dal valore di finalità alla fondazione cristologica della morale

DAL VALORE DI FINALITÀ
ALLA FONDAZIONE CRISTOLOGICA
DELLA MORALE
L’itinerario di Domenico Capone
Faustino Parisi*
Domenico Capone1, in un brano tratto dalla dissertazione per il
dottorato in filosofia Intorno alla verità morale, pubblicato nel lontano 19512, descrive la virtù della prudenza come la chiave di volta della vita morale, per quel suo movimento continuo e sostanziale; virtù formalmente intellettuale ed intimamente e sostanzialmente morale, per ragione della materia che attinge e per il principio che la governa, con
lo scopo precipuo di conoscere l’ordinabilità propria degli atti umani
e quindi guidare l’azione morale concreta (recta ratio agibilium). La
virtù della prudenza, è dunque, quella realtà mediana tra attività e fi-
* The author is a professor of moral philosophy at the ISSR in Foggia.
* El autor es profesor de filosofía moral en el ISSR en Foggia.
1
Domenico Capone nasce a Siracusa il 3 maggio del 1907. Compie i suoi
studi di Filosofia presso la Gregoriana di Roma e presso L’Institut Catholique e
la Sorbona di Parigi. Dal 1957 al 1985 è docente di teologia morale presso l’Accademia Alfonsiana di Roma. Muore il 23 giugno del 1995. Per una completa
bibliografia su Capone, M. NALEPA – T. KENNEDY (a cura di), La coscienza morale oggi. Omaggio al prof. Domenico Capone, Edacalf, Roma 1987, 15-22; su
D. Capone: W. COLMAN MCDONOUGH, The nature of moral truth according to
Domenico Capone, Pars dissertationis ad doctoratum, Accademia Alfonsiana, Roma 1990; M. DOLDI, Fondamenti cristologici della morale in alcuni autori italiani.
Bilancio e prospettive. LEV, Roma 2000; A. NIEMIRA, Religiosità e Moralità. Vita
morale come realizzazione della fondazione cristica dell’uomo secondo B. Haering e D.
Capone, Ed. PUG, Roma 2003.
2 D. CAPONE, Intorno alla verità morale. Excerpta ex Dissertatione ad Lauream
in Facultate Philosophica Pontificiae Univeristatis Gregorianae, Napoli 1951.
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nalità, tra molteplice e uno, luogo nel quale e per il quale la verità si fa
vita3. Espressione quanto mai pregnante ed efficace, che salda mirabilmente verità di conoscenza e verità di prassi.
Il problema per il cristiano si pone allorquando, da una morale puramente umana, orientata finalisticamente dall’eudemonismo, ossia
dalla ricerca della felicità, imperniata sull’utilizzo della virtù dianoetica della prudenza e operante in ambito di ragion pratica, come appunto quella descritta da Aristotele nell’Etica a Nicomaco, si intende
passare ad una morale specificamente cristiana che si coniughi cioè
con la fede e sia cristologicamente fondata, come richiesto dal Concilio Vaticano II (Optatam Totius n.16)4. Per Capone tale passaggio è
possibile se il cristiano riconosce che il valore di finalità è dato alla
virtù della prudenza dalla carità del Cristo risorto, signore del mondo, mi-
3
“Qui voglio soltanto discutere qualche aspetto della prudenza, che ha per
oggetto la determinazione dei mezzi da eleggere. Questa virtù formalmente intellettuale, è intimamente, o con maggiore esattezza, sostanzialmente morale,
per ragione della materia che attinge e per il conoscere la ordinabilità propria degli atti umani e secondo tale ordinabilità, come è conosciuta, intimare prudentemente o come dice il Vasquez, “insinuare” in tali atti l’attuosa e attuale tendenza
al fine. Perciò essa è definita: recta ratio agibilium. Ed appare con chiarezza come
tra attività e finalità, tra molteplice ed uno essa sia la chiave di volta della vita morale, cioè della verità che si fa vita. Per questo non si può non affermare in forma categorica il primato della prudenza in Morale, purché tale virtù non si svuoti del suo valore morale, cioè del valore di finalità e quindi dell’amore del fine che
deve pervaderla” (D. CAPONE, Intorno alla verità morale, 20).
4 “Etica o etica cristiana?” è questo, infatti, il titolo di un saggio-dispensa di
Capone sul problema di un’etica specificamente cristiana. Egli afferma che “non
si tratta di alternativa tra due proposte di etica, ma di due espressioni, per sapere quale delle due risponde alla realtà esistenziale: l’etica che prescindendo dalla dottrina e presenza del Cristo, deduce le norme del comportamento dalla fenomenologia morale esistenziale, dalle concezioni filosofiche, dalla definizione
scolastica dell’uomo, come animal-rationale, oppure l’etica cristiana che nella
proposta e presenza del Cristo integra l’etica dei filosofi, o meglio della gente
comune e ne risolve le mille aporie, e così dà certezza all’uomo, ad ogni uomo?
Noi vedremo che l’etica, se vuole esser proposta di umanesimo integrale, senza
residui, non può non essere e dirsi cristiana” (D. CAPONE, Etica o etica cristiana?,
c.c., 1973, 7).
L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE
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stero dell’amore paterno di Dio, finis finium, principio e fine di tutta la
vita cristiana, ed éskaton che anima l’opzione fondamentale buona. Un
procedimento presente, anche se non totalmente compiuto, già in
grandi moralisti come S. Agostino, S. Tommaso e S. Alfonso5, e ancora oggi, uno dei punti nevralgici, non risolti di molta teologia morale contemporanea, afferma Capone, che così prosegue: “più volte
abbiamo sottolineato l’originalità della vita morale cristiana come
tensione escatologica del nostro essere, personificato in Cristo; tensione che deve essere vitale sintonia con la tensione dell’essere filiale
del Cristo; il quale si pone come mistero dell’amore paterno di Dio
e quindi come storia di salvezza dell’umanità, da trasformare in ecclesiale regno di Dio”6.
Di conseguenza la bontà e la verità dell’atto morale, non può, in
prima battuta, essere messa in relazione formale con l’ordine ideale,
con un ordine morale oggettivo, pretesa di stoici e molti scolastici, bensì in sintonia vitale con la realtà misterico-storico-salvifica del Cristo
risorto e Signore del mondo. “Questa sintonia è tensione escatologica, scandita da progressiva e sempre più profonda risoluzione dell’esistere e dell’agire spazio-temporale nel nostro essere in Cristo”7.
Soltanto così si potrà superare quel finalismo intenzionale ed eudemonistico, in favore di un finalismo, “sacramentale nel suo dinamismo antropologico ed escatologico nel suo realizzarsi ecclesiale e cosmico”8,
che più compiutamente esprima la novità assoluta dell’evento Cristo
e dia alla morale cristiana una specificità, non sempre altrimenti riconoscibile.
5
“Nell’ordine soprannaturale e quindi nella scienza teologica della vita morale questo valore di finalità è dato alla prudenza dalla carità per cui la prudenza del cristiano è nettamente distinta e superiore alla prudenza umana. La grande intuizione ed azione scientifica di S. Alfonso, in continuità perfetta con S.
Tommaso, è proprio nell’aver sottolineato il valore di finalità e quindi di carità
che è e deve essere nella prudenza e nella vita morale” (D. CAPONE, Intorno alla verità morale, 20).
6 D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, principio di valore della vita morale, c.c., (1969) 93.
7 Ivi.
8 Ivi.
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FAUSTINO PARISI
Seguire le tracce di questo passaggio, proposto da Capone, è come ripercorrere l’intero arco del suo trentennale insegnamento all’Accademia Alfonsiana, purtroppo rintracciabile, in massima parte,
nei numerosi corsi ciclostilati, ad uso interno degli studenti, in tutto
32 che coprono un lasso di tempo dal 1957 al 19859, nei pochi testi
pubblicati10, in alcune raccolte miscellanee11 e nei vari articoli appar19
Dei corsi ciclostilati segnalo quelli consultati per la presente ricerca: Introductio in theologiam moralem S. Alfonsi (1958), 55 p.; De supremo principio valoris
conscientiae christianae secundum doctrinam S. Alfonsi (1959), 64 p.; De prudentia atque conscientia (1960), 108 p.; De prudentia et de conscientia (1965), 77 p.; De fine
ultimo. De caritate, seu de principio valoris moralis actus humani (1961), 105 p.; De
caritate Dei finis ultimi vitae moralis in Christo (1963), 140 p.; De caritate Dei in
Mysterio Christi ut principio valoris vitae christifidelis (1967), 69 p.; Introductio generalis in theologiam spiritualem de perfectione caritatis (1961), 113 p.; De theologia spirituali seu de perfectione caritatis (1961 e 1963), 50 + 98 p.; Disegno di una teologia
morale fondamentale della vita cristiana intesa come vita di unione sacramentale con
Cristo (1968 e 1970), 60 p.; Prudenza e coscienza in situazione (1968), 237 p.; Cristo, mistero della carità di Dio, principio di valore della vita morale (1969 e 1972), 100
p.; La vita in Cristo: vita di fede-carità-speranza in Dio (1969), 171 p.; Note di introduzione alla teologia morale (1971), 305 p.; La persona dell’uomo nell’essere, nell’esistere, nell’agire morale in Cristo (1972), 345 p.; La scienza morale, la prudenza e la
coscienza morale in situazione, nell’economia del Mistero del Cristo (1972), 72 p.; Etica o etica cristiana? (1973), 241 p.; Introduzione alla teologia morale (1976), 334 p.;
Dalla scienza alla coscienza morale. Mediazione ermeneutica della prudenza (1977),
207 p.; Introduzione alla teologia morale: scienza, coscienza e Mistero del Cristo (1978),
520 p.; Introduzione alla teologia morale (in coll. Majorano, 1985), 101 p.
10 D. CAPONE, Teologia morale fondamentale, ed. Ut Unum Sint, Roma 1971;
Introduzione alla Teologia Morale, EDB, Bologna 1972; L’uomo è persona in Cristo.
Introduzione Antropologica alla Teologia Morale, EDB, Bologna 1973; S. BOTERO
– S. MAJORANO (a cura di), D. Capone. La proposta morale di sant’Alfonso sviluppo
e attualità, Edacalf, Roma 1997.
11 D. CAPONE, Pastoralità, prudenza e coscienza, in AA.VV., Magistero e morale,
Ed. Dehoniane, Bologna 1970, 347-389; Teologia morale e storicità della persona:
la storicità è incontro di ontologia e di economia del mistero pasquale del Cristo, in
AA.VV., Fondamenti biblici della teologia morale (Atti della XXII settimana Biblica,
Paideia, Brescia 1873, 45-60; Sistemi morali, in AA.VV., Dizionario Enciclopedico
di teologia morale, Ed. Paoline, Roma 1973, 941-948; Prudenza e verità di coscienza in situazione, secondo S. Tommaso, in AA.VV., Tommaso d’Acquino nel suo VII. L’agire morale, Dehoniane, Napoli 1977, 409-420; Correlazione tra Diritti e Do-
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si su Studia Moralia e altre riviste teologiche12. Ciò che impressiona
in tanta produzione scientifica e divulgativa è la coerenza e la sistematicità di pensiero, che anticipa il dibattito filosofico e teologico, di
questi anni, teso a rivisitare le tematiche aristoteliche e tomiste, anche se non proprio o non sempre in una mera ripresa di scuola13.
Un’altra delle caratteristiche dei corsi del prof. Capone è, poi, la loro organizzazione, solitamente suddivisa in tre parti. La prima è occupata dal riferimento costante alla filosofia greca, in particolare Aristotele, Stoicismo e Neoplatonismo. Tanta attenzione alla filosofia
(per alcuni suoi allievi eccessiva e assai poco rilevante dal punto di vi-
veri, in AA.VV., Diritti umani. Dottrina e prassi, AVE, Roma 1982, 783-801; Il
rinnovamento dell’insegnamento della teologia morale secondo il Vaticano II. Iter del
Decreto O. T. n.16, in AA.VV., Parola Spirito (Studi in onore di Settimio Cipriani), vol II, Paideia, Brescia 1982, 1221-1246; Cristocentrismo in teologia morale, in
L. ALVAREZ VERDES – S. MAJORANO (a cura di), Morale e Redenzione, Edacalf,
Roma 1983, 65-94; Teologia morale e carità, in AA.VV., Atti del I convegno teologico pastorale su Carità: ermeneutica e metodologia, Dehoniane, Bologna 1987.
12 D. CAPONE, “Antropologia, coscienza e personalità” in StMor 4 (1966) 73113; “Cristo speranza dell’uomo”, in StMor 7(1969) 57-117; “Il mistero del Cristo e la fondazione della teologia morale”, in Asprenas 16 (1969) 331-356; “Ritorno a S. Tommaso per una visione personalistica in teologia morale”, in RTM
1 (1969) 85-103; “La verità nella coscienza morale, in StMor 8 (1970) 7-36; “Intorno alla norma morale”, in StMor, 17 (1979) 123-150; “La Teologia morale in
Italia, oggi”, in StMor 18 (1980) 5-32; “Per la teologia della coscienza cristiana”,
in StMor 20 (1982) 67-92.
13 Cfr. P. CARLOTTI (a cura di), Quale filosofia in teologia morale?. Las, Roma
2003; G. ABBÀ, Felicità vita buona e virtù. Saggio di filosofia morale, Las, Roma
1995; ID., Quale impostazione per la filosofia morale. Ricerche di filosofia morale –
1, Las, Roma 1996; ID., Costituzione Epistemologica della filosofia morale. Ricerche
di filosofia morale – 2, Las, Roma 2009; R. CARSILLO, Il problema morale in MacIntyre, Levante, Bari 2000; J.-L. BRUGUÈS, Corso di Teologia morale fondamentale. La felicità orizzonte della morale, vol. 5, ESD, Roma 2007; D. J. BILLY-T.
KENNDY (a cura di), Some Philosophical Issues in Moral Matters. The collected
Ethical Writings of Joseph Owens, Edacalf, Roma 1996; W. KLUXEN, L’etica filosofica di Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, Milano 2005; G. SAMEK LODOVICI, La felicità del bene. Una rilettura di Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, Milano 2007; M. COZZOLI, Per una teologia morale delle virtù e della vita buona, LUP,
Roma 2002; ID. Etica teologale. Fede carità speranza, ed. San Paolo, Roma 20094.
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FAUSTINO PARISI
sta teologico14), è, per Capone, motivata dal fatto che se anche l’enucleazione teologica della dottrina morale evangelica, di per sé, non è
legata ad alcuna filosofia, in quanto la speculazione e quindi la presentazione dell’unica e universale verità sono molteplici e variano secondo le culture, “i primi Padri e scrittori ecclesiastici che si diedero
alla presentazione colta della dottrina morale cristiana, si avvalsero:
alcuni delle categorie stoiche, altri delle categorie neoplatoniche; finalmente nel Medio Evo i teologi fecero largo ricorso ad Aristotele”15. Il futuro, con l’evidente e dilagante pluralismo culturale e lo
sviluppo delle scienze umane, potrà offrire all’unica verità diverse vie
di approfondimento e presentazione, e sarà un compito assai arduo
per le future generazioni di teologi, chiosa Capone16. La parte centrale dei corsi è dedicata all’analisi del pensiero dei grandi teologi
moralisti, da S. Agostino a S. Tommaso e S. Alfonso, con vari excursus sulla storia della teologia morale. L’ultima parte è riservata alle
conclusioni, che offrono una panoramica del dibattito attuale, per poi
sfociare nella proposta di una fondazione cristologica della morale cristiana, oramai “parte del “novum” che tutta l’Accademia persegue, in
attualizzazione del “novum” proprio del “Christus in nobis” (Cf. Col
1, 27) e del suo Spirito che, sempre prendendo dal Cristo (Gv 16, 1415) rinnova la faccia della terra”17. In sostanza un progetto di riforma della teologia morale e soprattutto del suo insegnamento nei se14
“In publica disputatione quae habita fuit die 7 mai 1966 in Aula magna
Academiae alphonsianae, quamque promovit Associatio studentium Academiae
et in actis “Dialogo” a. I, n. 2 relata est diximus initium non solum totius studii
seminaristici (cf. Dialogo n. 2 pp. 10-11, 23) sed etiam nostri cursus de caritate
faciendum esse in posterum a Mysterio Christi. Diximus ibi: Anche io nei miei
corsi finora ho cominciato preteologicamente dal fine, venendo poi alle nozioni di carità, per finire quindi col Mistero del Cristo. Ma alcuni di voi mi han detto che sarebbe stato meglio cominciare col Cristo, perché solo lì ci si orienta in
pieno. Credo che questi suggerimenti debbano prevalere, almeno quando si
parla a seminaristi o sacerdoti. Altro è quando si parla a non credenti (Ibid., p.
28)” (D. CAPONE, De caritate Dei in Mysterio Christi, 1).
15 D. CAPONE, Cristo mistero della carità di Dio, 99.
16 Cfr. D. CAPONE, Cristo mistero della carità di Dio, 99.
17 D. CAPONE, “Per la teologia della coscienza cristiana”, StMor 20 (1982) 67.
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minari e nelle facoltà teologiche, che Capone si prefigge di realizzare fin dall’inizio del suo percorso di ricerca teologica e di docenza
universitaria, suddiviso idealmente in tanti capitoli di un manuale
mai scritto, ma ben chiaro alla sua mente: l’uomo come persona in persona Christi; il tema della prudenza in generale come recta ratio e della prudenza cristiana come decisione del qui ed ora nella tensione escatologica del Cristo risorto; la posizione centrale della coscienza, intimo e
inviolabile luogo di decisione morale della persona in dialogo con
Dio; la rivalutazione della teologia morale, casistica, sapienziale e cristica, così come intesa da S. Alfonso18.
Nella presente ricerca si è tenuto conto della suddivisione della
teologia morale, proposta dal prof. Capone, nei suoi corsi all’Accademia, che, come lui stesso afferma, affrontano pre-teologicamente il
tema del fine dell’azione morale, per addentrarsi in una morale più
specificamente cristiana, attraverso le nozioni di carità, e concludersi
nella tensione escatologica del Mistero del Cristo risorto19. I tre paragrafi
18
“Che cosa pensare della teologia morale di S. Alfonso nel campo ampio e
completo della sua dottrina e prassi spirituale? Fu questa la domanda per la quale già negli anni 1943-1953 iniziai un tentativo di risposta, procedendo analiticamente per vari settori. Che cosa pensare della teologia del santo nel campo
dei moralisti casisti; e quindi che cosa pensare della teologia morale in sé, della sua fondazione sul Mistero del Cristo; della virtù della prudenza; della dottrina della coscienza? Sono queste le domande alle quali ho cercato di rispondere dal 1957 ad oggi, rinnovando ogni anno schemi di lezioni e di dispense.
Ricordo qui alcuni punti che mi sembrano significativi, cioè: 1) l’agire morale
come espressione vitale e dinamica della densità di essere di persona nell’uomo;
2) la prudenza come “recta ratio” sapienziale ed esistenziale “agibilium” in situazione e sua verità in giudizio di coscienza retta; 3) la “prudenza cristiana” come “dokimazein” della tensione “escatologica” del Cristo risorto in noi quale
Mistero del Padre, presente in noi col suo Spirito di risurrezione ed emergente come chiamata, o volontà di Dio cioè come “kairos” in ogni situazione concreta, nostra e nella storia; 4) la coscienza morale come interiorità profonda dove la persona si incontra con Dio che lo chiama e come giudizio di valore in situazione; 5) che cosa era la teologia morale sia casistica che sapienziale-cristica
secondo S. Alfonso” (D. CAPONE, “Per la teologia della coscienza cristiana”, in
StMor 20 (1982) 71-72).
19 Cfr. D. CAPONE, De caritate Dei in Mysterio Christi, 1.
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in cui è stata suddivisa ripropongono, anche nella terminologia, lo
stesso schema: 1. Sul finalismo in filosofia e teologia morale; 2. Sul valore di finalità dato alla prudenza dalla Carità del Padre per mezzo del Cristo; 3. Sul Cristo risorto, kairos del tempo: dal finalismo intenzionale al finalismo escatologico.
1. Sul finalismo intenzionale in filosofia e teologia morale
1.1. Saggezza, prudenza e felicità in Aristotele
E. Berti, ordinario di Storia della Filosofia nell’università di Padova, e noto studioso di Aristotele20, nel riproporre l’attualità del
tema della prudenza aristotelica, preferisce utilizzare al suo posto il
termine di saggezza21, perché meglio renderebbe quella che è l’attività tipica di questa specifica e fondamentale virtù dianoetica. Di
questa virtù (aretè) 22 va evidenziato l’aspetto assolutamente pratico,
20
Tra le sue pubblicazioni: La filosofia del primo Aristotele, Cedam, Padova
1962; Le vie della ragione, Il Mulino, Bologna 1987; Le ragioni di Aristotele, Laterza, Bari 1989; Aristotele nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992; Aristotele,
Laterza, Bari 1997; Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima. Con saggi integrativi, Bompiani, Milano 2004; Nuovi studi aristotelici I: epistemologia, logica, dialettica, Morcelliana, Brescia 2004; In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della Filosofia Antica, Laterza, Bari 2007; Guida ad Aristotele, Laterza, Bari
2007; Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari 2008.
21 “Tutti i dizionari lo spiegano come una forma di cautela, cioè come una
disposizione implicante attenzione alle conseguenze delle proprie azioni, e
quindi in generale una certa esitazione, o lentezza” (E. BERTI, Nuovi studi aristotelici. Filosofia pratica, vol. 3, Morcelliana, Brescia 2008, 61).
22 “Arete, virtù, indica l’eccellenza di un ente o di una attività svolta da un ente. Il senso del termine greco è lontano dal significato di ‘virtù’ nella nostra lingua, ‘disposizione d’animo volta al bene’. Come Omero parlava dell’arete del cavallo che consiste nel ben correre, così Aristotele parla della arete dell’occhio che
consiste nel vedere bene. In generale Aristotele afferma, “ogni virtù ha l’effetto
di portare alla buona realizzazione ciò che è virtù e di far sì che egli eserciti bene la sua opera (ergon)” (C. NATALI, Etica, in E. BERTI (a cura di), Guida ad Aristotele, 247); cfr. M. VEGETTI, L’etica degli antichi, Laterza, Bari 1989, 158-217.
L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE
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che la tiene a debita distanza sia dalla metafisica che dalla stessa filosofia pratica o filosofia della praxis23. Per Aristotele le virtù dianoetiche, virtù per eccellenza della ragione o della parte razionale
dell’anima, sono la sophia, o sapienza, e la phronesis, o saggezza-prudenza. La prima, la migliore delle scienze, conosce i principi primi
di tutte le cose, “le cose che non possono essere differentemente”,
la seconda, è un sapere pratico che ha come oggetto e come fine la
prassi umana, cioè l’azione morale, ossia “quelle realtà che possono
essere anche differentemente”. La sapienza delibera, decide e quindi
sceglie i mezzi per raggiungere un fine buono, connesso al fine ultimo che è la felicità. Da questo punto di vista la phronesis, ossia la
prudenza, non potrà mai essere per Aristotele né una scienza come
la matematica, appunto perché non fa dimostrazioni, né tanto meno un’arte, perché non produce altro da sé. L’agire moralmente
buono è un’azione fine a se stessa, che ha, cioè, come fine la bontà
dell’azione.
Non a caso la realizzazione migliore di questa virtù Aristotele la
vede nell’uomo politico (e al suo tempo proprio nell’ateniese Pericle), ossia in chi è chiamato a realizzare il bene della comunità di cui
gli è stato affidato il governo. Il politico non potrà mai essere un filosofo, come voleva Platone, o un poeta o un intellettuale, ma un
uomo d’azione, capace, cioè, di vedere che è bene per lui e per gli
uomini in generale, di amministrare uno stato come si amministra
una famiglia. Quindi per Aristotele, contrariamente a Kant, nessu23
La prudenza, non va confusa con la filosofia pratica, ammonisce E. Berti.
Una tocca la sfera della morale individuale e della coscienza, l’altra la filosofia
della prassi: la saggezza o prudenza è lo strumento concreto di guida dell’azione morale, strettamente collegato alla coscienza personale o anche di gruppo,
mentre la filosofia pratica è un insieme di riflessioni argomentative e non prescrittive sulla prassi, fatte proprie anche dalla scienza politica e dall’economia
(Cfr. E. BERTI, Le ragioni di Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1989, 113-139; ID.,
“Saggezza o Filosofia pratica?”, in Etica & Politica / Ethics & Politics, 2 (2005) 113; F. VOLPI, “La riabilitazione della filosofia pratica e il suo senso nella crisi
della modernità” in Il Mulino 35 (1986) 928-949; C. PACCHIANI, Che cos’è la “Filosofia pratica?”, in D. VENTURA, Giustizia e Costituzione in Aristotele, Franco Angeli, Milano 2009, 7-45.
80
FAUSTINO PARISI
na funesta separazione tra etica e politica, tra etica della felicità e
azione politica24.
Nell’impostazione eudemonistica della morale aristotelica centrale
è il riferimento al principio di finalità, ossia a quell’orientamento al
bene e alla felicità che segna e caratterizza ogni azione morale. Capone chiama questo orientamento intenzionalismo (di qui anche il termine di finalismo intenzionale)25, che in morale assume e presenta concettualmente il bene, nella sua duplice veste di fine da intendere e mezzo da eleggere per quel fine. Se ne parla esplicitamente nel primo libro
dell’Etica a Nicomaco: ogni uomo, nell’agire, tende costantemente alla
felicità, come a suo fine ultimo, e pone la felicità quale ragione ultima
di ogni attività e della sua stessa vita. In tutti è vivo il desiderio della
felicità. Ma cosa si intende per felicità? La risposta aristotelica è complessa e oscilla tra un contenuto concretissimo ed una lettura intellettualistica. Afferma Berti: è “abbastanza plausibile che la felicità consiste anzitutto nello svolgere le proprie funzioni naturali, per esempio
nutrirsi, svilupparsi, esercitare i sensi, muoversi, parlare, dialogare, fare all’amore, fare ricerca”, ma “il bene dell’uomo, cioè la felicità, consiste nell’agire secondo virtù, cioè nel compiere in modo eccellente la
funzione propria dell’uomo, che è connessa all’esercizio del logos, e se
le virtù sono molte, secondo la migliore e la più perfetta”26. In so-
24
“Qui siamo, come si vede, agli antipodi dell’etica kantiana, individualista
e irresponsabile; il vero saggio è il politico, l’uomo che realizza il bene della comunità di cui gli è affidato il governo” (E. BERTI, Nuovi studi aristotelici, 67).
25 Il dinamismo intenzionale sarebbe determinato dal “bene presente in noi
solo intenzionalmente. Cioè da una realtà estrasoggettiva, che echeggiando nel
nostro interno come nostro bene, diventa presente in noi non con la sua realtà
esistenziale individuale, ma con una realtà concettuale, con una intentio, che è
quasi una fotografia ideale dentro di noi, secondo una particolare angolazione
ottica, che rivela la convergenza viva di noi e della cosa estrasoggettiva. Per questa convergenza la cosa appare come bene e come valore che ci attrae. Si tratta
quindi di una presenza intenzionale, per cui una realtà estrasoggettiva entra nel
soggetto e si pone allo stato di oggetto attraente verso la realtà che è fuori”
(D. CAPONE, Cristo mistero della carità di Dio, 95).
26 E. BERTI, Saggezza o Filosofia pratica?, 10. Stesso punto di arrivo della riflessione di Capone: “Eliminando tutti gli altri beni inadeguati alla felicità vera
L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE
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stanza sia Capone che Berti concordano nell’affermare che “la vita
teoretica è il culmine della felicità, ma questa include tutte le altre
virtù in cui si esercita il logos, in particolare la philia (che non è solo
l’amicizia, ma ogni forma di affetto)”27, alla quale Aristotele dedica
quasi un quinto dell’intera Etica a Nicomaco28.
1.2. Il finalismo morale nello Stoicismo e nel Neoplatonismo
Di finalismo intenzionale è intessuto anche lo Stoicismo e il Neoplatonismo, più volte fatti oggetto di studio dal prof. Capone29. Le
tesi dello Stoicismo sono note alla storia della filosofia, dalla sua origine greca, che identifica fisica, logica e morale, alla rilettura roma-
dell’uomo, egli la pone nell’atto più elevato dell’uomo: la speculazione della verità” (D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 100). La felicità per Aristotele, spiega G. Reale, non può consistere né nei piaceri della carne, né nella ricerca di onori, né nella ricchezza, ma neppure nella ricerca di un “trascendente Bene-in-sé, perché in tal caso, è evidente che non sarebbe realizzabile né acquisibile per l’uomo” come pretendeva Platone. “Il bene dell’uomo” e quindi
la sua felicità, “non potrà che consistere nell’”opera” che gli è peculiare, cioè in
quell’opera che egli ed egli solo sa svolgere”, ossia “quella della ragione e l’attività dell’anima secondo ragione”, senza però trascurare i beni materiali che se anche
“non possono dare la felicità, la possono tuttavia guastare o compromettere (almeno in parte) con la loro assenza”(cfr. G. REALE, Aristotele, Laterza, Bari
19864, 104-106).
27 E. BERTI, Saggezza o Filosofia pratica?, 11.
28 Questa sintesi mirabile raggiunta da Aristotele e fatta propria da san Tommaso sembra essersi dispersa, per Capone, nelle tesi, ad esempio, di uno “Scoto, ma anche di molti tomisti, che risalirono verso la concezione intellettualistica della prudenza. Così la ratio recta fu da alcuni logicizzata, da altri giuridizzata, e la coscienza fu ridotta a semplice singolarizzazione del dato scientifico o
giuridico” (D. CAPONE, Cristo Mistero della carità di Dio, 103). E, cosa ancora
peggiore, in teologia morale, “logicizzando l’intenzionalismo finalistico della situazione (contro Aristotele e S. Tommaso) ne ha reso più difficile la comprensione come kairòs escatologico, nel mistero del Cristo” (Ivi, 103), precludendosi di fatto il passaggio all’intenzinalismo escatologico.
29 D. CAPONE, De fine ultimo. De caritate, 17-21; De caritate Dei in Mysterio
Christi, 11-12; Cristo, mistero della carità di Dio, 103-109.
82
FAUSTINO PARISI
na, più attenta alla civis e alla sua dimensione giuridica30. Capone ne
evidenzia spesso gli influssi negativi sulla teologia e in particolare sulla teologia morale, a partire soprattutto dal XIV secolo31. A suo avviso furono proprio gli stoici che, affermando l’unità costitutiva e la razionalità di tutta la realtà, ossia la comunione profonda di logica e natura e di logica e fisica (scienza di tutta la realtà), “razionalizzarono la
chiave della vita morale: la coscienza e il finalismo che unisce e fonde coscienza e realtà”32 e logicizzarono l’intenzionalismo. Così il famoso detto del vivere secondo natura, teorizzato per la prima volta dagli stoici, e ripreso oggi, anche se non proprio allo stesso modo, da
certa divulgazione scientifica, con venature romantiche, non è un invito ad una vita semplice e sana, a contatto con la natura, ma un preciso e deciso riferimento ad un rapporto con una natura “dinamizzata dal logos spermatikos”33, alla quale si è indissolubilmente assoggettati. La coscienza è, per gli stoici, attraversata da un telos, immanente nella natura, presente come ortos logos, ossia come eco della legge cosmica, che orienta e guida l’azione morale. Una legge di provenienza,
perfino divina, come afferma Cicerone34. Obbedire ad una legge ci30
Afferma Capone che “sarebbe errore parlare univocamente dello stoicismo morale, che varia di età in età e dalla Grecia a Roma. Comunque, mentre
nello stoicismo greco predomina il fisicismo, per cui fisica, logica, prudenza e
coscienza si identificano nel radicale logos spermatikos cosmico, nello stoicismo
romano predomina il civismo, identificato con la romanitas; la recta ratio o legge
cosmica diventa la ratio recta summi Jovis (Cicerone, De Legibus 1. II, c. IV), lex
sempiterna, e la prudenza diventa giurisprudenza” (D. CAPONE, Cristo, mistero
della carità di Dio, 105).
31 “Quando dal secolo XIV in poi l’essenzialismo, allontanandosi dalla sintesi
di S. Tommaso, rielaborerà l’oggettivismo fisicista di derivazione stoica, e la natura sarà essenzializzata, con conseguente essenzializzazione della legge naturale e
del fine naturale, l’intenzionalismo a carattere piuttosto logico, si riaffermerà in
etica. Il giuridismo si svilupperà invece sulla linea segnata dall’umanesimo e darà
luogo ad un nuovo casismo” (D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 106).
32 Ivi, 103. Cfr. D. CAPONE, “Antropologia, coscienza e personalità”, in
StMor 4 (1966) 85-87.
33 D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 104.
34 Afferma Cicerone: “Vi era infatti una norma, derivata dalla stessa natura,
che spinge al ben fare e tiene lontani dal delitto, la quale non incomincia ad es-
L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE
83
vile, così intrecciata di umano e di divino, è obbedire a Dio stesso, al
sommo Giove, garante supremo della legge, e “rector Romae”35.
Solo le passioni possono in qualche maniera minare questo idilliaco rapporto di coscienza-natura-legge universale-legge civile. Le
passioni, per la loro caratteristica di illogicità e di stravolgimento dell’ordine universale e particolare, impediscono all’uomo il riconoscimento di quest’ordine universale e la realizzazione dei suoi dettami.
Unico rimedio contro le passioni rimane l’ascetica, sinonimo di ragione e di guida razionale dell’agire umano, e quindi di a-patia cioè
di non-azione, più che di azione morale tesa alla purificazione dal
male. “Scopo principale dell’ascetica stoica è la apathenia, l’impassibilità; e virtù ascetica fondamentale è la sophrosyne, la mens sana”36, un
tema, questo della virtù della temperanza (sophrosyne), presente anche
in Aristotele37. Infine rettitudine morale e rettitudine di giudizio,
sere legge solo nel momento in cui viene scritta, ma fin da quando è nata. E precisamente essa ebbe origine insieme all’intelletto divino. Motivo per cui la prima e vera legge, efficace nel comandare e nel proibire, è la retta ragione del
sommo Giove” (De Legibus, L. II, c. X).
35 Il pius romano è, dunque, colui che osserva le leggi della civis. Così facendo potrà pervenire alla beatitudine dopo morte, avendo compiuto i propri doveri di onesto cittadino Di qui anche il tema dell’amor patriae, una delle caratteristiche del civis romanus (Cfr. Cicerone, De Repubblica, L. VI, cc. VII-VIII, cit. in
D. CAPONE, De fine ultimo. De caritate, 17).
36 D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 104.
37 “«Per questo motivo attribuiamo alla temperanza questo nome, perché
salva la saggezza». In greco temperanza si dice sophrosyne, che con un gioco di
parole Aristotele interpreta come ciò che «salva» (sozei) la phronesis. Ciò significa che, se uno non è temperante, cioè non sa dominare i desideri, per esempio
il desiderio di denaro, o di piaceri in genere, non può nemmeno essere prudente, cioè saper deliberare la scelta dei mezzi più adatti a realizzare il fine buono.
Aristotele infatti aggiunge: «La temperanza salva il giudizio saggio; in effetti
non è che il piacere e il dolore distorcano ogni tipo di giudizio (per esempio
quello che il triangolo ha o non ha la somma degli angoli interni uguale a due
angoli retti), bensì soltanto i giudizi che riguardano l’azione. Infatti i fini delle
azioni sono le azioni stesse: a chi è corrotto dal piacere o dal dolore non è più
manifesto il principio, né che è in vista di questo o per causa sua che deve scegliere e fare tutto ciò che sceglie e fa: il vizio infatti distrugge il principio dell’azione morale»” (E. BERTI, Nuovi studi aristotelici, 63).
84
FAUSTINO PARISI
non sono più frutto di virtù, né di accordo tra appetito retto e recta ratio, come era nell’impostazione aristotelica, ma, ancora una volta, sintonizzazione con la legge, cosmica e universale.
Per Capone si può smascherare, così, l’origine stoica di molte affermazioni, oggi tanto diffuse nel comune sentire cristiano, come, ad
esempio, quella dell’esistenza di un ordine morale oggettivo, che avrebbe in Dio creatore il suo fondamento e orientamento ultimo38; quella di una legge naturale, che reggerebbe l’universo, costante riferimento per la vita e l’azione degli uomini39, e quella delle cosiddette
evidenze etiche, che, imponendosi di per sé, finiscono con lo svalutare
l’azione della coscienza morale40. In tutte queste affermazioni ciò che
si perde immediatamente è la realtà stessa della persona umana, imago
Dei, che passa in secondo piano, come schiacciata da tanta oggettività e impersonalità di leggi e di doveri. L’uomo nella visione cristiana,
invece, non è più singolo o individuo autoreferenziale, come voleva
lo stesso Aristotele, non è un “semplice organo della natura cosmica”41, come affermano gli stoici, ma è persona, chiamata, in Gesù Cristo, ad una particolare modalità di incontro e di comunione filiale
con il Padre42.
Di tutt’altro avviso sono i neoplatonici, che ripropongono l’antico dualismo, di anima e corpo, spirito e materia, mescolato a miti misterici e teorie gnostiche. Il finalismo neoplatonico ha un solo scopo,
un telos nella vita che si acqueta solo nell’estasi, ossia nell’unione con
38
Cfr. D. CAPONE, Introduzione alla teologia morale, EDB, Bologna 1972,
41-42.
39 Cfr. D. CAPONE, L’uomo è persona in Cristo, 92-103; ID., “Antropologia, coscienza e personalità”, in StMor 4 (1966) 85-87.
40 Cfr. D. CAPONE, “La verità nella coscienza morale”, in StMor 8 (1970)
12-15.
41 D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 105.
42 Va però riconosciuto agli stoici, afferma ancora Capone, il merito del superamento di quella specie di aristocrazia filosofica, pur presente in Aristotele e di
una concezione delle realtà materiali e terrestri, del tutto degradata, com’era
nella visione platonica. Non c’è disprezzo del corpo o delle realtà terrestri presso gli stoici, ma solo necessità di garantire luminosità alla coscienza per riconoscere il bene assoluto, reso opaco dalle passioni.
L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE
85
l’Uno. L’uomo è mente che deve liberarsi dal corpo, realtà materiale
dell’uomo. In Plotino si ha una ontologia Unius43 con tre ipostasi fondamentali: Anima, Mente e Uno. Impegno morale dell’uomo è liberarsi della mondanità, sinonimo di molteplicità, per ricomporsi in
unità. Scopo dell’azione morale non è tendere finalisticamente verso
il bene o la felicità, ma un ritornare dall’esilio. Le passioni impediscono questo cammino o ritardano questo ritorno. Si viene qui ad esasperare, per Capone, il razionalismo intellettualistico degli stoici e
“la morale diventa un servizio ascetico per l’ascesa artistica, eroticadialettica della mente, il nous, verso la tensione mistica per l’unione
estatica con l’Uno”44. Esattamente il cammino inverso operato dalla
katabasi di Cristo, che per far risalire l’uomo verso Dio, discende dal
seno del Padre e si fa carne, nota Capone.
1.3. Il fine dell’azione morale in S. Agostino, S. Tommaso
1.3. e S. Alfonso
La scelta dei tre teologi moralisti più importanti della storia della
chiesa, S. Agostino, S. Tommaso e S. Alfonso, da parte del prof. Capone, non è casuale. Si tratta di tre teologi che hanno ripreso e fatto
proprio il tema del fine dell’azione morale e della felicità. Tale fine
rimane sempre la ricerca del sommo bene o felicità, ma non in un sé
cosmico, come volevano gli stoici, né nella stessa vita della polis, come voleva Aristotele, ma in Dio e nel Dio rivelato. Solo in Dio la ricerca della felicità diventa alla fine beatitudine, ossia vita beata, mai
intesa, almeno in questi autori, come esito o premio post mortem del
pio cristiano (come lo poteva essere per il pius romanus), bensì come
quotidiana realtà vitale del credente. Come si vedrà non si è affatto
di fronte ad un semplice spostamento in avanti o in alto del fine filo-
43
“Plotinus legem exitus-reditus enuntiat, et hoc quia eius ontologia non est
ontologia naturae, ut est in Aristotele et Stoicis, sed ontologia UNIUS: tò En
est ratio totius universi et eius legis quae est eminenter dynamica” (D. CAPONE,
De fine ultimo. De caritate, 19); cfr. ID., De caritate Dei in Mysterio Christi, 12.
44 D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 109.
86
FAUSTINO PARISI
sofico-naturalistico. Non è un semplice “battezzare” la visione eudemonistica del fine dell’azione morale.
Se S. Agostino accetta “il finalismo eudemonistico greco e romano e lo trasmette a s. Tommaso, e per lui a noi”45, lo fa in quanto considera Dio quale fons bibendae felicitatis46: principio di ogni natura, luce
per conoscere la verità e fine di ogni azione morale47. L’ontologia
agostiniana è decisamente teologica o teocentrica48: Dio è al centro di
tutto come “principium nostrum, lumen nostrum, bonum nostrum”49,
oggetto di vita attiva e di vita contemplativa, perché convergenza “di
scienza etica pratica e di sapienza onto-fisico-logico-teoretica; di
scienza che per via di prudenza, giustizia, fortezza e temperanza insegna il valore delle cose terrestri ed allontana così dal male e di sapienza che per via di carità, fede e speranza, insegna la pietà verso Dio,
cioè il culto di Dio; di deliberazione della ragione inferiore e di risoluzione della ragione superiore”50. Una ontologia che ruota attorno
45
Ivi, 115.
Cfr. AGOSTINO, De Civitate Dei, 1.8, cc. 4, 10: CSEL 40, 360, 370-371.
47 “Deus ergo quatenus est Esse constituit naturam, quatemus est VERUM,
fundat veritatem et scientiam eius, quatemus BONUM fundat ethicam” (D.
CAPONE, De fine ultimo. De caritate, 22). Il maiuscolo è di Capone.
48 L’ontologia agostiniana teocentrica ha però forti venature neoplatoniche,
laddove viene esclusa ogni forma di dualismo, in favore di un principio unitario
che se pur diviso in due parti, una ratio inferior e una superior, si fonde alla fine
e confluisce in un’unica realtà. L’anima-mens-ratio è in Agostino attiva, quando
presiede all’azione razionale, contemplativa, quando, diretta dalla sapienza, contempla i valori eterni; è razionale, cioè scienza, quando dirige l’azione intorno
alle realtà terrestri, è contemplativa, quando contempla Dio (cfr. D. CAPONE,
Cristo, mistero della carità di Dio, 117).
49 Cfr. AGOSTINO, De Civitate Dei, 8, X.
50 D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 118. Da questa tripartizione,
scaturisce “la vita contemplativa che tende a Dio come bonum nostrum, è oggetto dell’etica; la vita contemplativa che tende a Dio come a principium nostrum è
oggetto della fisica (noi diremmo teologia ontologica); ma a quest’ultima viene
attribuita anche la logica che in fondo parla di Dio come lumen nostrum” (D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 117). Cfr. D. CAPONE, De fine ultimo. De
caritate, 22-23; ID., De caritate Dei in Mysterio Christi, 17.
46
L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE
87
ai tre termini dell’esse, del verum e del bomun, riferiti a Dio e alla relazione uomo-Dio51.
Ma, per alcuni, anche un’ontologia teocentrica come quella agostiniana è ancora troppo legata all’eudemonismo filosofico, sia pure
cristianamente battezzato, e ripropone sostanzialmente quel dualismo
aristotelico, per il quale la vita morale sarebbe inferiore a quella teoretica o per lo meno e in qualche modo bisognosa di essa. In risposta
a tale obiezione Capone ricorda che S. Agostino “considera l’inquietudine di riposare in Dio non come semplice inquietudine psicologico-intenzionale, ma come inquietudine ontologica: non è Dio che è
fatto per noi, ma noi siamo fatti per lui”52. Prima di essere bonum nostrum, il Dio di S. Agostino è principium nostrum e lumen nostrum, e
come tale determina in noi una vita, non puramente intellettuale o
intenzionale, ma “vita dell’uomo, come imago Dei”53. È il richiamo
al dato di una creazione dell’uomo secondo la rivelazione cristiana54,
51
“La tensione esistenziale di Agostino, l’anelito alla ricerca e alla conoscenza che caratterizzano il suo itinerario filosofico trovano la loro naturale
conclusione nell’acquisizione di un principio che fonda e comprende i due poli
della sua riflessione filosofica, l’uomo e Dio. Il primo di carattere ontologico è
individuato nell’uomo, quando la sua esistenza e il suo linguaggio si radicano in
una “ontologia triadica della persona”; il secondo, di carattere metafisico, si riconosce nell’idea di Dio: nella “metafisica dell’Essere trinitario” che si manifesta nella creazione e nella Rivelazione” (G. SANTI, Agostino d’Ippona Filosofo,
LUP, Roma 2003, 119); Cfr. M. F. SCIACCA, Sant’Agostino, L’Epos, Palermo
1991, 321-326.
52 D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 118.
53 Ivi.
54 “Dunque questa trinità dello spirito non è immagine di Dio, perché lo spirito ricorda se stesso, si comprende e si ama, ma perché può anche ricordare,
comprendere ed amare Colui dal quale è stato creato. Quando fa questo, diviene
sapiente. Se non lo fa, anche quando si ricorda di sé, si comprende e si ama, è insensato. Si ricordi dunque del suo Dio, ad immagine del quale è stato creato, lo
comprenda e lo ami. Per dirlo in breve, esso onori il Dio increato che l’ha creato capace di lui e di cui può essere partecipe; per questo è scritto: Ecco: il culto
di Dio, questa è sapienza. E non per la sua luce, ma per la partecipazione a quella luce suprema sarà sempre sapiente e regnerà beato là dove sarà eterno” (De
Trinitate, 14, c.5, cit. in D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 119).
88
FAUSTINO PARISI
che illumina e dà un senso del tutto nuovo al discorso agostiniano. Si
è “in una vita spirituale integrale, in cui l’uomo e Dio sono in mutua
presenza intelligente ed amante: Dio dà per amore paterno, l’uomo
risponde per pietà filiale. E questa vita è vita beata, perché è vita eterna”55. Un superamento dell’eudemonismo filosofico, in senso religioso e teologico cristiano. Afferma Capone che “noi oggi questa vita superiore la chiamiamo vita morale in senso pieno”, in quanto “le
virtù cardinali diventano incarnazione dell’amore di carità: ordo amoris”, e le buone abitudini, o i boni mores si trasformano in boni amores56. Dopo aver utilizzato l’immagine di Dio, fons bibendae felicitatis,
S. Agostino riconosce la centralità della vita beata sapienziale e il dinamismo della presenza spirituale di Dio all’uomo e dell’uomo a Dio,
spingendosi oltre la stessa visione contemplativa di Dio, di certa teologia spirituale, pur sempre venata di neoplatonismo57.
Sulla linea agostiniana si pone decisamente anche S. Tommaso. Per
Capone egli accoglie le tesi del finalismo che intende Dio come bonum
nostrum, assume e corregge l’eudemonismo aristotelico, ma “senza
negare l’oggettivismo “teoretico” di S. Agostino (da non confondere
con l’oggettivismo cosmico-stoico) anzi affermandolo come valore supremo a cui tendere, enuclea una dottrina morale veramente “pratica”
55
Ivi.
Ivi, 120.
57 Capone si pone esplicitamente la domanda se nella visione agostiniana è
il Cristo il fine ultimo della nostra vita morale: “Habetne Christus rationem finis ultimi nostrae vitae?” (D. CAPONE, De caritate Dei in Mysterio Christi, 17).
La risposta ancora una volta evidenzia il netto distacco delle posizioni agostiniane dalla filosofia classica, sia stoica che neoplatonica: ”vita ergo mentis regitur non hellenice ab ordine mere intentionali quidditative et legaliter enucleato, sed a salvifica praesentia Dei in mundo”. E questa presenza di Dio nel
mondo, non filosoficamente quiddativa né giuridicamente enucleata, è proprio
il mistero di Cristo, meglio il mistero di Dio in Cristo, alfa e omega, luce e guida di tuta la storia umana e di ogni singolo uomo: “in questa visione Cristo diventa nostra scienza e nostra sapienza; scienza perché con la fede purifica la nostra vita terrestre; sapienza perché ci rivela e ci inserisce nelle verità eterne” (D.
CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 120); Cfr. D. CAPONE, De fine ultimo.
De caritate, 27-28.
56
L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE
89
sullo schema delle virtù”58. Letture parziali della monumentale opera
tommasiana hanno indotto molti in errore, secondo Capone. Anche
S. Tommaso in fondo sostituirebbe la visione filosofica di Dio con una
visione beatifica dell’essenza divina, e cioè con la beatitudine, stabile
in quanto ultraterrena e definitiva. Costoro non tengono conto che
per S. Tommaso il fine ultimo di carità è di natura teologica e caratterizza ogni azione del cristiano, ogni suo gesto morale: “la carità ci fa
attingere Dio come fine ultimo, in quanto ci unisce a sé e ci partecipa
della sua carità trinitaria, la sua vita intima come Dio uno che si effonde in Trinità e Trinità che è infinita fecondità di unità indivisibile”59. Questa vita unitaria e trinitaria, divinamente personale, sempre
attuale è per Tommaso la vita beata. La risposta dell’uomo, e quindi la
sua moralità, consiste nell’aprirsi a questa vita beata, come affermava
S. Agostino, fonte di gloria e di felicità.
Contro una visione del finalismo di natura “ontocosmica, fisicometatifica”, stoico e neoplatonico, entrata a far parte della teologia
morale dell’epoca, attraverso Pietro Lombardo, S. Alberto e lo stesso S. Bonaventura60, S. Tommaso riteneva che Dio aveva dotato l’uomo “di natura personalistica, padrona del proprio atto”, che pone
l’uomo come “volontà cosciente e libera”. Una concezione personalistica che è alla fine “tensione di volontà ontologica”61, che cioè coinvolge l’intera persona umana. Capone propone un ritorno al personalismo di S. Tommaso, inteso come “finalismo della persona, il
“finis operantis”, in senso ontologico-personalistico prima che in
senso accidentale: cioè bene-fine”62. Una posizione mediana che non
perda né l’ordine oggettivo dei “bona naturae”, che sulla rete delle
essenze, formano i fini particolari ed i relativi mezzi”, né ceda al
“soggettivismo individualistico e quindi relativistico”. Una morale
concreta “per uomini condizionati all’errore ed all’esistenza spazio58
D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 122.
Ivi, 123.
60 D. CAPONE, “Ritorno a s. Tommaso per una visione personalistica in teologia morale”, in RTM 1 (1969) 86.
61 Ivi.
62 Ivi, 94-95.
59
90
FAUSTINO PARISI
temporale, che diventa sempre più difficile in questa nostra età tecnologica”63. La cosa conclude Capone “non è facile per se stessa; ma
lo diventa meno, se si chiude nell’essenzialismo quidditativo, che si
definisce come astrazione dall’esistenziale e dalla sua fallibilità”64.
Per Capone ciò che più propriamente caratterizza la visone morale di S. Tommaso è, però, il concetto di partecipazione: “il fine è assimilarsi a Dio, partecipandone la perfezione”, con una particolarità
che non deve sfuggire. Essa “non è finalizzata dal soggetto di cui è
perfezione, ma da Dio, di cui vuol essere riproduzione o meglio
espressione parziale; ed è proprio questa espressività e parzialità in
rapporto a Dio perfezione assoluta e semplice, che fonde in unità di
origine e di armonia tutte le creature, perfezioni parzialmente
espressive della perfezione di Dio”65. Quando si parla della morale
tommasiana occorre ricordare questo fondamentale aspetto che l’uomo, il cristiano, agisce per assimilarsi a Dio, non solo e non tanto per
il suo fine proprio, ma perché chiamato a realizzare in sé, ad esprimere in sé le perfezioni di Dio, così, glorificandolo. Si può quindi
concludere, per Capone, che S. Tommaso “pur mantenendo la bipolarità aristotelica nella dottrina morale, ne rifiuta l’opposizione e con
S. Agostino risolve il finalismo eudemonistico nel finalismo ontologico, per cui l’uomo in quanto persona tende a porsi come immagine di Dio, come gloria di Dio”66.
63
Ivi, 95.
Ivi. Afferma Capone che S. Tommaso aveva praticamente messo le basi
per ogni futura teologia morale centrata sulla persona e la sua coscienza: ”Con
la dottrina della moralità degli atti umani, sulla prudenza, sulla legge naturale,
ma soprattutto con la dottrina sulla legge nuova e sulla grazia, con la dottrina
sulla carità come “forma virtutum”, specialmente come “amicitia hominis ad
Deum” e come vita dialogale con Dio, “ familiaris conversatio cum ipso”, cioè
come vita di persona con Dio-persona, s. Tommaso aveva insegnato con organicità vitale e didattica, quanto occorreva per un tractatus de conscientia di vera
teologia morale fondamentale” (S. BOTERO – S. MAJORANO (a cura di), D. Capone. La proposta morale di sant’Alfonso, 318-319); Cfr. D. CAPONE, L’uomo è persona, 70-71
65 D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 123-124.
66 Ivi, 125.
64
L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE
91
Intorno alla verità morale S. Agostino agit intuitive, S. Tommaso
analytice eam resolvendo tum notionaliter tum ontologice, mentre S. Alfonso agit componendo eam in statu praxeos, existentialiter67. In queste
tre affermazioni è contenuto il cammino del finalismo intenzionale
morale nella teologia cristiana, che caratterizza e accomuna questi
grandi pensatori. S. Alfonso è fortemente influenzato dall’insegnamento morale di S. Tommaso, ricevuto non passivamente, ma “verificato e sviluppato in dinamismo pastorale”68. Cinque secoli di distanza separano i due teologi, situazioni culturali ed ecclesiali decisamente diverse, ma comune è l’opzione morale per la persona e la centralità della coscienza69. L’uomo non è oggetto ma soggetto, in quanto persona, nell’ordine morale e la legge, anche quella naturale, ha vigore di legge, formalmente e qui ed ora, solo quando si pone all’interno della persona, quale convinzione di coscienza. Comune è, pure, la visione della virtù della prudenza: muovendosi dal principio che
“lex dubia non est lex promulgata, ideo non obligat”, S. Alfonso ricorda che siffatto principio va coniugato con l’altro che afferma “che
il valore supremo della persona sta nella comunione di grazia con
Dio”70. Una comunione da realizzare con saggezza, tenendo conto
delle concrete condizioni e istanze della persona. Dunque, “per agire prudentemente, bisogna agire sapientemente; e per agire sapientemente, bisogna agire prudentemente”71. Un principio morale e pa67
Cfr. D. CAPONE, De fine ultimo. De caritate, 56.
Ivi.
69 Cfr. D. CAPONE, “S. Tommaso e S. Alfonso in teologia morale”, in Asprenas 21 (1974) 439-473.
70 S. BOTERO – S. MAJORANO (a cura di), D. Capone. La proposta morale di sant’Alfonso, 332. Afferma Capone: “Theologia moralis S. Alfonsi non est metaphysica tractatio de rationibus ultimis ordinis moralis; neque est scientia theoretica de natura actum humanorum deque eorum principiis. S. D. declarat se
velle scribere de morali theologia, “quae totat ad praxim dirigenda” (Theol mor.
T.II, p. 689); de theologia morali nempe quae sit immediatissima directioni prudentiae in foro conscientiae, quin tamen cum ipsa confundatur” (D. CAPONE,
Introductio in theologiam moralem S. Alfonsi, c.c., (1958) 4).
71 S. BOTERO – S. MAJORANO (a cura di), D. Capone. La proposta morale di sant’Alfonso, 332.
68
92
FAUSTINO PARISI
storale che però cozzava, al tempo di S. Alfonso, con il criterio fondamentale di una “totale conformità della coscienza con la verità oggettiva della legge; in mancanza di evidenza della legge, la verosimiglianza o probabilità della legge era vincolante”72. Di qui l’accusa
mossagli di essere un lassista casista. Per costoro la gloria di Dio consisteva nella realizzazione dell’ordine delle leggi prese nella loro materialità, anche se la persona veniva ridotta a puro esecutore di un ordine. Qui S. Tommaso e S. Alfonso si ritrovano concordi, per Capone, nella comune reazione a siffatta impostazione: “Dio cerca come
sua gloria e supremo valore nel mondo, la vita della persona come sua
immagine: lo stato di grazia. È una ragione di ordine superiore, sapienziale, che passando attraverso il filtro realistico della valutazione
della prudenza, diventa regola pastorale”73.
2. Sul valore di finalità dato alla prudenza dalla Carità
2. del Padre per mezzo del Cristo
Con queste affermazione si chiude una prima parte della riflessione di Capone, tesa a rivalutare la virtù della prudenza per la filosofia
e la teologia morale. L’itinerario percorso ora sembra più chiaro: da
una iniziale visone filosofica e laica della prudenza si è passati gradualmente a una teologica e cristiana. Un percorso legittimo e sostenuto storicamente dai grandi teologi moralisti. Nella teologia morale il dato di prudenza viene a ricevere un significato nuovo a causa
dall’evento Cristo, e subisce quasi una torsione di significato, come direbbe R. Buttiglione74, da virtù dianoetica proiettata verso la felicità
nella polis, a virtù cardinale proiettata verso la vita beata per Cristo in
Dio, escatologicamente in terra e definitivamente in cielo. Non si
tratta più di prudenza aristotelica, dunque, che cerca il giusto mezzo
tra temperanza e fortezza, in una vita di comunità politica e cittadi-
72
Ivi, 333.
Ivi.
74 R. BUTTIGLIONE, Il pensiero di Karol Wojtyla, Jaca Book, Milano 1982, 97.
73
L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE
93
na, non si è più in presenza di un finalismo intenzionale, per cui il fine è sì presente a noi e alla nostra mente, come oggetto conosciuto e
anche amato, ma non del tutto posseduto nella realtà. “Si tratta di
prudenza che emana dalla presa di coscienza del mistero del Cristo,
quale nostra vera realtà, come principio operante nella nostra persona, caratterizzata, animata dalla storicità dell’attuale e attuosa economia del Cristo risorto”75.
In un testo, già citato nella presente ricerca, Capone pone in mirabile sintesi i termini fondamentali e i momenti essenziali di questa
nuova visone della prudenza. Essa consiste primariamente nella “tensione escatologica del nostro essere, personificato in Cristo” 76. Lapidaria è l’espressione da lui utilizzata nel testo de L’uomo è persona in
Cristo, laddove afferma che “Cristo personifica come universale sacramentale-assiologico, non come universale metafisico-logico”77. Se
si riconosce il momento sacramentale-assiologico, la figura e l’azione
del Cristo assumono i connotati di sacramento di salvezza, ma anche
di “proto-uomo, il primo-genito di tutta l’umanità e di tutta la creazione. In lui abita “corporalmente” la pienezza di Dio, ontologicamente, ed è “spirito vivificante” (1 Cor 15, 45). La vita morale del
cristiano diventa “tensione che deve essere vitale sintonia con la tensione dell’essere filiale del Cristo”, il quale a sua volta si pone come
“mistero dell’amore da parte di Dio”, così come chiaramente espresso nella 1 Cor 1, 9: “Dio vi ha chiamato alla comunione di vita del
suo figlio, Gesù Cristo, signore nostro”. Quando invece si accentua
l’impostazione metafisico-logico, per un “essenzialismo formalequidditativo, che riduce l’ordine ontologico in ordine logico”78, la figura del Cristo diventa “soprattutto rivelatore dell’essenza di Dio,
come architetto e legislatore, solo in secondo luogo come pastore e
salvatore”79, e la sua azione quella di una profonda restaurazione, e
non di fondazione originaria dell’ordine morale. Si avrebbe una mo75
D. CAPONE, L’uomo è persona, 173.
Cfr. D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 93.
77 D. CAPONE, L’uomo è persona, 26.
78 Ivi, 25. Cfr. D. CAPONE, Introduzione alla teologia morale, 132-138.
79 D. CAPONE, L’uomo è persona, 61-62.
76
94
FAUSTINO PARISI
rale, non cristologicamente fondata, ma solo teocentrica nella quale
viene espressa l’esemplarità dell’essenza divina, perdendo l’esemplarità del Cristo, quale uomo nuovo per tutti i cristiani.
Infine in una lettura sacramentale assiologica la carità del Padre,
non solo si manifesta a noi nel suo Figlio, ma ci raggiunge tramite lui:
“questa carità il padre la concentra nel Cristo, come suo disegno di
vita da comunicare, fuori di sé, all’umanità, naturalmente e soprannaturalmente”80. C’è in questa visione un dato di concretezza e di
completezza di vita, non presente nella visione puramente filosofica
della prudenza, Cristo non è un semplice ideale riferimento per l’azione morale del cristiano ma è una realtà concreta, realizzazione
concreta dell’amore paterno di Dio. Per questo si può affermare che
in Cristo tutto si ricapitola e si ritrova: “ordine cosmico, ordine creaturale, ordine paterno-filiale di grazia”. Dal Cristo tutto, poi, viene a
noi “dalla nostra benedizione e simbiosi” 81 con lui82. Dire carità salvifica, precisa Capone, è lo stesso che dire volontà di Dio con piano
di salvezza. Una salvezza che non indica “soltanto la liberazione dalla “malattia e morte” per il “peccato originale”, ma tutto il piano di
Dio di comunicare la sua gloria all’uomo, come sua vita, come sua
“salute piena”. “Gloria Dei, vivens homo” ci ha detto Ireneo”83.
Con questa nuova comprensione del valore della prudenza acquista diverso valore anche il concetto di finalità. Il finalismo dell’atto
morale prima di essere “imbevuto della relazione trascendentale alle
leggi delle cose, come espressione cosmica della ragione eterna di
Dio, è atto imbevuto di Cristo in noi, della sua grazia, come legge
nuova”84, prima di essere “ordine di ragione inscritto nella nostra essenza” elemento di una intenzionalità filosofica introiettata in noi, è
intenzionalità “tutta protesa verso il Cristo in noi, e col Cristo verso
80
D. CAPONE, Introduzione alla teologia morale, 77.
Ivi, 78.
82 “L’essere della persona, liberato e personificato dal Cristo, è inserito nella sua umanità fatta chiesa, come regno di Dio, regno di libertà per i singoli e
per l’umanità intera” (D. CAPONE, Introduzione alla teologia morale, 137).
83 D. CAPONE, L’uomo è persona, 63.
84 Ivi.
81
L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE
95
Dio in noi. Intenzione ontologica, poi opzionale, poi attuale”85. Le
basi di tale mutazione del concetto di prudenza si trovano sia in S.
Tommaso, per il quale la prudenza è “ministra sapientiae” perché
“cerca, confronta, valuta e finalmente giudica e dispone energicamente l’attività di tutta la persona lasciandosi dirigere sempre dalle
ragioni supreme della sapienza e quindi della carità”86, e sia in S. Paolo che attribuisce alla prudenza il compito di confrontare dati concreti, circostanze, istanze di ordine spirituale nel mondo concreto in
cui i cristiani vivono, per cogliere quella che è la volontà di Dio in
questo tempo cioè nel kairos presente e il dokimazein (lo scegliere).
Perché questo si realizzi occorre avere chiari i nuovi termini di riferimento che danno un più preciso stimolo e orientamento alla recta
ratio. La prudenza deve assumere come principio e criterio di valore, il
mistero del Cristo (kairos) afferma Capone, e “la tensione verso il giorno del Cristo”(éskaton)87.
85
Ivi, 79. “Questa visione del Padre che il Cristo ci rivela è decisiva per la vita morale del cristiano. Qui c’è tutta l’economia della vita in Cristo, se ricordiamo che l’opera del Padre è l’attuazione del piano di salvezza, del quale il Cristo è
il mysterium. Gesù si pone in noi come parola del Padre, parola che ci chiama a
rispondere, e la parola di risposta è lui stesso” (D. CAPONE, L’uomo è persona, 47).
86 D. CAPONE, L’uomo è persona, 172. S. Tommaso intende la carità soprattutto come amicizia con Dio, finalismo e forma virtutum e amore del prossimo, discostandosi in questo dalle tesi di un Pietro Lombardo e dalle successive letture
metafisiche di questa virtù cardinale. Per S. Tommaso “la carità è caratterizzata
dall’oggetto e dal fatto di esser dinamismo di vita d’amicizia con Dio, fondata
sulla comunicazione della beatitudine di Dio (II-II, 24, 2); partecipazione creata dalla carità increata, lo Spirito santo che unisce il Padre e il Figlio” (D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 79).
87 “In questo dinamismo cristiano la fede-carità si pone come speranza, afferma Capone, che ha valore ed energia ontologica (in quanto tocca il cuore della realtà umana in esistenza) e storico-misterica (la presenza del Cristo in noi) e
si pone anche come prudenza, come mente di Cristo in noi e ci guida nell’azione morale, ossia in quel movimento che scruta, giudica e risolve le nostre situazioni secondo il valore del kairos del Cristo in noi e di noi nel Cristo, e si pone
infine come pazienza del Cristo (2Tess 3, 5), la quale “signoreggia il male spaziotemporale e lo vive e risolve come momento del trionfo pasquale ed escatologico del bene” (Ivi, 93).
96
FAUSTINO PARISI
Questo finalismo escatologico, appena descritto non si trova, né si
può trovare, nel linguaggio dei filosofi, e neppure in quei filosofi presenti nell’enucleazione teologica di molti Padri della chiesa, come si
è visto, e di certa manualistica, ricorda Capone, ancora troppo influenzati, da elementi di derivazione stoica e neoplatonica. La critica
è molto esplicita: “i filosofi presenti in qualche modo nei nostri manuali preteologici e teologici, parlano di dinamismo morale non come dinamismo escatologico e storico, determinato da una presenza
sacramentale esistenziale dell’éskaton in noi; ne parlano come se fosse soltanto dinamismo intenzionale, determinato dal bene presente
in noi intenzionalmente”88.
3. Sul Cristo risorto, kairos del tempo:
3. dal finalismo intenzionale al finalismo escatologico
Una volta messo al centro l’evento Cristo risorto, kairos del tempo
ed éskaton in noi, anche la dimensione intenzionale acquista un diverso senso, esistenziale ed escatologico89. È questa l’occasione per Capone di porre una chiara distinzione tra intenzionalismo e intenzionalità. L’intenzionalismo ha il preciso significato di “trasposizione della realtà, che è fuori del nostro pensiero, nella intentio, intesa come
pensiero o come forma concettuale”90 che poi agisce sulla volontà per
determinare l’agire morale. L’intenzionalità invece è più legata alla di-
88
Ivi, 95.
“Il principio di finalità diventa dinamismo escatologico e non soltanto intenzionale, dà un dinamismo originale alla prudenza: diventa il “dokimazein”
della volontà di Dio (S. Paolo!); la quale volontà parla simultaneamente con i
principi universali che danno i valori, con la legge nuova evangelica che si
esprime principalmente nella legge di carità e dall’altra parte parla col realismo
della situazione, che è anch’essa “segno della volontà di Dio”. E si noti che la situazione è compenetrazione della realtà totale della persona con la realtà complessa in cui la persona deve pur vivere da uomo e da cristiano” (D. CAPONE, Introduzione alla teologia morale, 147).
90 Ivi, 133.
89
L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE
97
namica della persona “viene da tensione personalistica dell’essere”,
che dice necessariamente autocoscienza, autopresenza totale, senza
veli, e nello stesso tempo dice ampiezza e libertà ontica. Per non scadere in una forma di immanenza assoluta, che degrada l’uomo e lo
deifica, Capone ricorda che il nostro essere personalistico è pur sempre un essere partecipato, per cui si ha immanenza e alterità trascendente nello stesso tempo, che dà vita ad una serie di punti bipolari:
trascendenza-immanenza, oggetto-soggetto, possesso-tendenza, essere-agire, essenza essente-essenza esistente, Dio principio-Dio fine91.
In forza del mistero di Cristo, “Dio opera in noi come fine ultimo
con la sua presenza escatologica nel suo sacramento che è l’umanità
del Cristo risorto in noi, sicché egli, come éskaton assoluto è già presente in noi”92. Finalismo intenzionale e finalismo escatologico sono
due differenti modi di intendere il valore di finalità dato alla virtù
della prudenza, non necessariamente in conflitto o in contrasto tra di
loro. L’escatologia non va ad interferire o ad eliminare l’intenzionalità ma modifica profondamente la condotta del cristiano, per effetto
della presenza di Dio in noi. Una tale presenza non è soltanto per via
intenzionale quasi fosse una realtà di natura extrasoggettiva di natura concettuale, ma è “già in noi in crescita; e quello che di lui è già in
noi, dà un altro dinamismo all’intenzione di quello che deve crescere in noi. Carità e speranza s’intrecciano in un solo dinamismo sostenuto dalla fede”93. Per far comprendere meglio questo procedimento Capone fa ricorso alla “legge dell’incarnazione” per la quale
“l’escatologia assume l’intenzionalismo e l’intenzionalismo si attua
nell’escatologia”. Noi agiamo per via intenzionale, perché questo
modo di procedere è in noi per il nostro stesso esistere. Ma il nostro
esistere cristiano più che far parte di una realtà cosmica che tutto
comprende, è un “affiorare spazio-temporale del nostro essere partecipato secondo il modo umano”94. È un’ontologia di partecipazione
91
Cfr. Ivi, 134.
Ivi, 97.
93 Ivi.
94 Ivi, 98.
92
98
FAUSTINO PARISI
e per questo l’escatologia è presenza nell’ordine soprannaturale. La
preoccupazione di sempre di Capone è che l’ontologia dell’ente, personalizzato per partecipazione di essere da parte dell’Essere assoluto,
non venga confusa con una metafisica dell’ente, essenzializzato a detrimento dell’essere, come più volte ripetuto. Nella visione cristiana
e teologica questa partecipazione si “personifica in Trinità, senza pluralizzarsi” per restare uno, e “fuori di sé personifica e moltiplica per
via di partecipazione, o semplicemente pone in esistenza tutto quello che non pone come sua immagine. Ed ordina il puro esistente all’uomo che è essente; e l’uomo lo fonda, lo redime, lo assume nel
Cristo, a cui egli partecipa il suo Essere non per creazione, ma per
generazione”95. Il linguaggio forse troppo tecnico e un po’ cifrato
con il quale solitamente si esprime il prof. Capone, può fuorviare dalla comprensione della portata teologica della tesi di fondo che è quella di proporre una teologia morale centrata sulla figura di Cristo,
fondata su di lui. Ma il Cristo fonte della morale è messaggero e mistero dell’amore paterno di Dio, è il Signore risorto e Signore del mondo,
finis finium, il principio e fine di tutta la vita cristiana, e l’éskaton che
anima l’opzione fondamentale buona. Questa realtà del Cristo innestata sul finalismo prudenziale di matrice aristotelica, come si è visto, ne
cambia radicalmente e ontologicamente la natura. I concetti di sacramentalità e di escatologia stanno ad indicare questa nuova particolarissima realtà: uno strumento naturale, ripiegato e rimodellato
meglio di altri al servizio della morale cristocentrica e cristologica.
Conclusione
La conclusione riprende il discorso iniziale. La domanda di Capone riguardava la possibilità di un utilizzo della virtù della prudenza aristotelica in campo teologico. La risposta è stata ovviamente si.
Primo, perché offre un andamento di concretezza, di ragion pratica,
e di legame con la recta ratio, che altre metodologie morali non sem-
95
Ivi.
L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE
99
brano possedere, e poi perché il meccanismo della prudenza, una volta divenuta virtù cardinale, acquista con l’evento Cristo una dimensione assolutamente nuova. Si fa sacramentale e assiologia, temporale ed escatologica: vissuta nel tempo (kairòs) ma in dimensione escatologica (éskaton). Altre soluzioni al problema di un passaggio da una
morale umana ad un’altra specificamente cristiana sono sempre possibili, specie oggi che ci si deve confrontare con l’irrompere delle
nuove scienze umane. Capone, figlio del suo tempo e anticipatore del
nostro, ci ha offerto una via, quella della virtù della prudenza, che da
Aristotele passa e si trasforma in S. Tommaso e nell’evento Cristo acquista una inaspettata ricchezza ontologica ed escatologica, e al tempo stesso ha voluto metterci in guardia dai pericoli derivanti dallo
stoicismo e dal neoplatonismo, filosofie, mai sopite nel comune sentire occidentale e cristiano, che portano con sé il grande dramma di
disancorare l’uomo dalla terra, per proiettarlo o in un mondo perfetto ma astratto, in un ordine morale oggettivo, o in dimensioni spirituali pur contemplative, ma intese come un improbabile ritorno da un
esilio, alla fine anch’esse autoreferenziali e autopropositive, che non
ha riscontri nella tradizione biblica.