54 — prosa
Thomas Bernhard
secondo
Alessandro G.
L
Thomas Bernhard commediografo si registrò a Venezia nel 1984, quando il Festival di Teatro della Biennale
mandò in scena al
Teatro Goldoni la
tredicesima commedia del grande
austriaco, ovvero
L’apparenza inganna, nell’edizione
creata anni prima
da Claus Peymann
per lo Schauspielhaus di Bochum,
protagonista il più
famoso dei suoi interpreti, il grande
Bernhard Minetti,
catturato dall’apparenza che non
inganna della città da lui scoperta
in quell’occasione.
Ad accompagnare
l’avvenimento fu
allora organizzata una serie di incontri con importanti personalità,
da quello in cui il
regista prediletto
di Bernhard veniva presentato e interrogato dal suo
traduttore italiano
Eugenio Bernardi, alla proiezione
dei video di altre
due messinscene
dell’autore curate sempre da Peymann, ma anche di
un film su Minetti diretto da Bruno
Ganz e Otto Sander, mentre lo stesso Ganz era presente di persona a
leggere, sempre al
Goldoni, una serie di brani scelti dello scrittore.
Non si può non ricordare questo memorabile contatto
a prima volta di
prosa
di Franco Quadri
La forza dell’abitudine di Thomas Bernhard,
regia di Alessandro Gassman.
con l’opera di quel grande, in attesa come siamo
per fine ottobre della prima veneziana del suo Immanuel Kant visto da Alessandro Gassman, dopo il trionfale debutto del giugno scorso al Napoli Teatro Festival,
tenendo conto che il nuovo direttore del Teatro Stabile del Veneto, probabilmente anche mosso nel profondo
dalle sue origini per parte di madre, si sta specializzando come capofila dei nostri registi veramente interessati al mondo e alla dialettica di questo grande autore del
Novecento.
Tutto cominciò nel 2002 dalla proposta di mettere in
scena La forza dell’abitudine per il Festival di Borgio Verezzi, una commedia che già era stata presentata in Italia un paio di volte, in una versione politicamente impegnata e in una intellettualistica, ma che di colpo divenne nuovissima grazie al coraggio di Alessandro nel rite-
nere la sua teatralità così pregnante da arrivare più
diretta al pubblico quanto più semplicemente gliela si offre. Eccolo quindi affidarsi a una comunicativa po-
polare e universale da poter affrontare con dettami realistici trasferendola dall’ambiente tedesco originario a quello siciliano più consono al linguaggio dei membri della famiglia Colombaioni chiamati nello spettacolo a svolgere i
loro ruoli abituali in questa allegoria circense e a un attore-impresario come Carlo Alighiero, scelto per incarnare
il direttore del circo da lui tiranneggiato provando all’infi-
nito la stessa sonata.
Tre anni dopo il regista riprese lo spettacolo con la novità determinante di assumersi anche il ruolo del protagonista, che lo
metteva più direttamente in gioco: in effetti questo lo equiparava
all’autore, impegnato in un ennesimo attacco contro un teatro incapace di essere arte,
dal momento che
si appropriava della rabbia del personaggio contro
la verità ricostruita dai suoi clown
intenti a recuperare una esperienza di vita, mentre come interprete sceglieva il piano della finzione
e si rendeva irriconoscibile truccato com’era da vecchio iroso calvo,
scosso da violente urla in cui si sentivano riemergere
emozionanti assonanze ereditarie. E
con sincera modestia così Alessandro esprimeva le
sue intenzioni registiche: «Il mio
semplice intendimento sarà quello di far emergere
la straordinaria capacità di Bernhard
nel descrivere tutti noi, attraverso
le ridicole e tenere
imprese del direttore Caribaldi, del
giocoliere, del domatore, della ballerina sul filo e del
buffone. Il comico
tentativo dei nostri
eroi di suonare tutte le sere, dopo lo
spettacolo, il quintetto La trota di Schubert, l’incapacità tecnica e psicologica
che li attanaglia, l’incomprensione per l’importanza della
missione, scatena nel direttore una rabbia crescente. La sua
maniacale ansia di perfezione e lo sgomento di non riusciQui e alla pagina seguente: Immanuel Kant di Thomas Bernhard,
regia di Alessandro Gassman (Archivio Napoli Teatro Festival Italia).
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re nel suo intento, ne fanno
un protagonista esilarante,
a volte tirannico (nel quale onestamente mi riconosco, condividendone, ahimé, ansie e paure), al quale
forse dovremmo tutti volere un po’ di bene…».
« …M a la stirpe dei profeti si è estinta…» era la
citazione di Artaud scelta dall’autore per accompagnare La forza dell’abitudine. Ed è praticamente
dall’indomani del riuscitissimo debutto di questo rimontaggio del suo primo
Bern​hard che Alessandro
comincia a pensare al secondo, ovvero il leggendario Immanuel Kant, una farsa dove si ipotizza un fantastico viaggio di un grande maestro realmente esistito quale fu l’inamovibile filosofo di Konigsberg –
o di una sua caricatura, dato che il suo personaggio
nel testo dice «Tutto è caricatura» – un viaggio negli
Stati Uniti, perché il personaggio soffre di un glaucoma destinato a essere curato alla Columbia University, dato che, come dice la
moglie che l’accompagna:
«Tu porti all’America la ragione e l’America ti dà la vista». L’azione è ambientata
su un transatlantico pochi
anni dopo l’affondamento
del Titanic, che continua a
venir citato nelle conversazioni con la moglie sciocca
e petulante o con lo schiavo incaricato di occuparsi del pappagallo cinquantenne che è la mente e la
memoria parlante del filosofo e l’accompagna dovunque chiuso in un sacco. Tutt’intorno non mancano una milionaria ciarliera e un lussurioso contorno di personalità militari, religiose, pseudoartistiche che creano un finto teatrino dove si parla di
tutto senza ascoltarsi, molto verosimile nella sua inutilità, ma che la regia alimenta in un’esilarante mostra delle vanità alimentata
Venezia – Teatro Goldoni
20, 22, 23 ottobre, ore 20.30
21, 24 ottobre, ore 16.30
Padova – Teatro Verdi
2-6 novembre, ore 20.45
7 novembre, ore 16.00
Immanuel Kant
di Thomas Bernhard
traduzione Umberto Gandini
regia Alessandro Gassman
scene Gianluca Amodio
costumi Gianluca Falaschi
personaggi e interpreti:
Immanuel Kant Manrico Gammarota
Milionaria Mauro Marino
Signora Kant Paolo Fosso
Ernst Ludwig Emanuele Maria Basso
Ammiraglio Giacomo Rosselli
Collezionista d’arte Nanni Candelari
Cardinale Massimo Lello
Primo cuoco, cantante Giulio Federico Janni
Steward Marco Barone Lumaga
Prete, venditore Matteo Fresch
Cantante musicista, secondo cuoco, cameriere Davide Dolores
Cantante musicista, terzo cuoco, cameriere Massimilano Mastroeni
Portuale Paolo Bandiera
Portuale Matteo Cicogna
produzione Teatro Stabile del Veneto
e Teatro Stabile delle Marche
in coproduzione con Napoli Teatro Festival 2010
da una recitazione
di prim’ordine che
dal trombonismo strabordante del protagonista di
Manrico Gammarota, alle signore divertentissime
e plausibili create da Mauro Marino e Paolo Fosso,
a Emanuele Maria Basso in tenuta da falso schiavo, a tutti gli altri caratteristi, compiono il miracolo
di dare una verità a questo
assoluto sciocchezzaio, che
del resto aveva trovato delle basi all’inizio della serata
in una finzione pseudorealistica con l’arrivo di gruppi di finti spettatori carichi
di bagagli per creare una
atmosfera da nave in partenza, ovvero della falsa
base su cui viene costruita questa commedia intesa
a colpire la megalomania
dell’uomo di genio, minacciato dalla cecità non solo
fisica, e tra l’altro visto in
altomare dove ogni sicurezza vacilla, per rimanere,
come si addice a Bernhard,
in uno stato di «perturbamento». Tra le onde predisposte in primo piano e sul
fondo della scena di Gianluca Amodio, all’interno
della quale un cieco e tanti sordi loquaci sviluppano
la quotidianità volutamente malata del testo, denunciandone la vitalità anacronistica e una cecità inguaribile, mentre si alza la rabbia del filosofo e la regia ne
accentua espressivamente il pessimismo: ci rivela
infatti il vuoto della gabbia del sapere che avrebbe dovuto ospitare il pappagallo con funzione di
memoria. E a quel che resta del finto filosofo fa pronunciare dei brani d’accusa scelti tra i molti scritti da Bernhard per denunciare il suo paese, a sigillo di una grande serata. ◼
Bernhard
e il teatro
A
di Eugenio Bernardi
Vienna, dove da qualche tempo ai turisti che
fanno il giro della città in carrozza i cocchieri indicano oltre ai monumenti più noti anche i caffè frequentati da Thomas Bernhard, si è conclusa a luglio una mostra dedicata a questo autore sempre più amato. La mostra, allestita nella prestigiosa sede dell’Öster-
reichisches Theatermuseum per ben otto mesi (contemporaneamente a una mostra su Gustav Mahler nello stesso edificio), s’intitolava «Österreich selbst ist nichts als eine Bühne» (L’Austria stessa non è che un palcoscenico).
Metteva in primo piano infatti il Bernhard autore di teatro, con un’ampia documentazione di scritti, foto e video. Il catalogo porta in copertina una famosa fotografia di Bernhard che nel novembre del 1988, negli ultimi
mesi della sua vita, assiste da un palco alle prove di Heldenplatz (Piazza degli eroi), la commedia che fece grande
scalpore e decretò il trionfo del suo autore. Anche il titolo dell'esposizione è una citazione da questa commedia celeberrima.
I fatti che ne accompagnarono la stesura e la messinscena sono noti: il Burgtheater, o meglio il regista Claus
Peymann che lo dirigeva e già aveva allestito quasi tutte le pièce di Bernhard realizzando degli spettacoli di
straordinaria nitidezza, aveva chiesto a Bernhard un teA destra: Thomas Bernhard (teos.fi).
Sopra: Immanuel Kant, regia di Claus Peymann.
Württembergische Staatstheater Stuttgart.
Interpreti: Peter Sattmann e Traugott Buhre. Stoccarda 1978.
sto da inserire nel programma del teatro previsto per il
1988, l’anno in cui si ricordava, a cinquant’anni di distanza, l’Anschluss, ossia l’annessione dell’Austria al Terzo Reich. Il programma comprendeva vari testi scelti secondo un criterio abbastanza elastico e connessi all’avvenimento in modo per lo più indiretto, ossia attraverso il
tema della memoria di un passato che continua a incombere sul presente. Non era difficile trovarne nella storia
del teatro, dove l’argomento è presente fin dagli inizi. I
drammi prescelti non affrontavano il tema di petto, vi alludevano: a Cesare Lievi, ad esempio, fu chiesto di allestire Spettri di Ibsen. Nel testo di Bernhard gli spettri venivano affrontati direttamente al punto da provocare il panico da parte delle autorità e dei giornali più
conservatori. Quando uno di questi, il più
diffuso, arrivò a conoscere e a pubblicare alcune battute estrapolate dal testo (che, come è tradizione nei teatri di lingua tedesca,
non viene pubblicato
prima dello spettacolo)
la reazione fu enorme
e spettacolare: il ministro degli esteri (Mock)
ne chiese la cancellazione dal programma, il presidente (Waldheim) chiese l’intervento della censura, il
capo del risorto partito
di estrema destra (Haider) facendosi paladino
dei «cittadini che pagano regolarmente le tasse», denunciò l’abuso
del principio della libertà dell’arte riferendosi a una pièce che fino a quel momento si conosceva
solo per sentito dire. Un carro era pronto a rovesciare letame (l’Austria rurale è sempre alle porte) sulla suntuosa soglia del teatro. Iniziato lo spettacolo, un po’ alla volta il panico si calmò, gia la prima scena con le due inservienti che parlando del padrone suicida continuano a stirare camicie per poi ributtarle per aria e riprendere a stirarle, era una chiara allusione alla futilità delle chiacchiere e delle opinioni.
Alla fine venne il trionfo, ovazioni come
quelle che si sentono a Salisburgo e a Bayreuth, e per la prima volta l’autore, emaciato ma divertito, si presentò sul palcoscenico con il regista e gli attori, rispondendo agli applausi e stendendo la mano
agli spettatori accalcati sotto la ribalta.
Gli spettri tuttavia erano apparsi sulla scena, l’autore, a suo modo, li aveva evocati. Si parlava di un professore ebreo di nome Schuster che ritornato a Vienna dopo molti anni, disgustato di ritrovarvi l’antisemitismo di un tempo,
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si suicida. A parlare di lui è il fratello Robert che si è amaramente rassegnato alla situazione, ma non manca di inveire contro l’Austria di oggi, un po’ come Bernhard stesso aveva inveito nei suoi interventi pubblici, soprattutto in occasione del conferimento di premi letterari statali (interventi che ora si possono leggere in italiano nel volumetto pubblicato recentemente da Adelphi e intitolato
I miei premi). Heldenplatz (che è il nome della grande piazza davanti alla Hofburg dove Hitler aveva celebrato il suo
trionfo a Vienna) non è la migliore commedia di Bern-​
hard: troppo lunghe le conversazioni del secondo atto,
troppe ripetizioni, troppo breve l’unica parte femminile
di rilievo, quella della moglie del sopravvissuto, mentre
la parte (preponderante) di costui è troppo diluita e troppo poco compatta per essere ricostruibile al di fuori di
un contesto viennese. In Italia il testo non è andato ancora in scena, in Francia, a leggere le recensioni, è stato am-
piamente rimaneggiato. Incomprensibile poi, al di fuori
del contesto austriaco-viennese, lo sfondo su cui si svolge il secondo atto, ossia la sagoma del Burgtheater, il luogo quindi in cui lo spettacolo avviene e nello stesso tempo la cassa di risonanza, per così dire, in cui anche questo testo di Bernhard si iscrive. Il finale, quando la moglie
del loquacissimo protagonista china improvvisamente la
testa sul tavolo e muore, è stato acutamente interpretato
non solo come una mortale conseguenza delle urla della
folla del ‘38, ma anche come un tragico segnale della insopportabilità di discussioni e recriminazioni verso un
passato che non passa. Era un finale di grande o anche di
eccessivo effetto, in cui le urla che la donna sente da anni nella sua mente turbata venivano fatte risuonare anche in sala, con un espediente a cui Bernhard ricorre solo in questo caso e che si può paragonare al sorprendente finale di Auslöschung (Estinzione) dove il protagonista,
una volta liberatosi da un passato di orrori, dona alla comunità israelitica di Vienna l’immensa proprietà di cui è
l’unico erede. Nella radicalità delle provocazioni
di Bernhard infatti, oltre a una focalizzazione sempre più precisa dei motivi dei suoi clamorosi modi provocatori e quindi dello sfondo sociale e politico che li determina (si leggano a questo proposito i cinque volumi della
sua autobiografia), c’è sempre anche l’ impulso al riscatto,
alla liberazione, alla «cancellazione» (che è un altro modo di tradurre Auslöschung). Un elemento questo che lo distingue da Beckett o da Cioran a cui Bernhard è stato più
volte frettolosamente accostato.
Con ciò non si vuol dire che egli voglia sfuggire all’incontro con gli spettri del passato, anzi proprio dalla prospettiva di questa commedia si intende chiaramente come questo autore, nella lunga parabola della sua opera,
ben disegnata fin dall’inizio e prevista, in modo stupefacente, non abbia fatto che incalzare sempre più da vicino l’evento che ha determinato il destino dell’Austria
moderna, ossia la fine della Prima Repubblica e l’annessione al
Reich, per tanti anni
interpretata come un
atto di violenza, ma in
realtà preparata e auspicata dal governo e
dall’assoluta maggioranza della popolazione. Far risuonare quelle urla di giubilo per
l’entrata trionfale di
Hitler a Vienna voleva
dire rievocare in modo clamoroso e spettacolare quell’evento
ma soprattutto l’atteggiamento politico connesso, che aveva continuato per molti anni a
respingere l’idea di una
complicità dell’Austria
facendone ufficialmente una vittima del
nazionalsocialismo.
A questa questione Bernhard si avvicina con una strategia molto particolare, non ricorrendo
a strumenti di denuncia politica (come era avvenuto in
Germania, dai tempi di Peter Weiss in poi), ma evocando figure e situazioni che appartengono alla grande tradizione viennese della svolta del secolo. Anche le storie
più scarne (nel teatro) o più contorte (nei racconti) avvengono, a partire da Gelo ( racconto) e dall’Ignorante e il folle
(commedia) avendo per sfondo e per contrasto un mondo di bellezza e intelligenza inesorabilmente perduto, di
cui il testo moderno porta il ricordo sfigurato: la follia
di un pittore che cerca se stesso in un paese di montagna che è la smentita dell’idillio (il racconto), la sofferenza di un soprano costretta al ruolo impervio della mozartiana Regina della notte e sempre più tentata di mandare
all’aria lo spettacolo, mostrare la lingua al pubblico e sparire (la commedia).
Heldenplatz, regia di Claus Peymann. Burgtheater Wien.
Theatertreffen, Berlino 1989.
L’arte dunque, la musica, la letteratura, il teatro,
ma anche le grandi costruzioni dello spirito, scienza e filosofia, presentate, nella prospettiva non tanto della modernità, quanto di una tradizione tradita, di una deviazione perversa che non può non sfociare nella follia.
I racconti di Bernhard sono popolati di personaggi folli o prossimi alla follia, i quali, folgorati da un’improvvisa intuizione, abbandonano ogni cosa per dedicarsi ad un
lavoro scientifico-filosofico con cui credono di definire il
mondo e se stessi come avevano fatto i grandi di un tempo. Sono dei megalomani, degli egocentrici,
capaci di tiranneggiare
chi gli sta d’attorno, soprattutto le donne, ridotte a schiave, a cavie
di astrusi esperimenti e
di perverse cerimonie,
a prigioniere di fratelli da manicomio. Per la
loro smisuratezza e radicalità è chiaro che le
imprese intellettuali di
questi individui sono
destinate al fallimento conducendo chi le
persegue al limite della follia, là dove la formulazione del progetto, la sua «logica» e il
linguaggio che la vuole comunicare s’inceppa, si contorce, sforza
la sintassi all’estremo,
con effetti di vertigine
per chi li persegue ma
anche per chi vi partecipa da lettore. I personaggi di Bernhard tuttavia non raggiungono
il balbettio e l’insensatezza, tendono piuttosto (fin dal primo racconto e dalla prima
commedia) a scandagliare i percorsi del cervello, a sezionarlo come si propone esplicitamente di fare un dottore nella prima pièce ma anche un filosofo che in una
commedia di qualche anno dopo si propone di migliorare il mondo.
Il linguaggio del teatro non conosce le vertigini della
prosa, ma l’intento di mostrare cosa avvenga nelle pieghe
della mente delle persone «perturbate» rimane: nel testo
le battute degli attori sono formulate in singole frasi staccate, senza punteggiatura, sono per così dire sospese, e
con i continui salti del discorso, le ripetizioni, le immagini ossessive, le improvvise illuminazioni inducono chi
ascolta a intendere quanto labile sia ogni discorso, quan-
to poco dicano le parole di quello che uno è. Quella che
potrebbe sembrare una chiacchiera a ruota libera o anche un’infilata di battute (anche farsesche, come in Immanuel Kant, per esempio) può celare dei pensieri che hanno
a che fare con la situazione dell’uomo nell’era di una civiltà al tramonto. In questo senso Claus Peymann ha potuto definire il ciclo delle commedie di Bernhard (diciotto commedie più dieci dramoletti, alcuni in dialetto) un
«Totentanz» della civiltà borghese.
Grandi ruoli per grandi attori, «attori intelligenti» come li voleva Bernhard, capaci di rimanere in equilibrio tra
battuta e battuta, tra
saggezze e sproloqui, tra pensieri filosofici e banalità. Individui farneticanti che non tendono a
diventare personaggi a tutto tondo o casi psicologici, ma rimangono imprevedibili nelle loro reazioni, egocentrici consapevoli della insensatezza delle proprie
manie, sempre tentati
tuttavia da ambizioni
di genialità, da utopie
fallimentari. Bernhard non denuncia
nessuno, non si distacca cioè dai suoi
personaggi, né come
commediografo né
come prosatore, nella consapevolezza di
essere lui stesso radicale e commediante,
veritiero ed esagerato nello stesso tempo.
Il teatro di Bernhard, affidato fin
dal primo momento a grandi registi e a
grandi attori, ha educato una generazione
di interpreti e ha creato un’epoca straordinaria di spettacoli. Il catalogo della
mostra raccoglie opinioni di critici teatrali e dichiarazioni
di celebri attori bernhardiani. Sono soprattutto quest’ultime (di Bernhard Minetti, Marianne Hoppe, Gert Voss,
Traugott Buhre, Martin Schwab, Ulrich Matthes) a far intendere, anche a chi non ha potuto seguire tutta la parabola creativa di Bernhard, quanto essa abbia inciso sulla
civiltà teatrale con una serie di testi in cui anche la figura più inerme e ridicola porta in sé il ricordo di una grande tradizione. ◼
Der Ignorant und der Wahnsinnige, regia di Claus Peymann.
Interpreti: Bruno Ganz, Angela Schmid, Margret Hohmeyer, Ulrich
Wildgruber. Salisburgo 1972.
Le immagini degli spettacoli sono tratte da: Thomas Bernhard,
Teatro IV (L’ignorante e il folle, Immanuel Kant, Prima della
pensione), Ubulibri, Milano 1999.
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Un estratto da
«Immanuel Kant»
Immanuel Kant
di Thomas Bernhard
Personaggi
Kant
Signora Kant
Ernst Ludwig
Federico, un pappagallo
Milionaria
Capitano
Ammiraglio
Cardinale
Collezionista d’arte
Steward
Vicesteward
Cuoco
Ufficiali di bordo
Marinai
Passeggeri
Medici
Infermieri
Musicisti
(allo Steward) È la prima volta
come sa
che andiamo in America
Non ho mai sentito il bisogno
di andare in America
Andare in America
è perverso
In fondo io viaggio solo
per far piacere a mia moglie
È tutta la vita
che lo desidera
Ora che la Columbia University
ti ha conferito la laurea honoris causa
devi andare in America
mi ha detto
e io ho acconsentito senza esitare
Si figuri
Ho acconsentito senza esitare
Non volevo portare nulla con me
se non la mia mente e Federico
ed Ernst Ludwig naturalmente
e invece ora abbiamo una quantità di bagagli
Le donne viaggiano sempre con valigie enormi
Mancanza di gusto naturalmente
Per quel che personalmente mi riguarda
mi basta
cambiarmi d’abito
ogni due giorni
Tutto ciò che non è
non è
e tutto ciò che è
è
Il principio dell’identità
capisce
prosa
kant
da: Thomas Bernhard, Teatro IV (L’ignorante
e il folle, Immanuel Kant, Prima della pensione),
Ubulibri, Milano 1999, pp. 109-110.
Il teatro
di Thomas Bernhard
è pubblicato
nella collana dei Testi Ubulibri.
TVTB ovvero:
sulla scrittura di
Thomas Bernhard
D
di Vitaliano Trevisan
anche così! Via le descrizioni, via i dialoghi, ma soprattutto: via il cosiddetto «discorso diretto» che, come si sente dire fin
troppo spesso, fissando sulla pagina l’altrettanto cosidunque si può fare
detto «parlato», dovrebbe garantire un maggior effetto
di realtà, ma spesso, per non dire sempre, non fa che abbassare la lingua e, per quanto mi riguarda, intralcia la
lettura, specie ad alta voce; e in più, altra conseguenza
per me molto irritante, frammenta la pagina anche a livello visivo. Insomma: via tutto ciò che è strano. Un’eco
di Beckett che, parlando di Bernhard, non deve stupire:
i due, per le ragioni di cui sopra, ma non solo, sono molto più vicini di quanto si pensi. Esiste solo il monologo.
Ancora Beckett. Potrebbe essere Bernhard. Certo essi risolvono la questione in modo molto diverso – un io sovraccarico, ipertrofico nel caso di Bernhard; un io alleggerito, diafano fino alla trasparenza, in quello di Beckett
–, ma in fondo il problema è lo stesso, ovvero: preso atto
che l’avvento della fotografia ha fatto fuori la terza persona, come far passare tutto, cioè come far passare il mondo, attraverso la prima? E ancora: in un presente dominato, e ormai anche domato, dall’immagine fotografica,
fissa o in movimento, esiste ancora la possibilità di una
scrittura che non si riduca, nel migliore dei casi, a semplice arte della didascalia? Ovvero, e per cercare di essere il più chiari: è ancora possibile scrivere «per immagini», facendo però in modo che esse immagini scaturiscano direttamente dalle parole, anziché precederle? Non
In alto: Thomas Bernhard nel settembre 1988
(foto di Erika Schmied – passauer-thomas-bernhard-freunde.de).
Samuel Beckett (foto di Jane Brown – joeoreilly.co.uk).
è certo un caso se dai loro testi «narrativi» – a parte, per
quanto riguarda Bernhard, il film tratto dal racconto incompiuto L’italiano, cui ha partecipato, anche come attore, lo stesso autore – nessuno si sia mai sognato di trarre
un film. E due volte non casuale il fatto che quegli stessi testi, così intrinsecamente e, chi scrive ne è convinto,
scientemente anti-cinematografici, non oppongano alcuna
resistenza, prestandosi anzi «naturalmente» – trattando
di Bernhard è bene mettere tra virgolette il termine «naturalmente»; anche quando in corsivo – all’adattamento/
riduzione teatrale. In fondo, si tratta di parole che cercano una voce, scritte ad alta voce, per così dire. E, ancora
una volta, due volte è così nel caso si tratti di testi teatrali, cioè scritti espressamente per il teatro. «Naturalmente», specie nel caso Bernhard, scritti per uomini e donne di teatro che credano ancora
nella possibilità di un testo. Teatro di parola! Ecco un’espressione che ricorre spesso
in casi come questo. E sempre a vanvera. A
ben guardare non significa nulla. Una delle tante definizioni fatte apposta per inquinare il discorso. Non è di questo che si tratta, quanto piuttosto di accettare la drammaturgia intrinseca del testo in quanto composizione di parole, e aprirsi perciò a esso
in senso musicale. Nessuna necessità di farci qualcosa di interessante, ovvero: nessuna
possibilità, a priori, per il cosiddetto «teatro di regia». Come abbiamo detto, si tratta
di una scrittura che cerca la voce, cioè cerca l’attore, e, «naturalmente», l’ascoltatore.
In definitiva, parafrasando lo stesso Bernhard, una scrittura che, per farsi teatro, ha
bisogno, purtroppo o per fortuna, almeno
di un attore e almeno di uno spettatore.
Molto ancora resterebbe da scrivere. Ad
esempio sul fatto che il teatro, ma direi la scrittura di Bernhard nella sua totalità, è sempre una scrittura intrinsecamente comica, nel senso che il comico scaturisce non solo,
e non necessariamente, dalla situazione, ma direttamente nel farsi della frase, a partire cioè dalla sua costruzione grammaticale, dal fondamento stesso della scrittura
in quanto sistema di regole e convenzioni che, per chi la
intende come pratica artistica, va messo costantemente,
ostinatamente alla prova. Un atteggiamento possibile solo a patto
di avere fede, cioè credere,
a dispetto del mondo, che fare letteratura, sulla pagina come sulla scena, abbia
ancora un senso. «Naturalmente», al punto in cui siamo,
una fede del tutto priva di speranza. Ed ecco il
tragico.
E nello stesso
punto, nell’esatto
momento, ecco il
comico. ◼
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Renato Palazzi
nell’inedita veste
d’interprete
Il critico recita per gli amici
«Goethe schiatta» di Bernhard
R
a cura di Leonardo Mello
prosa
enato Palazzi è uno dei critici teatrali italiani più importanti e stimati. Per una volta però ha deciso di passare
dall’altra parte della barricata, divenendo interprete – soltanto per gli amici e in spettacoli «casalinghi» per pochi spettatori –
di un testo narrativo di Thomas Bernhard, Goethe schtirbt, il
cui titolo è volutamente storpiato dall’autore rispetto alla grafia corretta «Goethe stirbt» (che significa «Goethe muore»), ed è stato perciò tradotto con Goethe schiatta. Ci facciamo raccontare come è
nata questa inconsueta esperienza.
Tutto è cominciato dal fatto che – un po’ scherzando
un po’ no – da tempo sono convinto di essere un personaggio di Thomas Bernhard, nel senso che mi ci riconosco molto, nel bene e soprattutto nel male. La prima volta
che ho visto Il riformatore del mondo mi sono proprio detto:
«Quello sono io tra qualche anno». Di conseguenza ogni
tanto mi ripetevo quanto mi sarebbe piaciuto recitare un
testo di questo grande autore austriaco. E dato che la mia
casa di campagna è vicina a quella di Flavio Ambrosini –
che da qualche anno ha lasciato il teatro ma ha fatto il regista per una vita – abbiamo iniziato a discuterne e alla
fine abbiamo deciso di provarci. Per qualche tempo abbiamo letto vari testi, ma a me non sembrava il caso di affrontare pièce impegnative mettendomi a confronto con
dei veri attori. E alla fine ho trovato questa specie di racconto, Goethe schiatta, che parla della morte di Goethe e
del suo ultimo desiderio di incontrare Wittgenstein, suo
successore e figlio filosofico. Mi ha subito colpito e divertito, perché nonostante non sia un testo scritto per la scena è però pieno di teatralità, di voci diverse, di caratterizzazioni, ha un andamento farsesco dichiarato e molto accentuato che poi alla fine converge verso un finale piuttosto disperato. L’ho trovato straordinario, oltre che assai
poco conosciuto e quindi interessante anche in questo
senso. Così ci siamo messi a lavorare, e devo confessare che all’inizio ero un pezzo di legno e mi chiedevo come il povero Ambrosini avrebbe potuto pilotarmi verso un qualche traguardo. Per tantissimo tempo ho continuato a pensare che se al posto mio ci fosse stato un attore professionista ne sarebbe nato qualcosa di meraviglioso.
A un certo punto però ho smesso di
fare questo tipo di considerazioni, perché ho cominciato a identificarmi nel testo. Ambrosini
è stato molto bravo nel do-
sare pazienza e fermezza, senza intervenire brutalmente, anzi lasciandomi abbastanza fare e allo
stesso tempo correggendomi sempre più, finché abbiamo
trovato insieme il giusto tono. Quindi ho deciso di allestire questo piccolo lavoro per gli amici e qualche addetto ai lavori. Non mi sembra il caso di proporlo a un pubblico indiscriminato, ma invece secondo me può essere
divertente se presentato a persone che conoscono il teatro. Penso che Bernhard sia adatto all’operazione, non
solo per il mio riconoscimento personale nelle sue parole, ma anche perché gioca sempre sul rapporto tra realtà e finzione, tra finti personaggi che hanno nomi di veri attori e cose di questo genere. Ecco dunque che vedere un vero critico che diventa un finto Goethe o un finto critico che diventa un vero attore secondo me può creare una giusta componente di ambiguità all’interno della quale uno spettatore può trarre qualcosa. O meglio in
realtà me lo auguro, perché è la prima volta che non vedo uno spettacolo da fuori. A me piacerebbe creare imbarazzo o disagio in chi mi guarda, desidererei che non riuscisse bene a collocarmi. Poi non so se colgo nel segno o
l’imbarazzo è solo mio...
L’elemento più interessante di questa operazione per me
sta proprio in questo aspetto di estraneità, nel non sapere bene chi è la persona che ti sta di fronte, dove situarla e perché sta facendo tutto ciò. Vorrei che fosse un misto tra un gioco e una provocazione intellettuale, non del
tutto gioco e non del tutto provocazione: se si riesce a trovare questo tono ambiguo e mediano il tutto può assumere un senso. Ed effettivamente mi accorgo che quando ne parlo tutti restano colpiti, anche i colleghi. Probabilmente il fatto che uno come me, che non è un attore,
dopo quarant’anni di militanza si cimenti in un’avventura del genere può avere un significato, magari appunto provocatorio. Ma voglio sottolineare che io non sono e non sarò mai un attore e anzi guai se tentassi di diventarlo. Chi assisteva alle prove spesso mi consigliava di
asciugare, ripulire: ma dare l’impressione che non si stia
recitando richiede proprio un talento interpretativo che
io non ho. È la cosa più difficile. Comunque devo ammettere che quarant’anni di critica mi sono serviti, perché – senza volermi mettere al livello di un attore – un
pochino ho visto come si fa e un po’ di orecchio e di occhio me li sono fatti... Mi piacerebbe portare Goethe schiatta anche a casa di qualche
attore, chiedendogli poi di recensirmi,
per arrivare al ribaltamento totale. ◼
Renato Palazzi.
prosa — 63
I
di Leonardo Mello
deata dall’Associazione Produttori Professionali Teatrali Veneti (PPTV), la nuova rassegna «Sguar-
di – Festival del Teatro Contemporaneo Veneto» ha
come obiettivo quello di creare un’occasione di confronto sulla realtà teatrale locale, in costante movimento e
continua crescita, e allo stesso tempo istituire un momento di visibilità nel panorama nazionale dedicato a ciò
che viene prodotto in Veneto. La rassegna – che andrà
dal 16 al 18 settembre – si snoderà in cinque diverse sedi padovane – Teatro Verdi, Teatro alle Maddalene, Teatro Studio, Cinema Teatro MPX e Cinema Lux – e ospiterà le più recenti produzioni delle formazioni teatrali regionali, tra cui – per citare soltanto alcuni tra i diciotto
appuntamenti – Rivelazione di Anagoor (cfr. VMeD n. p.
70), Pop Star di Babilonia Teatri (cfr. VMeD n. 35, p. 69),
Annibale non l’ha mai fatto di Tam Teatromusica e Galileo di
Tib Teatro (cfr p. 68).
Tre i lavori degli artisti emergenti selezionati – su sessantasei domande di partecipazione – da un comitato
artistico costituito da Massimo Munaro, Daniela Nicosia, Pierantonio Rizzato e Maria Cinzia Zanellato e
presieduto da Andrea Porcheddu (cfr. l’articolo a fianco): Sogno Creativo del performer Juri Roverato, Veneti
Fair di Marta dalla Via, critica al provincialismo in dialetto vicentino, e Insorta Distesa, spettacolo concettuale
e astratto di Silvia Costa per Plumes dans la tête.
Previsti poi due debutti: lo spettacolo Amleto del Teatro del Lemming e l’anteprima del nuovo lavoro di Vitaliano Trevisan La Bancarotta, o sia il mercante fallito.
Da segnalare infine il carattere itinerante della manifestazione, che partendo da Padova e con cadenza annuale
raggiungerà le città capoluogo di provincia: a ogni nuova edizione una compagnia associata alla PPTV si farà carico dell’organizzazione della kermesse, che occuperà più spazi della stessa città, con eventi spettacolari
e dibattiti che si alterneranno dalla mattina alla sera. ◼
Juri Roverato (foto di Riccardo Ghinelli).
«Sguardi #0»:
numero zero,
anno zero
I
di Andrea Porcheddu
nizia così, forse un
po’ in sordina ma con determinazione, una nuova avventura.
L’obiettivo è chiaro: fare il punto – tutto teatrale,
si intende – in una realtà in costante movimento, in flagrante crescita. Sembra proprio, infatti, che il teatro sia
una risposta concreta, un anticorpo attivo alle derive
più superficiali e diffuse che considerano il Veneto terra di capannoni industriali e di ottusi capitalisti.
«Sguardi» si affianca al lavoro egregio svolto da tempo da realtà consolidate, da teatri e festival (Bassano,
Fondamenta Nuove, Aurora di Marghera per citarne
alcuni) che operano costantemente per la crescita e la
diffusione di una cultura, non solo teatrale, che pensa a
un presente vivibile e a un futuro possibile. Nasce dalla
proposta di un consorzio di produttori teatrali: e volentieri ho accettato l’invito di coordinare il comitato artistico che aveva il compito di «selezionare» tra le tante
domande pervenute.
Compito non facile: avremmo voluto avere molti più
spazi a disposizione nel palinsesto del numero
Zero di questa manifestazione. Ma siamo certi che il numero Uno, che si ipotizza ad aprile
in una città-simbolo come Venezia, avrà altrettante (e forse più) domande e potrà presentare
nuove e diverse proposte. Per questa edizione
di «Sguardi #0» abbiamo cercato – d’accordo
con Cinzia Zanellato, Daniela Nicosia, Pierantonio Rizzato, Massimo Munaro, e con la preziosa assistenza di Susanna Piccin – di fornire
una prospettiva ampia, sfaccettata per codici e
stili. Quel che ne emerge è un panorama variegato, vivacissimo, con punte eccellenti. Le poetiche – come è giusto che sia – sono le più diverse: da un teatro di impianto e canone tradizionale, a tensioni più estreme e performative, passando per suggestioni di teatro-danza o di nuove drammaturgie.
Per quel che riguarda la selezione, «Sguardi #0» è
dunque una vetrina, una ipotesi, una proposta possibile. Abbiamo preferito lasciar crescere e maturare –
dando loro appuntamento alla edizione 2011 – alcune
giovani realtà sicuramente interessanti e promettenti.
Poi abbiamo cercato di dar spazio a strutture e artisti
che da tempo operano nel territorio, ma che non giovano ancora di visibilità nazionale e internazionale.
Nella vastità della proposta (degna di un festival nazionale di medie dimensioni) non tutto è condivisibile,
non tutto è capolavoro. La commissione ha discusso a
lungo, sono entrati in gioco elementi di valutazione diversi, criteri non solo artistici. Ma il risultato finale, nel
suo complesso, mi sembra davvero soddisfacente.
Attendiamo, dunque, operatori, studiosi, critici e spettatori e li invitiamo a un confronto e a una riflessione.
«Sguardi» è una full immersion nel teatro del Veneto,
in questi anni dieci del nuovo secolo: per provare a capire assieme cosa sta succedendo in questa regione. ◼
prosa
Al via il nuovo
«Festival del Teatro
Contemporaneo
Veneto»
64 — prosa
Alcune considerazioni
sull’estate teatrale
L
di Renato Palazzi
prosa
a stagione dei festival ha riservato quest’anno,
a mio avviso, alcuni momenti particolarmente interessanti, e ha offerto diversi spunti di riflessione che vorrei qui tentare brevemente di inquadrare. Non
ho seguito direttamente tutte le manifestazioni previste
dal vasto calendario estivo, e non ho visto personalmente tutti gli spettacoli che sarebbe stato necessario prendere in considerazione per arrivare a un’opinione più defi-
nita: preferisco quindi, in questo caso, limitarmi a esporre una serie di considerazioni sparse, senza pretendere di farle rientrare in un discorso organico e in
qualche modo esaustivo.
1) I festival stanno sempre più diventando i luoghi della creazione
contemporanea. È qui che nascono le nuove produzioni, è qui che
si confrontano i nuovi linguaggi, è qui che trovano immediato
approdo i nuovi gruppi ancora in
cerca di occasioni per far conoscere il proprio lavoro. I teatri, soprattutto quelli istituzionali, si stanno ormai trasformando nei passivi terminali
di qualcosa che avviene altrove. Nella migliore delle ipotesi vanno a rimorchio, nella
peggiore sono fermi, completamente tagliati fuori.
2) Si sta sempre più scavando la distanza fra i festivalvetrina, dove si va per assistere a dei prodotti finiti, e i festival che si seguono per ricavarne delle idee: a Spoleto
può capitare di vedere un bellissimo spettacolo di Bob
Wilson, a Napoli si può restare colpiti dalla crescita complessiva di una macchina organizzativa creata per gestire una quarantina di eventi in meno di un mese: ma i veri laboratori del teatro che cambia – quelli da cui si torna sempre con la sensazione di avere scoperto qualcosa,
quelli concepiti per aprire inediti orizzonti, per suggerire
da che parte stanno andando le esperienze più avanzate –
sono sempre gli stessi degli ultimi anni: passato in secondo piano, almeno per ora, Castiglioncello, c’è Santarcan-
gelo, Dro, Castrovillari, Bassano.
3) Anche in quei festival dove accanto a un programma «ufficiale» si sviluppa un settore «off», un Fringe, come a Napoli, non a caso le cose più interessanti le fa vedere quest’ultimo. Le grandi produzioni, le coproduzioni internazionali risultano molto spesso dei gusci vuoti:
colpiscono di più, in questa fase della vita del teatro, delle
piccole proposte fatte con nulla, ma mettendoci idee controcorrente e invenzioni spiazzanti. Non è un problema
di singole messinscene, ma di spostamento complessivo
del gusto e delle aspettative, specialmente da parte di un
certo tipo di spettatori più attenti e informati.
4) L’appuntamento-clou dell’estate è stato, quest’anno,
Santarcangelo, col suo programma «a tesi», interamente costruito intorno ai temi della trasformazione dei rap-
porti tra scena e platea, tra realtà e finzione: è
proprio attraverso questa capacità di sviluppare un disegno unitario, in grado
di indirizzare le ricerche più diverse
verso una sorta di obiettivo comune, che un festival prende senso,
anche al di là della qualità dei vari
titoli presentati. In questa chiave
il direttore artistico di turno, Enrico Casagrande, ha dimostrato
grande lucidità e intelligenza nel
trascinare il pubblico all’interno
di un percorso frastagliato ma coerente, tale da coinvolgerlo e al tempo
stesso da fornirgli continui e non banali interrogativi sui ruoli di chi assiste e
di chi agisce e sull’evoluzione del concetto
stesso di rappresentazione.
Dirò di più: Casagrande ha rivelato un talento progettuale insolito in un regista legato alle sorti del proprio
gruppo, che indurrebbe a considerarlo pronto – come
d’altronde altri artisti della stessa generazione «anni Novanta» – a guidare qualche teatro di rilevanza nazionale.
5) Pur costretti a spezzettare il proprio cammino in
una miriade di «studi» e di costruzioni a tappe, i gruppi dell’ultima, impetuosa ondata di questo primo decennio del Duemila non accennano a declinare: i Babilonia
Teatri appaiono sempre più sulla cresta dell’onda, il TeDal Festival di Santarcangelo: in alto, Roger Bernat, Dòmini Public
(foto di Cristina Fontsaré);Alessandro Sciarroni, Lucky Star
(foto di Leonardo Rinaldesi).
prosa — 65
lo spettacolo erano dieci spettatori, portati in palcoscenico, manovrati, messi in posa dai due registi, e ripresi in
video perché il tutto fosse mostrato alla fine da un’altra
prospettiva. E lo straordinario Wunderkammern di Virgilio Sieni consisteva di cinque brevi performance ambientate in altrettante case di Dro, i cui protagonisti erano i
loro stessi abitanti, la famiglia tunisina, il ciabattino col
gozzo, il baffuto proprietario di una Harley-Davidson, il
vecchio maestro che leggeva Rousseau, l’anziana signora
che danzava a piedi nudi fra le pagnotte appena sfornate.
Sono figure ben diverse da quelle degli attori «sociali» imposti in questi anni da Pippo Delbono o da
Armando Punzo, portatori di un disagio, di
una sofferenza collettiva assurta a oggetto
del «dramma» in sostituzione del dramma immaginato da un autore: qui non
c’erano disagi o sofferenze collettive, solo persone inserite in quanto
tali nella dimensione del teatro a
sovvertirne i canoni rappresentativi, a suggerire una «verità», uno
spessore di realtà che il teatro in
sé ha probabilmente ormai perduto di vista.
7) Questo ci porta all’ultimo argomento sollevato dalle suggestioni dell’estate: la ricerca teatrale sembra andare verso una diffusa esigenza
di sostituire schegge di realtà, di esistenza quotidiana alla finzione, all’artificio: ma è
Sta di fatto, però, che alcuni degli spettacoli più importanti proposti ai festival erano praticamente realizzati
senza attori. Nell’emozionante Dòmini Public del catalano Roger Bernat, ad esempio, al centro dell’azione era il
pubblico stesso, guidato a spostarsi nella piazza di Santarcangelo in risposta alle domande poste da una suadente voce in cuffia. In Enimirc di Fagarazzi e Zuffellato – un
intricato stratificarsi di linguaggi e punti di vista – a fare
una realtà solo apparentemente diretta e immediata, in
effetti sempre ambigua, sottilmente manipolata, mediata da un format di domande precostituite, come nel caso di Bernat, o da un sommario ma ben visibile intervento dell’artista, che altera sottilmente l’aspetto dei luoghi e i gesti più banali degli interpreti, come nel caso di
Sieni. Il teatro, nel suo bisogno di reinventarsi, si lascia
penetrare dalla realtà, ma al tempo stesso la contamina, la trasforma in qualcosa d’altro che non è più né totalmente vero, né totalmente falso, un ibrido, una sfera sospesa e misteriosa della vita. Il che, probabilmente, ci darà materia di discussione per i prossimi mesi. ◼
prosa
atro Sotterraneo è ormai una realtà consolidata, Anagoor ha fornito una piena conferma della maturità che già si
era colta lo scorso anno: il suo Wish Me Luck, realizzato a
Dro, è parso perfetto dal punto di vista compositivo, più
complesso, più articolato di Tempesta, dalle cui atmosfere è partito. L’unico consiglio che darei a Simone Derai e
compagni è di cercare di introdurre qualche elemento di
attrito nel loro alto rigore formale, per sottrarsi alla tentazione del puro esercizio stilistico. A questi nomi affermati occorre aggiungere poi le sorprese di stagione, come
Fagarazzi e Zuffellato o Alessandro Sciarroni.
6) Complessivamente, l’impressione più forte che
si ricava da quanto visto nelle scorse settimane è quella di un teatro che sta andando,
in un modo o nell’altro, verso lo scavalcamento della figura dell’attore professionista. Non sarà una messa da
parte assoluta, nel senso che ampi
settori della scena continueranno
ad appoggiarsi a una recitazione
«tradizionale», non sarà una messa da parte definitiva, visto che
si sta parlando di suggestioni del
momento, chissà fino a che punto destinate a durare. Forse, anzi,
questa progressiva utilizzazione di
presenze anomale e inconsuete non
farà che esaltare sempre più le doti tecniche di poche personalità dall’estro quasi virtuosistico.
Dalla Centrale Fies di Dro invece arrivano Wish Me Luck di
Anagoor, in alto, e Wunderkammern di Virgilio Sieni
(entrambe immagini di Paolo Rapalino).
66 — prosa
All’Olimpico
è di scena l’«Oreste»
di Euripide
te riassumibili in poche righe, che vedono protagonisti
Oreste, suo zio Menelao (accompagnato dalla consorte, quell’Elena sorella di Clitennestra e causa unica della guerra di Troia) e suo nonno Tindaro, padre a sua volta di Elena e Clitennestra. Dopo che l’assemblea di Argo
ha decretato a votazione la pena di morte per i due fratelli, gli avvenimenti prendono un ritmo ancora più vorticoso, che – tra il tentato omicidio di Elena e il rapimento
di sua figlia Ermione da parte di Oreste, Pilade ed Eletlxiii
tra – non potrà che essere risolto dall’intervento divino
di Apollo, che magicamente appiana i conflitti e crea un
nuovo ordine, facendo assurgere Elena al rango di dea e
ordinando di celebrare le nozze di Oreste con Ermione e
di Leonardo Mello
di Elettra con Pilade.
Ma al di là della mera trama, dalla leton il suo intorno di sangue e
A ottobre Maria Paiato
tura emerge una scarsa caratterizzazione
orrore, la saga degli Atridi ocvestirà i panni
e coerenza dei personaggi (che acquistacupa un posto centrale nella letdell’Erodiade
testoriana
no però profondità se analizzati non interatura drammatica del V secolo a. C.
dividualmente ma nelle relazioLa fosca vicenda dell’assassinio
ni familiari, parentali e affettidi Agamennone per mano delve che li uniscono, come suggela moglie Clitennestra – che dà
risce Anna Beltrametti nel maluogo al matricidio della stessa
gnifico volume Euripide, Le traoperato dal figlio Oreste insiegedie, Einaudi, Torino 2002) e
me alla sorella Elettra, con tutsoprattutto un’atmosfera di mete le terribili conseguenze che
schinità diffusa, in cui con ogni
quest’atto reca con sé – è trattaprobabilità Euripide intenzioto da tutti e tre i grandi tragici,
nalmente ritraeva il clima malaa cominciare da Eschilo, che le
to nel quale versava la polis grededica un’intera trilogia, l’Oreca negli ultimi anni del suo secostea (suddivisa in Agamennone, Colo d’oro. Le descrizioni accurate
efore ed Eumenidi e datata 458) per
e quasi caricaturali dei molti perpassare alla bellissima Elettra di
sonaggi minori, le stesse diatriSofocle, di più di quarant’anni
be dialettiche che contrapponposteriore, e ai due drammi eugono i protagonisti sembrano
ripidei, un’altra Elettra, coeva alalludere a un mondo disordinala sofoclea, e Oreste, la cui rappreto in cui tutti pensano al proprio
sentazione è attestata senza dubtornaconto senza esitare a tradibio nel 408, poco prima che il
re gli amici e a passare con dipoeta lasciasse Atene alla volta
sinvoltura da uno schieramento
della Macedonia.
all’altro. Un mondo che soltanto
Trattandosi dunque di uno del’intervento divino può dall’alto
gli ultimi testi composti dall’audella sua autorità rimettere a potore di Medea (che muore nel 406
sto nel bizzarro happy end. E forse sono
alla corte del re Archelao), l’Oreste posVicenza – Teatro Olimpico
proprio questi elementi di stridente sosiede tutti gli elementi della tarda proOreste di Euripide
miglianza con la realtà contemporanea
duzione euripidea: è una tragedia ma24-26 settembre, ore 21.00
che hanno spinto Yannis Hourvadas,
nieristica, tutta all’insegna di una ricerErodiade di Giovanni Testori
direttore artistico del Teatro Nazionacata e insistita spettacolarità, che si ser14-16 ottobre, ore 21.00
le Greco, ad allestire ora l’Oreste, che veve di ripetuti colpi di scena e lascia spesdremo all’Olimpico di Vicenza in settembre in una verso ampio spazio alla musica. Forse anche per questa sesione in greco moderno e con un cast di venticinque atrie di motivi ebbe, durante l’antichità, una notevole fortutori. A seguire, in ottobre, sarà la volta del
na teatrale, di cui generalmente non gode invece ai giorprimo studio dell’Erodiade di Testoni nostri.
ri, diretta da Pierpaolo Sepe e inLa situazione di partenza riporta al momento in cui si
terpretata da una grande attrichiudono le Coefore eschilee: nella città di Argo Oreste,
ce come Maria Paiato. ◼
ispirato da Apollo e con l’aiuto e la complicità di Elettra
e del fraterno amico Pilade, ha ucciso la propria madre
e giace preda di delirio e follia, tormentato dalla visione delle Erinni, dee primordiali e vendicatrici del sangue
materno. Vegliato dalla sorella, il giovane eroe prostrato
alterna momenti di veglia ad altri di angoscioso delirio.
Da qui inizia una nutrita serie di incontri, difficilmen-
Il Teatro Nazionale Greco
Ciclo
apre il
di Spettacoli Classici
prosa
C
Scene dall’Oreste secondo Yannis Houvardas.
prosa — 67
A Vicenza
una giornata per
Heiner Müller
Qualche frammento mülleriano
Inondazione
«Quando scrivo provo sempre l’esigenza di imporre contemporaneamente al pubblico fardelli così numerosi che non
saprà più quale caricarsi per primo, e credo proprio che sia
l’unica strada percorribile. Il problema sta tutto nel modo in
cui viene realizzato a teatro. Non come si faceva al tempo di
di Leonardo Mello
Brecht, presentando gli elementi uno dopo l’altro. Ora è necessario mettere in campo contemporaneamente tanto materiall’interno del lxiii Ciclo di Spettacoli
le, in modo che il pubblico si trovi obbligato a sceglieClassici dell’Olimpico di Vicenza c’è spare. Magari non è più in grado di farlo, ma in ogni cazio anche per un grande contemporaneo
so deve decidere rapidamente cosa recepire subito...
Vicenza
come Heiner Müller (1929-1955), che del resto Teatro Olimpico E non si può più dare un’informazione sottolineannel corso della sua carriera ha più volte incontrado al contempo “attenzione, qui c’è dell’altro”. Il mec27 settembre
dalle ore 10.00
to gli antichi, riscrivendo in modo straordinario
canismo a mio parere funziona soltanto provocando
e assai personale capolavori come Filottete e Meun’inondazione».
A
L’impulso alla distruzione
«Il mio principale interesse nello scrivere per il teatro viene
da un impulso alla distruzione. Per trent’anni Amleto ha costituito un’ossessione, e alla fine ho scritto un breve testo, Hamletmaschine, per tentare di distruggere Amleto. La storia tedesca è stata un’altra ossessione, e ho cercato di eliminare anche
questa, l’intero complesso storico. Credo che il mio impulso
più forte sia quello di ridurre le cose al loro scheletro, spogliarle della loro superficie, della carne. Dopodiché si è a posto».
Complessità e semplicità
«Il mio linguaggio viene stranamente considerato difficile,
proprio per la sua semplicità, per la sua espressività diretta e
precisa. Non si è più abituati ad ascoltare testi semplici; appena
si offrono formulazioni precise il pubblico non capisce; nessuno crede che possa essere vero ciò che ascolta, perché è troppo
semplice, deve esserci qualcosa dietro! È così che nasce il mito della difficoltà dei miei testi, dalla ostinata ricerca di significati reconditi, e il linguaggio si trasforma subito in un materiale ostico».
La curva dell’orgasmo
«Si può leggere il testo di Hamletmaschine come un dramma
in cinque atti, con una struttura drammaturgica assolutamente classica. Ogni testo che abbia una forza teatrale non fa altro
che descrivere la curva del grafico di un orgasmo, che è il modello base. Ogni persona, ogni autore ha una curva di orgasmo
diversa. Ho letto la relazione di uno studioso, linguista e matematico, sicuramente un pazzo, nella quale si rappresentavano
graficamente in oltre centoventi pagine le strutture drammaturgiche da Eschilo fino a Brecht, ricostruendovi le curve orgasmatiche. Era sorprendente. In Büchner – significativamente, considerata la sua morte precoce – la curva saliva in modo
brusco e poi subito precipitava; in Brecht
formava una curiosa struttura quadrangolare; Shakespeare aveva invece la curva più
La giornata,
intricata. Lo studio mi sembrava convincoordinata da Franco Quadri,
cente, è quanto basta per afferrare la strutvedrà la partecipazione,
tura delle commedie».
tra gli altri,
di Alessandro Gassman,
Matthias Langhoff,
Antonio Latella,
Virginio Liberti
e Maria Paiato
I brani citati sono tratti da: Heiner Müller,
Tutti gli errori. Interviste e conversazioni 1974-1989, Ubulibri, Milano 1994, pp. 19,
84, 88, 91.
Heiner Müller (foto di Anita Schiffer-Fuchs – freelens.com).
prosa
dea, per citare soltanto due esempi.
All’autore tedesco il Teatro Stabile del Veneto – in collaborazione con il Comune di Vicenza – dedica una giornata di studio, ideata e coordinata da Franco Quadri, tra i
massimi esperti della sua drammaturgia, la quale ha contribuito in molti modi a far conoscere in Italia. Il convegno, previsto per il prossimo 27 settembre, vanta un ragguardevole numero di invitati illustri, che si dividono tra
studiosi dell’opera mülleriana e artisti che hanno incontrato nel proprio percorso (o intendono incontrare in futuro) i testi di questo scrittore geniale e anticonformista.
Tra i primi – oltre allo stesso Quadri – si ricordano Peter
Kammerer e Wolfgang Storch, che presenzieranno, qualche giorno prima, anche a un altro incontro incentrato
su Müller a Venezia, nell’ambito della Biennale Musica di
Luca Francesconi (cfr. p. 24).
I registi che interverranno saranno invece Alessandro
Gassman, direttore artistico dello Stabile veneto, Matthias Langhoff, Antonio Latella, Lorenzo Loris e Virginio Liberti (al cui Egumteatro si devono memorabili allestimenti di Quartett, 2002, e di Hamletmaschine, 2003).
Sarà inoltre presente anche Christoph Rüter, autore di
un prezioso documentario sulle prove di Hamletmaschine
a Berlino durante la caduta del Muro, che verrà proiettato per l’occasione.
Agli interventi si alterneranno momenti destinati
all’ascolto, in cui saranno lette porzioni di testi mülleriani. Tra gli interpreti ci sarà Maria Paiato, che poco tempo dopo debutterà all’Olimpico con
l’Erodiade di Giovanni
Testori nella versione
di Pierpaolo Sepe. ◼
68 — prosa
Daniela Nicosia
racconta
l’uomo Galileo
determinanti nella sua vita. La prima è la madre, che segna pesantemente la sua infanzia (e l’intera sua esistenza), e di cui si occuperà sempre, pur vivendo un rapporto doloroso e minato dai frequenti accessi di follia di lei.
Poi c’è la relazione più forte intellettualmente e umanamente, quella con la figlia Suor Maria Celeste, mandata dallo stesso scienziato in un convento di clausura
dove muore giovane, a trentatré anni, poco tempo doa cura di Leonardo Mello
po il processo intentato al padre. Un’altra figura che compare nell’allestimento
n settembre, all’interno del festiè la sua amante (dai documenti emerge
val «Sguardi» (cfr. p. 63) sarà di scena GaPadova – Teatro Verdi
l’idea di un Galileo godereccio, estimalileo, uno spettacolo di Daniela Nicosia,
17 settembre, ore 21.00
tore della buona cucina e del buon vino,
affermata regista e anima di Tib Teatro, una
Galileo
oltre che delle belle donne). Ma di quedelle formazioni di punta del teatro di ricerca
testo, regia e scene Daniela Nicosia
sta avvenente veneziana, Marina Gamveneto. Le chiediamo di raccontarci questo lainterpreti
voro, che ha debuttato a marzo durante le cele- Solimano Pontarollo e Piera Ardessi ba, si innamora perdutamente, tanto da
restarle sempre legato, anche se non la
brazioni per l’anno galileiano promosse dall’ateproduzione Tib Teatro
sposerà mai pur dandole tre figli. È una
neo patavino.
Parlare di Galileo mi spinge prima di tutto a spiegare perché io faccio teatro. Ed è presto detto: lo
faccio perché mi interessa l’umano, entrare in relazione con l’altro, sollecitare percezioni. Il teatro
è per me un luogo elettivo delle emozioni. Nel caso di Galileo questo è particolarmente vero, perché
ho inteso parlare dell’uomo più che dello scienziato, e l’ho fatto costruendo un accuratissimo lavoro di drammaturgia a partire dai materiali di prima mano che mi sono stati forniti dal Dipartimento di Astronomia dell’Università di Padova.
Ma provenendo io dalla ricerca degli anni settanta
e da un teatro d’immagine e gestuale, anche il testo
che ne è scaturito non poteva che essere un punto d’approdo per i due interpreti. Le parole infatti, una volta consegnate agli attori, sono state digerite e nuovamente riversate attraverso il loro corpo e le energie che esso sprigiona. Così il costrutto
testuale stesso ha acquisito un peso scenico significativo ed è diventato veicolo di emozioni al pari della scenografia, delle luci e di tutti gli altri elementi di cui si compone l’arte teatrale.
Lo spettacolo è un percorso diacronico nella vicenda umana di quel grande intellettuale. Lo incontriamo quando è già vecchio, nel momento in
cui riemergono ricordi, memorie e tutto ciò che è
sommerso sotto la polvere del tempo. Di lui mi ha
affascinato soprattutto l’amore per la vita, addirittura devastante, che ritroviamo anche nella sua
abiura. Può forse risultare un vigliacco, ma chi di
noi non tremerebbe di fronte agli strumenti di tortura che usava l’Inquisizione? La cosa che ritengo
però importantissima è che questa sua rinuncia a
se stesso, che lui compie nel momento dell’abiura,
è una rinuncia soltanto apparente, è perdita e vittoria insieme. Perché rinnegando le sue scoperte
riesce a continuare a vivere e a studiare. E poi c’è
un altro aspetto, che nello spettacolo è molto evigrande passione amorosa, che però non si conclude né
dente: il piacere quasi sensuale del pensiero. Il piacere di
con un matrimonio né con una convivenza. Alla fine copensare. Nella sua inesausta ricerca della verità, lui rinmunque Galileo cerca di mettere tutto a posto: a questa
traccia Dio nella materia, superando la scissione tra spiridonna che è l’amore della sua vita trova perfino un marito e immanenza, che è un tema molto dibattuto ed estreto. Infine la governante, una donna schietta e impervia
mamente attuale.
che lo seguirà fedelmente fino alla fine dei suoi giorni. ◼
Inoltrandomi nella tessitura della messinscena, ho scelto come dicevo di raccontare il lato umano di Galileo, e
di raccontarlo attraverso la relazione con quattro donne
Scene da Galileo di Daniela Nicosia.
prosa
I