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Presidente Nutriprof: Dott. Riccardo Monaco
Direttore Scientifico: Dott. Giovanni Borghini
Responsabile Progetto: Dott.ssa Barbara Chiarulli
Collaboratori
Dott. Danilo Azara
Dott.ssa Beltrami Martina
Dott.ssa Bruzzone Francesca
Dott.ssa Letizia Antonia D’Alessandro
Dott. Manuel Salvadori
Dott.ssa Federica Tomasich
Dott. Andrea Urso
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INDICE
“Giornata Mondiale del Rene 2014”
Dott. Andrea Urso…………………………………………………………………………………………………………………………pag.6
“Alimentazione e Dialisi”
Dott. Andrea Urso……………………………………………………………………………………………………………...…………..pag.8
“La Sindrome Lipodistrofica HIV-correlata- Aspetti metabolici e morfologici”
Dott.ss Francesca Bruzzone………………………….……………………….……………………………………………………..pag.12
“Autismo- Un collegamento fra malattia,alimenti e metalli pesanti”
Dott.ssa Federica Tomasich……………………………………………..………………………………………………………….pag. 15
“Melagrana e Salute”
Dott. Danilo Azara…………………………….……………………………………………………………………………………...….pag.17
“Il falso mito del colesterolo cattivo”
Dott. Danilo Azara…………………………………………………………………………………………………………...…………..pag.19
“La disbiosi intesinale”
Dott.ssa Letizia Antonia D’Alessandro…………………………………………….……………………………………...…….pag.21
“La permeabilità intestinale - Correlazione con malattie infiammatorie ed
autoimmunitarie”
Dott.ssa Barbara Chiarulli……………………………………………………………………………………………………………pag.24
“Il diabete gestazionale: approccio terapeutico senza timori”
Dott.ssa Martina Beltrami…………………………………………………………………………………………………...……….pag.32
“L’importanza di chiamarsi Alimento”
Dott. Manuel Salvadori………………………………………………………………………………………………………………...pag.35
“Angiogenesi e Tumori”
Dott. Giovanni Borghini…………………………………………………………………………………………………………….....pag.37
“Il nuovo paradigma dello stress”
Dott. Giovanni Borghini…………………………………………………………………………………………………………….....pag.38
“NPY: Obesità e Sindrome Metabolica”
Dott. Giovanni Borghini…………………………………………………………………………………………………………….....pag.46
“L’epigenetica e la nuova genetica funzionale”
Dott. Giovanni Borghini…………………………………………………………………………………………………………….....pag.50
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4
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pasti, prima e dopo l’attività sportiva e quando non
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tutte le età.
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CUCCHIAI DI OLIO DI LINO?
Gli acidi grassi Omega-3
3 e Omega-6
Omega
sono considerati
essenziali, perchè indispensabili al corretto funzionamento
del nostro organismo. Infatti, se desideriamo conservare
arterie sane e mente lucida fino a tarda età, occorre
assumere alimenti che contengano gli acidi grassi vantaggiosi
della serie Omega-3,
3, che contrastano l’infiammazione,
modulano i metabolismi e la risposta immunitaria,
promuovendo
romuovendo una migliore qualità della vita. Gli oli non sono
tutti ugualiLa caratteristica primaria dell’Olio di Lino Rilevo è
la modalità
lità di conservazione a freddo, che garantisce
l’efficacia dell’azione dell’Omega-3,
3, che altrimenti il calore
ca
porterebbe all’ossidazione.
RILEVO
EDUCAZIONE ALIMENTARE
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Giornata Mondiale del Rene 2014
A cura di : Dott. Andrea Urso- Dietista
Anche quest'anno in qualità di Dietista Socio NUTRIPROF, presso i centri dialisi Diaverum
Taranto, abbiamo aderito all'iniziativa proposta dalla FIR ( Fondazione Italiana del Rene) e
dalla SIN ( Società Italiana Nefrologia).
In Italia ci sono circa 5 milioni di persone con problemi renali e il rapporto cambia da regione
a regione , problemi renali che spesso non si manifestano con sintomi specifici. Il modo
migliore rimane la prevenzione tramite semplici esami di routine e la riduzione di fattori di
rischio.
Tra i fattori di rischio sui quali i professionisti della nutrizione possono intervenire ci sono il
sovrappeso ,
l'obesità , il diabete . Ricordiamo anche che l'alimentazione è fondamentale nel prevenire le
malattie renali insieme ad un corretto stile di vita.
In collobarozione con il dott. Gianfranco Orbello medico nefrologo, il quale ha una spiccata
sensibilità nei confronti dell'importanza dell'alimentazione nelle varie fasi della malattia
reanale e come prevenzione delle stesse , abbiamo valutato circa 70 pazienti.
Nella prima valutazione è stata fatta una anamnesi del paziente tra cui peso, altezza , età ,
BMI , presenza o meno di ipertensione arteriosa ,
utilizzo di farmaci e alcune abitudini alimentari
come l'utilizzo del caffè . Come secondo step la
misurazione
della
pressione
l'esecuzione
dell'esame
urine
arteriosa
tramite
e
test
estemporaneo.
Abbiamo riscontrato circa un 30% con un BMI
superiore a 25 con l'aggravante in alcuni casi della
prensenza di ipertensione ; circa un 7 % di obesità
con BMI superiore a 30 . Tre pazienti obesi
avevano positività al test delle urine con la
presenza di protenuria ; un paziente è risultato
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positivo con ematuria.
Tutti i pazienti con positività all'esame urine
sono stati inviati a consulenza medico-
nefrologica; i pazienti con BMI > 25 sono stati informati sull'importanza di una corretta
alimentazione come prevenzione della malattie renali .
Anche con questa giornata di medicina preventiva si è evidenziato l'insostituibile ruolo dei
professionisti della nutrizione nella malattia renale sia in fase iniziale che in fase sostutitiva (
dialisi).
Ogni sua fase ha bisogno di un adeguamento nutrizionale sia per le diverse necessità
calorico-proteiche sia come supporto alle diverse terapie.
E' auspicabile che ogni paziente con insufficienza renale a qualsiasi stadio possa avere un
consulente esperto nella gestione delle varie fasi dell'insufficienza renale. Tutto ciò con la
stretta collaborazione tra medico di famiglia- medico nefrologo- professionista della
nutrizione ( Medico-Biologo Nutrizionista -Dietista).
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Alimentazione e Dialisi
A cura di : Dott. Andrea Urso- Dietista
I cardini della dieta nella IRC ( insufficienza renale cronica) con terapia sostitutiva ( dialisi)
sono l'apporto delle proteine, il controllo nell'assunzione di alcuni sale (potassio, fosforo,
calcio , sale) ed il controllo nell'assunzione di liquidi, ciò ha come obiettivo l'evitare la
malnutrizione in dialisi.
Cenni sull'emodialisi
L’emodialisi consiste nel portare a contatto
mediante una superficie costituita da una
membrana semipermeabile il sangue del
paziente, da un lato, con una soluzione
opportunamente
preparata
che
viene
chiamata: liquido di dialisi, che scorre
dall'altro lato. La membrana artificiale che si utilizza in emodialisi si chiama filtro e permette
il passaggio d'acqua e di piccole molecole come l'urea e la creatinina ed evita il passaggio di
molecole più grandi (proteine, globuli rossi, ecc. ...).
I filtri sono di varia natura, forma e diversa superficie la loro scelta varia in base alle
caratteristiche del soggetto. Perché l' emodialisi sia efficace è necessario un buon flusso di
sangue, e perciò viene creata una fistola artero-venosa in un braccio mediante un breve
intervento chirurgico in anestesia locale, cioè si collega una arteria con una vena affinché
questa si dilati per la preparazione della fistola è necessario in genere il ricovero per alcuni
giorni. Il paziente deve fare molta attenzione evitando di esporre il braccio con la fistola a
pericoli che possano danneggiarne il buon funzionamento.
Se il paziente deve essere sottoposto ad emodialisi, in attesa che si crei la fistola, è
necessario inserire per un periodo un catetere in una vena di grosso calibro, solitamente la
femorale o un'altra vena centrale, ossia nella piega dell’inguine o ai lati del collo.
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Aspetti nutritivi
Nonostante le moderne tecniche dialitiche, non c'è dubbio che un buon risultato a lungo
termine dipenda anche da un'alimentazione adeguata.
L'inizio della dialisi è un momento delicato della vita del paziente in seguito ai drastici
mutamenti delle abitudini.
Anche l'alimentazione cambia, in alcuni casi, da una dieta povera di proteina (dieta
aproteica) si passa ad una dieta ricca di proteine ma povera di liquidi.
Con la dialisi vengono eliminate sostanze importanti per la produzione delle proteine ed è
necessario quindi introdurre una volta al giorno sostanze come la carne, il pollame, la
selvaggina, il pesce, le uova ed i latticini.
Chiaramente in base ai valori rilevati di fosforo verranno consigliate determinati tipi di cibi
proteici piuttosto che altri.
La dieta deve essere povera o priva di sale per evitare di aumentare i valori della pressione e
un aumento eccessivo di peso.
Il sale aumenta la sete e bevendo anche il peso aumenta, ma è un circolo vizioso da cui è
difficile uscire.
La produzione di urina diminuisce gradatamente ed inesorabilmente, è importante quindi
regolare l'assunzione di liquidi considerando anche quelli contenuti nei cibi ( minestre,
budini, yogurt, frutta e verdura).
Per salvaguardare la salute e il benessere dei pazienti in dialisi si dovrà anche osservare una
dieta con poco contenuto di potassio perché è pericoloso per il cuore, limitando alimenti
come la frutta secca, i succhi di frutta, alcuni ortaggi.
Un'attenzione anche ai sali dietetici perché contengono poco sodio ma spesso molto
potassio.
Durante le sedute dialitiche, se opportuno , vengono rilevati i valori di potassio e sodio in
modo da intervenire con un’alimentazione adeguata nei diversi sensi, questo perché spesso
nei pazienti appena entrati in dialisi o nella malattia del rene policistico si è notata ancora
una buona capacità del rene nell’eliminare il potassio.
Mensilmente o sotto indicazione del medico-nefrologo vengono effettuate le rilevazioni
bioimpedenziometriche pre e post dialisi . In questo modo si valutano le variazioni dell’acqua
ECW – ICW (extra-intracellulare) e le eventuali variazioni del FFM (massa magra).
Un obiettivo nutrizionale nei confronti dei pazienti in dialisi è quello di mantenere stabili le
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masse muscolari per non andare incontro a malnutrizione calorico-proteica.
In conclusione possiamo dire che l’alimentazione è un fulcro per il buon mantenimento
dello stato di salute generale dei pazienti con IRC in terapia dialitica insieme a un’adeguata
efficienza dialitica.
(MILLIGRAMMI PER 100 GRAMMI DI PRODOTTO)
BASSO
MEDIO
ALTO
ALTISSIMO
OLIO DI OLIVA = 0
YOGURT = 160
FAGIOLINI = 256
CASTAGNA =410
THE’ =16
PANE = 160
CILIEGIE = 260
BANANA = 420
BIRRA = 38
PESCA = 160
VITELLO =270
CIOCCOLATO
AL
LATTE = 420
MOZZARELLA =38
ARANCIA = 170
POMODORO = 270
FONTINA = 89
PRUGNA FRESCA = 170 CAROTE = 310
CARCIOFI = 430
EMMENTHAL = 100
CACO = 174
ALBICOCCA = 440
ANGURIA = 100
MELA COTOGNA = 180 PROSCIUTTO CRUDO=340 SCAROLA = 430
MANDARINO = 110
PEPERONI = 186
PROSCIUTTO COTTO = 348 TROTA = 470
MELA = 116
MELANZANA = 190
SOGLIOLA =335
FUNGHI = 500
PARMIGGIANO = 116 FICO FRESCO = 190
POLLO = 350
SARDINA = 560
UOVO =135
POMPELMO = 198
MAIALE = 330
FINOCCHI = 560
LATTE = 139
ZUCCHINE = 200
MANZO = 370
SPINACI = 662
LATTUGA = 140
MELONE = 230
PISELLI = 370
ARACHIDI = 668
CETRIOLO = 140
GAMBERI = 239
VITELLONE = 330
DATTERI = 790
FRAGOLA = 145
SALSICCIA = 230
CIOCCOLATO = 380
CACAO =900
ASPARAGI = 240
SALMONE = 390
LENTICCHIE = 1200
ANGUILLA = 240
CAVOLFIORE = 400
FAGIOLI FRESCHI =
SALAME = 310
PATATE = 430
650
CAVOLO VERZA = 240
CICORIA = 400
FAGIOLI SECCHI =
1300
CIPOLLA = 250
RADICCHIO = 400
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SOIA = 1900
Bibliografia
1.Vincenzo Corcione Francesco Panico . L’alimentazione nel paziente nefropatico basi razionali e
principi dietetici . Casa editrice Masson 2003
2. Toigo G. Nutrizione nell’ insufficienza renale .Manuale di nutrizione artificiale , Masson 1993
3. D’invernois J, Gagnaire R : Educare il paziente. Guida all’approccio medico-terapeutico. Milano
mediserve 1998
4. Gianfranco Guarnieri . Dietetica e nutrizione clinica . Biblioteca medica Masson 1998
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La Sindrome Lipodistrofica HIV-correlata. Aspetti
metabolici e morfologici
A cura di: Dott.ssa Bruzzone Francesca – Dietista
Negli ultimi anni, sempre più frequentemente, nei pazienti affetti da infezione da HIV e in
trattamento con farmaci antiretrovirali, è stato osservato un complesso quadro clinico e
laboratoristico, comprendente due aspetti essenziali: l’alterazione di alcuni parametri
metabolici e la variazione nella distribuzione del tessuto adiposo. Tale condizione viene
definita Sindrome Lipodistrofica, ovvero “alterazione della normale crescita del tessuto
adiposo”.
Esistono lipodistrofie da accumulo (caratterizzate dall’aumento del tessuto grasso in siti tipici
quali addome, seno, zona retronucale e retroperitoneale), lipoatrofie (in cui si assiste a una
deplezione del tessuto adiposo sottocutaneo dai distretti periferici e quindi, a livello di arti,
fianchi e natiche) e forme miste.
Per quanto riguarda le alterazioni metaboliche, le possibili modificazioni che si propongono
sono date dall’aumento dei livelli plasmatici dei trigliceridi e del colesterolo totale, dalla
diminuzione della frazione HDL, dall’iperglicemia e dalla resistenza all’insulina, che
rappresenta il danno metabolico più frequentemente annesso alla Sindrome Lipodistrofica.
Questi valori possono essere alterati tutti o solo in parte e non sempre si correlano ad un
cambiamento delle forme corporee, in quanto per fare diagnosi di Lipodistrofia non è
necessario che le due condizioni coesistano.
Il ruolo dei farmaci antiretrovirali nella patogenesi della Sindrome Lipodistrofica HIVcorrelata è noto solo in parte ed è comunque ipotizzabile che alla terapia farmacologica si
uniscano fattori ambientali e comportamentali che svolgono un’azione predisponente o
aggravante della malattia. Tra questi, incidono l’appartenere alla razza caucasica, l’età, l’aver
contratto il virus dell’HIV per via sessuale, la durata del trattamento antiretrovirale, le
caratteristiche familiari, lo stile di vita, la storia ponderale ed il sesso. La lipodistrofia da
accumulo, infatti, sembra essere complessivamente più frequente nelle donne, mentre negli
uomini si verificano più soventemente perdita di grasso periferico e alterazioni metaboliche
quali ipertrigliceridemia, ipercolesterolemia ed iperglicemia.
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Nella pratica clinica corrente, alcuni farmaci sono stati implicati nello sviluppo della
lipoatrofia, mentre altri sono stati reputati
reputati artefici del processo ipertrofico. Della prima
categoria fanno parte sicuramente gli Inibitori Nucleosidici della Transcriptasi Inversa (NRTI),
fra cui si annoverano Zerit (d4t), Zidovudina (Retrovir) e Videx (ddI);
( ); mentre gli Inibitori delle
Proteasi (PI)
I) sembrano appartenere al secondo gruppo.
In trattamento con gli NRTI, inoltre, i trigliceridi ed il colesterolo tendono ad aumentare in
modo modesto, i test di funzionalità epatica sono spesso alterati, i valori di insulina e
peptide C sono generalmente nella norma; mentre con l’assunzione di Inibitori della Proteasi
accade il contrario: i test di funzionalità epatica sono raramente alterati, trigliceridi e
colesterolo aumentano maggiormente, insulina e peptide C sono per lo più elevati.
Anche nell’ambito
o delle singole categorie, però, esiste una differente gradualità di azione
iatrogena, infatti, le lipoatrofie più gravi sembrano dovute ai cosiddetti “d-drugs”,
“
come d4t,
ddI e ddC.
Trattamento della sindrome lipodistrofica
Gli obiettivi della terapia per la Sindrome Lipodistrofica mirano a tre outcomes: la correzione
del danno morfologico, la riduzione del rischio cardiovascolare e il miglioramento delle
condizioni psicologiche associate alla distorsione dell’immagine corporea e può avvalersi di
d
modificazioni della dieta e dell’attività fisica, di farmaci, della chirurgia plastica e di sostegno
psicologico.
Per quanto riguarda l’alimentazione sono fortemente sconsigliati regimi dietetici provocanti
un rapido calo ponderale, onde evitare la comparsa
comparsa o l’aggravamento della lipoatrofia e della
situazione epatica solitamente già compromessa nei pazienti affetti da infezione da HIV.
La terapia dietetica della Sindrome Lipodistrofica è analoga a quella per la Sindrome
Metabolica e collima con le “Linee
“Linee Guida ATP III (Adult Treatment Panel III)” e con quelle
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fornite dal “National Cholesterol Education Program”, in modo da ridurre il rischio
cardiovascolare e assicurare al soggetto un miglior controllo dei parametri ematici e del
peso.
Bibliografia
•
P. Binetti, M. Marcelli, et al. – Manuale di Nutrizione Clinica e scienze dietetiche
applicate- Società Editrice Universo, 2011 (sesta ristampa)
•
F. Dianzani, G. Ippolito, et al. - AIDS in Italia 20 anni dopo – Masson, 2004
•
M. Borderi - La Sindrome Lipodistrofica. Classificazione, patogenesi e terapia- Il
pensiero scientifico editore, 2001
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Autismo - Un collegamento fra malattia, alimenti e
metalli pesanti
A cura di Dott.ssa Federica Tomasich-Biologa Nutrizionista e Dietista
Risale ormai al 1970 la scoperta dell’esistenza di un nesso causale fra glutine, caseina ed
autismo, emersa sia da studi che da osservazioni di bambini che presentavano i Disturbi
dello Spettro Autistico (DSA). Questi bambini non sono in grado di demolire tali proteine,
determinando la formazione di peptidi oppioidi (aminoacidi simili alle proteine) che,
sfruttando la “sindrome dell’intestino permeabile”, della quale sono affetti, permette il
passaggio di tali peptidi dapprima nelle membrane intestinali al flusso sanguigno, fino ad
arrivare al cervello, causando i noti sintomi neurocomportamentali tipici del DSA.
Nei bambini in cui è stata consigliata una alimentazione priva di alimenti contenenti sia
caseina che glutine, sono stati registrati notevoli miglioramenti comportamentali. Tale dieta
deve essere sempre accompagnata anche da una terapia chelante che disintossichi dai
metalli pesanti, anch’essi correlati all’autismo, come ad esempio: mercurio, piombo, cadmio,
cobalto, arsenico, rame e nickel. (Studio dal titolo “Evidenza di tossicità, stress ossidativo e
insulto neuronale nell’autismo”, effettuato dall’Università di Psichiatria Texas Southwestern
Medical Center at Dallas e pubblicato dalla rivista “Toxico Enviroment Health num. nov/dic
2006”, tradotto per Italia da GCA AREA ONLUS).
I metalli sono contaminanti diffusi nell’ambiente, in particolar modo nelle acque. Infatti una
grossa fetta di responsabilità pare che sia proprio dovuta al mercurio presente nel pesce, sia
di piccole che di grandi dimensioni (ad esempio salmone, merluzzo, tonno).
La determinazione della presenza di mercurio su questi bambini viene effettuata attraverso
l’analisi del capello; presso il Centro di Recupero Autismo è emerso che il gruppo che non
mangia pesce ha livelli di mercurio significativamente molto più bassi rispetto al gruppo che
ha continuato a mangiare pesci piccoli.
Tratto da: Autism and Mercury in Fish – (Autism Nutrition Nutritional & biomedical support
for children with autism).
Altri studi fondamentali per allargare le attuali conoscenze su metalli tossici e autismo sono:
Holmes et al. (2003) e Bradstreet et al. (2003). In tali studi sono emerse due evidenze
scientifiche: i bambini con autismo erano maggiormente esposti al mercurio (consumo di
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pesce, vaccini e amalgame delle madri), ma anche non in grado di eliminarlo attraverso le vie
di detossificazione.
L’Autism Research Institute (ARI) di San Diego, sorto nel 1967, afferma la tesi che l’autismo
non è patologia neurologica, come invece si è sempre sostenuto, bensì deriva da uno
scompenso biochimico causato da una debolezza genetica che rende tali bambini predisposti
incapaci di rimuovere metalli pesanti, introdotti attraverso vaccini, amalgame e sostanze
inquinanti presenti nell’ambiente. Ed è lo scompenso biochimico a causare lo scompenso
neurologico, con perdita ed alterazione delle abilità neuronali.
Per frenare la crescita epidemica di questa malattia, grave e di ancora difficile trattazione, è
necessario chiederci quali siano le cause, concause ed influenze ambientali e alimentari che
ne favoriscono la diffusione. Glutine, caseina, metalli pesanti, vaccini, pesce, amalgame
dentarie, rispettando maggiormente sia l’ambiente che il nostro organismo con una corretta
divulgazione delle informazioni scientifiche, abbiamo in mano tutti gli strumenti per decidere
della nostra salute e del nostro benessere.
Riferimenti
http://www.vegetariani-roma.it/veganismo-2/glutine/579-autismo-correlato-a-glutine,caseina,-pesce,-vaccini,-metalli-pesanti.html
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Melagrana e Salute
A cura di Dott. Danilo Azara -Biologo Nutrizionista
La melagrana è un frutto antico,
mistico e distintivo, ed è stato già
descritto in antichità come un
frutto sacro con poteri benefici per
la fertilità, l’abbondanza e la
fortuna. Oltre all’ambito storico, la
melagrana viene usata anche per la
cura di varie malattie in diverse
tipologie di medicina. La medicina
Ayurveda, per esempio, considera
la melagrana come un farmaco
adeguato per la cura dei parassiti,
della diarrea, delle ulcere e considera che possiede un carattere depurativo.
L’attuale interesse nei confronti delle proprietà benefiche della melagrana ha avuto inizio nel
2000 e, da quel momento, sono stati condotti moltissimi studi in cui si descrivono i suoi
effetti benefici per la salute dell’uomo. Le proprietà potenzialmente terapeutiche della melagrana sono piuttosto varie e comprendono trattamenti e cure preventive contro tumori,
malattie cardiovascolari, Alzheimer, malattie infiammatorie, malattie orali e cutanee,
obesità, disfunzioni erettili o diarrea.
La melagrana contiene diversi composti bioattivi come i polifenoli, i flavonoidi e acidi grassi
insaturi (linolenico, linoleico, punico ecc). Tra i composti fenolici più importanti troviamo gli
acidi ellagico e gallico, la punicalina, la pedunculagina e la punicalagina. Grazie alla ricchezza
di composti biologicamente attivi è considerata un alimento funzionale. Gli antociani sono i
composti responsabili del colore rosso delle melegrane e svolgono una spiccata azione
antiossidante e possono quindi proteggere il corpo dai radicali liberi e ritardare
l’invecchiamento delle nostre cellule. Infatti i radicali liberi dell’ossigeno (ROS), molecole
estremamente reattive, che si formano normalmente durante il metabolismo cellulare
costituiscono un serio pericolo per la nostra salute in quanto possono danneggiare vari
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organi e tessuti quali l’apparato cardiocircolatorio, il sistema nervoso e il sistema
immunitario. In condizioni normali il nostro organismo riesce a neutralizzare questi agenti
ossidanti grazie al sistema enzimatico antiossidante, ma, quando la loro produzione aumenta
e diminuiscono le capacità di difesa, l’eccesso di radicali liberi può causare lo sviluppo di
molteplici processi patologici, in particolare malattie di carattere degenerativo come
Alzheimer, Parkinson, Artrosi e cancro. Inoltre, il ritmo frenetico della vita attuale,
l’inquinamento ambientale, il fumo, le radiazioni e le sostanze chimiche presenti negli
alimenti mettono a dura prova i nostri sistemi di difesa antiossidanti. Un valido aiuto può
essere dato dal consumo di prodotti antiossidanti. La melagrana possiede una più alta
concentrazione di antiossidanti rispetto ad altri frutti quali agrumi, mirtilli e uva.
In uno studio condotto da Albretch et al. (2004) è stato valutato l’effetto dell’olio di melagrana, dei polifenoli della buccia e delle membrane e dei polifenoli del succo fermentato sul
tumore alla prostata. Tutti questi agenti separatamente frenavano la proliferazione in vitro
di cellule tumorali umane dimostrando così un’evidente attività antitumorale dei prodotti
derivati dalla melagrana sul tumore alla prostata. Un altro studio del 2005 condotto Seeram
et al. ha descritto l’ attività antiproliferativa del succo di melagrana su diverse linee cellulari
tumorali. Il succo di melagrana e i prodotti derivati possiedono un effetto benefico sulle
malattie tumorali grazie all’elevato contenuto di composti quali le antocianine, l’acido
ellagico e la punicalagina che inducono l’apoptosi (forma di morte cellulare geneticamente
regolata) delle cellule tumorali. Va ricordato comunque che in tutti i casi studiati si parla di
prevenzione e trattamento, in nessun caso di cura del cancro o del tumore.
Dato che la prevenzione è sempre la migliore strategia il consiglio è quello di iniziare a
consumare questo straordinario frutto per vivere meglio e invecchiare più tardi.
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IL Falso Mito del Colesterolo “Cattivo”
A cura di Dott. Danilo Azara -Biologo Nutrizionista
Negli ultimi trent’anni la comunità scientifica mondiale ha puntato il dito contro il
colesterolo, imputandolo come uno dei maggiori responsabili nell’insorgenza di malattie
dell’apparato cardiovascolare. Sono state condotte imponenti campagne di sensibilizzazione
finalizzate alla forte limitazione dei grassi introdotti con la dieta e all’utilizzo di farmaci per
abbassare i livelli di colesterolo. Nonostante tutte queste “precauzioni” pare che sempre più
persone si ammalino e muoiano ogni anno a causa di tali patologie.
Cosa è il colesterolo?
Il colesterolo è una molecola che fa parte della classe degli steroli e riveste un ruolo vitale
per la nostra esistenza. È un componente essenziale delle membrane cellulari, è il precursore
degli ormoni steroidei (aldosterone, testosterone, cortisolo, estradiolo ecc.), è coinvolto
nella crescita e nella divisione cellulare, regola lo scambio di sostanze messaggere tramite la
membrana cellulare e viene impiegato per la produzione dei Sali biliari. Circa il 75% del
colesterolo totale presente nel nostro corpo viene sintetizzato dalle nostre cellule e
solamente il 25% deriva da ciò che mangiamo.
Dunque perché quando si parla di colesterolo lo si identifica spesso come “cattivo”?
Secondo alcuni esperti considerare il colesterolo come un
nemico è uno dei più gravi errori che la comunità medica
abbia mai commesso. Il colesterolo è buono (per quale
motivo il nostro organismo dovrebbe produrre una
sostanza pericolosa per la nostra stessa salute?) e la
distinzione tra colesterolo “buono” e colesterolo
“cattivo” deve essere considerata assolutamente errata.
Recenti studi hanno ipotizzato che il principale problema alla base dello sviluppo di gran
parte delle malattie cardiache è l’infiammazione che colpisce le pareti dei vasi sanguigni. In
altre parole, se l’infiammazione nel nostro corpo è bassa, non c’è modo che il colesterolo si
accumuli sulla parete del vaso sanguigno causando così ispessimento che porta a malattie
19
cardiache e ictus. Senza infiammazione, il colesterolo è libero di muoversi in tutto il corpo
senza problemi per la nostra salute. Le costanti abitudini alimentari errate come l’eccessivo
consumo di zuccheri, di olii vegetali idrogenati e di alimenti processati industrialmente
possono causare un aumento dello stato infiammatorio che il nostro organismo non tollera,
e, a lungo andare, può causare una cronicizzazione di questo processo ponendo le basi per la
formazione di lesioni sulle pareti dei vasi sanguigni e il conseguente accumulo di colesterolo.
I consigli dietetici per ridurre i livelli di colesterolo hanno causato un aumento esponenziale
dell’obesità, del diabete e, strano ma vero, delle malattie cardiache. Questo è dovuto al fatto
che i grassi animali sono stati sostituiti dai grassi vegetali (prevalentemente omega-6), dai
carboidrati ad alto indice glicemico (zucchero, farine raffinate e alimenti processati) e da
alimenti contenenti elevate quantità di sostanze chimiche. L’eccesso di omega-6 provoca la
formazione, da parte delle membrane cellulari, di citochine proinfiammatorie che
contribuiscono ad aumentare lo stato infiammatorio dell’organismo. Per decenni ci siamo
alimentati con grandi quantità di cibi confezionati, ricchi di zuccheri, di grassi idrogenati, di
conservanti e coloranti e tutto ciò ha portato a un danno enorme per la salute della
popolazione mondiale. L’uso smisurato di questo cibo spazzatura ha sostituito il consumo di
alimenti naturali e salutari quali verdura, frutta, carne, pesce, uova, frutta secca, olio
extravergine di oliva, avocado, cocco, ecc. I grassi animali sono stati considerati come una
delle principali cause dell’insorgenza di malattie cardiache ma può fare riflettere il fatto che
alcune popolazioni che si nutrono quasi esclusivamente di prodotti animali come gli Inuit
delle regioni polari o i Masai delle steppe africane non soffrono di patologie cardiache come
europei e statunitensi. Questo può farci capire che in assenza di altri fattori di rischio quali
l’inquinamento, il cibo spazzatura, il fumo di sigaretta, la sedentarietà e quindi un basso
stato di infiammazione dell’organismo, l’alto livello di colesterolo non può essere ritenuto un
fattore di rischio per lo sviluppo di patologie cardiocircolatorie. Per questo motivo occorre
rivalutare e mettere in dubbio le vecchie teorie e cercare di risolvere il problema alla base,
magari partendo da uno stile di vita più sano e un’ alimentazione più naturale.
20
La Disbiosi Intestinale
A cura di Dott.ssa Letizia Antonia D’Alessandro - Nutrizionista
La microflora intestinale costituisce un ecosistema
complesso il cui equilibrio è mantenuto dai rapporti
tra le varie componenti del sistema. Infatti, in
condizioni di normalità (eubiosi), i germi simbionti
sono in rapporto a quelli potenzialmente patogeni
nell’ordine di molte migliaia a uno. Alterazioni
quantitative e/o qualitative di questo assetto
determinano il fenomeno della DISBIOSI INTESTINALE, che ha come conseguenza un
aumentato tasso di tossine in circolo e in tutti i settori dell’organismo, con progressivo
danno a carico di tutti i principali organi. In particolare la riduzione dei simbionti provoca un
deficit della secrezione di IgA con ulteriore diminuzione dell’effetto protettivo della barriera.
Infatti quando il colon non è in condizioni ottimali di funzionalità, altri organi devono
sopperire all’eliminazione di tossine (organi emuntori).
A livello del fegato si instaurerà un sovraccarico (piccola insufficienza epatica) che può
manifestarsi con dispnea, sonnolenza post-prandiale, cefalea, candidosi intestinale e lieve
depressione.
Anche la pelle può sopperire all’insufficiente funzione di eliminazione del colon e allora si
potrà instaurare una dermatosi e, in caso di intolleranza alimentare, eczemi atopici o
sindromi orticarioidi.
Per lo stesso motivo a livello dell’apparato respiratorio ci potrà essere un maggior carico
catarrale con la possibilità di evoluzione verso la sinusite o una bronchite, o sfociare in
un’oculorinite allergica o un’asma bronchiale in soggetti predisposti.
Anche i reni in questa situazione possono venir sottoposti ad un superlavoro favorendo,
sempre in soggetti predisposti, l’instaurarsi di un processo che può portare alle artropatie
degenerative (maggior ritenzione di urati).
Anche a livello delle vie urinarie possono instaurarsi delle situazioni patologiche quali cistiti
ricorrenti di origine intestinale
21
Le cause di disbiosi possono essere molteplici, le quali, a grandi linee, possono essere
suddivise in dirette e indirette. Le cause dirette sono riconducibili a:
− alimentazione scorretta, specie se ricca di carni, grassi e zuccheri raffinati, alimenti,
questi, alla base di tante malattie degenerative e neoplastiche del colon;
− intolleranze alimentari, ossia quel particolare tipo di reazioni avverse agli alimenti in
cui i cibi comuni quali grano, latte, pomodoro, etc. possono determinare (o incorrere
a) una data patologia mediante alterazione dell’assorbimento delle molecole a livello
intestinale;
− trattamenti antibiotici prolungati, i quali, specie se ad ampio spettro di azione,
distruggono
quasi
certamente
i
germi
patogeni
ma
annientano,
inevitabilmente,anche quelli utili all’organismo;
− contaminazioni alimentari da fertilizzanti e conservanti;
− eccesso di fumo e di alcool, abuso di lassativi e tranquillanti;
− mancanza di moto;
− rallentamento della peristalsi intestinale, quale si ha nelle stipsi croniche, che
provoca uno spostamento del pH del colon verso l’alcalinità e una prevalenza dei
fenomeni putrefattivi legati al catabolismo proteico.
Le cause indirette sono in effetti riconducibili ad uno stato di stress continuativo per:
− attività lavorative frenetiche che non prevedono il giusto tempo per il riposo;
− forti emozioni;
− sbalzi termici bruschi e viaggi lunghi e faticosi che costringono il nostro organismo ad
adattarsi in tempi brevi a nuove situazioni. Non bisogna dimenticare, infatti, come si
è a lungo dimostrato nella parte introduttiva di questa tesi, che l’intestino è di fatto
“il cervello enterico inferiore o secondo cervello”.
Dal momento che, soprattutto nei paesi industrializzati, lo stress è purtroppo una situazione
ormai connaturata alla vita moderna, la disbiosi intestinale costituisce oggi un vero e proprio
problema sociale. Infatti è risaputo oggi che sintomi spiacevoli come colonpatie, stipsi,
gonfiori addominali, meteorismo, flatulenza, diarrea, etc. interessano moltissime persone
fino a condizionarne a volte l’esistenza.
Tutta questa sintomatologia può essere riconducibile ad un quadro di disbiosi lieve, in cui si
hanno ripercussioni solo a livello degli organi dell’apparato gastroenterico.
22
Un livello successivo è quello della disbiosi media in cui si ha il coinvolgimento dell’apparato
urogenitale con fenomeni quali: alitosi, micosi intestinale, candidosi vaginale, cistiti croniche,
prostatiti croniche.
Nella disbiosi grave, in cui si verifica la disseminazione tossinica a carico di quasi tutti gli
apparati e gli organi, si riscontra tutta un’altra serie di disturbi a carattere generale che a
prima vista sembrano non avere nessuna relazione con l’intestino ma che sono in relazione
ad un incessante lavoro di detossificazione messo in atto dall’organismo: abbassamento
delle difese immunitarie, affezioni cutanee, cefalea frontale, invecchiamento della pelle,
stanchezza cronica, ansia, depressione, dolori articolari.
Infine ricordiamo la più intuibile correlazione esistente tra disbiosi intestinale e il forte
aumento statistico di alcune gravi patologie del colon (diverticoli, polipi, retto colite
ulcerosa, tumori, etc.).
Queste problematiche, tuttavia, sono spesso sottovalutate e attualmente la loro presenza
viene diagnosticata in una percentuale trascurabile dei casi, per quattro motivi:
1. i sintomi che possono dare sono molto variabili, ed è molto difficile riconoscere un
quadro diagnostico specifico;
2. a livello mondiale, per ragioni spesso culturali, non viene data importanza a questo
fenomeno, e raramente i medici ne hanno competenze approfondite;
3. esistono pochi laboratori attrezzati per i test delle micosi e dei vari parassiti, e i
protocolli usati a volte risultano inefficaci;
4. per quanto riguarda i parassiti bisogna osservare che la loro vita si svolge in molte
fasi, e in generale si rilevano dalle analisi solo nella forma adulta, che è rilevabile
nelle feci o nell'area perianale solo per breve tempo.
Tuttavia, il forte legame tra intestino e sistema immunitario rende necessaria una maggiore
attenzione alla valutazione della presenza di tali organismi; infatti la loro subdola azione
causa stati sub-patologici che se protratti nel tempo possono portare al conclamarsi di vere e
proprie malattie.
23
La “permeabilità intestinale” e la sua correlazione con
malattie infiammatorie ed autoimmunitarie
A cura di Dott.ssa Barbara Chiarulli - Dietista
Introduzione
L'alterazione della permeabilità intestinale, detta anche in U.S.A. (ove è maggiormente
conosciuta e studiata) "leaky gut syndrome", è oggi fortemente sospettata di essere l'origine
di varie patologie quali: morbo celiaco, malattia di Crohn,
eczema atopico, problemi
digestivi, fatica cronica, allergie alimentari, intolleranze alimentari, asma, emicrania, artrite e
in generale tutte le malattie autoimmuni.
Questo nuovo scenario sovverte i tradizionali meccanismi patogenetici che sono stati
teorizzati per le malattie infiammatorie, autoimmunitarie e anche neoplastiche.
Molte ricerche dimostrano che una permeabilità intestinale patologica può essere
seriamente dannosa per la salute: per esempio le proteine più grandi possono attraversare
la parete intestinale ed entrare in circolo; quando questi peptidi entrano nel sangue,
diventano i bersagli delle immunoglobuline circolanti che formano complessi immunitari che
penetrano nei vari tessuti, dove possono provocare infiammazione e vari processi
degenerativi. Inoltre questa maggiore permeabilità permette anche a tossine, batteri, funghi
e parassiti, che in condizioni normali non potrebbero passare, di superare la barriera
protettiva ed entrare nel sangue. Se la quantità di queste sostanze supera la normale
capacità detossificante del fegato si creano varie sintomatologie, tra cui: confusione, perdita
di memoria, mente annebbiata, sudorazioni improvvise. Insomma, è difficile mantenersi in
buona salute senza mantenere una permeabilità intestinale equilibrata e normale.
In questa tesina mi preme parlare del meccanismo che è stato evidenziato dal Dott. Alessio
Fasano che vede come protagonista principale una proteina la zonulina come modulatore
fisiologico delle giunzioni strette intercellulari dell’epitelio intestinale che sappiamo essere
coinvolto nel traffico di macromolecole e, quindi , nella tolleranza e nell’equilibrio della
risposta immunitaria.
24
Le giunzioni strette dell’intestino e la scoperta della zonulina.
L’epitelio intestinale è provvisto di giunzioni serrate , dette Tigh Junction ( TJ, Fig.1), che
svolgono una funzione sigillante, ossia uniscono le due cellule adiacenti senza lasciare
interstizi, in modo che le molecole idrosolubili non filtrino facilmente tra una cellula e l'altra;
se una molecola deve passare dal lume intestinale all’interno dell’organismo o passare da
cellula a cellula deve sottostare necessariamente all’azione di vaglio dei dispositivi di
controllo della cellula.
Mentre la nostra conoscenza sulla ultrastruttura delle TJ e sugli eventi di segnalazione
intracellulare ha compiuto progressi significativi nell'ultimo decennio , relativamente poco si
sa sulla loro regolazione fisiopatologica secondaria dettata da stimoli extracellulari. Di
conseguenza , i meccanismi patogenetici di malattie, in cui le TJ sono colpite, sono rimasti
inesplorati a causa della limitata comprensione della segnalazione extracellulare coinvolta
nella regolazione delle TJ.
Su questi nuovi meccanismi cercano di fare luce il Dott. Fasano e la sua equipe, i loro studi
iniziano notando come una tossina diretta sulla zonula occludens (ZOT), prodotta dal
vibrione del colera, aprono reversibilmente le TJ. Successivamente viene trovata la proteina
omologa alla ZOT , che viene chiamata “zonulina”. Essa risulta essere un precursore
dell’aptoglobina2 , una molecola antichissima prodotta solo dalla specie umana che innesca
una serie di modificazioni che conducono al riarrangiamento del citoscheletro, con
conseguente segnale di apertura delle TJ.
25
Fig.1 Composizione delle giunzioni strette intercellulari (TJ)
La struttura ed i componenti delle giunzioni strette intercellulari possono essere classificati in proteine integrali
di membrana (occludina, claudine, e JAM), in un complesso proteico giunzionale (ZO-1, ZO-2, P130 o ZO-3, 7H6,
symplekin, cingulin), e in
strutture del citoscheletro cellulare (microtubuli, filamenti intermedi,
e
microfilamenti)
Il ruolo fisiologico del sistema “zonulina” deve ancora essere ben compreso ma sembra
comunque essere coinvolto in diverse funzioni , tra cui la regolazione dello spostamento dei
fluidi, macromolecole, e leucociti tra il flusso sanguigno e il lume intestinale e viceversa,
dove sono coinvolte le TJ. Un altro possibile ruolo della zonulina è la protezione contro la
colonizzazione di microrganismi a livello dell'intestino prossimale (immunità innata ).
26
Il ruolo della zonulina nelle malattie autoimmunitarie
Celiachia (CD)
La celiachia è una enteropatia cronica immunomediata e presenta un'ampia gamma di
manifestazioni con gravità variabile . Questa patologia è innescata, in soggetti
geneticamente predisposti, dall’ ingestione di gliadina, una frazione del glutine che
ritroviamo in diversi cereali come frumento, orzo e segale. All’ingestione della gliadina segue
una
reazione immunitaria che porta ad un’ infiammazione intestinale che porta alla
distruzione dei villi intestinali causando un sindrome da malassorbimento che comporta il
passaggio della celiachia al livello di una malattia sistemica e non solo rivolta all'intestino . Si
tratta di un malattia genetica complessa , e lo stato dell’ HLA sembra essere il forte
determinante genetico di rischio per celiaci autoimmunità . Il glutine è una molecola
complessa fatta di gliadina e glutenine , entrambi tossici per i pazienti celiaci . Il repertorio
dei peptidi derivati dal glutine coinvolti nella patogenesi della malattia è uno dei maggiori
mai stato rilevato in precedenza , con almeno 50 epitopi tossici esercitando un’azione
citotossica , immunomodulatrice e regolatrice sulla permeabilità intestinale . Queste attività
sono state parzialmente mappate a domini specifici della alfa- gliadina, tra i più rilevanti
troviamo: il peptide relativo alla citotossicità è il peptide “31-43” , quello dell’attività
immunomodulatoria risiede nel peptide 57-89 ( 33 - mer) , il peptide CXCR3-binding e il
peptide deputato al rilascio della zonulina sono i peptidi 111-130 e 151-170 , e infine il
peptide responsabile del rilascio del IL8 , 261-277. Un’analisi quantitativa effettuata con l’
immunoblotting, su tessuti lisati intestinali di pazienti celiaci attivi, conferma l'aumento della
proteina zonulina rispetto ai tessuti di controllo . Rispetto ai soggetti sani, i soggetti con
celiachia avevano maggiori concentrazioni sieriche di zonulina (p <0.000001) durante la fase
acuta della malattia che poi sono diminuite a seguito di una dieta priva di glutine. In base a
questi dati ed alla mappatura degli epitopi della gliadina descritti sopra, viene ipotizzata la
seguente sequenza di eventi (Fig.2): dopo l'ingestione orale, la gliadina interagisce con la
mucosa del piccolo intestino causano la liberazione di IL-8 richiamando a livello della lamina
propria, con una risposta immediata, i neutrofili. Allo stesso tempo i peptidi 111-130 e 151170 iniziano a causare l’alterazione della permeabilità intestinale innescando il rilascio della
zonulina MyD88-dipendente scatenato a sua volta dal legame con CXCR3. Ciò comporta
27
l’alterazione della permeabilità intestinale con l’apertura delle TJ e passaggio della gliadina
per via paracellulare che quindi interagisce con i macrofagi all’interno della sottomucosa
intestinale liberando citochine pro infiammatorie di tipo Th1, TNFα e Interferoneγ che
continuano ad alterare la permeabilità della barriera intestinale dopo l’innesco dato dalla
zonulina. In individui geneticamente predisposti ciò consente l’attivazione dei linfociti T
conducendo alla risposta immunitaria specifica che causerà l’insulto autoimmunitario della
mucosa intestinale osservato nei pazienti celiaci.
Fig.2
Meccanismi di rilascio gliadina indotto zonulina , aumento della permeabilità intestinale , e la
comparsa di autoimmunità .Con la digestione della gliadina si ha il rilascio del peptide legante il CXCR3 che
avvia al rilascio della zonulina attraverso il pathway MyD88 -dipendente (2). Con il rilascio di zonulina si ha
successivamente la transattivazione dell'EGFR da PAR2 che comporta l’apertura delle TJ e quindi l’aumentata
permeabilità del piccolo intestino TJ (3) . L' aumento della permeabilità intestinale permette agli antigeni nonself (compresa la gliadina) di attraversar la lamina propria ( 4 ) , e quindi processati dai macrofagi e presentati ai
linfociti T da molecole HLA - DQ , - DR (5) . La presentazione di uno o più peptidi della gliadina conduce
all'abrogazione della tolleranza orale con un marcato aumento della risposta immunitaria periferica alla
28
gliadina. Inoltre, le cellule dendritiche caricate di gliadina migrano dal piccolo intestino per via mesenterica ai
linfonodi pancreatici (6) dove presentano gli antigeni gliadina - derivati . Questa presentazione porta alla
migrazione delle cellule T specifiche CD4 e CD8 responsabili dell’infiammazione verso l'organo bersaglio
(intestino e / o pancreas ) (7) . L’ attuazione di una dieta priva di glutine o con trattamento con l' inibitore della
zonulina AT1001 ( 8) impedisce l' attivazione della zonulina e , quindi, del processo autoimmune che ha come
target le cellule intestinali o pancreatiche .
DIABETE DI TIPO 1
Il diabete di tipo 1 è una malattia autoimmune ,talvolta associata a malattie che sono
caratterizzate da caratteristiche immunologiche marcate , come la celiachia e tiroiditi. I
sintomi gastrointestinali nel diabete mellito sono stati generalmente attribuite ad
un’alterata motilità intestinale secondaria a neuropatia autonomica. Tuttavia, altri studi
suggeriscono che un aumento della permeabilità intestinale potrebbe essere responsabile
sia per l'insorgenza della malattia stessa sia per i sintomi gastrointestinali che hanno spesso
questi pazienti . Questa ipotesi è supportata da un primo studio condotto su animali
spontaneamente diabetici. Gli autori di questo studio hanno evidenziato un aumento della
permeabilità del piccolo intestino nel periodo precedente, almeno un mese, alla comparsa
del diabete. Inoltre, l’indagine istologica evidenzia che la distruzione delle isole pancreatiche
non si manifesta al momento dell’aumentata permeabilità ma si presenta chiaramente in un
secondo momento. L’equipe del Dott. Fasano conferma questi dati riportando nella stesso
modello murino un aumento
della permeabilità intestinale zonulina –dipendente 2-3
settimane antecedenti all’insorgenza del diabete.
Interessante è stato l’effetto dato dalla somministrazione orale di un inibitore della zonulina
suggerendo che la perdita della funzione della barriera intestinale zonulina-dipendente è
uno dei primi passi nella patogenesi del diabete di tipo 1, almeno nel modello animale
studiato . Il coinvolgimento della zonulina nel diabete di tipo 1 patogenesi è stata
confermata da studi sugli esseri umani mostrando che circa il 50% dei pazienti diabetici di
tipo uno hanno nel siero elevati livelli di zonulina che correlano con l'aumento della
permeabilità intestinale. In questi studi viene anche notato che una percentuale minore ( ~
25 % ) dei familiari dei soggetti con T1D non erano diabetici ma comunque risultavano aver
aumentati i livelli di zonulina
nel siero e un aumento della permeabilità intestinale,
29
suggerendo che la perdita di funzione della barriera intestinale è necessaria ma non
sufficiente per l'inizio del processo autoimmune.
Si aggiungono diversi studi che collegano la gliadina come fattore ambientale scatenante il
processo autoimmunitario per il diabete di tipo 1 sia in modelli animali sia in modelli umani.
Nel 2009 uno studio ha riportato un collegamento diretto tra gli anticorpi per la Glo- 3A
(una proteina del grano) , l’ upregulation della zonulina e l’ autoimmunità nei bambini con
aumentato rischio di diabete di tipo 1 rilevando come il rischio all’insorgenza del diabete di
tipo 1 è correlato ai livelli degli anticorpi Glo-3A che risultano essere inversamente associati
con la durata di allattamento al seno e direttamente associati con l’assunzione frequente di
cibi contenenti glutine.
MALATTIE INFIAMMATORIE INTESTINALI
Il morbo di Crohn e la colite ulcerosa sono malattie infiammatorie che coinvolgono il tratto
gastrointestinale in cui i difetti della permeabilità intestinali precedono lo sviluppo di
entrambe le sindromi e, quindi , sembrano svolgere un importante ruolo nella patogenesi
della malattia. La patogenesi della malattia infiammatoria intestinale ( IBD ) rimane
sconosciuta , anche se negli ultimi anni ci sono prove convincenti di implicare fattori genetici
, immunologici , ambientali nello scatenamento del processo autoimmune. Diversi studi
suggeriscono che un aumento della permeabilità intestinale svolge un ruolo centrale nella
patogenesi della IBD . Nei pazienti clinicamente asintomatici con malattia di Crohn ,
l’aumento della permeabilità epiteliale intestinale precede la ricaduta clinica di ben 1 anno,
suggerendo che un difetto della permeabilità è un evento precoce nella esacerbazione della
malattia. L’ ipotesi che la funzione anormale della barriera intestinale è un caratteristica
genetica coinvolta nella patogenesi delle IBD è anche supportata dall'osservazione che nei
parenti di primo grado, dei soggetti con malattia di Crohn , clinicamente asintomatici
possono avere un aumento della permeabilità intestinale . Sempre lo staff del Dott. Fasano
suggerisce che l’ upregulation della zonulina è rilevabile nella fase acuta di IBD e che i suoi
livelli nel siero diminuiscono (ma comunque rimangono più alti del normale) una volta che il
processo infiammatorio si placa dopo il trattamento specifico.
Mentre un difetto primario della barriera intestinale funzione ( comunque secondario
all'attivazione del pathway della zonulina ) può essere coinvolto nelle prime fasi del
30
patogenesi delle IBD , la produzione di citochine , tra cui IFNγ e TNFα secondaria al processo
infiammatorio servono a perpetuare l' aumento della permeabilità intestinale
con la
riorganizzazione delle protein delle TJ: ZO-1, la molecola di adesione giunzionale-1 , l’
occludina , la claudina- 1 e la claudina-4 . In questo modo si crea un circolo vizioso in cui la
disfunzione della barriera intestinale permette un’ ulteriore passaggio del contenuto
luminale, innescando una risposta immunitaria che a sua volta promuove ulteriormente la
sindrome dell’intestino permeabile.
Conclusioni
Il paradigma classico della patogenesi autoimmune che coinvolge uno specifico gene e
l'esposizione ambientale ad un trigger è stata recentemente discussa con l'aggiunta di un
terzo elemento, la perdita della funzione della barriera intestinale. La predisposizione
genetica, i problemi di comunicazione tra l’immunità innata e adattativa, l'esposizione a
fattori ambientali e la perdita della funzione della barriera intestinale, secondaria ad una
disfunzione intercellulare delle TJ, sembrano essere tutti ingredienti chiave coinvolti nella
patogenesi delle malattie autoimmuni. Sia nella celiachia sia nel diabete di tipo 1, la gliadina
può giocare un ruolo nel causare la perdita della funzione della barriera intestinale e/o può
indurre una risposta autoimmune negli individui geneticamente predisposti . Questa nuova
teoria implica che una volta che il processo autoimmune è attivato , non è auto perpetuato e
innarestabile , piuttosto può essere modulato o addirittura invertito
impedendo
l'interazione continua tra geni e ambiente. Dal momento che la disfunzione delle TJ
permette questa interazione, nuove strategie terapeutiche volte a ristabilire la funzione
della barriera intestinale possono offrire approcci innovativi per il trattamento di queste
malattie devastanti.
Bibliografia
“Zonulin and Its Regulation of Intestinal Barrier Function: The Biological Door to
Inflammation, Autoimmunity, and Cancer”- Alessio Fasano Physiol Rev 91: 151–175, 2011
31
Il Diabete Gestazionale: approccio terapeutico senza timori.
Dott.ssa Beltrami Martina - Dietista
Il diabete gestazionale è una delle possibili complicanze legate alla gravidanza, si tratta di una
“intolleranza ai carboidrati che si manifesta per la prima volta durante la gravidanza”(1)
Durante la gravidanza, fin dalle primissime settimane di gestazione, il feto e la placenta
producono ormoni necessari al corretto sviluppo del bambino e che innalzano la glicemia
della madre. Questo processo raggiungere i massimi effetti intorno alla 20° settimana e
rimane poi costante nelle ultime settimane.
Si tratta, come detto, di un effetto fisiologico legato alla gravidanza e nella maggior parte
delle donne il pancreas contrasta questo aumento della glicemia aumentado la produzione di
insulina materna.
In una piccola percentuale di donne (circa il 2-8%) la produzione di insulina è insufficiente e
la glicemia materna tende a rimanere più alta, in particolare dopo i pasti, si sviluppa così il
DIABETE GESTAZIONALE (GDM). (2)
Diversi sono i fattori di rischio che possono portare all'insorgenza di GDM:
obesità, età avanzata, parenti con diagnosi di diabete, aborti o precedente diabete
gestazionale, etnia, ovaio policistico, ipertensione(3)
Il dibete gestazionale solitamente scompare dopo il parto, tuttavia indica per la donna un
maggior rischio di insorgenza di diabete di tipo 2 in un periodo successivo.(4)
Il diabete gestazionale va sempre individuato e curato. Si tratta infatti di una complicanza
legata alla gravidanza che non coinvolge solo la salute della madre, ma può peggiorare il
decorso della gravidanza con risvolti negativi sia per la madre che per il feto.
Tra le complicanze più temibili ci sono il parto prematuro, l'aborto spontaneo e l'ipertensione
materna con danno renale a rapida insorgenza che possono imporre l'interruzione della
gravidanza.
Il diabete gestazionale è associato ad un più facile ricorso al taglio cesareo e a maggior
rischio di obesità infantile.(5)
Il rischio di tali complicanze può essere fortemente ridotto attraverso una diagnosi precoce
di GDM e conseguente trattamento!
32
Gli elementi chiave del trattamento per il GDM sono la terapia dietetica, l'attività fisica e la
terapia insulinica.
Il 75% delle donne riesce a controllare il GDM soltanto prestando attenzione alla dieta, in
particolare cercando di evitare l'innalzamento della glicemia dopo i pasti (riducendo gli
zuccheri semplici, che vengono assorbiti rapidamente, e consumando prevalentemente
carboidrati complessi come pane e pasta di origine integrale, cereali in chicco come orzo,
farro, avena...), si cerca di aumentare la fibra (presente nelle verdure) e suddividendo gli
alimenti in pasti più piccoli e più frequenti:
–
Colazione
–
Spuntino
–
Pranzo
–
Merenda
–
Cena
–
Spuntino prima di coricarsi
Seguire uno schema dei pasti che presenta tre pasti principali e tre spuntini è utile per
molteplici aspetti: si riducono i fastidi legati a nausea e vomito nel primo trimestre, si
riducono i sintomi associati all'ingombro addominale nella fase finale della gestazione, si
limitano le fluttuazioni della glicemia nell'arco della giornata mantenendola costante e su
livelli accettabili.(6)
Il peso va tenuto sotto controllo cercando di limitare l'aumento di peso, in particolare se si è
iniziata la gravidanza in condizione di sovrappeso o obesità. Sarebbe opportuno cercare di
limitare l'aumento di peso tra i 7 e i 11kg. Nelle donne che iniziano la gravidanza in
condizione di obesità l'incremento ponderale non dovrebbe essere superiore a 7kg.
E' importante non limitare eccessivamente la propria alimentazione: la dieta deve essere
pianificata e personalizzata da un professionista per evitare che la madre sviluppi corpi
chetonici, dannosi per il feto.
Un'attività fisica costante ed eseguita a un ritmo sostenibile è importante per controllare la
glicemia, si consiglia quindi di camminare o nuotare con regolarità.
Nel 25% dei casi (1 donna su 4) la dieta e l'attività fisica non sono sufficienti. In questi casi, in
accordo con il diabetologo e il ginecologo, si rende necessaria la terapia insulinica. Si tratta di
una terapia sicura, che non deve creare ansia nella madre e che non implica maggiori rischi
33
per l'evolversi della gravidanza, ma anzi, serve proprio per evitarli!(7)
–
Dover usare l'insulina non significa che il diabete si è aggravato.
–
Anche per chi usa l'insulina, dopo la gravidanza, nella maggior parte dei casi il diabete
gestazionale è destinato a scomparire
–
L'insulina della madre e quella iniettata servono solo alla madre, non raggiungono il
bambino (che produce la sua).
–
Iniettando insulina nella pancia non si rischia di bucare e nemmeno sfiorare l'utero!
Quele miglior procedura per controllare il Diabete Gestazionale?
–
Il Ginecologo invia la paziente dal Diabetologo
–
Il diabetologo valuta l'andamento metabolico della madre e prescrive la terapia.
–
La dietista fornisce la dieta personalizzata e aiuta la madre per alimentarsi in modo
corretto e controlla l'andamento del peso.
–
Un'infermiera insegna il corretto uso del glucometro e come effettuare l'autocontrollo
della glicemia.
Dopo il parto il GDM sparisce nella quasi totalità dei casi. L'eventuale terapia insulinica viene
sospesa e a circa 3 mesi dal parto viene effettuata nuovamente la curva glicemica, che in
caso di esito negativo va comunque rifatta in forma preventiva ogni 2-3 anni. In caso di esito
positivo bisogna fare una valutazione più approfondita presso il centro di diabetologia per
iniziare la cura.(7)
1.
Metzger BE “overview of GDM. Accomplishments of the last decade-challenges for the future”
Diabetes. 1991; 40 (suppl 2):1-2
2.
Catalano PM, Tyzbir ED, et al. “Carbohydrate metabolism during pregnancy in control subjests and
woman with gestational diabetes” American J. Physiol 1993;164:E60-E67
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34
L'importanza di chiamarsi “Alimento”
A cura di Dott. Manuel Salvadori – Dietista
Tanto, tantissimo si sente parlare di questo o di quel nutriente fondamentale, il quale
sicuramente ci permetterà di raggiungere uno stato di salute più elevato, oltre a guarire da
svariate malattie o a risolvere finalmente il problema dello stress.
Ma è vero anche il contrario. Le carni possono contenere nitrosammine, la frutta e la
verdura ha gli organofosfati, il pesce trabocca di mercurio e i legumi potrebbero ucciderci da
un momento all'altro. Diete a base di ananas, di bacche di goji, di uova, sono all'ordine del
giorno, e già meriterebbero un discorso a parte solo per la biochimica attivata dalla loro
pratica - essenzialmente la stessa in ogni caso. Quello che mi preoccupa è l'importanza data
al singolo microcomponente di un alimento (quindi, per definizione, un insieme di
componenti) che, di volta in volta, può fungere e da premio d'incoraggiamento al consumo
dell'alimento e da capro espiatorio su cui riversare la colpa di tutti i problemi di linea o di
stress della nostra vita. Estremizzazioni a parte, quello che cerco di far capire a chi mi chiede
informazioni circa questo o quel componente dannoso di un alimento è che le visioni
negative e proibizionistiche esistono per ogni cosa; seguendole si finirebbe ad alimentarsi
solo di aria. Dire che i legumi fanno male perché contengono gli antinutrienti è tanto errato
quanto dire che l'arancia fa bene perché ha la vitamina C.
L'alimento di per se è un insieme di migliaia di componenti, molti dei quali ancora ci restano
sconosciuti. Ciascuno di essi può avere dei benefici di gran lunga più elevati sulla nostra
salute del danno arrecato dal singolo componente incriminato, seguendo lo stesso
ragionamento. L'insieme dell'alimento non può e non deve essere paragonato alla
microdose del singolo elemento. Conosco le obiezioni a questo parere - poiché di parere, in
fin dei conti, si tratta - e spesso vertono su due punti:
1- I medicinali vengono dati a dosi bassissime ed hanno degli effetti significativi;
2- Ed i celiaci ad esempio? La molecola del glutine è un piccolo componente eppure
crea danni irreparabili.
Per quanto riguarda i medicinali, vengono studiati appositamente ed artificialmente per
funzionare a basse dosi, quasi alla stregua dei veleni, che in natura sono comuni e che
funzionano anch'essi a dosi bassissime. Si parla di categorie diverse, non di qualcosa di
edibile ma di qualcosa di artificiale e funzionale - curativo, perfino.
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Il discorso del glutine è più complesso, ma lo riassumerò in breve: ritengo di fondamentale
importanza evidenziare come gli alimenti contenenti glutine ne hanno una dose che per le
persone sensibili lo porta ad essere alla stregua di un veleno, quindi ci ricolleghiamo al
discorso superiore. Le proprietà nutritive di tali alimenti poi sono discutibile, specie se si
parla di farine molto raffinate - ma anche qui si sfocia in un altro ambito.
Il messaggio da portare a casa per quanto riguarda i micronutrienti è: non credete mai a
mirabolanti pretese, siano esse negative o positive, di questo o quel singolo nutriente,
cercate bensì di inquadrare l'alimento come un insieme. Informatevi, se vi è possibile,
oppure consultate uno specialista prima di decidere arbitrariamente di escludere dalla vostra
dieta un alimento o una generale categoria di alimenti.
36
Angiogenesi e Tumori
A cura di Dott. Giovanni Borghini – Biologo Genetista
Va sempre più crescendo l’evidenza che i
mediatori dello stress, come i glucocorticoidi e
i
neurotrasmettitori
simpatici,
possono
influenzare direttamente la proliferazione
delle cellule tumorali, la loro sopravvivenza e
l’angiogenesi tumorale (Cole et al.,2012). Tali
effetti
diretti
variano
significativamente
secondo i diversi mediatori dello stress e i vari
tipi di tumori considerati. D’altra parte l’azione sulla vascolarizzazione tumorale implica
interazioni con comuni fattori angiogenici come il fattore di crescita dell’endotelio vasale
(VEGF) che sembra essere espresso nei differenti tipi di tumore (Dutra-Oliveira et al.,2012).
Quanto suddetto sembra particolarmente importante dal momento che la diagnosi di cancro
è di per sé un evento fortemente stressante per il paziente e alimenta un loop che coinvolge
quattro tra i neurotrasmettitori con maggior valenza psicoaffettiva: la NE, la E, la DA e il NPY.
Con il termine di angiogenesi si intende l’ insieme di processi funzionali che portano alla
formazione di nuovi vasi sanguigni a partire da vasi preesistenti.
Nell’adulto l’angiogenesi viene attivata limitatamente a processi di cicatrizzazione delle
ferite, di ricostituzione dell’endometrio dopo la mestruazione e alla formazione della
placenta. Durante lo sviluppo embrionale i vasi sanguigni vengono formati de novo a partire
da precursori endoteliali (angioblasti) che si assemblano a formare una prima rete vascolare
primitiva. I capillari neo-formati cominciano poi a differenziare e nuovi vasi sanguigni
vengono generati a partire da quelli pre-esistenti. L’angiogenesi fisiologica prevede quattro
fasi:
1) la destabilizzazione dei vasi preesistenti;
2) la migrazione e proliferazione delle cellule endoteliali nel punto del tessuto
dov’è necessaria la formazione di nuovi vasi;
3) la differenziazione delle cellule endoteliali;
37
4) la maturazione funzionale dei vasi neoformati (reclutamento di cellule periendoteliali di
supporto, riorganizzazione delle interazioni cellulari).
I principali fattori angiogenetici sono il Transforming growt factor (TGF-alfa e TGF beta), l’
Hepatocyte growth factor (HGF), il Fibrblast growth factor (FGF), il Tumor necrosis factor
(TNF-alfa), l’angiogenina, l’interleuchina-8 e il Vascular endothelial growt factor (VEGF). Il
gene VEGF è composto è composto da 8 esoni separati da 7 introni, la regione codificante è
lunga circa 14 kb. Il gene umano è localizzato sul cromosoma 6p21.3 ed è presente in
quattro diverse isoforme costituite rispettivamente, da 212, 165, 189 e 206 aminoacidi. Il
VEGF 165 è la specie molecolare predominante mentre il VEGF 206 è la più rara. La proteina
omonima è una glicoproteina basica di 45 Kda che si associa a formare omodimeri ed è in
grado di legare eparina. Le diverse isoforme hanno diversi punti isoelettrici e diversa affinità
per l’eparina. La famiglia del VEGF fa parte di una super famiglia di fattori di cresita
caratterizzati dalla presenza di motivi a nodo di cisteina. Essa è composta da:
•
VEGF (anche detto VEGF-A)
•
VEGF-B: anche detto VEGF related factor (VRF)
44% di identità amminoacidica con VEGF
lega VEGFR-1
forma omodimeri ed eterodimeri (con VEGF)
presenta due isoforme
negli embrioni è espresso durante lo sviluppo del cuore
nell’adulto è espresso nel muscolo cardiaco e scheletrico
espressione non indotta a seguito di ipossiemia
interviene nella regolazione della vascolarizzazione
•
VEGF-C: anche detto (VRF)
è il ligando di VEGFR-3 e VEGFR-2
30 % d’identità con VEGF
induce permeabilità vascolare
effetto mitogenico sulle cellule endoteliali
espressione indotta da citochine infiammatorie
•
VEGF-D: strutturalmente molto simile a VEGFR-C
31% di identità amminoacidica con VEGF
38
lega VEGFR-2 e VEGFR-3
può interagire con proteine legate alla membrana
ha un effetto mitogenico sulle cellule endoteliali
espressione indotta dal fattore trascrizionale c-fos
•
PIGF: Placenta Growth Factor
espresso prevalentemente nella placenta
forma omodimeri ed eterodimeri (con VEGF)
46 % d’identità con VEGF
lega VEGF-1
presenta tre diverse isoforme.
L’espressione di VEGF viene aumentata nei tumori, in cellule adiacenti a regioni necrotiche
e in risposta a ipossiemia. La regolazione dei livelli di VEGF è mediata principalmente da:
1. IPOSSIEMIA: HIF1 (Hipoximia-inducible factor-1)
2. FATTORI di CRESCITA e CITOCHINE: TNF-α, TGF-β, EGF e PDGF-BB
3. ORMONI quali gli estrogeni
L’mRNA di VEGF viene stabilizzato da pVHL, un oncosoppressore. L’angiogenesi patologica
comprende patologie a bassa attività angiogenica (danneggiamento dei tessuti in seguito ad
un’ischemia o ad insufficienza cardiaca) e patologie ad alta attività angiogenica (tumori e
infiammazioni croniche). Le principali patologie correlate ad una attività angiogenica sono:
•
Artrite reumatoide
•
Psoriasi
•
Retinopatia proliferativa idiopatica
•
Retinopatia diabetica
•
Degenerazione maculare correlata all’età (AMD)
•
Patologie di carattere degenerativo associati a fenomeni di per ossidazione dei
tessuti ed ipossia (processi aterosclerotici)
•
Malattie vascolari a carattere obliterante
•
Retinopatia diabetica
•
Neoplasie.
L’angiogenesi costituisce un fattore limitante per la crescita del tumore e svolge un
importante ruolo nel processo di metastatizzazione.
39
Il tumore induce l’espressione di VEGFR-1 e VEGFR-2 nelle cellule endoteliali adiacenti ai
vasi. La secrezione di VEGF nelle regioni centrali del tumore porta alla formazione di un
gradiente attraverso il tumore che ha la funzione di attrarre la crescita dei vasi sanguigni.
L’angiogenesi tumorale è caratterizzata dalla mancanza di un equilibrio tra segnali pro- e
anti-angiogenetici. Questo comporta la formazione di vasi morfologicamente e
funzionalmente differenti da quelli normali.
Le caratteristiche principali sono :
-
forma irregolare
-
diametro maggiore
-
presenza di strutture aberranti
-
presenza di cellule tumorali incorporate nella parete dei vasi
-
interazioni alterate tra cellule endoteliali e periciti
-
distribuiti in modo non uniforme
-
non organizzati in venule, arteriole e capillari
-
spesso emorragici (permeabilità alle proteine plasmatiche)
-
flusso di sangue irregolare all’interno dei vasi.
Le strategie terapeutiche, in fase di sperimentazione a partire dalla seconda metà degli anni
Novanta del secolo scorso, prevedono il trattamento del paziente affetto da tumore con
anticorpi monoclonali diretti contro il VEGF, in combinazione o meno con il trattamento
chemioterapico. Altre sperimentazioni comportano l’uso di molecole che inibiscono la via di
trasduzione del segnale mediata da VEGFR-2. Terapie basate sull’inibizione del VEGF
mediante anticorpi monoclonali sono correntemente utilizzate nel caso di patologie
determinate da una neovascolarizzazione intraoculare, come nel caso della degenerazione
maculare ( ) senile. Sono in fase di sperimentazione (2009) farmaci basati sull’utilizzo di
siRNA diretti contro l’RNA messaggero del VEGF che bloccano l’espressione della proteina (
RNA). Inibitori del VEGF potrebbero essere utilizzati anche nelle patologie che riguardano gli
organi riproduttori femminili, quali l’iperplasia e l’ipervascolarità ovarica, che si presentano
nella sindrome dell’ovaio policistico.
40
Il Nuovo Paradigma Dello Stress
A cura di Dott. Giovanni Borghini – Biologo Genetista
“Lo stress tutti sanno cos’è, eppure nessuno sa cos’è…”
(Hans Selye in “American Scientist” 1973)
Tutti gli organismi viventi rispondono all’azione destabilizzante dei più diversi stimoli
ambientali con lo scopo principale di mantenere l’equilibrio bio-energetico necessario alla
sopravvivenza, cercando così di garantire continuità alla propria specie. L’uomo in
particolare, dato il suo livello biologico superiore, è chiamato a salvaguardare oltre a quella
fisica anche la propria identità psichica.
L'OMS definisce la salute mentale come “uno stato di benessere in cui l'individuo, cosciente
delle proprie capacità, riesce ad affrontare il normale stress della vita quotidiana, ed è in
grado di dare un contributo alla propria comunità lavorando in maniera produttiva e
proficua " .
Secondo Kuhn il termine paradigma rappresenta una prospettiva teorica condivisa e
riconosciuta dalla comunità degli scienziati di una determinata disciplina. Essa deve essere
fondata sulle acquisizioni precedenti della disciplina stessa e indirizzare la ricerca sia in
termini di individuazione e scelta dei fatti rilevanti da studiare, che di formulazione di ipotesi
entro cui collocare la spiegazione del fenomeno osservato: Infine il paradigma deve
permettere di approntare le tecniche di ricerca empirica necessarie al riconoscimento
oggettivo e alla conferma dell’evento considerato.
La parola Stress, dal latino strictus (stretto, serrato, compresso), venne utilizzata nel XVII
secolo nei paesi anglofoni con il significato di difficoltà, avversità e afflizione, per poi
acquisire nel XVIII e XIX secolo il significato di forza, pressione, tensione o sforzo.
Fu W.B. Cannon a introdurre in biologia il termine stress derivandolo dall’ingegneria, in cui
viene associato al termine strain (rottura per carico eccessivo), per indicare il mettere sotto
tensione travi metalliche al fine di provarne l’effettiva resistenza. In medicina il termine è
41
stato usato per la prima volta nel 1936 sulla rivista “Nature” dal fisiologo viennese H. Selye
che studiava presso l’Università di Montreal le risposte degli organismi viventi alla
somministrazione di sostanze nocive. A questo scienziato dobbiamo la definizione della
General Adaptation Sindrome (G.A.S.), intesa come un complesso meccanismo difensivo con
cui l’organismo si sforza di superare qualsiasi sollecitazione tensiogena (stressor)
proveniente dall’ambiente, attraverso una risposta predefinita e aspecifica, mirata a
ripristinare, al più presto, il proprio normale equilibrio operativo (omeostasi).
La G.A.S. si articola in tre fasi; la prima, detta “fase o reazione di allarme”, scatta quando
l’agente stressante, positivo o negativo, comincia ad agire sull’organismo; tale reazione
comporta un cambiamento della condizione globale dell’organismo, che, non ancora
adattato come avverrà nella seconda fase, ma solo attivato (arousal), avvia una primordiale
risposta di sopravvivenza. L’individuo infatti percependo, più o meno consapevolmente,
sotto forma di difficoltà o di potenziale pericolo, qualcosa di inaspettato, di nuovo o di
insolito, chiama a raccolta tutte le proprie risorse. All’iniziale quadro di shock (effetto
sorpresa), caratterizzato da caduta della temperatura corporea, ipotonia muscolare,
ipotensione e tachicardia, segue infatti uno stato di contro-shock, in cui vengono mobilitati
alcuni meccanismi fisiologici di difesa in grado di ribaltare le reazioni della fase di shock.
In particolare, per ripristinare l’omeostasi, interviene l’ipotalamo, controllore centrale della
maggior parte delle funzioni organiche indipendenti dalla volontà con il contemporaneo
avvio di tre reazioni immediate:
a) la secrezione di cortisolo, mediata dall’Asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene (HPA), e quella
decuplicata di adrenalina e noradrenalina, attivata attraverso la via ortosimpatica dei nervi
splancnici che collegano direttamente il cervello alle ghiandole surrenali, e contrassegnata
da irrequietezza e deconcentrazione mentale dovuta ad accelerazione del ritmo cerebrale
(onde beta);
b) la stimolazione simpatica di numerosi organi (vasi, muscolatura liscia, ghiandole varie
ecc.) con inibizione della motilità e delle secrezioni dell'apparato digerente;
c) la produzione di betaendorfine, gli antidolorifici endogeni che consentono, tramite
l’innalzamento della soglia del dolore, di resistere a forti tensioni psico-fisiche.
La seconda fase, detta di resistenza o di adattamento, dura finché si percepisce l’azione del
fattore stressante; in essa l’organismo si adatta attivando un complesso programma, biocomportamentale, sostenuto da una risposta ormonale che almeno inizialmente lo aiuta a
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resistere. L’asse HPA, solitamente organizzato in oscillazioni periodiche e regolari, in
condizioni di stress prolungato tenderebbe ad essere iperattivato con sovrapproduzione di
cortisolo e conseguente disreattività immunitaria. Gli “iper-reattivi” o “stress-dipendenti”,
assuefatti alle betaendorfine prodotte, abusano spesso di
sostanze stimolanti per
prolungare questa fase o di alcool per riuscire a passare quella successiva rilassante di
esaurimento. Il prolungamento della seconda fase oltre le 48 ore può dimezzare le
dimensioni del timo e annullare l’efficacia di milioni di linfociti B e T.
Il cortisolo o idrocortisone, principale protagonista di questa fase, è prodotto in quantità pari
a 10-20 mg/die dalle cellule della fascicolata surrenale con picco circadiano nelle prime ore
del mattino; esso tende ad inibire le funzioni corporee non immediatamente indispensabili e
le attività di tipo riparativo. La produzione di cortisolo garantisce infatti il massimo sostegno
agli organi vitali, favorendo la sopravvivenza nell'immediato (fight or flight responses) e
modulando negativamente la risposta infiammatoria mediata dalle citochine IL-1, IL-6, TNF,
considerate fattori di rischio per le malattie cardiovascolari (CVD),
Una volta prodotto ed immesso in circolo, il cortisolo viene legato per circa il 75% ad una
proteina specifica (CBG), mentre la quota rimanente, che ne rappresenta la parte attiva,
viene legata all'albumina. La sua emivita plasmatica è di circa 60 -90 minuti, il 20% è
convertito in cortisone e successivamente ambedue le molecole sono inattivate a livello
epatico; soltanto l'1% del cortisolo prodotto viene escreto come tale nelle urine.
Le principali funzioni dei glucocorticoidi sono quelle di:
a) stimolare la glicogeno genesi attraverso l’incremento dell’attività della glicogeno-sintetasi;
b) aumentare la glicemia: sia incrementando la gluconeogenesi epatica attraverso la
conversione di alanina in glucosio, sia stimolando la secrezione di glucagone che riduce
l'attività dei recettori insulinici con conseguente insulino resistenza;
c) inibire la captazione di glucosio da parte delle cellule adipose con conseguente aumento
della lipolisi, anche se poi l’iperinsulinemia correlata alla glicogenogenesi annulla tale effetto
portando ad un aumento dei depositi di grasso;
d) favorire il catabolismo proteico: sia stimolando la conversione delle proteine in glucosio e
la glicogeno sintesi, che accelerando la degradazione delle miofibrille muscolari più resistenti
o di tipo II, degli arti inferiori;
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e) aumentare il catabolismo dei grassi, della massa muscolare, della cute, del tessuto
linfatico e del tessuto connettivo favorendo inoltre con la ridotta sintesi di collagene e di
matrice ossea l’instaurarsi di osteoporosi;
f) ridurre le difese immunitarie per inibizione della fosfolipasi A2 con diminuzione della
produzione di prostaglandine e di leucotrieni, fattori determinanti nel processo
infiammatorio.
I principali sintomi da ipercortisolemia stigmatizzano il Morbo di Cushing con ridistribuzione
del grasso corporeo, perdita di massa muscolare, ipertensione, fragilità capillare,
assottigliamento della cute, difficoltà di cicatrizzazione delle ferite, osteoporosi,
immunodepressione, diabete secondario e psicosi.
La secrezione di cortisolo è fortemente condizionata dalla durata e dall'intensità
dell’esercizio fisico, con picco quando il suo livello critico raggiunge circa il 60% del volume
massimo di O2 consumato per minuto (VO2max); giustificando le cosiddette fratture da
stress del runner.
Va ricordato infine che la risposta corticosurrenalica all'attività sportiva è ridotta
dall'ingestione di cibo, mentre lo stress psicologico e il digiuno prolungato o abitudini
alimentari scorrette, come saltare la prima colazione e/o mangiare molto in un unico pasto
giornaliero, favoriscono l'ipercortisolismo.
La terza fase, detta di esaurimento, inizia quando il “pericolo” viene percepito come ormai
superato o quando l’energia da stress comincia a scarseggiare; essa ha il compito di
assicurare all’organismo il necessario periodo di riposo. Di solito, se la fase precedente
termina prima che tutte le risorse siano state consumate, si avverte un sensibile calo
d’energia spesso associato a un profondo sollievo o piacevole torpore. Se invece, la fase di
resistenza è durata per troppo tempo, possono derivarne lunghi e debilitanti periodi di
esaurimento, squilibri funzionali e alterazioni strutturali conseguenti alle risposte esagerate
o alle difese inefficaci; oltre alla perdita graduale della capacità di adattamento allo stressor
e all’insorgenza di patologie psicosomatiche di vario tipo. All’inizio la terza fase è
caratterizzata da una rapida diminuzione degli ormoni surrenalici e delle riserve energetiche.
L’effetto stimolante del sistema nervoso simpatico viene sostituito da quello calmante del
parasimpatico, che ripristina il normale flusso sanguigno nell’apparato digerente, nel
cervello e nella cute.
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In questa terza fase si manifesta l’incapacità dell’organismo ad adattarsi indefinitamente;
infatti, se lo stress nocivo continua, l’organismo esaurisce le risorse per fronteggiarlo,
soccombendo in maniera più o meno completa. Ciò può provocare alterazioni permanenti,
che predispongono allo sviluppo di malattie psico-fisiche anche croniche.
La SGA può essere considerata un residuo archeologico di reazioni primitive necessarie alla
lotta o alla fuga di fronte alle minacce esterne, per lo più di natura fisica, oggi sostituite da
un tipo di impegno relazionale-psicosociale.
La reazione da stress è detta acuta, quando di breve durata e caratterizzata da una rapida
fase di resistenza a cui segue un quasi immediato e ben definito ritorno alla normalità. Di
contro la reazione da stress si dice prolungata (stress cronico), quando presenta una fase di
resistenza che può durare da molti minuti a giorni, settimane, anni o come per qualcuno,
tutta la vita.
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NPY: Obesità e Sindrome Metabolica
A cura di Dott. Giovanni Borghini – Biologo Genetista
I rapporti tra stress e obesità ancora oggi sfuggono ad una chiara interpretazione. Stà di fatto
che in risposta allo stress alcune persone perdono peso, mentre altre viceversa lo
acquistano. Lo stress stimola l’attività simpatica adrenosurrenalica, responsabile delle
risposte di sopravvivenza di “attacco e fuga”, ma anche del principale meccanismo fisico per
la perdita di peso: quello dovuto alla lipolisi mediata dai beta-adrenorecettori e all’inibizione
della proliferazione degli adipociti nel tessuto bianco adiposo (WAT), oltre che alla
stimolazione della termogenesi adattiva nel tessuto adiposo bruno (BAT). Paradossalmente
l’attività simpatica sembra essere incrementata nei soggetti obesi, indicando che l’attività
lipolitica beta adrenergica potrebbe essere contrastata da altri fattori che invece favoriscono
l’ingrassamento. Lo studio della famiglia del NPY in nuclei ipotalamici diversi da quello
arcuato e paraventricolare è un recente cambiamento nella ricerca in campo metabolico. La
sovra espressione del NPY nell’ipotalamo dorso mediale aumenta la fame mentre la sua
ablazione riduce iperfagia e obesità. Similmente il NPY esercita azione oressigena nel NVM.
Tuttavia la specifica ablazione dei Y2R nell’arcuato porta ad un bilancio energetico positivo,
suggerendo che la famiglia del NPY svolge funzioni loco-specifiche. Quantunque ci sia sicura
evidenza che lo stress e l’obesità dipendano dal controllo ipotalamico dell’appetito e del
metabolismo, secondo recenti studi, lo stress amplificherebbe l’obesità indotta dalla dieta
(DIO) anche attraverso un meccanismo periferico mediato dal NPY co-espresso con
l’adrenalina nel grasso bianco addominale (WAT). Sappiamo che lo stress stimola il rilascio di
NPY e di Norepinefrina (NE) dai nervi del simpatico e la secrezione di corticosterone dalla
ghiandola
surrenale;
inoltre
esso
attiva
l’espressione
del
gene
idrossisteroido11betadeidrogenasi1 (Hsd11b1), un enzima microsomiale che catalizza nel
WAT la conversione del cortisolo in cortisone suo metabolita inattivo. Sia lo stress che una
dieta ricca di grassi saturi (HFS) aumentano i glucocorticoidi in circolo e nel grasso viscerale,
e questi a loro volta attivano l’espressione di NPY e di Y2R nelle cellule endoteliali nel tessuto
adiposo. Più NPY è rilasciato per stress dai nervi simpatici nel WAT, e più questo poi agisce
sui Y2R portando alla angiogenesi, alla infiltrazione macrofagica e alla adipogenesi oltrechè,
attraverso recettori sconosciuti, ad inibire la lipolisi beta adrenergica. Lo stress e la dieta HFS
iperattivano anche il sistema adrenergico, e questo fenomeno a lungo andare, svuota la NE
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nel tessuto adiposo, diminuendo la lipolisi mediata dai beta adrenorecettori e promuovendo
l’obesità, anche se per altro la contrasta attraverso l’attivazione di betaadrenorecettori
presinaptici simpatici inibenti del rilascio di NPY. In conclusione la prolungata attivazione di
NPY e Y2R negli adipociti e nelle cellule endoteliali porta all’obesità addominale e alla
sindrome metabolica aumentando direttamente la lipogenesi e indirettamente l’angiogenesi
e l’accumulo di 11 deidrocorticosterone; d’altra parte il NPY esercita una potente azione
oressigena favorendo l’assunzione di cibi ricchi di carboidrati. Il NPY è presente anche nel
feocromocitoma e i suoi livelli circolanti possono aiutarne la diagnosi. L’aumentata attività di
NPY e dei suoi recettori Y1R,Y2R e Y5R, è stata riscontrata nel cervello di molti modelli
sperimentali di obesità. Stressors come l’esposizione al freddo o una aggressione portano
alla liberazione di NPY dai nervi simpatici, a cui segue l’attivazione dei Y2R nel grasso
addominale e l’avvio di un feed back positivo per i glucocorticoidi oltre all’attivazione della
dipeptil peptidasi IV (DPP4) che genera NPY3-36, caratterizzato da maggior affinità per gli
Y2R, e in grado di regolare la proliferazione e l’apoptosi delle cellule endoteliali. Questo
sistema Y2R-DPP4 ha un importante ruolo nella neo-vascolarizzazione di tessuti ischemici,
nelle retinopatie, nella riparazione delle ferite e nei tumori. Agendo invece sui recettori Y1 e
Y5, NPY provoca vasocostrizione, immunomodulazione e stimolazione della crescita di molte
cellule. Nell’uomo, gli incrementi di NPY indotti dallo stress sono particolarmente alti in
soggetti portatori della particolare variante genica Leu7Pro7 di NPY. Nel nord Europa questa
mutazione è comunemente associata ad una maggior incidenza di aterosclerosi, obesità e
retinopatia diabetica, confermando l’implicazione del NPY nella malattia metabolica, ma
anche nel medio oriente si è recentemente confermata la maggior frequenza di questo
polimorfismo in soggetti affetti da patologie analoghe . L’obesità viscerale sia nei topi che
nell’uomo è stata associata all’infiltrazione macrofagica del tessuto grasso ed all’aumentata
produzione di citochine infiammatorie e di adipochine. Il NPY esogeno aumenta il rilascio
della resistina, e questa adipochina infiammatoria è stata implicata nell’intolleranza al
glucosio e nella resistenza all’insulina col plausibile ruolo di mediatore secondario della
anomalie metaboliche che insorgono dopo 3 mesi di stress e di una dieta HFS. L’inibizione
farmacologica o il silenziamento genetico dei Y2R nel tessuto adiposo, risultando anti
angiogenici e anti-adipogenici, riducono l’obesità addominale e le anomalie metaboliche.
Pertanto, manipolazioni dell’attività dei Y2R all’interno del tessuto adiposo offrono una
nuova prospettiva terapeutica per il rimodellamento del grasso e per il trattamento
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dell’obesità e della sindrome metabolica (MetS). Fondamentale nella MetS è il fenomeno
dell’aterosclerosi: malattia caratterizzata da una disfunzione endoteliale, da infiammazione
vascolare e dalla deposizione di lipidi, colesterolo, calcio e residui cellulari nell’intima delle
pareti vasali. La deposizione di placche e la loro successiva rottura può portare all’ostruzione
acuta e cronica del lume vasale, anomalie del flusso sanguigno, e diminuito apporto di
ossigeno agli organi bersaglio. Nella risposta aterosclerotica sono implicati macrofagi e
linfocitiT, che secernono citochine infiammatorie come il TNFalfa, la IL12 e l’interferone
gamma; l’interazione tra questi tipi cellulari, le citochine e il tessuto connettivo sono
determinanti nello sviluppo e nella rottura della placca. Solitamente i vasi occlusi da placche
aterosclerotiche sono riccamente innervati da fibre nervose simpatiche indirettamente
coinvolte nell’aterosclerosi e nella restenosi attraverso effetti vasocostrittivi, stimolazione
dell’aggregazione piastrinica e resistenza all’insulina. Secondo recenti studi il NPY,
coespresso con la NE nei neuroni simpatici che innervano i vasi sanguigni, risulta decisivo
oltre che nella migrazione e nella proliferazione cellulare all’interno delle placche
aterosclerotiche anche nell’induzione del processo infiammatorio. Elevati livelli di NPY,
rilasciati in circolo dopo una intensa e prolungata attivazione nervosa adrenergica, sono stati
osservati in pazienti ipersimpatici affetti da malattie cardiovascolari. La maggior parte degli
studi ha mostrato che la capsula fibrosa della placca aterosclerotica di pazienti sintomatici, è
più sottile e con un’infiammazione caratterizzata da un gran numero di macrofagi e di Tlifociti, mentre presenta un minor quantitativo di cellule muscolari lisce (SMCs) e di
collagene, rispetto a quella di pazienti asintomatici sebbene il centro necrotico della placca
appaia simile in entrambi i casi. In conclusione le citochine associate all’ateroma
diminuiscono la densità dei Y1R e Y5R mentre aumentano la densità di quelli Y2R nelle
cellule muscolari lisce dei vasi delle placche carotidee sintomatiche (pVSMCs) e così riducono
la sopravvivenza indotta dal NPY e attenuano l’angiogenesi. L’aumentata espressione dei
Y2R nelle VSMCs dei pazienti sintomatici a differenza di quanto avviene nei soggetti sani e
negli asintomatici, giustifica il ruolo potenziale dei Y2R nella instabilità della placca. La
diminuita espressione dei Y1R e Y5R, e l’aumentata espressione dei Y2R dopo stimolazione
con citochine infiammatorie potrebbe comportare una diminuita proliferazione di SMC e
pertanto una instabilità della placca. Pertanto l’utilizzo a scopo terapeutico di antagonisti dei
recettori NPY potrebbe inibire nell’aterogenesi, la formazione di neointima e l’angiogenesi
all’interno delle placche stesse regolandone la vulnerabilità . Abbiamo considerato il ruolo
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del NPY nella regolazione dell’omeostasi e nei processi ad essa associati. Poiché la
disfunzione di questo equilibrio si riscontra in malattie come l’obesità e il cancro si è
recentemente ipotizzato che la sua correzione possa riflettersi positivamente sulla cura di
entrambi i problemi. Inoltre l’attenzione rivolta negli ultimi anni ai meccanismi di
regolazione di fame e sazietà hanno portato ad una analisi approfondita del ruolo del NPY
nel controllo della spesa energetica, nella selezione di substrati ossidativi e nel metabolismo
osseo. Gli studi hanno chiarito i meccanismi centrali e periferici, ipotalamici ed extraipotalamici dell’azione regolatrice del NPY. In particolare è emerso il suo ruolo e quello dei
suoi recettori nella regolazione della crescita tumorale. Queste ricerche permettono di porre
le basi per nuove strategie terapeutiche mirate al sistema NPY per un trattamento analogo
di obesità e cancro. Tali strategie includono la modifica di entrambi gli aspetti dell’equazione
del bilancio metabolico energetico tra accumulo e spesa energetica, modulando i recettori Y
per migliorare le condizioni metaboliche senza interferire con le funzioni centrali degli stessi.
Il trattamento di più recettori Y e di più sistemi coinvolti nella regolazione del bilancio
energetico porterà maggiori effetti benefici sempre nel rispetto dei potenziali effetti
collaterali sull’equilibrio del tessuto osseo.
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L’ Epigenetica e La Nuova Genetica Funzionale
A cura di Dott. Giovanni Borghini – Biologo Genetista
Un tempo si riteneva che la porzione non codificante del genoma umano non avesse alcuna
funzione (DNA spazzatura) o che dovesse solo concorrere a modulare i volumi del
patrimonio ereditario. Studi recenti hanno invece dimostrato come proprio questa porzione
non codificante del DNA umano sia quella che risente maggiormente delle influenze
ambientali, attraverso un meccanismo epigenetico. Il progetto “Genoma Umano” ha
consegnato alla comunità scientifica internazionale una sequenza genetica di circa tre
miliardi di paia di basi condivisa al 99,9% da tutti gli individui, pertanto ciò che ci differenzia
l’uno dall’altro è solo lo 0.1% del nostro DNA. I geni dirigono lo sviluppo fisico e
comportamentale di un essere vivente, regolano il metabolismo degli alimenti, l’uso dei
nutrienti e l’eliminazione delle tossine. Dall’interazione epistatica tra i geni e da quella tra
geni e ambiente scaturisce il Fenotipo, ossia l’insieme delle caratteristiche osservabili di un
organismo vivente, quindi la sua morfologia, il suo sviluppo, le sue proprietà biochimiche e
fisiologiche comprensive del comportamento. La struttura dei geni difficilmente cambia nel
corso della vita (salvo per insorgenza di mutazioni, il cui tasso nell’uomo è di circa 10-14),
mentre è più facile che possa variare l’espressione genica. Il controllo dell’attività dei geni a
breve termine da parte della cellula è chiamato regolazione genica semplice o comune. Tra i
fattori ambientali in grado di modulare l’espressione genica possiamo menzionare
l’alimentazione, i farmaci, l’attività fisica, le relazioni umane, la psicoterapia, lo stress, ecc..
La variabilità genetica che ci rende tutti diversi, sia all’interno che all’esterno,
ha origine dal cuore dell’Africa ed è strettamente correlata alle migrazioni
e agli incroci tra le popolazioni autoctone nei diversi continenti. La variabilità
genetica può essere promossa dal crossing-over durante la meiosi, oppure dalle
Inserzioni/Delezioni di sequenze geniche o dai Polimorfismi a Singolo Nucleotide (SNP). Le
differenze fra gli individui sono costituite per la maggior parte da polimorfismi nucleotidici,
ovvero da cambiamenti nelle basi del DNA. Di questi cambiamenti, definiti SNP (Single
Nucleotide Polymorphism), ne sono presenti nel genoma umano almeno 3,1 milioni, ossia
uno SNP ogni 1000 paia di basi circa e fra questi circa 500.000 sono capaci di influenzare il
fenotipo individuale (principalmente le attività enzimatiche). Attualmente le variazioni di
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sequenza genica (polimorfismi) vengono suddivise in quattro categorie a seconda che
abbiano o meno una funzione dimostrata. Un tempo si faceva riferimento alla genetica come
un qualcosa di deterministico, ossia si andava alla ricerca del gene o dei geni responsabili di
una determinata malattia. Tuttavia nel corso degli studi ci si è resi conto che sono veramente
poche le malattie determinate dalla mutazione di singoli geni, come per esempio la Fibrosi
Cistica, il Favismo, la Sindrome di Down, la Distrofia Muscolare e che la maggior parte delle
manifestazioni fenotipiche patologiche e fisiologiche scaturisce dall’interazione tra più geni e
l’ambiente.
Pertanto negli ultimi anni abbiamo assistito al passaggio dalla Genetica Deterministica alla
nuova Genetica Funzionale, in cui domina il concetto di cambiamento epigenetico.
Il termine Epigenetica deriva dal greco e significa letteralmente “sopra l’informazione
genetica codificata dal DNA”. L’epigenetica induce un cambiamento ereditario
nell’espressione genica senza alterare la struttura della sequenza nucleotidica del DNA. La
regolazione epigenetica dei geni è una regolazione a lungo termine (gli effetti epigenetici
dell’ambiente embrionale possono prolungarsi per più di 60 anni).
Tuttavia il cambiamento epigenetico è reversibile in qualsiasi momento della vita. Il concetto
di epigenetica è stato introdotto per la prima volta nel 1968 da Conrad Waddington nella sua
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opera intitolata “Verso una biologia teoretica”, ma si discostava ancora sensibilmente
dall’attuale connotazione.
La moderna scienza epigenetica studia i meccanismi che controllano l’attività
genica modificando il materiale genetico senza alterarne la sequenza nucleotidica. Le
modificazioni epigenetiche sono più frequenti di quelle genetiche e sono anch’esse
ereditabili mitoticamente (epimutazioni) ma reversibili. Le zone non codificanti del DNA
umano (ossia il 98,5% del genoma umano, di cui il 25% rappresentato da introni), in passato
incluse nel “DNA spazzatura”, indicherebbero in modo ereditabile, attraverso il contatto tra
due loro tratti (il cosiddetto “bacio del DNA”), i loci da sottoporre a controllo epigenetico.
Tra i principali fattori epigenetici possiamo menzionare l’alimentazione, l’attività sportiva, le
droghe, i farmaci, lo stress, gli inquinanti, i pesticidi, i campi elettromagnetici e i metalli
pesanti.
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