Fisica e Arte

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Vincenzo Pappalardo
Fisic’Arte
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Vincenzo Pappalardo
FISICA E ARTE
Copyright  2011 di Vincenzo Pappalardo
Tutti i diritti sono riservati
Prima edizione Marzo 2011
Seconda edizione Giugno 2011
Terza edizione Ottobre 2011
Quarta edizione Febbraio 2012
Il presente libro “Fisic’Arte” può essere copiato, fotocopiato, a patto che il presente
avviso non venga alterato, e che la proprietà del documento rimanga di Vincenzo
Pappalardo.
Il presente documento è pubblicato sul sito: www.liceoinweb.altervista.org
Fisic’Arte
3
Alle tre irripetibili opere d’arte:
Gina, Raffaella e Pietro.
Fisic’Arte
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Indice
5
7
Introduzione
CAPITOLO 1 – LA TECNOLOGIA AL SERVIZIO DELL’ARTE
Introduzione – Nozioni di fisica atomica – Principali tecniche diagnostiche –
Tecniche informatiche
24
CAPITOLO 2 – LUCE E COLORE
Introduzione – Il meccanismo della visione – La natura della luce – La teoria dei
colori
42
CAPITOLO 3 – OTTICA, ILLUSIONE OTTICA E ONIRICA
Introduzione - La prospettiva tra realtà, illusione ottica, onirica e paradosso visivo
– Pittura e dispositivi ottici – Caravaggio e la camera oscura - L’arte stereoscopica
– Optical art
74
CAPITOLO 4 – ARTE E FISICA CLASSICA
Introduzione – Spazio, tempo e arte – L’arte del movimento - Il mondo dell’arte e la
fisica classica
96
CAPITOLO 5 – ARTE E FISICA MODERNA
Introduzione – Spazio e tempo nell’arte del XXI secolo – Caos e ordine nell’arte
moderna e contemporanea – L’arte e la fisica moderna – Arte nucleare - Arte
quantistica – Arte generativa
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CAPITOLO 6 – NUOVI MATERIALI NELL’ARCHITETTURA
148
Conclusioni
149
Bibliografia
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Introduzione
“Dove il mondo cessa di essere il palcoscenico delle nostre speranze e dei nostri desideri
per divenire l’oggetto della libera curiosità e della contemplazione, lì iniziano l’arte e la
scienza. Se cerchiamo di descrivere la nostra esperienza all’interno degli schemi della
logica, entriamo nel mondo della scienza; se, invece, le relazioni che intercorrono tra le
forme della nostra rappresentazione sfuggono alla comprensione razionale e pur tuttavia
manifestano intuitivamente il loro significato, entriamo nel mondo della creazione
artistica, ciò che accomuna i due mondi è l’aspirazione a qualcosa di non arbitrario, di
universale”.
Albert Einstein
Nell’attuale spettro dei saperi si pensa spesso che scienza e arte siano contrapposte nei
metodi e nelle finalità. La scienza viene vista come il regno delle certezze “oggettive”,
come puntuale applicazione del metodo e che si interessa dell’esperienza pubblica,
universale, quantitativa, unitaria, e il suo linguaggio è preciso, razionale, fatto di idee e
concetti e si trasmette con sequenze lineari di ragionamenti logici, in cui la matematica ha
un ruolo essenziale. L’arte come pura creatività che guarda invece all’esperienza privata,
particolare, soggettiva, qualitativa, molteplice, e il suo linguaggio è ambiguo, emotivo,
fatto di immagini e racconti.
Questi pregiudizi vengono messi in crisi dalla constatazione che scienza e arte sono visioni
complementari e non contraddittorie del mondo e che entrambe hanno sviluppato
tecniche adatte a descrivere, da punti di osservazioni diversi, la realtà del mondo fisico e
psicologico. Anzi, secondo Planck, l’intuizione, la percezione diretta, o l’immaginazione
sono fattori importanti per il progredire delle scienze. Infatti affermava che:
il ricercatore scientifico deve avere un’immaginazione intuitiva molto aperta, perché le
nuove idee non nascono da deduzioni, ma dall’immaginazione artisticamente creatrice.
Pertanto, se esaminiamo la scienza e l’arte come “giochi della mente” in relazione alla
costruzione di immagini del mondo, possiamo scoprire interessanti connessioni dal punto
di vista delle strategie cognitive comuni, e soprattutto tentare di forzare la dicotomia e
svelarne piuttosto i sottili confini frattali, rivelando la loro natura comune di “linguaggi”
per comprendere il mondo.
Per meglio mettere in evidenza il comune linguaggio
per la comprensione e descrizione del mondo,
mettiamo a confronto due opere, ciascuna nata nel
proprio ambito cognitivo, la fisica e la pittura.
Il diagramma di Feynman è uno strumento cognitivo
per effettuare i calcoli riguardanti le interazioni tra
particelle nella teoria quantistica dei campi. Le
particelle sono rappresentate con delle linee, che
possono essere di vario genere in funzione del tipo
di particella a cui sono associate. Usando il
linguaggio del mondo dell’arte, diremmo che i
diagrammi di Feynman sono delle rappresentazioni
pittoriche delle interazioni tra particelle.
Fisic’Arte
6
Cosa possiamo dire dell’elegante forma del diagramma se lo confrontiamo con
Composizione VII di Kandinskij? Entrambi sono linguaggi simbolici, ma nonostante la
raffinata simbologia delle forme e dei colori elaborata dall’artista russo, l’aspetto
soggettivo della recezione dell’opera e del
suo significato è dominante, mentre il
diagramma, pur con tutta la sua
suggestione “visiva”, acquista un pieno
significato condiviso all’interno della
“sintassi” quantistica. Quello che è
importante notare è che i linguaggi
scientifici
non
hanno
nulla
di
intrinsecamente oggettivo, ma sono
piuttosto inter-soggettivi, sono cioè
strumenti condivisi dalla comunità
scientifica
per
descrivere
dati
d’esperienza. Ed ogni linguaggio della
scienza nasce non tanto dall’applicazione
di una ricetta universale ma porta il segno
inconfondibile delle scelte culturali, concettuali e creative di chi lo ha costruito. Potremmo
dire perciò che la scienza è l’arte di armonizzare i dati in modelli matematici e teorie,
organizzando tramite linguaggi simbolici l’informazione estratta dall’inesauribile sorgente
dell’esperienza.
In genere si obietta che la scienza è in qualche modo più vera dell’arte, perché permette
previsioni. Si tratta di una questione controversa, perché gran parte dei sistemi che
conosciamo in natura non consentono previsioni precise di tipo deterministico. E’ molto
più ampia la classe dei sistemi per i quali è necessario costruire una matematica dei vincoli
e dei processi, che ci dice qualcosa sulle caratteristiche globali del fenomeno e del suo
destino asintotico nel tempo, ma per il quale non è possibile calcolare tutto. Siamo processi
che studiano processi, immersi nel mondo costruiamo metodi d’indagine e linguaggi
simbolici che ci permettono di cogliere qualcosa della complessità e della bellezza del
mondo. Possiamo dire che fissiamo con le nostre scelte ciò che decidiamo di descrivere.
La tensione verso la bellezza e la comprensione è sicuramente molto più radicata della
verità di ogni singola rappresentazione, perché il fondamento della conoscenza è il
processo stesso della conoscenza nell’accoppiamento continuo tra la mente e il mondo.
Tra l’opera d’arte e l’attività scientifica c’è dunque una indiscussa ed intrigante vicinanza;
entrambe sono risposte umane alle sollecitazioni del mondo, preziosi ed esclusivi atti di
comunicazione. La comprensione del mondo (ricerca della verità) è dunque un problema
aperto che può avvalersi di ogni mezzo a disposizione dell’uomo.
C’è un linguaggio che più di un altro è vicino alla verità? Lasciamo la risposta ad una
bellissima frase di Feynman:
ciò che non posso creare non posso comprendere.
In particolare, in questo libro, si vuole mostrare lo stretto legame tra la fisica e l’arte,
attraverso: le tecniche diagnostiche per la tutela dei beni culturali, l’immagine scientifica
che abbiamo dell’universo e la produzione artistica, l’influenza delle scoperte scientifiche
sul modo di rappresentare la realtà da parte degli artisti e quali suggestioni hanno creato,
il ruolo dell’arte stessa nella rivoluzione della conoscenza scientifica.
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Capitolo 1
LA#TECNOLOGIA#
AL#SERVIZIO#DELL’ARTE#
1. Introduzione
Nel corso del 1900, lo sviluppo della fisica ha comportato la nascita di numerosissime
tecniche di indagine della realtà. All’inizio queste tecniche si svilupparono per le necessità
di conoscenza e dell’analisi della struttura microscopica della materia. In particolare,
discipline come la “fisica delle particelle” e la “struttura della materia” hanno permesso di
ottenere, dal dopoguerra ad oggi, enormi passi in avanti alla scienza per quanto riguarda
la conoscenza della realtà, la scoperta di nuove particelle e della struttura atomica e
molecolare. Per realizzare queste scoperte sono stati costruiti una serie di apparati
sperimentali che hanno portato, coerentemente con le basi del metodo scientifico, a
suffragare o falsificare le ipotesi e teorie che nel corso del tempo si presentavano. Questi
apparati sperimentali, con il tempo, sono entrati a far parte della ricerca, non
esclusivamente di una disciplina come la fisica, e si sono diffusi in molti laboratori. A
seguito di questa diffusione sono aumentati anche gli ambiti di utilizzo di queste
apparecchiature. Negli ultimi tempi, proprio questi strumenti si sono rivelati utili nel
campo della conservazione dei beni culturali.
Lo scopo delle analisi scientifiche, in generale, nel campo dei “Beni Culturali” non è
diretto solo alla tutela, alla conservazione, al restauro, che ovviamente sono di prioritaria
importanza, ma esse assolvono anche allo scopo di fornire gli elementi di caratterizzazione
di materiali che integrano i dati dell’analisi storico-stilistica e che possono prescindere del
tutto da scopi di conservazione e di restauro.
2. Nozioni di fisica atomica
La maggior parte delle tecniche analitiche utilizzate rientra nel gruppo di quelle definite
spettroscopiche, basate cioè sull’interazione tra la materia e le radiazioni
elettromagnetiche. L’intensità e il tipo di questa interazione possono essere sfruttati a
scopo qualitativo per identificare elementi o composti chimici e a scopo quantitativo per
determinarne la concentrazione nei campioni analizzati.
Di particolare rilevanza è il fatto che la maggior parte delle tecniche sono di analisi tipo non
distruttivo. Essendo il campione preso in esame un’opera d’arte, spesso di inestimabile
valore, ogni tipo di “distruzione” di una sua parte è da evitare il più possibile.
La radiazione elettromagnetica, ovvero la luce, ha una doppia natura:
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

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ondulatoria, in quanto si propaga sotto forma di onda, caratterizzata da una certa
frequenza f e da una certa lunghezza d’onda λ; l’energia di un’onda luminosa è
proporzionale a f o inversamente proporzionale a λ;
corpuscolare, in quanto composta da pacchetti di energia, i fotoni, che trasportano
l’energia luminosa la quale, secondo l’equazione di Planck, è E=hf dove h è la
costante di Planck.
La luce visibile non è che un ristretto intervallo della radiazione elettromagnetica: è infatti
la parte alla quale è sensibile l’occhio umano; tuttavia, la luce ha un range che si estende
dai raggi gamma, con energia elevatissima, alle radiofrequenze, energia bassissima,
passando per i raggi X, l’ultravioletto, il visibile, l’infrarosso e le microonde.
L’insieme delle radiazioni luminose si definisce spettro elettromagnetico.
In termini di ionizzazione, la radiazione, se in possesso di sufficiente energia, interagisce
con la materia in tre modi principali:
 Effetto fotoelettrico: quando un fotone gamma interagisce con un elettrone orbitante
attorno ad un atomo e gli trasferisce tutta la sua energia, col risultato di espellere
l'elettrone dall'atomo. L'energia cinetica del "fotoelettrone" risultante è uguale
all'energia del fotone gamma incidente meno l'energia di legame dell'elettrone;
 Scattering Compton: un fotone gamma incidente espelle un elettrone da un atomo, in
modo simile al caso precedente, ma l'energia addizionale del fotone è convertita in
un nuovo fotone gamma, meno energetico, con una direzione diversa dal fotone
originale. La probabilità dello scattering Compton diminuisce con l'aumentare
dell'energia del fotone. Il meccanismo è relativamente indipendente dal numero
atomico del materiale assorbente;
 Produzione di coppie elettrone-positrone: è una reazione in cui un raggio gamma
interagisce con la materia convertendo la sua energia in materia (elettrone) ed
antimateria (positrone).
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3. Principali tecniche diagnostiche
Le tecniche spettroscopiche si differenziano in base all’energia della radiazione luminosa
utilizzata e in base al meccanismo che si sfrutta analiticamente. Irraggiando la materia con
la radiazione luminosa si creano effetti diversi a seconda dell’energia utilizzata: si va da
reazioni che interessano il nucleo (raggi gamma, raggi X) a reazioni che interessano gli
elettroni esterni (UV, visibile) fino a effetti che interessano la vibrazione delle molecole
(infrarosso, microonde, onde radio).
A seconda del range spettrale impiegato si hanno quindi le seguenti tecniche:



spettroscopia a raggi X
spettroscopia UV-visibile
spettroscopia infrarossa e Raman
A seconda del meccanismo sfruttato si ha invece la seguente suddivisione:



Metodi in assorbimento, nei quali si misura la quantità e il tipo di luce assorbita dal
campione irraggiato con una sorgente luminosa a λ definita o con un intervallo di λ
definito;
Metodi in emissione, nei quali invece si misura la quantità e il tipo di luce emessa dal
campione quando ad esso viene somministrata energia sotto forma di calore;
Metodi in fluorescenza, nei quali il campione viene irraggiato con luce a λ1 definita e si
misura la quantità di luce emessa a λ2, con λ2 > λ1 in quanto si ha una perdita di
energia per fenomeni vari.
Dalla combinazione di queste classificazioni si hanno numerose tecniche delle quali
saranno descritte quelle più utilizzate nell’analisi di campioni di interesse artisticoarcheologico.
In base al tipo di materiale da analizzare, le tecniche più idonee sono le seguenti:







Spettroscopia atomica: ideale per studiare ceramica, vetro, metalli, materiali lapidei;
Spettroscopia molecolare: ideale per studiare pigmenti, materiale organico e cristalli;
Riflettografia infrarossa;
Raman
Diffrazione (XRD)
Spettroscopia X: ideale per studiare pigmenti, ceramica, vetro, metalli;
Tecniche di Ion Beam Analysis: ideale per analisi di composizione chimica.
I vantaggi dell’uso di queste tecniche spettroscopiche interessano vari operatori nel campo
artistico.
Case d'aste: La pubblicazione di cataloghi di opere d’arte viene curata dagli esperti della
casa d'aste. Sino ad ora non si correvano seri rischi se i dati pubblicati erano sbagliati. Non
si arrivava quasi mai a procedimenti legali con un verdetto chiaro, poiché i giudici
potevano basarsi esclusivamente sull'opinione di altri esperti. Attraverso l’uso di queste
tecniche diagnostiche, e con il miglioramento delle stesse, si arriverà a verdetti
inconfutabili. Gli esami scientifici per l'accertamento dell'autenticità con strumenti
computerizzati hanno un costo non indifferente, però, comportano anche un notevole
rialzo del prezzo di un oggetto di provata autenticità e tutelano da eventuali contestazioni.
Esperti e critici d'arte: La percentuale molto elevata di copie e falsi presenti nei musei e
nelle collezioni dimostra che anche gli esperti si possono sbagliare.
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L'accertamento dell'età di un oggetto d'arte permette ora ad un critico di dedicarsi
totalmente e con serenità alla valutazione storica, artistica e commerciale.
Antiquari e galleristi: Questa categoria si trova al centro del mercato ed è la più informata
sulla quantità di copie e falsi e sull'influenza sulle vendite di un'autenticità certa. Una
maggiore trasparenza e una rinnovata fiducia da parte degli acquirenti porta enormi
vantaggi, non solo per la reputazione del commerciante, ma anche per l'aspetto
economico.
Investitori in arte e collezionisti: Acquistare arte è fondamentalmente più rischioso che
comprare qualunque altra cosa. Nel campo dell'arte figurativa e dell'antiquariato manca
un rapporto logico tra il costo di produzione, la qualità ed il prezzo di vendita. Prima
dell'acquisto di un oggetto ligneo di valore bisognerebbe richiedere un certificato di
datazione del legno.
Autorità doganali e di polizia: Gli uffici di competenza dei paesi europei hanno spesso
problemi nel valutare oggetti d'arte sequestrati. Un'analisi scientifica della qualità degli
oggetti costituisce un'attendibile base per tale scopo.
Analizziamo adesso le principali tecniche fisiche, spettroscopiche e non, come quelle
radiometriche, impiegate nel campo dei beni culturali:
Spettroscopia molecolare
Questa tecnica è particolarmente indicata per la datazione scientifica di oggetti d’arte in
legno come mobili, dipinti su tavola, travi, statue, strumenti musicali.
La misurazione è basata sulle alterazioni chimiche del legno nel corso
dei decenni e dei secoli. Il metodo è qui brevemente descritto: tutte le
molecole del legno oscillano ad una frequenza fissa e ben
determinata. Quando vengono colpite dai raggi infrarossi dello
spettrometro sulla loro frequenza, esse assorbono l'energia irradiata.
Questo assorbimento è rappresentato da una curva. Se viene inserita
nello strumento una sottile pastiglia contenente pochi milligrammi di
polvere del legno di un albero recentemente tagliato, il computer
registra l'assorbimento di tutte le molecole di questo tipo specifico di
albero e sullo schermo appare in pochi minuti una curva corrispondente alla composizione
chimica. Tale curva può essere definita "l'impronta digitale" di un tipo di albero senza
ricorrere ad analisi chimiche complesse.
Lo strato esterno di un oggetto ligneo degenera relativamente in fretta nel corso dei secoli
a causa degli agenti esterni, mentre
l'interno del legno si modifica lentamente e
quasi costantemente per effetti chimici e
per la presenza di microrganismi.
A causa di tale decadimento del legno
fresco e della formazione di nuove
molecole la curva originale si modifica
continuamente ed indipendentemente da
influssi esterni.
La datazione assoluta viene calcolata
confrontando la curva in esame con una "banca dati" di curve di campioni di datazione
certa. Il confronto spettrografico tra lo strato esterno e quello interno del legno permette di
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scoprire l'uso di legno già vecchio per simulare un'età superiore. Vengono considerate in
particolare quelle molecole resistenti sia al calore che all'umidità.
Per eseguire la datazione è necessario un prelievo di pochi
milligrammi di polvere di legno presi un po' in profondità e
scartando i primi 2-3 mm di superficie. Per prelevare si usa
una fine punta da trapano del diametro inferiore ai 3mm che
produce un forellino delle dimensioni di un foro di un tarlo.
Anche se quindi questa tecnica non può essere definita "non
invasiva" essa necessita comunque di una quantità di
campione veramente contenuta.
I vantaggi presentati da questo metodo d’indagine
spettroscopica sono:
1) Il metodo di datazione ha raggiunto un alto grado di affidabilità. E’ semplice, veloce ed
economico; 2) Oltre all’età, l’analisi spettroscopica fornisce anche informazioni sul tipo di
legno analizzato; 3) Solo il metodo basato su un’analisi spettroscopica permette la scoperta
dell’uso di legno vecchio per falsi recenti; 4) Il metodo sta ottenendo importanza per la sua
veloce e precisa classificazione di lacche, colle e pigmenti, così come incrostazioni su
bronzo e ceramiche da scavo paragonando tracce di tali campioni con gli spettri esistenti
di riferimenti affidabili.
Gli svantaggi, tuttora irrisolti, sono:
1) Alcuni legni come il mogano, il palissandro e il castagno non sono ancora databili con
accuratezza; 2) Gli oggetti che sono rimasti per lunghi periodi al di sotto del punto di
congelamento, risultano essere più giovani perché i processi chimici nel legno sono stati
rallentati. Abbiamo questo problema in Europa con travi da rovine di vecchi castelli e
chiese in montagna; 3) L’accuratezza diminuisce con il tempo. Il margine di errore, che è
intorno al 10% fino a circa 350-450 anni di età aumenta fino a al 20% per legni di 800 anni o
più; 4) Gli alberi della stessa famiglia possono avere sviluppato sottotipi in altri continenti.
In modo da elaborare una completa tabella di datazione per i nuovi sottotipi sono richiesti
due campioni di datazione certa.
Riflettografia infrarossa
Vincenzo Podesti
San Giuseppe (XIX secolo, particolare);
immagine a colori e riflettografia IR
La riflettografia infrarossa è una
metodologia di indagine ottica che si
applica in genere ai dipinti, ai
manoscritti e ai disegni. Essa è
inquadrabile fra le tecniche di analisi
di immagini come l’analisi fotografica
nelle diverse versioni (macrofotografia, riprese in luce radente, IR, UV, falso colore, etc.),
la radiografia, la spettroscopia per immagini.
La riflettografia in infrarosso può essere considerata la naturale evoluzione della fotografia
infrarossa, eseguita tradizionalmente con pellicole bianco/nero sensibili fino a circa 800
nm. L’impiego delle moderne telecamere, e più recentemente di particolari fotocamere (a
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stato solido), permette di ottenere riprese fino a lunghezze d’onda nella zona
dell’infrarosso vicino (NIR: 800-2000 nm) e perciò l’indagine riflettografica è
particolarmente adatta a rendere visibile il disegno, denominato disegno preparatorio,
tracciato dall'autore sulla preparazione presente sotto lo strato pittorico. La possibilità di
osservare il disegno preparatorio ha un evidente interesse per i critici dell’arte perché
permette di confrontare l’idea iniziale dell’autore con la realizzazione ultimata. E’ quindi
possibile osservare le diverse modalità di lavoro dei pittori e tutti i casi in cui, per ragioni
diverse, l’autore del quadro apportava delle modifiche al disegno originale.
Infatti, per valori più elevati di lunghezza d’onda gli strati di pittura hanno in generale
una trasparenza molto maggiore che nella zona più ristretta dello spettro infrarosso alla
quale è limitata la sensibilità della pellicola infrarosso tradizionale. L'esame del disegno
soggiacente nella maggior parte dei casi è di grande interesse per lo storico dell’arte
perché rivela in modo diretto la mano dell’autore e ciò può essere di grande aiuto per
esempio nei casi di dubbia attribuzione.
Il disegno è a volte costituito da poche tracce essenziali, in altri casi invece è eseguito con
grande dettaglio e precisione fino al tratteggio delle ombre, rappresentando così una vera
e propria opera d’arte, testimonianza fedele del processo creativo destinata a rimanere
nascosta, ma per nostra fortuna resa visibile da questa tecnica.
L'analisi riflettografica inoltre è in grado di mostrare variazioni in corso d'opera (i
cosiddetti pentimenti), l'estensione di interventi di restauro e ridipinture effettuati con
pigmenti moderni e, in generale, lo stato di conservazione della superficie dell'opera.
La riflettografia infrarossa è soprattutto impiegata per i dipinti su tavola o tela, raramente
per le pitture murali. Nel caso degli affreschi, infatti, non essendo trasparente all'infrarosso
lo strato di intonachino, il suo uso è limitato all’esame di zone di ripresa a secco.
Spettroscopia XRF
La Fluorescenza a raggi X è probabilmente la tecnica di analisi elementare più utilizzata
nel campo dei beni culturali. In questa tecnica, il campione è colpito con un fascio di raggi
X che causa l’espulsione di elettroni interni per effetto fotoelettrico, le vacanze (i posti
vuoti) che si generano sono colmate mediante transizioni di
elettroni esterni con emissione di raggi X specifici per ogni
elemento. Siccome per vari motivi l'energia delle radiazioni
emesse è minore di quella incidente, si parla di fluorescenza X o
XRF (X-Ray Fluorescence). L'energia delle radiazioni emesse
permette di riconoscere qualitativamente gli elementi presenti
nel campione nel punto irraggiato, mentre l'intensità delle
radiazioni è correlabile alla concentrazione degli elementi. La
zona irraggiata può essere di 3-100 mm2 o minore nel caso di
strumenti dotati di microscopio.
Una limitazione di questa tecnica è che essa, per motivi
strumentali, non è in grado di determinare elementi a basso peso
atomico, in particolare dal magnesio all’idrogeno, se non con
accorgimenti particolari (presenza di elio); è quindi poco adatta
per il riconoscimento di molecole organiche.
L’analisi XRF può essere effettuata in diverse configurazioni, a seconda del tipo di
strumento impiegato e della geometria d’analisi.
Esistono, ormai, strumentazioni portatili che analizzano la superficie del campione, fino ad
una profondità variabile a seconda della composizione del campione stesso; gli strumenti
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più recenti sono dotati di microscopio e possono quindi analizzare spot micrometrici.
Con lo sviluppo della tecnologia, diventano disponibili strumenti portatili di dimensioni
veramente ridotte, idonei per l’analisi in situ (ovvero nel luogo dove è presente l’opera)
non distruttiva.
Tecniche di Ion Beam Analysis
A partire dalla metà degli anni Ottanta, l’uso di piccoli acceleratori di particelle (strumenti
che accelerano attraverso campi elettromagnetici le particelle cariche) si è andato sempre
più caratterizzando per l'impiego a scopo applicativo delle tecniche cosiddette di Ion Beam
Analysis (nel seguito indicate anche con l'acronimo IBA).
Queste tecniche consentono di determinare la composizione di un qualunque materiale
sfruttando l'emissione di radiazioni X e γ e/o di particelle cariche prodotte da quel
materiale quando viene usato come "bersaglio" per il fascio di particelle. Si può infatti
associare univocamente l'energia della radiazione emessa a un dato elemento atomico, o
addirittura isotopo; l'emissione di radiazione a una determinata energia rappresenta per
così dire la "firma" della presenza del corrispondente elemento nel materiale "bombardato"
dal fascio.
L'analisi è multielementale, quantitativa, rapida, sensibile fino agli elementi presenti in
traccia, e non distruttiva.
Analizzare gli elementi che costituiscono un'opera d'arte è importante per:




conoscere le tecnologie di produzione;
avere informazioni sull'epoca e sull'area geografica di produzione;
caratterizzare la tecnica di un'artista o di una scuola;
indagare i meccanismi di degrado (in vista di un eventuale restauro).
Fra tutte le tecniche IBA, in particolare, la tecnica PIXE in fascio esterno è molto utilizzata
grazie alle sue caratteristiche di non distruttività.
La tecnica non invasiva, chiamata PIXE (particle induced X-ray emission), permette di
acquisire in pochi minuti informazioni su opere d’arte senza danneggiarle e spostarle. Il
funzionamento è il seguente: una sorgente di polonio emette particelle alfa che inviate
sull’oggetto da analizzare, stimolano gli atomi che compongono la superficie a emettere
radiazione X di energia caratteristica per ciascuna specie atomica. Convogliati su un
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rivelatore, i raggi X formano spettri in cui si può evidenziare, in corrispondenza di ogni
picco, la presenza di un determinato elemento.
Risalendo alle specie atomiche presenti sulla superficie di una ceramica, di un dipinto o di
qualsiasi altro manufatto, è possibile distinguere un’opera
vera da una falsa, attribuirla ad una cultura piuttosto che
ad un’altra, oppure impostare un restauro reversibile.
Grazie a questa metodica si è capito che il colore nero
delle decorazioni dei vasi attici risalenti al 400–500 a.C.
non sia da attribuire ad una vernice, ma all’applicazione
di argilla purificata arricchita di ferro e di potassio estratto
dalla cenere di alberi bruciati.
Il nero delle decorazioni è pertanto il risultato delle trasformazioni di ossidi di ferro in
ematite avvenuta in un ambiente privo di ossigeno. La stessa metodica ha consentito di
stabilire che la stessa formula è stata usata per ornare i vasi di Kamares, realizzati intorno
al 2000 a.C., ritrovati in una grotta a Creta e oggi conservati nel Museo Paolo Orsi di
Siracusa. Non fanno parte di questo filone creativo i vasi conservati al Museo archeologico
di Licata, le cui decorazioni sono state dipinte con una vernice nera contenente ossido di
manganese. Lo spettro ottenuto con la tecnica PIXE è, infatti, del tutto diverso da quello
rilevato sui vasi attici.
La tecnica PIXE è stata applicata in moltissimi altri campi. Vediamo qualche esempio:
Identificazione delle rigature nei manoscritti medievali. In
manoscritti risalenti almeno alla fine del secolo XI si
possono notare le sottili righe tracciate per delimitare il
campo di scrittura e guidare la mano dei copisti. Le misure
PIXE effettuate su un ampio corpus di manoscritti
opportunamente selezionati dai codicologi in modo da
costituire un campione statisticamente significativo, hanno
consentito di identificare tre diverse tecniche per tracciare
le rigature:



con una punta di piombo;
con inchiostro (in alcuni casi l'inchiostro era simile a quello utilizzato per il testo);
con una punta in grafite (rivelabile attraverso tracce di Al, Si e Fe, elementi presenti
anche nelle moderne matite).
In precedenza le rigature tracciate con quest’ultimo sistema erano state erroneamente
classificate come rigature al piombo sulla base di una osservazione meramente visuale dei
manoscritti. Tali risultati sono stati utilizzati dagli umanisti come criterio di
discriminazione e classificazione di tipologie diverse di manoscritti.
Miniature nei codici medioevali e rinascimentali dell’Italia
centrale. Misure PIXE in fascio esterno sono state effettuate su
centinaia di miniature, tratte da manoscritti o frammenti
risalenti al periodo XII-XV secolo (ovviamente, sempre scelti
con criteri di rappresentatività da umanisti, in questo caso
storici della miniatura). Obiettivi di tale lavoro erano quelli di
costruire un soddisfacente database per gli elementi utilizzati
nei diversi pigmenti, stabilire trend cronologici nell'utilizzo di
vari materiali per i colori, dedurre alcune informazioni sulle
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vie dei commerci per le materie prime, confermare oppure no l'attribuzione delle opere
analizzate a un artista. Come esempio citiamo alcune interessanti osservazioni sull'utilizzo
dei pigmenti blu. Molto utilizzati erano l'azzurrite e il blu oltremare (lapislazzulo); questo
secondo pigmento era molto prezioso (proveniva dall'oriente) e si riteneva quindi che
fosse utilizzato solo per opere di particolare valenza artistica. Al contrario le misure PIXE
hanno messo in evidenza un suo
largo utilizzo anche in opere
all'apparenza molto semplici. A
questo proposito è stata avanzata
l'ipotesi che l'impiego del prezioso
pigmento fosse legato non tanto
alla
qualità
artistica
della
decorazione, quanto al carattere
religioso delle opere.
Inchiostri metallo-gallici. A partire
dal secolo XI nei manoscritti
vengono impiegati sempre di più i
cosiddetti inchiostri metallo-gallici,
ottenuti dalla reazione dell'acido
gallico, contenuto nelle noci di
galla, con il solfato ferroso. I
rapporti fra le concentrazioni degli
elementi metallici (Fe, Ni, Cu, Zn,
Pb) variano da manoscritto a
manoscritto e possono quindi
servire come discriminante per
distinguere diversi scriptoria e periodi. In particolare, in merito alle analisi di inchiostri, è
attivo un importante progetto sulla ricostruzione della cronologia degli scritti di Galileo.
Analisi microscopiche e analisi chimiche
L'attenta analisi microscopica e le analisi chimiche spettroscopiche permettono di:
a) riconoscere una craquelure (crettatura) che
si è formata in modo naturale da una
craquelure ottenuta artificialmente;
b) riconoscere
i
pigmenti
preparati
artigianalmente da quelli puri e fini prodotti
industrialmente;
c) identificare leganti sintetici come gli acrilici
o vinilici e i pigmenti moderni
f) correlare
l'intensità
della
crettatura
formatasi in relazione all'età del dipinto.
Metodo del carbonio-14
Il metodo del 14C (carbonio-14), o del radiocarbonio, è un metodo di datazione
radiometrica basato sulla misura delle abbondanze relative degli isotopi del carbonio.
Il metodo del 14C permette di datare materiali di origine organica (ossa, legno, fibre tessili,
semi, carboni di legno) e si tratta di una datazione assoluta, vale a dire in anni calendariali,
Fisic’Arte
16
ed è utilizzabile per materiali di età compresa tra i 50.000 e i 100 anni. La sua principale
utilizzazione è per datare i reperti costituiti da materia organica, quindi contenenti atomi
di carbonio.
Il carbonio è un elemento chimico fondamentale per la vita e presente in tutte le sostanze
organiche. Esso è presente sulla terra in tre isotopi: due stabili (12C e 13C) e uno radioattivo
(14C). Il 14C si trasforma per decadimento beta in azoto (14N), con un tempo di
dimezzamento medio (o emivita) di 5730 anni, di conseguenza questo isotopo a lungo
andare scomparirebbe, se non venisse continuamente reintegrato; infatti, il 14C viene
continuamente prodotto dal bombardamento dell’atmosfera da parte di raggi cosmici.
L'equilibrio dinamico che si instaura tra produzione e decadimento radioattivo mantiene
quindi costante la concentrazione di 14C nell'atmosfera, dove è presente principalmente
legato all'ossigeno sotto forma di anidride carbonica.
Tutti gli organismi viventi che fanno parte del ciclo del carbonio scambiano
continuamente carbonio con l'atmosfera attraverso processi di respirazione (animali) o
fotosintesi (vegetali), oppure lo assimilano nutrendosi di altri esseri viventi o sostanze
organiche.
Di conseguenza finché un organismo è vivo, il rapporto tra la sua concentrazione di 14C e
quella degli altri due isotopi di carbonio si mantiene costante e uguale a quella che si
riscontra nell'atmosfera.
Dopo la morte, però, questi processi terminano e l'organismo non scambia più carbonio
con l'esterno. Per effetto del decadimento, quindi, la concentrazione di 14C diminuisce
esponenzialmente in modo regolare secondo la formula:
c = c0e
− Δt
τ
(1)
dove c0 è la concentrazione di 14C nell'atmosfera, Δt il tempo trascorso dalla morte
dell'organismo, τ = Δt/ln2 la vita media del 14C.
Fisic’Arte
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Misurando dunque la quantità c di 14C presente nei resti organici, se ne ricava l'età Δt come
formula inversa della (1):
Δt = −τ ln(c / c0 )
La misura del 14C si può effettuare con due metodi:


metodo del contatore proporzionale: con un contatore Geiger o altra apparecchiatura
simile si misurano gli elettroni prodotti dal decadimento del 14C nel campione.
Questo è stato il primo metodo ad essere impiegato.
metodo della spettrometria di massa (AMS, Accelerator Mass Spectrometry):
utilizzando uno spettrometro di massa si misura direttamente la concentrazione di
14C presente nel campione. Questo metodo è di applicazione più recente, usato a
partire dagli anni settanta.
Rispetto al metodo del contatore proporzionale, il metodo AMS presenta il vantaggio di
poter lavorare con campioni più piccoli (anche di pochi milligrammi) e di fornire un
risultato in un tempo molto più breve (si possono misurare decine di campioni al giorno,
mentre il contatore proporzionale può richiedere anche alcune settimane per un solo
campione). Tuttavia presenta anche lo svantaggio di essere un metodo distruttivo: esso
richiede infatti che il campione venga bruciato e ridotto in forma gassosa.
Entrambi questi metodi permettono di ottenere datazioni con un margine di errore tra il 2
e il 5% e fino ad un tempo massimo di circa 50000 anni: per campioni più antichi, la
concentrazione di 14C è troppo bassa per poter essere misurata con sufficiente accuratezza.
Il caso mediatico più celebre di applicazione del metodo del 14C è stato la radiodatazione
della Sindone di Torino eseguito in tre laboratori da un'equipe internazionale nel 1988, il
cui risultato data la Sindone al periodo compreso tra il 1260 e il 1390.
Metodo della termoluminescenza
La termoluminescenza (TL) permette di datare vari materiali di natura archeologica che
sono rimasti esposti a fonti di calore (fuoco o luce del sole): ceramica, pareti di forni,
oggetti litici bruciati. Rispetto quindi al metodo 14C, con questo metodo si può datare la
ceramica, che è il materiale più abbondante rinvenuto normalmente nei siti archeologici
degli ultimi 10.000 anni. Oltre alla ceramica, è possibile datare anche altri materiali
inorganici che siano stati sottoposti a combustione (ad es., le selci combuste), che risalgono
a prima di 50.000 – 80.000 anni fa, epoca che non può essere datata con il metodo del 14C,
perché troppo antica.
Basi del metodo: i materiali a struttura cristallina (per esempio la ceramica) contengono
elementi radioattivi: uranio, torio e potassio. Questi elementi decadono ad una velocità
costante, emettendo radiazioni che bombardano la struttura cristallina dislocando alcuni
elettroni che vengono poi intrappolati dal reticolo cristallino; il numero quindi cresce col
passare del tempo. Riscaldando il materiale ad una temperatura di almeno 500 °C, gli
elettroni precedentemente intrappolati possono fuggire riportando così l’orologio a zero.
Durante questo processo gli elettroni emettono un fascio luminoso che costituisce il
fenomeno della termoluminescenza. Misurando la quantità di termoluminescenza emessa
da un campione riscaldato in laboratorio alla temperatura suddetta, si può calcolare
quanto tempo sia trascorso a partire dal riscaldamento del reperto.
Fisic’Arte
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Limiti del metodo: l’intervallo cronologico è di circa 100.000 anni e le date ottenute con
questo metodo riportano solitamente un errore pari a ± 10%. È quindi un metodo meno
preciso del metodo 14C, ma rimane comunque molto utile nei casi in cui non sia possibile
applicare quello del radiocarbonio.
Duroflessometria
Attraverso la misura della durezza e della deformabilità del colore, in funzione del tipo di
legante e di pigmento utilizzato, si valuta l'essiccamento dello strato pittorico e quindi la
sua compatibilità con un determinato periodo storico.
Risonanza magnetica
Spesso è difficile stabilire quando, dove e come intervenire per conservare le preziose
opere d’arte di cui è ricco il nostro paese. A tale scopo ci viene in aiuto la risonanza
magnetica, per cui monumenti, affreschi, sculture, opere in legno, libri, documenti
possono essere analizzati con un nuovo dispositivo
molto simile a quello impiegato nella diagnostica
medica, ma meno ingombrante e quindi agevole da
trasportare sul luogo di interesse. Essendo una tecnica
non invasiva, ha il pregio di non manomettere l’opera
d’arte evitando i danni permanenti che si producono nel
prelevare i campioni da analizzare. Il principio di
funzionamento è il seguente: la risonanza magnetica
analizza il comportamento delle molecole di acqua (che
rappresentano l’80% della massa del corpo umano)
quando sono sottoposte a particolari campi magnetici. In
ogni molecola (H2O) sono presenti due atomi di
idrogeno, il cui nucleo è costituito da un protone.
Ciascun protone si comporta come una minuscola calamita che “gira” continuamente un
po’ come una trottola. E’ il campo magnetico dei protoni che viene dunque monitorato.
Normalmente questi campi magnetici sono orientati in modo casuale, le “trottole” girano
inclinate in ogni direzione, perciò la loro somma complessiva è nulla, cioè globalmente
non si coglie nessun effetto, il materiale analizzato non è magnetizzato. La macchina della
risonanza magnetica è dotata di un magnete che costringe tutti i campi magnetici dei
protoni ad allinearsi parallelamente. Poco meno della metà è orientata nel verso del campo
magnetico della RM, l’altra metà nel verso opposto. Il materiale si trasforma così in una
calamita il cui campo magnetico è orientato nella direzione della maggioranza dei protoni.
A questo punto la macchina produce una serie di onde radio a una frequenza ben precisa,
che fanno ruotare di 90° il campo magnetico dei protoni. Il segnale radio è quindi
interrotto e i protoni tornano nella posizione precedente. Questo ritorno ha lo stesso effetto
di una calamita che ruota: induce un segnale elettrico. Questo segnale è registrato dai
ricettori della macchina e fornisce l’informazione necessaria. Infatti questo segnale si
esaurisce rapidamente, ma in tempi diversi a seconda del materiale in cui si trovano i
protoni. I segnali elettrici sono quindi registrati, digitalizzati e inviati a un computer che
costruisce un’immagine tridimensionale. Lo strumento che sfrutta questo principio fisico
fornisce, pertanto, informazioni sulla distribuzione d’idrogeno (che fa parte dell’acqua
H2O) all’interno di un materiale. Ciò consente di individuare non solo la quantità di acqua
ma anche il modo in cui essa interagisce con la struttura del materiale stesso. Lo strumento
Fisic’Arte
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portatile, chiamato NMR-MOUSE, è stato testato su alcune opere (l’affresco romano del
criptoportico del Colle Oppio, le Mura Aureliane, la scala lignea della Torre delle Milizie)
ed ha funzionato egregiamente, dimostrando una notevole sensibilità nell’analisi di
materiali diversi come legno, laterizi e strati pittorici.
Strumento diagnostico per i dipinti a rischio di deterioramento
Nelle opere d’arte la scelta di tecniche diagnostiche poco invasive è d’obbligo. Lo
strumento ideato per la valutazione dello stato di salute delle opere pittoriche
è, infatti, una sonda coassiale che consente di quantificare il grado di deterioramento di un
dipinto in modo accurato e con un’operazione del tutto innocua. Il parametro che viene
comunemente utilizzato, da questa come da altre metodiche, per esprimere il livello di
conservazione di un’opera è la permittività, che indica, attraverso l’induzione di un campo
elettrico, l’umidità contenuta in un materiale. Dato che proprio l’umidità è una delle
principali cause di logoramento del legno dei dipinti, il suo monitoraggio prima che se ne
manifestino gli effetti devastanti consente per esempio di adottare precocemente
provvedimenti protettivi. In una seconda applicazione non meno importante, la
permittività rappresenta la misura sulla base della quale è possibile dosare con precisione
la somministrazione di onde elettromagnetiche «terapeutiche» ai dipinti infestati da
funghi o parassiti. In questo caso, conoscere l’umidità presente nel materiale impedisce di
surriscaldarlo, e quindi di danneggiarlo irreparabilmente, con un’overdose di radiazioni.
I metodi finora disponibili per misurare la permittività presentavano due fondamentali
difetti: o richiedevano l’asportazione di campioni dell’opera in esame, cioè dei veri
sacrilegi del patrimonio artistico, oppure si avvalevano di strumenti più indicati per
materiali liquidi o semisolidi e faticavano a ottenere dati affidabili dai materiali solidi a
causa dell'irregolarità delle loro superfici.
Termografia
La termografia è una tecnica non a contatto che registra la distribuzione della temperatura
superficiale di un oggetto di emissività nota per analizzarne la struttura esterna e subsuperficiale. Sfrutta il riscaldamento naturale (ad esempio irraggiamento solare) o indotto
artificialmente (termoconvezione o irraggiamento IR). Le mappe termiche ottenute
permettono di estrarre differenti tipologie di informazioni a seconda della modalità della
loro realizzazione. Rivelano differenze e
discontinuità di una superficie, nonché
anomalie, difetti o peculiarità non visibili ad
occhio nudo, grazie alla registrazione del
diverso andamento della temperatura sulla
superficie o a variazioni temporali di questa.
Questa tecnica è utilizzata per il
monitoraggio delle strutture murarie di
edifici, degli intonaci e degli affreschi,
nonché per superfici e strutture lapidee;
sono possibili anche applicazioni nel settore
dei manufatti lignei, dall'edilizia a statue e
dipinti su tavola.
È in grado di individuare umidità, riscaldamenti differenziali, ponti termici, dispersioni,
crepe, tessiture e palinsesti murari, e quindi di valutare possibili cause di degrado.
Fisic’Arte
20
L'indagine termica è assolutamente non invasiva, veloce ed estensiva, e permette di
realizzare uno screening preliminare al fine di procedere con indagini (micro) distruttive
solo quando necessario o in aree selezionate.
Microscopio ottico
La microscopia ottica consente la visione ingrandita (fino a un massimo di circa 1000 volte)
degli oggetti o di parte di essi, mantenendo una rappresentazione d’insieme che permette
di evidenziare in maniera più chiara la conformazione sia della struttura sia del colore e
dei contrasti. Sui principi della microscopia ottica si basa il microscopio ottico che sfrutta
la luce con lunghezza d'onda dal vicino infrarosso all'ultravioletto, coprendo tutto lo
spettro visibile. Per quanto antica, la microscopia ottica trova
ampi impieghi in quasi tutti i laboratori. Con alcuni
accorgimenti è possibile raggiungere una risoluzione spaziale
di circa 250 nm, anche se in tal modo la profondità di campo
risulta essere molto bassa.
Il microscopio ottico tradizionale è il più semplice. Per mezzo
di lenti ingrandisce l'immagine del campione, illuminato con
luce nell'intervallo spettrale del visibile. Può essere semplice
(un solo sistema di lenti o addirittura una sola lente) o
composto (almeno due sistemi, oculare ed obiettivo), e
l'illuminazione può raggiungere il campione da dietro,
attraversandolo (luce trasmessa), o esserne riflessa (luce
riflessa). Il microscopio ottico permette di avere immagini di
soggetti dimensionalmente collocati all'incirca tra il
millimetro ed il micrometro.
In campo artistico e del restauro vengono solitamente usati
ingrandimenti da 40 X (basso) a 500 X (alto). Nel caso di bassi ingrandimenti il campione
non richiede particolari preparazioni. Attualmente i microscopi ottici sono dotati di
sistemi fotografici che consentono di raccogliere e catalogare le immagini; inoltre l’impiego
di speciali macchine fotografiche sensibili all’UV (ultravioletto) e all’IR (infrarosso), rende
evidenti particolari invisibili ai nostri occhi.
Fisic’Arte
21
Secondo cronache del periodo, il ciclo
decorativo dell’antico refettorio del convento
di Roma di Trinità dei Monti fu dipinto da
Padre Andrea Pozzo alla fine del XVII secolo;
tuttavia gli esperti d’arte sono sempre stati
divisi sull’attribuire l’intero ciclo a Pozzo. La
teoria predominante è quella che vede Pozzo
come responsabile del progetto iniziale e
realizzatore della sola volta e delle
rappresentazioni architettoniche, mentre le
figure sui muri sarebbero state dipinte da
artisti
la
cui
identità non è certa. I recenti lavori di restauro hanno dato
l’opportunità di effettuare nuove analisi sui dipinti per
ottenere informazioni aggiuntive sugli stessi. Tra le varie
analisi effettuate sono stati osservati con il microscopio ottico
dei piccoli campioni prelevati dagli affreschi (l’analisi chimica
dei pigmenti è stata invece effettuata direttamente sugli
affreschi per mezzo di un XRF). Oltre a conoscere l’esatta
composizione dei pigmenti pittorici, le analisi effettuate hanno
confermato che le tecniche e i materiali usati per decorare il
refettorio sono molto simili a quelli descritti da Pozzo nel suo
trattato, in particolare riguardo la preparazione dei muri, le
tecniche di trasferimento pittorico e il tipo di pigmenti
utilizzati. Le similitudini sono tali da mostrare che Padre Pozzo
fu sicuramente responsabile di tutto il progetto (se non anche
l’esecutore materiale).
Nanotecnologia
Minuscole particelle di idrato di calcio (calce spenta) del diametro di pochi milionesimi di
millimetro possono salvare gli antichi affreschi. Prima di iniziare a dipingere su tela, molti
pittori del XV secolo realizzarono degli affreschi. La tecnica del tempo, di cui erano
maestri Giotto e Michelangelo, richiedeva che il dipinto venisse realizzato sull'intonaco
ancora fresco. I risultati di questa tecnica erano indubbiamente brillanti, ma mezzo
millennio dopo molti di questi affreschi si stanno lo stesso staccando dai muri. Gli intonaci
del tempo erano fatti di sabbia e calce, che diventava idrossido di calcio quando bagnata.
Quando poi si asciuga, la calce spenta reagisce con l'anidride carbonica dell'aria per
formare del carbonato di calcio. Gli scienziati hanno usato calce spenta come colla per far
riaderire le scaglie di vernice. Essi l'hanno applicata come una sospensione di minuscoli
cristalli di idrossido di calcio in alcool. Quando l'alcool evapora, i cristalli assorbono acqua
e anidride carbonica e si mescolano con il carbonato di calcio del dipinto e l'intonaco
sottostante, legandoli nuovamente insieme. Il trucco per il funzionamento della tecnica
risiede nelle dimensioni dei cristalli di idrossido di calcio, che devono essere dell'ordine
dei pochi milionesimi di millimetro, affinché possano penetrare in profondità nelle crepe
dell'affresco.
Fisic’Arte
22
Dosaggio luminoso nei musei
Alcuni musei europei, tra cui anche gli Uffizi di Firenze, si sono muniti di un nuovo
sistema di protezione delle opere dall’eccessiva esposizione alla luce. Questo sistema di
dosaggio luminoso sensibile, economico e di facile impiego, consiste di piccole strisce di
carta ricoperte da blu toluidina, un colorante che sbiadisce a una velocità proporzionale
alla quantità di luce assorbita, passando gradualmente dall’azzurro intenso fino al bianco.
Per controllare il livello di illuminazione di un’opera basta esporvi accanto una striscia e
osservarne regolarmente il colore confrontandolo con una scala di riferimento.
La dose massima consentita per oggetti sensibili è circa 100.000 lux all’ora per anno, che
corrisponde al bianco; se il dosimetro assume questo colore in sei mesi, significa che
l’oggetto è colpito da una quantità di luce doppia di quella consentita. I dosimetri
incorporano soluzioni di alta tecnologia: il colorante è fissato su una speciale matrice a
base di silani, che non solo garantisce robustezza al dispositivo ma ne migliora anche la
risposta alla luce.
4. Tecniche informatiche
Arte virtuale
Opere come la Pietà di Michelangelo o il David di Donatello saranno digitalizzate e
trasformate in forme tridimensionali, per poi essere salvate in database richiamabili da
postazioni collocate nei musei attraverso Internet 2, una rete veloce a fibre ottiche e a
tecnologia fotonica già funzionante.
L’originale viene digitalizzato con uno scanner laser, in grado di riprodurre la superficie
delle statue con una risoluzione fino a 0,1 mm, così da fornire una copia visiva persino
delle venature del marmo. Successivamente viene aggiunto l’effetto tridimensionale e la
sensazione tattile. La scultura verrà proiettata su uno schermo particolare e con l’aiuto di
appositi occhiali si avrà la sensazione che esca dallo schermo. Il capolavoro può essere
ingrandito, fatto ruotare e toccato con l’aiuto di guanti speciali pieni di sensori in grado di
riprodurre sensazioni tattili complesse come la rugosità.
Riconoscimento dei quadri d’autore
Un gruppo di ricercatori negli Stati Uniti ha messo a punto una tecnica digitale per
stabilire l’autenticità di un dipinto, un disegno o una stampa e valutare se è stato
realizzato da uno o più artisti. Il principio consiste
nell’individuare con un algoritmo gli elementi unici per
ogni artista, quali la scelta delle parole ed il ritmo (in
letteratura) o il tipo di tratto e la pennellata (in pittura). In
pratica, i ricercatori effettuano una scansione digitale ad
altissima risoluzione dell’opera. L’immagine è quindi
suddivisa in varie regioni, ognuna delle quali viene
scomposta in una serie di linee orizzontali, verticali e
diagonali. La distribuzione nello spazio di queste linee, che
corrisponde ai tratti caratteristici dell’artista in questione, è
infine convertita in un set di numeri che rappresentano
coordinate di punti in uno spazio tridimensionale. A
stabilire la paternità artistica è il confronto statistico tra la
Fisic’Arte
23
posizione su un grafico dei punti ricavati da opere differenti: se le pennellate
appartengono alla stessa mano, infatti, tutti i punti
cadranno vicini. Altrimenti, appariranno sul grafico distanti
tra loro. Il metodo è stato testato con due esperimenti. Nel
primo hanno analizzato una serie di tredici dipinti, di cui
otto attribuiti al pittore fiammingo Bruegel (1525/30-1569) e
cinque noti come imitazioni. Risultato: il computer ha
confermato il giudizio formulato dagli esperti in storia
dell’arte.
Nel secondo test, i ricercatori hanno esaminato la Madonna
con bambino del Perugino, un capolavoro del Rinascimento
che molti ritengono eseguito a più mani. Anche in questo
caso l’analisi ha dato ragione ai sospetti: mentre i volti della
Vergine e di due santi risultano dipinti da un’unica mano
(probabilmente dal Perugino), quelli del bambino e di altri
due santi sembrano opera di altri autori. Questo software
potrebbe rivelarsi prezioso soprattutto nell’ambito delle
indagini legali.
Fisic’Arte
24
Capitolo 2
LUCE#E#COLORE#
1. Introduzione
A prima vista, fisica e pittura sembrano domini inconciliabili, eppure, se il loro tema
comune è quello della luce e dei colori, questo ne giustifica l’intreccio in una trattazione
comune. La luce fisica è un prodotto della mente, quella pittorica è manifestazione della
mente. Lo stesso è per i colori, prodotti della luce, ma anche dell’ingegno umano e delle
mani che li combinano e li dispongono in un dipinto. Quando luce e colori divennero
oggetti di analisi scientifica Newton fu il primo scienziato occidentale che, tra i secoli XVII
e XVIII, spiegò il rapporto tra luce bianca e colori suoi componenti. I colori materiali usati
in pittura furono il prodotto della tecnologia dei vari periodi storici e così, oltre alla storia,
ciò che condizionò sempre il colore dei dipinti fu la chimica. In particolare nel secolo XIX
essa produsse numerosi nuovi pigmenti di sintesi e influenzò la pratica pittorica in modo
sempre più evidente, fino all’esplosione, alla fine del secolo, della pittura impressionista,
ultima corrente della pittura classica e prima manifestazione della pittura moderna intesa
come momento di dissoluzione dell’immagine del mondo esterno per lasciare spazio
all’immagine del mondo psichico dei pittori.
A partire dal XIX secolo, lo studio dei rapporti tra luce e colori rientrò negli interessi dei
fisici che, chiedendosi i giusti quesiti su questi fenomeni, riuscirono a costruire una nuova
immagine del mondo. Cruciali per tale indagine furono potenti strumenti concettuali come
la meccanica quantistica e la teoria della relatività che, assieme, concorsero ad una
indagine sempre più approfondita dell’universo ed alla fondazione di una nuova
cosmologia.
Già durante la vita di Goethe (1749-1832), autore di una Teoria dei colori in gran parte
errata da un punto di vista scientifico, vi fu un considerevole progresso nello studio della
visione dei colori se nel 1801 Young (1723-1829) aveva proposto che la nostra percezione
cromatica dipende da tre tipi di recettori, sensibili rispettivamente al rosso, al verde e al
blu. Tali recettori dovevano essere localizzati nella retina, identificata già da Keplero
(1571-1630) come sistema sensibile dell’occhio e corrispondevano a coni e bastoncelli,
riconosciuti da Max Schultze (1825-1874) come specifici per il colore e la visione
crepuscolare o notturna rispettivamente. Successivamente H. Munk (1852-1903) localizzò
nell’area visiva della corteccia occipitale la sede del processo centrale della visione.
L’ipotesi tricromatica venne confermata da esperimenti con miscele dei tre colori a
lunghezza d’onda alta, media e bassa che riproducevano, oltre al bianco, tutti i colori
possibili. Il meccanismo fisiologico della percezione del colore venne descritto
dettagliatamente nel 1866 dal fisico Helmholtz (1821-1894). Nella seconda metà del secolo
XIX nacque la biochimica e gli studi sulla visione confluirono in un nuovo paradigma che
Fisic’Arte
25
considerava complessi sistemi di reazioni endocellulari altamente coordinate e specifiche
da cui dipende la qualità e la chiarezza della visione.
2. Il meccanismo della visione
Il concetto di luce, e quindi di colore, coinvolge immediatamente il concetto del
meccanismo della visione e della percezione del mondo che ci circonda. Per capire il
meccanismo della visione umana dobbiamo distinguere tre parti:
L'occhio: un sistema ottico che forma e proietta le
immagini su una superficie sensibile.
La retina: una superficie sensibile che raccoglie
le immagini, ne fa una prima elaborazione e
trasmette l'informazione ai centri superiori
(corpo genicolato laterale, corteccia cerebrale
visiva).
Il cervello: un elaboratore dei dati provenienti
dalla retina che li elabora ulteriormente e "forma"
l'immagine definitiva.
L'occhio umano e' un sistema ottico
relativamente semplice, costituito da un diottro
(cornea, umor acqueo, e umor vitreo) di indice
di rifrazione 1.33 e da una lente biconvessa, il
cristallino, di indice di rifrazione 1.44, in cui la
curvatura della faccia anteriore può essere
modificata dalla contrazione dei muscoli ciliari,
variando così la distanza focale della lente
(accomodamento).
Cornea, camera anteriore, cristallino e camera
posteriore nel loro complesso formano una
lente convergente (provvista di una distanza
focale variabile fra 2,4 e 1,7 cm) che proietta le
immagini sulla retina, rimpicciolite e capovolte.
Una membrana muscolare, l'iride, al cui centro
e' ricavata un'apertura, la pupilla, serve a diaframmare, cioè a regolare la quantità di luce
che entra nell'occhio.
La superficie sensibile
dell'occhio e' costituita
dai fotorecettori (i
bastoncelli ed i coni), il
cui compito è quello di
trasformare in impulsi
elettrici le informazioni
ricevute dalle reazioni
fotochimiche
che
vengono attivate dalla
radiazione luminosa e
di inviare questi segnali ai neuroni retinici (le cellule orizzontali, bipolari, amacrine e
Fisic’Arte
26
ganglionari) che sono variamente connessi fra di loro ed effettuano una prima
elaborazione del segnale visivo. In particolare bisogna puntualizzare la capacità di certe
molecole di modificare i propri legami chimici per azione della luce: si tratta di pigmenti
fotosensibili (es. rodopsina) contenuti nei bastoncelli alla periferia della retina e nei coni
della fovea centrale. Nei coni vi sono sistemi fotochimici di tre tipi, sensibili a lunghezze
d’onda diverse mentre, al loro livello, certi colori si annullano reciprocamente. I coni sono
specializzati per la discriminazione dei colori e per una visione particolareggiata
dell’immagine, i bastoncelli per la visione in penombra tanto che un bastoncello è capace
di rispondere ad un solo fotone di luce. I raggi luminosi inducono
nei pigmenti trasformazioni chimiche che provocano l’invio di
impulsi nervosi al cervello.
In definitiva, il sistema di lenti dell’occhio mette a fuoco le
immagini sulla retina che, organizzata in strati diversi, contiene il
sistema di trasduzione che trasforma l’immagine in impulso
nervoso convogliato nelle fibre del nervo ottico e veicolato
nell’area visiva della corteccia occipitale, ricreando così una
mappa cerebrale della retina nel cervello. La corteccia cerebrale
visiva è formata da colonne di cellule che effettuano analisi in
parallelo del campo visivo finalizzata ad ottimizzare
l’elaborazione dell’informazione visiva in generale e di quella
cromatica in particolare.
3. La natura della luce
La luce è una grandezza particolare poiché la sua definizione e la sua misura dipendono
non solo da quantità fisiche oggettive, ma anche dal sistema visivo dell’essere umano.
Per luce s’intendono le radiazioni elettromagnetiche in grado di stimolare la retina
dell’occhio umano, producendo la sensazione
visiva.
Le radiazioni elettromagnetiche costituiscono
un fenomeno ondulatorio di propagazione di
energia che si manifesta con un campo
elettrico ed un campo magnetico, oscillanti in
piani ortogonali tra loro.
Le caratteristiche di tali radiazioni variano in
funzione del valore assunto dalle proprietà
tipiche delle onde.
La velocità di propagazione nel vuoto è
costante ed è detta “velocità della luce” ed
indicata con la lettera c.
La lunghezza d’onda e la frequenza sono inversamente proporzionali. Al variare della
frequenza, ossia della lunghezza d’onda, le radiazioni elettromagnetiche presentano
caratteristiche differenti. Solo le radiazioni da lunghezza d’onda compresa nell’intervallo
tra 380nm e 760nm stimolano la retina; tale intervallo è detto campo del visibile.
Un corpo appare visibile o per emissione di radiazioni proprie o per riflessione o
trasmissione di luce irraggiata da altri corpi. L’emissione di radiazioni proprie può
avvenire per eccitazione termica o elettrica, fluorescenza, elettroluminescenza o
Fisic’Arte
27
luminescenza chimica. La maggior parte delle sorgenti di luce forniscono radiazioni anche
negli adiacenti campi dell’ultravioletto e dell’infrarosso.
4. La teoria del colore
I colori degli oggetti derivano dalle caratteristiche spettrali della
luce che incide su essi e dalle proprietà monocromatiche di
assorbimento, riflessione e trasmissione degli oggetti stessi. I
colori, dunque, non sono altro che manifestazioni energetiche di
particelle elettromagnetiche capaci di essere percepite dal nostro
occhio e decodificate dal cervello. Anche le onde radio, i raggi X,
gli infrarossi o l’ultravioletto, sono manifestazioni di onde
elettromagnetiche, ma non percepibili dai nostri occhi. Gli
oggetti su cui incide la luce riflettono, assorbono e trasmettono
le radiazioni in funzione della lunghezza d’onda. La
composizione spettrale delle radiazioni provenienti dall’oggetto
stimola in misura differente i tre tipi di coni presenti sulla
retina, producendo la
sensazione di colore. I
colori in realtà non sono
altro che lunghezze d’onda oppure vibrazioni con
maggiori o minori frequenze: vengono percepiti
dai fotoricettori centrali del nostro occhio (i coni),
trasformati in segnali bioelettrici, inviati al cervello
che si occupa di tradurli e interpretarli per
fornirceli così come noi li vediamo.
Le tre tipologie di coni presenti sulla retina hanno
una sensibilità diversa al variare della lunghezza
d’onda: la visione di un particolare colore è data
dalla combinazione dei tre stimoli, di differente
Fisic’Arte
28
intensità, provenienti dai tre recettori.
Newton osservò che un raggio di luce bianca se fatto
passare attraverso un prisma di cristallo veniva
scisso in un arcobaleno di colori. Ciò è dovuto al
fatto che energie con lunghezze d’onda o frequenze
diverse vengono rifratte in modo diverso quando
attraversano mezzi di densità diverse e quindi con
diverse propagazioni d’onda.
I colori percepibili partono dal violetto, con una
lunghezza d’onda pari a 380/450 nm, si passa al blu
(450/495nm), al verde (495/570nm), al giallo
(570/590nm) all’arancione (590/620nm), per finire al
rosso (620/750nm).
Sia il colore, sia il suono rispondono a una stessa
legge fisica, quella delle lunghezze d’onda.
L’assieme delle onde sonore quando virtuosamente
ordinato diviene musica, l’assieme delle onde
luminose diviene colore.
La classificazione dei colori si può ottenere tramite
l'utilizzo di un cerchio diviso in 12 settori chiamato
"Cerchio cromatico". Questo cerchio rappresenta la
gamma di colori ottenibili mescolando i colori primari
(giallo, rosso e blu) che per loro natura sono impossibili
da riprodurre mediante mescolanza.
Per i colori valgono le leggi di Grassmann (1809-1877):
1.
3.
Ogni colore può essere riprodotto dalla miscela di
non più di tre colori primari, scelti in modo tale che
nessuno di essi possa essere ottenuto miscelando gli
altri due.
2. La luminanza (definita come il rapporto tra
l'intensità luminosa emessa da una sorgente verso
una superficie normale alla direzione del flusso e l'area della superficie stessa) della
miscela di due colori è uguale alla somma delle luminanze dei singoli componenti.
Le combinazioni di colore godono della proprietà additiva, sottrattivi e transitiva:
se C1= C2 e C3= C4, allora si ha C1+ C3 = C2 + C4
se C1= C2 e C3= C4, allora si ha C1 - C3 = C2 - C4
se C1 = C2 e C2 = C3, allora si ha C1 = C3
4.
I componenti di una miscela di colore non possono essere distinti separatamente
dall’occhio.
I colori primari, mescolati con i colori intermedi, danno sfumature che variano a seconda
della posizione che occupano rispettivamente nello spettro. Se sono vicini, la mescolanza
ricorda l'uno e l'altro. Per esempio:
Blu + verde = blu verdastro
Blu + viola = blu violaceo
Giallo + verde= giallo verde
Giallo + arancione = giallo arancio ecc.
Se i due colori non sono vicini sul cerchio cromatico, la loro mescolanza tende al grigio.
Fisic’Arte
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Colori in maiuscolo = Primari
Colori in minuscolo = Mescolanze
Si ottiene quindi il grigio mescolando:
1) Blu e arancione
2) Giallo e viola
3) Rosso e verde
In pittura lo scopo è di ottenere la vivacità dei colori
abbinati. Sappiamo che per ottenere un viola dobbiamo
usare un blu ed un rosso. Ma quali? Per esempio, i viola ottenuti con il Blu di Prussia e il
Vermiglione risulteranno grigiastri in quanto il Blu di Prussia tende al verde che avrà
influenza negativa sul rosso. Al contrario, se abbiniamo il Blu Oltremare e la Lacca
Carminio, tutti e due a tendenza violacea, otterremo un viola abbastanza accettabile anche
se non perfetto perché i colori che lo compongono, considerati fondamentali dagli artisti,
non corrispondono esattamente ai colori primari ideali.
Queste osservazioni spiegano perché gli artisti ricorrono a più colori per soddisfare le loro
esigenze e perché, nonostante le regole che conoscono benissimo e che permetterebbero
loro di giocare con i colori complementari, preferiscono avere a loro disposizione colori
che, con combinazioni chimiche riuscite, hanno un tono molto più vivo.
Ogni colore è costituito da tre componenti: Tonalità, Luminosità, Saturazione.
La Tonalità è un colore puro, cioè con una sola lunghezza d'onda all'interno dello spettro
ottico della luce. In pittura il colore puro è senza aggiunta di pigmenti bianchi o neri.
Tonalità differenti
La Luminosità (o Valore) specifica la quantità di bianco o di nero presente nel colore
percepito.
Differenze di luminosità (con tonalità e saturazione costanti)
La Saturazione è la misura della purezza, dell'intensità di un colore.
Differenze di saturazione (con tonalità e luminosità costanti)
Alcuni sinonimi usati per identificare i tre valori base:
Tonalità: Tinta, Croma, Aromaticità
Luminosità: Valore, Chiarezza, Brillanza
Saturazione: Purezza, Pienezza, Intensità
Per identificare un colore il primo passo è individuare la tonalità sul cerchio cromatico, per
esempio rosso-viola. Il secondo passo la luminosità, ossia quanto è chiaro o scuro questo
Fisic’Arte
30
rosso-viola. Il terzo passo la saturazione, ossia quale grado di intensità è presente nel
colore, nel senso quanto è vivace od opaco. In definitiva abbiamo:
Tonalità rosso-violetto
Luminosità chiaro
Saturazione opaco
Uno schema di colore monocromatico utilizza una sola tonalità e tutti i suoi valori (le
sfumature, l'aggiunta del nero, i toni, l'aggiunta del grigio, o tinte, aggiunta del bianco) per
un effetto unitario e armonioso.
Per conferire più profondità e volume all'immagine si usano estremi opposti della tonalità
di colore.
Aggiungendo del bianco al colore di base si crea una TINTA
Aggiungendo del nero al colore base si crea un'OMBRA.
Il valore si riferisce alla luminosità e oscurità di un colore, per cui se la luce cade su una
palla verde la parte della sfera più vicina alla luce sarà più luminosa in termini di valore
perchè riflette maggiormente la luce. La parte della palla opposta alla luce avrà ombre più
profonde e quindi sarà più scura di valore.
E' possibile ottenere diversi valori di un colore miscelando le sue sfumature e tinte.
E’ anche possibile modificare il valore di un colore con l'aggiunta di nero (ombra), o
bianco (tinta), o grigio (tono).
Aggiungendo bianco a un colore questo diventa "più alto" in termini di valore (più
luminoso). Aggiungendo nero diventa "più basso" in termini di valore (più scuro).
Utilizzando valori che sono vicini tra loro si conferisce al lavoro che si esegue un aspetto
tranquillo. Utilizzando invece i valori di colori puri come pure quelli delle tinte e delle
sfumature si crea la sensazione di movimento.
Valori di contrasto vengono usati per mostrare
consistenza e come mezzo efficace per dirigere
l'attenzione dello spettatore in uno specifico
punto della composizione.
I colori neutri, nero, bianco, grigio e talvolta il
marrone, contengono parti uguali di ciascuno
dei tre colori primari. Quando colori neutri
sono aggiunti a un altro colore cambia solo il
valore, tuttavia, se si tenta di fare un colore
più scuro con l'aggiunta di un altro colore più
scuro il colore (la tonalità) cambia.
"Il bianco ed il nero hanno un loro significato, una loro motivazione e quando si cerca di
eliminarli, il risultato è un errore: la cosa più logica è di considerali come dei neutri: il
bianco come la più luminosa unione dei rossi, azzurri, gialli più chiari, e il nero, come la
più luminosa combinazione dei più scuri rossi, azzurri e gialli." Vincent Van Gogh
Fisic’Arte
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I colori caldi suggeriscono calore e sembrano muoversi verso lo
spettatore e quindi sembrano più vicini, ad esempio, rosso, arancio e
giallo rappresentano i colori del fuoco. I colori freddi suggeriscono
freddezza e sembrano allontanarsi dallo spettatore; ad esempio, blu e
verde.
In questo dipinto la donna appare al centro della scena,
mentre solleva due recipienti, sullo sfondo di un paesaggio
cittadino. L’immagine si scompone in una serie di volumi
cilindrici a tronco di cono che, suggerendo una
simultaneità di vedute diverse, si compenetrano tra loro e
realizzano un effetto di dinamismo e astrazione simile a
quello di un congegno meccanico, sottolineato anche dai
colori freddi e metallici della composizione.
Colori Primari, Secondari e Terziari: i colori
primari sono rosso, giallo e blu. I tre colori
secondari (verde, arancio e viola) sono creati
mescolando due colori primari. Altri sei
colori terziari sono creati miscelando i colori
primari e secondari.
“Dei colori di egual perfezione quello si dimostrerà di maggior eccellenza che sia veduto
in compagnia del retto contrario, ed il pallido col rosso, il nero col bianco, benché né l’uno
né l’altro sia colore: azzurro e giallo, verde e rosso, perché ogni colore si conosce meglio nel
suo contrario che nel suo simile, come l’oscuro nel chiaro, il chiaro nello scuro..”
dal trattato sulla pittura di Leonardo da Vinci
Fisic’Arte
32
Klein (1928-1962) considerava la monocromia una “finestra
aperta per la libertà, la possibilità di essere immersi
nell’incommensurabile esistenza del colore”. Il particolarissimo
blu fu ottenuto da Klein in collaborazione con un chimico al fine
di individuare un legante che assorbisse il pigmento puro senza
offuscarne l’intensità e la lucentezza.
Già dal titolo, Giallo, Rosso, Blu si intuisce come protagonista del
quadro è solo il colore, che qui viene impostato soprattutto sui
tre primari. Nelle opere di Kandinskij (1866-1944) l’armonia dei
colori corrisponde a quella dei suoni musicali, con la ricerca di
un effetto psicologico che va al di là del soggetto. Così Kandinskij
nelle sue variazioni di motivi trasforma il soggetto in una
corrispondenza armoniosa secondo ritmi soprattutto diagonali e
secondo toni originati dal blu, rosso, giallo, in diverse gradazioni
e sfumature. Dopo aver collegato ciascun
colore ad un suono, un profumo,
un’emozione precisa, l’artista afferma
che proprio grazie alle sue risonanze
interiori, a seconda della sua diversità,
ogni colore produce un effetto
particolare sull’anima. Ogni forma come
il colore, ha una precisa corrispondenza:
al cerchio associa il blu, al triangolo il
giallo, al quadrato il rosso.
I colori analoghi sono quelli che
contengono un colore comune e si
trovano uno accanto all'altro sul
cerchio cromatico, ad esempio, viola,
rosso-viola, rosso e creano un senso
di armonia, risultando piacevoli per
l’occhio; inoltre si accostano bene creando composizioni
serene e confortevoli. Di
solito si sceglie un colore
come dominante e il secondo di sostegno. Il terzo colore è
usato (insieme con il nero, bianco o grigio) come un
accento. I colori analoghi trovandosi uno accanto all'altro
sulla ruota dei colori sono strettamente correlati perché
hanno un colore in comune. Per esempio, blu, blu-verde,
verde contengono tutti blu. Rosso, arancio e giallo sono
analoghi perchè rosso e giallo creano l'arancio. I colori
adiacenti sulla ruota sono simili e tendono a fondersi
insieme.
Fisic’Arte
33
I colori complementari sono due colori uno di fronte all'altro sulla ruota dei colori, ad
esempio, blu e arancio, giallo e viola, rosso e verde. Quando una coppia
di complementari ad alta intensità sono collocati fianco a fianco,
sembrano vibrare e richiamare l'attenzione. Non tutte le combinazioni di
colori, basato su colori complementari sono forti e impegnativi, se i
colori sono di bassa intensità il contrasto non è troppo duro. L'intensità
può essere modificata solo mescolando un colore con il suo
complemento, che ha l'effetto di neutralizzare visivamente il colore.
Cambiando i valori dei colori, con l'aggiunta di bianco o nero, si otterrà un effetto di
ammorbidimento. Se si accostano due colori complementari si ottiene un effetto di
massimo contrasto rafforzando la luminosità di entrambi. Se si pone un colore luminoso al
centro del suo complementare meno luminoso, l'effetto di
contrasto risulta particolarmente evidente.
Coppie
complementari
contrastano,
perchè
non
condividono colori comuni. Per esempio, rosso e verde sono
complementari, perchè il verde è composto da blu e giallo.
Mettendo i fiori di un d'arancio brillante contro uno sfondo
luminoso blu, Vincent van Gogh (1853-1890) conferisce al
suo dipinto Vaso con fiori una grande energia visiva. Van
Gogh non lisciava i suoi colpi di pennello, così è facile
vedere come ha usato le coppie complementari. Il rosso dei
fiori contrasta con il verde delle foglie. Ha anche sprazzi di
viola che interagiscono con i gialli.
In Campi di grano con corvi van Gogh utilizza i colori ad alto
contrasto per mettere in evidenza i campi di grano gialli che
si stagliano contro il cielo blu scuro. Monet (1840-1826) in Ponte di Waterloo sceglie un
basso contrasto per dare al dipinto un aspetto più morbido. Grunewald (1480-1528), in
Resurrezione di Cristo, ci da un magistrale e potente esempio di contrasti con colori puri.
Gli Impressionisti, influenzati molto probabilmente dai progressi scientifici che si
andavano compiendo nel campo dell’ottica ed intorno ai meccanismi della visione,
sperimentarono come dissolvere il colore delle singole forme in giustapposizioni di colori
puri. Verificarono che ogni colore non esiste in sé, ma in rapporto con i toni vicini, da cui
Fisic’Arte
34
viene influenzato e che, viceversa, influenza. La luce e i suoi riflessi erano studiati nelle
situazioni più ricche di rifrazioni e di effetti luminosi.
Intorno al 1880 alcuni artisti cercarono di oltrepassare l’esperienza impressionista e
cominciarono a confrontarsi con le recenti scoperte nel campo della percezione visiva e
dell’ottica. Artefice principale della svolta fu Georges-Pierre Seurat (1859-1891). La sua
ricerca prese le mosse dalle ricerche sulle leggi ottiche della visione e dei colori
complementari pubblicate, a partire dal 1839, dal chimico Michel-Eugéne Chevreul (17861889) (Della legge dei contrasti simultanei dei colori). Tali ricerche erano già conosciute dagli
impressionisti, ma mai erano state sperimentate, prima di Seurat, con tanta coerenza ed
esattezza matematica.
Secondo Cheuvreul, se si affiancano due colori complementari (per esempio rosso e verde
o arancio e azzurro) le loro qualità cromatiche, per contrasto, si accentuano. Al contrario,
Fisic’Arte
35
se questi colori vengono mescolati tra loro tendono a smorzarsi a vicenda riducendosi ad
un tono acromatico come il grigio. Chevreul si rese conto, insomma, che due colori
accostati tra di loro tendevano a tingersi l'un l'altro del corrispettivo colore
complementare. Vide che il giallo tendeva a colorare di un blu violaceo i colori vicini: il
rosso di un verde tendente all'azzurro, il blu di un giallo aranciato. Un colore, secondo lo
scienziato, non esiste di per sé, ma solo in rapporto a quelli che gli stanno attorno.
Dall'osservazione e dallo studio di questi fenomeni Chevreul formulò la famosa legge dei
contrasti simultanei che dice che:
Due colori adiacenti, vengono percepiti dall'occhio in modo diverso
da come sono realmente (quando vengono guardati isolatamente su
uno sfondo neutro).
Chevreul realizzò un cerchio dei colori in cui erano riportate 72
sfumature di colore alla loro massima saturazione, tale strumento
avrebbe dovuto aiutare chi per mestiere si trovasse a lavorare con
i colori, come i pittori. Attraverso questo cerchio è possibile
trovare immediatamente il complementare di ogni colore
individuabile nella parte opposta del cerchio.
Nei suoi lavori, Chevreul avvisò gli artisti che non avrebbero dovuto solamente dipingere
il colore dell'oggetto rappresentato, ma avrebbero dovuto aggiungere anche altri colori,
con opportuni adattamenti per raggiungere l'armonia.
Altra importante influenza su Seurat l'ebbe Ogden Rood (1831-1902), fisico statunitense.
Mentre le teorie di Chevreul erano fondate sugli studi di Newton sulla mescolanza della
luce, quelle di Rood si basavano sugli scritti di Helmholtz, che analizzava gli effetti delle
mescolanze e delle giustapposizioni dei pigmenti. Per Rood, i colori primari erano rosso,
verde e blu-violetto: come Chevreul, sosteneva che se due colori si trovano vicini, da una
certa distanza sembrano un terzo colore. Inoltre, la giustapposizione di tinte primarie
avrebbe creato un colore più intenso e gradevole di quanto si sarebbe ottenuto mescolando
direttamente i pigmenti. Poneva anche l'attenzione sulla differenza tra colori additivi e
sottrattivi, poiché la luce e la materia colorata si mescolano in modi diversi:
Pigmenti: giallo+rosso+blu=nero
Luce: giallo+rosso+blu=bianco
Rood aveva anche dimostrato che la ricomposizione dei colori direttamente sulla retina
produce una luminosità maggiore.
Seurat, utilizzando le scoperte di Chevreul e di Rood, sperimentò una nuova tecnica
pittorica definita peinture au point (pittura a punto), da cui deriva il termine Pointillisme
(puntinismo).
Il metodo consiste nell’accostare sulla tela tanti piccoli punti di colore puro in modo da
creare a distanza la mescolanza voluta e la vibrazione stessa della luce. Anche gli
Impressionisti giustapponevano tante macchie di colore puro, ma Seurat, invece di
affidarsi all’istinto e abbandonarsi alla percezione immediata, fondava il suo metodo su
una rigorosa giustificazione scientifica con l’obiettivo di rappresentare secondo ragione.
Un bagno ad Asniéres segna profondamente il nuovo corso della pittura; nonostante Seurat
avesse scelto un soggetto particolarmente caro agli Impressionisti, ottenne mediante la
pennellata con il nuovo metodo e una composizione molto calcolata, risultati ben diversi.
Fisic’Arte
36
Questa tela rappresenta il quadro-manifesto del Pointillisme. Seurat non lasciò nulla al
caso: l’impianto compositivo è costruito secondo una griglia di verticali e orizzontali, con
una precisione quasi architettonica. La tela, infatti, risulta tagliata perfettamente a metà
dalla donna con il parasole rosso e le figure, immobili e fissate nelle loro diverse attitudini,
sono ridotte a forme geometriche, modulate sul cilindro e sul cono. La prospettiva
tradizionale è abbandonata, e alcune incongruenze rivelano come Seurat abbia combinato
diversi punti di vista in una stessa immagine. Gli intervalli armonici calcolati
matematicamente che separano una figura dall’altra, e le proporzioni studiata per ogni
oggetto rappresentato, generano un effetto di calma e di ordine, suggerendo nel contempo
Fisic’Arte
37
anche un’atmosfera di irreale sospensione, di un tempo immutabile. In questa tela la teoria
dei contrasti simultanei è applicata con estremo rigore scientifico.
Alla morte prematura di Seurat, il compito
di proseguire e divulgare le sue ricerche e il
suo messaggio pittorico toccò a Paul Signac
(1863-1935).
Signac
sostituisce
l’osservazione empirica delle leggi del
contrasto con il metodo scientifico,
approfondendo nel contempo gli studi sulle
teorie del colore e della visione. Rispetto
all’amico, Signac sviluppa i punti in più
larghe e diradate macchie cromatiche, simili
a tessere, creando così un effetto
complessivo paragonabile a un mosaico: “Il
Neoimpressionismo
divide”.
non
punteggia,
ma
Robert Delaunay (1885-1941) era affascinato dal modo
in cui l’interazione dei colori crea una sensazione di
profondità e movimento, senza riferimenti al mondo
naturale. In Contrasti simultanei il movimento è il ritmo
del cosmo, perché la cornice circolare del dipinto
rappresenta l’universo, e il flusso di rossi e aranciati,
verdi e blu, si armonizza con il sole e la luna, con
l’alternanza del giorno e della notte. Ma la stella e il
satellite terrestre, rifratti dalla luce, esistono senza
essere descritti in alcun modo letterale: “La frattura
della forma a opera della luce crea piani colorati. Tali
piani colorati sono la struttura del quadro e la natura
non è più soggetto di descrizioni, ma pretesto”. In
sostanza Delaunay abbandona le immagini o la natura
perché corrompevano l’ordine del colore. Il titolo
dell’opera è preso dal trattato di Chevreul Sulla legge del contrasto simultaneo dei colori,
precedentemente analizzato.
L’intensità di un colore è rappresentata dalla sua luminosità o
debolezza. Una tinta pura è un colore ad alta intensità. Una
tonalità debole, tipica di un colore miscelato con il suo
complemento, è a bassa intensità.
Fisic’Arte
38
Una triade di colore si compone di tre
colori separati da una distanza uguale
sul cerchio cromatico (per esempio
rosso, giallo, blu). Il contrasto tra questi
non è forte come quello tra i
complementari.
I colori intermedi sono quei colori creati
mescolando un primario e un secondario: rossoarancio, giallo-arancio, giallo-verde, blu-verde,
blu-viola, e rosso-porpora.
Split complementari è la combinazione
di una tonalità più i due colori ai lati del
suo complemento. E’ più facile da
utilizzare
rispetto
allo
schema
complementare, offre più varietà; ad
esempio, rosso-arancio, blu e verde.
Questa combinazione di colori ha lo stesso forte contrasto
visivo dei colori complementari, ma ha meno tensione.
Complementari doppi sono due colori (tonalità) adiacenti e i loro
opposti. Utilizza quattro colori disposti in due coppie di colori
complementari. Questo schema e’ difficile da armonizzare, se tutti e
quattro i colori sono usati in quantità uguali, il sistema può sembrare
sbilanciato, quindi è consigliabile scegliere un colore dominante.
Fisic’Arte
39
Combinazione di colori a rettangolo utilizza quattro colori organizzati
in due coppie di complementari. Questa soluzione, ricca di colore, offre
numerose variazioni. Lo schema funziona al meglio se si lascia che un
colore sia dominante. Si deve anche prestare attenzione per l'equilibrio
tra i colori caldi e freddi.
Schema quadrato è simile al rettangolo, ma con tutti e quattro i colori
spaziati in modo uniforme intorno al cerchio di colore. Anche questo
schema funziona meglio se si lascia che un colore sia dominante. Pure in
questo caso si deve prestare attenzione all'equilibrio tra i colori caldi e
freddi.
Le composizioni dei colori possono dare vita a vari effetti.
Effetti spaziali - I colori che sono più leggeri al massimo della saturazione (giallo, arancio)
sembrano più grandi di quelli che sono più scuri a
saturazione massima (ad esempio, blu e porpora).
Quando un colore si espande visivamente, può anche
sembrare più vicino. Generalmente i colori più caldi
appaiono più vicini mentre i colori freddi sembrano
più lontani. Gli artisti possono portare qualsiasi
colore avanti o spingerlo indietro, utilizzando alcuni
trucchi spaziali. In aggiunta, una forma di grandi
dimensioni sembra essere più pesante di una piccola
forma. Diverse forme di piccole dimensioni possono
equilibrarne una grande. Un oggetto con un contorno
complicato è più interessante e sembra essere più
pesante di uno con un contorno semplice. Un oggetto
piccolo e complesso è in grado di bilanciare un
grande oggetto semplice.
Durante il Rinascimento, gli artisti hanno utilizzato la
prospettiva atmosferica per creare profondità nei loro
paesaggi. I paesaggi solitamente erano dipinti come
sfondi per ritrarre soggetti religiosi, piuttosto che per se
stessi. Molti attribuiscono a Leonardo (1452-1519)
l'invenzione della prospettiva atmosferica o aerea. In base
a molte osservazioni e alle sue ricerche pittoriche,
Leonardo sosteneva che si può cogliere la distanza tra le
cose grazie alla massa d’aria che si frappone tra esse e il
nostro occhio, e portava come esempio le montagne in
lontananza, che alla vista appaiono azzurre, quasi
avessero il colore dell’aria che sta loro davanti. Se sopra di
noi e nelle vicinanze il cielo appare limpido, per i pochi
strati di aria che il nostro sguardo deve attraversare, nelle
zone più remote del paesaggio il cielo sembra invece
bianco a causa del maggiore spessore dei vapori
atmosferici. Pertanto, secondo Leonardo, occorreva
Fisic’Arte
40
integrare la prospettiva lineare con quella aerea schiarendo i colori e sfumando i contorni
degli oggetti più lontani, in modo da riprodurre l’effetto della foschia che satura lo spazio
fra le cose. A tale fine egli utilizzava la tecnica pittorica dello sfumato, che attraverso a una
serie di velature rende indefiniti i contorni e sbiadisce i colori. I paesaggi di Leonardo
erano vere e proprie riflessioni filosofico-scientifiche sul ciclo delle acque e sulla
trasformazione degli elementi: si trattava di costruzioni intellettuali. Tuttavia, altri artisti
in precedenza, come gli antichi romani e anche i cinesi hanno dimostrato di conoscere i
cambiamenti di colore e il loro valore per creare l'effetto di lontananza.
Equilibrio e proporzione - Si usano colori altamente saturi o ad alta intensità (un colore
puro senza altri colori miscelati) o zone molto dettagliate per attirare l'attenzione, e quindi
dare l'impressione di portare un peso maggiore rispetto a zone meno sature, a bassa
intensità o visivamente più semplici.
Equilibrio di quantita' - Secondo Goethe, colori diversi sono in equilibrio quando coprono
aree diverse. Il giallo, per esempio, è espansivo e quindi sembra che occupi più spazio.
Questa illusione ottica porta ad assegnare al colore complementare,
il viola, un’area proporzionalmente maggiore per avere l'equilibrio.
Infatti basta una piccola quantità di giallo per dare luce ad una
composizione.
L’Enfasi è la zona in un'opera d'arte che attira per prima l'attenzione
degli spettatori. L'elemento notato subito si chiama dominante; gli
elementi notati in seguito sono chiamati subordinati. L'Enfasi è uno
dei principi dell'arte. Nel dipinto, La Lettera, Cassatt ha enfatizzato la
busta dipingendola di bianco contro il blu del tavolo e del vestito.
Ha anche messo la busta al centro del dipinto per indirizzare
l'occhio verso di essa.
Il Punto focale (o centro di interesse) è il punto
dove l'artista vuole indirizzare, al primo
impatto,
l'occhio
dello
spettatore.
Per
concentrare l’attenzione sul punto focale gli
artisti utilizzano vari elementi. Nel suo quadro,
Estate, Rousseau (1844-1910) attira l'occhio con
colori complementari, brillanti, saturi. Il cavallo
e lo scialle
della donna
risaltano per
il contrasto del bianco, sullo sfondo scuro. È comune
anche posizionare il punto focale nel centro. In questo
caso, il punto focale è incorniciato dalle linee dei rami
degli alberi.
L'unità, uno dei principi dell'arte, permette allo
spettatore di vedere una combinazione di elementi nel
suo complesso. L'unità è creata da armonia, semplicità,
Fisic’Arte
41
ripetizione, vicinanza e continuazione. Per esempio, è possibile utilizzare la ripetizione di
uno schema di colori per unificare una composizione. Un altro modo per unificare una
composizione è quello di semplificare la combinazione di colori, consentendo a un colore
di dominare il lavoro. La tonalità non deve essere monocromatica, anche se l'effetto
complessivo risulta come quello di un solo colore.
La Varietà è un altro dei principi dell'arte. Si
verifica quando un artista crea qualcosa che
sembra diverso dal resto dell'opera. Un artista
può utilizzare la varietà per risaltare una certa
parte o semplicemente per rendere l'opera d'arte
più interessante. Cropsey (1823-1900) ha dipinto
un grande albero per creare varietà nel suo
paesaggio.
Movimento - Il colore può creare un senso di movimento. Quando i valori di un colore
saltano rapidamente da molto alto a molto basso, si crea una sensazione di eccitazione e di
movimento. Quando
tutti i valori sono
vicini tra loro il
lavoro sembra molto
più calmo. Quando si
desidera creare il
movimento con il
colore
bisogna
utilizzare i valori di
colori puri come
pure quelli di tinte e
sfumature.
Il movimento crea l'illusione di azione e del cambiamento fisico in posizione. Nell’opera di
Carrà (1881-1966), I cavalieri dell’apocalisse, la morte, di colore rosso drappeggiata, cavalca
tumultuosa in un’atmosfera carica di movimento innescato dal verticismo del colore.
Anche l'uso di elementi ripetuti crea
l'illusione del movimento. Il ritmo visivo
è percepito attraverso gli occhi ed è creato
da ripetuti spazi positivi separati da spazi
negativi. In Okazaki, Hiroshige (17971858) crea un ritmo che porta gli occhi
attraverso il paesaggio.
Fisic’Arte
42
Capitolo 3
OTTICA,#ILLUSIONE#OTTICA##
E#ONIRICA#
1. Introduzione
Le illusioni ottiche, sono alterazioni della percezione visiva, devianze dal modo corrente in
cui i nostri occhi interpretano le immagini della realtà fisica e sensoriale, causate da
fenomeni a cui la nostra mente non riesce a dare un'interpretazione logica e tali da mettere
in crisi la relazione tra l'occhio che raccoglie l'informazione visiva ed il cervello che la
elabora basandosi sulle precedenti esperienze.
Tenendo presente che l'esperienza visiva ha carattere strettamente individuale sia sul
piano fisico che su quello interpretativo è scontato che ciò che vediamo non è una realtà
unica ed assoluta, ma la nostra personale percezione ed interpretazione della realtà:
affermazione che si complica ulteriormente se parliamo d'arte visiva, perchè in questo caso
siamo davanti alla valutazione di un'opera che esprime una prima elaborazione della
realtà, quella compiuta dall'artista, e che richiede, per essere compresa, una seconda
elaborazione da parte dell’osservatore.
Da sempre l'arte figurativa cerca di esprimere la realtà utilizzando mezzi tecnici limitati, in
rapporto alla complessità dell'oggetto da rappresentare, integrando ed intervenendo con
mezzi immaginativi, in teoria illimitati, e con la creatività, grande risorsa della specie
umana, dando vita talvolta a risultati paradossali: ciò accade quando i sensi percepiscono
come possibili, logici, verosimili e quindi reali oggetti in realtà inesistenti, impossibili e
quindi illusori.
Si tratta di inganni ottici, inganni dei sensi, dai quali discendono rappresentazioni di
impeccabile logica visiva, che sembrano generate da premesse vere, e che portano a
risultati contradditori, come nelle opere di Escher.
E' la riprova di come le percezioni sensoriali ricevute, in contrasto con le leggi fisiche della
costruzione tridimensionale, non possano essere corrette dall'intelletto, dato che si basano
su moduli cerebrali che agiscono in modo indipendente l'uno dall'altro, quindi non
relazionabili e di come la geometria e le sue regole applicate al disegno ci permettano di
rappresentare quello che vediamo in modo tale che il cervello lo ritenga simile alla realtà.
Talvolta questo metodo consente anche di ingannare il cervello a cui l'occhio comunica
percezioni falsate e di rappresentare oggetti o spazi in false prospettive, rendendo
possibile la rappresentazione dell'impossibile, ma in definitiva gli occhi non sempre ne
hanno colpa: è il cervello che imbroglia se stesso, abituato com’è a interpretare tutto ciò
che vede e quando deve scegliere tra i suoi preconcetti, peraltro in gran parte suffragati
dall'esperienza, e la realtà, preferisce salvare i primi e scartare la realtà.
Fisic’Arte
43
E' proprio nella sostanziale indeterminazione della visione, della percezione e della
ricostruzione della realtà che prende vita l'affascinante mondo dell'inganno dei sensi,
dell'illusione ottica, del paradosso visivo al quale tante volte l'arte si è ispirata, e per
realizzare tale inganno degli occhi gli artisti, nel corso della lunga storia della creatività,
hanno utilizzato varie tecniche, tra cui il trompe l’oeil, l’applicazione dei principi
dell’ottica e della stereoscopia, l’olografia e le tecniche digitali. A questi paradossi dei
sensi, però, vogliamo aggiungere un’altra illusione, quella onirica, rappresentata molto
bene da Magritte attraverso la rappresentazione di oggetti e realtà assurde che si
comportano contro ogni legge fisica.
2. La prospettiva tra realtà, illusione ottica, onirica e paradosso visivo
Per secoli la ricerca pittorica si è identificata nel tentativo di restituire la realtà nel modo
più fedele possibile, ricerca che spesso si è diretta verso l’illusione, la simulazione e
l’inganno arrivando anche a mirabili risultati come nei fantastici illusionismi trompe l’oeil.
Il trompe l'œil, dal francese tromper, ingannare, e l'oeil, occhio, è una tecnica pittorica
naturalistica, basata sull'uso del chiaroscuro e della prospettiva, che riproduce la realtà in
modo tale da sembrare agli occhi dello spettatore illusione del reale. Essa crea
un'ambiguità tra il piano pittorico e quello dell'osservatore, facendo risultare
tridimensionale ciò che in realtà è bidimensionale; in questo modo infatti l'osservatore
percepisce illusoriamente una realtà inesistente, creata artificialmente attraverso mezzi
pittorici. Si basa sostanzialmente sulla creazione di una sorta di scenografia volta ad
inglobare in maniera oculata elementi funzionali per arrivare poi a fondersi con
l'architettura e nel contempo a superarne i limiti. La perfetta simulazione del mondo fisico
dà vita ad un sottile gioco di rimandi tra realtà ed illusione percettiva nella quale l'uomo si
perde e perde a sua volta le limitazioni imposte dal mondo fenomenologico. Dal punto di
vista tecnico, il trompe l'oeil richiede un'assoluta conoscenza del disegno, delle regole
prospettiche, dell'uso delle ombre e degli effetti di luce, oltre alla perfetta padronanza
dell'uso del colore e delle sfumature, tecniche ben precise e severamente sottoposte a
regole matematiche e geometriche che permettono la realizzazione di rappresentazioni
creative quali appunto quelle basate sulla tecnica del trompe l'oeil. Il punto di vista
dell'osservatore rispetto al dipinto è, come già accennato, fondamentale. Pertanto, subito
dopo avere scelto l'area su cui operare l'intervento, è necessario individuare i punti di vista
privilegiati, ossia i punti di vista da cui generalmente si osserva quell'area. Per esempio, se
si decide di collocare il dipinto sulla parete di una stanza che sta di fronte alla porta di
ingresso, si costruirà l'opera pittorica in modo da ingannare la percezione visiva di colui
che entra nella stanza. Se l'artista desidera creare un'illusione prospettica, dovrà inoltre
collocare il punto di fuga dell'immagine pittorica in corrispondenza del punto di vista
dell'osservatore. L'illusione ottica è particolarmente efficace se l'osservatore si pone al
centro della stanza, in corrispondenza del punto di fuga. È fondamentale, per raggiungere
il massimo dell'illusorietà pittorica, tener conto delle reali sorgenti luminose dell'ambiente,
la loro natura e la loro direzione, in modo che il soggetto rappresentato appaia come
illuminato da quelle luci. Durante la fase progettuale del trompe l'oeil l'artista deve quindi
scegliere accuratamente la collocazione del suo intervento pittorico in relazione ai possibili
punti di vista dell'osservatore. Da queste considerazioni si capisce che l’artista opera come
una sorta di scienziato nell’applicazione del metodo scientifico per la perfetta riuscita del
proprio esperimento.
Fisic’Arte
44
L'origine della tecnica del trompe d'oeil risale alle antiche pitture
murali, nate con i primi insediamenti umani. Miti, battaglie e
vicende della vita quotidiana come la caccia, le cerimonie
religiose ecc. venivano immortalati sulle pareti delle caverne,
nelle tombe, negli edifici di culto e nei palazzi. Le pareti tombali
dell'antico Egitto infatti ci tramandano figure stilizzate e un
ricchissimo repertorio naturalistico di dipinti eseguiti con
campiture piatte di colori puri. Gli artisti egizi o minoici, con
pitture raffiguranti giardini, coprivano le pareti dei templi, delle
tombe o dei palazzi e non immaginavano che le forme da loro
create si sostituissero a veri e propri giardini. Artisticamente
prospere furono anche le civiltà mediterranee, come quella greca
e cretese, le quali probabilmente influenzarono l'arte pittorica
etrusca e poi quella romana da un punto di vista religioso ma
soprattutto naturalistico e decorativo. A queste inoltre risalgono
i primi “sfondati
illusionistici” della storia e temi decorativi
che sono entrati sistematicamente nel
repertorio decorativo di oggi. Durante
l'epoca ellenistica, nel mondo greco ed
ellenizzato si assiste ad una diffusione
senza
precedenti
dell'illusionismo
nell'architettura e nella decorazione.
Per esempio, le colonne esterne del tempio
greco venivano leggermente inclinate
all’interno perché se fossero state parallele
alle altre sarebbero sembrate divergenti,
mentre per evitare l’effetto ottico di caduta in avanti della costruzione, la trabeazione
veniva variamente inclinata all’indietro secondo l’altezza delle
colonne e le colonne poste in piena luce, che sarebbero parse
più sottili di quelle in ombra, venivano costruite un poco più
massicce di quelle oste nelle zone più buie in modo che tutte
apparissero della stessa dimensione. Probabilmente anche
l’uso dei colori, applicati con stucco policromo per rivestire le
superfici del tempio, svolgeva
una funzione di correzione
ottica, smorzando gli effetti
della
luce
naturale
che
avrebbero potuto alterare il
perfetto
equilibrio
così
faticosamente raggiunto.
Nell'ultimo quarto del IV secolo a.C. e all'inizio del secolo
successivo si sviluppa un'architettura "di facciata" che tende
ad esaltare e contemporaneamente a dissimulare l'edificio
sottostante. Alcuni monumenti presentano già due elementi caratteristici della
decorazione illusionistica, sia che si tratti di una decorazione prevalentemente
Fisic’Arte
45
architettonica o, più tardi, esclusivamente
pittorica: la dilatazione dello spazio suggerita
dalla sovrapposizione dei piani e il motivo di
una finta galleria. Lo sviluppo di una
decorazione monumentale fondata su effetti
illusionistici è certamente da mettere in
relazione con l'emergere di un modello di vita
aristocratico e regale.
In obscurum coni conduxit acumen (ovvero
l’infinito in un punto) è un verso di Lucrezio
(I sec. a.C.) che nel suo De rerum natura
descrive la visione di un portico che si estende
davanti a noi in profondità e che “congiunge
tetto e suolo, tutto ciò che sta a destra e a sinistra, fino a terminare nella punta oscura di un cono”.
Questa punta oscura dove gli oggetti infinitamente lontani si confondono gli uni agli altri
e paiono raggrupparsi in un unico punto, questa illusione della visione che il pittore
concretizza disegnando un punto, un punto di fuga, fa parte della grande eredità che ci
proviene dal mondo classico; infatti i versi di Lucrezio riecheggiano teoremi più antichi di
almeno due secoli, come possiamo leggere nell’Ottica di Euclide:
1. Tra i piani che giacciono sotto l’occhio quelli più lontani appaiono più in alto.
2. Tra i piani che stanno sopra l’occhio quelli più lontani appaiono più in basso.
3. Tra i piani che si estendono longitudinalmente, quelli a destra sembrano deviare verso
sinistra, quelli a sinistra verso destra.
L’esempio della Stanza delle maschere non lascia dubbi sull’uso del punto di fuga come
unico punto di convergenza delle rette di profondità. Vi sono
infatti decine e decine di segmenti anche molto lontani tra
loro (l’affresco è lungo circa 5 metri) che, se prolungati,
convergono ad un unico punto. Si pensa che l’affresco sia
stato realizzato proprio piantando un chiodo nel punto di
fuga e tirando con lo spago i vari segmenti. Ma se questo è
vero, si dovrebbe ancora trovare una traccia sul muro: una
stuccatura nel punto esatto dove convergono tutte le linee;
però, in mancanza di una radiografia del muro, non è
possibile dare, al momento, una prova certa e definitiva della
presenza del chiodo. Tuttavia, analizzando da vicino
l’affresco, si è trovato un’altra prova molto significativa. Di
alcuni segmenti è rimasta la traccia di un breve
prolungamento, cosa che non avrebbe senso fare se non si
sapesse a priori che i prolungamenti debbono tutti
convergere al chiodo. Una tale operazione non può che essere
frutto di una costruzione geometrica rigorosa, le cui
fondamenta si ritrovano nell’Ottica di Euclide ed erano forse
note anche prima.
Dopo secoli di barbarie, guerre, devastazioni che avevano fatto terra bruciata di gran parte
del sapere scientifico antico, gli scienziati arabi, ai quali dobbiamo il parziale recupero
delle conoscenze greche, sviluppano nel IX, X e XI secolo l’Ottica antica, ed in particolare
Fisic’Arte
46
Alhazen, nella sua opera Ottica, prenderà in esame una serie di aspetti importanti della
teoria della visione di Euclide. Riconosce il ruolo della luce nel fenomeno della visione e
quello del cervello nella ricostruzione psichica delle
immagini. C’è anche da dire che poco era l’interesse del
mondo arabo per la pittura figurativa, legato anche alla
proibizione di raffigurare Dio, e non ci stupisce quindi che
questo settore non sia stato da loro preso in considerazione.
Nel Medioevo, decadendo la definizione della spazialità, si
annulla anche l’interesse per tutte le forme di riproduzione
della realtà. Tracce della volontà di intervenire sullo spazio
architettonico mediante degli artifici pittorici si rivedono
nel Trecento e l'Italia diventa il maggior centro per questa
forma d'arte e molti furono gli artisti che nel corso dei secoli
utilizzarono questo tipo di tecnica pittorica. Giotto (12671337), nel '300, la impiegò nella Cappella degli Scrovegni di
Padova dove si trovano, infatti, delle lastre dipinte con
effetto marmo che alterano il costruito reale. Giotto
conosceva anche le più avanzate teorie della visione, infatti,
all'estremità di un tralcio all'antica vediamo due clipei, due
tondi con figure: alla destra un uomo con bastone nodoso sulla spalla, corpetto di pelliccia,
braccia nude; dal lato opposto una figura femminile vista di fronte che indica l'uomo con
tre dita della mano destra. Essa reca in capo una corona e dagli occhi le escono due nodosi
bastoni. L’interpretazione di questo particolare, secondo gli ultimi studi, è da ricercare
nelle teorie della visione dell'antichità. I raggi partono dagli oggetti, suggerisce Platone nel
Timeo; Euclide pensa a raggi visivi che si propagano dall'occhio alle cose e sondano gli
oggetti, Alessandro di Afrodisia ritiene la vista un duplice cono e i raggi visivi come
bastoni che sondano lo spazio. Questa spiegazione viene ripresa da Avicenna, mentre
Alhazen teorizza che i raggi vanno dalle cose all'occhio. Dunque i due bastoni aperti a 180°
negli occhi della figura femminile sono i raggi visivi. Il senso dei due clipei fa
comprendere l'ammaestramento che gli affreschi dell' intera cappella intendono offrire:
prima della conoscenza del messaggio di Cristo l'umanità era selvaggia e cieca come
l'uomo alla destra, adesso è la luce della conoscenza, i bastoni cioè i raggi del vedere
spirituale che fanno comprendere il vero.
È forse nel cantiere della Basilica superiore di San Francesco ad Assisi, dove Cimabue e
Giotto lavorano insieme, che nascono le prime sperimentazioni della visione nell’arte.
Nella raffigurazione della Madonna sul trono, immagine molto diffusa nel Medio Evo, per
dare il senso della profondità, il trono veniva solitamente rappresentato secondo una
visione insieme frontale e obliqua, mostrando il lato laterale con parallelogrammi.
Cimabue (1240-1302), per primo, rompe questa consuetudine e introduce un asse di
simmetria centrale che dà all’insieme una maggiore compostezza e regolarità.
L’introduzione di questa simmetria porta come conseguenza che i segmenti che si
corrispondono nella simmetria, se prolungati, andranno (per ovvie ragioni geometriche)
ad incontrarsi sull’asse di simmetria. È su questo schema che Giotto imposta le sue prime
sperimentazioni. È chiaro che l’attenzione del pittore è tutta rivolta solo ai soffitti,
elemento decorativo scelto per dare l’idea della profondità dell’ambiente senza
armonizzare questo coi pavimenti. È chiaro anche come in Giotto manchi l’idea unificante
che tutte le linee di profondità convergano a uno stesso punto di fuga dove si congiunge
Fisic’Arte
47
tetto a suolo. Il pittore non dispone di uno schema geometrico globale ma riesce solo ad
applicare localmente, per parti parziali del dipinto, l’apparente convergenza delle linee
parallele, come si vede ad esempio nel suo affresco Pentecoste, dove ogni volta ha il suo
punto di fuga .
Fu però durante il Rinascimento che la pittura architettonica illusionista trovò la sua
massima diffusione. In questo periodo storico, infatti, attraverso il recupero dell’impianto
euclideo basato sui raggi visivi e sul cono visivo che ha come vertice l’occhio e come base i
contorni della cosa vista, vennero teorizzate e codificate le prime regole della prospettiva
ad opera di grandi maestri quali Masaccio, Brunelleschi e Leon Battista Alberti. Ogni
figura si proietta a partire dall’occhio, con delle rette (i raggi visivi) su un piano. Il
problema diventa, così, un problema puramente geometrico. Il trompe l'oeil venne condotto
a livelli di estremo realismo e grande raffinatezza, applicato anche alle strutture
architettoniche, deformate ed amplificate otticamente con la costruzione di falsi "sfondati"
prospettici.
Mantegna (1431–1406) utilizzò la prospettiva in
modo illusionistico nella Camera degli Sposi del
Palazzo Ducale di Mantova in cui il soffitto
presenta un’apertura circolare dipinta, dalla quale
si affacciano alcune figure che sembrano spiare
all’interno della stanza. L’affresco riesce a
ingannare chi si trova nell’ambiente, poiché il
soffitto appare realmente sfondato, cioè aperto
verso il cielo. Grazie a questo effetto illusionistico,
l’opera divenne un punto di riferimento per
numerosi artisti del XV e XVI secolo.
Altro tipico esempio di illusione ottica è
rappresentato dal dipinto Lo sposalizio della Vergine
di Raffaello (1483-1520). Sullo sfondo è presente
un tempio rinascimentale a pianta centrale
contornato da un immenso cortile che delimita il paesaggio profondissimo, infatti il
tempio non è soltanto un fondale, ma un tramite con il paesaggio, dove i colli lievemente
Fisic’Arte
48
abbozzati rievocano una prospettiva infinita. In primo
piano avviene l'episodio evangelico. In questo spazio
unitario, dove l’osservatore viene letteralmente
risucchiato in un unitario globo spaziale, Raffaello ha
saputo compendiare tutti gli aspetti della natura e
dell'opera dell'uomo con un discorso sacro coniugato in
termini d'immersione nel reale. Un'immersione, però, che
avviene in una realtà che viene sottoposta dall'autore ad
una sorta di operazione di purificazione all'interno di una
struttura ispirata al motivo del cerchio, la figura
geometrica perfetta per antonomasia e simbolo
dell'armonia cosmica. Come simbolo di quell'armonia è il
tempietto rappresentato sullo sfondo del dipinto
Nell’opera di Antonello da Messina (1429/30-1479) lo
spettatore osserva la
composizione come se
fosse affacciato ad una
porta gotica, secondo un abile illusionismo che
suggerisce la continuità dello spazio ai lati. San
Gerolamo è seduto nel suo studiolo ligneo inserito entro
un ambiente basilicale con elementi gotici (la volta a
crociera e le bifore) e rinascimentali (le finestre
rettangolari e il luminoso loggiato a destra).
La luce è resa con grande realismo e si offre all'occhio
nelle sue molteplici manifestazioni, dai riflessi metallici
del catino agli effetti di controluce nel leone o di
morbidezza pulviscolare sul pavimento a sinistra,
diventando uno strumento espressivo che crea
un'atmosfera raccolta e silenziosa. Questo microcosmo è
inserito entro una sapiente costruzione spaziale, la cui
prospettiva è resa nello scorcio delle architetture e nel
disegno delle maioliche del pavimento ed evidenziata dai raggi di luce. Solo la figura del
santo sfugge alla prospettiva, in quanto evidenziata da un punto di vista ribassato e
dall'illuminazione diretta.
Nel campo delle tarsie lignee si ottennero effetti ottici molto
audaci. Le tarsie venivano realizzate accostando l’una all’altra
varietà di legno dal diverso colore, dopo averle ridotte in lamine
e opportunamente sagomate. Oggetti, mensole e ante aperte sono
riprodotte in modo illusionistico.
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Giuseppe Arcimboldo (1527-1593) utilizzò le
illusioni ottiche per i suoi ritratti, ottenuti attraverso
l’utilizzo delle nature morte, di fiori, frutti, animali e
altri oggetti, in maniera del tutto diversa da quanto
in uso nell’arte pittorica del suo tempo. Egli, infatti
non colloca un fiore in un vaso all’interno di un
tradizionale ambiente domestico, ma si avvale di
ogni oggetto per comporre soggetti umani e, in
particolare, le sue famose “teste composte”.
L'utilizzo di questa straordinaria quanto innovativa
tecnica di pittura ripiega sulla facoltà della mente
umana di elaborare le immagini che arrivano
attraverso l'occhio, facendo così apparire un insieme
di nature morte in un volto. Un principio si può dire
analogo è utilizzato in psicologia nel Test di
Rorschach ("test delle macchie"), in quanto, dopo
aver mostrato macchie di inchiostro del tutto casuali,
si avvale delle capacità elaborative dei singoli
individui per tracciarne il profilo psicologico.
Interessante e particolare è l’opera di Giulio
Romano (1499–1546) a Mantova nel Palazzo Tè: in
un corpo principale a pianta quadrata sono
realizzate molte stanze riccamente decorate, in una
di queste, la Sala dei Giganti, la scena della caduta dei
colossi, che per superbia avevano osato innalzarsi
fino al cielo, copre interamente l’ambiente, senza
soluzioni di continuità, così da immergere
l’osservatore in una specie di sogno, o incubo,
dell’immagine della “caduta”.
Nella Villa Barbaro a Maser, costruita su progetto di Andrea
Palladio, Paolo Veronese (1528-1588) decora tutti gli ambienti
principali giocando sui rapporti tra le strutture
architettoniche reali e gli effetti illusionistici della pittura,
portici trompe l’oeil incorniciano paesaggi fantastici, si fingono
figure che hanno l’apparenza di statue, si aprono finte porte
sull’esterno dalle quali si affacciano improvvisamente
personaggi irreali.
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50
Leonardo (1452-1519) impiegò scientificamente la prospettiva
nelle sue opere e introdusse importanti intuizioni su di essa a
livello cromatico. In base a molte osservazioni e alle sue
ricerche pittoriche, Leonardo sosteneva che si può cogliere la
distanza tra le cose grazie alla massa d’aria che si frappone
tra esse e il nostro occhio, e portava come esempio le
montagne in lontananza, che alla vista appaiono azzurre,
quasi avessero il colore dell’aria che sta loro davanti. Se sopra
di noi e nelle vicinanze il cielo appare limpido, per i pochi
strati di aria che il nostro sguardo deve attraversare, nelle
zone più remote del paesaggio il cielo sembra invece bianco a
causa del maggiore spessore dei vapori atmosferici. Pertanto,
secondo Leonardo, occorreva integrare la prospettiva lineare
con quella aerea schiarendo i colori e sfumando i contorni
degli oggetti più lontani, in modo da riprodurre l’effetto della
foschia che satura lo spazio fra le cose. A tale fine egli
utilizzava la tecnica pittorica dello sfumato, che attraverso a una serie di velature rende
indefiniti i contorni e sbiadisce i colori. Nel Trattato della pittura dello stesso Leonardo si
dice che “la pittura è composizione di luci e di tenebre insieme mista con le diverse
qualità di tutti i suoi colori semplici e composti". Un’equipe di ricercatori canadesi del
National Research Council del Canada ha studiato le immagini dell'impareggiabile
sfumato, ed è riuscito a provare che la tecnica si basava su una sovrapposizione dei colori,
attraverso cui Leonardo dava profondità all'immagine.
Nel periodo barocco (XVII e inizio XVIII sec.) la pittura illusionistica ebbe un notevole
sviluppo e cercava di rappresentare sui soffitti di chiese e palazzi uno spazio illusorio,
infinito. Nelle volte affrescate delle chiese venivano generalmente raffigurati santi nell’atto
di salire miracolosamente in cielo. Nella realizzazione dell’Apoteosi di sant’Ignazio Andrea
Pozzo (1642-1709) è riuscito a nascondere il confine tra l’architettura reale e quella dipinta
rendendo così credibile la grandiosa visione raffigurata nell’affresco.
L’artista ha inoltre creato una continuità tra l’architettura dipinta e lo spazio aperto del
cielo. La prospettiva è qui utilizzata per rappresentare non lo spazio reale, ma uno spazio
immaginario. Gli elementi architettonici (colonne, archi e cornici), le figure umane, le
nuvole sono dipinti in scorcio prospettico al fine di sfondare in modo illusorio il limite
dell’architettura reale, creando uno spazio senza fine. Le dimensioni dei vari elementi si
riducono a mano a mano che ci si avvicina al centro dell’affresco, per sottolinearne la
lontananza sempre maggiore. Chi osserva il soffitto si sente attirato nello spazio divino in
cui si manifesta il miracolo.
La luce diventa più intensa nella parte centrale della composizione, quella che raffigura la
zona più lontana, con lo scopo di conferire alla scena un carattere eccezionale, miracoloso.
Le aree dell’affresco più vicine all’osservatore sono caratterizzate da un chiaroscuro
deciso, mentre quelle più distanti sono dominate da un’intensa luminosità, che annulla le
ombre e rappresenta simbolicamente il mondo ultraterreno. Il dipinto suggerisce un forte
senso di dinamismo, perché lo sguardo di chi l’osserva è guidato verso il centro dalle linee
oblique della prospettiva e dalla grande spirale determinata dai gruppi di figure
all’interno della composizione. L’osservatore ha così l’impressione di lasciare lo spazio
terreno. Sul pavimento della chiesa, un disco indica il punto esatto in cui l’illusione ottica
creata dalla prospettiva è perfetta.
Fisic’Arte
51
Anche la cornice, nella forma e nella funzione, rientra in gioco e in pochi decenni subisce
profonde trasformazioni; osservando le decorazioni a stucchi e affreschi di chiese e palazzi
fra il Cinquecento e il Seicento, si nota come questa cominci a travalicare il concetto di
limite, di separazione e tenda invece ad amalgamarsi e a diventare parte dell’immagine
pur mantenendo il ruolo di dare risalto alla rappresentazione. Questa trasformazione, che
nasce dall’idea dell’oculo aperto della Camera degli Sposi di Mantegna, si sviluppa in vere e
proprie macchine scenografiche dipinte che coinvolgono e risucchiano lo spettatore,
facendogli dimenticare la piattezza della rappresentazione, per trascinarlo in un mondo
fantastico e tridimensionale che si apre oltre l’architettura attraverso la cornice. Per
raggiungere questa unificazione fra pittura e supporto architettonico è necessario
coinvolgere proprio quest’ultima: essa perde i suoi limiti geometrici, invade lo spazio
dipinto e quello strutturale.
Questo è l’artificio sfruttato, per esempio, da Annibale Carracci (1560-1609) nella Galleria
di Palazzo Farnese a Roma. In questo ambiente lungo e stretto coperto da una volta a
botte, Carracci costruisce una scenografia potentissima, utilizzando gli elementi strutturali
esistenti per rafforzare l’illusione complessiva, fonde strutture, pitture e sculture fino a far
perdere i confini tra reale e raffigurato. Dipinge figure che vogliono sembrare reali, figure
che vogliono sembrare dipinte in quadri riportati e figure che simulano sculture. Inganna
l’occhio saltando dal bidimensionale al tridimensionale vero e falso, facendoci percepire
l’uno per l’altro e viceversa.
Fisic’Arte
52
I trompe l’oeil barocchi, dunque,
rappresentano scene dinamiche
lontane dalla staticità rinascimentale
con una totale compenetrazione di
architettura, pittura e scultura unita
al gusto per la teatralità e la
grandiosità scenografica, al recupero
e allo stravolgimento di forme
classiche per arrivare a suscitare
nello
spettatore
confusione,
persuasione e meraviglia, come nelle
opere del Tiepolo (1696-1770).
Nel Settecento, a soddisfare maggiormente il desiderio di
mimesi dell’arte, s’introduce la camera oscura nel campo
pittorico, e si sviluppa a Roma e in seguito a Venezia, la
scuola dei vedutisti, cioè pittori che utilizzano la prospettiva
per dipingere paesaggi e vedute di città inventate o copiate
dalla realtà. Le loro rappresentazioni sono rigorose
nell’impianto spaziale, frutto di attenti calcoli e di espedienti,
appunto, come ad esempio la camera oscura, antenata
dell’attuale macchina fotografica. Essa era una scatola buia
nella quale, attraverso un foro e con un sistema di lenti e di
specchi, l’immagine veniva proiettata su un piano di vetro. L’artista ricopiava con cura,
nella semioscurità, la proiezione prospettica dei monumenti o di altro. Attenzione veniva
Fisic’Arte
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messa anche nello studio delle luci e dei colori, oltrechè nella resa minuziosa e oggettiva
dei moltissimi particolari descritti.
La camera oscura, evolvendosi, approderà nell’Ottocento alla fotografia, soluzione che
sembrava condannare e demotivare la pittura, e invece provoca l’effetto contrario, la libera
e le restituisce vitalità, permettendole di individuare nuovi percorsi interpretativi
compresi quelli della trasfigurazione della realtà. L’arte moderna mette, infatti, in
discussione la propria funzione mimetica: la rappresentazione non è più riproduzione, ma
diventa espressione profonda della psiche umana. In ogni caso, se si eccettuano le
cosiddette “stanze paese”, produzione setteottocentesca italiana di gusto romantico,
costituite da stanze interamente dipinte da pavimento a soffitto, a volta senza angoli, con
riproduzioni di paesaggi o giardini, alla metà del Settecento le rappresentazioni altamente
scenografiche e illusorie entrano in declino,
sia per esaurimento interno sia per il più
generale decadere dell’affresco. L’arte
moderna, smentendo il canone della
bellezza classica e naturale, dall’avvento
dell’Espressionismo, darà un duro colpo al
tromp l’oeil.
Fisic’Arte
54
Nell’Ottocento si ebbe anche una rivoluzione geometrica che andò ad intaccare le
proprietà intrinseche dello spazio. In particolare, si creò una nuova geometria, chiamata
iperbolica, che lasciava cadere il quinto postulato di Euclide, che limita a uno il numero di
rette parallele a una data retta passante per un punto. In questa geometria non esistono
più linee equidistanti, la somma degli angoli di un triangolo non è più di 180°, ecc. Lo
spazio visivo si era sempre ritenuto che fosse euclideo, per cui si poteva pensare che la
geometria iperbolica fosse solo un’invenzione matematica senza interesse percettivo. E
invece nel 1947 Lunenberg ha scoperto che lo spazio visivo non solo non è euclideo, ma è
precisamente iperbolico. Il che significa che le rappresentazioni che gli rendano giustizia
appariranno necessariamente distorte a chi sia assuefatto a un’arte classica basata su
canoni euclidei.
I primi artisti disposti a
dimenticare questi canoni e
a ripartire da zero, nel
tentativo di dipingere non
ciò che l’occhio dovrebbe
vedere secondo la teoria,
ma ciò che effettivamente
vede nella pratica, furono
gli
impressionisti.
Un
bell’esempio di come le
percezioni
arrivano
iperboliche
al
cervello,
prima che esso le rielabori
per costringerle in schemi
euclidei
prefissati,
è
costituito dalla Camera di
Arles di Van Gogh.
Se opere come questa
apparvero
e
appaiono
sorprendenti, è perché appartengono ad un periodo in cui la prospettiva classica si era
imposta come un paradigma culturale, e tale rimane. Prima del Rinascimento, invece,
rappresentazioni curve di linee che la prospettiva richiederebbe di disegnare come rette
erano usuali. Nell’arte greca e romana, per esempio, gli oggetti erano disegnati secondo le
regole dell’Ottica euclidea. Cioè come se fossero proiettati non su un piano perpendicolare
alla direzione dello sguardo, ma su una sfera che ha l’occhio dell’osservatore come centro.
In particolare, le loro dimensioni erano proporzionali all’angolo sotteso rispetto all’occhio,
e non alla loro distanza dall’osservatore. Proiettare gli oggetti su una sfera, invece che su
un piano, produceva un vero e proprio cambiamento di prospettiva. L’unico punto di fuga
della prospettiva centrale era infatti sostituito da un intero asse di fuga di una prospettiva
assiale. E le rette ortogonali, invece di convergere rettilineamente nel punto di fuga, si
avvicinavano asintoticamente all’asse di fuga.
Questa tecnica fu riscoperta nel Medioevo, e fu usata più o meno consciamente da Giotto
nella Conferma della regola ad Assisi e nell’Ultima cena a Padova, e da Duccio di
Buoninsegna (1255-1318/19) nella sua Ultima cena. Soltanto nel Rinascimento fu poi
soppiantata dalla prospettiva così come oggi la conosciamo, che divenne appunto la
tecnica classica di rappresentazione. A conferma del fatto che la nostra percezione spaziale
non è solo innata biologicamente, ma anche costruita culturalmente.
Fisic’Arte
Giotto – Conferma della regola – 1290/95
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Giotto – Ultima cena – Seconda metà XIV sec.
Duccio di Buoninsegna - Ultima cena – 1308/11
Finito quindi il periodo d’oro, il trompe l’oeil riappare ogni tanto, di volta in volta
variamente interpretato; nel Surrealismo, per esempio, è chiamato a fissare le fantasie
oniriche alla ricerca di un sogno e di un pensiero non controllato dalla ragione come
nell’opera di Dalì, o nell’illusionismo onirico
di Magritte, dove gioca con la confusione tra
realtà e rappresentazione per provocare una
riflessione proprio sul confine tra i due
termini e dimostrare l’assurdità di voler
dipingere il reale.
Nel dipinto Mercato di schiavi … Voltaire si
può scorgere facendo attenzione nel vedere
le persone dipinte e presenti sullo sfondo
dell’opera. I volti delle donne sono gli occhi
di Voltaire.
Fisic’Arte
56
In Enigma senza fine non c'è solo una doppia
immagine, nascosti e suggeriti ci sono almeno sei
oggetti differenti che Dalì, in un gioco "senza fine",
riesce a far apparire e scomparire, secondo il grado di
attenzione e di disponibilità dell'osservatore. Sono sei
le diverse possibili letture dell'opera: 1) una testa
poggiata sul braccio piegato; 2) un levriero sdraiato
sulla tavola in primo piano; 3) un animale mitologico
su parte delle colline di sfondo e sullo strumento
musicale; 4) nella coppa trasparente il volto del
grande ciclope; 5) la natura morta con un mandolino
e con una fruttiera colma di frutti; 6) ed infine, in
piccolo, una donna di spalle accanto ad una barca.
Un'altra immagine a "due sensi", è Il grande paranoico,
realizzata soltanto attraverso la composizione di
figure nude che si muovono in un paesaggio deserto.
Due figure in particolare sono più importanti e più
grandi delle altre: in primo piano, al centro della
scena, una ha il volto coperto dal braccio destro,
l'altra la testa poggiata sul braccio sinistro. E' questa
la "lettura" del dipinto; ma subito ce n'è una seconda.
Se ci allontaniamo, se socchiudiamo gli occhi, se non
concentriamo l'attenzione sulle singole figure,
quanto piuttosto sull'insieme e quindi sul gioco delle
ombre dei loro corpi, ecco prendere forma il volto di
un vecchio, il grande paranoico.
Magritte (1898-1967) dipinge, con una tecnica di
illusionismo di ordine onirico, oggetti e realtà
assurde, che sfidano le leggi della fisica. Magritte gioca con i nostri sensi, sovverte le leggi
della fisica: immense rocce e castelli si librano in aria al posto delle nuvole a cui vengono
paragonati e sostituiti. Tre sfere gigantesche che, nonostante il loro gran peso apparente,
riescono con facilità a galleggiare sospese fra cielo e terra, sconfiggendo la forza di gravità.
O meglio la certezza che ci dà la forza di gravità. Ma allora vi è anche una rottura delle
forze naturali? Certo, nel mondo surreale, come nei sogni, tutto è possibile.
Fisic’Arte
57
L’opera La condizione umana nasce come soluzione al
problema della finestra ed illustratrice del parodosso
riguardante la rappresentazione che vuole sostituirsi al
reale. Un quadro all’interno del dipinto conduce questo
gioco tra rappresentazione naturalistica e realtà: il quadro
“falso” ha lo stesso identico aspetto del concreto
“rappresentato”, al punto da fondersi e confondersi con
esso.
Le passeggiate di Euclide è
un quadro che nel
rappresentare
o
descrivere
la
realtà
geometrica, si distacca
quasi magicamente dal cavalletto dell’Autore per
sovrapporsi e dissolversi nella visione ottica di essa. Il
plurale usato Le passeggiate sta quasi ad indicare non
solo l’opera più famosa di Euclide, Gli Elementi, ma “Le
opere” come se nel pluralizzare, Magritte ci vuol forse
ricordare anche quelle oggi meno note di Euclide, come
L’Ottica e i Fenomeni, la prima che rappresenta una
teoria della visione costruita sul fondamento degli
Elementi, la seconda che rappresenta una teoria
astronomica costruita sul fondamento dell’Ottica.
Si noti la torre conica che si confronta in similitudine,
quasi a confondersi con il vialone centrale, i cui lati
paralleli, nel propagarsi verso la periferia del mondo conosciuto che per Euclide
coincideva nel limite della visione con l’orizzonte cosmico, sembrano tracciare ancora, con
un gioco di ombre e di colori, lo stesso cono geometrico. La figura conica per Euclide,
fuoriusciva dall’occhio come un fascio di raggi emissivi col vertice del cono nella pupilla e
stava alla base della sua teoria dell’Ottica o della visione.
Tra le interpretazioni moderne del trompe l’oeil, assolutamente personale e interessante è
l’opera di Maurits Cornelis Escher (1898-1972), acuto indagatore delle singolarissime
possibilità che si nascondono nella struttura dello spazio e geniale creatore di prospettive
impossibili e paradossi visivi, dove il trompe l'oeil è utilizzato volontariamente per
destabilizzare il sistema percettivo dell'osservatore e mettere in dubbio l'univocità della
rappresentazione, di volta in volta leggibile in modi opposti.
Il Triangolo di Penrose è un triangolo impossibile, che può esistere
solamente come rappresentazione bidimensionale e non può essere
costruito nello spazio, poiché presenta una sovrapposizione
impossibile di linee parallele con differenti costruzioni prospettiche.
In sostanza tale triangolo è la proiezione bidimensionale di una
costruzione formata da tre barre collegate l'una all'altra per mezzo di
Fisic’Arte
58
angoli retti, dove ciascun angolo retto è correttamente
rappresentato, ma i tre angoli sono collegati tra loro in
modo scorretto, tanto che alla fine si ottiene un triangolo
la cui somma degli angoli interni è pari a 270 gradi e
quindi un triangolo impossibile. Nell’opera Cascata Escher
utilizza il triangolo di Penrose per ben tre volte
consecutive nella rappresentazione di un canale, che
sembra localmente in piano, mentre le colonne della
struttura che attraversa lo fanno sembrare su piani diversi
e in salita: si crea così l'impressione paradossale,
l'illusione ottica di un moto perpetuo dell'acqua che
scorre all'insù, contro ogni regola dell'esperienza comune,
infrangendo le leggi gravitazionali.
Altro esempio di illusione ottica
utilizzata da Escher è il cubo di Necker, pubblicato per la prima volta
dallo studioso svizzero di cristallografia Louis Albert Necker nel
1832. Il cubo di Necker è una rappresentazione bidimensionale
ambigua. Si tratta di una struttura a linee che corrisponde a una
proiezione isometrica di un cubo. Gli incroci tra due linee non evidenziano quale linea si
trovi sopra l'altra e quale sotto, così la rappresentazione è ambigua: non è possibile
indicare quale faccia sia rivolta verso l'osservatore e quale sia di dietro al cubo.
Guardando la figura si può facilmente passare da una interpretazione all'altra, si ha una
percezione multistabile.
L'effetto è interessante perché ogni parte della figura è ambigua per sé stessa e il sistema
percettivo umano dà un'interpretazione delle parti tale da rendere l'intera figura
congruente. Il cubo di Necker è a volte usato per testare i
modelli informatici della visione umana, per
comprendere se è in grado di dare un'interpretazione
congruente dell'immagine allo stesso modo dell'uomo.
Molte persone percepiscono la faccia in basso a sinistra
come la faccia anteriore. Questo dipende probabilmente
dal fatto che l'oggetto viene soggettivamente visto da
sopra, con la faccia superiore visibile. Il cervello preferisce
vedere il cubo da sopra.
Si noti che il cubo di Necker non è un oggetto impossibile
in quanto non presenta alcuna incongruenza e può
rappresentare perfettamente un cubo reale. Nell’opera
Belvedere un ragazzo ha in mano un cubo e osserva
perplesso questo oggetto assurdo. Pur avendo in mano
gli elementi che gli permettono di notare che qualcosa
non va, pare non accorgersi del fatto che l'intero Belvedere
è progettato su quella stessa struttura, il cubo di Neker.
La scala che porta al secondo piano dell'edificio inoltre è
contemporaneamente all'interno e all'esterno di esso, cioè
si tratta di una scala impossibile.
Fisic’Arte
59
La scala senza fine è un’altra
figura paradossale nata da
un’idea del matematico
Penrose. Come si vede nel
disegno, la sua caratteristica
è quella che percorrendo gli
scalini che la compongono
si può proseguire in
un’infinita discesa o viceversa in una salita senza fine. Il
paradosso risulta evidente quando ci accorgiamo che
effettivamente il gradino più basso della scala viene
fatto coincidere visivamente con il più alto in modo da
fornire un’impressione di discesa infinita. Quindi anche
questa figura non può essere realizzata nella realtà, ma
rimane solamente sulla carta. Questa illusione visiva è
ben rappresentata in Salita e discesa dove delle persone
camminano in un percorso circolare fatto di scalini.
Apparentamente tutto sembra a posto, ma osservando attentamente la figura, ci si accorge
che queste persone compiono un percorso sempre in discesa o sempre in salita, lungo una
scala impossibile.
L’opera di Escher è disseminata di figure impossibili e paradossi visivi.
Il trompe l’oeile ricompare, periodicamente, nei
periodi di vuoto ideologico, di crisi di identità,
di sterilità creativa, come una certezza alla
quale in ogni momento si può far riferimento
perché
basata
sulla
realtà:
accade
nell'Iperrealismo, nei Murales di Diego Rivera
(1886-1957), di Orozco, di Siqueiros, in alcune
correnti colte come il Post-moderno, accade nel
Graffitismo, una delle forme d'arte moderna
più esemplificativa dei nostri tempi, dove
l'effetto illusionistico amplia di molto il
significato del fenomeno, che non è più
semplicemente un mezzo di comunicazione
attraverso le tracce lasciate sui muri, ma
diventa mezzo per appropriarsi del territorio, sovrapponendosi all'ambiente circostante,
distruggendone le caratteristiche
prospettiche e modificandone
illusoriamente i confini.
Fisic’Arte
60
Un particolare tipo di illusione ottica odierna è quella realizzata sui pavimenti stradali.
Julian Beever, uno dei più famosi artisti di trompe d'oeil da marciapiede, crea disegni
illusionistici con il gesso colorato su pavimenti e marciapiedi dalla metà degli anni
novanta. Le sue opere vengono create utilizzando una proiezione chiamata anamorfosi per
creare l'illusione tridimensionale quando viene visto da una determinata angolazione.
L’invenzione della rappresentazione illusoria della realtà, antichissima e perfezionata nel
Quattrocento con la codifica delle leggi della prospettiva, ha messo in moto un
meccanismo di produzione (e di richiesta) di
immagini sempre più fedeli al vero che nel tempo si è
evoluto nella fotografia, nel cinema fino all’odierna
realtà virtuale. Il visibile riprodotto vuole superare la
realtà stessa alla ricerca di una fedeltà sempre più
forte, con il rischio però, di perdere il limite di artificio
dimenticando la sua natura di finzione. Questo genere
di rappresentazione con alti e bassi ed evolvendosi
tecnologicamente è arrivata quindi fino a noi. Oggi,
più di ogni altra tendenza, è il fenomeno della realtà
virtuale che riporta in primo piano il rapporto tra reale e finzione giocando proprio
sull’ambiguità delle rappresentazioni. Le attuali immagini 3D probabilmente ci fanno
provare delle sensazioni analoghe a quelle anticamente vissute di fronte alle invenzioni
del trompe l’oeil. La tecnologia riporta in primo piano l’abilità dell’uomo di creare
l’illusione, la tradizione rappresentativa mimetica si rimette in cammino: i computer
diventano i nuovi creatori di illusionismi non più pittorici, ma digitali.
3. Pittura e dispositivi ottici
Molti pittori europei a partire dal Quattrocento fecero uso di diversi apparecchi ottici per
realizzare i loro capolavori, che vanno dagli specchi concavi, alle lenti, fino alle prime
Fisic’Arte
61
forme di camera oscura e di camera lucida. Pittori come Van Eyck fino a Caravaggio,
Lotto, Velazquez, Vermeer, Ingres, ecc., hanno per secoli utilizzato dei precursori delle
macchine fotografiche prima dell’invenzione dei fissanti chimici nel 1839. Fu solo dopo la
diffusione di questi fissanti che i pittori, improvvisamente stanchi del realismo ottico,
intrapresero
quella
critica
alla
fotografia
implicita
nell’impressionismo,
nell’espressionismo e nell’arte astratta. Queste argomentazioni, avanzate in serie
pubblicazioni scientifiche, sono oggetto di controversie e, se si rivelassero veritiere,
avrebbero importanti conseguenze nella nostra concezione della storia dell’arte.
Secondo Hockney e Falco, artista inglese e
fisico ottico, considerano come prova
evidente della teoria precedentemente
avanzata,
il quadro Marito e moglie di
Lorenzo Lotto (1480-1556). Essi fanno
notare come il motivo del tappeto orientale
sul tavolo vada fuori fuoco al centro, un
effetto impossibile da vedere nella vita
reale, ma inevitabile se una lente con una
limitata profondità di campo proietta il
soggetto su una superficie piana. Inoltre la
parte posteriore dell’immagine torna
improvvisamente nitida, grazie a una
messa a fuoco della lente, che a sua volta
porta a una leggera distorsione tra due diversi punti di
fuga, non il singolo che ci si aspetterebbe se l’immagine
fosse stata realizzata con il semplice uso della prospettiva
geometrica.
Da dove proviene questo “aspetto ottico”? Uno sguardo
ai ritratti realizzati a partire dal XIII secolo dai pittori
europei mostrerebbe come qualcosa di nuovo accade
intorno ai primi decenni del Quattrocento a Bruges, nelle
Fiandre.
Il cardinale Niccolò Albergati visitò la città
fiamminga nel 1431, durante la quale Jan
van Eyck (1390-1441) organizzò una rapida
sessione di disegno. Il risultato fu un
disegno preparatorio in cui si notano le
pupille a punta di spillo e le ombre scure,
che suggeriscono una brillante luce esterna
richiesta dall’uso di una proiezione ottica. Il
disegno era circa la metà delle dimensioni
reali; il quadro creato l’anno successivo era
grande circa il 40% in più del disegno e, se
riportato alle stesse dimensioni, vi si sovrappone perfettamente, come può essere ottenuto
solo con l’utilizzo di un qualche dispositivo ottico.
A Bruges, intorno al 1430, cent’anni prima di Lotto, è improbabile che esistessero le lenti
adatte, ma lo stesso risultato può essere ottenuto da uno specchio concavo, costruito con la
stessa tecnologia di quello convesso che compare nel Ritratto di Giovanni Arnolfini e della
Fisic’Arte
62
moglie, che van Eyck realizzò nel 1434, adattato a fungere
da epidiascopio (o episcopio), un primitivo “proiettore
opaco”. Grazie a questo dispositivo van Eyck poté copiare
e allargare il disegno preparatorio e poi realizzare il
dipinto, come è mostrato in figura.
L’ottica di uno specchio concavo può essere facilmente spiegata
osservando come i raggi di luce paralleli provenienti da un oggetto
distante sono riflessi e concentrati nel fuoco F. La distanza tra la
superficie dello specchio e il punto F è la distanza focale f. Gli
specchi concavi più semplici possono
essere considerati come sezioni di una
sfera, con centro C. Dall’ottica elementare
sappiamo che il raggio della sfera, r, è due
volte la lunghezza focale dello specchio,
vale a dire r=2f. Le leggi che regolano la riflessione valgono
ovviamente anche nel caso degli specchi concavi. Tuttavia le
perpendicolari ai diversi punti degli specchi sono disposte
radialmente e non parallelamente come negli specchi piani.
Questo significa che raggi paralleli che colpiscono lo specchio in
due punti diversi avranno un angolo di riflessione diverso. Ciò ha come conseguenza una
deformazione delle immagini riflesse dallo specchio. Tale deformazione dipenderà dalla
posizione relativa dell'oggetto rispetto allo specchio. Basandosi sulle dimensioni dei
soggetti rappresentati e sulle loro distanze dall’artista,
Hockney e Falco hanno valutato che la distanza focale
dello specchio concavo usato nella creazione del
ritratto degli Arnolfini potrebbe essere stata f=54 cm.
Essi sostengono che altri dipinti furono realizzati con
specchi con distanza focali simili e indicano il
valore f=59cm come un valore ragionevole e
rappresentativo.
Alcune obiezioni sono state subito avanzate dagli
storici dell’arte, e secondo David Stork, professore di
Computer Science alla Stanford University, è possibile spiegare la tecnica di
ingrandimento utilizzata da van Eyck per il suo ritratto del cardinale Albergati senza
invocare l’uso di un episcopio. Il pittore potrebbe aver semplicemente fatto uso di una
griglia a maglie quadrate, come si usa nei corsi di disegno, correggendo poi le eventuali
imperfezioni, ecco perché il disegno e il dipinto “si sovrappongono perfettamente”. In
Fisic’Arte
63
alternativa, van Eyck potrebbe aver usato un pantografo, che usava anche Leonardo. I
pantografi si basano sul principio del parallelogramma
nella geometria euclidea, conosciuto da più di ventitrè
secoli. L’artista muove una punta secca posta su una parte
dello strumento lungo i contorni dell’originale e una
matita posta sull’altra parte riproduce l’immagine su un
foglio di carta o sulla tela, ad una scala che può essere
scelta opportunamente.
Quanto ai difetti nel dipinto Marito e moglie di Lorenzo
Lotto, Christopher Tyler, Direttore Associato dello SmithKettlewell Eye Research Institute in San Francisco, sostiene l’uso di due o più punti di fuga
differenti, tecnica comune in moltissime opere di pittori tra il XV e il XVIII secolo, tra i
quali Raffaello, Bellini, Holbein, Canaletto.
Stork obietta poi che è possibile calcolare la distanza focale di un ipotetico dispositivo
ottico per ogni quadro che presenta un numero sufficiente di oggetti posti a varie distanze,
ma ciò non implica che tale dispositivo sia stato effettivamente utilizzato. Inoltre si chiede
se esiste documentazione storica dell’esistenza di specchi e lenti appropriati durante il
primo Rinascimento. Ora, tali specchi potevano essere costruiti da una sfera di vetro caldo
nella quale, attraverso un tubo, sarebbe stata soffiata una mistura di stagno, antimonio e
resina o catrame. Una volta raffreddato, il vetro sarebbe poi stato tagliato nelle dimensioni
adatte per dare immagini sufficientemente ben definite. Egli ha calcolato la distanza focale
dello specchio convesso rappresentato nel ritratto dei coniugi Arnolfini, ottenendo un
risultato di f=12cm, assai diverso dal valore f=54cm per lo specchio concavo
ipoteticamente utilizzato da van Eyck secondo Hockney. Ciò significa che se lo specchio
convesso rappresentato può essere stato ottenuto da una sfera di vetro soffiato del
diametro 4f=48cm, più o meno grande come un pallone da spiaggia, lo specchio concavo
ipotizzato da Hockney e Falco dovrebbe essere stato tagliato da una sfera di vetro di
diametro 4f=220cm, maggiore della più grande realizzata ai nostri tempi, e chiaramente
impossibile nel XV secolo. Lo studio di specchi sferici o di sfere di vetro rappresentati nei
quadri dei pittori dell’epoca considerata non ha poi fornito valori paragonabili a quelli
dell’ipotesi di Hockney e Falco. C’è poi una considerazione riguardo alla luce necessaria
affinché questi dispositivi potessero essere di qualche utilità pratica, che non poteva essere
ottenuta se non riempiendo i locali di migliaia di candele.
L’ipotesi di specchi concavi ottenuti da bronzo o altro metallo lucidato (del tipo degli
specchi ustori di Archimede), prosegue Stork, è improponibile per il semplice fatto che la
loro qualità non avrebbe mai potuto consentire la proiezione sulla tela di immagini
sufficientemente nitide. In ogni caso, conclude, lucidare uno specchio metallico delle
dimensioni di quello rappresentato nel ritratto degli Arnolfini sarebbe stata un’impresa
incredibile, circa duecentocinquanta anni prima dell’invenzione dei telescopi a riflessione
nel 1663. Infine, sempre secondo i critici verso l’uso di tali dispositivi ottici, le fonti
storiche del XV secolo sarebbero insolitamente silenziose sull’uso di specchi concavi nella
pittura, mentre abbondano i trattati sulla prospettiva. I quadri dell’epoca considerata
riproducono una grande messe di strumenti ottici di ogni tipo (astrolabi, bussole, occhiali,
ecc.), ma ben pochi specchi sferici o parabolici.
Hockney e Falco hanno sintetizzato le principali obiezioni mosse al loro lavoro
rispondendo che:
Fisic’Arte
64
1) possediamo ampia documentazione che già nel XIV secolo
esistevano dispositivi ottici, sia a riflessione che a rifrazione,
adatti allo scopo, a prezzi assolutamente accessibili. I 40
ritratti di domenicani realizzati nel 1352 da Tommaso da
Modena (1326-1379), in particolare Ugo di Provenza e Il
Cardinale di Rouen mostrano, rispettivamente, occhiali e una
lente d’ingrandimento, mentre Isnardo
da Vicenza e il San Gerolamo affrescato
successivamente
su
un
pilastro
dell'attigua
chiesa
rappresentano
entrambi specchi concavi;
2) gli artisti non facevano uso di candele, ma della luce solare;
3) secondo lo storico Martin Kemp, il pantografo è stato inventato
da Christopher Scheiner nel 1603, più di centocinquanta anni dopo
che van Eyck dipinse il ritratto del cardinale Albergati, e 84 anni
dopo la morte di Leonardo.
In conclusione, secondo Hockney e Falco, i dispositivi ottici e i loro
effetti sulla tela influenzarono l’arte europea dal 1430 a circa il 1850,
fino all’arrivo della fotografia, che sembrò togliere alla pittura lo
scopo di ritrarre il reale così come appare ai nostri occhi (a quelli del
pittore).
Di come la storia dell’uso di
dispositivi ottici nella pittura continui
dopo il Rinascimento, lo possiamo
riscontrare nell’affascinante enigma
della camera oscura del Caravaggio.
Nella Cena di Emmaus (1602) del
Caravaggio (1571- 1610), la mano
destra del discepolo Cleofa appare
più grande rispetto alla sinistra.
Hockney considera questo errore
visuale come una prova dell’uso di
una camera oscura da parte
dell’artista. Egli spiega questa
anomalia della mano come una
conseguenza dei movimenti (in avanti e all’indietro) di lente e tela durante la rimessa a
fuoco, a causa di problemi di profondità di campo, avanzando la teoria che il pittore
lombardo non solo avesse a disposizione una camera oscura naturale (riflessione sulla
tela), ma anche una lente biconvessa, ossia una lente d’ingrandimento, (proiezione sulla
tela). L’immagine era poi disegnata e risultava di un realismo assai dettagliato.
Una risposta al problema dell’illuminazione è giunta da Roberta Lapucci, direttrice del
Dipartimento di Restauro dell'Università americana di Firenze. La ricercatrice, che
appoggia l’idea dell’uso di una camera oscura, afferma infatti che, da alcune prime analisi,
si è trovata una diffusa presenza in molti quadri del Caravaggio di sostanze fluorescenti,
in particolare di sali di mercurio. La sua ipotesi è che il pittore, dovendo disegnare in una
camera priva di luce, usasse spalmare sulla tela dei sali di mercurio, la cui fluorescenza
poteva garantirgli di vedere dove tracciare i segni.
Fisic’Arte
65
La camera oscura più semplice è un dispositivo ottico
che proietta un’immagine su uno schermo. Essa
consiste di una scatola o di una stanza (“camera”,
appunto) con un forellino in uno dei lati. La luce
proveniente da una scena esterna passa attraverso il
foro e colpisce una superficie sulla parete interna
opposta, dove viene riprodotta capovolta, ma con i
colori e la prospettiva preservati. L’immagine può
essere proiettata sulla carta e può allora essere tracciata in modo da produrre una
rappresentazione accurata del vero. Utilizzando uno specchio, come si faceva nel
Settecento, è possibile ottenere un’immagine non ribaltata. Tanto più il forellino è piccolo,
tanto più nitida è l’immagine che si ottiene, ma essa risulta più scura. Inoltre un foro
d’entrata molto piccolo produce un offuscamento dovuto alla diffrazione. Per questo
motivo si applica una lente sul foro in modo da consentire un’apertura maggiore che dà
una luminosità sufficiente mantenendo la messa a fuoco.
Sebbene Aristotele, Euclide e i cinesi conoscessero il fenomeno ottico della camera oscura e
il grande scienziato arabo dell’XI secolo Alhazen ne avesse scritto diffusamente, furono gli
italiani nel XVI secolo che fecero passi da gigante nello sviluppo di questo fenomeno ottico
naturale verso quella che sarebbe con il tempo diventata la nostra moderna macchina
fotografica. Nel 1515 Leonardo descrisse nel Codice Atlantico un procedimento per
disegnare edifici e paesaggi dal vero che consisteva nel creare una camera oscura nella
quale veniva praticato un unico foro su una parete, sul quale veniva posta una lente
regolabile. Sulla parete opposta si proiettava così un'immagine fedele e capovolta del
paesaggio esterno, che poteva essere copiata su un foglio di carta appositamente appeso,
ottenendo un risultato di discreta qualità. Il veneziano Ettore Ausonio (ca. 1520-ca. 1570)
fu il primo a tentare di integrare i problemi della posizione del punto focale e della
formazione delle immagini in uno specchio concavo. Ausonio chiarì che il punto focale di
un tale specchio coincide con il punto in cui cambia l’orientazione dell’immagine visibile
nello specchio stesso. Il matematico Girolamo Cardano (1501-1576) fu invece il primo a
descrivere l’uso di una lente biconvessa come miglioramento della camera oscura. Il nobile
veneziano, e studioso di ottica, Daniele Barbaro (1513-1570) fu in grado di descrivere
nella pratica della prospettiva un tale dispositivo, equipaggiato sia di una lente biconvessa
sia di un diaframma. Barbaro suggeriva anche come rendere più nitida l’immagine,
riducendo l’apertura e muovendo il supporto per il disegno in avanti e all’indietro. Il che è
esattamente quello che Hockney suppone che abbia fatto Caravaggio durante la
realizzazione della Cena di Emmaus. Ciò non prova che
Caravaggio abbia utilizzato la camera oscura oppure ne fosse
informato, ma la cronologia gioca a favore dell’ipotesi che egli
abbia potuto farlo.
La rete di collegamenti tra Caravaggio e i contemporanei
progressi nella tecnologia della camera oscura è tuttavia
interessante. Ad esempio, c’era un legame indiretto tra il
mecenate del pittore della fine del Cinquecento, il Cardinal
Del Monte, e il già citato nobile veneziano Daniele Barbaro.
Nel 1545, Tiziano (c.1490-1576) aveva dipinto il suo ritratto.
Questo piccolo dipinto mostra gli attributi realistici che
Hockney associa all’uso della tecnologia della camera oscura
come ausilio alla pittura, specialmente di ritratti. Una decina
Fisic’Arte
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d’anni dopo questo ritratto, Barbaro propone l’uso della camera oscura ai pittori e,
descrivendo l’uso delle lenti convesse, mostra che l’immagine è più nitida e il suo
contorno può essere perciò seguito con una matita. È difficile immaginare che Tiziano
fosse disinteressato alle teorie sul disegno di Barbaro o che l’intellettualmente attivo
Barbaro se ne stesse seduto mentre il pittore eseguiva il suo ritratto senza farne menzione.
Ovviamente Tiziano era un grande artista e, se fece uso davvero del dispositivo, doveva
farlo saltuariamente.
La maturazione artistica del Caravaggio segue il percorso indicato da Hockney e Falco per
lo sviluppo dell’utilizzo di dispositivi ottici nella pittura. Un suo contemporaneo, anch’egli
pittore e biografo di artisti, il romano Giovanni Baglione (c.1566-1643), affermò che
c’erano “alcuni piccoli quadri [del Caravaggio] ritratti con uno specchio”. Hockney
sostiene che lo specchio di cui parla Baglione sia in effetti uno
specchio concavo. Con questo dispositivo l’immagine
utilizzabile non è mai più grande di 30 centimetri di larghezza;
si tratta di una caratteristica di tutti gli specchi concavi, non
importa quanto essi siano grandi. Al di fuori di questa
superficie utile, è impossibile ottenere un’immagine a fuoco. I
quadri fatti con l’ausilio di uno specchio concavo devono
pertanto essere piccoli, o devono essere un collage di piccole
vedute, come dettagli di mani, vestiti, frammenti di paesaggio e
nature morte. Hockney cita il Bacchino malato (ca. 1593) come
esempio di questo collage di vedute giustapposte. In effetti il
quadro in questione è di piccole dimensioni.
Caravaggio incomincia ad includere più di
una figura, come nei Bari (ca. 1595). Lo
sfondo è ora buio e spettacolare ma l’aspetto
ottico è cambiato. Questo cambiamento
potrebbe essere dovuto ad un miglioramento
tecnologico, come quello ottenuto con una
lente biconvessa che può proiettare una
veduta più ampia, e quindi più figure in un
colpo solo. Hockney è convinto che qualcuno
diede al pittore una nuova lente, forse il suo
potente protettore del tempo, il Cardinal Del
Monte, portandolo all’idea di usarla al posto
dello specchio concavo per ottenere il
massimo rendimento dall’effetto della camera oscura. La sperimentazione di Caravaggio
con proiezioni ottenute da lenti biconvesse coprì un periodo di
cinque anni, durante i quali sarebbe passato da tele di piccole
dimensioni, con l’ausilio di uno specchio, fino a dipinti di
dimensioni medie come il Bacco, fatte con l’ausilio di una lente.
Roberta Lapucci ritiene che il Bacco dimostri in modo evidente
l'uso di lenti e specchi. La studiosa fa notare come il Bacco sia
mancino, perché tiene il bicchiere con la mano sinistra. Non
essendoci precedenti in tal senso, la Lapucci pensa che
l'immagine sia il frutto di una proiezione ottenuta con uno
strumento ottico. Se si ribalta l'immagine si ottiene una figura
che appare assai più naturale.
Fisic’Arte
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Tra il 1598 e il 1599, tuttavia, Caravaggio
deve aver cominciato a sperimentare un
nuovo sistema di lenti, con il quale fu in
grado di realizzare le tre tele con scene
della vita di san Matteo che segnano un
importante punto di svolta nel suo stile e
stupirono il mondo dell’arte del Seicento
quando furono visibili nel 1600.
C’è un ulteriore informazione da segnalare
sulla svolta stilistica di Caravaggio agli inizi
del nuovo secolo, che richiede di tornare
alla Cena di Emmaus, ma nella versione
conservata a Milano e dipinta quattro anni più tardi di quella londinese. Essa sembra
smentire definitivamente le obiezioni di Stork relative all’illuminazione e confermare
l’assunto di Hockney e Falco che il pittore utilizzasse la luce solare. Lo studio dell’opera
effettuato con l’ausilio dello scanner Multi-NIR (scanner multispettrale all’infrarosso)
realizzato dall'Istituto Nazionale di Ottica (INO) del C.N.R di Firenze ha rilevato il
disegno sottostante il dipinto conservato alla Pinacoteca di Brera. Dall'indagine sono
infatti affiorati i contorni del volto di Cristo, degli apostoli, delle mani, oltre alla presenza
delle incisioni tipiche della fase giovanile del Caravaggio e che Hockney attribuisce all’uso
di dispositi ottici. Si può quindi concludere che Caravaggio, contrariamente a quanto
generalmente si pensava, faceva uso di
disegni preparatori. Inoltre, e ciò è assai
importante per la nostra indagine, lo
scanner ha rivelato anche la presenza di un
significativo cambiamento nel corso della
realizzazione dell’opera. Sul lato sinistro,
dietro la figura in piedi, è emersa una
finestra da cui si scorge un paesaggio
dominato da un albero frondoso. Tale
apertura era la fonte di luce naturale che
illuminava i personaggi. Nella stesura
definitiva, il pittore occultò questi elementi
a favore di uno sfondo scuro, adatto alla
resa di un'atmosfera più spirituale,
illuminata da una luce di taglio, dall’effetto “soprannaturale”, rivelatrice della presenza
divina. I risultati del Multi-NIR consentono di affermare che la Cena di
Emmaus rappresenta lo spartiacque stilistico nella carriera pittorica del maestro lombardo.
E gettano una nuova luce (è proprio il caso di dirlo) sulla tecnica pittorica adottata dal
Caravaggio negli ultimi suoi anni di vita.
4. L’arte stereoscopica
La sensazione di tridimensionalità che abbiamo quando guardiamo un oggetto ci è fornita
dalla presenza dei due occhi, ossia dalla visione binoculare. Questi essendo distanziati tra
loro (circa 6,5 cm) ci forniscono due immagini bidimensionali diverse, perché viste da
angolazioni diverse, che il cervello elabora in un'unica immagine in rilievo, permettendoci
di stimare le dimensioni attraverso una valutazione differenziale relativa. Questo effetto
Fisic’Arte
68
percettivo prende il nome di
stereoscopia. La stereoscopia è,
dunque, una tecnica che consente la
visione di immagini, fotografie e
filmati dando il senso di profondità.
Leonardo fu tra i primi ad usare la
prospettiva aerea, cioè a dare il senso
di profondità e lontananza degli
oggetti rappresentati attraverso un
sapiente uso del colore e modulazione
di luce e ombra, in straordinari giochi
di effetti atmosferici. Ciò che fino ad oggi sembra essere sfuggito agli studiosi è che tale
senso di profondità possa essere notevolmente amplificato con l’ausilio di semplici
strumenti suggeriti dallo stesso Leonardo nei suoi studi, cioè applicando i principi della
stereoscopia. Questa potrebbe essere una lettura rivoluzionaria
giacché le origini della stereoscopia
comunemente sono attribuite a Charles
Wheatsone inventore, nel diciannovesimo
secolo, del primo stereoscopio della storia.
Questo studio, invece, applicato alla
Gioconda, suggerirebbe che Leonardo già
possedeva e sperimentava tecniche legate
alla visione binoculare. Come possiamo
mettere in evidenza tali affermazioni.
Basterà osservare, anche a occhio nudo,
l’unica immagine risultante dalla composizione di due immagini
diverse inviate ai nostri occhi. Come: si osservi prima con l’occhio
destro e poi con l’occhio sinistro le porzioni del dipinto riportate
nelle foto, con l’aiuto di uno stereoscopio. Osservando l’immagine
risultante con la stessa tecnica utilizzata per le immagini
stereoscopiche si visualizza l’immagine di un terzo volto dai tratti
meno femminili. La percezione finale dà esito a un volto dai tratti
spiccatamente più maschili. Che sia il volto di un uomo?.
Un artista del quale siamo sicuri che abbia dipinto quadri
stereoscopici, e che ha avuto una certa influenza su Dalì
nell’applicazione di questa tecnica alla pittura, è Gèrard Dou
(1613-1675). Dou era conosciuto per la grande attenzione e
l’estrema minuzia nei suoi dipinti di dimensioni ridotte
rispetto a quelli di genere. Per ottenere una rappresentazione
di oggetti più piccoli del naturale ricorreva all’impiego dello
specchio convesso. Il fisico danese Ole Borch che visitò
l’artista il 9 novembre 1661 scrisse: “Tutte le volte che Dou
dipinge, colloca tre magnifici occhiali davanti ai suoi occhi
contemporaneamente, per vedere meglio”. Divenne infatti
quasi cieco sui trent’anni. Le radiografie hanno rivelato
cambiamenti compositivi e pentimenti in parecchie sue
opere, mentre in altre si trova un attento metodo di lavoro. Il
trompe l’oeil e l’illusione sono importanti componenti della
Fisic’Arte
69
pittura di Dou. La sua concezione dell’illusione è leggera: suggerisce una consapevolezza
dell’artificio nella mente dello spettatore e punta oltre esso stesso. Pone una relazione tra
l’arte e la realtà che si sposta e si sovrappone, una volta vera, una volta falsa, secondo il
livello a cui uno avvicina l’opera d’arte.
Dalì, negli anni sessanta, si interessa di sperimentazioni ottiche, percezione visiva e leggi
della Gestalt. L’idea portante dei fondatori della psicologia della Gestalt è che il tutto fosse
diverso dalla somma delle singole parti, in particolare il
tutto è più della somma delle parti. Le teorie della
Gestalt, si rivelarono altamente innovative, in quanto
rintracciarono le basi del comportamento, nel modo in
cui viene percepita la realtà, anziché per quella che è
realmente; quindi il primo pilastro della teoria della
Gestalt fu costruito sullo studio dei processi percettivi e
in una percezione immediata del mondo fenomenico.
Per la psicologia della Gestalt non è giusto dividere
l’esperienza umana nelle sue componenti elementari e
occorre invece considerare l’intero come fenomeno
sovraordinato rispetto alla somma dei suoi componenti.
Quello che noi siamo e sentiamo, il nostro stesso
comportamento, sono il risultato di una complessa
organizzazione che guida anche i nostri processi di pensiero. La capacità di percepire un
oggetto quindi deve essere rintracciata in una organizzazione presieduta dal sistema
nervoso e non ad una banale immagine focalizzata dalla retina.
Per comprendere il mondo circostante si tende a identificarvi forme secondo schemi che ci
sembrano adatti – scelti per imitazione, apprendimento e
condivisione – e attraverso simili processi si organizzano sia la
percezione che il pensiero e la sensazione; ciò avviene di solito
del tutto inconsapevolmente.
Tornando a Dalì, prima della scoperta del laser e delle sue
applicazioni nell'olografia, la visione stereoscopica era quella
che più si avvicinava al suo scopo. È logico che, mentre egli
mirava a conquistare la terza dimensione per la sua pittura,
tutti gli effetti del rilievo assumevano ai suoi occhi
un'importanza capitale, e applica i principi della stereoscopia
alle sue opere solo dal 1969, quando rimane folgorato dal
lavoro di Dou, per lui il “primo pittore stereoscopico” e
comincia a creare immagini stereoscopiche riflesse per mezzo
di specchi collocati a 60°.
Gli specchi per Dalì erano un’ossessione, in particolare lo
specchio deformante alla parete della camera da letto, che
rifletteva tutta la stanza. L'ossessione degli specchi venne a Dalí
mentre studiava le opere di Giambattista della Porta, l'astrologo napoletano vissuto nel
XVI secolo che scrisse parecchi trattati sulle trasformazioni e aberrazioni ottiche. Siano
deformanti o normali, gli specchi appagavano il desiderio di Dalí di vedere quello che non
può essere visto. Nella sua casa gli specchi avevano la stessa funzione delle piccole finestre
in uso nelle regioni mediterranee. Come queste, gli specchi inquadravano una superficie
molto limitata costringendo l'occhio a soffermarsi su ogni minimo particolare, producendo
Fisic’Arte
70
un effetto di acutezza e di immediatezza che non si ottiene mai con i finestroni panoramici
avidi di orizzonti dell'architettura funzionale.
Nel 1971, il fisico americano Dennis Gabor riceve il premio Nobel per la scoperta
dell'olografia. L'olografia è una tecnologia ottica di memorizzazione di una informazione
ottica sotto forma di registrazione di un finissimo
intreccio di frange di interferenza con impiego di
luce coerente laser (sia spazialmente sia
temporalmente).
L'informazione registrata è l'interferenza tra una
parte di luce (proveniente dalla stessa sorgente
coerente) riflessa da uno specchio e del fronte
d'onda riflesso da un oggetto su una lastra
fotografica
a
grana
finissima,
chiamato
ologramma. All'immagine olografica (cioè alla ricostruzione dell'originario sistema di
fronti d'onda provenienti dall'oggetto) viene attribuita la cosiddetta "tridimensionalità".
L’olografia, dunque, permette la visione di immagini con un effetto tridimensionale grazie
all’uso di un laser che crea figure d’onda interferenti.
Dalí vede in questa invenzione il modo migliore per progredire nel suo intento di creare
nello spazio, e probabilmente anche la strada per raggiungere l’immortalità dello spirito e
delle immagini che desiderava tanto raggiungere.
Durante la realizzazione di La mano di Dalì… il pittore si
fece preparare un solido a forma di triangolo ricoperto
di specchi, simile al triangolo di Kanizsa, che gli serviva
per sovrapporre visivamente i due lavori, attuando una
sintesi additiva. Il triangolo di
Kanizsa è un'illusione ottica in cui il
triangolo bianco che è inesistente,
sembra essere più luminoso della
zona circostante, mentre quell'area
ha la stessa luminosità delle zone
adiacenti. Ciò perché la nostra
valutazione percettiva ha bisogno di contrasto
figura/sfondo e anche quando questo non c'è si crea lo
stesso. Dalì crea un’immagine olografica, ovvero
un’immagine aperta alla terza dimensione. Quest’opera
è ideata secondo i canoni classici degli stereogrammi:
due immagini, una per occhio, ottenute con costruzioni
geometriche e con foto scattate con un apparecchio con
due obiettivi. Perché sovrapponendole si apprezzasse
l’effetto tridimensionale, la coppia di tele, è stata dipinta
da punti di vista particolari, e poi guardate
simultaneamente grazie allo speciale specchio di cui sopra, o con occhiali dalle lenti
apposite.
Dalì solleva … è un altro esempio di visione binoculare con il ricorso a due dipinti
complementari, così come Dalì di spalle… è realizzata utilizzando il sistema delle lenti di
Fresnel (lenti di spessore ridotto rispetto a quelle standard), applicato alle cartoline in
rilievo:
Fisic’Arte
71
“La stereoscopia rende immortale e leggittimizza la geometria, perché grazie ad essa
abbiamo la terza dimensione della sfera. Con l’Universo che essa è in grado di contenere e
di limitare……….”
Dalì di spalle che dipinge Gaia di spalle – 1972/73
Dalì solleva il mare per mostrare la nascita di Venere - 1977
Dalì
Gala guarda il mare che a 20m si trasforma in Lincoln - 1976
Per realizzare questa immagine doppia, Dalì è partito
da un’interpretazione digitale del viso di Lincoln
ottenuta dal cibernetico a mericano Leon D. Harmon.
Dalì ha usato qui il concetto di pixel (picture element)
per creare un'immagine che appare diversa se vista
da vicino oppure da lontano. Il dipinto è suddiviso in
quadrati al cui interno il colore è quasi uniforme. Da
lontano si perde la risoluzione dei dettagli, e ogni
quadrato ci appare come un pixel di un unico colore,
delineando il famoso ritratto di Abraham Lincoln.
Nel tempo stesso cerca, per mezzo delle lenti di
Fresnel, di semplificare il procedimento per rendere il quadro visibile in rilievo
contemporaneamente da più persone.
5. Optical Art
L’Optical art, nota anche come Op Art, è un movimento di arte astratta nato intorno agli
anni sessanta. Le origini della Op Art, che si affianca con la cosiddetta Arte Cinetica, che
sperimenta varie possibilità di movimento meccanico, luminoso, elettromagnetico, sono
da individuare nell’interesse del rapporto tra arte e scienza.
L’optical art, dunque, è arte in movimento; infatti l’essenza dell’arte astratta percettiva è la
creazione di esperienze cinetiche mentali non reali, generate attraverso artifici
sapientemente costruiti attingendo agli studi della Gestaltpsychologie (secondo gli psicologi
Fisic’Arte
72
della Gestalt, detta anche psicologia della forma, la configurazione delle parti di una
struttura, di una forma, Gestalt appunto, sia essa un disegno molto semplice o di un'opera
più elaborata e complessa, viene colta dal soggetto che la percepisce non parte dopo parte,
ma innanzi tutto nella sua globalità). Il fruitore dell’Op Art riceve sollecitazioni visive che
colpiscono la selva di coni e bastoncelli da cui è formata la retina, discrepanze, conflitti
percettivi, ambivalenze, catturano l’occhio dello spettatore che viene provocato affinché,
corrispondendo alle intenzioni dell’autore, divenga partner nel processo di costruzione
dell’opera, quasi completandola dinamicamente. E’ indicativo infatti il nome della mostra
con cui nel 1965 questi artisti si presentarono al Museum of Modern Art di New York: The
Responsive Eye. E così forme statiche con effetti ottici illusori, acquistano vita e mobilità,
complice il nostro stesso sguardo.
L’Optical Art si esprime in una pittura piatta, obbediente ad accurati schemi precostituiti,
che suscitano problemi ottici nell’osservatore e si vogliono provocare principalmente le
illusioni ottiche, tipicamente di movimento: la geometrizzazione parcellizzata di una
superficie, può suggerire l’emersione o l’incavo delle forme, oppure provocare lo
sdoppiamento della griglia. In altri casi può generare l’espansione mobile, o ricercare gli
effetti di proiezione della luce colorata. Secondo le teorie di Chevreul, colori, collocati sulla
tela, in modo tale da fondersi negli occhi del riguardante, vengono a suscitare particolari
effetti ottici. In obbedienza alle teorie di questi ultimi, si ottiene un colore più puro e
luminoso, collocando una commistione di materia inanimata, sulla tela, avvicinando il
giallo ed il blu, per ottenere il verde; notate bene, solo avvicinandoli. A questa teoria,
risalente a Seurat ed ai postimpressionisti, si aggiunge il rinnovamento della spiritualità
del soggetto, con la ricerca di una nuova forma. Colori in movimento sottendono il
dinamismo interiore.
Una “poesia visiva” di Gianni Latronico intitolata OP
ART, tradotta in prosa, potrebbe essere letta come il
manifesto di questa corrente artistica:
“La rigida geometria euclidea in arte, è superata da
morbide linee sinuose di immagini asimmetriche di sfere
coni rettangoli triangoli e cilindri Con lieve brezza una
estrosa
bizzarria
un
improvviso
capriccio
una
ispirazione poetica serpeggian tra le maglie del tessuto
connettivo e sconvolgon il sistema della tela di Aracne.
Con maglie folli di fantasia lirica si capovolge la clessidra
cambiando il tempo in eternità. “
L’optical art è un'arte essenzialmente grafica, basata su
una
rigorosa
definizione del metodo operativo. Gli artisti
vogliono ottenere, attraverso linee collocate in
griglie modulari e strutturali diverse con l’aiuto di
elementi di disturbo, effetti che inducono uno stato
di instabilità percettiva. In tal modo, essi stimolano
il coinvolgimento dell'osservatore.
Uno degli artifici tipici di Vasarely (1906-1997) è la
contrapposizione di due diversi sistemi prospettici,
ottenuta in vari modi: ad esempio, affiancando due
serie di figure geometriche simili orientate in
Fisic’Arte
73
maniera diversa su un’unica tela, o riproducendo una stessa figura su due fogli di cellofan,
che possono poi essere fatti scorrere uno sull’altro. Un’altra sua tecnica è la
contrapposizione di colori di tinta contrastante, ma di tono identico.
Una diversa tecnica di contrapposizione è
adottata da Agam e Cruz-Diez (1923), che
produce un analogo visivo delle opere a
lettura multipla. Si tratta di usare tele
costituite da triangoli paralleli in rilievo, o da
asticelle parallele poste ad angolo retto
rispetto al piano del quadro, in modo da
poter disegnare due soggetti diversi sui due
lati dei triangoli o delle asticelle: se si guarda
da un lato del quadro, si vede soltanto uno
dei due soggetti, mentre se si guarda di
fronte si vede una combinazione di entrambi.
La Riley (1931), altro esponente di spicco della Op Art, ha realizzato
una serie di opere in cui fasci di linee ondulate parallele provocano
effetti non solo tridimensionali, ma addirittura cromatici: i
movimenti dell’occhio proiettano immagini consecutive di colore
complementare sulla retina, inducendo la visione di colori
inesistenti.
Fisic’Arte
74
Capitolo 4
ARTE#E#FISICA#CLASSICA#
1. Introduzione
Con il nome di fisica classica si raggruppano tutti gli ambiti e i settori della fisica che non
fanno uso delle teorie scientifiche prodotte nel XX secolo, ossia la relatività ristretta e
generale e le teorie quantistiche. Per tale motivo è possibile classificare come fisica classica
tutte le teorie prodotte prima del 1900. Sono quindi comprese le teorie sulla meccanica,
inclusa l'acustica, sulla termodinamica, sull'elettromagnetismo, inclusa l'ottica, e la gravità
newtoniana.
La fisica classica ricomprende teorie che avevano avuto la loro origine già prima della
nascita del metodo scientifico, anche se fu solo dopo la codifica di quest'ultimo, attribuita a
Galileo Galilei (1564-1642), che si ebbe la maggior parte delle scoperte. A seguito dei
lavori dello scienziato pisano, si aprì una fase di indagine approfondita, che culminò nella
poderosa opera I Principia di Newton (1642-1727). La curiosità della comunità scientifica si
estese poi ai fenomeni elettrostatici e magnetici. Non bisogna dimenticare, nel definire la
storia dello sviluppo di questa particolare branca della fisica, che i suoi molti settori attuali
si sono evoluti parallelamente nel corso del tempo e hanno subito più volte scissioni e
ricombinazioni fino ad assestarsi con le suddivisioni oggi comunemente accettate. Ad
esempio l'attuale elettromagnetismo classico è frutto dell'unificazione di elettricità,
magnetismo e ottica, operata grazie alla sintesi matematica che ne fece James Clerk
Maxwell (1831-1879).
Il legame del mondo dell’arte con la fisica classica, però, non va inteso solo per gli artisti
che hanno vissuto nel clima culturale riguardante tale ambito della fisica. Infatti, per
alcune avanguardie del XX secolo, come il futurismo, il tema dominante della loro arte era
il movimento, concetto inteso in senso classico, così come parte dell’arte contemporanea,
per intenderci quella che si è sviluppata dopo la fine della seconda guerra mondiale, è
stata fortemente influenzata da un concetto, l’entropia, sviluppato nella seconda metà del
XIX secolo, quindi, storicamente, appartenente alla fisica classica.
2. Spazio, tempo e arte
È noto come ogni epoca ed ogni cultura sia stata contraddistinta da una diversa estetica e
cioè da un diversa affinità per la bellezza, il gusto e il benessere. Infatti estetica
etimologicamente deriva dal greco aisthetikos "sensitivo", e da "aisthanesthai" "percepire", e
quindi indica quella "forma–mentis" che corrisponde alla opportunità di valorizzare una
capacità storicamente-selettiva, che unendo ragione e emozioni, dà valore alle impressioni
visive e percettive generate da un qualsiasi evento collocabile nel quadro di riferimento
Fisic’Arte
75
dello spazio e nel tempo. I concetti di tempo e di spazio sono di conseguenza talmente
fondamentali nella cultura di qualsiasi epoca, che ogni loro modificazione altera
totalmente i criteri di base su cui poggia la nostra visione del mondo. Di conseguenza, la
cultura acquisita in ogni epoca da ogni etnia culturale, diviene determinante nel definire le
linee generali dell'estetica che puntualmente caratterizzano sia i criteri di valutazione della
razionalità scientifica che quelli della bellezza nell'arte. Pertanto, le concezioni relative al
tempo ed allo spazio sono fondamentali per individuare lo sfondo immaginario nel quale
ogni elemento di apprezzamento estetico viene valutato sia razionalmente che
emotivamente.
In figura è riportato un particolare di pittura tombale
egizia raffigurante una piscina. La fila di alberi che sono
messi in alto, ci sembra dipinta correttamente. Quelli in
basso sono invece rappresentati secondo il principio dello
“scaglionamento”; siccome la piscina è dietro gli alberi,
viene raffigurata più in alto. Gli alberi a sinistra invece,
sono visti come una scatola che viene aperta e appoggiata
su di un tavolo. Con questo tipo di tecnica, gli artisti egizi,
cercavano di rappresentare il senso dello spazio nelle loro
opere.
La forma del tempio greco si presenta ordinata,
con gli elementi chiaramente connessi e combinati,
per cui nel tempio l’architetto non si preoccupava
di organizzare lo spazio interno, ma di concepire
un insieme perfetto e armonioso. Per raggiungere
questo obiettivo i costruttori greci ricorrevano al
modulo, una unità di misura convenzionale che
regola il rapporto tra le varie parti che
compongono un edificio e tra di esse e il tutto; in
genere è il raggio alla base del fusto della colonna.
Lo storico dell’architettura Pevsner ha
scritto: “Ciò che distingue l’architettura
dalla pittura e dalla scultura è la sua
caratteristica spazialità … quindi la storia
dell’architettura è, innanzitutto, la storia
dell’uomo che modella lo spazio … “. È la
capacità di modellare gli spazi interni
suggerendo tensioni verso l’esterno è
proprio la caratteristica principale degli
architetti romani, che con archi, volte e
cupole abilmente combinati e articolati,
creavano forme spaziali di eccezionale
interesse. In un’opera architettonica greca, l’impianto simmetrico dell’edificio consente,
con un solo sguardo, di comprendere la struttura che si ripete quasi sempre uguale. In
un’opera architettonica romana, invece, dove è espressa una concezione dinamica dello
spazio, è ncessario muoversi, girarvi intorno, entrarvi per appropriarsi della sua forma. La
concezione romana dello spazio è testimoniata dal Pantheon.
Fisic’Arte
76
Anche nella pittura degli antichi Romani abbiamo
numerose testimonianze su come cercavano di
rappresentare lo spazio nelle loro opere. In un
affresco da Pompei una villa è resa con un
procedimento molto simile alla prospettiva
geometrica del Rinascimento. Gli effetti di profondità
sono dati dall’uso convergente delle linee oblique
ma, a volte, anche dal progressivo sfumarsi verso il
fondo dell’immagine (prospettiva atmosferica).
Sant’Apollinare in Classe – Ravenna – 532/36-549
L’architettura cristiana, sviluppatasi a
partire dal IV secolo, non avendo una
prassi costruttiva propria, riprendeva
tecniche costruttive e forme della
tradizione romana. La chiesa cristiana
era solitamente costruita in maniera tale
che lo spazio si rivelasse dinamico e
articolato, consono ad ospitare una
molteplicità di funzioni in cui non si
individuavano precisi orientamenti
prospettici. Pertanto, dal punto di vista
dello spazio, l’innovazione principale
nelle basiliche cristiane è la concezione
unitaria di tutti gli elementi strutturali e decorativi che crea una traiettoria longitudinale
obbligata (ingresso, navate, altare, abside) per condurre l’occhio del visitatore verso il
fondo, la parte più sacra della chiesa.
Basilica Sant’Ambrogio – Milano – XI sec.
Lo spazio nell’architettura romanica (XI
e XII sec.) è plastico, organizzato e
raggruppato e si oppone come
concezione a quello fluido e luminoso
delle basiliche paleocristiane e bizantine
(dal IV al X sec.). Si presenta come se
fosse modellato, con il carattere delle sue
navate, divise in campate, alzate a
diverse altezze, con il transetto che apre
uno spazio trasversale, con le absidi che
creano movimenti circolari e la cupola
che si eleva sopra l’altare portato in alto
dalla gradinata del presbitero. Se lo spazio dell’architettura romanica risulta separato in
zone, quello dell’architettura gotica (dal XIII fino all’inizio del XVI sec), invece, si concede
nella sua totalità in una continuità esemplare: le campate, fuse in una sequenza continua,
Fisic’Arte
77
non sono otticamente definite, la netta distinzione tra navate e presbitero è abolita, il
transetto è ridotto e quasi ingoblato nel corpo longitudinale della chiesa. La spinta verso
l’alto è sconcertante, ma altrettanto coinvolgente è la direttrice
longitudinale, che, varcata la soglia, conduce lo sguardo del
visitatore verso l’altare e fa sì che si arresti solo davanti al
perimetro sottile del coro. Lo spazio fugge e l’uomo si perde in
una contemplazione estatica che lo esalta. L’effetto di
continuità tra spazio interno e esterno, suggerito dalle ampie
finestre, dalla illuminazione diffusa e dallo snellimento delle
strutture, è un’altra delle affascinanti caratteristiche
dell’architettura gotica.
Duomo di Colonia – XIII sec.
Nel
periodo
storico
che
ha
contraddistinto la civiltà contadina, il
passare del tempo era considerato
ciclico, proprio in seguito alla necessità
di considerare un tempo per seminare e
uno per raccogliere. L'arte, in quel
periodo storico, non venne considerata come realtà autonoma
creativa, ma come una manifestazione di abilità fondata
sull'imitazione e contemplazione della natura, quale creazione divina
associata a una ciclicità allegorica dello scorrere ripetitivo della vita
e della morte. I fondamentali schemi espressivi nel Medioevo,
simboleggiano infatti la caducità della vita nel suo divenire nelle
varie stagioni in contrasto con la eternità della morte e della vita extraterrena.
Giudizio universale – Ciclo duecentesco - Aquila
Per quanto riguarda la rappresentazione
dello spazio, in questo periodo storico
appare poco rilevante. Assumono infatti
maggiore
importanza
i
contenuti
simbolici dei vari soggetti rappresentati.
Ciò viene espresso con il variare delle
dimensioni in relazione all’importanza
del personaggio, cioè più importante era
il personaggio da rappresentare sul
supporto, e più grande degli altri
personaggi veniva dipinto.
Intorno al Trecento tuttavia, l’interesse per la resa dello spazio riemerge nuovamente con
grande forza. In questo periodo è soprattutto la pittura di un grande maestro come Giotto,
la più capace per esprimere la sensazione di concretezza spaziale mediante l’uso di
superfici e quinte inclinate secondo un procedimento molto vicino al disegno
assonometrico.
Fisic’Arte
78
Agli inizi del Rinascimento la concettualità relativa al tempo e allo spazio venne a
modificarsi assieme agli sviluppi delle concezioni meccaniche che dettero vita
all'artigianato. La necessità di una misurazione precisa degli ingranaggi delle macchine
rese inf atti necessaria una definizione puntuale della posizione degli oggetti nello spazio.
Pertanto, in seguito al divenire di una concezione meccanica dello spazio-tempo, già Piero
della Francesca (1415-1492) aveva definito in modo puntuale e con metodo matematicoscientifico la prospettiva nell'estetica pittorica nel suo libro intitolato "De Prospettiva
Pingendi", intesa come un metodo per poter tradurre graficamente la profondità, in modo
molto simile a come essa viene percepita dall’occhio umano.
Piero della Francesca – La flagellazione di Cristo - 1455
Fisic’Arte
79
La prospettiva non era unicamente finalizzata alla rappresentazione dello spazio e alla
resa realistica della scena dipinta, ma anche a disegnare figure in scorcio prospettico, a
definire con precisione le esatte proporzioni dei vari elementi presenti nella scena
(architetture, arredi o figure umane), mettendo in esatto rapporto gli elementi collocati in
primo piano con quelli in lontananza. La prospettiva lineare organizza quindi l’immagine
della realtà in un insieme ordinato e razionale, ponendo gli eventi rappresentati nello
spazio naturale, fuori dal mondo astratto e ieratico delle opere medievali. Il pittore del
Quattrocento non copia fedelmente la realtà, ma la ricostruisce razionalmente tramite
l’architettura dipinta in prospettiva, riportando ogni elemento della composizione (figure
e oggetti) a volumi geometrici regolari, anch’essi costruiti in relazione allo spazio
prospettico. Pertanto, grazie all’innovazione della prospettiva, Piero della Francesca
induce a credere che La flagellazione di Cristo sia un quadro di notevoli dimensioni, mentre
in realtà è una tavoletta di dimensioni ridotte.
Piero della Francesca – Leggenda della vera croce – 1452/60
Un'altra particolarità dello stile di Piero della Francesca riguardo alla rappresentazione
dello spazio e del tempo è che tutti i personaggi delle sue opere sembrano come bloccati,
immobili. Ogni gesto sembra come congelato all'improvviso, anche in situazioni dove il
dinamismo sembrerebbe essenziale. Ad esempio, nelle battaglie c'è un grande senso di
confusione, con l'intrigo di uomini, cavalli, lance, spade, stendardi e bandiere. Si vede
gente che si scontra, che cade, che muore, che uccide. Ma presi singolarmente, i personaggi
sembrano tutti bloccati, statici, come se il tempo si fosse fermato per incantesimo. Eppure
la posizione dei cavalli e i gesti dei soldati, sono esatti, come pure il loro inserimento nello
spazio prospettico. Ma è proprio questa esattezza che toglie l'effetto del movimento. Piero
non vuole rappresentare lo svolgersi dell'azione nel tempo. Si allontana dalla
rappresentazione realistica del dinamismo e cerca invece la rappresentazione astratta della
perfezione. Piero toglie (astrae) il tempo della realtà, e secondo una concezione
intellettuale ci restituisce un'immagine perfetta e senza tempo. Nello spazio esatto della
geometria tutto è perfetto e immobile, perchè risponde alle stesse leggi matematiche. In
una dimensione perfetta il tempo non esiste, perchè è intesa come una visione eterna.
I fondamenti della geometria descrittiva, quale studio della rappresentazione oggettiva
dello spazio tridimensionale, che sono alla base della tecnica pittorica del Rinascimento,
Fisic’Arte
80
furono perfezionati da Leonardo. La prospettiva geometrica delinea perciò il passaggio da
una concezione ciclica del tempo a una nuova sua dimensione lineare che sarà la base di
riferimento della scienza meccanica durante tutto lo sviluppo dell'Epoca Industriale.
Nell’architettura del XV sec. lo spazio perde il movimento direzionale; all’interno degli
edifici persiste la sensazione del movimento, ma alla dimensione spaziale definita dalla
direttrice longitudinale e verticale tipica del periodo precedente, si sostituisce uno spazio
che si espande in più direzioni. Nel Cinquecento lo spazio mantiene quella leggibilità del
secolo precedente. La progettazione modulare, basata su precise regole geometriche,
conferisce a interni ed esterni forme armoniose e proporzionate. In termini generali si può
affermare che lo spazio in questo secolo si espande, presenta combinazioni diverse, e
dunque acquista una nuova risonanza senza, tuttavia, perdere il suo carattere razionale e
funzionale.
Nel periodo barocco (XVII sec.) la tecnica prospettica viene sempre di più perfezionata. I
grandi affreschi su pareti e soffitti di chiese, saloni di palazzi e di abitazioni private
dilatano visivamente lo spazio grazie alla straordinaria rappresentazione di cieli e dettagli
architettonici in prospettiva, in cui
compaiono figure in posizioni dinamiche,
perfettamente inserite in grandiose
invenzioni scenografiche miranti a
coinvolgere emotivamente lo spettatore.
Si sviluppa così la pittura illusionistica,
un genere che cercava di rappresentare
sui soffitti di chiese e palazzi uno spazio
illusorio, infinito. Nelle volte affrescate
delle chiese venivano generalmente
raffigurati santi nell’atto di salire
miracolosamente in cielo. Se nel
Rinascimento la prospettiva aveva la
funzione di ordinare la composizione e
rappresentare uno spazio semplice e
misurabile, nell’età barocca la prospettiva
venne invece utilizzata per suggerire uno
spazio immaginario senza confini, in cui i
limiti del reale erano annullati attraverso il dinamismo e la teatralità dell’insieme.
Quando le scoperte scientifiche non permisero più all’uomo di avere certezze relative
all’ordine in cui fino ad allora erano stati gerarchicamente ricondotti tutti i fenomeni della
realtà, lo spettacolo della natura cominciò ad essere considerato in perenne mutamento e
venne rappresentato dagli artisti con composizioni di grande dinamismo. Anche
l’interesse per uno spazio infinito derivava in buona parte dalle scoperte astronomiche del
tempo che, come sosteneva Galileo, avevano ampliato i confini dell’universo fino ad allora
conosciuto.
Soprattutto nell’architettura lo spazio vive il suo trionfo. Slargare, aprire, sfondare, sono
gli obiettivi che sottendono la rappresentazione dello spazio nel Seicento. Nel Barocco, in
modo particolar, emerge la volontà di creare uno spazio che non appaia costretto entro i
limiti delle pareti. Scrive Zevi: “Il Barocco è liberazione spaziale, è liberazione mentale
dalle regole dei trattatisti, dalle convenzioni, dalla geometria elementare e dalla staticità,
è liberazione dalla simmetria e dall’antitesi tra lo spazio interno ed esterno”.
Fisic’Arte
81
I muri diventano ondulati per seguire il moto dello spazio interno e testimoniarlo
all’esterno creando una continuità ideale. Quello spazio che l’architetto ha modellato con
volumi e parti decorativi in movimento e che nel suo dispiegarsi implica l’assoluta
negazione di ogni chiara e ritmica divisione, che rifiuta la caratterizzazione solo
orizzontale o solo verticale, è uno spazio che dal pavimento alla cupola e da parete a
parete si presenta come un tutto unico, dove nulla appare separato e distinto, perché ogni
elemento è la logica continuazione di una forma organica e indiscindibile.
Con l’affermarsi della concezione newtoniana dell’universo, la fisica classica approdò ad
una concezione del tempo nettamente separato dallo spazio, nella quale la dimensione
temporale fu ritenuta fondamentalmente soggettiva e pertanto convenzionalmente
misurabile da un orologio, nel quadro di uno spazio esterno definibile nella sua
dimensione oggettiva. Pertanto la struttura cartesiana dello spazio e del tempo, entrambi
considerati come fattori indipendenti, si fondò su una netta e arbitraria distinzione tra
oggetto e soggetto, andando oltre la concezione rinascimentale, che aveva mantenuto
l'uomo al centro della capacità di integrazione cognitiva. Pertanto, la stabilizzazione della
concettualità meccanica dette origine a quella separazione tra due culture, scientifica e
artistica-umanistica che dominerà l'era industriale.
Nel Settecento si sviluppa la
scuola dei vedutisti, cioè pittori
che utilizzano la prospettiva per
dipingere paesaggi e vedute di
città inventate o copiate dalla
realtà. Le loro rappresentazioni
sono rigorose, sia nell’impianto
spaziale, frutto di attenti calcoli e
di espedienti come ad esempio la
“camera oscura”.
Gli spazi nell’architettura del
Settecento non hanno più
l’energia
o
l’elasticità
caratteristiche del Barocco, ma
acquistano una mobilità e a volte
una leggerezza tutte particolari. Le decorazioni che connotano il Rococò non hanno forti
rilievi rispetto alla superficie del muro e perciò non alterano l’effetto della parete dal
punto di vista della percezione spaziale: l’occhio coglie l’andamento dello spazio e i
margini che lo configurano. La razionalizzazione degli ambienti nelle costruzioni
neoclassiche, invece, produce una spazialità limpida definita da pareti con nitidi colori. Il
ruolo della luce è importante: eliminati gli effetti di addensamento delle ombre nei cavi e
di rilevamento delle superfici molto cari al Barocco, la luce diventa radente e chiara per
conferire agli spazi un geometrismo che ben si addice agli architetti neoclassici. Come
nell’architettura classica, lo spettatore, pur nella grandiosità degli interni e delle strutture,
coglie la razionale definizione dello spazio che s’appella alla ragione e non all’emozione.
Fisic’Arte
82
Boullè
Progetto per Cenotafio a Newton – 1784/85
Nel Progetto per il Cenotafio a
Newton, con un enorme globo
sferico posato su una base cili
ndrica a gradoni, Etienne-Louis
Boullè (1728-1799) risolve la
struttura in una pura forma
geometrica e la ragione della scelta
di questa forma la troviamo nelle
parole dello stesso architetto: “O
Newton, se con l’estensione dei tuoi lumi e il sublime tuo genio hai definito la figura della
Terra, io ho concepito il progetto di avvolgerti nella tua stessa scoperta”. Evocare, quindi,
con quel particolare corpo geometrico, sia la visione dell’immensità dell’universo sia il
trionfo della ragione, attraverso la più perfetta delle forme.
La rappresentazione del tempo su una tela,
come dimensione da aggiungere a quelle
tradizionali trovò la soluzione più semplice
attraverso la produzione di serie di
istantanee da osservare in sequenza. Fra le
più note ricordiamo La Cattedrale di Rouen,
dipinta da Monet (1840-1926) in cinquanta
quadri, molti dei quali hanno per oggetto
una stessa facciata ritratta dalla medesima
prospettiva. Tuttavia sono tutti differenti,
come mai? A cambiare è l’istante, l'ora, il
giorno.
3. L’arte del movimento
“Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a
noi, ma appare e scompare incessantemente”
Il dinamismo è il concetto chiave dell’Arte futurista. Se nel passato alla base del concetto
di bellezza c’era l’armonia e l’equilibrio ora per i futuristi, nella frenesia della vita
moderna, alla base della bellezza troviamo la velocità, il movimento, la dinamicità.
L’aeroplano e l’automobile diventano le immagini simbolo della modernità, esse
permettono di cogliere le sensazioni di velocità, di dinamismo e di simultaneità proprie
della realtà attuale.
Per gli artisti futuristi il problema era catturare la forma unitaria del corpo che si muove e
dello spazio in cui si muove, rappresentare la vita nel suo infinito succedersi. La
rappresentazione del movimento pone inoltre il problema della durata temporale
dell’azione, che i Futuristi cercano di esprimere attraverso la resa simultanea dei diversi
punti di vista e la scomposizione dell’immagine, che tende a fondere forme e oggetti con
Fisic’Arte
83
lo spazio circostante. Ispirandosi alla tecnica divisionista, essi fanno uso di colori puri,
accostandoli secondo la legge dei complementari con un cromatismo piuttosto acceso.
In un ristretto spazio urbano, un cagnolino viene
condotto al guinzaglio da una figura femminile di cui è
visibile soltanto la parte inferiore della veste e i piedi. Si
tratta della rappresentazione analitica delle fasi
successive di spostamento di un corpo sullo stesso
piano, attraverso la ripetizione delle parti in
movimento, che, in questo caso, sono le zampe e la
coda del cane, i piedi della donna e il guinzaglio che
oscilla. Lo studio del moto lineare nello spazio interessa
molte opere di Balla (1871-1958), in cui osserva di volta
in volta le figure umane che camminano, le automobili
in corsa o i voli degli uccelli, mettendone in risalto
alcune “linee andamentali” che ne determinano la
traiettoria. Uno stormo di rondini passa
turbinando fuori dalla finestra. Balla ne
ha colto la velocità e il movimento
collocandole in una sequenza precisa
una dietro l'altra. Sembra che abbia
incluso la rigidità dell'imposta per
contrastare con l'immobilità il continuo
movimento degli uccelli.
Il quadro è un ottimo esempio del
movimento futurista italiano, che
esaltava il concetto di movimento e
dinamismo come massima espressione
del mondo moderno.
Fisic’Arte
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La
precisione
nella
redazione
della
moltiplicazione cinetica della forma, nel
frazionamento dell’immagine in una sequenza di
fotogrammi successivi, suggeriscono lo svolgersi
del movimento ed evidenzia la sicura conoscenza
della cronofotografia. Infatti, Balla conosceva la
fotografia di Marey, che descriveva i movimenti
degli animali, compresi gli uccelli, con sequenze
ravvicinate di immagini. Il volo di rondini e
Bambina che corre sul balcone, emulano l’analisi
scientifica visiva di Marey.
Etienne- Jules Marey (1830-1904), che da fisiologo studiava il movimento, nel 1881 l’opera
del fotografo Muybridge lo indusse a cimentarsi nella fotografia. Marey registrava le fasi
successive del movimento su di un’unica lastra, e così facendo, mentre analizzava il
movimento, ne creava al contempo l’immagine virtuale. Marey ebbe un’influenza notevole
sui futuristi come Balla e Severini.
Con il progresso dell'aviazione nasce una nuova forma d'arte: l'aeropittura, che consiste nel
rappresentare la realtà vista dall'alto, in un
vasto cerchio di orizzonte, anzi quasi
sfericamente, con una mutabilità che è legata
alla tanto maggior velocità del mezzo.
Mediante le tre forme angolari bianche, che in
fasi ravvicinate passano dal quasi piatto
all'acuto, è espressa l'essenza e la velocità
dell'aereo, e mediante la diversa posizione di
case e campanili, si intuiscono le successive
posizioni dell'apparecchio che determinano
differenti inclinazioni del raggio visivo,
cogliendo in sintesi, con la violenza della
spirale, la vastità e la totalità del panorama.
Fisic’Arte
85
"Tutto si muove,
tutto corre, tutto
volge rapido (...), le
cose in movimento
si moltiplicano, si
deformano
susseguendosi, come
vibrazioni, nello
spazio che
percorrono"
La città che sale rappresenta l'immagine della città moderna di cui si vuole cogliere l'intero
dinamismo. Il cavallo, rappresentato in varie immagini, è simbolo di vitalità e di forza. La
nota dominante è il movimento, inteso come sintesi simultanea che travolge, in un unico
turbine ascensionale, uomini, cavalli e cose, tutti pervasi da uno stesso slancio creativo.
Infatti, il taglio diagonale della composizione e
l’utilizzo di un colorismo acceso, che procede con
energiche pennellate curvilinee, realizza l’effetto di
un moto a spirale. La raffigurazione del movimento
per Boccioni (1882-1916) non costituisce la semplice
rappresentazione di un fenomeno fisico e meccanico,
ma intende comunicare una sensazione dinamica,
espressione di uno stato d’animo.
Dinamismo di un corpo umano è uno dei più celebri
quadri di Boccioni, nel motivo del movimento di un
corpo umano, più volte affrontato. Le linee-forza qui
scompongono e ricompongono l'organicità del corpo,
e l'effetto dinamico diventa vivissimo anche per il
colore.
Boccioni, prima
di eseguire il quadro, studiava i problemi di ritmo e
di movimento mediante le linee-forza di tensione
compositiva: in Dinamismo di un ciclista anche il
colore è diventato nitido, pulito negli accordi e dà al
segno pittorico un'accentuazione espressiva di moto.
La scultura futurista si rivolge allo studio del
movimento nello spazio, cercando di fondere la
forma con l’ambiente e l’atmosfera circostante.
Fisic’Arte
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La Bottiglia si espande nello spazio con moto
spiraliforme, intorno ad un asse statico: è il
movimento potenziale di un oggetto
inanimato, sviluppato attraverso i rapporti
geometrici tra forma piramidale e cilindrica.
L’uomo di Boccioni, in Forme uniche nella
continuità dello spazio, raggiunge le massime
velocità non con mezzi naturali ma con
mezzi meccanici e di questa velocità
all’artista interessa studiare gli effetti sul
corpo. Con un passo lungo, le gambe tese, i
glutei evidenziati, testa e torace scomposti e
animati in modo che creino una
compenetrazione tra spazio e luce, la figura fende lo spazio. Boccioni riesce a rendere in
questa scultura l'idea dei piani che si intersecano tra di loro nello spazio, senza l'aiuto del
colore, ma facendo uso di forme particolari e astratte che si susseguono creando il
movimento. In questa figura è come se la scia del corpo in
corsa che attraversa lo spazio, si solidificasse. C'è una
simultaneità delle fasi del movimento che nella realtà
vengono scandite dal tempo. Il tempo viene eliminato in una
sorta di condensazione, i momenti consecutivi si fondono in
un momento unico e atemporale dove c'è una velocità
''congelata''. Eliminando il tempo che separa, divide le fasi
del movimento della visione sequenziale, Boccioni realizza
una sintesi tra figura e spazio. La continuità tra figura e
spazio esiste perchè la figura è viva, si muove e il suo
dinamismo le permette di diventare "continua", quindi
infinita, nello spazio.
Boccioni, attraverso forme scomposte come le pinne taglienti
o sguscianti dalle superfici lisce o angolose, assemblate però
in un blocco duro e compatto, sperimenta pure la
rappresentazione del moto relativo della figura che procede
nello spazio e del moto assoluto che sottende ogni aspetto
dell’universo.
Tra il 1912 e il 1915, prende vita il Vorticismo, movimento culturale che grazie alla
raffigurazione di forme a vortice intendeva esprimere il concetto di energia, forza e
dinamismo, e che si pone come antagonista del Futurismo, scardinandone alcuni
presupposti e suggerendo precocemente degli sviluppi controproducenti insiti nel
progresso tecnologico, e rappresenta la prima espressione di astrattismo inglese. In realtà
il vorticismo ha molti punti di contatto con la poetica futurista, oltre che con quella
cubista, entrambe interessate alla possibilità di inserire nella bidimensione della tela
l’effetto dinamico l’una del movimento nello spazio, l’altra del movimento indotto dal
trascorrere del tempo.
Il più rappresentativo di questo movimento è David Bomberg (1890-1957), il cui
linguaggio, tendente all’astrattismo, è spigoloso e duro, con giochi di linee geometriche
che generano immagini vorticose impetuosamente dinamiche, con effetto caleidoscopico,
molto prossime all'astrazione totale. L’arte di Bomberg, all’inizio fortemente influenzata
Fisic’Arte
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dal cubismo, progressivamente si libera dalla figuratività imitativa e dalla verosimiglianza
cromatica per giungere ad una personale interpretazione del Futurismo, dominata da ritmi
obliqui, vivaci campiture cromatiche giocate entro un numero limitato di colori dai toni
contrastanti, con prevalenza dei blu, che accentuano il senso di una vitalità impetuosa ed
esuberante.
La rappresentazione pittorica del movimento su
un’unica tela trova una delle espressione più
significative nell’opera di Malevic, L’arrotino, in cui
l’uomo si concentra sul suo lavoro, ma non è solo
lui che si muove ma è anche il paesaggio
circostante, che sembra subire l’effetto del suo
movimento , della sua voglia di trasformazione .
I colori sono sgargianti, dinamici e non permettono
all’occhio umano di stare fermo, tutto è in
movimento, nulla è escluso.
Nelle parole dello stesso Duchamp (1887-1968), l’opera Nudo che
scende le scale è “un’organizzazione di elementi cinetici,
un’espressione del tempo e dello spazio attraverso la
rappresentazione astratta del movimento”. Il dinamismo viene
congelato in una sovrimpressione di istantanee, che trasforma il
quadro in una sequenza cinematografica, riuscendo a
trasmettere la sensazione del movimento anche meglio di molti
quadri di analogo genere prodotti dai futuristi.
Fisic’Arte
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4. Il mondo dell’arte e la fisica classica
Il mondo medievale era costituito come una gerarchia rigorosa sorretta da un’unica forza
che dall’alto ne dirigeva e determinava tutti gli aspetti. Il mondo era un ordine necessario
e perfetto nel quale ogni cosa aveva il suo posto e la sua funzione ed era mantenuta in
questo posto e in questa funzione dalla forza infallibile che determinava e guidava il
mondo dall’alto. Tutto ciò che l’uomo poteva e doveva fare era conformarsi a quest’ordine.
Le istituzioni fondamentali del mondo medievale, l’Impero, la Chiesa, il Feudalesimo, si
presentavano come i guardiani dell’ordine cosmico e gli strumenti della forza che lo
reggeva. In un mondo siffatto, la scienza non poteva desumere i suoi principi che dalle
stesse gerarchie e leggi in cui si concretava l’ordine universale. In più, la scienza era
guardata con sospetto, non soltanto perché attinta da fonti religiosamente sospette
(musulmane e pagane), non soltanto per i pericoli di eresia che sembrava implicare a ogni
passo, ma soprattutto perché minacciava di operare come elemento eminentemente
dinamico, e quindi disturbatore dell’ordine costituito.
Nell’affresco di Raffaello (1483-1520) nella Stanza della Segnatura in Vaticano si può notare
un’idea di universo dominato dalla certezza e dalla presenza di Dio. Terra e cielo sono ben
distinti e ciascuno ha un posto ed un ruolo preciso. Il cielo è la perfezione, la terra,
imperfetta, il mondo degli uomini. E’ il cielo di Aristotele.
Aristotele (384 a.C.-322 a.C.) formulò una cosmologia scientifica destinata a fornire la
rappresentazione dell’universo per duemila anni. L’universo fisico, era, secondo
Aristotele, unico, chiuso su stesso, limitato nello spazio ed illimitato nel tempo, diviso in
due regioni obbedienti a leggi fisiche diverse: i cieli formati dall’etere, inalterabili e
incorruttibili, soggetti al moto circolare, il più perfetto dei moti, e dove la causa della
regolarità e dell’eternità del moto degli astri andava ricercata nel primo motore immobile
Fisic’Arte
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che imprimeva il moto a tutte le sfere in cui erano incastonati gli astri; il mondo sublunare,
il mondo del divenire, formato dai quattro elementi, nel quale le cose nascevano, si
corrompevano e perivano e dove il moto degli oggetti era rettilineo o violento.
Con Leonardo da Vinci (1452-1519) la scienza, seppur in modo ancora approssimativo, si
avvia verso la visione moderna. Ma quali sono le idee di Leonardo nel campo della fisica?
Ebbene a Leonardo dobbiamo la teoria del moto ondoso del mare, anzi considera il moto
ondulatorio il più diffuso moto naturale, per cui questo rappresenta il più universale
concetto fisico che abbia elaborato. Per Leonardo luce, suono, colore, magnetismo, odore e
persino il pensiero si propagano per onde: “il moto è causa d’ogni vita”.
Attraverso lo studio del volo umano, la sua più superba scoperta, Leonardo riconosce che
la compressione dell’aria sotto le ali produce la forza che noi oggi chiamiamo sostentatrice,
studia la resistenza dell’aria e l’atmosfera terrestre, dando vita a quella che oggi
chiamiamo fisica atmosferica.
La pittura, per Leonardo, è scienza, rappresentando «al senso con più verità e certezza le
opere di natura». Infatti, Leonardo studiò per primo in Europa la possibilità di proiettare
immagini dal vero su un foglio dove potevano essere facilmente ricopiate, con la
cosiddetta camera oscura, nella quale veniva praticato un unico foro su una parete, sul
quale veniva posta una lente regolabile. Sulla parete opposta veniva così a proiettarsi
un'immagine fedele e capovolta del paesaggio esterno, che poteva essere copiata su un
foglio di carta appositamente appeso, ottenendo un risultato di estrema precisione.
I codici, scritti e disegni in forma di appunti che Leonardo ha redatto lungo tutto il corso
della sua vita, rappresentano la dimostrazione del suo procedere mobile e creativo, capace
di passare dall'indagine del movimento delle acque agli studi sul volo usando
Fisic’Arte
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indifferentemente le parole come i disegni. L'evolversi del suo pensiero scientifico e
artistico, rintracciabili nei suoi dipinti, ne fanno un corpus scientifico di valore unico, dove
si manifesta un reciproco scambio, una complementarità intrinseca tra arte e scienza.
La Rivoluzione Astronomica, con cui prende avvio la Rivoluzione Scientifica nel XVII
secolo, rappresenta uno degli avvenimenti culturali più importanti della storia
dell’Occidente, che hanno maggiormente contribuito al passaggio dall'età anticomedioevale all'età moderna. Tale rivoluzione comincia con Copernico (1473-1543), dando
così inizio ad un processo di pensiero che ha coinvolto, al tempo stesso, le scienze fisiche,
la filosofia, la teologia e le arti umanistiche. Di conseguenza, l'intricato processo che porta
alla Rivoluzione astronomica, intesa soprattutto come un passaggio “dal mondo chiuso
all'universo infinito”, non è soltanto un fatto astronomico e scientifico, ma anche un
appassionante avvenimento culturale, che mutando la visione complessiva del mondo che
per secoli era stata propria dell'Occidente, segna in profondità anche gli altri ambiti della
conoscenza umana come quella artistica.
Galileo Galilei (1564-1652) è il pioniere
della nuova scienza, di questa nuova
visione del mondo, e per questo motivo è
tanto più significativo il rapporto,
strettissimo, che ha avuto con le arti
figurative.
Galileo ha usato l'immagine e ha
contribuito a far sì che questo mezzo di
espressione entrasse da protagonista nella
comunicazione della scienza. Quando nel
1609, ebbe l'idea di puntare il cannocchiale
verso il cielo, a iniziare dalla Luna, non si
limitò a scrivere ciò che aveva visto, ma
cercò anche di raffigurarlo, dandoci immagini molto precise e ben dettagliate soprattutto
della Luna. Il suo Sidereus Nuncius è diventato un libro spartiacque nella storia dell'uomo
non solo per il suo contenuto e per come è stato scritto, ma anche per come è stato
raffigurato.
Ma il rapporto con la pittura di Galileo non si limita alla sua capacità di disegnare. Le sue
scoperte sono diventate uno tra i soggetti più frequentati dalla nuova arte del Seicento, in
particolare del naturalismo barocco.
Adam Elsheimer (1578-1610) pochi mesi
dopo la pubblicazione del Sidereus ha
rappresentato il cielo galileiano nella sua
Fuga in Egitto, dove è riprodotta la Luna
insieme a molte stelle e si riconosce
persino la Via Lattea. Analizzando poi le
costellazioni rappresentate la costellazione
in alto a destra potrebbe suggerire l'Orsa
Maggiore seppur rappresentata troppo
piccola rispetto al diametro della Luna. Si
sostiene che la rappresentazione del cielo
sia esattamente quella visibile a Roma il 16
Fisic’Arte
91
giugno 1609 e che l'autore abbia fatto uso di un telescopio. Tuttavia, una ricostruzione a
computer di questo cielo ritenuto una fedele rappresentazione del vero cielo del 16
giugno, o del 21 marzo, o del 19 aprile 1609, ha stabilito che in realtà non si tratta di una
copia "dal vero" e non si tratta di una notte precisa.
Ludovico Cardi detto il Cigoli (1559-1613), grande amico di Galileo, ha rappresentato più
volte la Luna descritta dallo scienziato pisano. Nella corrispondenza fra i due si legge
spesso delle macchie solari che il pittore toscano osservò personalmente, confermando le
tesi dell'amico scienziato. In questo mutuo scambio il Cigoli dette l'occasione a Galileo di
inserirsi, con una breve dissertazione contenuta in una lettera, nel dibattito, ormai
divenuto passatempo intellettuale, su quale fosse l'arte preminente tra la pittura e la
scultura, visto che si riteneva la scultura superiore alla pittura per la possibilità che aveva
di riprodurre la tridimensionalità dei soggetti. Nella lettera del 26 giugno 1612 lo
scienziato, premettendo la differenza tra percezione tattile e visiva, accordò alla pittura la
supremazia rispetto all'arte sorella:
Di quel rilevo che inganna la vista, ne è così partecipe la pittura come la scultura, anzi
più; poiché nella pittura, oltre al chiaro et allo scuro, che sono, per così dirlo, il rilevo
visibile della scultura, vi ha ella i colori naturalissimi, de' quali la scultura manca. […]
Non ha la statua il rilevo per esser larga, lunga e profonda, ma per esser dove chiara e
dove scura. […] E tutto questo è nella pittura non meno che nella scultura, dico il chiaro,
lo scuro, la lunghezza e la larghezza: ma alla scultura il chiaro e lo scuro lo dà da per sè la
natura, ed alla pittura lo dà l'arte: adunque anche per questa ragione si rende più
ammirabile un'eccellente pittura di una eccellente scultura.
Galileo, in linea con il suo metodo di
indagine, propose una semplice
esperienza: se si colora, infatti, un
oggetto tridimensionale in modo che
dove cade la luce risulti scuro,
questo perde "il rilievo" e colui che
guarda vede l'oggetto come fosse
bidimensionale.
Un importante tributo che il Cigoli
pagò allo scienziato fu l'affresco
dell'Assunzione della Vergine nella
Cupola della Cappella Paolina in
Santa Maria Maggiore a Roma, nel
quale dipinse la luna sotto i piedi di
Maria non mentre si ergeva sulla
classica luna crescente, ma, per la
prima volta nella storia dell’arte,
esattamente come l'aveva rivelata il telescopio di Galileo e descritta nel Sidereus Nuncius:
scabrosa, con i crateri e le ombre, e una specie di nuvola sottostante che simula i vapori,
insomma corruttibile come la terra. La scoperta scientifica, quasi contemporaneamente alla
sua diffusione, viene quindi adattata al campo della figurazione sacra in una delle più
importanti cappelle della Roma del ‘600.
È significativo ricordare il giudizio che diede dell’affresco uno degli uomini più colti di
Roma, Federico Cesi, scienziato e fondatore dell’Accademia dei Lincei, in una lettera
Fisic’Arte
92
inviata a Galileo nel 1612. È un elogio all’affresco del Cigoli, il
quale «come amico e leale» di Galileo, «sotto l’immagine della beata
Vergine ha dipinto la Luna nel modo che da Vossignoria è stata scoperta,
colla divisione merlata e le sue isolette».
Questa luna opaca e materica, come dipinta dal Cigoli, entrerà poi
lentamente nell’iconografia dell’Immacolata, come dimostra la
splendida tela di Murillo (1618-1682).
Un precedente illustre, ed anche il primo, di una rappresentazione
realistica di un fenomeno astronomico in una opera artistica, è
L’adorazione dei Magi (1303) di Giotto.
Giotto raffigurò la Cometa di Halley che aveva osservato al suo
passaggio nel 1301 usandola come modello per la stella di
Betlemme. Inoltre, nel giorno dell'Annunciazione, dedicato alla
Madonna, un raggio di sole penetra da una fessura praticata ad
una finestra della cappella e si verificano degli effetti di luce straordinari. Alcune strisce di
luce colorate colpiscono la Madonna e salgono sulla miniatura della Cappella, a
testimonianza della conoscenza del concetto di eclittica.
Giotto – Adorazione dei Magi (1303)
Giotto – Adorazione dei Magi (1303)
Grazie a Galileo e a Newton la scienza, e la fisica in particolare, subisce un profondo
riassestamento concettuale, aprendo le porte all’età della modernità. Astronomia, fisica e
cosmologia da un lato, metodo di ricerca filosofica dall'altro, furono solidali e costanti nel
procedere secondo una sola direzione, quella che avrebbe portato a concepire il Mondo
come un'unica grande macchina, il cui meccanismo poteva rivelarsi banale a un'indagine
scientifica condotta con i nuovi strumenti della fisica e della matematica. Galileo, inoltre,
riteneva che la descrizione del mondo dovesse attuarsi passando per una riduzione di
tutte le sue caratteristiche a quelle solamente che fossero quantificabili e misurabili.
Ma fu con Newton (1643-1727) che l'immagine dell'universo-macchina, dell'ideale
riduzionista, ebbe il suo trionfo. Egli realizzò il sogno di Cartesio e sviluppò una completa
formulazione matematica della visione meccanicistica della natura. L'universo newtoniano
Fisic’Arte
93
era un immenso sistema meccanico governato da leggi assolute ed esatte, leggi generali,
valide per spiegare tanto la caduta di una mela dall'albero quanto i movimenti dei pianeti.
Nei Principia mathematica Newton mette subito in evidenza il proprio atteggiamento
riduzionista; anzitutto, gli elementi che formano il Mondo si muovono, per il fisico, in uno
spazio e in un tempo assoluti, non condizionati cioè dagli eventi che si verificano dentro di
essi, quindi eterni e immutabili. Questi elementi, poi, sono particelle, atomi, formati tutti
della stessa materia e messi in movimento dalla forza di gravità, la quale agisce a distanza
e istantaneamente. Nella meccanica di Newton tutti i fenomeni fisici si riconducono al
moto di particelle elementari e materiali causato dalla loro attrazione reciproca; un'unica
grande legge, quindi, a spiegazione della molteplicità degli eventi del Cosmo. L'equazione
del moto di Newton diventa così la legge fondamentale del funzionamento dell'universo,
la molla che carica l'orologio perfetto di Cartesio, eterna e
immutabile. In questa maniera si connettono fra loro, in
un'unione destinata a durare per tutto il Settecento e buona
parte dell’Ottocento, la visione meccanicistica della natura
e il determinismo, cioè quel atteggiamento che tende a
interpretare ogni fenomeno come la manifestazione di una
semplice catena di causa-effetto.
In questo quadro, l’Onnipotente di William Blake (17571827) è possibile ritrovare una chiara esemplificazione
dell’universo di Newton, un universo in cui le leggi della
meccanica dominano, in cui tutto si riduce a moto, in cui
Dio è un geometra.
Nella seconda metà del XVIII secolo, la società inglese subì
un mutamento sostanziale in conseguenza del progresso
scientifico e tecnologico, basti pensare alla macchina a
vapore inventata da Watt nel 1769, che trasformò un paese
prevalentemente agricolo in una vera potenza industriale. In questo quadro culturale si
inseriscono alcuni artisti di grande rilievo, che fanno delle nuove scoperte scientifiche il
fulcro predominante della loro arte.
Joseph Wrigth di Derby (1734-1797) denominato il pittore della scienza, fu il primo pittore
professionista che espresse direttamente lo spirito della rivoluzione industriale, e fu un
pioniere soprattutto quando scelse
l’industria come soggetto di molti
dei suoi più importanti dipinti. Con
Wrigth la scienza diviene soggetto
dell’opera
d’arte,
mezzo
di
divulgazione,
occasione
di
confronto e di emancipazione
sociale.
La scena del quadro raffigura uno
scienziato mentre sta eseguendo un
esperimento nuovo per quei tempi:
dimostrare che l'assenza di ossigeno
provocava la morte. Per questo
l'aria, grazie ad una pompa
Fisic’Arte
94
pneumatica perfettamente uguale a quelle in uso all’epoca e che è la protagonista della
scena, veniva pompata fuori da un contenitore nel quale era rinchiuso un animaletto (in
questo caso un pappagallo bianco). Sul tavolo ci sono le due parti di una "sfera di
Magdeburgo" che veniva usata per simulare, in piccolo, lo stesso esperimento del vuoto
d'aria: le due parti venivano unite, poi l'aria all'interno veniva pompata fuori, in maniera
tale che le due parti diventavano inseparabili, formando una sfera monolitica. La pompa
ad aria venne inventata da Otto von Guericke nel 1650, anche se il suo costo dissuase la
maggior parte dei contemporanei a costruire l'apparecchio.
Wright per la prima volta propone un soggetto scientifico, in questo caso un esperimento
di vuoto pneumatico, con la stessa ambientazione e rispetto precedentemente riservati ai
soggetti religiosi. La scena, illuminata solo da una candela, e le diverse emozioni
evidenziate dai vari personaggi esprimono i sentimenti contrastanti dell'epoca verso la
scienza: meraviglia e timore, interesse e sgomento, curiosità e paura. A quel tempo
venivano espressi dubbi sul fatto che le conoscenze razionali o scientifiche fossero in
grado di rispondere a tutte le domande e di spiegare, in maniera soddisfacente, tutti i
misteri della natura.
Nell'ultimo decennio del XIX secolo la fisica aveva accettato le idee rivoluzionarie di
Maxwell e di Boltzmann, accogliendo nel suo seno leggi probabilistiche; ma tra certezza e
probabilità c'e un abisso. La fisica classica si trovò, dunque, di fronte a un dualismo
inevitabile. In presenza di una qualunque legge che credesse d'interpretare un fenomeno,
la fisica si doveva chiedere: è questa una legge dinamica, causale o una legge statistica di
probabilità? Davanti a questo dualismo i fisici si divisero in due schiere. I pochi volevano
superarlo negando l'esistenza di leggi certe e dando a tutte le leggi fisiche carattere di
probabilità; i molti volevano ricondurre tutte le leggi statistiche a leggi dinamiche
elementari. Le leggi statistiche, dicevano, sono sintesi di leggi individuali dinamiche
causali, che la nostra mente non riesce a seguire tutte assieme; la probabilità che risulta
dalle leggi statistiche è solamente la misura della nostra ignoranza; la scienza non si può
fermare alle leggi statistiche, ma deve risalire da queste alle leggi individuali dinamiche
che le compongono, perché solamente così la nostra mente può seguire i nessi causali.
Ovviamente questi fisici ritenevano pienamente valido il rigido determinismo dei
fenomeni naturali, affermato da Laplace. Ma gli ultimi anni del XIX secolo dovevano
mettere in discussione questo rigido determinismo e dare il via alla crisi della fisica
classica che si concretizzerà nei primi decenni del XX secolo ad opera della teoria della
relatività e della meccanica quantistica.
Nell’arte tutto ciò si manifesta nell’inquietudine, nell’insofferenza, nella ricerca di nuovi
linguaggi estetici. L’arte diventa espressione della coscienza dell’uomo contemporaneo
lacerato dalla mancanza di facili certezze.
Lo storico dell'arte Arnheim ha cercato di dimostrare in un suo saggio (questo sarà
argomento del prossimo capitolo) che l’arte contemporanea nasce dallo scontro tra
semplicità (ordine) e caos (entropia) e forse è anche da questo che scaturiscono i molteplici
linguaggi caratterizzanti le tendenze stilistiche tipiche dell’arte contemporanea.
Tutto questo implicherà, soprattutto nel Novecento, un notevole spostamento di
prospettiva: si mostra anzitutto come ogni idea di esattezza nella scienza, se è scaturita da
una concezione del Mondo come meccanismo semplice, sia fittizia. Di conseguenza, si è
manifestato il carattere puramente descrittivo delle leggi scientifiche, la loro incapacità,
cioè, di andare oltre la semplice supposizione di uno stato di cose, di spiegare davvero un
fenomeno, fatto questo che mette sotto una luce diversa anche il concetto di osservazione e
Fisic’Arte
95
di esperimento, nonché quello di verità. Se le leggi non ci dicono nulla di preciso e
affidabile riguardo il verificarsi di un fenomeno nello spazio e nel tempo, se sono ormai
soltanto la descrizione di una possibilità che le cose accadano, allora la scienza si riduce ad
essere solo uno dei possibili discorsi sul mondo, non più l'unico esatto. Del resto,
l'osservazione di un fenomeno non è più il punto di partenza per individuare una
spiegazione; compiere un esperimento non è più un atto costitutivo della conoscenza, ma
piuttosto una pratica esplorativa, un modo come un altro per conoscere. Siamo passati così
da un'immagine della scienza come episteme, cioè sicurezza, certezza, raggiungimento
della verità, alla scienza come doxa, sapere fallibile, ipotetico, opinione, un discorso intorno
alle cose. Forse è questo l'aspetto più importante che porterà alla crisi della fisica classica e
che rappresenterà l’aspetto fondamentale della scienza del '900.
Fisic’Arte
96
Capitolo 5
ARTE#E#FISICA#MODERNA#
1. Introduzione
Con il nome di fisica moderna intendiamo tutti gli ambiti e i settori della fisica che fanno
uso della teoria della relatività e della meccanica quantistica, teorie scientifiche prodotte
nel XX secolo sulla base di un’analisi critica dei fondamenti della fisica classica, in
particolare della meccanica newtoniana.
Tra le implicazioni più importanti che la teoria della relatività (ristretta e generale)
introduceva nel nuovo quadro che si andava disegnando vi era la variabilità dello spazio,
del tempo e della massa con la velocità, la sostanziale identità tra massa ed energia, la
deformabilità dello spaziotempo con la massa.
La teoria einsteiniana non intaccava, però, il quadro deterministico (validità del principio
di causa ed effetto) della fisica classica. La grande rivoluzione in questo senso si ebbe con
la meccanica quantistica, le cui più importanti conseguenze per la nuova visione del
mondo erano: il dualismo onda-corpuscolo, sia per l'energia che per i corpuscoli materiali
e la natura probabilistica della conoscenza del mondo microscopico, per cui la causalità
deterministica, pilastro delle teorie fisiche precedenti, veniva abbandonata in favore di
teorie basate esclusivamente sulla probabilità.
Quando si discute sull’arte moderna e contemporanea, quindi, è determinante aprirsi a
nuove possibilità di discussione, cioè alle identità culturali che la circondano, e quindi di
fondare, in particolare, sulla stutturalità delle conoscenze della fisica teorica la frontiera di
corroborazione capace, non di spiegare, ma di attestare la pertinenza dell’opera d’arte al
momento storico-culturale che le ha prodotte. La fisica apparirà, allora, come uno
strumento efficace capace di vincolare verso le conoscenze del nostro tempo le
testimonianze e le espressioni dell’arte.
Le scienze non possono essere separate dall’avventura umana; Einstein diceva: “Dove il
mondo cessa di essere il palcoscenico delle nostre speranze e dei nostri desideri per
divenire l’oggetto della libera curiosità e della contemplazione là iniziano arte e scienza”.
Se cerchiamo di descrivere la nostra esperienza all’interno degli schemi della logica,
entriamo nel mondo della scienza; se invece le relazioni che intercorrono tra le forme della
nostra rappresentazione sfuggono alla comprensione razionale e pur tuttavia manifestano
intuitivamente il loro significato, entriamo nel mondo della creazione artistica. Ciò che
accomuna i due mondi è l’aspirazione a qualcosa di non arbitrario, di universale.
I due pilastri concettuali della fisica moderna, la Relatività e la Meccanica Quantistica,
però, hanno caratteristiche strutturali e connotazioni epistemologiche molto diverse, e
queste differenze influiscono direttamente sulle immagini e sul linguaggio che utilizziamo
Fisic’Arte
97
per queste due visioni del mondo, ed è da queste che vogliamo partire per un viaggio
attraverso le suggestioni cognitive che hanno prodotto nell’arte del XXI secolo.
2. Spazio e tempo nell’arte del XXI secolo
La fisica, come formatrice di nuovo sapere, attraverso le sue scoperte ed i suoi principi, che
possono essere considerati come strumenti intellettuali con cui gli uomini ritengono utile
ed opportuno organizzare le loro rappresentazioni mentali della struttura interna del
mondo reale, diventa il luogo centrale della formazione dei processi di sviluppo della
conoscenza. Il concetto di spazio e di tempo sono così basilari per la nostra descrizione dei
fenomeni naturali, che la loro radicale modificazione, comporta indubbiamente una
modificazione dell’intero sistema di riferimenti che noi usiamo in fisica per descrivere la
natura.
La tridimensionalità dello spazio e l’unicità del tempo appartengono ad un modello di
percezione cartesiana del mondo nella quale si ritiene che le immagini siano una
riproduzione fedele della realtà. La percezione tridimensionale dello spazio è stata
determinata antropologicamente dalla necessità di sviluppare facoltà mentali di
riconoscimento della materia e del suo movimento. Tale prospettiva percettiva diventa
insufficiente quando il problema epocale della percezione immaginativa si focalizza sulla
rappresentazione non direttamente percettibile dell’energia. Inoltre, l’immagine
prospettica fissata sulla tela e’ limitata dal fatto che può rappresentare solo un istante della
percezione, pertanto la prospettiva coglie un solo punto di vista come una foto coglie solo
un momento quale immagine del fotogramma. La semantica della espressione
unidimensionale e lineare del tempo esprimibile in termini "passato," "presente" e "futuro”
si associava perfettamente alla prospettiva nelle tre dimensioni dello spazio ma tale
visione era divenuta insufficiente a dare una descrizione adeguata del divenire del tempo.
Se a queste considerazioni di carattere puramente geometrico aggiungiamo il fatto che le
immagini della pittura non potevano più esercitarsi a competere con la fotografia ed il
film nel riprodurre fedelmente la realtà percepita mediante una concezione tradizionale
prospettica della visione, allora la concettualità del modello cartesiano entra in crisi e gli
artisti dell’inizio del XX secolo si trovarono nella necessità di esprimere le sensazioni
artistiche attraverso schemi pittorici più profondi e dinamici, del tutto rivoluzionari
rispetto all’arte fino ad allora prodotta.
La fine del XIX secolo, pertanto, si caratterizza come un periodo pieno di fermenti sia nel
campo scientifico che in quello delle arti figurative.
La meccanica newtoniana era accreditata come la più compiuta delle scienze e la
termodinamica aveva trovato una descrizione coerente nell’ambito del meccanicismo.
D’altra parte l’elettromagnetismo aveva raggiunto piena maturità, ma sembrava
irriducibile alla meccanica. Si era in presenza di due teorie di pieno successo nel loro
ambito, ma assolutamente irriducibili. La concezione meccanicistica del mondo quindi
entra in crisi e ciò apre la strada alle due grandi teorie scientifiche del XX secolo, la Teoria
della Relatività e la Meccanica Quantistica, che rivoluzionano la visione del mondo
macroscopico e microscopico.
Così quando nel 1905 appare la teoria di Einstein della Relatività Ristretta, dove il concetto
di spazio e quello di tempo sono intimamente ed inscindibilmente connessi, sì da formare
un continuo quadridimensionale chiamato “spazio-tempo” (detto anche cronotopo), le
idee classiche di uno spazio assoluto e di un tempo assoluto vengono radicalmente mutate
e poi abbandonate. Secondo la teoria di Einstein, tanto lo spazio quanto il tempo sono
Fisic’Arte
98
concetti relativi, ridotti al ruolo soggettivo di elementi del linguaggio che un particolare
osservatore usa per descrivere fenomeni naturali. D’ora in poi non potremo più parlare di
spazio senza parlare anche di tempo e viceversa. La conseguenza più importante del
sistema relativistico è stata la presa di coscienza del fatto che la massa non è altro che una
forma di energia. Anche un oggetto in quiete ha dell’energia immagazzinata nella sua
massa e la relazione fra le due è data dalla famosa equazione E=mc2 , dove “c” è la
velocità della luce.
I cubisti, i futuristi e i dadaisti conoscevano certamente questi studi, o perlomeno
respiravano il nuovo clima che la fisica andava elaborando. La Teoria della Relatività
metteva in questione la stabilità di tutte le forme spazialmente estese, sostenendo che i
corpi cambiano la loro forma, quando si muovono, rispetto ad un sistema di riferimento
fisso. Un corpo rigido, che ha la forma di una sfera quando è visto in stato di quiete,
comincerà ad assumere una forma ellissoidale, quando è osservato in movimento; tutti gli
oggetti tridimensionali si ”contrarranno in figure piane” quando la loro velocità relativa
raggiunga la velocità della luce. La teoria generale della relatività demolisce invece il senso
convenzionale di stabilità dell’intero universo materiale. Secondo Einstein ogni frammento
di materia nell’universo genera una forma gravitazionale che accelera tutti i corpi
materiali nel suo campo e modifica la loro dimensione visibile: non ci sono più corpi rigidi.
L’Avanguardia Storica dei primi anni del secolo corre in parallelo alle scoperte della
Relatività. Il Cubismo infatti rifletterà il senso della relatività della conoscenza; tale
movimento non esprime più l’oggetto nella sua tradizionale collocazione spaziale, ma ne
smonta la volumetria, cercando di rappresentare dell’oggetto tutti gli aspetti esprimibili in
una simultaneità di visioni. Nel Futurismo lo spazio è reso come elemento attivo e
costituente l’atmosfera, al pari del “soggetto”,
un’atmosfera che è messa in movimento dai corpi
in moto che la fendono e che interessa due entità:
l’oggetto che si muove e lo spazio in cui si muove. I
corpi, sotto la spinta della velocità, si deformano
fino al limite dell’elasticità e si scompongono
secondo le tendenze delle linee di forza.
Ma procediamo con ordine.
Prima della grande innovazione artistica introdotta
da Picasso, vari artisti cominciarono a svincolarsi
dalle leggi della costruzione prospettica, in
particolare Cezanne (1839-1906) si impegnò a
variare la prospettiva, in modo che le parti che
compongono i suoi quadri fossero percepite da
angoli di percezione diversi. Nel dipinto
Natura morta Cezanne propone diversi punti di
fuga in modo da mettere in evidenza più piani
prospettici: il piatto e il piano del tavolo sono
proposti sia frontalmente che dall'alto.
La luce soffusa che avvolge l'immagine del
dipinto Mont Saint-Victorie illumina una
composizione composta, ferma, solida ed
ordinata, nella quale i piani, soprattutto
verticali, si dispongono in modo organico e
Fisic’Arte
99
preciso, secondo una costruzione dell'insieme che vuole analizzare da più punti di
osservazione il soggetto nella sua struttura profonda.
Esiste in Cezanne una visione prospettica, ma l'osservazione avviene da angoli visivi
diversi, con spostamenti del punto di vista a volte minimi, e neppure percepibili ad un
primo sguardo, ma che di fatto demoliscono il principio fondamentale della prospettiva:
l’unicità del punto di vista.
Un altro punto fondamentale della ricerca di Cezanne è l'intenzione di trovare in qualche
modo una lettura geometrica della realtà che conferisca chiarezza e leggibilità
all'immagine, tanto che egli suggerisce, in una lettera inviata ad un giovane pittore, di
guardare la natura attraverso "il cilindro, la sfera, il cono", elementi geometrici elementari
in grado di facilitare una semplificazione delle forme che mantenga al tempo stesso
solidità e profondità alla rappresentazione.
Cézanne, primo decostruttore della forma dall’interno, distruttore del punto di vista
unico, pone importanti premesse che verranno riprese e sviluppate nel cubismo e che si
ritrovano, all’inizio del ‘900, in un importante filone dell’architettura basato sulla ricerca
della verità strutturale della forma architettonica attraverso un approccio analitico e
matematico alla realtà, il razionalismo, di cui è fondatore Le Corbusier (1887-1965).
Per questa via Cezanne propone per la prima volta una realtà analizzata intellettualmente
secondo una logica non naturalistica, ed è facile capire come i giovani artisti del
movimento cubista, primo fra tutti Picasso, siano stati colpiti dall'opera di Cezanne.
Avevano davanti ciò che da sempre ricercavano, l'esempio di una realtà non copiata ma
costruita ed espressa attraverso la ricerca dei suoi aspetti essenziali, eterni, sovrasensoriali,
pensata con la mente in tutte le sue varianti possibili, che l'occhio non può percepire
contemporaneamente.
Su questa ricerca, che col tempo divenne il tema fondamentale per l'artista, osserva molto
pertinentemente Marco Vozza: "Alla luce del principio di indeterminazione di Heisenberg,
lo scienziato osserva il comportamento degli elettroni allo stesso modo in cui Cezanne pose
il suo cavalletto di fronte alla Saint-Victoire, consapevole dell'inevitabile relazione di
incertezza determinata dal suo punto di osservazione".
Cezanne pose quindi le basi non solo del Cubismo, ma grazie alla sua tecnica pittorica
aprì le strade alle avanguardie artistiche europee del '900 che sconvolgeranno il mondo
dell'arte cambiandolo per sempre.
Ma la vera grande rivoluzione delle forme pittoriche, la definitiva rottura con la
prospettiva rinascimentale e l’introduzione di un nuovo concetto di spazio pittorico sono
prodotti da Picasso. Analizziamo le varie fasi e i contenuti più significativi di queste
innovazioni artistiche e concettuali.
Berna, 30 giugno del 1905. Un giovane fisico tedesco, Albert Einstein (1879-1955), 26 anni
appena compiuti, invia alla rivista "Annalen der Physik" l’articolo sulla "Elektrodynamik
bewegter Körper" in cui assume che la velocità della luce è costante in qualsiasi sistema di
riferimento e che il principio di relatività galileano è valido per ogni sistema fisico in moto
relativo uniforme. L’articolo manda definitivamente in frantumi la concezione classica del tempo e
dello spazio.
Parigi, anno 1906. Un giovane pittore spagnolo, Pablo Picasso (1881-1973), 25 anni appena
compiuti, dà la prima pennellata a Les Damoiselles d’Avignon. Le cinque damigelle di
Avignone rivivono sulla tela di Picasso in una «prospettiva spaccata, frantumata in volumi…
incidenti l’uno nell’altro», che ce le propone in simultanea sebbene ciascuna viva in una sua
dimensione spaziale (la donna in basso a destra mostra la schiena ma il volto è ritratto
Fisic’Arte100
frontalmente). Viene rifiutata ogni illusorietà spaziale: ogni distinzione tra oggetto e
spazio in cui esso è collocato viene a cadere, come pure mutano all’interno dell’oggetto
stesso i rapporti tra le parti. Nell’ opera Picasso non solo dipinge lo spazio tra le figure con
solidi spigolosi blu, ma gli spigoli di tali geometrie compenetrano le figure, costruendo
una sintesi tra spazio e oggetto. Lo spazio e l’oggetto si influenzano a vicenda (tipico
concetto della Teoria della relatività, in cui materia e spazio si influenzano a vicenda). Le
figure tendono ad essere descritte come composizioni di forme geometriche astratte,
componendole e ricomponendole.
Picasso si propone di smontare il sistema percettivo spazio temporale su cui era
stata costruita la pittura accademica sulla base della definizione delle regole della
rappresentazione prospettica. Infatti, nel dipinto è visibile come lo spazio e il tempo siano
scomposti in volumi bidimensionali distinti ma simultaneamente percepiti da postazioni
diverse dei vari osservatori.
Picasso affermava, e con esso il
movimento cubista, che, per conoscere a
fondo la realtà, era necessario indagarla
con la propria mente, andando oltre
l’apparenza delle cose. Essi sostenevano
infatti che ognuno di noi possiede una
visione mentale degli oggetti, ossia la
visione che si forma nella nostra mente
unendo i diversi punti di vista. I Cubisti
cercano di realizzare, in sostanza, una
rappresentazione non più riferita a ciò che
dell’oggetto si vede, ma rivolta a cogliere
ciò che dell’oggetto si conosce.
I cubisti cercarono quindi di riprodurre
questa visione mentale, rappresentando
ogni oggetto contemporaneamente da più
punti di vista, creando quella che essi
chiamarono la visione simultanea. In
questo modo veniva superata la visione
prospettica tradizionale, che prevedeva un
solo punto di vista all’interno del dipinto e
tre dimensioni (altezza, larghezza e profondità), e introdussero quella che definirono la
«quarta dimensione», che implicava oltre alla fusione delle tre dimensioni anche il
concetto di tempo. Infatti la visione simultanea di tanti punti di vista contiene in sé il
tempo indispensabile al pittore per studiare e scomporre l’oggetto e alla nostra mente per
ricostruirlo.
Il poeta Apollinaire (1880-1918), che partecipò a quasi tutti i movimenti d'avanguardia dei
primi anni del Novecento, divenendo il teorico del movimento pittorico cubista, nota che:
“I pittori sono stati portati naturalmente e, per così dire, intuitivamente, a preoccuparsi
di nuove misure possibili dello spazio che, nel linguaggio figurativo dei moderni, si
indicano tutte insieme brevemente con il termine di quarta dimensione. […] Dal punto di
vista plastico, la quarta dimensione rappresenta l’immensità dello spazio, che si eterna in
tutte le dimensioni in un momento determinato.”
Fisic’Arte101
Per esempio, di un normale bicchiere noi non
conosciamo solo ciò che vediamo da un unico punto di
vista, ma ne cogliamo la forma circolare dell’orlo, lo
spessore del vetro e le molteplici forme che assume se
lo osserviamo da punti di vista differenti (prime cinque
figure). Nelle opere dei pittori cubisti è raffigurata la
nostra «immagine mentale», che riassume tutti i punti
di vista in un’unica raffigurazione dell’oggetto. Il sesto
disegno mostra una delle fasi di sovrapposizione dei diversi punti di vista; l’ottavo
disegno presenta la composizione finita. I pittori cubisti rappresentano nelle loro opere
quella che potremmo definire la nostra immagine mentale della realtà, che riassume tutti
gli aspetti del soggetto raffigurato e non lo rappresenta solo da un particolare punto di
vista. In tal modo impongono agli osservatori di andare oltre l’apparenza delle cose, per
comprendere più a fondo la realtà e cogliere l’idea di un complesso spazio-temporale
infinito.
I cubisti tuttavia non giunsero mai fino all’astrazione e furono sempre attenti a non
allontanarsi troppo da quanto vedevano intorno a loro, proprio per permettere agli
osservatori di ricostruire il processo mentale che aveva guidato l’artista nella creazione del
dipinto.
L’idea di alterare l’unicità del punto di vista, cioè il principio basilare della prospettiva,
collimò con la acquisizione della relatività scientificamente pronunciata da Einstein per
cui il tempo dipendendo dallo stato e dal moto dell’osservatore, non può più essere
sincronizzato da un unico punto di vista. Il quadro inaugura la stagione del cubismo e manda
definitivamente in frantumi la concezione classica dello spazio e del tempo.
Le due opere, il quadro e l’articolo, con strumenti diversi affrontano il medesimo
problema: la natura della simultaneità. E, negli stessi mesi, giungono alla medesima
conclusione iconoclasta: la degradazione di una concezione plurimillenaria dello spazio
classico quale assoluto e ineffabile contenitore degli eventi cosmici. C'è una qualche
correlazione tra queste due opere che aprono una nuova era, rispettivamente, nell’arte
figurativa e nella fisica? C’è qualcosa che lega il più
grande pittore del XX secolo, Picasso, al più grande fisico
del XX secolo, Einstein?
Einstein si arrovella intorno alla natura della simultaneità,
cioè se e quando due eventi che avvengono nell’universo
possono essere considerati simultanei nel tempo. E se la
simultaneità temporale sia assoluta, valga per tutti e in
ogni condizione. È grazie a questa riflessione che Einstein
giunge alla conclusione che non esistono sistemi di
riferimento assoluti. Poi Einstein introduce il concetto
della invariabilità della velocità della luce: la luce viaggia
nel vuoto a 300.000 chilometri al secondo, la sua velocità
non può essere superata. Ne deriva che, qualsiasi sia il
sistema di riferimento di chi la osserva, la velocità della
luce risulta sempre costante.
Da tutto questo deriva che non esistono eventi simultanei
in assoluto nell’universo, ma che la simultaneità
temporale dipende dal sistema di riferimento.
Cosa c’entra Picasso con tutto ciò? Beh, c’entra. Perché il
Fisic’Arte102
pittore spagnolo, come tutti i (futuri) esponenti del Cubismo all’inizio del XX secolo è
impegnato in un vero e proprio programma di ricerca: la riduzione delle forme a
rappresentazione geometrica. Il programma di ricerca di Picasso, come quello di Einstein,
riguarda la simultaneità, anche se riferita allo spazio invece che al tempo.
E l’ottica di Picasso è la medesima di Einstein: non esistono sistemi di riferimento
privilegiati. La simultaneità assoluta non esiste. E ciascuno ha una visione dei fenomeni
che avvengono nello spazio che dipende dal punto di osservazione.
In definitiva, entrambi, Einstein e Picasso, tra il 1905 e il 1906 scoprono il concetto di
relatività. Il primo (non senza incontrare ostacoli e resistenze) conferisce a questo concetto
una piena dignità scientifica, attraverso un modello matematico. Il secondo (non senza
incontrare ostacoli e resistenze) gli conferisce una piena dignità artistica, attraverso un
nuovo modello geometrico.
La fonte unica, alla quale entrambi i geni si sono abbeverati, è il matematico Poincaré
(1854-1912), che ha affrontato il tema della simultaneità e la necessità di un approccio non
euclideo (non classico) alla geometrizzazione del mondo fisico in un libro pubblicato nel
1902, La Science et l’hypothèse. Si sa per certo che Einstein legge direttamente Poincaré e che
anche Picasso viene a conoscenza delle profonde idee del matematico francese attraverso
le accese discussioni interne al circolo di giovani, «la banda Picasso», che frequenta a
Parigi. Nelle discussioni sulla natura dello spazio, Picasso trova ispirazione per dare
seguito artistico al suo progetto di ricerca sulla riduzione delle forme a rappresentazione
geometrica.
Nell’ultimo secolo, dopo Einstein e dopo Picasso, la nostra visione dello spazio e del
tempo è senza dubbio cambiata. Tutti noi sentiamo in qualche modo che non viviamo in
uno spaziotempo assoluto, ma relativistico. Appare singolare, ma fino ad un certo punto,
come in due campi diversissimi tra loro per il metodo della conoscenza utilizzato, ma
complementari, come l’arte e la scienza, si avverta la medesima necessità di andare oltre la
conoscenza empirica della realtà oggettiva, per giungere a costruire nuovi modelli di
descrizione e rappresentazione di una realtà energetica, offrendo una nuova chiave di
lettura ai concetti generalmente sottesi alle teorie spazio-temporali di descrizione degli
eventi.
Tra i maggiori protagonisti di questo nuovo modo di
rappresentare la tridimensionalità dello spazio, di
frantumare lo spazio pittorico e prospettico, dobbiamo
ricordare Georges Braque (1882-1963).
Il dipinto Violino e brocca sembra a prima vista
incomprensibile, eppure, osservandolo attentamente,
emergono dalla sua superficie alcuni oggetti noti, come la
brocca ed il violino, che il pittore ha attentamente studiato e
riprodotto frammentandoli e scomponendoli. I rapporti
spaziali tra gli oggetti sono illogici. Il piano orizzontale su
cui è appoggiata la brocca è, ad esempio, rappresentato in
posizione verticale dietro l’oggetto, mentre il violino in
primo piano pare addirittura dissolversi e diventare
tutt’uno con lo sfondo. La luce sembra provenire da più
direzioni: il chiaroscuro è infatti utilizzato liberamente per
dare tridimensionalità ai molti piani che frantumano gli
oggetti e lo spazio vuoto dello sfondo. L’opera di Braque fu
Fisic’Arte103
costantemente caratterizzata dalla problematica della rappresentazione dell’oggetto nello
spazio e dello spazio vuoto tra gli oggetti, che è diventa a sua volta soggetto del dipinto.
La frantumazione dello spazio prospettico, utilizzato nella pittura dal Rinascimento in poi,
determina la sensazione che gli oggetti non siano disposti nello spazio, ma che siano essi
stessi e i mille piani che li suddividono a creare lo spazio. La rappresentazione cubista
dello spazio è del tutto rivoluzionaria, perché lo spazio vuoto sembra non esistere, in
quanto tutto è portato in primo piano e gli oggetti sembrano compenetrarsi tra loro e con
gli elementi dello sfondo.
Nell’opera Natura morta con le Jour ogni dato
informativo è compresente, simultaneamente, al
momento della visione. La tridimensionalità viene
resa
con
l’espediente
compositivo
della
moltiplicazione dei punti di vista, per cui di ogni
oggetto sono rappresentati fronte e retro.
Altro importante artista che partecipò all’avventura
cubista è Juan Gris (1887-1927). La particolarità
dell’opera di Gris era la capacità di adottare le forme
geometriche per rappresentare cose e figure, a
differenza degli altri interpreti del cubismo che
partivano dalle forme della realtà per ridurle in termini
geometrici. Così in Omaggio a Picasso la figura è composta
attraverso un repertorio geometrico preordinato che l’artista
ha organizzato per tradurlo in viso, corpo e spazio
Con la crisi della scienza come affinamento del senso comune,
l’idea di quadro come riproduzione o mimesi della realtà,
criterio con il quale si giudicava la bontà di un’opera d’arte
dal Rinascimento in poi, entra in crisi, e come abbiamo visto,
Les Damoiselles d’Avignon inaugurano la stagione del cubismo,
in cui la realtà va vista nella sua molteplicità spaziale,
frammentata e ricomposta. Si rinuncia alla prospettiva, al
“senso comune” per penetrare più profondamente la realtà.
Obiettivo primario dei cubisti non è la rappresentazione di ciò
che si vede nella realtà come facevano gli impressionisti, né la
rappresentazione di ciò che essi sentivano, proiettando
la loro interiorità sulla realtà secondo le teorie
espressioniste, ma è piuttosto il tentativo di
rappresentare ciò che essi conoscono della realtà
secondo princìpi di carattere razionale.
Lo spazio, dunque, grazie all’opera di Picasso e dei
cubisti perde definitivamente quelle caratteristiche che
lo avevano contraddistinto dal Rinascimento fino alla
fine dell’Ottocento. Il movimento russo Raggismo, si
propose, per esempio, il progressivo superamento della
rappresentazione naturalistica a favore di uno studio
degli effetti di luce e di dinamismo. Si legge nel
Fisic’Arte104
Manifesto: “Lo stile della pittura raggista che noi proponiamo si occupa delle forme
spaziali conseguite con l’intersezione dei raggi riflessi
da vari oggetti e delle forme individuate dall’artista. In
modo convenzionale il raggio è rappresentato da una
striscia di colore”. Le immagini, dunque, sono il
risultato di un insieme di linee di forza intensamente
colorate, che scompongono il soggetto raffigurato fino a
confonderlo quasi completamente con lo spazio
circostante.
Il Suprematismo, altro movimento d’avanguardia
russo, rifiutò la rappresentazione realistica a favore di
una pittura fatta solo di relazioni spaziali e accordi
cromatici tra colori e forme geometriche piane pure
(triangoli, cerchi, linee, ecc). Si tratta quindi di un’arte di
completa astrazione, in cui l’immagine bidimensionale e
priva di ogni volumetria viene costruita attraverso i
rapporti tra le diverse figure che animano la superficie
del dipinto, definite da nitide campiture di colore.
In questo dipinto la donna appare al centro della scena,
mentre solleva due recipienti, sullo sfondo di un
paesaggio cittadino. L’immagine si scompone in una
serie di volumi cilindrici a tronco di cono che,
suggerendo una simultaneità di vedute diverse, si
compenetrano tra loro e realizzano un effetto di
dinamismo e astrazione simile a quello di un congegno
meccanico, sottolineato anche dai colori freddi e metallici
della composizione.
Con La Danza di Matisse siamo usciti completamente dal
Rinascimento; c’è un nuovo sistema di relazioni tra quel
che viene percepito e quel che viene espresso, fondato su
altre strutture permanenti dello spirito. Andiamo verso
uno spazio che ha le dimensioni
polisensoriali delle nostre esperienze
interne. Tra le riflessioni che hanno
permesso lo sviluppo del sistema di
visualizzazione
fondato
su
associazioni inedite d’immagini, un
posto importante tocca alle indagini
sugli spazi curvi.
E’ una rappresentazione spaziale
moderna, basata sull’analisi dei
riflessi, rappresentazione psico-fisica
e non più ottica nel senso euclideo del
termine. Lo studio degli spazi curvi
non è soltanto di Matisse.
Fisic’Arte105
La discussione sul tempo, che dopo Einstein ebbe vasto
spazio nel dibattito filosofico (Bergson), ebbe la sua eco anche
in pittura.
“Se un’ombra è la proiezione bidimensionale di un mondo
tridimensionale, allora il mondo tridimensionale è la
proiezione di un universo a quattro dimensioni”.
In questo quadro Duchamp (1887-1968) dipinge un corpo che
scende le scale rappresentando tutti gli istanti
contemporaneamente, realizzando, così, una sorta di spaziotempo di Minkowski.
Kandinskij aveva pubblicato il saggio Punto, linea, superficie e
aveva fissato i termini della teoria dell'astrattismo. Aveva
individuato nella linea lo strumento della sua ricerca pittorica
che prolunga e rende più chiaro il gesto del braccio che li
manovra. Con il suo lavoro aveva sostituito il concetto di
campo con quello di spazio (il campo gravitazionale è una
deformazione dello spazio-tempo). Il campo è per Kandinskij una porzione di infinito
determinata dall'interazione delle forze agenti simultaneamente, ed il suo insieme forma
un sistema dinamico. Un campo siffatto non e più una rappresentazione ma un frammento
reale di arte. Questi temi sono evidenti nel dipinto Punte nell’arco.
Lo sfondo nero è il campo principale in cui agiscono altri campi. Le figure
sovrapponendosi formano altre figure in un rincorrersi di nuove possibilità compositive:
protagonista del dipinto è il movimento delle punte che allude ad un ordine. La
composizione è semplice e nella geometria ricorda un arco teso che sta per scoccare la
freccia, ma questa semplicità compositiva sottende un movimento che si manifesta
Fisic’Arte106
nell'azione del lancio del dardo. Kandinskij inserisce la quarta
dimensione: il tempo, che prende forma dalla reiterazione
delle figure geometriche che compongono l’arco; l’occhio
descrive un percorso dall’alto verso il basso, dai colori caldi a
quelli freddi, impiegando un certo tempo che dipende dalla
durata del periodo necessario affinché un colore-forma
percepito dall’occhio si traduca in sensazione psicologica.
Le figure nascono da sistemi di forme astratte, ideali, così
come l’equazione di campo di Einstein, un’equazione astratta,
puramente matematica, che però al suo interno contiene tutte
le informazioni sulle interazioni tra spaziotempo, massa e
energia. Mai come in questo periodo troviamo la scienza
nell’arte e l’arte nella scienza.
In questa opera di Mondrian (1872-1944) viene
proposto un sistema astratto di sistemi di griglie a
righe nere che dividono la superficie bidimensionale
del quadro in scomparti piani riempiti di colore puro
(blu, giallo, rosso) e dei tre non colori bianco, nero,
grigio, ricercando delicati equilibri asimmetrici
puramente geometrici, fondati sull'ortogonalità delle
linee.
Pur trattandosi di un linguaggio strutturato e retto da
precise leggi e rapporti di proporzioni, esso possiede
un suo carattere pittorico e non matematico, esiste
uno spazio pittorico, esiste un ritmo delle campiture
che si confrontano continuamente con il limite della
tela, messo in discussione dalla asimmetria delle
divisioni, esiste una modularità non dimensionale ma
concettuale: è un'idea di spazio del tutto nuova e rivoluzionaria, che diverrà facilmente
estensibile ad altre discipline, prima di tutto all'architettura neoplastica che scompone il
volume delimitando lo spazio in piani verticali e orizzontali, secondo chiari criteri
aggregativi.
Per Mondrian l’artista è impegnato nella costante ricerca dell’universale. L’universale
consiste in quella che lui chiama “realtà pura”. L’espressione della realtà pura è ostacolata
da ogni componente personale e soggettiva, ma anche dalla rappresentazione di ogni
dettaglio descrittivo. Quindi, l’unico modo per giungere all’espressione della realtà pura è
l’astrazione. Scriveva: «L’aspetto delle forme naturali si modifica, mentre la realtà rimane
costante. Per creare plasticamente la realtà pura è necessario ricondurre le forme
naturali agli elementi costanti della forma, e i colori naturali ai colori primari». «Alla
fine le mie composizioni consistevano solo di linee verticali e orizzontali ... Il tutto
partendo da una natura che è «espressione di due forze opposte» mantenute in equilibrio:
equilibrio tra forma e spazio.
Questa unica forma, che egli chiama “neutra”, è il rettangolo, perché in esso la linea non
ha l’ambiguità della curva, ma la decisione della retta e perché nei suoi angoli si
equilibrano in unità le due forze contrastanti delle diverse direzioni della linea, quella
verticale e quella orizzontale. Il suo è un tentativo di dare un senso ordinato, logico,
lineare a una realtà che non ha senso.
Fisic’Arte107
Questo per Mondrian è lo scopo della pittura moderna, la “neoplastica”, che non deve
tendere all’illusione del rilievo, ma deve essere bidimensionale e limitare i colori a quelli
elementari per evitare che nel loro rapporto reciproco si torni nuovamente a una
sensazione tridimensionale. Il realismo va evitato con cura.
Anche Dalí restò fortemente influenzato dagli sconvolgimenti teorici della fisica ad opera
di Einstein. Nell’opera La persistenza della memoria, il maestro spagnolo ha voluto
interpretare le indagini relativistiche sulla dimensione del tempo, introducendo nella
rappresentazione pittorica la bidimensionalità del tempo.
Il tempo infatti assume la dimensione duale propria di una effettiva durata, come
conseguenza del fatto che per presentare la percezione da più punti di vista l’osservazione
non si può limitare allo sguardo di un solo istante, ma il pittore si trova ad esprimere il
rapporto temporale della persistenza dell’immagine effettivamente percepito durante la
ricostruzione emotiva e razionale della rappresentazione pittorica. Dalì cambia
radicalmente il modo di concepire la dimensione del tempo. Le ore degli orologi molli
sono diverse perchè il tempo si dissolve e stemperandosi, non risponde più
concettualmente ad una successione lineare di falsi istanti, proprio in quanto tale
rappresentazione non appartiene più ad una visione univoca ed inalterabile dello spazio
tempo. Dalì eredita dal cubismo il desiderio di percepire una dimensione quadri
dimensionale dello spazio tempo per sbarazzarsi definitivamente dell'eredità della
tradizione e saltare al di là dell'ingessante finzione tridimensionale della prospettiva
rinascimentale.
La deformazione delle immagini è uno strumento per mettere in dubbio le facoltà
razionali, che vedono gli oggetti sempre con una forma definita. L'orologio è lo strumento
razionale per eccellenza che permette di misurare il tempo, e di dividerlo in modo da
piegarlo alle esigenze pratiche e quotidiane.
Fisic’Arte108
Deformando l'orologio, trasformandolo in una figura liquida, che sembra sciogliersi e
adattarsi alle superfici su cui viene posta, Dalí invita l'osservatore a riconsiderare la
dimensione del tempo, della memoria, del sogno e del desiderio, non sottoposta alle regole
apparentemente logiche, nella quale il prima e il dopo si mescolano e lo scorrere delle ore
e dei giorni accelera e rallenta a seconda della percezione soggettiva.
Una interpretazione filosofica che ben si associa con le proprietà metriche dello spazio e
del tempo concepite con la relatività di Einstein.
Dalì in Contemplazione davanti ai misteri
dell’Universo, fissa sulla tela un istante di quello che
definisce “lo spazio sospeso”, dove “gli esseri, gli
oggetti, appaiono come corpi estranei fluttuanti nello
spazio”.
Il cosmo potrebbe essere molto più vasto di quello
che pensiamo. Secondo alcune teorie moderne,
infatti, oltre allo spazio tridimensionale che
costituisce il nostro mondo, potrebbero esistere
dimensioni aggiuntive, invisibili, che conterrebbero il
nostro mondo. La teoria della relatività, infatti, si
basa
sull'esistenza
di
uno
spazio-tempo
quadridimensionale, nel quale le coordinate spaziali e
temporali si “mischiano” tra loro. Spazio e tempo,
insomma, non sono due concetti indipendenti, ma
due aspetti di una realtà più ampia: lo spazio-tempo
quadridimensionale.
L'idea di una realtà quadridimensionale più profonda
dello spazio tridimensionale nel quale viviamo (non
necessariamente uguale allo spazio-tempo di Einstein), ha colpito la fantasia e la sensibilità
di molti artisti.
Nell’opera Corpus hypercubicus, Dalì fa riferimento al
fatto che la figura di Cristo non è inchiodata all'usuale
croce, ma è magicamente sospesa nell'aria, accostata ad
una struttura fatta da otto cubi che simulano la forma
della croce, ma che in realtà esprimono la
rappresentazione dello sviluppo, nello spazio
tridimensionale, di un solido che si studia nella
geometria della quarta dimensione: l'ipercubo.
Si tratta di un solido (avente come "facce" otto cubi) che
non è possibile vedere, essendoci preclusa la quarta
dimensione, ma solo intuire. L'analogia con lo sviluppo
delle facce di cubo su di un piano, può aiutare a
comprendere la raffigurazione.
Una croce tradizionale, infatti, può essere ricondotta a
un cubo. Un cubo è una figura tridimensionale
delimitata da sei quadrati: se prendiamo un cubo fatto
con un foglio di carta, per esempio, possiamo aprirlo in
modo tale da fare stare tutta la sua superficie sullo
Fisic’Arte109
stesso piano e ottenere una figura a forma di croce. Allo
stesso modo, un ipercubo è una figura quadridimensionale
delimitata da otto cubi e, se lo aprissimo, per così dire, in
maniera opportuna, otterremmo proprio la strana croce
dipinta da Dalì.
Si tratta di una delle diverse opere in cui l'artista catalano, si
accosta ai temi dell'arte sacra e, contemporaneamente, si
avvale della fascinazione enigmatica di strutture geometriche.
La croce, data dalla dispiegazione tridimensionale di un ipercubo, si staglia in alto nel buio
del cielo, proiettando la sua ombra sopra la fredda geometria del pavimento, quasi a
sottolineare, assieme alla irriducibilità delle diverse dimensioni spaziali, la inintelligibile
distanza tra il naturale ed il soprannaturale.
Anche l’italiano Attilio Pierelli si è cimentato con
l’ipercubo e affascinato dal progresso e dagli studi
matematici e fisici sugli spazi a più dimensioni (iperspazi),
ha trovato ulteriori motivi per allargare la sua ricerca ad
altre forme di figure a più di tre dimensioni, inaccessibili ai
nostri sensi, ma che tuttavia la matematica ci permette di
descrivere e di studiare fin nei minimi particolari.
“Dell’esistenza dell’iperspazio mi ero accorto nel corso degli
anni, costruendo sculture con l’acciaio speculare. Mentre
lavoravo, mi capitava di vedere che dentro le sculture
eseguite con questo materiale, oltre agli spazi superficiali
riflettenti e curvilinei, si realizzavano forme autonome.
Erano affascinanti solidi più o meno regolari formati di
luce. Per molto tempo ho cercato di afferrare la loro vera
natura finchè ho capito di essere in presenza di iperspazi.
Iperspazi e geometrie non euclidee rappresentano la vera essenza delle mie sculture
attuali, e sono convinto che esse hanno oggi la stessa importanza che nel Quattrocento
ebbe la scoperta della prospettiva.”
L'ipercubo di Pierelli è sospeso nello spazio infinito, il corpo
geometrico è attraversato da raggi luminosi che colpiscono
l'interno - massa deformando sul piano la sua immagine.
L'artista è in possesso della conoscenza della fisica e della
geometria, per mezzo di quest'ultima traduce ogni teorema che
gli permette di creare immagini nello spazio. La luce è uno
snodo importante per l'arte di Pierelli, attraverso le coordinate
matematiche degli iperspazi crea forme che vengono investite
da un sottile velo di luce che materializza i corpi geometrici.
L'equazione di campo di Einstein relativa alla geometria degli
iperspazi sono per Pierelli la chiave di accesso alla porta dello spazio a quattro dimensioni
e fa uscire fuori dal nulla come un raggio di luce nel buio il sapiente ipercubo, l'armoniosa
creatura geometrica a quattro dimensioni.
Anche l’opera di Escher è fortemente legata alle scienze più avanzate del XX secolo, come
la teoria della relatività o alle geometrie non euclidee.
Fisic’Arte110
“Non posso esimermi dallo scherzare con le nostre inconfutabili certezze. Per esempio, è
assai piacevole mescolare sapientemente la bidimensionalità con la tridimensionalità, la
superficie piana con lo spazio, e divertirsi con la gravità. Siete proprio sicuri che il
pavimento non possa anche essere il soffitto? Siete del tutto convinti che salendo una scala
vi troverete più in alto? È vero che la metà di un uovo è anche la metà di un guscio?”.
Uno dei temi che più affascinò Escher fu la
rappresentazione di mondi simultanei, di un mondo
infinito in uno spazio finito, tema che egli traspose
visivamente in numerose sue opere nelle quali sono
contemporaneamente presenti due mondi, quello percepito
dall'artista e quello a cui le sue percezioni non possono
arrivare, pur trovandosi nello stesso posto e nello stesso
momento, a ciò corrispondendo studi grafici e rigorose
modellizzazioni matematiche, frutto di ricerche condotte
per lunghi anni.
Questa stampa è la prima di una serie che tratta, come
argomento principale, la relatività. Mostra l'interno di una
struttura cubica, con finestre ad arco che si aprono su tre
paesaggi differenti. Dalle due superiori si vede, come dalla
cima di un campanile, il mondo sottostante; le finestre
centrali sono ad altezza
d'occhio
e
mostrano
l'orizzonte; dalle due inferiori osserviamo le stelle. Può
sembrare assurdo che nadir, orizzonte e zenit si combinino in
un'unica costruzione, eppure tutto questo forma un insieme
logico. Qualsiasi funzione che si voglia ascrivere ai diversi
piani di questo edificio è relativa. Lo sfondo al centro della
stampa, per esempio, ha tre significati: è un muro rispetto
all'orizzonte che gli sta dietro; è un pavimento in relazione
con
la
prospettiva
superiore; è un soffitto
rispetto alla visione del
cielo stellato in basso.
L’idea della presenza di
un mondo infinito in uno spazio finito è trasposta
visivamente
in
questa
opera.
Sono
contemporaneamente presenti due mondi: quello che
l'artista percepisce e quello a cui le sue percezioni non
possono arrivare, nello stesso posto e nello stesso
momento. La rappresentazione di mondi simultanei è
uno dei temi fondamentali dell'opera di Escher e si
avvale di studi grafici e di rigorose modellizzazioni
matematiche, frutto di ricerche durate un ventennio.
Il gusto della logica del paradosso permea tutta l'opera
di Escher, come in questa Relatività, nella quale ci
Fisic’Arte111
vengono proposti tre diversi livelli di applicazione dello stesso paradosso: tre mondi
paralleli e separati coesistono all'interno di un edificio in cui sulle pareti, sul soffitto e sul
pavimento si aprono finestre e porte da cui partono scale. Sedici figure umane si muovono
nell'ambiente, suddivise in tre gruppi. Ciò che per un gruppo è il soffitto, per un altro
gruppo è la parete, e ciò che per un gruppo è una finestra per un altro gruppo è
un'apertura nel pavimento. Diverse realtà impossibili condividono un'impossibile
convivenza.
La medesima idea è stata ulteriormente sviluppata in Alto e basso.
La stessa scena è ripetuta due volte: nella metà superiore del
foglio guardiamo in basso, da un' altezza di circa tre piani, e
scorgiamo la piazza di una città, con una palma al centro. La parte
inferiore ci offre la stessa veduta, con il medesimo ragazzino
seduto sui gradini e la stessa ragazza che guarda dalla finestra,
ma non tutto viene visto dal pianterreno. Volgendo lo sguardo in
alto verso lo zenit, vediamo il pavimento a piastrelle su cui ci
troviamo, ripetuto al centro come soffitto. Nella scena superiore,
queste stesse piastrelle servono di nuovo da pavimento, e ancora
sopra vengono per la terza volta ripetute come soffitto.
Le nuove idee sul tempo, tra cui l'irreversibilità, attraversavano la
fine del XIX secolo le discipline scientifiche; la termodinamica e
l'evoluzione biologica avevano messo in discussione la
reversibilità temporale, da non confondere con la reversibilità del
movimento. Qualche decennio dopo, nel quadro della reazione
antipositivista, anche la filosofia riprese la riflessione su questi
temi e Bergson attaccherà questo concetto insistendo su una temporalità anti-misura.
Bergson aveva affermato che i concetti scientifici stanno alla conoscenza intuitiva della vita
come un servizio fotografico relativo a una città sta alla sua conoscenza diretta.
Il pittore futurista Boccioni tradusse questo concetto in La strada entra nella casa, in cui una
città è rappresentata contemporaneamente
da diversi punti di vista.
La riflessione di Bergson sul tempo ebbe un
impatto notevole sulla cultura e sulle arti
visive in particolare. È stato coniato il
termine bergsonismo per designare
l'irruzione della dimensione temporale
nello spazio pittorico, un elemento di
poetica che accomuna praticamente tutte le
avanguardie di inizio secolo, Futurismo e
Cubismo in particolare. La scienza,
spazializzando il tempo, lo snatura;
inaspettatamente però la pittura si rivela in
grado di ribaltare questo rapporto:
attraverso
una
deformazione
delle
immagini spaziali essa inventa l'effetto
visivo di un tempo vivo.
Fisic’Arte112
Il Dinamismo di un cane al guinzaglio di Balla, sfidando le leggi
della logica, riesce a rappresentare un movimento senza
tuttavia cristallizzarlo nel tempo. E’ una soluzione in seguito
divenuta usuale nella grafica, nei fumetti in particolare.
Nell’opera La città c'è una
visione simultanea non
soltanto di tutte le facce
degli
oggetti
che
definiscono
i
volumi
(soluzione cubista) ma
anche la sintesi dei tempi successivi durante i quali
noi abbiamo conosciuto l'oggetto. Si tratta di uno
spazio-tempo intuitivo, che ricorda la filosofia di
Bergson, appunto detta intuizionismo.
Il soggetto nell’opera
Ambroise
Vollard
è
analizzato da diversi
punti di vista, come da
uno spettatore che si
muova attorno ad esso;
ma le successive visioni non si giustappongono in una
sequenza, bensì si accostano e si ricompongono in un’unica
immagine che inserisce l’elemento tempo (il tempo dello
spettatore che compie il proprio giro attorno all’oggetto),
contrapponendo alla temporalità intesa come sequenza, una
temporalità intesa come durata.
I Fumatori o Il Fumatore, dipinto di Fernand Lèger (18811955), presenta una dinamicità che lo contraddistingue
dalle opere statiche di Picasso e Braque; infatti presenta
un moto ascensionale che dirige lo sguardo dal basso
verso l’alto ed è ipotizzabile che l’artista abbia voluto
rappresentare non una scena osservata da più punti di
vista, tipica dell’arte cubista, ma un unico fumatore
ritratto in due momenti successivi nel tempo.
Fisic’Arte113
Questo quadro nasce probabilmente dalla volontà di
De Chirico (1888-1978) di rappresentare un orologio
fermo. Appare tuttavia logico che, su un quadro, un
orologio non potrà mai camminare. E così,
guardando la raffigurazione di un orologio, non
sapremo mai se funziona o non funziona. Tuttavia, è
proprio la fermezza e l’immobilità di tutta
l’immagine a suggerirci che anche l’orologio è fermo,
anche se non lo sapremo mai. O forse esso è l’unica
cosa che continua a muoversi, segnando un tempo
senza senso. Un oggetto come la stessa vita è un
continuo fluire. L’ostinato tentativo di cogliere con
metodo e precisione quasi scientifici il trasmutare
ininterrotto della luce sui vari soggetti porta l’artista
a
soluzioni
brillanti.
E’ proprio l’assenza di ogni riferimento temporale
(in questo quadro le ombre possono suggerire un
mattino o un pomeriggio con luce innaturale) la
caratteristica della pittura metafisica. Tutto è
immobile, oltre il tempo.
Nel quadro tutto sembra così chiaro, eppure esso
testimonia di una realtà sfuggente. La realtà è
enigma.
Con le sue opere Fontana (1899-1968) vuole proporre una nuova idea di spazio e tempo:
“L’opera d’arte non vive in eterno, nel tempo reale esiste l’uomo e la sua creazione, finito l’uomo
continua l’infinito …. Sono riuscito con questa formula a dare a chi guarda il quadro
un’impressione di calma spaziale, di rigore cosmico, di serenità nell’infinito”. L’arte di Fontana
annuncia
una
fatale
“tetradimensionalità”, costituita
dal rapporto costante di colore,
suono, movimento e spazio. Il
taglio di Fontana risponde
dunque ad una precisa finalità
costruttiva: creare una nuova
dimensione spaziale, che esce dai
limiti tradizionalmente prefissati
per l’opera d’arte, coinvolgendo
anche lo spazio che sta dietro al
quadro, a cui lo spettatore non ha
di solito accesso.
Fisic’Arte114
<<Io buco, passa l'infinito di lì, passa la luce, non c'è
bisogno di dipingere …invece tutti hanno pensato che io
volessi distruggere: ma non è vero, io ho costruito, non
distrutto……>>
Fontana sentiva che i progressi scientifici imponevano
una parallela innovazione nell’arte che, dichiarava,
doveva dilatarsi nello spazio circostante, che non dovesse
esistere in due dimensioni, ma nello spazio. La scultura,
essendo tridimensionale, lo faceva di necessità, mentre la
pittura richiedeva un intervento radicale, la rottura della
piattezza del dipinto. Bucherellare o lacerare una
superficie piana aveva questo scopo.
Mario Marè (1921-1993) ha utilizzato cubi vacui per esplorare le pluridimensionalità
spaziotemporali. Un’immagine classica che può aiutare a farsi un’idea del rapporto tra
istante e durata è quella relativa al rapporto tra punto e linea. La dimensione temporale e
quella spaziale trovano nell’istante e nel punto il loro più semplice e immediato grado di
percezione. L’idea di Marè è quella di rendere pittoricamente l’istante, cioè, di fissare sulla
tela un fotogramma. Egli tenta di configurare il tempo servendosi delle prospettive
illusorie della geometria piana trasferita nello spazio.
“La mia idea-pensiero è quella della rappresentazione del
tempo
identificandolo
nell'istante.
Partendo
dalla
supposizione che il tempo sia composto, si formi, esista
dalla infinita successione di istanti, ho voluto avere la
presunzione di rappresentare uno di questi istanti. Per
cercare di fare questa operazione ho dovuto ricorrere
all'artificio di rendere figurativo l'istante che diviene,
fermarlo, e quindi fissarlo nel suo momento di immobilità.
Da
questo
tentativo
di
rappresentare
ciò
che
materialmente non esiste, viene la necessità più assoluta,
più attenta, direi più esasperata, di attenersi a quei
canoni che fanno la pittura; ricerca di colore, spazio,
equilibrio,
tensione…Non
posso
immaginare
la
rappresentazione del tempo se non in un contesto cosmico
per cui il problema dello spazio, che ha sempre afflitto ogni pittore, qui si esaspera e il
tentativo di dilatare la misera superficie a disposizione diventa drammatico, soprattutto
non volendo ricorrere a figurazioni banali come astri lontani ecc. Perciò mi sono valso di
ogni soccorso; dalla prospettiva cromatica a quella di
disegno e introducendo anche quella materica. Le strutture
libranti nel vuoto appoggiano però su un ideale e diverso
piano tra loro per cui si ottengono prospettive varianti e
diverse che accentuano la sensibilità dell'idea-spazio cioè lo
spazio emozionale che intendevo proporre.
Per gli stessi intenti il nero o uno scuro, per creare il buco e
l’uscita dal quadro delle strutture, prese a prestito per la
rappresentazione materiale dell'istante, così da introdurvi
il fruitore per una maggiore partecipazione.
Tenendo altresì presente che l'equilibrio, come già detto, è
Fisic’Arte115
un elemento indispensabile ad un'opera pittorica, da qui lo studio di un'opportuna
collocazione delle masse ed un'altrettanto opportuna scelta dei pesi delle stesse, il tutto
non in contrasto con l'armonia delle linee, operazione di amalgamazione non facile
quando specialmente si è voluto uscire da una rappresentazione comune….. Tutto ciò per
arrivare, anche, alla tensione, cioè equilibrio che è, ma che sta per rompersi e quindi la
crea col suo stato precario, tensione specialmente indispensabile in questo tipo di opera
ove, uscendo dalla rappresentazione comune e reale, si deve dare l'idea che tutto sia
immobile e tuttavia in movimento, una sospensione che ci dia l'idea di avere fermato
l'istante, ma che contemporaneamente ci sta sfuggendo poiché nello spazio-tempo esistono
infiniti equilibri, equilibri-attimi, necessari e reali nel divenire del tempo”.
Sintetizzando l’aspirazione umana all’immortalità, De Dominicis
diceva che «per esistere veramente dovremmo fermarci nel
tempo». Esattamente questo egli cerca di raggiungere in
quest’opera realizzata con mezzi minimi e non tradizionali: il
superamento dello spazio e del tempo, la percezione di una
straniante rivelazione.
La lettura dell’opera di Max Neuhaus (1939-2009) non significa
solo un’apertura dell’arte verso inediti confini, ma evidenzia una
nuova ‘condizione antropologica’, in cui l’uomo si spinge oltre le
proprie facoltà percettive verso le frontiere dell’inconcepibile e
dell’impercettibile. Egli infatti nel 1977 colloca in un vano vuoto,
posto sotto un’isola pedonale a Times Square a New York, una
struttura elettronica che emette suoni armonici, che egli lascia
completamente anonima per dieci anni. Non rivendicando l’opera
come sua, l’artista delega l’ascoltatore a sentirla, e quindi
riconoscerla, come opera d’arte. Lo stesso Neuhaus dice: “come
molti artisti sono interessato ad entrare in comunicazione con la mente, ma invece di
apparire nella sua finestra visiva, ho scelto di apparire nella sua finestra uditiva”.
Questo approccio alla conoscenza è
completamente inedito, in quanto
attraverso questa nuova via della
sensibilità si può aprire un
territorio fresco per la conoscenza
libera
dei
bagagli
culturali
preesistenti. In questo spostamento
dal visuale-tattile all’uditivo, nel
sentire lo spazio piuttosto che
vederlo, risiede principalmente la
sua scoperta. Il suono non è l’opera,
ma il catalizzatore che impegna l’ascoltatore a ricercarne la fonte e nella ricerca egli trova
una nuova struttura ed un nuovo orizzonte: lo ‘spazio-suono’. Si ha così una disposizione
di suoni nello spazio ed una definizione sonora del luogo. In altri lavori come: Le linee
infinite da fonti inafferrabili, l’artista lascia
le pareti della galleria o del museo
completamente spoglie. Il fruitore può muoversi nella stanza, incontrare luoghi nello
spazio dove si sentano deil ‘click’ ed altri dove ci sia assenza di suono. La serie dei ‘click’
sembra sviluppare una linea infinita, “una frase che si evolve in perpetuo”. I suoni nelle
loro variazioni di frequenza formano intrecci non visibili, che avvolgono ogni stanza.
Fisic’Arte116
Le linee infinite richiamano come parallelismo in fisica la nuova dimensione introdotta nel
1969 da John Wheleer nella teoria dei buchi neri. Una dimensione al di là della nostra
sensazione, da cui non è possibile sfuggire, in cui le leggi della scienza e le capacità di
predire il futuro verrebbero meno. L’orizzonte degli eventi (la regione di confine dello
spazio-tempo da cui non è possibile evadere) agisce come una membrana unidirezionale
intorno al buco nero. L’arte, in questo modo, può finalmente sottrarre alcune sue strutture
e funzioni, in quanto è legittimata dall’esistenza nell’universo di nuove possibilità oltre la
realtà. Il lavoro di Neuhaus, che opera al di là dell’orizzonte degli eventi e della ‘censura
cosmica’ apre l’arte alle frontiere dell’impercettibile e dell’inconcepibile, rendendo
possibili le categorie dell’interazione, dell’anonimia, della clandestinità e
dell’irreversibilità.
3. Caos e ordine nell’arte moderna e contemporanea
Uno dei concetti più importanti della fisica classica è quello di entropia (il termine deriva
da Entropè, che in greco vuol dire cambiamento od evoluzione) introdotto nel 1865 da
Clausius (1822-1888) per esprimere la degradazione dell’energia ossia l'impossibilità di
costruire sistemi termici idealmente conservativi, cioè la diminuzione della capacità di
conversione di calore in lavoro. In particolare l’entropia doveva servire a distinguere un
processo reversibile da uno irreversibile e di attribuire un significato preciso al concetto di
degradazione dell'energia. Così l'entropia divenne la chiave di lettura dei fenomeni su
scala macroscopica, cosmologica: l'energia del mondo è costante; l'entropia del mondo
tende sempre ad aumentare fino a un massimo. Successivamente Boltzmann (1844-1906)
nel 1887 intuisce che deve esserci una relazione tra entropia e probabilità, e dalla sua
famosa equazione discende che ogni aumento di entropia in un processo irreversibile
significa che la natura preferisce uno stato più probabile a uno meno probabile. E sotto
questo nuovo punto di vista che la complessità si affaccia per la prima volta. Se è vero che
l'entropia è la manifestazione di una perdita della capacità di trasformazione energetica
bisogna quindi leggere le scoperte della termodinamica come un attentato all'armonia
prestabilita dell'universo, lo svanire dell'illusione di un ordine interno e immutabile,
l'irruzione del caos. Con Boltzmann si scopre il carattere fondamentalmente disordinato
dei movimenti molecolari interni ad un sistema. L'aumento di entropia è pertanto
connesso con il passaggio da una condizione di ordine a una di disordine. L'entropia
diventa così la metafora del disordine: quando l'una cresce,
cresce l'altro, e allo stato massimo, quello verso cui,
secondo Clausius, l'universo stesso tenderebbe, corrisponde
un disordine molecolare completo.
Nel 1971 lo psicologo della conoscenza e storico dell'arte
Rudolf Arnheim ha dedicato al concetto di entropia e alla
sua utilità per l'analisi dell'opera d'arte un saggio
fondamentale, in cui ha cercato di dimostrare che, poichè
tale concetto di caos o di apeiron riveste un ruolo
importante nella storia della filosofia e della scienza fin dai
loro inizi, la pertinenza e l'utilità del concetto fisico di
entropia anche rispetto all'analisi dell'opera d'arte, testimoniando una volta di più la
vitalità delle peculiari categorie di ordine e disordine, permettendo di cogliere un nesso
interdisciplinare ulteriore tra le scienze umane e quelle naturali.
Fisic’Arte117
La scoperta che il disordine microscopico (o entropia) di un sistema e del suo intorno non
decresce spontaneamente - scoperta cha ha poi indotto a definire l'entropia come la misura
quantitativa del grado di disordine di un sistema - ha posto la fisica, e la scienza in
generale, di fronte ad una apparente contraddizione: da un lato la natura, sia organica che
inorganica, tende ad uno stato ordinato (e le azioni umane sembrano governate da
un'analoga tendenza); dall'altro i sistemi fisici tendono ad uno stato di massimo disordine.
Arnheim si sofferma sulla rilevanza che il concetto di "disordine" assume nelle arti
(specialmente in quelle visive). Secondo gli psicologi della Gestalt, detta anche psicologia
della forma, corrente psicologica riguardante la percezione e l'esperienza, la
configurazione delle parti di una struttura, di una forma (Gestalt appunto), sia essa un
disegno molto semplice o di un'opera più elaborata e complessa, viene colta dal soggetto
che la percepisce non parte dopo parte, ma innanzi tutto nella sua globalità. In un famoso
esperimento dei gestaltisti è possibile scorgere nel disegno di un vaso la figura di due
profili umani contrapposti. L'aspetto interessante dell'esperimento consiste nel fatto che
chiunque guardi il disegno potrà percepire l'una o l'altra figura - il vaso o i due profili - e
mai entrambe contemporaneamente, cosa che non avrebbe ragione di accadere se la forma
complessiva fosse percepita sommando i suoi tratti costitutivi. Viceversa, l'esito
dell'esperimento sembra costituire una prova del fatto che noi non percepiamo le forme
elemento per elemento, tratto dopo tratto, ma ne percepiamo la struttura globale rispetto a
uno sfondo, e che la percezione di una forma esclude quella dell'altra.
Nel suo saggio Arnheim fa riferimento alla teoria della Gestalt secondo il quale "il
disordine non è l'assenza di qualsiasi ordine, ma piuttosto lo scontrarsi di ordini privi di
mutuo rapporto". Per la psicologia della Gestalt infatti, come abbiamo detto, il soggetto
umano non coglie i componenti di una struttura (linee, forme, oggetti) prima della loro
forma globale, ma viceversa, la forma globale, o se vogliamo l'ordine strutturale
complessivo, prima dei singoli elementi. Già a livello della percezione, quindi, ciò che
viene colto non è una sommatoria di dati individuali, ma una giustapposizione di
strutture. Dunque, Arnheim afferma che l’arte contemporanea nasce dallo scontro tra
semplicità (ordine) e caos (entropia) e forse è anche da questo che scaturiscono i molteplici
linguaggi caratterizzanti le tendenze stilistiche tipiche dell’arte contemporanea, che spesso
utilizzano come “manifesto” la dissoluzione della classica figura e l’utilizzo di forme di
rappresentazione della realtà intesa come flussi di energia che animano il mondo. Di
questi flussi l’arte ne individua i movimenti, ne fissa le forme. Nascono gruppi, tendenze,
manifesti programmatici, azioni e installazioni che scardinano la composizione dello
spazio, alterano il senso del tempo, della contemporaneità e della Storia. E l’irrompere
nella quotidianità del digitale e della “Rete” hanno reso il linguaggio un’orgia virtuale.
Riferendosi a queste due tendenze stilistiche apparentemente opposte che attraversano
l'arte contemporanea Arnheim nota che da un lato vi è l'esibizione di una semplicità
estrema, quadri che si limitano a poche strisce parallele, tele coperte uniformemente da un
solo colore, nude scatole di legno o metallo; dall'altro il trionfo del disordine, accidentale o
deliberatamente proposto.
In entrambi i casi, tuttavia, l'effetto voluto sarà conseguibile solo tenendo conto del fatto
che l'apprensione del quadro da parte di un ipotetico spettatore è appunto di tipo globale,
e che unitamente agli aspetti più caotici o disordinati la percezione dello spettatore
tenderà spontaneamente a ricostruire un qualche ordine e a evidenziare la struttura
interna della composizione. Quindi, in ogni caso si tratterà, da parte dell'artista, di saper
comunque far leva su questa attitudine naturale della percezione.
Fisic’Arte118
Nella pittura moderna vi sono quindi spesso "chiazze o spruzzi di colore più o meno
controllati, nella scultura l'affidarsi a tessiture casuali, a strappi o intrecci di materiali
diversi, nonché ad oggetti trovati".
Alcune opere dell'Espressionismo
astratto, come quelle di Jackson
Pollock (1912-1956), consistono in
"una distribuzione spaziale di
pigmento spruzzato e spalmato
controllato dal senso di ordine
dell'artista", e possono costituire un
valido esempio del libero gioco
delle due tendenze prima citate da
Arnheim. Per ottenere il massimo
della libertà creativa ed il minimo
del condizionamento sia mentale
che fisico, Pollock usava una
tecnica, il dripping che gli permette di depositare il colore sulla tela secondo flussi materici
liberamente discendenti per forza di gravità, anziché in pennellate distese, in un processo
ripetitivo e dinamico che sovrappone in più riprese varie stratificazioni di tracce colorate:
facendo affiorare e liberando, in questo lungo processo gestuale, il sentimento interiore e
gli impulsi più profondi, l'artista si muove attorno alla tela, posata a terra, impegnando nel
gesto creativo non solo la mano ed il braccio, ma tutto il corpo, la tela non ha più un
centro, un verso, un inizio ed una fine, ma diviene una sorta di territorio da percorrere
sulle tracce di una grande composizione all over, indifferenziata e caotica.
In realtà, lo sgocciolamento della vernice fluida è un processo naturale che obbedisce a
leggi precise, all'interno di un "sistema caotico", secondo un ordine caotico, teorizzato
negli anni '60 come teoria del caos (di cui Poincaré pose le basi, siamo tra la fine del XIX e
l’inizio del XX secolo), ipotesi scientifica formulata quando la scienza si rese conto di non
essere in grado di spiegare secondo i principi tradizionali gli aspetti irregolari e incostanti
della natura e della realtà in campo fisico, biologico e persino socio-economico.
Fisic’Arte119
Ma poco dopo Mandelbrot (1924-2010) elabora una
sua teoria, una nuova modalità di rappresentazione
della teoria del caos, che, più di quella euclidea, si
presta ad analizzare e classificare i fenomeni
naturali, non racchiudibili nei consueti schemi
geometrici, dando vita alla teoria dei frattali, in cui
convergono geometria, fisica e informatica. Molto
sinteticamente, si può dire che un frattale (dal latino
fractus, infranto) che qualcuno ha definito
l'impronta digitale della natura, è una figura
geometrica nella quale si ripete su scala sempre più
ridotta uno stesso motivo che all'ingrandimento
rivela indefinitamente sempre nuovi particolari, in cui ogni piccola parte possiede una
struttura molto simile a quella dell'insieme (proprietà dell'auto-similarità): si tratta di una
figura molto adatta ad esprimere graficamente le forme della natura secondo un rigoroso
modello matematico, legato ad un nuovo concetto di dimensione.
Sono concetti legati proprio alla pittura di Pollock, apparentemente così istintiva e priva di
regole, da un legame di relazione scoperto negli anni '90 da Taylor, un fisico-artista. A
seguito della sua straordinaria intuizione, le opere di Pollock sono state scansionate al
computer ed hanno evidenziato che il pigmento colato sulle tele definisce uno schema
distributivo delle zone riempite di colore e delle zone bianche sempre uguale, per quanto
si riduca la scala di osservazione, secondo una precisa struttura frattale simile a quella in
cui evolvono le forme naturali: siamo negli anni '40, più di 25 anni prima della scoperta di
Mandelbrodt.
Un matematico ed un artista hanno trovato, per diverse vie, un nuovo modo di approccio
alla conoscenza del mondo, l'arte, come più volte è già accaduto, ha fatto una fuga in
avanti ed ha preceduto il pensiero razionale: inconsapevolmente Pollock, alla ricerca di
una totale casualità compositiva, in realtà mima precisi schemi naturali. Il confine tra arte
e scienza si fa sempre più labile, trovando il suo punto di tangenza nell'uomo, che non è
scienziato, o artista o altro, ma una entità indivisibile nella quale tutto è contenuto, a
livello conscio e razionale o sotto forma di archetipo mentale che l'intuizione svela ed
esprime attraverso mezzi irrazionali, o attraverso l'arte.
Fisic’Arte120
Il Dadaismo, avanguardia artistica nata tra il 1916 e il 1920, affida la produzione dell'opera
d'arte proprio alla casualità che si realizza senza una causa definita e identificabile,
contraddicendo così ogni teoria deterministica che assegna ad ogni accadimento una
precisa causa.
Dice Jean Arp:
"La legge del caso, che racchiude in sé tutte le leggi e resta a
noi incomprensibile come la causa prima onde origina la
vita, può essere conosciuta soltanto in un completo
abbandono all’inconscio. Io affermo che chi segue questa
legge creerà la vita vera e propria."
Quindi, con l'esaltazione della casualità e la negazione della
razionalità, con uno stile eterogeneo e disparate tecniche
espressive, con la voluta ricerca della non-funzionalità, il
Dadaismo mette in crisi il pensiero funzionalista dell’epoca,
producendo opere che non rappresentano nulla, sono un
puro gesto contrapposto alla organizzata e razionale
oggettualità e funzionalità del reale, che daranno un
determinante contributo alla definizione di una nuova,
rivoluzionaria concezione estetica.
Nell’opera Collage disposto
secondo le leggi della casualità
Jean Arp (1887-1966) sperimentava le leggi del caso
lasciando che le forme cadessero su una superficie e
studiandone il risultato. Questo collage, in cui sono disposti
con eleganza pezzi di carta strappata e incollata, è una
composizione giocosa e quasi sincopata in cui i riquadri
irregolari paiono danzare nello spazio. Come suggerito dal
titolo, il collage non è stato creato secondo un progetto
dell’artista ma casualmente. Arp cerca di realizzare
un’opera scevra da interventi umani e più vicina ai
fenomeni fisici naturali.
In una serie di rilievi in legno Arp offrì una interpretazione
visiva dell'aspetto casuale, ponendo un certo numero di forme autonome su uno sfondo
vuoto in modo tale che esse non si adattassero ad alcuno schema compositivo generale, ma
venissero tenute in equilibrio unicamente
dalle loro mutue relazioni di peso e di
distanza. Anche mostrando che medesimi
elementi possono essere montati in tre modi
diversi ma parimenti validi, egli sottolineava
la natura fortuita del loro combinarsi: ma lo
faceva con quel delicatissimo controllo
dell'ordine la cui indispensabilità era giunto
a riconoscere.
Che la fantasia, la creatività e quindi l’arte
traggano la loro origine proprio dal caos, lo
confermano le parole di Francis Bacon (19091992), uno dei geni della pittura del ‘900,
Fisic’Arte121
riferendosi al suo leggendario studio che somigliava a un fantastico immondezzaio: “mi
sento a casa nel caos, perché il disordine suscita immagini”. Al contrario le sue opere sono
studiate con molta attenzione e precisione.
Il caso ha un ruolo molto importante in varie correnti
culturali, basti pensare al Surrealismo, dove svolge il
ruolo di rivelatore dell'inconscio, o anche a molti
movimenti dell'arte moderna o contemporanea quali
l'Astrattismo e l'Informale in tutte le sue varianti.
L’artista informale non è più colui che crea nuovi
elementi, ma colui che sa lasciarli accadere, limitandosi
magari a favorirne l’attuazione con la spontaneità del
caso o la fantasia del sogno. Nella tela Pittura i vortici e
le macchie di colore fanno evidente riferimento a
un’impostazione di tipo surrealista. Le esperienze più
profonde della psiche emergono con spontanea
casualità. La trascrizione delle sensazioni avviene con
un automatismo slegato da qualsiasi intento descrittivo. Il disagio esistenziale dell’artista
si fa materia, impastandosi con colori misti a sabbia, e saltando e del tutto ogni passaggio
di tipo figurativo.
L’Entropia è stato un tema costante anche in tutta l'arte di Robert Smithson (1928-1993)
caratterizzata da degrado e rinnovamento, caos e ordine. Smithson ha parlato a lungo
nelle sue interviste e saggi su entropia e la sua
nozione del tempo. In Entropy and the New
Monuments ha scritto: "... l'espansione urbana
incontrollata, e l'infinito numero di abitazioni
prodotto dal boom economico del dopoguerra
ha contribuito all’ architettura di entropia"
inoltre: "l'entropia è una condizione che si sta
muovendo verso un graduale equilibrio ".
Nella sua arte Smithson ha cercato di
rappresentare l’entropia dell’esistenza, il
tentativo umano di contrapporsi inutilmente a
quest’entropia e i meccanismi che relazionano
l’uomo, essere finito e mortale, con la natura,
concetto invece che sfiora l’infinito e
l’illimitato.
Nei pressi di Roma è situata l’opera Asphalt
Rundown creata nel 1969, quando fece scaricare
da un camion una colata di asfalto sul ciglio di
una cava abbandonata. L’opera evoca in noi, oggi, non tanto le considerazioni formali che
Smithson probabilmente si prefiggeva quanto l’immagine triste e troppe volte vista di uno
scarico abusivo di materiale inquinante. Smithson, del resto, non ha mai nascosto il suo
scarso interesse per la natura in quanto tale. Coerentemente, egli stesso dichiara di
preferire alle «bellezze naturali» i luoghi che sono stati stravolti, deturpati, e snaturati
dall’intervento umano, ossia luoghi dove l’entropia segue il suo principio naturale, quello
del suo inesorabile aumento, l’aumento del disordine.
Fisic’Arte122
La creazione artistica di De Dominicis nasce, invece, come pratica anti-entropica e con lo
scopo di arrestare l'irreversibilità del
tempo. Infatti alla domanda: “Che cosa
veramente la interessa nella costruzione di
un quadro?" l’artista risponde: “Che una
volta terminato mi sorprenda e mi
rimandi più energie di quante ne ho messe
per realizzarlo. Così l’opera essendo
‘antientropica’ contraddice il ‘secondo
principio della termodinamica’ e si
riappropria del problema della morte e
dell’immortalità del corpo, che è sempre
stata l’istanza principale dell’arte visiva,
senza delegarlo alla scienza e agli
scienziati, il che sarebbe pericoloso.”
Con Tentativo di volo (1969) e Tentativo di
formare quadrati invece che cerchi attorno ad un sasso che cade nell’acqua (1969), si basano sulla
ripetizione infinita di un gesto assurdo: nel primo, l’artista agita le braccia come fossero ali
sperando in un’eventuale evoluzione dell’arto; nel secondo cerca, con pazienti tentativi, di
formare onde quadrate invece che circolari gettando un sasso nell’acqua. Lo spettatore si
ritrova immerso in un paradosso: pur essendo perfettamente consapevole che l’uomo non
imparerà mai a volare o che non riuscirà a creare degli elementi geometrici e razionali
all’interno di un contesto naturale (ancora una volta il tutto è impossibile o altamente
improbabile in base all’interpretazione probabilistica dell’entropia), continua a sperare in
questa illusione. E di fatto l’illusione tanto anelata può realmente realizzarsi, non a livello
retinico, ma, piuttosto, a livello mentale, metafisico.
Il tema del caos e dell’ordine è presente tuttora
nell’arte contemporanea, come nelle opere di Paolo
Contin. I quadri di Contin, frutto di accostamenti
cromatici spesso audaci e sorprendenti, anche quando
sembrano provenire dal trionfo della casualità, sono
in realtà il risultato di una esplorazione profonda
dell’autore. Quel rettangolo di grovigli e grumi di
colore palpitante apparentemente disordinato e
sofferto, frutto di un dripping molto personale, altro
non è che lo schermo su cui il pittore proietta la
natura del suo Io. Accanto alla necessità interiore che
vive nella fantasia dell’artista (Kandinsky), vi è anche
l’ordine razionale e strutturale che è insito nella realtà
(Mondrian). Il libero e disordinato fluire del colore si
confronta infatti spesso con le figure più elementari della geometria euclidea, il triangolo,
il quadrato, il cerchio, richiamo all’ordine di un mondo di leggi immutabili, solo
apparentemente sovrastato dal caos.
Con l’introduzione del principio di indeterminazione di Heisenberg (1926) si pone un
limite teorico (e non solo pratico) alla possibilità di determinazione esatta e simultanea
delle grandezze coniugate di un sistema microfisico (come, per esempio, posizione e
velocità di una particella), e ciò si riflette anche sulla possibilità di precisione esatta
Fisic’Arte123
consentita dalle leggi fisiche (che assume un carattere soltanto statistico). La casualità ora
entra nel mondo della fisica con un ruolo fondamentale e inedito, anche se diverso rispetto
al significato che ha nella fisica classica. Adesso la casualità a livello microscopico presenta
un comportamento probabilistico non in virtù di una scarsa conoscenza di elementi per
indagare sulle cause ben definite del fenomeno, ma perché è legge di natura, nel senso che
è insita nella natura stessa del comportamento del microcosmo. In sostanza nella fisica
quantistica il caso si presenta non perché siamo incapaci di scoprire la causa del singolo
avvenimento, ma semplicemente perché l’avvenimento non ha alcuna causa.
4. Arte e fisica moderna
Con la nascita della Meccanica Quantistica entra in crisi il senso della realtà e il principio
di causalità. Il principio di indeterminazione di Heisenberg introduce per la prima volta
un limite alla possibilità di conoscere la realtà: non possiamo conoscere
contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella. Non esiste la traiettoria.
La realtà è aleatoria. E ciò si riflette anche sulla possibilità di
precisione esatta consentita dalle leggi fisiche (che assume
un carattere soltanto statistico). La frattura tra ragione e
realtà fisica determinata dalla Meccanica Quantistica,
secondo la quale l'unica via della conoscenza nel
microcosmo è quella probabilistica, tocca di fatto il problema
dello statuto del realismo scientifico, apparentemente sensato, nel
quale la realtà esterna viene considerata oggettiva, indipendentemente dall'esistenza del
soggetto pensante. Una tale impostazione dette origine a conclusioni paradossali. Infatti,
dato che per la MQ la realtà si può conoscere effettivamente solo al di là
dell'indeterminazione, cioè solo quando diviene possibile misurarne la localizzazione nello
spazio, Schrodinger formulò un'ulteriore riflessione conosciuta come il paradosso del
Gatto di Shroedinger. Il gatto, chiuso in un contenitore, se non osservato può risultare vivo e
morto simultaneamente. Infatti, secondo l'interpretazione probabilistica della MQ, quando
nessuno lo guarda, il gatto esiste in uno stato di sovrapposizione, dove ha la probabilità al
50% di essere sia vivo che morto. Quindi, nella MQ il gatto può simultaneamente esistere e
non esistere, in una visione complementare, riconosciuta valida dalla MQ. Solo se viene
osservato aprendo il contenitore è infatti possibile sapere se effettivamente risulta essere
vivo oppure morto. L’osservatore entra nella teoria e la realtà esiste solo quando
l’osserviamo? Quando ciò accade diviene necessario rivedere i criteri di base che abbiamo
ritenuto essere non modificabili, e quindi per assumere un nuovo concetto di realtà.
Pertanto, dobbiamo accettare di cambiare il paradigma cognitivo che rende
dogmaticamente inalterata la struttura dello spazio-tempo.
Per demolire definitivamente l’idea rassicurante di un universo eterno (dipendente dalla
volontà di Dio e quindi per questo soggetto alla razionalità), immutabile, discernibile, ci
pensa Hubble che nel 1929 scopre che le galassie lontane si allontanano dalla Terra con
una velocità che aumenta con la distanza: l’universo si espande, e si sviluppa l’idea di un
universo che nasce dal caso, da una fluttuazione quantistica. Quale sarà il destino di
questo universo? Qual è il ruolo dell’uomo in esso? L’universo si espanderà per sempre
fino a diventare una “cosa” buia e fredda? Si fermerà fino ad implodere su se stesso? E’
questo un evento ciclico? Viviamo in un mondo tutt’altro che rassicurante, in un certo
senso inquietante, dominato dal caso? Probabilmente non ci allontaniamo dal vero
Fisic’Arte124
dicendo che la rivoluzione scientifica del Novecento ha messo in crisi l’idea finalistica di
universo: un universo fatto per l’uomo.
Nell’arte tutto ciò si manifesta nell’inquietudine, nell’insofferenza, nella ricerca di nuovi
linguaggi. L’arte diventa espressione della coscienza dell’uomo contemporaneo lacerato
dalla mancanza di facili certezze. Si rompe con la tradizione, si sperimentano nuovi
linguaggi, si ricercano nuove vie espressive. Finito l’universo dei moti armonici sostenuti
da forze angeliche, l’universo del Dio orologiaio, dove tutto è prestabilito, resta un
universo aperto ad una sorte incerta e proprio per questo aperto a varie possibilità.
Questo nuovo approccio che limita la conoscenza della realtà, o che comunque si discosta
dalla visione della fisica classica e anche da quella relativistica, si manifesta quasi
contemporaneamente. Dal tentativo dell’artista di sganciarsi dalla rappresentazione del
dato di realtà così come appare per raggiungere una realtà altra, oltre l’apparenza
sensibile, nacque l’arte astratta.
Il percorso che portò a un tale esito è stato lungo e tormentato e nacque dall’esigenza di
creare un’arte nuova. Tale ricerca del nuovo va comunque inserita nella crisi culturale di
fine ottocento, quando il diffuso ottimismo derivante dai successi della scienza
ottocentesca si incrina. Quindi l’arte astratta partecipa alla reazione generale verso il
passato. Si chiede una nuova scienza e una nuova arte. Il dibattito sull’arte astratta e sul
suo valore fu molto acceso e ricorda il dibattito che si sviluppò intorno alla meccanica
quantistica. Diceva Picasso: “l’arte astratta è solo pittura, e il dramma?” Evidentemente
secondo Picasso il dramma sta nella realtà. Allo stesso modo Einstein non accettò mai
l’interpretazione probabilistica della meccanica quantistica: “Dio non gioca coi dadi”. Per
Einstein era ancora difficile liberarsi di concetti quali traiettoria, posizione, misura classica,
causa effetto.
Nel saggio Lo spirituale nell’arte (1911) Kandinskij prende atto della “dissoluzione del
soggetto” mettendo l’accento su quello che oggi chiameremmo piuttosto l’importanza del
ruolo dell’osservatore e del suo “punto di vista”. L’arte - anche quella più apparentemente
“figurativa”- non “rappresenta” il mondo, ma piuttosto lo denota tramite le scelte
stilistiche peculiari di ogni artista. Semplificando, possiamo dire che Kandinskij pone l’
“occhio della mente” al centro del rapporto tra l’osservatore e il mondo, proprio come gli
antichi maestri della prospettiva avevano fornito un modello matematico della visione
“fisiologica”. Ed è interessante notare che tutto questo avviene in anni in cui la relatività e
la fisica quantistica cominciavano a porre in termini scientifici la questione metodologica
del ruolo dell’osservatore. Una prima conclusione provvisoria è dunque: noi vediamo il
mondo attraverso il filtro cognitivo dei nostri modelli (culturali, concettuali,
epistemologici, metodologici, formali).
Questa crisi della realtà e il suo carattere aleatorio portano alla nascita, come abbiamo
detto, nel campo figurativo, dell’arte astratta, l’arte oltre il visibile. Kandinsky (1866-1944)
così
come
Klee
(1879-1940) percepirono
la
esigenza
di
esprimere
l’energia emotiva superando definitivamente la dimensione prospettica in una
dimensione espressionista della pittura. In particolare Kandinsky fu affascinato dalla
relazione tra la composizione musicale e quella artistica. Suono e tempo venivano così a
corrispondere ad onde bidimensionali nello spazio e del tempo. Tale necessità interiore lo
conduce ad esprimersi in uno stile intuitivo di una rinnovata composizione pittorica
basata su proprietà non più rappresentative delle percezione visiva di tipo prospettico.
Fisic’Arte125
Mondrian afferma:
“Lo spirito nuovo distrugge la forma delimitata nell’espressione estetica, e ricostruisce
un’apparenza equivalente del soggettivo e dell’oggettivo, del contenuto e del contenente:
una dualità equilibrata dell’universale e dell’individuale e con questa dualità nella
pluralità crea il rapporto puramente estetico”.
Il confronto è immediato con il dualismo onda-corpuscolo
della fisica quantistica e con il nuovo rapporto naturaosservatore.
Così come la scienza cambia paradigma per descrivere la
natura, l’arte si da nuove regole per andare oltre la limitante
visione dell’occhio umano. I cubisti capiscono che il “davanti”
e il “dietro” sono due parti integranti di un oggetto, due facce
che l’uomo non può vedere contemporaneamente, e tentano di
sopperire con la loro arte a tale mancanza. Essi vogliono
rappresentare la realtà e il “dietro” è importante tanto quanto
il “davanti”, quindi anch’esso va rappresentato. L’arte astratta
introduce la dissoluzione del soggetto, e rende impossibile una
netta separazione fra l’osservatore-artista e oggetto osservato, togliendo una delle
caratteristiche più spontanee che il senso comune (e la fisica tradizionale) sottendevano
per una conoscenza oggettiva del mondo, che ora viene descritto tramite la scelta di un
proprio linguaggio estetico.
Fisic’Arte126
Pertanto nel campo dell’arte, le due visioni “davanti-dietro” o “osservatore-oggetto
osservato”, e nel campo fisico la dualità onda-corpuscolo, sono obbligate a convivere, non
già in campi separati dell’arte o della fisica, come accadeva in precedenza, ma nella
descrizione del comportamento di una medesima entità.
Nel 1911 Rutherford con la scoperta del nucleo dell’atomo e la conferma della dissoluzione
della sostanza della materia, nel gioco di forze elettriche fra atomi e molecole, porta avanti
il più grande cambiamento alle nostre idee sulla materia, mai realizzato da Democrito in
poi. Con la scoperta del vuoto della materia e la rappresentazione dell’atomo poroso come
un sistema solare, viene messa in discussione la sostanzialità della vecchia materia. Nella
Teoria dei Quanti tutto questo si tramuta nel radicale superamento tra la materia,
concepita come un insieme di minuscole entità discrete ed individuali nello spazio e nel
tempo e la radiazione, intesa come fenomeno continuo ed ondulatorio. I fenomeni studiati
non possono prescindere dagli effetti, dalle azioni di disturbo, provocate dall’osservatore,
che viene pertanto assunto come parte integrante del fenomeno; e con il principio di
indeterminazione di Heisenberg si dissolve il meccanismo di ‘causa-effetto’ che aveva
retto nella Fisica Classica Newtoniana il principio della possibilità di osservazione
obiettiva del “reale”, facendo sì che la sorgente casuale di un fenomeno rappresenti la
probabilità della sorgente casuale di un altro fenomeno.
In questo contesto accade improvvisamente l’evento del gesto di
Duchamp: una ruota di bicicletta montata su una sedia da
cucina; oggetto anonimo prelevato dalla propria destinazione,
che viene esposto in un luogo deputato all’arte, come vera opera
d’arte. L’artista, dopo aver isolato l’oggetto dal proprio
ambiente e dal proprio contesto fisico ed averlo confinato in un
nuovo ordine di significati logici, rinominandolo con un diverso
termine, compie un gesto e produce un evento: lo espone in una
galleria o in un museo.
L’oggetto divenuto ‘ready-made’ per scelta dell’artista, che lo
mette in presa diretta con la realtà della struttura linguistica
dell’arte, non solo muta la nozione stessa dell’arte, ma a sua
volta, perso il suo statuto di utensile, viene trasformato dal
sistema dell’arte in oggetto artistico.
La casualità, tanto importante per Duchamp e il movimento
Dadaista, intesa come indifferenza visiva ed attitudine alla libertà, trova nel principio di
indeterminazione un approdo, che diventerà terra feconda di lavoro per tutta la Seconda
Avanguardia del Secolo, la cui nascita può collocarsi intorno al 1956-58.
Nel 1926 Schrödinger suggeriva che si può intendere la materia come collezione di onde
che si sommano e interferiscono fra loro, affermando che una particella non era altro in
realtà che un gruppo di onde di dimensioni relativamente piccole, introducendo, così,
un’indeterminatezza di comportamento al carattere dell’atomo. Anderson nel 1932
otteneva una fotografia nitida di una particella, che si incurvava nella direzione sbagliata.
La particella aveva la stessa massa, ma carica opposta. I positroni erano il nuovo tipo di
materia-antimateria, che Dirac aveva previsto qualche anno prima (1930). Dirac infatti era
arrivato a mettere a punto una nuova concezione del vuoto, come un mare senza fondo,
occupato da elettroni di energia negativa. Un’altra frontiera era caduta. Da quel momento
diviene sempre più chiaro che quasi tutte le particelle hanno un’anti-particella uguale di
Fisic’Arte127
massa nella maggior parte delle proprietà, ma di carica opposta. Dirac era arrivato alla
conclusione che il vuoto fosse pieno di copie virtuali (particelle-antiparticelle), che quando
si incontrano si annichilano, liberando, con la scomparsa della materia, l’energia di massa
(E=mc2 ) .
Il concetto di materia e di antimateria, particella ed antiparticella rimanda e visualizza la
nozione di positivo e di negativo ed apre la possibilità di indagine nel campo della
negatività. La possibilità della materia di presentarsi sotto forme diverse, sia come energia
che come materia universale, in quanto tutte le particelle elementari possono, ad energie
sufficientemente alte, essere trasmutate in altre particelle, o possono semplicemente venir
create dall’energia cinetica o risolversi in questa (ad esempio in radiazione), apre inediti
orizzonti alla visualizzazione potenziale di nuovi linguaggi e di nuovi sconfinamenti per
l’arte. Infatti i linguaggi che diventeranno la matrice genetica del grande sconfinamento
verso il “fuori-quadro”, proprio della Seconda Avanguardia, iniziano la loro formulazione
negli anni seguenti la Seconda Guerra Mondiale. La figura artistica che meglio ha
interpretato questa nuova frontiera può essere indicata in Ad Reinhardt.
Il movimento dell’Happening&Fluxus può essere visto come l’area di pensiero dove il
sapere quantistico trova l’humus ideale per attivare la propria presa diretta sulla realtà.
Infatti con l’Happening si ha l’integrazione di tutti gli elementi della rappresentazione,
quali: l’environment, il tempo, lo spazio, le composizioni e la gente che vi partecipa, dove
lo spettatore assume il ruolo di “partecipatore” all’evento stesso.
18 Happenings in 6 Parts è un’opera nella quale Allan
Kaprow (1927) ha riversato la sua formazione all’action
painting e lo studio delle performance di John Cage.
L’happening si compone di una partitura attentamente
concepita e scritta rigidamente, grazie alla quale il
pubblico, per la prima volta nell’arte del ventesimo secolo,
viene coinvolto e manipolato interattivamente. Queste le
istruzioni fornite agli spettatori partecipanti: “la
performance è divisa in sei parti... Ogni parte contiene tre
happenings che accadono immediatamente. L'inizio e la
conclusione di ciascuna performance saranno segnalati da
una campana. Alla fine della performance verranno uditi
due colpi di campana... non ci sarà applauso dopo ogni
insieme, ma potete applaudire dopo il sesto insieme se lo
desiderate.”
Negli happenings di Kaprow gli spettatori si trasformano in vero e proprio
materiale attraverso il quale l’artista può rappresentare la propria visione dell’arte e del
mondo.
Fluxus è un termine latino che significa flusso, quindi
sta ad indicare un fenomeno in continuo mutamento,
che non ha forma né luogo. Rifacendosi all’happening
americano, Fluxus teorizza un modo di fare arte che è
un fluire ininterrotto di situazioni, percezioni e
molteplici esperienze estetiche e sperimentali. La
caratteristica di Fluxus è l’interdisciplinarietà dei suoi
eventi, che al suo interno possono contenere e
inglobare svariate correnti artistiche, come per
esempio la musica sperimentale, il noveau realism, la
Fisic’Arte128
videoart, l’arte povera, il minimalismo e l’arte concettuale. Non è un gruppo unificato né
ha un manifesto programmato, ma vuole piuttosto essere un insieme di individui, di
artisti, che partecipano attivamente al movimento portando avanti le loro personali
sperimentazioni. Fluxus evidenzia, quindi, quel grande fenomeno della de-realizzazione
operata dall’avvento della televisione, una nuova realtà dell’immagine, che ha prodotto
una perdita di consistenza nella natura delle cose. L’arte per questi artisti diviene il luogo
totale, disponibile ad accogliere qualsiasi possibilità creativa. Tale movimento mette in
luce il quotidiano totalizzante dell’era tecnotronica, il quotidiano che vive il mutamento
radicale con le cose e con gli altri, la perdita della consistenza materiale degli oggetti della
percezione, diventati e che diventeranno veri e propri simulacri immateriali.
L’Arte Povera è stata una delle poetiche artistiche che meglio
hanno caratterizzato la seconda metà degli anni sessanta.
Questo movimento, fin dalle sue prime apparizioni, si è
segnalato per la costante ricerca a “identificare l’azione
dell’uomo nel suo libero progettarsi”, attraverso una continua
focalizzazione nei suoi gesti sociali autonomi intesi come
emergenza a sé stante. Infatti l’Arte Povera coltiva
l’atteggiamento che tende al “reperimento del significato
fattuale del senso emergente del vivere dell’uomo” come
liberazione formativa e compositiva di un’arte che vuole
“essere antisistema”. Per fare questo, l’artista, in una società
dove tutto è sistema, rifiuta ogni posizione categoriale ed ogni
etichetta per identificarsi solo con sè stesso. L’Arte Povera si
presenta quindi come un’arte che si lega al contingente,
all’evento ed al presente: un presente che non si chiude nel quotidiano, ma vive la
dimensione “dell’astoricità”. L’arte quindi cessa di essere un manufatto privilegiato, per
diventare una pratica processuale, dove i processi di realizzazione e le analisi che ne
scaturiscono diventano più significativi dell’opera stessa. L’arte diventa così una sottile ed
acuta definizione degli elementi psichici e naturali che attraverso la loro presentazione
assumono la possibilità di diventare “oggetti di teorie”. La volontà di evidenziare
“l’energia”, di analizzare “i processi naturali”, di ricorrere “ai materiali poveri”, indica la
determinazione, da parte degli artisti dell’Arte Povera, di assumere un nuovo concetto di
arte “come stimolo a verificare continuamente il proprio grado di esistenza mentale e
fisico”, ma soprattutto “come l’urgenza di un esserci” che “elimina lo schermo fantastico e
mimetico della rappresentazione artistica dinanzi alla comunità degli spettatori”.
Questo movimento si caratterizza quindi per una
forte tendenza al riduzionismo, inteso come recupero
del “primario” nel senso di visualizzare come arte gli
elementi primari della natura, quali: la terra, l’acqua,
il fuoco, l’aria ma anche una non esclusione degli
elementi che costituiscono il nostro panorama ed
orizzonte quotidiano.
Si realizza con l’Arte Povera un momento
profondamente freddo che tende alla ‘decultura’, alla
regressione
dell’immagine
allo
stato
‘preiconografico’, ad un impegno con l’evento
mentale e comportamentistico, dove la creatività
Fisic’Arte129
tende a riempire il vuoto esistente tra arte e vita. Ne deriva ‘una fisicizzazione di un’idea,
un’idea tradotta in materia, la quale produce una microemotività antropologica intensa e
cerebrale.
Indubbiamente l’Arte Povera non può sottrarsi al clima culturale che si era instaurato alla
fine degli anni ‘50/inizio ‘60, quando l’esplorazione del mondo subatomico da parte della
fisica quantistica aveva rivelato la natura intrinsecamente dinamica della materia. Infatti in
quegli anni si era diffusa la conoscenza che i costituenti dell’atomo, ossia le particelle
subatomiche, erano configurazioni dinamiche, che non esistono in quanto entità isolate,
ma come parti integranti di un’inestricabile rete di interazioni. Queste interazioni
comportano un flusso incessante di energie, che si manifesta come scambio di particelle:
un’azione reciproca dinamica in cui le particelle sono create o distrutte in un processo
senza fine, in una continua variazione di configurazioni di energia.
Se la rottura del determinismo causa/effetto ed il principio di indeterminazione erano stati
in qualche modo il portato epistemologico su cui si erano rette le problematiche
dell’Happening & Fluxus, appare abbastanza evidente che il nuovo concetto di mutabilità
della materia quantica in qualche modo corre in parallelo con le posizioni teoriche
dell’Arte Povera. Tale arte, infatti, si pone come evidenziazione della forza energetica e
processuale insita nella natura, come formulazione di equilibri instabili e di processualità
dinamiche, come fisicizzazione della forza di un’azione e di un evento, come recupero di
energie elementari biologiche e naturali, ecc.
Privilegiando lo statuto di veicolo di informazione e di messaggio piuttosto che il valore
estetico proprio dell’arte che l’aveva preceduto,essa trova nella dimensione quantitativa il
proprio contesto espressivo. Il fruitore non è più un elemento passivo all’interno del fatto
estetico, ma diventa partecipatore attivo al fatto stesso. Di qui nasce l’esigenza di un
sempre maggiore coinvolgimento dell’osservatore che entra nell’evento come presenza
necessaria. Per ottenere questo, l’artista estende le dimensioni dell’opera in modo da
inglobare nel suo gioco linguistico l’osservatore, il quale partecipa attivamente al processo
artistico.
L’opera di Ad Reinhardt (1913-1967) invece diviene
emblematica per la comprensione del Minimalismo e gli
sviluppi dell’Arte Concettuale.
I suoi ‘quadri neri’ ottenuti mediante un processo di
riduzione, sottrazione e sospensione di tutti gli elementi che
formano un quadro, aprono quella grande rivoluzione
linguistica di “uscita dal quadro stesso”, che prenderà corpo
e definizione qualche anno più tardi. La sua opera infatti
rappresenta, sempre più nel tempo, il tendere dell’arte verso
una ridefinizione ‘di sè da sè stessa’, cioè il momento
catarchico dell’arte reso necessario dall’avvento del nuovo
sapere. In tal modo Reinhardt riesce a spingere oltre al limite
estremo della non percettibilità la rappresentazione e lo
sfondo, raggiungendo, attraverso la loro immersione nel nero, la dimensione liminale di
questi elementi.
Le ‘pitture nere’ di Reinhardt, portate avanti dall’autore fino alla sua morte, visualizzano il
raggiungimento della nuova dimensione legata al ‘vuoto quantico’ ed alla ‘negatività’,
elementi che sono alla base della grande ‘frattura’ delle arti, propria della seconda metà
del XX secolo.
Fisic’Arte130
Muovendo dall’opera di Ad Reinhardt e
di Barnet Newman (1905-1970), il
paradigma teorico della Minimal Art
vuole invece sostenere la più deliberata
riduzione dei mezzi espressivi, assieme al
rifiuto di qualsiasi inflessione soggettiva.
Lo scopo di questi artisti minimalisti era
quello di raggiungere, sia mediante
rappresentazioni,
che
attraverso
suggerimenti o allusioni, quel “minimum
sensibile”, quel limite mitico della sensibilità, dove l’oggetto veniva dissolto ed il valore
della sensibilità ridotto alla sua soglia più bassa. L’idea per gli artisti minimalisti prevede
quindi lo svolgimento successivo dell’operazione, in quanto essa agisce da nucleo genetico
di un’ operatività tendente ad un’ intelligenza teorica del fare arte.
Il procedimento artistico si identifica quindi con le operazioni trasformazionali compiute
all’interno del sistema ed il valore dell’opera risiede nelle modificazioni introdotte nel
codice,che il codice prevede e comprende come campo di possibilità.
Rimuovendo “il complesso” per arrivare “all’elementare irrelato”, i minimalisti fondano
un nuovo principio regolativo dell’operare artistico, dove le “strutture primarie” della loro
arte vengono costruite anche delimitando gli spazi in negativo e formalizzando le assenze.
Con l’Arte Concettuale, movimento nato intorno agli anni 1966/67, si arriva pertanto alla
rinuncia di ogni funzione rappresentativa ed espressiva, un'arte fondata sul pensiero e
non più su un ormai frainteso ed equivoco piacere estetico. Questo tipo di ricerca non
necessita più dell’uso di un codice rappresentativo o estetico. Non ricercando più
un’esplorazione del mondo, ma esplorando l’arte stessa, il Concettuale fa cadere ogni
genere di preoccupazione formale. E’ l’idea dell’arte
nell’autoanalisi di sè stessa. L’Arte Concettuale è tautologica: l’idea
dell’arte e l’arte sono la stessa cosa. L’arte può così instaurare un
rapporto tra l’opera ed il fruitore dove il dato artistico diviene
pura trasmissione di una informazione. Tale rapporto non presenta
però il semplice carattere “unidirezionale” (dall’opera al fruitore),
bensì include il destinatario nel processo conoscitivo come
momento integrativo e performativo dell’atto stesso. Emblematico
di questo pensiero è l’opera di Piero Manzoni (1933-1963), Merda
d’artista.
Per Sol Lewitt (1928-2007), uno dei fondatori dell’Arte Concettuale, proprio perché l’idea o
appunto il concetto rappresenta l’aspetto più importante nella creazione artistica, ogni
decisione sull’esecuzione e sulla
presentazione di un’opera d’arte è
presa antecedentemente e la sua
realizzazione diviene un aspetto
secondario, tanto che può essere
attuata da chiunque purché si
rispettino le istruzioni dell’artista,
la precisa esplicazione della sue
intenzioni, della sua idea. Per
usare le parole dell’artista, l’idea diventa lo strumento che produce l’arte.
Fisic’Arte131
Queste due vie: la linea dell’Happening & Fluxus e dell’Arte Povera e la linea di Ad
Reinhardt, della Minimal Art e dell’Arte Concettuale possono essere considerate all’interno
della Storia dell’Arte come i percorsi sincronici del sapere più vicini e paralleli allo
sviluppo delle conoscenze della fisica ed ai suoi principi fondanti il nostro secolo: la prima
linea può essere definita come la ‘linea epistemologica’ dell’arte e la seconda come la ‘linea
linguistica’ o del proposizionalismo, legata allo sviluppo della struttura del linguaggio ed
alla ridefinizione dell’arte nel suo rapporto dialettico con la scienza.
A partire dagli anni cinquanta si sono sviluppate in fisica tre grandi scoperte: l’instabilità
delle particelle elementari, le strutture del non equilibrio e l’evoluzione dell’universo, che
va sotto il nome di ‘Big Bang’.
Le strutture del non equilibrio, per soffermarci su questo solo problema, sono appunto
quei sistemi che dissipano le spinte ambientali al mantenimento della propria
organizzazione, senza che ciò implichi una rigidità nel comportamento strutturale.
Lontano dall’equilibrio i processi irreversibili sono fonte di coerenza. L’apparizione di
questa attività coerente della materia (le strutture dissipative) ci impone una nuova
maniera di porci in rapporto col sistema che definiamo e manipoliamo. I sistemi lontani
dall’equilibrio non subiscono la forza di gravità, allo stesso modo di un corpo pesante, ed
il loro comportamento non è sottoposto ad una generica relazione di causa/effetto. La
relazione causale è qui reciproca: è l’attività del sistema che “da senso” alla gravità, che la
integra in modo specifico al suo regime di funzionamento e la gravità rende questo
sistema capace di nuove strutture e nuove differenziazioni. E’ l’attività intrinseca del
sistema che determina il modo in cui dobbiamo descrivere il suo rapporto con l’ambiente e
che genera, dunque, il modello conoscitivo che sarà adeguato per comprendere le sue
storie possibili. Possiamo quindi parlare delle strutture lontane dall’equilibrio, come di
fenomeni di auto-organizzazione. Ma c’è di più! Vicino all’equilibrio, i punti che giacciono
su uno stesso piano hanno tutti le stesse proprietà. Lontano dall’equilibrio compaiono
zone di chirilità opposte. E’ presente quindi una rottura della simmetria dello spazio, allo
stesso modo in cui nei fenomeni temporali l’irreversibilità provoca la rottura della
simmetria del tempo. L’irreversiblità crea quindi una diversificazione all’interno del
sistema; la forma dello spazio è diversa rispetto all’esterno del sistema stesso. Ogni stato
esterno all’ambiente deve quindi essere interpretato in relazione allo stato interno del
sistema ed ai fini che intende perseguire. Nasce così il problema dell’autoriferimento e
soprattutto l’autocreazione di senso.
L’esperienza artistica, che prima di tutte aveva aperto questa nuova frontiera, provocando
una vera e propria ristrutturazione all’interno dei linguaggi dell’arte è quella di Neuhaus,
esaminata in precedenza.
Siamo alle soglie degli anni ‘90 dove il portato epistemologico delle “strutture dissipative”
e della “complessità” ridisegna la conoscenza ed il sapere dell’ultimo paradigma di fine
secolo. Questi concetti appaiono ora essenziali per far capire come ci troviamo all’interno
di un nuovo sapere che presuppone una diversa realtà: una realtà che incorpora ora la non
linearità, l’instabilità e la dissipazione nella descrizione di base della natura.
L’ottimismo degli anni Sessanta, in cui si parlava non di previsioni sulla realtà, ma
addirittura di controllo, è opportunità ormai lontana. La predicibilità a tempi lunghi é
possibile solo all’interno della classe di sistemi lineari, allora i soli conosciuti. Attualmente
la maggior parte degli avvenimenti è governata da leggi di evoluzione non lineari, dove
sono presenti i fenomeni della forte dipendenza dalle condizioni iniziali. Qui piccole
Fisic’Arte132
incertezze possono amplificarsi velocemente fino a rendere vano ogni tentativo di
previsione dopo un tempo relativamente breve. Il sistema caotico è infatti impredicibile
sui tempi lunghi a causa della crescita esponenziale della distanza tra due traiettorie
inizialmente molto vicine.
L’indeterminatezza, la complementarietà, la processualità, l’interdisciplinarietà che erano i
campi del sapere entro i quali gravitavano i movimenti degli anni ‘60/’70 nell’arte,
vengono ora scavalcati da una nuova visione del mondo che presuppone nuove categorie
di pensiero quali: l’autoorganizzazione, l’interazione, la coevoluzione, la condivisione, la
complessità, la contraddittorietà, il possibilismo, la traslocazione, la relazionabilità.
Il linguaggio dell’arte, in questa nuova dimensione del sapere, dove il tempo è
indissolubile dalla corporeità cosmica in quanto espresso in termini di relazioni tra le varie
parti che compongono il sistema, non può far altro che registrare una fenomenologia
dell’oggetto in perenne trasformazione e dislocazione, in quanto risponde ad una
soggettività frantumata in continua ricettività rispetto alle autorganizzazioni che incontra.
La scienza, però, oltre ad essere un possibile linguaggio per la descrizione del mondo, o
della realtà sensibile, diventare tema di rappresentazioni pittoriche o influenzarle con le
sue scoperte, può rappresentare anche un’ossessione, come nel caso di Dalì, capace di
produrre opere artistiche:
“Gli intellettuali e i letterati non possono darmi nulla. Gli scienziati mi danno tutto,
perfino l’immortalità dell’anima”.
Queste sono le parole di Dalì che fino in punto di morte tenne libri di Hawking e
Schroedinger sul comodino. Per tutta la vita Dalì fu affascinato e ossessionato dalla
scienza: moltissimi dei suoi dipinti sono ispirati alle maggiori scoperte del XX secolo e
perfino la sua firma è direttamente influenzata da un’immagine scientifica. Ispirato dal
Principio di indeterminazione di Heisenberg, scrisse il suo Manifesto Antimaterico:
"Durante il periodo surrealista volevo creare l'iconografia del mondo interiore e del
mondo del meraviglioso concepiti da mio padre Freud. Oggi, invece, il mondo esteriore e
quello della fisica hanno superato quello della psicologia. oggi mio padre è il Dottor
Heisenberg."
Dalì era avido di ogni tipo di letteratura scientifica, dai trattati di psicoanalisi a quelli di
meccanica quantistica, dalla matematica alla genetica; tentò in ogni modo di conoscere e
scambiare idee con i più celebri scienziati dell’epoca tra cui Prigogine e Watson, che gli
chiese di illustrare il suo libro sul DNA La doppia elica. Si fece amico di ricercatori in fisica,
matematica e biologia, sorpresi di scoprire sotto la facciata del personaggio eccentrico
sempre desideroso di scandalizzare, un brillante artista con cui poter discutere
liberamente di arte e scienza.
Suggestionato dalla meccanica quantistica, nel 1945 iniziò il suo periodo atomico:
“L’esplosione atomica del 6 agosto 1945 mi aveva sismicamente fatto vacillare. Ormai
l’atomo era il mio argomento di riflessione preferito …Voglio vedere e capire la forza e
leggi nascoste delle cose per poterle controllare” .
I suoi interessi, pertanto, si spostano bruscamente dalla psicoanalisi alla fisica nucleare.
Questa scienza lo influenzerà fino al Cinquanta. Cercherà di coniugare la fisica quantistica
alla tradizione classica e rinascimentale. I paesaggi dipinti dopo le esplosioni atomiche
Fisic’Arte133
sono permeati dal terrore per ciò che è avvenuto e dal desiderio di dominare una realtà
che crolla a pezzi.
Questa serie di quadri è stata definita la “mistica nucleare” daliniana. È questo il periodo
delle “visioni scientifiche” mistiche, quello in cui le nature morte “vive” o le composizioni
architettoniche che fanno riferimento al patrimonio artistico sono un’espressione
dell’atomo e dell’equilibrio intra-atomico rivelati dalle scoperte scientifiche.
Tra essi ricordiamo:
Idillio atomico e uranico melanconico del 1945
Leda atomica del 1949
La Madonna di Port Lligat del 1950.
In essi “spazio fluttuante e realismo quantizzato” forniscono la chiave per dominare la
forza di gravità. Ogni frammento appare sospeso ed estraneo alla composizione completa,
come nell’equilibrio magnetico tra le particelle nella materia. Dalì smaterializza i corpi per
poi ricomporli con rinnovata spiritualità, facendo fluire la loro energia interna atomica e
sacra; quasi per esorcizzare la paura della distruzione del genere umano.
Seppur umanamente disperato per le sorti delle vittime, non prende le distanze rispetto
alla fisica atomica come gli altri surrealisti. Egli segue una posizione personale, e ne
continua a celebrare la potenza e la modernità. Per lui, l’artista ha l’obbligo di trasmettere
la cosmogonìa del suo tempo. E, poiché viviamo nell’era atomica questi ha il compito di
elaborare un modo per trasmettere un messaggio al passo coi tempi.
In Idillio atomico e uranico melanconico troviamo la testimonianza dello shock iniziale del
dopo-atomica, terrificante ed esaltante insieme. Nell’atmosfera plumbea di un interno
devastato dal bombardamento notturno, la vista si ritaglia qualche stralcio di cielo
azzurro. In primo piano c’è una sagoma sulla quale poggia un orologio molle. Al suo
interno, al posto della volta celeste, si intravede la forma del bombardiere Enola Gay, che
sganciò la bomba atomica su Hiroshima, posto in maniera tale da alludere ai tratti di un
viso. In alto, in una crepa nella parete, gli elefanti dalle gambe sottilissime, replicano in
modo fantastico,l’azione di volo dell’aereo e sganciano bombe atomiche dai loro ventri.
In un maliconico chiaro di luna assistiamo alla liberazione di atomi impazziti, trattenuti
dalla materia. Tutto accade davanti agli occhi sgomenti di un uomo “atomizzato”, sulla
sinistra, la cui orbita oculare ha espulso la pupilla, il cui pomo d’adamo è diventato un
globo metallico che schizza fuori dalla gola. Centrale è la figura del battitore di baseball,
Fisic’Arte134
che, con la sua mazza, è pronto a spedire nel cielo le palline atomiche volanti. Dalì lega
l’epopea americana a innocue illustrazioni sportive, mescolando violenza e agonismo.
Molti temi della sua pittura tornano in questa tela sorprendentemente tridimensionale:
moderno e rinascimento, figure mortifere e fuoco nucleare, caos e ordine supremo,
espresso con le forme di un tempietto che ricorda quello di Bramante visto a Roma (San
Pietro in Montorio). Un orologio molle si trasforma in una vagina, divorata dalle formiche;
accanto vasi e stampelle, estromesse dalle loro forme reali, ma parzialmente
riconoscibili. Il tutto sospeso nello spazio. In questo drammatico scenario il dolore
supremo è affidato all’orrenda faccia deforme con un naso lunghissimo grottescamente
rigirato su se stesso, che si morsica la lingua.
Nella Leda atomica e nella Madonna di Port Ligat tutto vi è sospeso nello spazio, senza che
niente tocchi niente.
“In un ribollire geniale di idee, decisi di applicarmi alla risoluzione plastica della teoria
dei quanti e inventai il realismo quantificato per poter tenere sotto controllo la
gravitazione…..Dematerializzavo plasticamente la materia, poi la spiritualizzavo per
giungere a creare l’energia. L’oggetto è un essere che vive grazie all’energia che esso
racchiude e irradia, grazie alla densità di materia che esso integra. Ciascuno dei miei
soggetti è contemporaneamente un minerale che partecipa alle pulsioni del mondo e un
pezzetto d’uranio vivente………La mia mistica non è soltanto religiosa ma anche
nucleare……”
Questa tematica “nucleare” condurrà il pittore catalano a
scomporre ulteriormente la figura attraverso la cosiddetta
“pittura crepuscolare” della Galatea delle Sfere, o
dell’esplosione di Testa raffaellesca. La sintesi fra
decostruzione trascendentale e riscoperta dello stile classico raggiunge il suo apice proprio
nella tela Dematerializzazione vicino al naso di Nerone, conosciuta anche col suo
titolo surrealista Separazione dell’atomo.
Vediamo il paesaggio dell’Ampurdan, davanti al quale si compone un altare dedicato alla
sparizione del genere umano. Il punto di fuga prospettico è perfettamente centrale. In
primo piano, un cubo di marmo quadripartito fluttua; su di esso sono incise le parole
Atomicus Nemo (in riferimento all’ultimo olocausto), al centro di questa figura c’è un
melograno diviso a metà.
Fisic’Arte135
E’ il simbolo di un universo atomico ed i chicchi si muovono come elettrificati, travaglio di
un’umanità provata dai patimenti, sezionata nella sua fibra fisica e morale, frastornata e
tremebonda, che cerca di ricomporsi ma non può.
In alto un arco romano, sovrastato da un timpano, con nicchie contenti figure evanescenti,
vola nel cielo azzurro. Le figure, sebbene non poggino a terra, sembrano statiche e
immutabili. In mezzo all’architettura troviamo il busto di Nerone, emblema del potere. La
statua appare in quattro frammenti: la gola, il basamento, il busto ed il naso, rimando alla
distruzione dell’Impero romano e della civiltà contemporanea. Il naso è distaccato dalla
faccia, come se fosse al primo stadio di decomposione; sospeso, funziona come un orologio
solare, che segna l’ora nell’era atomica.
Sopra il timpano troviamo due piccole figure: il progresso alato e un personaggio vestito
di stracci. Essi raffigurano il dibattito (ancora attualissimo) sull’applicazione pacifica del
nucleare e i terribili effetti del suo uso come arma. Le figure in basso sono persone come
noi che guardano la scena, la morte è vestita di bianco; anche il cipresso è una metafora
della morte ed è saldamente ancorato a terra. Al centro dell’opera, calmai e penne offrono
la speranza di gestire questo potere con la negoziazione fra le potenze di tutti i continenti.
In accordo con queste nuove convinzioni
Dalì dipinse La disintegrazione della
persistenza della memoria, opera con cui
riprende La persistenza della memoria ma la
rappresenta mentre va in frantumi e si
scompone in tasselli. Dopo aver visto gli
effetti distruttivi dell'utilizzo dell'energia
atomica, Dalì decise che tempo e spazio non
potevano più adattarsi alle circostanze,
questa attenuante non poteva più esistere.
In questo modo si riassumeva chiaramente
il riconoscimento delle nuove frontiere della
scienza.
Anche l’opera di Domingo Notaro (1939) è percorsa da un
filo conduttore, che è il legame con la scienza, in particolare
con la cosmologia. Nella splendida serie di dipinti
denominati Pluridimensione i grandi rettangoli implosi su
sfondo galattico sono evocanti singolarità che richiamano
l'enigmatico monolite nero del capolavoro di Stanley
Kubrick 200l Odissea nello spazio, traccia reale ed inquietante
di altre civiltà. Lo stesso stupore dell'astronauta di Kubrick,
folgorato dalla strabiliante scoperta, la stessa “inquietudine
scientifica” pervadono Notaro. La curiosità scientifica di
Notaro va però oltre l'interesse per il cosmo, questo cosmo,
il cui centro è ancora in definitiva il mistero dell'uomo.
Fisic’Arte136
L'esploratore di Kubrick ritrova, intatti, ai
confini dell'universo, dove lo spazio e il tempo
si curvano secondo le leggi del campo di
Einstein, se stesso all'inizio della sua parabola
umana. Lo scienziato Notaro raffigura un
"Pluriverso" - un universo plurimo einsteiniamente curvo, immerso nella luce
fredda del big-bang primordiale, dal quale
l'uomo non è escluso, ma non è più il centro
del sistema, origine e fine di tutto. Ai margini
dell'universo plurimo figure umane fluttuano in assenza di gravità come risucchiate da un
gorgo cosmico mosso da una forza primordiale che le assottiglia, le rende evanescenti e
infine le fa riapparire rigenerate. Le opere di Notaro fanno pensare alle suggestive
moderne teorie cosmologiche sull’origine dell’universo, ai ponti di Einstein-Rosen che
dovrebbero collegare i buchi neri di un universo ai buchi bianchi di un altro universo, da
cui zampilla materia rigenerata. Le leggi fondamentali della Natura, così come le rivela la
scienza, sono in sè semplici ed eleganti. Le leggi di invarianza, la conservazione di
simmetrie originali, e la loro eventuale rottura, sono un modo per comprendere la Natura,
talora il solo modo per interpretarla. La bellezza “artistica” delle leggi della Natura, che è
il loro connotato più genuino, il loro DNA, sposa dunque in modo naturale scienza e arte.
Un'arte con un forte contenuto scientifico, come è quella di Notaro, ha dunque un segno
intrinseco, un "decodificatore" della Vita e perciò anche una "giustificazione-motivazione"
per infrangere, eventualmente, l'obbedienza a regole fisse di composizione, per provocare,
come fa Notaro con la sua opera. Anche il modo di esprimersi di Notaro è scientifico:
Evento, Soglia, sono i nomi di sue opere più recenti, parole ricorrenti nel linguaggio
scientifico. Scienza è bellezza. La grazia sensuale delle figure umane di Notaro, l'eleganza
eterea di certe sue composizioni – si pensi, ad esempio, all'incanto di Anthurium richiamano l'armonia di certi principi di invarianza delle leggi fondamentali della Natura,
sono compiute e perfette come un'equazione della teoria della relatività o della meccanica
quantistica.
Fisic’Arte137
5. Arte nucleare
L'Arte nucleare è ben rappresentata dal cosiddetto Movimento nucleare, una corrente
artistica nata quando Enrico Baj (1924-2003) e Sergio Dangelo (1932), ai quali in seguito si
affiancheranno altri importanti artisti non solo italiani, pubblicano a Milano nel 1951 il
Manifesto tecnico della Pittura nucleare, in cui si legge:
«I Nucleari vogliono abbattere tutti gli "ismi" di una pittura che cade inevitabilmente
nell'accademismo, qualunque sia la sua genesi. Essi vogliono e possono reinventare la
Pittura. Le forme si disintegrano: le nuove forme dell'uomo sono quelle dell'universo
atomico. Le forze sono le cariche elettroniche. La bellezza ideale non appartiene più ad
una casta di stupidi eroi, nè ai robot. Ma coincide con la rappresentazione dell'uomo
nucleare e del suo spazio. [...] La verità non vi appartiene: è dentro l'atomo. La pittura
nucleare documenta la ricerca di questa verità.»
La suggestione dell'epoca nucleare aveva già in passato interessato altri artisti come Dalì
con la sua opera Idillio atomico, ma senza strutturarsi teoricamente come invece fà il
gruppo milanese. Nella scia delle teorie atomiche ed einsteiniane, dei progressi scientifici
nel campo della fisica e dello studio della materia e dell'energia, i pittori nucleari
realizzano opere per lo più astratte o informali, dalle forme vorticose, a spirali, che
vogliono rappresentare lo spazio cosmico impregnato di energia, a colori vivaci ed
incandescenti, intensi, inusuali, in una interpretazione poetica dell'esplosione nucleare
della materia: ancora una volta, vengono messi in discussione i principi tradizionali del
dipingere, la forzata razionalizzazione e geometrizzazione dell'arte, la prevalenza della
linea e dell'angolo retto, davanti alla dimostrata esistenza di fenomeni della realtà al di
fuori delle possibilità percettive dell'uomo. E' l'inebriante scoperta di un mondo invisibile,
fatto di radiazioni cosmiche, di onde elettromagnetiche, di universi alieni, mai prima di
allora rappresentati.
Enrico Baj – Bambini,1956
Sergio Dangelo – Tramonto,1955
Formalmente, nell’arte nucleare convergono elementi surrealisti, simbolisti, dadaisti,
espressionisti gestuali, riecheggiati anche nei "concetti spaziali" di Lucio Fontana e dei
pittori dello Spazialismo. In realtà i pittori nucleari finiranno per esprimere anche le
proprie nevrosi e le vane aspirazioni ad una rappresentazione di ciò che non si può
rappresentare, giungendo generalmente a posizioni critiche nei confronti di un mondo
Fisic’Arte138
sostanzialmente ingovernabile ed inconoscibile, pericolosamente in bilico su un
imminente disastro nucleare.
Voltolino Fontani
Dinamica di assestamento e mancata stasi,1948
I Nucleari furono preceduti dagli Eaisti, un gruppo di
pittori e poeti livornesi, guidati dal pittore Voltolino
Fontani (1920-1976), che dell'Eaismo (da Era Atomicaismo) fu l'ideatore. L'opera di Fontani Dinamica di
assestamento e mancata stasi (1948), in cui si raffigurano
radiazioni atomiche appena dopo una esplosione
nucleare, testimonia l'affinità delle tematiche eaiste con
quelle del movimento milanese, c he non nascondono
però le notevoli divergenze di pensiero.
Secondo l'Eaismo l'umanità stava entrando in un periodo
nel
quale
improvvisamente
risultava
evidente
l'inadeguatezza della dimensione morale dell'umanità
nel suo complesso, rispetto alle magnifiche possibilità
tecnico-scientifiche che di colpo in senso tragicamente
negativo, con i devastanti bombardamenti nucleari sul
Hiroshima e Nagasaki, tutti si rendevano conto di possedere e di dovere con grandissima
saggezza contribuire a gestire in maniera non drammatica ed apocalittica. Si legge infatti
nel Manifesto dell'Eaismo:
« ...la scoperta dell'energia atomica è riguardata dagli EAISTI come l'acquisizione di un
principio capace di rivoluzionare la nostra concezione dell'universo, e quindi di alterare
quell'equilibrio sentimentale morale che in essa trovava il suo appoggio e la sua
giustificazione e capace perciò di metterci di fronte a problemi di incalcolabile portata,
quali quelli posti dall'inadeguatezza e sconcordanza oggi esistenti fra la verità e libertà
raggiunte dal pensiero scientifico e il tono retrivo e tradizionale della nostra vita
sentimentale e morale.»
In senso estetico visivo stretto, la pittura eaista aveva il compito di rappresentare la
frammentazione della materia con esplicito riferimento alla sua traumatica scomposizione
fisico molecolare, ma dovevano anche suggerire la simultanea, costante, indispensabile
presenza dell'umanità e dell'uomo nel suo contemporaneo, problematico divenire.
Quindi l'Eaismo si proponeva di inserire in ogni singolo dipinto la scomposizione della
materia ed altresì la contemporanea presenza dell'uomo (anche soltanto nella sua
intuibilità visiva). Soprattutto premeva agli eaisti evidenziare la necessità di un'arte
"progressiva" e quindi "aderente all'epoca", che non si identificasse tuttavia in un realismo
troppo crudo ma che suggerisse la profonda inquietudine determinata dal progresso.
5. Arte quantistica
Con l’avvento della Fisica Quantistica parliamo di caos, visto però come assenza di ordine,
come complessità. Per la precisione un caos deterministico, dove il sistema ha un
comportamento nel complesso regolare ma irregolare se esaminato in profondità, e quindi
impossibile da prevedere. Spesso viene utilizzata la metafora della Danza di Shiva per
Fisic’Arte139
spiegare il comportamento delle particelle subatomiche, che si esprimerebbero in una
specie di danza cosmica, apparentemente disordinata, ma
con strutture ricorrenti e riconoscibili. La Fisica Classica crede
invece ad un mondo deterministico, governato da leggi
ferree e da rapporti di causa ed effetto facilmente prevedibili.
Oggi la Scienza ha accettato l’idea di un mondo retto dal
caos, dove le leggi della fisica assumono un senso nuovo,
esprimendo solo delle probabilità. Un universo dove tutte le
cose e tutti gli eventi sono interconnessi, collegati fra loro;
dove la percezione della realtà è trasfigurata dall’interazione
tra soggetto vedente e oggetto veduto. Un mondo complesso
e non lineare, al quale si riferì probabilmente Picasso quando
definì l’Arte “una bugia che ci aiuta a riconoscere la verità“.
Fare Arte Quantistica è dunque cercare una verità nascosta,
non visibile ad occhio nudo, cercare di interpretare i
concetti dei modelli scientifici secondo il sentire dell’artista che si esprime attraverso la
pittura. La forza dell’artista non sta solo nella sua creatività, ma anche nella sua intuizione,
che può emergere proprio nell’indagare una realtà che spesso è nascosta. L’arte infatti,
come diceva Klee, “non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo
è.”
Arte Quantistica, dunque, come strumento in grado di generare un nuovo sapere. Dice il
prof. Paolo Manzelli, Direttore del laboratorio di Ricerca Educativa del
dipartimento Chimica-Fisica dell’Università di Firenze: ”Il cambiamento cognitivo
necessita di entanglement1 della fantasia artistica e della intuizione scientifica per
trasfigurare i modelli concettuali, comunicativi ed
artistici storicamente acquisiti in precedenza, che vengono
trasformati da una proiezione quantistica della creatività
umana che ricerca articolate nuove vie di sostenibilità
mentale e culturale di dimensione univoca , coerente e
trans-disciplinare”.
Sintetizzando, il Manifesto dell’Arte Quantistica dell'aprile
2008 vuole essere il primo passo verso una forte
interrelazione fra arte, scienza e società al fine di operare
un cambiamento reale, sostanziale e non solo formale dei
rapporti sociali, culturali ed economici.
Uno degli esempi di arte quantistica è quella di Roberto
Denti, uno degli autori del Manifesto, le cui creazioni non
sono semplici fotografie ma vere e proprie tele.
Per l’arte di Denti, come per la Fisica Quantistica, non
abbiamo più una rappresentazione oggettiva della realtà,
ma l’osservatore diventa parte integrante, per cui il nuovo
concetto di realtà che la fisica quantistica ci fa intravedere
è una realtà complessa bisognosa di un nuovo linguaggio
più intuitivo e artistico. Arte, Fisica e Matematica si fondono attraverso supporti
fotografici e pittorici.
1
Entanglement - Fenomeno che si verifica a livello quantistico, che coinvolge due o più particelle generate da uno
Fisic’Arte140
La
risurrezione
è
rappresentata
dalla
doppia
rappresentazione della croce: la foto al centro dell'opera
rappresenta in primo piano il particolare dell'incrocio dei
legni, mentre nella parte bassa è specchiata la parte alta della
croce con i ramoscelli d'ulivo. Alto e basso vengono invertiti
direttamente nella ripresa fotografica effettuata con gli
specchi secondo i dettami dell'Arte Quantistica. I due raggi
di luce che partono dalla foto e si irraggiano verso il basso
stanno a significare che ogni innalzamento spirituale deve
partire dal basso e dal profondo di noi stessi.
La componente intima della materia sono gli elettroni ed
altre particelle sub-nucleari le cui proprietà sono le
vibrazioni ondulatorie e la probabilità della loro
distribuzione nello spazio tempo. In questo caso il vaso lo troviamo sulla destra della foto
tagliato di tre quarti nell'inquadratura, al fine di dare spazio all'intorno. Una particolare
tecnica di elaborazione grafica esalta le componenti essenziali dell'immagine,
evidenziando così l'aspetto probabilistico e le vibrazioni ondulatorie.
Non so se le opere di Teresa Iaria possono essere inquadrate e catalogate come arte
quantistica e quale valore artistico abbiano, ma certamente descrivono, in maniera
mirabile, attraverso un originale linguaggio figurativo, concetti e temi della fisica teorica,
come il bosone di Higgs, che il modello standard indica come
portatrice di forza del campo di Higgs, che si ritiene permei
l'universo e conferirebbe la massa alle particelle, oppure i
twistors, che nella fisica quantistica rappresentano una unità
discreta di spazio-tempo , in accordo con il carattere quantizzato
degli scambi energetici, sono rappresentati come delle trottole
secondo l’idea di Penrose.
L’opera Frequence, invece, nasce
da una visita dell’artista al Virgo
(rivelatore
di
onde
gravitazionali) del CNR presso
Pisa:
“Ero
interessata
a
realizzare un campo, un campo
unico che invade tutto lo spazio
espositivo dove si potessero cogliere frammenti, tracce di
qualcosa non visibile, di intangibile come la musica,”. Il
campo creato dall’artista si articola in due grandi disegni,
in una scultura composta da fili di seta, in un pianoforte e
nella musica di Ligeti. Sui disegni compaiono profili di
donne dalle lunghe chiome policrome che fanno pensare
a dei pentagrammi. Quanto alla scultura con i suoi lunghi
fili di seta, una tendina eterea e sensibile, vuole essere
una sorta di pettine capace di ordinare il flusso caotico
dei cammini ondulatori e delle loro vibrazioni, e di
Fisic’Arte141
rendere più percettibile il suono. Al centro di tutto vi è, infine, il pianoforte: l’emblema
dell’istallazione da cui dipartono, idealmente, le frequenze (in realtà la musica proviene da
un cd). Sono alcuni brani del musicista ungherese Ligeti.
From string to loop riflette le ultime teorie
della fisica teorica in particolare "la Teoria
delle stringhe" e la "Teoria dei Loops", che
cercano di combinare in una unica teoria
le due grandi teorie del Novecento, La
Relatività e la Meccanica quantistica, al
momento inconciliabili. Le due teorie
suggeriscono
modelli
del
mondo
dell'invisibile popolato in un caso da
stringhe
(particelle
elementari
unidimensionali) vibranti su undici
dimensioni e dall'altro da loops che
costituiscono la struttura dello spaziotempo. From string to loop è concepito sulla base di un principio ologrammatico, per cui
ogni parte riflette l'ordine globale della struttura implicita attraverso l'auto-somiglianza.
L'immagine generata non è altro che la proiezione bidimensionale di un oggetto più
complesso visibile solo virtualmente nell'elaborazione in 3D. L'immagine-proiezione è una
membrana o "brana" in cui stringhe e loops sono connesse da piccole figure che saltano
utilizzando sottili cordicelle. Ad ogni salto il loop sottostante si dilata e sembra inghiottire
la figura.
Contemporaneamente la cordicella ritma e coordina il tempo di elevazione. L'oggetto
complesso visibile in 3D è una membrana simile alla striscia di Moebius che è a sua volta
stringa e loop.
6. Arte generativa
Le rinnovate espressioni del sentire estetico nel nostro tempo hanno condotto ad un
rinnovato ravvicinamento "interdisciplinare" ed a un esteso confronto tra arte e scienza. In
primo luogo, l'evoluzione tecnologica
dell'Information Communication Technology
(ICT), ha permesso di riorganizzare le
relazioni tra arte e scienza nel quadro delle
simulazioni dell'immaginario scientifico,
mediante l’espressione delle moderne
attività di Digit-art. Infatti, con il computer
gli artisti dispongono di un'ampia gamma
di software che hanno favorito l'emergere di
nuove tecniche capaci di potenziare la
creatività dell' artista, che con la Generativeart diviene egli stesso l'inventore di
algoritmi e di software decisamente
importanti
per
attuare
simulazioni
scientifiche. Nata negli anni Ottanta, l'arte
generativa è il frutto dall'interazione tra l'uomo, che crea un algoritmo matematico o
Fisic’Arte142
informatico, e la macchina, caratterizzata da un certo grado di autonomia, che lo esegue
potenzialmente all'infinito. Potremmo dire che l'arte generativa è l'utilizzo della
matematica per generare bellezza. È insomma una sintesi tra scienza e creatività.
Dagli anni '80 in poi la programmazione di applicazioni specifiche, hanno consentito uno
sviluppo dell'arte generativa, partendo dalla creazione di forme semplici fino a strutture
via via sempre più complesse, attraversando diversi stadi, per così dire, "architettonici", in
un crescendo di codici, calcoli algoritmici, stringhe e "decisioni auto-generative
dell'elaboratore". Si arriva così a definire la creazione di un nuovo territorio artistico: l’arte
frattale, intrinsecamente legata agli schemi fisici della natura e le implicazioni
matematiche che definiscono la materia, il mondo, l'universo e i sistemi legati alla vita.
In realtà l'arte generativa è molto di più: è la figlia dell'arte concettuale. È un nuovo
approccio all'arte, senza rinnegare l’abilità artigianale, che alla sensibilità dell'artista
affianca una componente procedurale che può influenzare il lavoro finale in modo
sorprendente.
Avviare un programma generativo vuole dire fare partire un processo autonomo, che crea
immagini grafiche sullo schermo, assolutamente imprevedibili e irrepetibili. Il ruolo
dell’autore è ridotto alla costruzione di un algoritmo che non definisce il risultato finale
con precisione. L’algoritmo crea solo un "gene" che si sviluppa in un "organismo"
realizzandosi in un’immagine. In Natura due fogli d’albero non sono mai uguali e la stessa
legge si applica al concetto generativo. Un’immagine non salvata è perduta per sempre
perché non è possibile ripeterla. Il concetto è assolutamente sperimentale perché dalle
formule matematiche dell’algoritmo è impossibile prevedere l’immagine che può nascere.
Uno dei principali effetti di questo tipo di pratiche consiste nella completa ridefinizione
della figura e del ruolo dell'autore. Allo stesso tempo il rapporto fra autore e opera d'arte
si trova a essere completamente stravolto rispetto al passato poiché nel caso dell'Arte
Generativa l'atto creativo viene sdoppiato e spostato su due diversi livelli temporalmente
e gerarchicamente differenti. Da ciò deriva che è possibile pensare alla coesistenza di due
distinti autori che operano in momenti e su scale gerarchiche differenti: sul livello
gerarchico superiore si trova collocato l'Autore che concepisce, progetta e realizza il
sistema di arte Generativa; sul livello gerarchico inferiore si trova l'autore materiale
dell'opera generativa ossia la persona o il dispositivo (nella maggior parte dei casi un
calcolatore) che mette in funzione il sistema generativo al fine di produrre un prodotto
finito. Questa suddivisione di ruoli porta a dover riconsiderare il ruolo dell'autore che
risulta essere notevolmente differente da quello ricoperto nelle pratiche artistiche
tradizionali. Nel caso dell'Arte Generativa l'artista incarna il ruolo del “Creatore”, in
maniera simile a quanto avviene nell'arte tradizionalmente intesa, ma egli risulta essere
anche una sorta di “SemiDivinità” capace di creare un mondo artificiale che
opportunamente attivato è capace di seguire una propria evoluzione e un proprio
Fisic’Arte143
sviluppo autonomo. Da ciò emerge che nell'arte generativa il ruolo dell'artista consiste nel
creare un dispositivo, un “ambiente di sviluppo” nel quale deporre un “seme” che avrà la
capacità di svilupparsi in maniera indipendente. Completata la creazione del mondo
artificiale l'Artista non può fare altro che diventare osservatore e assistere alle forme e al
modo sotto cui prende vita e si sviluppa il frutto della sua opera. L'approccio generativo è
spesso basato sull'impiego di processi casuali per introdurre variabilità e
indeterminazione della procedura creativa. Ciò non rappresenta una totale novità poiché
la casualità, come abbiamo visto, è stata spesso utilizzata nel XX secolo come strumento al
servizio della creatività artistica.
Mentre molti dei sistemi generativi finora concepiti funzionano in maniera completamente
autonoma, esistono anche alcuni approcci generativi che incorporano dei sistemi
d'interazione che consentono agli utenti o alle informazioni provenienti dall'ambiente
esterno di intervenire nello sviluppo del processo generativo alterandone in qualche modo
il suo normale corso. Anche se l'approccio generativo non è in alcun modo vincolato
all'impiego di mezzi e di conoscenze scientifiche e matematiche, l'uso dei calcolatori
elettronici per la realizzazione di procedure generative risulta essere uno dei principali
terreni di sviluppo di questo nascente settore artistico. Molto frequentemente tali
procedure sono basate sull'impiego di conoscenze scientifiche e di modelli matematici
sviluppati in campi di ricerca molti diversi e distanti fra loro. Oltre all'impiego di
generatori di numeri casuali e di tecniche probabilistiche è possibile utilizzare differenti
tipologie di sistemi all'interno di procedure generative, come ad esempio: gli automi
cellulari, i sistemi caotici, i frattali, le grammatiche generative, le reti neurali, gli algoritmi
genetici.
La ricerca scientifica offre dunque un'ampia gamma di
teorie, di conoscenze e di modelli che possono trovare
facilmente applicazione in contesti artistici. Tutto ciò apre
nuovissime possibilità interessanti sia in campo artistico, sia
in campo scientifico e tecnologico. In campo artistico ciò
comporta un arricchimento e una estensione degli strumenti,
delle tecniche a disposizione degli artisti per l'esplorazione
di nuove forme di espressività. Inoltre l'impiego di
conoscenze e modelli relativi a fenomeni naturali, a ricerche
sull'origine e l'evoluzione della vita e sulla intelligenza e la
vita artificiale fornisce agli artisti la possibilità di percorrere
nuove strade, ancora quasi del tutto inesplorate, alla ricerca
di risposte alle domande che sin dalle origini hanno animato la filosofia, l'arte e la scienza
quali ad esempio: l'origine e il fine della vita, il rapporto fra uomo e natura, il bello in
natura e nelle opere dell'ingegno umano. Tutto ciò può avere, inoltre, anche importanti
ricadute in campo scientifico poiché l'espressione artistica, generalmente più libera e meno
ristretta sotto forme rigorosamente codificate, può stimolare l'insorgere di nuove
intuizioni e di collegamenti inaspettati fra aspetti apparentemente distinti di uno stesso
fenomeno, può, inoltre, indurre a riflettere, in maniera consapevole oppure in modo del
tutto inconscio, su similitudini e relazioni fra mondi, realtà e visioni che la conoscenza
consolidata e la pratica quotidiana considerano del tutto separati e differenti.
Fisic’Arte144
Capitolo 6
NUOVI#MATERIALI##
PER#L’ARCHITETTURA#
Per secoli e fino all’Ottocento, i materiali usati dall’uomo, per la realizzazione delle sue
opere, erano disponibili direttamente in natura, o comunque ricavabili attraverso semplici
trasformazioni della materia: la pietra, per costruire imponenti strutture megalitiche, la
pietra e il marmo per realizzare i templi greci, l’amalgama cementizio, usato dai romani,
permetteva di conferire maggiore flessibilità e leggerezza alle strutture.
È nell’Ottocento che l’architettura, dal punto di vista dell’uso di nuovi materiali, subisce
una vera rivoluzione. L’architettura del secondo Ottocento,
definita come “l’architettura del ferro”, è segnata dai
cambiamenti tecnici connessi con la rivoluzione industriale.
L’uso sempre più diffuso delle macchine, la maggiore velocità
nella produzione dei materiali e la possibilità di rendere più
processi tecnici, portano a una produzione architettonica ricca e
variegata, come ponti, gallerie, mercati, ferrovie, padiglioni
espositivi.
La tendenza ad applicare principi scientifici, già evidente
nell’architettura del periodo precedente, si acuisce e, dunque,
criteri rigorosi e sistematici diventano la base inscindibile di una
progettazione complessa ed articolata. Calcoli e sperimentazioni
precedono la realizzazione delle strutture, e allo scopo di fornire
conoscenze tecniche ed una formazione scientifica approfondite ai vari architetti e ingeneri
impegnati nella progettazione e costruzione delle opere, era nata a Parigi l’Ecole
Polytechnique. Gli ingeneri, dunque, diventano
protagonisti di un nuovo settore della
produzione architettonica e il loro talento
spesso supera quello degli architetti.
La modernità impone all’arte del costruire
criteri nuovi: è necessario lavorare in fretta con
materiali poco costosi o, meglio, utilizzare al
massimo il potenziale dei materiali. Anche
quelli tradizionali come il legno, la pietra, i
laterizi
sono
adoperati
con
maggiore
cognizione di causa grazie alla conoscenza dei
limiti di resistenza dei materiali stessi. Ma, a
seguito dei progressi dell’industria, a
Fisic’Arte145
caratterizzare e rendere possibile le nuove strutture sono soprattutto il cemento, la ghisa, il
ferro, l’acciaio e il vetro.
Dei nuovi materiali il ferro e, dal 1860, l’acciaio, rendono
possibili coperture di una portata eccezionale;
l’abbinamento di ferro, o acciaio, e vetro permette di
costruire strutture che consentono alla luce di penetrare
attraverso i tetti e i muri perimetrali in tutta la loro
estensione e di inondare così gli interni. Queste
realizzazioni sono una dimostrazione di come le nuove
tecnologie costruttive contribuiscano a delineare una
nuova architettura in cui la struttura stessa e il rapporto tra
i vari elementi che la compongono possano definire forme
compiute anche esteticamente.
In combinazione con il ferro, il cemento (il cosiddetto
cemento armato) realizzerà tutte le sue potenzialità. Il
cemento armato, infatti, combina la sua notevole resistenza
alla compressione con la resistenza alla trazione del metallo, e, nello stesso tempo, il
conglomerato racchiude le armature di ferro proteggendole dagli agenti atmosferici
esterni. È un materiale economico, versatile e può assumere forme diverse grazie alle
casseforme. Pertanto, gli architetti più impegnati producono progetti e riflessioni che
affrontano la questione dei rapporti tra architettura e nuovi materiali da costruzione.
Con il sistema del cemento armato si possono ora costruire edifici di tuti i tipi; tra le
strutture verticali, i pilastri hanno funzione portante; le intelaiature dei pilastri permettono
di sostenere corpi di notevole peso di sviluppare forme originali e strutturalmente
complesse.
Parigi – Beabourg – 1971/78
Tra
i
tanti
movimenti
rappresentativi degli ultimi
decenni spicca, per il carattere
ardito e innovativo, la High
Tech, termine con il quale si
indica un approccio progettuale
basato sull’esibizione esplicita
di parti strutturali e impianti
tecnologici in quanto elementi
cui è attribuita una precisa
valenza estetica. Caratteristiche
ricorrenti di queste architetture sono l’utilizzo di materiali nuovi, strutture che si
autoregolano, trasformabilità d’uso e indipendenza tra involucro e spazi organizzativi. Il
Beabourg a Parigi (Centro Nazionale d’Arte e di Cultura) può essere considerato l’opera
rappresentativa dell’architettura High Tech.
L'innovazione tecnologica all'interno del processo di produzione edilizia interessa, nei
giorni nostri, soprattutto i materiali ed i componenti dei vari sistemi che compongono un
edificio. L'involucro esterno, la “pelle” dell’edificio, ne è diventato uno dei primi elementi
rivelatori. In particolare per i materiali, l'innovazione tecnologica ha trovato occasioni di
Fisic’Arte146
sviluppo sia grazie alla ricerca scientifica (sviluppo di nuovi materiali), sia grazie alla
contaminazione tra campi d’applicazione diversi di materiali già conosciuti.
Esemplificativo di quest'ultimo caso è l'impiego in campo architettonico, come elemento di
rivestimento, il titanio, un metallo bianco argenteo, dotato di proprietà analoghe a quelle
del silicio e dello stagno. L'occasione d’innovazione è stata fornita dal progetto per il
museo Guggenheim di Bilbao, in cui l'arch. F. Gehry ha impiegato per l'involucro esterno il
titanio in un modo che è risultato fortemente innovativo, sia per avere utilizzato un
materiale fino allora mai utilizzato per questo scopo, sia per essere ricorso ad una
tecnologia di software IBM, il programma CATIA 3D, fino ad allora applicato
esclusivamente in campo aerospaziale.
Da allora il titanio è stato impiegato da molti altri architetti, più o meno noti, per realizzare
gli involucri esterni dei loro edifici, anche se il costo ne limita tuttora l'impiego diffuso in
questo campo applicativo.
La scienza non evoca e invoca solo nuova tecnologia, ma dovendo soddisfare a vincoli
stringenti di ingegneria, la scienza evoca anche nuova architettura e, in definitiva, nuova
arte. Testimonianza di questa affermazione è LHC (Large Hadron Collider), la grande
opera architettonica realizzata dai fisici a Ginevra, dove, facendo impattare l’uno contro
l’altro due fasci di protoni accelerati a velocità prossime a quelle della luce, ci cerca di
indagare sui misteri del mondo microscopico ed aprire uno squarcio sulle condizioni
fisiche presenti all’origine del nostro universo (big bang). (Large Hadron Collider), la
grande opera architettonica realizzata dai fisici a Ginevra, facendo impattare l’uno contro
Fisic’Arte147
l’altro due fasci di protoni accelerati a velocità prossime a quelle della luce, questa bellezza
tecnologica è evidente.
LHC – Large Hadron Collider
La costruzione della macchina, tuttavia,
aveva dei vincoli. Quelli scientifici,
naturalmente. Doveva essere costruita per
consentire a fasci di adroni di
raggiungere velocità elevatissime e di
collidere in un’enorme ma focalizzata
esplosione di energia. Ma la macchina
aveva anche stretti vincoli di forma.
Doveva essere posizionata in uno spazio
(grandissimo) già esistente: un anello con
una circonferenza di 27 chilometri nel
sottosuolo di Ginevra. Tutte le componenti della grande macchina dovevano essere
posizionate con precisione millimetrica in quello spazio enorme, ma definito. Funzioni e
forma si sono strettamente intrecciate. La costruzione di LHC è stata dunque una grande
impresa architettonica. Una moderna e inedita forma di arte.
Fisic’Arte148
Conclusioni
In questo percorso attraverso lo sviluppo della fisica e le sue rivoluzioni scientifiche e di
pensiero, e la parallela rivoluzione nel mondo delle arti visive, come quella rinascimentale
o delle avanguardie del XX secolo, ho voluto mostrare che esiste uno spirito del tempo che
informa un’intera epoca. Esso probabilmente consiste nella rete intricata delle relazioni tra
le varie discipline. Tali relazioni sono spesso implicite e di esse non si ha piena coscienza.
Probabilmente i fisici quantistici non pensavano alla pittura astratta e viceversa i pittori.
Tuttavia è singolare la contemporaneità di due espressioni umane che hanno messo in crisi
la concezione del mondo dettata dal “senso comune”.
Quindi, i vari paradossi discussi nel quadro della scienza e delle rappresentazioni artistiche
del '900, sono stati il segnale della necessità che la scienza e l'arte debbono ricomporsi entro
un rinnovato criterio paradigmatico unitario, così come avvenne nel Rinascimento, nel
quale si trovò una netta corrispondenza tra arte e scienza nell'unificare le basi cognitive ed
estetiche, proprio in quanto l'uomo fu considerato al centro del processo conoscitivo. Di
conseguenza, l'arte e la scienza contemporanee dovranno superare il riduzionismo
meccanicista
dettato
sostanzialmente
dal
ritenere
possibile
di
poter
oggettivamente il mondo esterno senza rendersi conto di farne parte integrante.
osservare
Fisic’Arte149
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Enrico Pedrini - Arte & fisica: Dalla Relatività, all'indeterminismo, alla Dissipazione
Laura Catastini e Franco Ghigne - In obscurum coni conduxit acumen (ovvero l’infinito in
un punto)
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Fisic’Arte150
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