Commons/Comune: geografie, luoghi, spazi, città è un volume delle Memorie Geografiche della Società di Studi Geografici http://www.societastudigeografici.it ISBN 978-88-908926-2-2 Numero monografico delle Memorie Geografiche della Società di Studi Geografici (http://www.societastudigeografici.it) Certificazione scientifica delle Opere I contributi pubblicati in questo volume sono stati oggetto di un processo di referaggio a cura del Comitato scientifico e degli organizzatori delle sessioni della Giornata di studio della Società di Studi Geografici Hanno contribuito alla realizzazione di questo volume: Maura Benegiamo, Luisa Carbone, Cristina Capineri, Donata Castagnoli, Filippo Celata, Antonio Ciaschi, Margherita Ciervo, Davide Cirillo, Raffaella Coletti, Adriana Conti Puorger, Egidio Dansero, Domenico De Vincenzo, Cesare Di Feliciantonio, Francesco Dini, Daniela Festa, Roberta Gemmiti, Cary Yungmee Hendrickson, Michela Lazzeroni, Valeria Leoni, Mirella Loda, Alessandra Marin, Alessia Mariotti, Federico Martellozzo, Andrea Pase, Alessandra Pini, Giacomo Pettenati, Filippo Randelli, Luca Simone Rizzo, Patrizia Romei, Venere Stefania Sanna, Lidia Scarpelli, Massimiliano Tabusi, Alessia Toldo, Paola Ulivi Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale L’immagine di copertina è tratta dal volume di Emma Davidson Omnia sunt communia, 2015, p. 9 (shopgirlphilosophy.com) © 2016 Società di Studi Geografici Via San Gallo, 10 50129 - Firenze Aa.Vv. (2016), Commons/Comune, Società di studi geografici. Memorie geografiche NS 14, pp. 399-404 PIERLUIGI MAGISTRI IL CONCETTO DI “BENE COMUNE” TRA RIFLESSIONI GEOGRAFICHE E PROSPETTIVE CRISTIANE 1. BENE COMUNE, RIFLESSIONE GEOGRAFICA ED ELABORAZIONE CRISTIANA DEL CONCETTO: presente contributo alla riflessione sul senso di “bene comune”, concetto sul quale negli ultimi anni si è sviluppata una florida letteratura, soprattutto nell’ambito delle scienze sociali, e per il quale esistono diverse letture in base a differenti prospettive (1), ha per oggetto una particolare accezione: quella elaborata nella sfera del Cristianesimo (ed in particolare del cattolicesimo), ovvero quella che, sebbene costituisca un plurisecolare pilastro del pensiero e dell’azione cristiani, nella più recente speculazione affonda la sue radici nell’elaborazione della dottrina sociale della Chiesa cattolica e che rimonta, pertanto, alla fine del XIX secolo con la lettura che ne dà Leone XIII e che poi si esplicita durante tutto quello successivo per approdare, infine, alle ultime espressioni del Magistero attraverso i documenti promulgati da Benedetto XVI e soprattutto da Francesco. Il ragionamento qui proposto, tuttavia, non ha la presunzione di esaustività, dal momento che il tema è assai articolato e complesso, ma vuole segnalare delle linee essenziali, degli spunti di riflessione su tale tematica in merito a quei beni comuni che possono, per così dire, essere classificati nella categoria dell’immanenza (2). Non si tratta, infatti, di identificare sul piano speculativo, come si potrebbe credere, un patrimonio di carattere teologico o identitario condiviso da un assai significativo numero di persone, tale che possa essere considerato un comune patrimonio, ma consiste nel saper cogliere il senso più pieno di alcuni principi quali la giustizia sociale, l’equa distribuzione delle risorse e l’accessibilità alle stesse, il rispetto per l’ambiente e per le diverse comunità umane che abitano il nostro Pianeta, così come traspare dai documenti ufficiali della Chiesa, soprattutto in relazione ad un rapido mutamento della faccia della Terra. Mutamento che si è reso particolarmente evidente nel corso degli ultimi decenni in conseguenza dell’avvento di una piena globalizzazione. Ovviamente, da un punto di vista cristiano, tutto ciò affonda le radici nella Parola rivelata e principalmente nel messaggio evangelico. Ed è a partire dai testi sacri che si possono individuare alcuni assiomi, come pure alcuni elementi materiali, che possono essere considerati, nella concezione cristiana, “beni comuni”. Tuttavia, una specifica definizione di bene comune viene fornita ufficialmente dal Magistero della Chiesa cattolica attraverso la Costituzione pastorale del Concilio Vaticano II Gaudium et spes allorquando si afferma che per bene comune deve intendersi “l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente” (1965, n. 26) e viene poi approfondito nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa con la precisazione che “il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro” (Pontificio consiglio della giustizia e della pace, 2004, n. 164). PRECISAZIONI E PREMESSA. — Il (1) Difficile risulta dare un significato univoco alla locuzione “bene comune”; essa, infatti, assume sfumature diverse, a volte anche molto significative, a seconda della base culturale dalla quale si parte. A tale proposito, infatti, scrive Daniela Festa che “La contiguità dell’espressione “bene comune/beni comuni/comune” ha determinato una serie di slittamenti e confusioni che non hanno sempre favorito lo scambio tra discipline, pratiche, visioni, d’altro canto la prossimità con temi peraltro strettamente connessi come quelli relativi ai beni collettivi e ai beni pubblici ha ulteriormente complicato il quadro” (2015, p. 79). (2) Volutamente nel presente lavoro si tralascia di considerare quei beni comuni che, invece, possono rientrare nella categoria della trascendenza, in quanto il discorso sarebbe assai più complesso ed articolato e avrebbe bisogno di maggiori qualifiche per essere sostenuto in maniera adeguata. Quest’opera è soggetta alla licenza Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale Ma che cosa lega il concetto di bene comune elaborato in ambito cristiano ad una riflessione di carattere geografico sullo stesso tema (3)? Le due differenti speculazioni, che muovono da piani diversi, quello della fede il primo e quello della ragione il secondo, apparentemente sembrano non condividere alcunché, salvo il fatto che al centro di entrambe queste narrazioni, quella religiosa e quella scientifica, c’è l’uomo quale soggetto protagonista. Un soggetto che, in ambedue i casi, non è avulso dall’ambiente fisico, culturale e spirituale nel quale vive ed opera. Ed è proprio l’uomo ed il suo operare sulla faccia della Terra che costituisce il fondamentale anello di congiunzione fra le due anzidette speculazioni. Infatti l’uomo, di ogni epoca e ad ogni latitudine, ha avuto la necessità di rapportarsi con l’intorno geografico oltre che con una sfera spirituale che fin dalla preistoria ha assunto un ruolo importante nella relazione fra l’uomo ed il trascendente. Tale necessità risulta talmente connaturata ad esso che è stata sacralizzata, raccolta e narrata anche nei testi sacri. Ecco, dunque, che nell’ambito del cristianesimo, proprio all’inizio del racconto agiografico codificato nella Bibbia, fa la comparsa l’uomo, pienamente inserito nel contesto del Creato. Così, infatti, si esprime l’agiografo: Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, ancora nessun cespuglio della steppa vi era sulla terra, né alcun erba era spuntata nella campagna, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e non vi era chi lavorasse il terreno e facesse sgorgare dalla terra l’acqua dei canali per irrigare tutta la superficie del terreno; allora il Signore Dio plasmò l’uomo con la polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita; così l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, ad oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece spuntare dal terreno ogni sorta di alberi, attraenti per la vista e buoni da mangiare. E più avanti il testo sacro riprende: “Poi il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen 2,4b-9a.15). Il testo di Genesi, dal quale è tratto il brano appena riportato, cerca di spiegare le relazioni profonde che legano l’uomo alla Terra, attraverso gli strumenti che gli sono propri, cioè mediante la produzione di mythos, da intendersi, come scrive Adalberto Vallega, come “forma autonoma di pensiero o di vita, cui si attribuisce una funzione primaria nella costruzione della conoscenza, in una condizione di parità con la funzione esercitata dalla produzione razionale” (Vallega, 2004, p. 448). Terra che qui viene rappresentata primariamente dal giardino di Eden. D’altro canto, la scienza geografica ha analogo compito, sebbene attraverso strumenti diversi, quello, cioè, di comprendere il funzionamento e le leggi che stanno alla base dello stesso rapporto che lega l’uomo all’ambiente nel quale vive e agisce. 2. LA TERRA COME BENE COMUNE E GLI ESITI DELLA MONDIALIZZAZIONE. — Entrando, poi, più addentro nel discorso relativo ai beni comuni, il testo sacro appena ricordato ci offre anche la prima e più completa manifestazione di bene comune: la Terra stessa. La speculazione geografica ci ha insegnato che essa, attraverso un approccio di tipo olistico, che tenga cioè presente le espressioni dell’ambiente fisico e di quello antropico, deve essere esaminata nel suo insieme come un organismo vivente, un sistema complesso in continua trasformazione, costituito da varie parti tra loro interdipendenti. In questo sistema l’uomo, senza il quale verrebbe meno la realtà territoriale, ha una funzione di non secondario momento (Buttimer, 1986). A tale insegnamento corrisponde la riflessione del Magistero della Chiesa cattolica, che si esprime attraverso le parole di Paolo VI, il quale, nell’enciclica Populorum progresio, prendendo spunto dal primo capitolo del libro della Genesi, ricorda come “la creazione intera è per l’uomo, cui è demandato il compito d’applicare il suo sforzo intelligente nel metterla in valore e, col suo lavoro, portarla a compimento”. Ma Montini, appresso, rammenta ancora che se la terra è fatta per fornire a ciascuno i mezzi della sua sussistenza e gli strumenti del suo progresso, ogni uomo ha dunque il diritto di trovarvi ciò che gli è necessario. Il recente concilio l’ha ricordato: “Dio ha destinato la terra (3) Sebbene il concetto di beni comuni in geografia sia molto ampio e diversificato, una sommaria definizione può essere tratta dall’Encyclopedia of Geography, secondo la quale “the commons refers to a set of resources that are used by many people but privately owned by no one” (Richmond, 2010, p. 532). – 400 – e tutto ciò che contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, dimodoché i beni della creazione devono equamente affluire nelle mani di tutti, secondo la regola della giustizia, ch’è inseparabile dalla carità”. Tutti gli altri diritti, di qualunque genere, ivi compresi quelli della proprietà e del libero commercio, sono subordinati ad essa: non devono quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione, ed è un dovere sociale grave e urgente restituirli alla loro finalità originaria (PP 22). Le parole scritte da Paolo VI, oggi ancora più di allora, risuonano come vibrante monito per una società – quella capitalistica – che negli ultimi decenni si è ulteriormente imposta alla scala planetaria come formula vincente sul piano economico, socio-politico e culturale, anzi, per certi versi, si può affermare che tale modello, anche a seguito della caduta del Muro di Berlino, di ciò che questo ha comportato in termini geopolitici e di una conseguente accelerazione del processo di mondializzazione, si sia imposto come unico modello economico (Grillo, 2010). Pur tuttavia, esso mostra i segni di un progressivo “invecchiamento” e logoramento, tanto che in un futuro ancora non chiaramente definibile “il sistema [capitalistico] è ‘destinato’ ad essere sostituito con altro che meglio risponda agli obiettivi che la storia riterrà di darsi”, un sistema “i cui caratteri potranno essere rintracciati nel capitalismo stesso e/o in sistemi attualmente recessivi o quiescenti, ma del quale nulla possiamo veramente prefigurare” (Salvatori, c.d.s.), una sorta di capitalismo 3.0, come lo ha chiamato ed immaginato Peter Barnes (2006). Il fenomeno delle globalizzazione, del quale il suddetto sistema capitalistico si è servito per emergere e consolidarsi sempre di più rispetto ad altre strutture tradizionali, che, per certi versi, si sono rivelate meno efficaci, ha sortito effetti antitetici. Da un lato, infatti, esso rappresenta una potenzialità che, fino al suo verificarsi, mai si era conosciuta a così vasta scala nella storia dell’umanità in termini di liberalizzazione dei mercati, di diffusione di nuove tecnologie, di accesso ai più moderni mezzi della comunicazione e alla conoscenza, di confronto sereno fra diverse culture, in sostanza di interconnessioni di diverso tipo e a vari livelli: tutte azioni propedeutiche ad una possibile perequazione economico-sociale e, dunque, di lotta alla povertà e al divario tra Nord e Sud del mondo. Dall’altro lato, a causa della mancanza di un governo oculato e di una regia super partes a scala internazionale rispetto ad un processo di tale portata, la globalizzazione ha contribuito non solo a creare un divario sempre più marcato fra società opulente e società indigenti, generando, quindi, un problema di equa distribuzione di beni (e servizi) comuni “vecchi” e “nuovi” (4) (Toso, 2002), ma ha anche prodotto una “ovunquizzazione” dei luoghi (5), dando vita ad un’omologazione degli stessi con la conseguente perdita di valore ed identità territoriale ed un prevalere di interessi economici particolari rispetto all’azione politica e, dunque, comunitaria (Campanini, 2007; Sacco, 2012). Azione che, riprendendo il pensiero aristotelico, secondo cui l’uomo, definito z+on ʌȠȜȚIJȚțȩȞ, naturalmente è incline alla vita sociale, e passando attraverso una sua revisione medievale di stampo tomista, che ne ha dato una lettura improntata ai valori cristiani, si manifesta attraverso la societas e che “ha per fine non di asservire l’uomo, ma di farlo nascere a se stesso aiutandolo a raggiungere un fine più alto: il bene vivere o la felicità di vivere insieme” (Coatanéa, 2012, p. 424). Nel momento in cui, invece, l’azione politica ha ceduto il passo ai dettami dell’economia, invertendo così l’ordine di priorità, e quest’ultima ha potuto avvantaggiarsi di un assetto ormai globalizzato, anche servendosi della tecnocrazia, si è venuta a creare una situazione di permanente conflittualità che ha provocato lo scontro fra opposti interessi, “lasciando sul terreno i vinti”: gruppi sociali marginalizzati e relegati alle periferie esistenziali e ambiente. Vinti che, con sempre maggiore forza, chiedono di essere ascoltati e rispettati, pena il degrado umano e ambientale che porterebbe in breve ad una consunzione del sistema Mondo, fino ad estreme conseguenze facilmente immaginabili. (4) Non solo cibo, acqua, lavoro, beni ambientali, salute, eccetera, ma anche conoscenze e tecnologie, cultura, valori spirituali e così via. (5) In modo particolare, mi riferisco al fatto che, molto spesso, sono le economie e gli interessi di parte a dettare condizioni precise circa i nuovi assetti territoriali e socio-economici, senza, per altro, tenere conto della vocazioni che su quegli stessi territori si iscrivono. Solo per citare un caso esemplificativo, si pensi al processo di delocalizzazione di alcune attività, quali quelle manifatturiere, verso Paesi dove il costo della manodopera è assai meno oneroso a scapito della qualità della vita, della sicurezza sul posto di lavoro, della salubrità dell’ambiente e così via. Ciò, tuttavia, non incide negativamente solo sul Paese di destinazione delle attività delocalizzate, ma genera anche problemi socio-economici e territoriali che vengono ad interessare, parimenti, i Paesi di provenienza delle stesse. – 401 – 3. DAL BENE COMUNE GLOBALE AI BENI COMUNI PARTICOLARI. — La principale sfida del XXI secolo, dunque, è quella di ricomporre l’incrinatura che si è verificata, a partire dalla Rivoluzione industriale ed in un crescendo spazio-temporale, fra uomo e natura. Oggi l’imperativo categorico, dunque, è quello di ristabilire un equilibrio fra i due suddetti soggetti al fine di ripristinare un moto di rispetto del sistema Terra. Da questo, considerato in tutte le sue accezioni, deriva l’attenzione per gli altri beni comuni, che possono essere definiti parziali, in quanto rappresentano una parte del suddetto sistema, che vede una serrata interrelazione fra l’ambiente fisico e l’uomo e fra uomo e uomo. Tali ultimi beni sono, quindi, rappresentati dallo sviluppo integrale della persona, dall’accesso ai beni alimentari e all’acqua potabile, dalla salute, dalla cultura, dal lavoro che dia piena dignità all’individuo, dalla giustizia e dalla pace. Alla luce di ciò si comprendono le parole di Giovanni Paolo II nella lettera enciclica Centesimus annus: Oltre all’irrazionale distruzione dell’ambiente naturale è qui da ricordare quella, ancor più grave, dell’ambiente umano, a cui peraltro si è lontani dal prestare la necessaria attenzione. Mentre ci si preoccupa giustamente, anche se molto meno del necessario, di preservare gli “habitat” naturali delle diverse specie animali minacciate di estinzione, perché ci si rende conto che ciascuna di esse apporta un particolare contributo all’equilibrio generale della terra, ci si impegna troppo poco per salvaguardare le condizioni morali di un’autentica “ecologia umana”. Non solo la terra è stata data da Dio all’uomo, che deve usarla rispettando l’intenzione originaria di bene, secondo la quale gli è stata donata; ma l’uomo è donato a se stesso da Dio e deve, perciò, rispettare la struttura naturale e morale, di cui è stato dotato (CA 38). In sostanza si tratta di ritrovare un equilibrio nella relazione originariamente armonica tra essere umano e natura e tra gruppo sociale e gruppo sociale, equilibrio che, a causa della mancanza del riconoscimento da parte dell’uomo dei propri limiti e, soprattutto, di una visione utilitaristica da parte di alcune società e di alcuni gruppi, si è trasformato in contrasto. Quest’ultimo, secondo l’ecologia dei poveri, “nasce dai conflitti sociali intorno al diritto e alla titolarità sull’ambiente, ai rischi di contaminazione, alla perdita di accesso alle risorse naturali e ai servizi ambientali” (Martinez-Alier, 2009, p. 1). Alla base di tale conflitto, secondo quanto esposto da Papa Francesco nella lettera enciclica Laudato si’, ci sono tre pilastri cardine, che hanno fatto subire al mondo una devianza rispetto al suddetto ordine armonico originale: quello che lo stesso Pontefice chiama il “paradigma tecnocratico”, un modello, cioè, di relazioni fra uomo e ambiente basato essenzialmente sul prevalere della scienza e, soprattutto, delle tecnologie rispetto ad una realtà priva di sovrastrutture complesse; un certo tipo di politica, ripiegata su se stessa e più attenta ad un prestigio e ad un potere personale di pochi a scapito del bene comune; infine, la finanza, che costituisce, in fondo, il motore principale di un’alterata relazione fra l’uomo e l’ambiente e fra uomo e uomo e che governa, di fatto, sia la tecnoscienza, sia la politica. Su tutto, dunque, sembra prevalere la finanza, che, con le sue regole spregiudicate, che servono a garantire gli interessi di una ristrettissima fascia di popolazione e servendosi della politica e della tecnocrazia quali strumenti di attuazione di logiche di parte, crea i principali squilibri esistenti fra il Nord ed il Sud del mondo, producendo non soltanto un divario economico fra gli abitanti di queste due realtà, ma alterando anche il rapporto fra uomo e ambiente e addebitandone le spese a chi, invece, non ne trae nessun beneficio o quasi. Attorno a questi tre concetti ruota, poi, un più ampio complesso di trame ed orditi che costituiscono il tessuto della realtà attuale dell’uomo sulla Terra: dal concetto di sviluppo a quello di sostenibilità, dalle problematiche connesse all’accesso alle risorse alla riscoperta delle identità locali e di un vivere quotidiano più a misura d’uomo, lontano dalle logiche di efficientismo e di consumo che viene imposto dalle società industriali e dalle lobby economico-finanziarie e così via. 4. UN NUOVO SENSO ANTROPOGEOGRAFICO DEL SISTEMA MONDO IN CHIAVE SPIRITUALISTA: manifestazioni delle attività antropiche sulla superficie terrestre, da circa due secoli a questa parte, sono state impostate (almeno per le società industriali, cioè quelle CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE. — Le – 402 – egemoni) sull’elemento razionale che ha avuto il sopravvento su quello spirituale, giungendo, così, a dare vita ad un antropocentrismo sempre più marcato, che ha finito per privilegiare la conoscenza finalizzata ad uno sfruttamento delle risorse piuttosto che la comprensione di ciò che ci circonda ed un suo utilizzo secondo le reali necessità di ognuno. Tale comportamento, di fatto, ha estromesso, in buona parte, la natura dalla vita umana, come se le due non fossero una cosa sola (Lucia, 2015). Per utilizzare un’immagine ripresa anche da Papa Francesco, si è venuto a creare una sorta di iato fra l’Adamo biblico ed il Giardino edenico che gli è stato consegnato da Dio affinché lo coltivasse e lo custodisse: uno spazio edenico, cioè quello di una natura in equilibrio con l’operato umano, che, al giorno d’oggi, deve essere riscoperto, reinterpretato e praticato secondo nuovi e più correnti paradigmi, che da qualche tempo ormai si stanno palesando anche nella speculazione scientifica (6), al fine di ricomporre quell’armonia paradisiaca, che la modernità e ancor più la contemporaneità, invece, hanno provveduto a distinguere o, meglio, a separare in maniera netta, direi antitetica. Si tratta, cioè, di ripensare il rapporto culturale, sociale, economico e, in definitiva, territoriale fra uomo e ambiente, soprattutto in una fase storica nella quale non solo nelle regioni industrializzate, ma anche in quelle in via di sviluppo la popolazione si rivolge con sempre più interesse a quelle aree “artefatte” per eccellenza, rappresentate dai contesti urbani, guardando, di contro, alle realtà rurali come ad uno spazio antiquato e privo di possibilità per il futuro. Si tratta, in sostanza, di rispondere alle istanze più attuali relative al modo di vivere e abitare la Terra da parte dell’uomo, ripartendo dal territorio, come lo stesso Francesco dice quando afferma che È necessario […] comprendere che lo sviluppo di un gruppo sociale suppone un processo storico all’interno di un contesto culturale e richiede il costante protagonismo degli attori sociali locali a partire dalla loro propria cultura. Neppure la nozione di qualità della vita si può imporre, ma dev’essere compresa all’interno del mondo di simboli e consuetudini propri di ciascun gruppo umano. E ancora: In questo senso, è indispensabile prestare speciale attenzione alle comunità aborigene con le loro tradizioni culturali. Non sono una semplice minoranza tra le altre, ma piuttosto devono diventare i principali interlocutori, soprattutto nel momento in cui si procede con grandi progetti che interessano i loro spazi. Per loro, infatti, la terra non è un bene economico, ma un dono di Dio e degli antenati che in essa riposano, uno spazio sacro con il quale hanno il bisogno di interagire per alimentare la loro identità e i loro valori (LS 144.146). Le parole di Papa Francesco sembrano un arricchimento del pensiero formulato da Alberto Magnaghi, secondo il quale è “necessaria [una] ricostruzione, in ogni luogo della Terra, delle basi materiali e delle relazioni sociali necessarie a produrre una nuova civilizzazione che scaturisca da rinnovate relazioni coevolutive fra insediamento umano e ambiente” (Magnaghi, 2012, p. 5). Un ambiente che, sotto la pressione della finanza, che si è avvalsa di una politica forte impostata su criteri timocratici, e avendo come panacea di ogni male la tecnocrazia, ha finito per subire una forte pressione antropica. Si tratta, in definitiva, di restituire un rinnovato valore al senso di comune e comunità, dei quali il Magistero della Chiesa ci ha fornito una chiave di lettura, condivisibile o meno, al fine di elaborare non solo concetti comuni, ma anche speculazioni di carattere scientifico che possano fungere da base ad un diverso modo di approcciarsi alla realtà geografica e dare un’urgente e necessaria risposta alle problematiche del vivere in comune all’interno del sistema Terra. (6) Si vedano, a tal proposito, gli sforzi fatti a partire dagli anni Settanta del secolo scorso nelle varie conferenze e riunioni tenutesi a scala planetaria, alle quali, tuttavia, non ha fatto seguito una vera e coerente azione politica. – 403 – BIBLIOGRAFIA BANINI T., “Tra il dire e il fare. Natura, pratiche umane e geografia”, Bollettino della Società Geografica Italiana, 7, 2014, pp. 237-250. BARNES P., Capitalism 3.0. A Guide to Reclaiming the Commons, San Francisco, Berrett-Koehler Publishers, 2006. 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SUMMARY: This paper focuses on a particular meaning of “commons” concept elaborated within Christianity context (particularly Catholicism), which is rooted in the Social Doctrine of the catholic Church. Some key themes of contemporary world are addressed in the paper, playing on the relationship between capitalistic system and globalization, on one side, and between development and sustainability, on the other, all issues related to resource access, local identity rediscovery and a more humane everyday life, far from consumption and cult of efficiency related principles imposed by industrial societies and economic and financial lobbies, in order to give back on improved significance to the sense of common and community. Parole chiave: dottrina sociale della Chiesa cattolica, globalizzazione, capitalismo, identità, societas Keywords: social doctrine of the Catholic Church, globalization, capitalism, identity, societas – 404 –