Caravaggio a Roma

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Caravaggio a Roma. Una vita dal vero Introduzione alla mostra di Eugenio Lo Sardo1
Nel 1951 Roberto Longhi organizzò a Milano una mostra dal titolo Da Caravaggio ai caravaggeschi, che segnò l’inizio della rivalutazione, dopo un parziale oblio, del grande artista lombardo a cui si era sempre preferito Guido Reni tra i pittori del primo Seicento e si cominciò a studiarne le opere e la biografia con scientifica dedizione. In quella prima iniziativa, insieme ai dipinti, furono esposti alcuni documenti di questo Archivio, tra cui: il processo Baglione, la pace con il notaio Pasqualone alla presenza di Scipione Borghese, la supplica di Onorio Longhi al papa nel 1611. Il motivo di questa scelta era semplice: le testimonianze sulla vita e sulle opere di Caravaggio, soprattutto del suo splendido periodo romano, quei dieci anni in cui si affermò prepotente la sua figura sulla scena dell’arte, sono quasi esclusivamente concentrate in questo grande Istituto. Dall’evento voluto da Longhi moltissimi altri se ne sono susseguiti e le pubblicazioni su Michelangelo Merisi sono ormai innumerevoli. Gli studiosi hanno continuato le loro ricerche chiarendo i punti oscuri della vita dell’artista, cercando di datare o di attribuire singole opere, sforzandosi di penetrare nelle intime pieghe del carattere e della psicologia del grande lombardo. Ma accanto ai lavori di altissima qualità, proprio a causa della fama universale e del richiamo esercitato dal nome, sono fioriti pseudo‐studi e opinioni fuorvianti e di scarso spessore. Qualche studioso poco serio o improvvisato ha tentato di trovare delle scorciatoie, qualcun altro di falsificare addirittura pur di dimostrare delle tesi precostituite o di attribuire un quadro al sommo artista (con i conseguenti enormi vantaggi economici). È stato necessario perciò riprendere, in occasione delle celebrazioni, con nuovo slancio gli studi scientifici sul pittore lombardo. Anche gli archivisti hanno fatto la loro parte ed è nata questa iniziativa avente come finalità il restauro, la ricerca e l’esposizione dei documenti caravaggeschi. L’ambizione è stata quella di offrire per la prima volta dal lontano 1951 una visione d’insieme, in cui alle carte si affiancassero alcuni e selezionati quadri di pittori – amici, nemici, maestri e discepoli – e poche opere di Merisi o a lui attribuite di alto valore storico‐biografico. In altri termini si è ritenuto necessario accoppiare parola e visione, testimonianza scritta e immagine, indispensabili e complementari elementi nella ricostruzione del passato. In questa prospettiva la posizione di Sant’Ivo alla Sapienza nel contesto urbano, oltre che la bellezza incomparabile del manufatto architettonico, ha costituito uno stimolo aggiuntivo. Questa è la Roma di Caravaggio. In un quadrato di Direttore dell’Archivio di Stato a Roma 1
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poche centinaia di metri si sono svolte molte delle vicende narrate dalle carte. Contiguo è il palazzo del cardinale Francesco Maria Del Monte di cui Merisi fu “servitore”, di fronte si trova quello dei Giustiniani, e sulla stessa via la chiesa di San Luigi dei Francesi e poi Sant’Agostino e la bottega dell’amico pittore Lorenzo Carli. Tanti volti riprodotti nelle celebri opere a tutti note hanno attraversato queste stesse strade e hanno lasciato i loro segni evidenti. Così a pochi passi è la casa che Caravaggio decise di affittare, quello studio famoso in cui trasformò il soffitto per ospitare la grande tela della Morte della Vergine, e anche la via della Pallacorda, dove nel corso di uno scontro, egli uccise Ranuccio Tommasoni e fu quindi costretto a fuggire da Roma condannato a morte in contumacia. Nel corso del lavoro, o dei lavori perché di diverse e complesse imprese si è trattato, si è però resa evidente una lacuna degli studi caravaggeschi. Merisi fu uomo singolarissimo e, a parte le scarne testimonianze non documentarie, poco o nulla sappiamo di lui, della sua “vera vita”. Si è detto, ad esempio, della sua omosessualità senza nessuna prova tranne quel termine “bardassa”, usato per designare l’apprendista, parola in cui si è colta una sfumatura sessuale. Ma a parte questi aspetti non irrilevanti legati alla sfera personale, vi sono molti altri nodi da sciogliere come quelli attinenti la sua formazione. La testimonianza del garzone del barbiere, Pietropaolo, fa intendere che l’artista giunse a Roma solo nel 1595 e l’ultimo documento milanese, datato primo luglio 1592, conferma la sua presenza nel capoluogo lombardo almeno fino a quell’anno. Dove si recò quindi il giovane Michelangelo finito il periodo di apprendistato nella bottega di Simone Peterzano? Andò a Venezia, viaggiò nelle Fiandre, venne a contatto con pittori fiamminghi o olandesi? Sono domande a cui solo nuove scoperte possono offrire una risposta certa. Meraviglia a proposito di un artista di tale livello e di tale potenza che non sia sopravvissuto un carteggio coevo più copioso, che non vi siano lettere del suo méntore, il cardinal Del Monte, a descriverne il carattere, le tecniche, le propensioni, le scelte iconografiche o lettere famigliari come quelle di Michelangelo Buonarroti o di altri artisti rinascimentali. Eppure Merisi scriveva in un buon italiano, la famiglia era legata alla marchesa Costanza Colonna e aveva goduto di una certa agiatezza economica. Caravaggio non ha poi lasciato scritti autobiografici come fece Buonarroti con il Condivi, forse non ne ebbe neanche il tempo per la vita avventurosa e randagia che condusse, e solo un contemporaneo, Giovanni Baglione (il “nemico” diffamato e deriso e quasi assassinato sulle scale di Trinità dei Monti da un giovane sicario inviato dal partito rivale), scrisse di lui nella sua opera sulle Vite dei Pittori. Non è quindi un testimone imparziale, e descrive Merisi come uomo «satirico e altero», pronto a parlar male di «tutti i pittori passati» e «per soverchio ardimento di spiriti, un poco discolo». Baglione, e qui si pubblica il testo integrale della famosa causa per calunnia, conclude la biografia con due diversi giudizi: uno sull’artista, in cui riconosce la grandezza del rivale soprattutto per le straordinarie capacità coloristiche e un po’ meno per la composizione prospettica, e l’altro, lapidario, sull’uomo, dove si legge: «morì malamente, come appunto male aveva vivuto». Quindi a testimonianza della vita e delle opere di Merisi restano, di coeve, solo le carte d’archivio, principalmente quelle giudiziarie, per le tante cause dovute alle sue avventure, e quelle 2
notarili. Nello specifico, come dimostrano i risultati delle ricerche ma anche alcuni saggi qui contenuti, serve uno studio lungo e faticoso del diritto e della procedura penale dello Stato pontificio e delle tecniche inquisitoriali a cavallo tra Cinque e Seicento. Altrimenti si rischia di commettere gravi errori e confondere il senso dei termini giuridici attribuendo, ad esempio, alla parola “stupro” (quello di Artemisia Gentileschi per intenderci) un significato che nel Seicento non aveva, cioè, quello di “violenza carnale”. Mentre il termine nei tribunali pontifici designava un comportamento delittuoso diverso: un rapporto sessuale con donna vergine pur consenziente, una promessa di matrimonio non mantenuta a seguito di una relazione carnale. Come le parole possono fuorviare così pure molti segni specifici che stanno a indicare nella prassi chi va interrogato, se va sottoposto a tortura o meno e altre sottigliezze di un’epoca a noi lontana, con i suoi usi e i suoi formalismi diversi dai nostri. Lo stesso dicasi per la lettura degli atti notarili con il loro complesso formulario, e infine delle basilari questioni di cronologia, disciplina specifica che presuppone una solidissima conoscenza della storia politica e sociale per poter stabilire con precisione le coordinate spazio‐temporali a cui bisogna riferirsi. Tornando a Longhi e alla mostra inaugurata appena a sei anni di distanza dal fatidico 25 aprile 1945, dove erano esposti più di 140 quadri di cui 40 attribuiti a Merisi, va detto che già allora il grande storico dell’arte, interrogandosi sulla fama oscura, sull’ossimoro di Caravaggio, poneva l’accento sulla disperata serietà morale trapelante dalle opere dell’artista e dallo stesso ritratto eseguito da Ottavio Leoni. Veniva spontaneo, egli aggiungeva, chiedersi su cosa riflettesse quel «cervello stravagantissimo», così definito dallo stesso cardinale Del Monte. Ma se da un lato Longhi coglieva con raffinata sensibilità alcuni tratti dell’artista, comparando giustamente Merisi e Giordano Bruno per una comune «carica di rivoluzione permanente» che sembrava animarli, dall’altro le sue intuizioni non erano sufficientemente basate su precise testimonianze documentarie. Egli riteneva infatti che l’artista fosse giunto a Roma giovanissimo, a soli sedici anni, all’incirca nel 1588, contemporaneamente all’immane disastro dell’Invincibile armada. Tutta la cronologia premessa al catalogo del 1951 è del resto assolutamente fuorviante a partire dalla stessa data di nascita di Merisi, fissata al 1573. Da questi dati erronei deriva l’immagine di un genio precocissimo e di “una disperata bohème”. Ora non è il caso di riaffrontare passo per passo temi che la critica ha ampiamente superato, ma è necessario, viceversa, richiamare l’attenzione sul fatto che allora si ritenne superfluo svolgere nuove ricerche per far luce su tanti aspetti non trascurabili della vita del pittore. E si considerarono gli atti processuali pubblicati a fine Ottocento, da un lato, come indispensabili cimeli da esporre e, dall’altro, possibili fonti di equivoci adatti agli spiriti grossolani più interessati ai delitti di cronaca che ai sublimi voli dell’arte. L’humus di Longhi ha precise radici nell’idealismo italiano. Sappiamo come poi sia prevalsa un’impostazione storiografica più attenta ai fattori economici e sociali, trascurata forse un po’ troppo sugli aspetti soggettivi del grande fiume dell’agire umano. Nel mondo degli archivi è, però, prevalsa una interpretazione conservatrice e “nobile” della missione istituzionale. Conservatrice perché si è ritenuto unico il modello organizzativo possibile, “nobile” perché legato a una 3
dialettica, altrove superata, tra conservazione e ricerca. Semplificando: l’archivistica “ancella della storia” e la storia istituzionale come unico campo di indagine sono rimasti per molti l’unica narrazione intorno a cui scrivere i canoni della professione. Si sono sottovalutate due richieste provenienti dalla società civile e dalla politica: valorizzare al meglio il patrimonio posseduto, rispondere più agilmente alle esigenze del cambiamento. Qualcosa però per rendere più facile e comprensibile il mondo dei documenti si poteva fare. Niente vieta, restando scientificamente accurati (come dimostra questo catalogo) di ridisegnare le biografie di uomini famosi che hanno lasciato un solco nella storia, e questo senza cadere nelle ingenuità commesse in spirito positivistico a cavallo tra Otto e Novecento, con la creazione di Miscellanee di carte politiche, di artisti e la estrapolazione delle carte dai volumi di provenienza. Il nodo da sciogliere consisteva (e consiste tuttora) nella capacità di guardare oltre l’orizzonte documentario ricongiungendo gli aspetti di una vicenda – e può essere quella di un singolo o di una collettività – nei suoi sparsi frammenti. Con questa tensione ci si è avviati sulle orme di Caravaggio con il timore di dovere riaffondare l’aratro in terreni ampiamente esplorati. Fuor di metafora, nel mare magnum della bibliografia caravaggesca si sono individuati alcuni punti su cui scavare. In questo percorso si è proceduto con la consapevolezza che l’indagine storiografica ha bisogno di un lavoro corale, essendo tramontata l’era dell’artigianato. La “vita dal vero” di Michelangelo Merisi è stato quindi un banco di prova di alto interesse che ha rovesciato una dimensione unipolare, sclerotizzata in un uso del documento (possibilmente iconografico) a complemento di un libro o di una mostra da altri realizzati. In questo caso sono state le ricerche documentarie, intelligentemente dirette, a dipanare il filo del racconto e le opere pittoriche a illuminare e completare il cammino. Ne è scaturita, e questo premia il nostro lavoro, un’immagine più coerente del grande lombardo. Un’interpretazione che riduce il divario apparente e incolmabile tra l’uomo e il sommo artista, autore di opere capaci di indurre una sconfinata commozione. Scrive al riguardo Carlo Emilio Gadda riflettendo sul Manzoni e influenzato da un’opinione diffusa ai suoi tempi che sottolinea del pittore soprattutto l’elemento caratteriale e violento: «Michelangiolo Amerighi veste da bravi i compagni di gioco di San Matteo». E aggiunge: Il soldo è sicuro, lesta è la spada. Nei vicoli, sotto gli archi dei passaggi, passano ridendo i micheletti della ronda e qualche puttana si rimpiatta, inseguita da sgangherate risate. Poi, quando la ronda si perde con una cadenza lontana e la luna fa diagonali di ombre e di biancore sui quadri delle case e sui tetti, si può chiedere conto, de’ suoi diportamenti, a uno che passerà. Una spallata. E perché, e per come. Le voci sono basse concitate … Il soldo comanda la spada lavora. Ma poteva essere solo un rude bravaccio il creatore della Fuga in Egitto? Poteva il nigro carattere descritto da Baglione interpretare con altrettanta maestria il tema della morte della Vergine con lo splendido ricciolo di capelli sulle spalle della Maddalena? Appare evidente che altrove andava cercata la vera cifra di una persona complessa e geniale. Calvesi trova nella religiosità un importante varco interpretativo; Ferdinando Bologna 4
nella biografia pubblicata dal Dizionario Biografico degli Italiani suggerisce una vicinanza ai fermenti della “filosofia nova”, di Giovan Battista Della Porta e di Federico Cesi, e qui sul concetto di “natura”, e sull’uso di specchi per dipingere si aprono spazi di grande suggestione. I documenti ora ritrovati svelano, però, un nuovo aspetto, più intimo e tenero dell’uomo e dell’artista e per molti versi confermano le tesi di Calvesi. Ecco, nella testimonianza di un semplice garzone di barbiere, vediamo Caravaggio sincero amico di un pittore siciliano, sposato, con quattro figli, che si barcamena nella vita dipingendo. Non è famoso, il giovane Michelangelo lo frequenta non per imparare l’arte o per essere introdotto negli ambienti che contano ma per dipingere insieme, forse per avere un posto dove dormire. È questo l’amico caritatevole che lo porta all’ospedale della Consolazione, dove era priore un altro siciliano. E Caravaggio continua a frequentare la casa del nasitano anche dopo la morte di costui, forse per portare conforto e aiuto alla vedova e agli orfani. Dai quadri lasciati da Carli si evince poi, come nota Francesca Curti, un mondo legato al francescanesimo pauperistico, e lì vediamo i piedi nudi e rozzi dei pellegrini che adorano la Vergine in Sant’Agostino. Per questo motivo ci si è particolarmente rammaricati di non potere esporre un dipinto: la Santa Caterina della Rosa, eseguito secondo la critica nel 1597. Vi sono fondati motivi per vedere nella donna ritratta quella Faustina, moglie di Carli, figlia di una napoletana e di uno spagnolo, entrata nel convento della santa alessandrina all’età di undici anni. Perfettamente coetanea di Caravaggio, aveva 27 anni quando il marito morì nel mese di marzo e lei portava in grembo l’ultimo di cinque figli, che nacque a novembre. Dalla sua vita, disperata e pervasa di tragedie, emerge la Roma della gente modesta, senza palazzi e protettori potenti, quelli a cui basta un niente per finire nella più nera miseria. Quel dipinto è la sublime testimonianza dei primi lavori romani di Merisi, del suo talento nell’arte del ritratto. Dal volto della santa (Faustina?), dalla luce dei suoi occhi, dalla sua grazia, trapela un intimo splendore che solo la straordinaria sensibilità e la tenerezza di un amico può cogliere. La presenza del dipinto in mostra sarebbe stata una perfetta occasione per porre a confronto due ritratti di personalità distanti e diversamente legate alla vita dell’artista; un papa, Camillo Borghese, e una giovane donna nelle vesti di una santa. Si spera che in un prossimo futuro sia possibile vedere per una volta insieme questi due dipinti. 5
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