (introduzione) e 61-63. 7 Sulla struttura e sulla teologia dell’inno ai Colossesi cf. J.-N. Aletti, Lettera ai Colossesi (Introduzione, versione, commento a cura di J.-N. Aletti), EDB, Bologna 1994, pp. 106-107, 231-232. Egli vede cenni della problematica del culto agli angeli in 2,8-16.18-21. Tra i principali commenti all’inno segnaliamo: A. Feuillet, Le Christ sagesse de Dieu d’après les épitres paulinnienes, J. Gabalda et Cie, Paris 1966, pp. 163-273; P. Benoit, L’hymne christologique de Col 1, 15-20. Jugement critique sur l’état des recherches, in Christianity. Judaism and other greco-roman cults, I (J. Neusner ed.), Brill, Leiden 1975, pp. 226-263; R. Fabris, “Inno cristologico Col 1,15-20” in A. Sacchi (ed.) Lettere paoline e altre lettere, (Logos 6) Leumann, Torino 1996, pp. 496-509; A. M. Buscemi, Gli inni di Paolo: una sinfonia a Cristo Signore, Franciscan Printing Press, Jerusalem 2000, pp. 39-76.. Articoli che affrontano la tematica da diverse prospettive si possono trovare in Associazione Biblica Italiana, La cristologia di S. Paolo, Atti della XXIII Settimana Biblica, Paideia, Brescia 1976. 8 Cf. J.-N. Aletti, Lettera ai Colossesi (Introduzione, versione, commento a cura di J.-N. Aletti), EDB, Bologna 1994, pp. 88-89. 9 A. Feuillet, Le Christ sagesse de Dieu d’après les épitres paulinnienes, J. Gabalda et Cie, Paris 1966, pp. 208-209, cit. da M. Bordoni, Gesù di Nazaret, III, Herder, Pontificia Università Lateranense, Roma 1986, p. 637. il principio, il primogenito dei risorti, cui seguiranno gli altri; è superiore per dignità ed eccellenza ad ogni creatura, ha il primato assoluto su tutte le cose. Dio, inoltre, ha voluto che in Cristo abitasse tutta la pienezza (pleroma) della gloria divina e dei suoi doni10, così come ha voluto riconciliare l’universo nel suo sangue11. Difficilmente si potrebbe immaginare un ruolo di mediazione più vasto: Cristo è il mediatore cosmico della creazione e della riconciliazione del mondo, è il principio della nuova creazione, il donatore della gloria e il rivelatore del senso dell’universo. La sua mediazione, unica e assoluta, è molto al di sopra di ogni potenza o creatura. Anche la visione giovannea, più ristretta e concreta, si muove nell’ambito della mediazione universale di Cristo12. Per S. Giovanni l’incarnazione del Verbo è il mezzo per rivelare il mistero di Dio, per farlo conoscere, ma anche e soprattutto per comunicarlo: essa lo rivela comunicandolo. Possiamo ricevere i doni salvifici di Cristo perché Gesù stesso ‘è’ ognuno di quei doni, in quanto li possiede come ricchezza del suo essere. Riceviamo la luce perché Gesù è la luce, riceviamo la vita perché egli è la vita, conosciamo la volontà di Dio perché Gesù è la parola e il messaggio di Dio. Tutto ciò trova il suo fondamento nel fatto che Gesù proviene dal Padre. Il prologo del vangelo di Giovanni afferma che Gesù è il Verbo eterno, anteriore al creato13, ed è egli stesso Dio14, perciò può svelare il mistero del Padre e portare al mondo la ricchezza divina: “Dio nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18). Egli è “l’Unigenito del Padre pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14) e si fa carne per farci partecipi dei suoi doni: “dalla sua pienezza tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia” (Gv 1,16). Anche qui ricorre il tema del pleroma (la pienezza) che abbiamo trovato in S. Paolo. Come Paolo, Giovanni afferma che il Verbo è il mediatore della creazione, e che “tutto è stato fatto per mezzo di lui” (il concetto ricorre nel Prologo due volte). Quando Cristo venne, tuttavia, “il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente ma i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,10-11). Il mondo, in qualche modo, era atto a ricevere la Parola di Dio perché era stato fatto per mezzo di quella Parola15. Soprattutto il popolo eletto (‘la sua gente’) avrebbe dovuto accoglierlo perché anch’esso era stato originato ed era stato convocato dalla Parola di Dio. Ma così non è stato: è il dramma del rifiuto di Dio, del peccato, ma anche del suo superamento per mezzo dell’amore del Salvatore nei confronti dell’umanità, perché “a quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12). Come si può notare, la teologia giovannea, pur essendo talvolta più sobria, e pur avendo 10 Sullo sfondo di questa idea vi è la gloria di Yhwh. Secondo L. Cerfaux, “questo pleroma (pienezza) è la forza della santificazione della divinità, che abita il corpo di Cristo Risorto”, Cristo nella teologia di S. Paolo, Ave, Roma 19712, p. 335. 11 In questa affermazione è implicita, almeno come sfondo, l’idea di un peccato dell’uomo di dimensioni universali. 12 Per la cristologia giovannea cf. I. de la Potterie, Studi di cristologia giovannea, Marietti, Genova 19862; R. Schnackenburg, La persona di Gesù Cristo nei quattro vangeli, Paideia, Brescia 1995, pp. 313-413; J. Guillet, Jésus Christ dans l’Évangile de Jean, Cerf, Paris 1980; G. Segalla, La cristologia del Nuovo Testamento: un saggio, Paideia, Brescia 1985; J. Caba, Teología joanea. Salvación ofrecida por Dios y acogida por el hombre, BAC, Madrid 2007. 13 L’idea di Cristo Verbo del Padre deriva probabilmente dai temi della Parola e della Sapienza di Dio, assai frequenti nell’antico Testamento. Cf. M. Serenthà, Gesù Cristo, ieri, oggi e sempre, Elledici, Leumann 1986, pp. 434438. 14 Per una introduzione alla teologia del prologo del quarto vangelo si vedano la monografia di A. Feuillet, Il prologo del Quarto Vangelo, Cittadella, Assisi 1971; G. Segalla, Il Prologo di Giovanni (1,1-18), “Ricerche StoricoBibliche” 10 (1998), 251-278; R. Schnackenburg, E il Verbo si fece carne, “Communio” (1978-79), nn. 42-43, 21-31. 15 R. Schnackenburg ricollega i primi versetti del prologo a Gn 1: il Verbo che era al principio presso Dio (Gv 1,1). “È la stessa Parola mediante la quale Dio crea l’universo: ‘E Dio disse...’”. Cf. E il Verbo si fece carne, in “Communio” (1978-79), nn. 42-43, 22. uno stampo più semitico, ha con la teologia paolina numerosi punti di contatto, di cui ci limiteremo qui a ricordare i principali: Cristo rivela il mistero di Dio per la sua condizione intradivina; egli è il mediatore della creazione, è il salvatore del mondo dal peccato e il donatore della gloria. 2. La riflessione teologico-salvifica di S. Ireneo L’importante riflessione di S. Ireneo di Lione sull’incarnazione del Verbo si svolge in un contesto antignostico. La gnosi dei secoli I-III d.C. (gnosticismo) fu un vasto movimento di pensiero16, piuttosto vario e complesso, la cui tesi centrale potrebbe essere riassunta come segue: l’uomo deve ricordarsi della sua parentela con Dio, potrà così liberarsi da questo mondo e ottenere la salvezza per sé e per gli altri. Attorno a questo nucleo centrale la gnosi elaborò un’intera ermeneutica della Scrittura, mescolando elementi propri della rivelazione cristiana con concetti tratti dalla cultura e dal pensiero dell’epoca. Nonostante ciò gli gnostici pretesero di essere i legittimi interpreti del cristianesimo. Alla base della dottrina gnostica vi sono un certo sentimento di estraniazione dal mondo e dal cosmo e una visione del mondo come prigione e luogo del male, da cui lo gnostico avverte il bisogno di essere salvato. Tale desiderio di salvezza, tuttavia, è da lui interpretato come segno di un’alienazione. Egli non si considera appartenente a questo mondo; si sente fuori posto e brama il ritorno alla sua vera patria, ossia al pleroma o mondo della pienezza divina, del quale egli si ritiene parte (quasi fosse un’“asticella”). Ma quando si interroga sulla causa di questo stato di cose, sulle ragioni della frattura tra il principio pneumatico e divino che egli scopre in sé, e quello più proprio del cosmo, lo gnostico individua nella materia l’elemento di conflitto. Spirito e materia si contrappongono nella gnosi come la luce e le tenebre: essi sarebbero due mondi distinti e antitetici, alla cui origine devono necessariamente esservi due principi diversi e contrari. La creazione, dunque, non può essere opera di un Dio buono, ma dev’essere opera di un Demiurgo segnato in qualche modo dal male. Vista da una prospettiva cristiana, l’impostazione di fondo del movimento gnostico poneva molti problemi, collegati soprattutto al dualismo che interessava l’ambito della creazione (un Dio buono e un mondo cattivo), ma che si rifletteva inevitabilmente anche sulla concezione antropologica (l’uomo, spirito e materia, libero e imprigionato). In quest’ultimo ambito gli gnostici mettevano in discussione il valore e il realismo della risurrezione, la necessità della grazia per vedere il Dio trascendente, e la stessa libertà interiore dell’uomo, in quanto, sulla scia di Platone, consideravano la materia come una sorta di carcere dell’anima. L’antropologia cristiana era dunque particolarmente colpita dalle teorie gnostiche, ma i contrasti interessavano anche molti altri settori della fede. S. Ireneo confutò queste tesi nell’opera Smascheramento e confutazione della falsa gnosi, più conosciuta con il titolo latino di Adversus Haereses17. In questo voluminoso scritto egli mostra come lo gnosticismo non sia, in realtà, che una congerie di dottrine priva di coerenza interna, che nulla ha a che vedere con l’armonia e con la perfezione insite nella genuina dottrina cristiana. Egli elabora quindi un’ermeneutica della vera gnosi (la fede), che altro non è che la dottrina rivelata vista dalla prospettiva del disegno di Dio e della sua unità18. S. Ireneo, dunque, sottolinea innanzitutto l’unità del disegno divino di salvezza. Creazione e salvezza, antico e nuovo Testamento, mondo e uomini: tutto appartiene allo stesso progetto 16 Cf. G. Filoramo, voce Gnosi/gnosticismo, in A. di Berardino (a cura di), Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, II, Marietti, Casale Monferrato 1983-1988, coll. 1462-1450; A. Orbe, Cristología gnostica. Introducción a la soteriología de los siglos II y III, Editorial Católica, Madrid 1987. 17 parte). Adv. Haer. (Trad. ital. di E. Bellini, in Ireneo di Lione. Contro le eresie ed altri scritti, Jaca Book, Milano 1981). 18 Cf. lo splendido volume di M.-J. Le Guillou, Il mistero del Padre, Jaca Book, Milano 1979 (qui spec. la prima divino. Vi è una sola economia di Dio riguardo al genere umano, un unico piano universale che include tutto. Si può dire che su questo punto egli si collochi in stretta continuità con S. Paolo. All’interno dell’unità del disegno divino il teologo mette poi in rilievo l’unità dell’uomo e della sua salvezza. L’uomo è costituito da corpo (physis), anima (psichē) e spirito (nous). Ireneo, tuttavia, pone l’accento sulla carne19; la salvezza di cui egli parla, in altre parole, è salvezza della carne. L’uomo in principio è stato plasmato e modellato dal Verbo; la carne è la sua ‘plasmazione’. E poiché Dio lo ha creato a sua immagine dalla terra vergine, l’uomo anche nella sua corporeità è immagine di Dio. In principio gli era stato riservato un destino salvifico, ma, in quanto creatura spirituale, egli doveva realizzarlo mediante l’uso della sua libertà. Doveva diventare simile al Padre per ottenere l’immortalità divina20. Il peccato non ha cambiato questi presupposti, ma ha tolto all’uomo la possibilità di contemplare Dio. Attraverso la storia della salvezza, però, Dio ha voluto riportare l’uomo al suo destino; lo ha fatto progredire gradualmente nella conoscenza del Padre, ha fatto sì che si ‘abituasse’ a stare con lui, lo ha sollecitato ad avanzare nel cammino di salvezza. La storia della salvezza per S. Ireneo è il camminare di Dio con l’umanità, per far sì che l’uomo passi “dall’immaturità infantile di Adamo alla piena maturità della figliolanza divina”21. Essa svela progressivamente il progetto divino, che si compirà pienamente soltanto alla fine della storia. Ma per poter arrivare a quel momento, l’uomo ha dovuto essere guidato da Dio con una premurosa pedagogia. In questo contesto si comprende il senso ireneano dell’Incarnazione, mediante la quale il Figlio di Dio dona la conoscenza del Padre. L’incarnazione del Verbo non costituisce una semplice tappa della storia della salvezza, ma introduce una novità radicale. Il peccato ha reso necessario un nuovo inizio della storia e dell’uomo stesso. Ireneo sembra ritenere che l’Incarnazione non sia stata motivata dal peccato ma che tuttavia, essendovi il peccato, il Verbo sia diventato nella sua venuta il riconciliatore, il redentore che compie l’espiazione e ci libera dal diavolo. Dio riprende così la sua opera dall’inizio, la rinnova e la restaura. Cristo ricapitola il visibile (perché è carne) e l’Invisibile (perché è Verbo); ha dunque il primato su tutti gli esseri celesti e terrestri, e la sua storia ricapitola la storia umana segnata dalla caducità e dalla morte, che vengono superate dalla risurrezione di Gesù e dalla vivificazione che egli opera nell’uomo. Cristo dona all’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, l’immortalità e la filiazione perfetta, e gli rende accessible la conoscenza del Padre. 3. Cristo mediatore, via e sacramento di salvezza in S. Agostino La concezione soteriologica di S. Agostino ha esercitato un’influenza decisiva su tutta la teologia occidentale22. S. Agostino riflette sul ruolo salvifico di Gesù Cristo muovendo da due ‘coordinate’: da 19 Cf. A. Orbe, voce Ireneo, in A. di Berardino (a cura di), Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, II, Marietti, Casale Monferrato 1983-1988, coll. 1807ss. L’autore osserva che la nous ireneana talvolta sembra essere umana, mentre altre volte sembra designare lo Spirito divino. 20 In S. Ireneo salvezza e immortalità finiscono col coincidere; l’immortalità interessa l’intero uomo: è risurrezione. Cf. ibid., coll. 1810-1811. 21 B. Studer, Dio salvatore nei Padri della Chiesa, Borla, Roma 1986, p. 91. L’autore evidenzia lo schema globale ireneano sia riguardo al singolo sia per la storia della salvezza: Padre-Figlio-Spirito (linea discendente) / FiglioPadre (linea ascendente). 22 Alcuni autori hanno affermato che S. Agostino non si è interessato molto alla cristologia. Pur avendo obiettivamente privilegiato altri temi, come la teologia trinitaria o l’antropologia teologica, tuttavia, è indubbio che anche in questo campo il suo apporto è stato significativo. Ci limiteremo qui ad accennare ad alcuni principi fondamentali della sua dottrina cristologica. un lato l’Essere perfettissimo e Sommo Bene che è Dio, e, dall’altro, l’essere spirituale e corporeo che è l’uomo. Quest’ultimo occupa un posto intermedio nella scala degli esseri e ha quindi delle relazioni con Dio e con le cose materiali; “se tende a ciò che è infimo, ha una vita infelice, se si volge all’essere sommo, vive felice”23. L’anima, creata a immagine e somiglianza di Dio non deve aspirare a niente di inferiore all’amore del Padre; quando, dimenticandolo, ama se stessa, perde la sua dignità e non riesce più a stare in se stessa, perché la sua estasi naturale verso la realtà creata la conduce a dissiparsi nelle cose esteriori e a disperdersi nel mondo. Da qui la tendenza agostiniana ad esprimere mediante la dialettica dell’interiorità e dell’esteriorità la capacità umana di rivolgersi a Dio e al creato. Non annoverandosi tra gli oggetti del mondo, Dio deve essere colto attraverso la via spirituale, la via dell’interiorità. Secondo una notissima espressione del Dottore africano, Dio è intimior intimo meo, ossia è più intimo all’uomo di quanto egli possa essere a se stesso. La realtà creata, invece, è al di fuori di noi, è esteriore. Il peccato originale, che ha portato l’uomo dalla primitiva unione con Dio alla conversione verso se stesso e verso le creature, ha rappresentato un passaggio dall’interiorità all’esteriorità, una perdita di interiorità a beneficio di quanto si attinge attraverso i sensi. Questa ‘consegna’ di se stessi all’esteriorità dei sensi, tuttavia, svuota l’anima sempre più, la rende indegna e la orienta verso l’infelicità. S. Agostino ammira la grandezza dell’uomo per la sua dimensione spirituale: dotato di spirito, l’uomo è immagine del Logos divino e ha come maestro interiore Dio stesso. Quando vive in modo moralmente retto, il Logos lo illumina e lo nutre con il pane della Sapienza24. Il Verbo di Dio è infatti cibo di ogni creatura spirituale, dell’angelo e dell’uomo. Egli nutriva l’uomo anche prima del peccato25, ma la caduta di Adamo ha comportato la perdita di tale beneficio. Per spiegare questo concetto S. Agostino ricorre a diverse espressioni: il cuore dell’uomo si è riempito di orgoglio, l’uomo ha voluto sperimentare la propria potenza, ha cercato di ottenere il proprio bene a scapito del bene comune, ecc.26. In sostanza, l’orgoglio dell’essere umano ha distrutto il suo stato di intimità con Dio. Ma con il suo peccato l’uomo non ha ottenuto nulla di quanto si aspettava, piuttosto ha fatto esperienza della posizione intermedia che gli corrisponde per natura, e il suo rapporto con le realtà corporee, non più guidato dall’amore di Dio, lo ha condotto progressivamente, attraverso i sensi, a somigliare alle realtà inferiori27. Sulla base di tale dottrina (l’intimità divina che salvava l’uomo, e la perdita di essa a causa della caduta nell’uomo esteriore), Agostino afferma che il peccato ha determinato l’economia dell’Incarnazione28. Cristo è venuto per reintegrare l’uomo nella condizione originaria; si è 23 Ep. 18, 2 (Opere di Sant’Agostino, XXI: Lettere/I, Città Nuova, Roma 1969, p. 91). 24 Qui S. Agostino si avvicina molto all’immagine del Logos illuminatore proposta dai grandi maestri della scuola alessandrina come Clemente e Origene. 25 Prima del peccato, Dio “irrigava” l’umanità “con la sorgente interiore, parlando cioè alla sua intelligenza; in tal modo essa non riceveva le parole solo esteriormente (…), ma veniva saziata con l’acqua sgorgante dalla sua propria sorgente, ossia dall’intimità del proprio spirito”. De genesi contra Manichaeos, II, 4.5 (Opere di Sant’Agostino, IX/1: De Genesi/I, Città Nuova, Roma 1988, p. 127 (cf. anche il passo successivo: 5.6). 26 262. Cf. G. Madec, La Patria e la Via. Cristo nella vita e nel pensiero di Sant’Agostino, Borla, Roma 1993, pp. 258- 27 “Quando (l’uomo) pretende di essere come Dio, a nessuno sottoposto, per punizione viene precipitato, lontano persino da quel grado intermedio che è lui stesso, in ciò che vi è di più basso, cioè in ciò che fa la felicità degli animali. E così, consistendo il suo onore nell’essere l’immagine di Dio, il suo disonore nell’essere immagine della bestia: l’uomo posto in dignità, non lo comprese; si è assimilato agli animali senza ragione ed è divenuto simile a loro”, De Trinitate XII, 11. 16 (Opere di Sant’Agostino, IV: La Trinità, Città Nuova, Roma 1987, p. 485). 28 “È parola sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, dei quali il primo sono io (1Tm 1,15). La causa della venuta di Cristo Signore altra non è che quella di salvare i incarnato per parlare al suo cuore attraverso i sensi; il pane degli angeli è diventato pane per i bambini, cibo per gli uomini incapaci di nutrirsi spiritualmente del Verbo. Il Figlio di Dio si è adattato alle condizioni dell’umanità decaduta e, venendo al mondo, si è fatto via per l’uomo peccatore. Attraverso l’incarnazione colui che, essendo Dio, è meta e patria dell’uomo è divenuto cammino verso il Padre, mediatore tra Dio e l’umanità, come spiega un noto brano del De Civitate Dei: “Ma poiché la mente stessa cui competono per natura ragione ed intelligenza, è indebolita da certi vizi oscuri ed antichi, non solo per aderire alla luce immutabile e goderne, ma anche per poterne sopportare lo splendore, prima di tutto c’è bisogno che [la mente] si inizi e si purifichi nella fede, finché attraverso un graduale risanamento e rinnovamento non divenga capace di tanta felicità. E perché in questa fede possa camminare più fiduciosamente verso la verità, la Verità stessa, Dio Figlio di Dio, ha assunto l’umanità senza perdere la divinità ed ha istituito e fondato la fede stessa, per schiudere all’uomo la via che attraverso l’uomoDio arriva al Dio dell’uomo. Egli è dunque il Mediatore tra Dio e gli uomini: l’Uomo Cristo Gesù. Come uomo egli è mediatore ed è quindi anche la via. Poiché se tra colui che cammina e la meta verso cui cammina si trova in mezzo una via, c’è speranza di raggiungerla; se al contrario essa manca o la si ignora, a che serve conoscere la meta? Contro tutti questi errori c’è una sola via, la più sicura: che egli sia contemporaneamente Dio e uomo; Dio come meta del cammino, uomo come via attraverso cui camminare”29. Cristo è dunque mediatore e via di salvezza. È il medico dell’uomo, che egli guarisce con la via humilitatis, con il suo abbassamento e la sua croce. Questa medicina divina non soltanto agisce mediante la forza dell’esemplarità, ma è anche rimedio intrinseco dell’uomo, in virtù del mirabile scambio che il Verbo opera tra la sua giustizia e la nostra miseria30. Il tema del sacrificio di Cristo si inquadra in questa stessa cornice: “Egli, nostro sacerdote, prese del nostro e lo offrì per noi; prese la nostra carne e in questa carne divenne vittima, olocausto, sacrificio”31. Egli ha così instaurato una comunanza con noi, che Agostino, sulla scia di S. Paolo, esprime con l’immagine del capo e del corpo, di Cristo e delle sue membra32. In virtù di questo consorzio la giustizia e la bontà di Cristo, la sua umiltà, che rivela l’amore di Dio per noi, non rimangono esteriori all’uomo, ma agiscono misteriosamente in lui attraverso i sacramenti. Il Cristo, via di salvezza, è anche sacramentum salutis. Il battesimo inserisce l’uomo nel mistero della pasqua del Signore e gli comunica la grazia di una vita nuova in Cristo, suo modello e maestro. Il battezzato riceve il dono della fede e i mezzi di purificazione in vista del rinnovamento dell’uomo interiore; gli altri sacramenti lo aiutano a camminare nella novità della vita battesimale. Così si opera in lui il passaggio dalla morte alla vita, che altro non è che una partecipazione sacramentale ai misteri di Cristo, il quale è giunto alla gloria della risurrezione per la via del sacrificio e della croce33. peccatori. Elimina le malattie, elimina le ferite e non c’è motivo di rimedio. Se è venuto dal cielo il grande Medico è perché un grande malato giaceva per terra. Questo malato è il genere umano”, Sermo 175, 1 (Opere di Sant’Agostino, XXXI/2: Discorsi/III/2, Città Nuova, Roma 1990, p. 856). 29 De Civitate Dei, XI, 2 (Trad. ital. L. Alici, Rusconi, Milano 1984, pp. 516-517). 30 Cf. Sermo 185, 1; Enarrationes in Psalmos, 60,3. Sant’Agostino riprende qui una tradizione comune alla patristica latina precedente e alla patristica greca. 31 Enarrationes in Psalmos, 129,7 (Opere di Sant’Agostino, XXVIII: Esposizioni sui salmi/I, Città nuova, Roma 1976, p. 229). 32 “Tutta la città redenta, cioè l’assemblea e la società dei santi, offre un sacrificio universale a Dio per opera di quel Sommo Sacerdote che nella passione ha offerto anche se stesso per noi, assumendo la forma di servo e costituendoci come corpo di un capo tanto importante. Questa forma egli ha offerto ed in essa si è offerto; in base ad essa egli è Mediatore, in essa è Sacerdote e Sacrificio”, De Civitate Dei X, 6 (Trad. ital. L. Alici, Rusconi, Milano 1984, p. 466). 33 Su questo tema cf. B. Studer, Sacramentum et exemplum chez S. Augustin, “Recherches Augustiniennes” 10 (1975), 88-141. 4. Da Anselmo di Aosta alla disputa sul motivo dell’Incarnazione Nel Medievo la domanda sul ruolo di Cristo nel disegno di Dio si inquadra in un contesto sostanzialmente diverso da quello che aveva caratterizzato l’età patristica. Quella medievale è una società ormai cristiana, e deve quindi misurarsi più con la dottrina che non con il paganesimo o con le eresie. Il pensiero teologico sta cambiando: si comincia ad adottare un approccio più scientifico e ad abbandonare progressivamente quello più contemplativo dei symbola fidei, legato alla tradizione monastica. Comincia inoltre a diffondersi la teologia dialettica, che ricorre allo sforzo della ragione per penetrare maggiormente nella comprensione della fede attraverso il pensiero analitico, la separazione dei concetti e la discussione delle quaestiones. Questo clima intellettuale risente in modo crescente dell’influsso della filosofia greca, grazie soprattutto alla diffusione della metafisica aristotelica. Tutto ciò favorisce la nascita di un nuovo metodo teologico (basato sulla quaestio)34, e determina un maggiore ricorso agli elementi filosofici nella risoluzione delle diverse quaestiones. Per quanto riguarda più specificamente il nostro tema, tutto ciò comporterà a lungo andare una visione più metafisica dell’idea di creazione, ma anche una certa perdita dell’orizzonte biblico del rapporto del Verbo con essa. A tale cambiamento, forse, non è del tutto estranea la paura di sfociare in una visione demiurgica del Verbo. La salvezza dell’uomo, l’incarnazione e l’opera di Cristo sono viste in genere nella prospettiva della restaurazione e della redenzione, e si sottolinea il binomio peccato-incarnazione redentrice. Entro tale contesto si collocano le diverse concezioni dell’Incarnazione che ci accingiamo a prendere in esame. a) S. Anselmo e la soddisfazione vicaria di Cristo Uno dei principali apporti alla questione del ruolo di Cristo nel disegno di Dio è dato in questo periodo da S. Anselmo d’Aosta (n. nel 1034 ad Aosta [Val d’Aosta]; m. nel 1109 in Inghilterra, dove rivestì la carica di arcivescovo di Canterbury). La sua principale opera sul nostro tema è il Cur Deus Homo (1094-1098), riconosciuto da tutti come una pietra miliare della soteriologia occidentale35. Vediamo i punti salienti della dottrina sviluppata da S. Anselmo in questa opera. Il peccato è disobbedienza a Dio; è un’offesa al suo onore che ha messo ordine in tutto. Dio non accorda il perdono per pura misericordia, senza una riparazione da parte dell’uomo, perché ciò contrasterebbe con la sua infinita giustizia. L’uomo deve dunque soddisfare per il peccato, deve compensare con il bene il male fatto e dare a Dio qualcosa che gli restituisca l’onore e lo ripaghi del torto subito. Se rifiuta di soddisfare, l’uomo dovrà subire la pena o punizione imposta da Dio. Le alternative dunque sono due: aut satisfactio, aut poena. In realtà, però, l’uomo non può soddisfare: non è in grado di farlo perché deve tutto a Dio, e quando compie atti di penitenza non fa altro che rendere a Dio l’onore che gli è dovuto. Di fatto, quindi, con la sua penitenza non ‘paga’ nulla per il peccato commesso. Ma c’è un’altra ragione per cui egli non può riparare: il peccato è un male incalcolabile, possiede una certa infinitezza perché ciò che è stato leso non è un valore umano, ma l’onore di Dio. Ma poiché l’uomo non può soddisfare ‘nasce’ il disegno divino sull’Incarnazione. Infatti, se da un lato la soddisfazione deve essere compiuta da un uomo, dall’altro, di fatto, soltanto Dio è in grado di soddisfare. E perciò Cristo, essendo vero Dio e vero 34 Esso è all’origine della nascita della teologia come scienza e darà vita a una vasta produzione teologica costituita soprattutto dalle Somme di Teologia. 35 Su questo tema cf. l’introduzione al volume di M. Corbin - A. Galonnier, Lettre sur l’Incarnation du Verbe. Pourquoi un Dieu-Homme, Cerf, Paris 1988. Per un’esposizione e un commento alla sua teoria si vedano B. Sesboüé, Gesù Cristo, l’unico mediatore. Saggio sulla redenzione e la salvezza, I: Problematica e rilettura dottrinale, Paoline, Roma 1990, pp. 371-390, e J. Galot, Gesù liberatore, LEF, Firenze 1978, pp. 214-226. uomo, sarà in grado di cancellare l’offesa. Come uomo sarà lui a dare soddisfazione a Dio; come Dio sarà in grado di soddisfare, di onorare il Padre con un dono gratuito e di infinito valore. Spiegato il motivo dell’Incarnazione, S. Anselmo continua il suo percorso razionale per chiarire quale sia il dono di valore infinito che Cristo offre al Padre. Questo dono non può consistere soltanto nella sua totale obbedienza. Una volta divenuto uomo, il Verbo sottostà alle leggi proprie della natura umana. Ora, è evidente che l’uomo deve sempre ubbidire al suo Creatore36, e che, di conseguenza, l’obbedienza di Cristo non può essere considerata propriamente un dono, e non serve quindi a cancellare il peccato. Per far ciò occorre invece offrire qualcosa di nondovuto, di gratuito, e questo qualcosa è la sua morte. Offrendo liberamente la sua vita, Cristo compie un atto che non era costretto a compiere (= atto supererogatorio): essendo l’uomo-Dio, infatti, non era obbligato a morire né per il peccato né per quel naturale processo di disgregazione cui, nella sua finitezza e caducità, è soggetta ogni creatura37. Ha potuto quindi offrire la sua vita a titolo di adeguata soddisfazione per gli uomini. La visione anselmiana apparve all’epoca originale e interessante e, di fatto, fu recepita dalla tradizione posteriore. Fu accolta da molti per la sua sistematicità e, con essa, fu accettata, in linea di massima, anche l’idea che il motivo dell’Incarnazione risiede nella liberazione dal peccato per mezzo della soddisfazione vicaria. Alla formulazione anselmiana fu apportata tuttavia qualche correzione: la rigida argomentazione del vescovo di Canterbury (a causa della sua ferrea logica) poteva portare a pensare che Dio dovesse necessariamente agire così; in caso contrario il suo agire non sarebbe stato conforme alla perfezione divina. Tale interpretazione avrebbe però gettato un’ombra sulla gratuità dell’opera di salvezza. Alcuni autori posteriori, quindi, collocarono la teoria anselmiana nell’ambito delle ragioni di convenienza, e dettero maggiore risalto alla gratuità e alla misericordia di Dio. Valutazione: la tesi elaborata da S. Anselmo è stata oggetto, negli ultimi decenni, di numerose critiche. È stata accusata di non essere sufficientemente fondata sulla Scrittura, di applicare alla redenzione categorie più consone a un processo penale che non al linguaggio biblico, di essere eccessivamente ancorata alla mentalità feudale propria del suo tempo, di falsare l’immagine di Dio, attribuendogli un’esigenza di vendetta, ecc. Queste e le numerose altre critiche mosse contro la formulazione del santo vescovo benedettino sono spesso ingenerose38, per quanto, in una certa misura, si giustificano se rivolte alle versioni volgari e successive della sua opera. Se è vero che il punto di partenza del pensiero soteriologico di S. Anselmo è l’onore 36 Con ciò non si intende dire che Cristo è una creatura, ma si vuole semplicemente indicare la sua natura umana. In S. Anselmo, in altre parole, il termine uomo applicato a Cristo non va interpretato come uomo assunto, in senso nestoriano: cf. M. Serenthà, Gesù Cristo, ieri, oggi, sempre, Elledici, Leumann 1986, p. 260. Con la natura umana, il Verbo assume anche tutto quanto Dio ha stabilito per essa: la legge naturale e le altre leggi, ecc., e, quindi, anche il fondamentale dovere di lodare e obbedire a Dio. Senza questi presupposti la missione del Verbo creerebbe un contrasto tra ciò che è buono e ciò che Dio comanda all’uomo, o significherebbe che il Verbo non si fa in tutto simile agli uomini. 37 Intendiamo dire, con ciò, che non era sottoposto alla legge della morte (non essendo egli un peccatore) né era soggetto al processo naturale di dissoluzione corporea (in quanto possedeva l’onnipotenza divina): era quindi costitutivamente libero dalla morte. 38 Era stata tacciata, ad esempio, di ‘funzionalismo cristologico’, che riduce la venuta di Cristo al solo evento della morte, di ‘incapacità restitutiva’, per cui la logica dell’argomentazione richiederebbe il ritorno dell’uomo alla primitiva condizione adamitica come frutto dell’opera di Cristo (il che, di fatto, non avviene), e, infine, di dissolvere la storia concreta della Croce, privilegiando una visione astratta della salvezza. Cf. M. Deneken, Le salut per la croix dans la theologie catholique contemporaine: 1930-1985, Cerf, Paris 1988, pp. 44-63. di Dio, considerato non tanto in se stesso –come attributo divino–, ma in rapporto all’uomo39, è anche vero che il teologo considera tale onore più da una prospettiva dossologica (l’onore come espressione della gloria divina che si riflette nell’ordine e nella bellezza del mondo creato) che non da una prospettiva prettamente giuridica. S. Anselmo, inoltre, non intendeva, con la sua speculazione, esaurire il significato dell’opera redentrice di Cristo, ma soltanto mostrare la coerenza della redenzione con argomenti di ragione che apparissero validi a cristiani e non cristiani40. In questo senso egli è riuscito a presentare correttamente e con grande vigore intellettuale la logica dell’atto redentivo, che è restituzione del mondo all’amore di Dio, operata dall’interno per mezzo dell’offerta del Diouomo. E questa offerta opera la perfetta giustizia anche nei confronti dell’amore paterno di Dio. Occorre ricordare, ad ogni modo, che la prospettiva anselmiana presenta anche dei limiti, legati da un lato al contesto culturale (indubbiamente si riscontra in lui un certo influsso della mentalità dell’epoca41) e, dall’altro, al contesto teologico in cui il santo si muove, contesto che, fortemente influenzato da Agostino, lo porta ad accentuare alcune dimensioni a scapito di altre, meno sviluppate nella teologia dell’epoca42: in S. Anselmo, innanzitutto, la croce resta alquanto ‘isolata’ rispetto agli altri misteri della vita di Gesù, al suo cammino sulla terra e alla sua risurrezione gloriosa, come se, da sola, essa potesse spiegare l’intero senso della venuta di Cristo. Pur essendo essenziali per la salvezza umana, la passione e la morte del Salvatore non esauriscono il significato della sua venuta; S. Anselmo, inoltre, tiene poco conto della storia concreta della croce, dei motivi della crocifissione, ecc., che sono fondamentali per comprenderne il significato. Gesù non subì una morte ‘qualsiasi’, ma morì nel contesto della storia della salvezza: fu crocifisso per volere delle autorità di Israele, popolo di Dio che rifiutava il suo Signore, e per mano dei dominatori romani. Ciò illumina anche il disegno di Dio sulla croce; tutte le azioni di Gesù, infine, furono azioni ‘filiali’ e, come tali, furono anche il mezzo per rivelare nella storia umana la vita trinitaria, e per attuare il disegno divino di filiazione dell’uomo. Tutto ciò si manifesta nella vita di Cristo e nella sua pasqua. È un aspetto fondamentale del progetto di Dio, che non dovrebbe mancare in una elaborazione sistematica come quella del santo vescovo di Canterbury. 39 S. Anselmo, infatti, distingue tra l’onore di Dio che appartiene a Dio stesso (e a questo livello l’uomo non può lederlo) e l’onore di Dio in rapporto alla creatura (cf. Cur Deus Homo, I, cap. XIVss.) 40 “S. Anselmo non è un giurista, ma un contemplativo il cui punto di partenza è il Dio giusto e misericordioso, la cui azione, libera e intelligente, risponde sempre a dei parametri oggettivi. L’azione divina non è mai arbitraria né tanto meno violenta. La sua opera è guidata da motivi di proporzione, rettitudine e giustizia. L’incarnazione e la morte di Cristo corrispondono all’ordine della realtà poiché l’azione divina si attiene all’ordine dell’essere. Redenzione e Creazione vanno di pari passo. La storia è misurata dal vero essere delle cose”. O. González de Cardedal, La soteriología contemporánea, Salmanticenses 36 (1989), 280-281 (traduzione nostra). 41 W. Kasper sottolinea che la teoria è elaborata sullo sfondo culturale dell’ordinamento sociale germanico dell’epoca, basato sul rapporto di reciproca fedeltà tra il signore feudale e il vassallo: “costui ottiene dal suo signore il feudo e la protezione, e partecipa così al suo pubblico potere, in cambio il signore riceve dal vassallo la promessa di fedeltà e servizio. A fondamento dell’ordine, pace, libertà e diritto sta dunque il riconoscimento dell’onore del signore”. W. Kasper, Gesù il Cristo, Morcelliana, Brescia 1981, p. 308. 42 Qualche indicazione in questo senso si trova in A. Ducay, Dios Padre en el Cur Deus Homo de San Anselmo, in AA.VV., El Dios y Padre de nuestro Señor Jesucristo, Atti del XX Simposio Internacional de Teología de la Universidad de Navarra (Pamplona, 21-23 aprile 1999), Eunsa, Pamplona 2000, pp. 151-163. b) I diversi orientamenti sul motivo dell’Incarnazione in età medievale Già nel XII secolo Ruperto di Deutz (1075-1130) e, sulla sua scia, Onorio di Autun (m. 1133/56) si domandano se sia stata realmente la caduta dell’uomo a causare l’incarnazione del Verbo. Un beneficio così grande (quale è appunto l’Incarnazione) non poteva, a loro avviso, procedere dalla colpa umana: “questo eterno disegno d’amore non può essere condizionato da una colpa. Se mai è meraviglioso e degno di adorazione che non ne sia stato frustrato”43. Questa teoria sarà in seguito ripresa dal beato Giovanni Duns Scoto, secondo cui l’incarnazione del Verbo avrebbe avuto luogo anche se l’uomo non avesse peccato. Come ragione dell’Incarnazione Scoto indica il desiderio di Dio di essere sommamente amato da qualcuno al di fuori di lui: l’Incarnazione sarebbe stata dunque progettata per tale scopo44. Altri autori, pur non proponendo specificamente questa motivazione, sostengono che il Verbo si fa carne per ricapitolare in sé tutto l’universo, per divinizzarci, e vedono la liberazione dal peccato non come il motivo dell’Incarnazione, ma come uno dei suoi frutti. Queste posizioni, assieme a quella di Scoto, formano il cosidetto “orientamento scotista”45. Come altri teologi dell’epoca, S. Tommaso segue invece la linea anselmiana. L’Aquinate conosce la posizione di Ruperto di Deutz sul motivo dell’Incarnazione e, per darne una valutazione, nella Somma Teologica affronta, distinguendole idealmente, due questioni: 1) se il Verbo si sarebbe incarnato anche nell’eventualità che l’uomo non avesse peccato, e 2) quale sia stato di fatto il motivo dell’Incarnazione. S. Tommaso affronta la prima questione partendo dalla seconda; cerca quindi di capire innanzitutto perché Cristo si è incarnato nella situazione concreta dell’umanità, e giunge alla conclusione che nella Scrittura il motivo dell’Incarnazione è “sempre desunto dal peccato”46. Sulla base di questo assunto, Tommaso può rispondere anche alla prima domanda, quella relativa al ‘possibile’, se cioè Cristo si sarebbe incarnato anche se non ci fosse stato il peccato. Su questo punto il santo teologo è molto prudente: afferma che Dio si sarebbe potuto incarnare anche se l’uomo non avesse peccato, perché “la potenza di Dio non è costretta”47. Dal momento, però, che nella Scrittura l’Incarnazione è vista come rimedio al peccato, non abbiamo motivi sufficienti per pensare che essa si sarebbe verificata in ogni caso: è preferibile dunque affermare, 43 Rupertus Tuitiensis, De gloria et honore Filii super Matthaeum, XIII (PL 168, 1628-1629), citato da M. Serenthà, Gesù Cristo, ieri, oggi, sempre, Elledici, Leumann 1986, p. 268. 44 Scoto presenta l’ordine esistente nella volontà di Dio alla luce della convinzione classica che “bonum est diffusivum sui”. Dio crea per diffondere la sua “potenza” di amare, per dar vita ad esseri capaci di amare (condiligentes), e che lo amino adeguatamente. Così scrive Scoto: “1° Dio si ama...; 2° Si ama negli altri condiligentes...; 3° Vuole essere amato da qualcuno che lo possa amare in modo supremo...; 4° Prevede l’unione di quella natura che lo amerà in tale modo supremo”, Lect. Paris., III, d. 7; q. 4, citato da C. Chopin, El Verbo Encarnado y Redentor, Herder, Barcelona 1979, p. 71. Potremmo riassumere queste affermazioni come segue: Dio conosce le possibilità di altri esseri e li predestina alla gloria e alla grazia di amare Dio, a cominciare da Cristo, primo predestinato. 45 Questa tesi si fonda sui testi biblici che parlano del primato di Cristo: Rm 8,28: “quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo”; Ef 1,4: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati”; Col 1,15: Cristo è il “primogenito di tutta la creazione”. 46 Cf. Summa Theologiae, III, q. 1; a. 3: S. Tommaso si chiede “se Dio si sarebbe ugualmente incarnato nel caso che l’uomo non avesse peccato”. E risponde: “(...) Le cose infatti che dipendono dalla sola volontà di Dio, al di sopra di tutto ciò che è dovuto alle creature, non possono esserci note se non attraverso la Sacra Scrittura, nella quale la volontà divina viene manifestata. Perciò siccome nella Sacra Scrittura il motivo dell’Incarnazione viene sempre desunto dal peccato del primo uomo, è meglio dire che l’opera dell’Incarnazione è stata disposta da Dio a rimedio del peccato, di modo che, non esistendo il peccato non ci sarebbe stata l’Incarnazione”. 47 Ibid. osserva l’Aquinate, che “l’opera dell’Incarnazione è stata disposta da Dio a rimedio del peccato, di modo che, non esistendo il peccato non ci sarebbe stata l’Incarnazione”. segue: Una breve valutazione delle formulazioni tommasiane consente di affermare quanto la risposta di S. Tommaso alla domanda sulla possibilità dell’Incarnazione in assenza del peccato sembra essere abbastanza equilibrata. È opportuno quindi lasciare da parte questo punto, e soffermarsi invece sul motivo reale dell’Incarnazione, che, è bene ricordarlo, va ricercato anzitutto nella Scrittura, la fonte principale per accedere alle intime intenzioni di Dio; la tesi di S. Tommaso è condivisibile quando pone l’accento sulla venuta di Cristo come rimedio al peccato; lo è invece meno –a nostro avviso– quando sostiene che il motivo dell’Incarnazione nella Sacra Scrittura è “sempre desunto dal peccato”. Esistono infatti testi che parlano del primato di Cristo sulla creazione e che possono essere interpretati come spiegazioni sul motivo dell’Incarnazione. Alla luce di quanto detto, si può affermare che la questione del ruolo e della funzione di Cristo nel disegno di Dio rimane in qualche modo aperta. Se il più grande bene che l’umanità ha ricevuto dipenda o meno dall’atto storico del peccato, resta un interrogativo irrisolto. La prima ipotesi sembra presupporre una mancanza di logica nel progetto divino, perché fa dipendere il bene più grande dell’uomo dal peggior male da lui compiuto; la seconda, a sua volta, sembra ignorare l’insistenza della Scrittura sulla venuta di Cristo per salvare i peccatori. La difficoltà di trovare una risposta, e le aporie che ne seguono, sono probabilmente sintomo di una ‘falsa partenza’, di un equivoco di fondo, e dimostrano che, ad essere problematica, è forse proprio la formulazione della questione. Si è lasciato infatti in ombra il vero punto di partenza, che dovrebbe essere l’interrogativo sull’intenzione di Dio che progetta la creazione. Da questo punto di vista, riteniamo di poter affermare che la volontà divina di donarsi in pienezza sembra non venire mai a mancare, né nei confronti dell’uomo ‘creatura’ né nei confronti dell’uomo ‘peccatore’. In altre parole, alla base del progetto divino sulla creazione vi è l’offerta di donazione di sé all’uomo da parte di Dio, la quale non dipende in alcun modo dal peccato, ma lo precede anzi in modo assoluto48. Qui è la parte di verità della posizione scotista. La modalità concreta di realizzazione della donazione divina nella storia dipende invece dalle azioni umane, dalla corrispondenza a Dio o dal suo rifiuto da parte dell’uomo. E poiché conosce da sempre il peccato dell’umanità, Dio invia Gesù a manifestare il suo amore in una forma adatta a rimediare a tale peccato. E qui è la parte di verità delle posizioni tomista e anselmiana. Non si può dire, ad ogni modo, che il peccato faccia sgorgare in Dio un amore più grande verso l’umanità di quello che egli nutrirebbe nei confronti di un uomo non peccatore. Si può semmai dire che, a motivo del peccato, l’amore divino assume una forma specifica e si rivela attraverso una via più chiara e percepibile dal peccatore: la via dell’incarnazione e della pasqua di Cristo. In sintesi, l’atto storico del peccato cambia la forma concreta della donazione divina, ma non influisce sulla decisione di Dio di donarsi in pienezza all’uomo. Ciò che invece resta da chiarire è se la prospettiva dell’incarnazione ‘a rimedio del peccato’ non ‘costringa’ la mediazione di Gesù Cristo entro certi aspetti o dimensioni dell’orizzonte complessivo dell’uomo, e non finisca quindi col renderla ‘settoriale’ anziché ‘universale’. In altre parole, resta ancora da capire se esistano aspetti della salvezza umana di cui Cristo non sia mediatore (ad esempio, quelli che precedettero storicamente il peccato dei progenitori). Inoltre, se l’uomo in paradiso era ‘amico’ di Dio e godeva della sua grazia49, ci si può chiedere se i doni di cui allora beneficiava fossero già dovuti a Cristo, al Cristo venturo, o se fossero concessi da Dio indipendentemente dalla futura opera salvifica del Figlio. E ancora, l’idea che Cristo sia venuto per essere il redentore, non lo confina nell’ambito del peccato e delle sue conseguenze? Quando ne collega la venuta alla colpa umana, S. Tommaso non intende relegare Cristo entro l’orizzonte del peccato. Il suo pensiero è, per così dire, più sfumato, e la sua argomentazione 48 Questi aspetti saranno meglio chiariti nella sezione VI, 1, d). 49 Cf. CCC, n. 384. sembra, di fatto, articolarsi come segue: il peccato rende conveniente l’Incarnazione; Dio, già prima della creazione, sa che l’uomo sarà peccatore e, quindi, che Cristo si incarnerà per redimerlo; stabilisce allora che il Verbo incarnato sia causa di ogni grazia di salvezza, ossia mediatore universale dell’unione dell’uomo con Dio, sia per coloro che verranno dopo Cristo, sia per i Padri dell’antica Alleanza, sia, infine, per Adamo. Cristo, quindi, media anche la grazia di Adamo prima del peccato originale. Secondo l’Aquinate, in altre parole, ogni forma di unione dell’uomo con Dio nell’economia ‘reale’ passa attraverso Cristo, Verbo Incarnato. Il concetto è ben spiegato in un brano della Summa Theologiae in cui Tommaso afferma che per salvarsi occorre avere fede nell’Incarnazione, perché, per ottenere la beatitudine, è necessario che l’uomo abbia fede nei mezzi che ad essa lo conducono50. Infatti, afferma l’Aquinate, “la via per cui gli uomini possono raggiungere la beatitudine è il mistero dell’incarnazione e della passione di Cristo; poiché sta scritto: ‘Non c’è alcun altro nome dato agli uomini, dal quale possiamo aspettarci di essere salvati’”. Ciò riguarda anche Adamo prima del peccato: “Infatti prima del peccato l’uomo ebbe la fede esplicita dell’incarnazione di Cristo in quanto questa era ordinata alla pienezza della gloria; ma non in quanto era ordinata a liberare dal peccato con la passione e con la risurrezione, perché l’uomo non prevedeva il suo peccato”51. Per il Dottore Angelico, dunque, ogni forma di grazia nel mondo creato è legata al mistero dell’Incarnazione. Il fatto che, paradossalmente, essa non sarebbe avvenuta se l’uomo non avesse peccato, non significa che, in tale eventualità, l’uomo sarebbe rimasto senza grazia, ma, piuttosto, che l’unione con Dio che l’Incarnazione comunica all’uomo avrebbe potuto fecondare per altre vie la storia umana. Nella presente economia, ad ogni modo, la mediazione di Cristo comprende universalmente tutta la grazia, abbraccia ogni forma di unione con Dio 52. Muovendo da questo presupposto, la riflessione soteriologica dell’Aquinate è orientata a illustrare le ragioni di convenienza della via dell’incarnazione per la salvezza umana, e a mostrare come i singoli misteri della vita di Gesù siano ordinati dalla Sapienza divina al rimedio del peccato e alla comunicazione della grazia53. Considerazioni conclusive sul periodo medioevale. I teologi medievali offrono un valido contributo all’approfondimento della questione del senso dell’Incarnazione e del disegno globale di Dio sull’uomo. In S. Anselmo emerge il tema della congruenza tra l’essere di Dio, giusto e misericordioso, e il suo disegno per superare il peccato. L’Incarnazione è vista in quest’ottica. Anche S. Tommaso si orienta in questa direzione, ma ciò non gli impedisce di elaborare una 50 Torneremo su questo tema (e sulla relativa posizione di S. Tommaso) nell’ultima parte del testo. Riteniamo invece opportuno accennare qui alla posizione dell’Aquinate sull’universalità della mediazione di Gesù. 51 Summa Theologiae, II-II, q. 2, a. 7c. Il testo continua: “Dopo il peccato, poi, il mistero di Cristo fu creduto esplicitamente non solo quanto all’incarnazione, ma anche quanto alla passione e alla risurrezione, con le quali l’umanità viene liberata dal peccato e dalla morte”. Traduzione italiana in S. Tommaso d’Aquino. La Somma Teologica, vol. XIV, Salani, Firenze 1966, p. 96. Per le citazioni in italiano useremo in seguito questa traduzione. Cf. anche Summa Theologiae, II-II, q. I, a. 7. 52 L’ordinamento dell’Incarnazione, nel disegno di Dio, a rimedio del peccato può invece modificare l’interrogativo sul ruolo di Cristo in rapporto alla creazione dell’uomo: ci si può chiedere, cioè, se Cristo, non soltanto come Verbo, ma anche in quanto incarnaturus sia determinante per la costituzione dell’umano. Lo stretto legame tra ‘Incarnazione’ e ‘salvezza dal peccato’ orienta lo studio della natura umana più verso il Creatore –Dio, il Verbo di Dio, la Sapienza divina– che verso l’Incarnazione (Cristo ‘uomo’). S. Tommaso, di fatto, non ha alcun problema a collocare l’antropologia essenzialmente nella II pars della Summa Theologiae, prima, cioè, della parte dedicata a Cristo (III pars). Egli, inoltre, studia l’Incarnazione partendo dal presupposto di una natura umana perfettamente definita già prima dell’Incarnazione e priva di qualunque apparente influsso da parte di essa. Riguardo all’impostazione tomista I. Biffi afferma: “Non abbiamo un’antropologia cristiana sistematicamente collocata in dipendenza di Gesù Cristo, almeno per quegli aspetti secondo cui la comprensione dell’uomo proviene da lui” (I misteri di Cristo in Tommaso D’Aquino, tomo I, Jaca Book, Milano 1994, p. 380). Potremmo perciò dire che il cristocentrismo tommasiano è relativo alla salvezza, e non riguarda direttamente la progettazione della natura umana. A differenza di quello di Scoto, che è ‘assoluto’, quello di Tommaso è un cristocentrismo ‘relativo’ o ‘funzionale’. 53 Alcuni aspetti della soteriologia tomista saranno trattati più avanti, nelle sezioni VI, 2, b), 2 e VII, 3, b). concezione soteriologica cristocentrica. Il beato Scoto cerca invece di inserire l’Incarnazione in un contesto di pensiero in cui l’Umanità di Cristo trova uno spazio non soltanto in rapporto alla nostra salvezza (S. Tommaso), ma anche in relazione all’insieme della creazione che glorifica Dio. In ultima analisi possiamo condividere l’affermazione di S. Tommaso secondo cui la risposta alla domanda sul senso dell’Incarnazione deve essere ricercata soprattutto nella Sacra Scrittura. 5. Cristo, rivelazione di Dio e dell’uomo nel Concilio Vaticano II La prospettiva da cui il Concilio Vaticano II guarda a Cristo è alquanto diversa da quella dei teologi medievali: molta acqua, del resto, era passata sotto i ponti. Nei sette secoli che intercorrono tra S. Tommaso d’Aquino e il Vaticano II si verificarono eventi e processi di notevole importanza: si pensi, ad esempio, alla controversia luterana, e alla conseguente reazione dottrinale del Concilio di Trento e della ‘controriforma’ cattolica, o agli orientamenti filosofici della ‘modernità’, con i principi di autonomia, razionalismo, storicismo ed esistenzialismo che ne caratterizzarono l’evoluzione54. A seguito di queste e di altre vicende, la Chiesa si trovò circondata da un clima ostile e, per difendere le sue ragioni, elaborò un’apologetica e una dogmatica di stampo razionalistico che riprendeva autorevolmente, ma alquanto aridamente, le posizioni dei grandi maestri del Medioevo. La presa di coscienza dell’inefficacia della logica del ‘muro contro muro’, e la consapevolezza dei mutamenti di fatto verificatisi nella mentalità comune, portarono infine a un ampio rinnovamento intellettuale e originarono un atteggiamento nuovo, improntato, molto più che il passato, al dialogo. I movimenti di rinnovamento biblico, patristico, liturgico e spirituale, sviluppatisi nella prima metà del secolo XX, contribuirono a diffondere una mentalità più aperta, pluralista di fronte alle varie realtà umane. Ad essi si richiamò il Concilio per presentare al mondo il messaggio di salvezza con una credibilità nuova. Il Vaticano II esorta innanzitutto a considerare Gesù Cristo alla luce del mistero trinitario e del piano universale di Dio per la salvezza del genere umano55. Mediante il Verbo, sua Immagine, l’eterno Padre ha creato l’universo e lo conserva, offrendo così agli uomini, nelle cose create, una perenne testimonianza di se stesso. Ogni cosa reca in sé il sigillo di Dio, il riflesso della sua Sapienza. Nel Verbo, inoltre, il Padre, nella sua bontà, ha deciso di comunicarsi agli uomini anche dopo il peccato, rendendoli partecipi della sua vita divina e della sua gloria (LG 2). Nel suo disegno, dunque, il piano della creazione e quello della salvezza sono uniti nella persona del Figlio di Dio. Giunta la pienezza dei tempi, per realizzare il suo disegno salvifico il Padre ha mandato il Figlio nel mondo. L’incarnazione del Verbo è l’avvenimento centrale della storia dell’umanità: con essa Dio entra in modo definitivo nella storia del mondo per assumerla e ricapitolarla in sé; si fa partecipe della storia umana, per dirigerla dal di dentro e condurla al suo fine. Il Concilio sottolinea il realismo dell’ingresso di Dio nel mondo, necessario perché tutto ciò si possa compiere. Non soltanto Gesù è vero uomo, ma la sua esistenza è fragile come la nostra, è incarnata in un determinato ambiente socioculturale, è legata alle realtà concrete della famiglia, del lavoro, ecc., che caratterizzano l’esistenza e l’attività degli uomini (GS 22). Partendo dall’evento dell’Incarnazione, il Concilio si muove soprattutto nella prospettiva di una visione di Cristo come rivelatore e come redentore: – Gesù Cristo è il rivelatore del Padre. Il Verbo ha dimorato tra gli uomini per far conoscere i disegni di Dio, per rivelare la sua volontà salvifica universale e per realizzarla. Gesù ha dunque svelato il mistero insondabile del Padre e delle sue vie di salvezza. Dio ci vuole figli, vuole che viviamo in comunione con lui attraverso la fede e la carità. Cristo, con la sua 54 Rimandiamo a R. Fisichella (a cura di), Storia della Teologia, III, Dehoniane, Bologna 1996, pp. 309-473; 559-636, e a J. L. Illanes - J. I. Saranyana, Historia de la Teología, BAC, Madrid 1995. 55 Qui seguiamo soprattutto JMS, voce Gesù Cristo, in Dizionario del Concilio Ecumenico Vaticano II, dir. da S. Garofalo, Unedi, Roma 1969, col. 1184-1198. presenza, le sue opere e le sue parole manifesta il Padre e se stesso (DV 17). Si potrebbe dire che Gesù, Verbo di Dio, è anche il sacramento di Dio, perché, una volta incarnato, le sue azioni e le sue parole realizzano visibilmente l’amore divino56. Allo stesso tempo, però, la rivelazione si attua mediante la libera volontà umana di Cristo. Egli, dunque, è anche l’uomo perfetto, colui che adempie la volontà del Padre, alla quale tutti siamo chiamati a corrispondere. Perfetta rivelazione del Padre, il Figlio è anche il rivelatore dell’uomo57. Culmine della rivelazione di Dio e dell’uomo, Gesù è portatore dell’intero disegno salvifico. A differenza delle ‘parole’ precedenti, che erano molteplici e sempre parziali, egli è la Parola definitiva, immediata e diretta, piena e totale, rivolta da Dio all’umanità. E ciò vale per ogni tempo perché la sua Parola è eterna. – Gesù è inoltre il redentore. Egli non soltanto rivela la salvezza, ma la attua con le sue opere. La sua umanità è quindi lo strumento della nostra salvezza (SC 5), e perciò Gesù non è soltanto il Salvatore, cioè, l’Autore della salvezza, ma anche il ‘principio comunicativo’ di essa. Egli la ha ottenuta con tutta la sua vita, e soprattutto con il mistero pasquale. Egli si è offerto in sacrificio per noi, ci ha redento e riscattato col suo sangue, e con la risurrezione, l’ascensione al Padre e l’effusione dello Spirito, comunica la salvezza alla Chiesa e lungo la storia umana. Liberazione, riconciliazione con Dio e tra gli uomini, trasformazione in nuova creatura, convocazione di tutti in un solo corpo ecclesiale, sono soltanto alcune delle espressioni usate nei testi conciliari per indicare le diverse dimensioni dell’opera salvifica di Cristo. Come si è detto, dunque, per il Concilio tutta l’attività umana di Gesù è rivelatrice e redentrice, ogni suo gesto ha un valore coestensivamente profetico, sacerdotale e regale. Il mistero pasquale occupa però un posto primario nella vita di Gesù e nella storia della salvezza: senza di esso saremmo rimasti schiavi del peccato. Il Concilio sottolinea inoltre l’unicità e l’universalità della mediazione del Verbo incarnato. L’unicità, come si è visto, dipende da ‘chi’ egli è e da ciò che egli compie: Gesù è il Figlio Unigenito e realizza la comunicazione della vita trinitaria al mondo. Per quanto riguarda l’universalità, i Padri ricordano che il Salvatore non è tale soltanto per la Chiesa, ma per tutta l’umanità. Gesù è principio di salvezza per il mondo intero; tutte le realtà devono essere ricreate in lui: ciò svela il senso della storia e del “tempo della Chiesa” (LG 17; AG 7). Si comprende così anche la missione della Chiesa, che ha la sua ragion d’essere nella volontà salvifica universale, in quell’entrare di tutti in contatto con Cristo mediante la fede e il battesimo. 6. Elementi caratteristici della teologia contemporanea Qui ci limiteremo ad accennare ad alcune correnti di pensiero e al loro diverso approccio al mistero di Cristo salvatore, in linea con quanto abbiamo visto finora. Gli aspetti illustrati di seguito sono più o meno comuni a tutti i teologi che hanno cercato di mostrare la centralità salvifica di Cristo, ma si deve tener presente che esiste una notevole varietà di impostazioni tra i diversi autori, e che ogni impostazione ha le sue proprie caratteristiche. La teologia contemporanea, a nostro avviso, recupera due elementi già presenti nella tradizione patristica, ma assume un orientamento proprio riguardo al motivo dell’Incarnazione. Sono quindi tre essenzialmente le considerazioni da fare: 56 Nei testi conciliari il termine sacramento non appare mai direttamente applicato a Cristo. Questo concetto, tuttavia, è presente in modo rilevante: in LG 1,8 e SC 2, ad esempio, la natura divino-umana di Cristo è paragonata a quella della Chiesa per “una non debole analogia”, e a quest’ultima è poi applicata la categoria di sacramento. 57 GS, 22. – Sulla scia dell’ultimo Concilio, della Scrittura e di Ireneo di Lione, in età contemporanea si osservano una forte ripresa dell’unità dell’intero piano di Dio e un conseguente sforzo per comporre la figura di Cristo redentore con quella di Cristo capo del cosmo, degli uomini e della Chiesa. La figura storica di Gesù e il suo destino finale sono al centro del disegno di Dio, già prefigurato nella creazione (i semina Verbi di S. Giustino e dei Padri alessandrini), attuato per mezzo dell’incarnazione, della vita e della pasqua di Cristo, e culminante nel disegno finale escatologico di Dio su tutti gli uomini. Unità dunque di creazione, redenzione ed escatologia. Cristo mediatore della creazione, ci ha riscattati e configurati a lui e ci configurerà definitivamente alla fine dei tempi. Questa concezione comporta una maggiore attenzione verso le realtà create, che appaiono come il fondamento della ri-creazione e della trasfigurazione definitiva. Emblematico, a questo proposito, è il seguente testo della Redemptor Hominis (n. 8): “In Gesù Cristo, il mondo visibile, creato da Dio per l’uomo –quel mondo che essendovi entrato il peccato è stato sottomesso alla caducità– riacquista nuovamente il vincolo originario con la stessa sorgente divina della Sapienza e dell’Amore”, e più avanti, al n. 10, si legge: “Nel mistero della Redenzione, l’uomo diviene nuovamente ‘espresso’ e in qualche modo è nuovamente creato. Egli è nuovamente creato!”. Come si può notare, la redenzione è intesa in questi passi in termini di ri-creazione in vista –per la valenza cosmica ed escatologica che il termine ‘nuova creazione’ assume nella Scrittura– del mondo nuovo della fine dei tempi. – Non soltanto del disegno globale di Dio, ma anche della stessa storia terrena di Cristo si elabora una visione più unitaria di quanto non lo fosse in alcuni esponenti della teologia medievale. Nella costruzione anselmiana, ad esempio, si attribuiva notevole importanza alla morte di croce, nella quale si individuava il momento culminante da cui muovere per spiegare la redenzione; gli altri misteri, però, rischiavano in tal modo di restare in ombra58. Lo stesso può dirsi di tutte le formulazioni teologiche che fanno coincidere la salvezza con il superamento oggettivo del peccato, superamento che si compie nella passione e morte di Gesù. La teologia contemporanea apporta a questo tipo di pensiero due correzioni fondamentali: da un lato insiste sul valore salvifico di tutta la vita di Cristo: tutti gli atti e le sofferenze di Gesù, la sua predicazione, i suoi miracoli, la sua fanciullezza e il suo lavoro... tutto è in ordine alla nostra salvezza, e tutto trae valore sia dall’Incarnazione – questa vita umana è la vita del Verbo amato dal Padre– sia dalla missione –tutti i misteri sono integrati in un unico progetto di salvezza–; dall’altro sottolinea il particolare valore che il mistero pasquale ha nel suo complesso (passione, morte e discesa agli inferi, risurrezione e ascensione, invio dello Spirito santo). Il mistero pasquale è visto in un certo senso come la sintesi della vita di Cristo e della sua missione59; si evidenzia inoltre il rapporto di complementarietà tra le diverse parti o momenti di esso60. Questi due concetti trovano riscontro, ancora una volta, nella Redemptor Hominis (n. 7): “Egli, Figlio di Dio vivente, parla agli uomini anche come Uomo: è la sua vita stessa che parla, la sua umanità, la sua fedeltà alla verità, il suo amore che abbraccia tutti. Parla inoltre la sua morte in croce, cioè l’imperscrutabile 58 Rischio che non corre invece la soteriologia tomista perché l’Angelico ha elaborato una teologia unitaria e dettagliata dei misteri della vita di Gesù a partire dalle prospettive cui abbiamo precedentemente accennato. 59 Così ad esempio M. Schmaus scrive: “È tuttavia nella morte che il valore della vita di Cristo si concentra nel modo più chiaro. Essa segna il vertice della vita terrena di Cristo”, Dogmatica Cattolica, II: Dio Redentore. La Madre del Redentore, Marietti, Casale 1961, p. 208. 60 “La risurrezione di Cristo –scrive M. Serenthà– è risurrezione dai morti: rimanda quindi per essere compresa alla morte di croce. Morte e risurrezione costituiscono l’unico mistero pasquale nel quale si opera la nostra salvezza”. Gesù Cristo, ieri, oggi sempre, Elledici, Leumann 1986, p. 349. profondità della sua sofferenza e dell’abbandono. La Chiesa non cessa mai di rivivere la morte in croce e la risurrezione, che costituiscono il contenuto della sua vita quotidiana”61. – La teologia odierna assume un orientamento proprio riguardo al senso del mistero dell’Incarnazione62, visto spesso come manifestazione e rivelazione del mistero di Dio e del suo amore. Se i punti focali della formulazione anselmiana erano l’onore di Dio e la riparazione (così che la glorificazione di Dio attraverso l’Incarnazione era, in un certo senso, condizionata dal peccato), e l’elemento centrale della speculazione scotista era il desiderio di Dio di essere amato da qualcuno in modo sommo (il che comporta il rischio di ridurre la passione a un qualcosa di accidentale nel disegno di Dio), oggi si preferisce optare per una soluzione più personalista e trinitaria: per amore degli uomini, Dio ha deciso di rivelare se stesso, di far conoscere il suo mistero, che è mistero personale di comunione, affinché l’uomo possa partecipare ad esso: è una soluzione personalista perché pone in primo piano l’invito di Dio alla salvezza e la risposta umana; il rapporto dell’uomo con Dio non si esprime tanto in termini di ordine (S. Anselmo), ma è tematizzato come comunione tra persone che entrano in dialogo (S. Ireneo). Il peccato si considera qui dalla prospettiva del dialogo di salvezza. è una soluzione trinitaria perché prende le mosse dal mistero di Dio nella sua unità e nella sua distinzione personale, mistero che è rivelato e mostrato all’uomo per renderlo figlio adottivo. Il dialogo d’amore tra il Padre e il Figlio nell’unità dello Spirito santo si effonde sul creato mediante l’Incarnazione per la salvezza delle creature63. 61 In un altro passo dello stesso numero della Redemptor Hominis si legge: “La Chiesa non cessa di ascoltare la sua parola (di Cristo), la rilegge di continuo, ricostruisce con la massima devozione ogni particolare della sua vita” (n. 7). 62 Cf., ad esempio, l’introduzione di P. Sequeri alla cristologia del Mysterium Paschale di H. U. von Balthasar, “La Scuola Cattolica” 105 (1977), p. 114. 63 Parlando del discorso d’addio di Cristo ai discepoli durante ultima cena, S. Giovanni Paolo II afferma: “Nel vangelo di Giovanni si svela quasi la ‘logica’ più profonda del mistero salvifico contenuto nell’eterno disegno di Dio, come espansione dell’ineffabile comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. È la ‘logica’ divina, che dal mistero della Trinità porta al mistero della redenzione del mondo in Gesù Cristo”, Enc. Dominum et Vivificantem, n. 11. Questo testo sembra considerare l’economia della salvezza come una ‘espansione’ della Theologia, e individua in tale effusione trinitaria la logica più profonda del disegno di Dio.