Vincenzo Pappalardo Fisic’Arte 2 Vincenzo Pappalardo FISICA E ARTE Copyright 2011 di Vincenzo Pappalardo Tutti i diritti sono riservati Prima edizione Marzo 2011 Seconda edizione Giugno 2011 Terza edizione Ottobre 2011 Quarta edizione Febbraio 2012 Il presente libro “Fisic’Arte” può essere copiato, fotocopiato, a patto che il presente avviso non venga alterato, e che la proprietà del documento rimanga di Vincenzo Pappalardo. Il presente documento è pubblicato sul sito: www.liceoinweb.altervista.org Fisic’Arte 3 Alle tre irripetibili opere d’arte: Gina, Raffaella e Pietro. Fisic’Arte 4 Indice 5 7 Introduzione CAPITOLO 1 – LA TECNOLOGIA AL SERVIZIO DELL’ARTE Introduzione – Nozioni di fisica atomica – Principali tecniche diagnostiche – Tecniche informatiche 24 CAPITOLO 2 – LUCE E COLORE Introduzione – Il meccanismo della visione – La natura della luce – La teoria dei colori 42 CAPITOLO 3 – OTTICA, ILLUSIONE OTTICA E ONIRICA Introduzione - La prospettiva tra realtà, illusione ottica, onirica e paradosso visivo – Pittura e dispositivi ottici – Caravaggio e la camera oscura - L’arte stereoscopica – Optical art 74 CAPITOLO 4 – ARTE E FISICA CLASSICA Introduzione – Spazio, tempo e arte – L’arte del movimento - Il mondo dell’arte e la fisica classica 96 CAPITOLO 5 – ARTE E FISICA MODERNA Introduzione – Spazio e tempo nell’arte del XXI secolo – Caos e ordine nell’arte moderna e contemporanea – L’arte e la fisica moderna – Arte nucleare - Arte quantistica – Arte generativa 144 CAPITOLO 6 – NUOVI MATERIALI NELL’ARCHITETTURA 148 Conclusioni 149 Bibliografia Fisic’Arte 5 Introduzione “Dove il mondo cessa di essere il palcoscenico delle nostre speranze e dei nostri desideri per divenire l’oggetto della libera curiosità e della contemplazione, lì iniziano l’arte e la scienza. Se cerchiamo di descrivere la nostra esperienza all’interno degli schemi della logica, entriamo nel mondo della scienza; se, invece, le relazioni che intercorrono tra le forme della nostra rappresentazione sfuggono alla comprensione razionale e pur tuttavia manifestano intuitivamente il loro significato, entriamo nel mondo della creazione artistica, ciò che accomuna i due mondi è l’aspirazione a qualcosa di non arbitrario, di universale”. Albert Einstein Nell’attuale spettro dei saperi si pensa spesso che scienza e arte siano contrapposte nei metodi e nelle finalità. La scienza viene vista come il regno delle certezze “oggettive”, come puntuale applicazione del metodo e che si interessa dell’esperienza pubblica, universale, quantitativa, unitaria, e il suo linguaggio è preciso, razionale, fatto di idee e concetti e si trasmette con sequenze lineari di ragionamenti logici, in cui la matematica ha un ruolo essenziale. L’arte come pura creatività che guarda invece all’esperienza privata, particolare, soggettiva, qualitativa, molteplice, e il suo linguaggio è ambiguo, emotivo, fatto di immagini e racconti. Questi pregiudizi vengono messi in crisi dalla constatazione che scienza e arte sono visioni complementari e non contraddittorie del mondo e che entrambe hanno sviluppato tecniche adatte a descrivere, da punti di osservazioni diversi, la realtà del mondo fisico e psicologico. Anzi, secondo Planck, l’intuizione, la percezione diretta, o l’immaginazione sono fattori importanti per il progredire delle scienze. Infatti affermava che: il ricercatore scientifico deve avere un’immaginazione intuitiva molto aperta, perché le nuove idee non nascono da deduzioni, ma dall’immaginazione artisticamente creatrice. Pertanto, se esaminiamo la scienza e l’arte come “giochi della mente” in relazione alla costruzione di immagini del mondo, possiamo scoprire interessanti connessioni dal punto di vista delle strategie cognitive comuni, e soprattutto tentare di forzare la dicotomia e svelarne piuttosto i sottili confini frattali, rivelando la loro natura comune di “linguaggi” per comprendere il mondo. Per meglio mettere in evidenza il comune linguaggio per la comprensione e descrizione del mondo, mettiamo a confronto due opere, ciascuna nata nel proprio ambito cognitivo, la fisica e la pittura. Il diagramma di Feynman è uno strumento cognitivo per effettuare i calcoli riguardanti le interazioni tra particelle nella teoria quantistica dei campi. Le particelle sono rappresentate con delle linee, che possono essere di vario genere in funzione del tipo di particella a cui sono associate. Usando il linguaggio del mondo dell’arte, diremmo che i diagrammi di Feynman sono delle rappresentazioni pittoriche delle interazioni tra particelle. Fisic’Arte 6 Cosa possiamo dire dell’elegante forma del diagramma se lo confrontiamo con Composizione VII di Kandinskij? Entrambi sono linguaggi simbolici, ma nonostante la raffinata simbologia delle forme e dei colori elaborata dall’artista russo, l’aspetto soggettivo della recezione dell’opera e del suo significato è dominante, mentre il diagramma, pur con tutta la sua suggestione “visiva”, acquista un pieno significato condiviso all’interno della “sintassi” quantistica. Quello che è importante notare è che i linguaggi scientifici non hanno nulla di intrinsecamente oggettivo, ma sono piuttosto inter-soggettivi, sono cioè strumenti condivisi dalla comunità scientifica per descrivere dati d’esperienza. Ed ogni linguaggio della scienza nasce non tanto dall’applicazione di una ricetta universale ma porta il segno inconfondibile delle scelte culturali, concettuali e creative di chi lo ha costruito. Potremmo dire perciò che la scienza è l’arte di armonizzare i dati in modelli matematici e teorie, organizzando tramite linguaggi simbolici l’informazione estratta dall’inesauribile sorgente dell’esperienza. In genere si obietta che la scienza è in qualche modo più vera dell’arte, perché permette previsioni. Si tratta di una questione controversa, perché gran parte dei sistemi che conosciamo in natura non consentono previsioni precise di tipo deterministico. E’ molto più ampia la classe dei sistemi per i quali è necessario costruire una matematica dei vincoli e dei processi, che ci dice qualcosa sulle caratteristiche globali del fenomeno e del suo destino asintotico nel tempo, ma per il quale non è possibile calcolare tutto. Siamo processi che studiano processi, immersi nel mondo costruiamo metodi d’indagine e linguaggi simbolici che ci permettono di cogliere qualcosa della complessità e della bellezza del mondo. Possiamo dire che fissiamo con le nostre scelte ciò che decidiamo di descrivere. La tensione verso la bellezza e la comprensione è sicuramente molto più radicata della verità di ogni singola rappresentazione, perché il fondamento della conoscenza è il processo stesso della conoscenza nell’accoppiamento continuo tra la mente e il mondo. Tra l’opera d’arte e l’attività scientifica c’è dunque una indiscussa ed intrigante vicinanza; entrambe sono risposte umane alle sollecitazioni del mondo, preziosi ed esclusivi atti di comunicazione. La comprensione del mondo (ricerca della verità) è dunque un problema aperto che può avvalersi di ogni mezzo a disposizione dell’uomo. C’è un linguaggio che più di un altro è vicino alla verità? Lasciamo la risposta ad una bellissima frase di Feynman: ciò che non posso creare non posso comprendere. In particolare, in questo libro, si vuole mostrare lo stretto legame tra la fisica e l’arte, attraverso: le tecniche diagnostiche per la tutela dei beni culturali, l’immagine scientifica che abbiamo dell’universo e la produzione artistica, l’influenza delle scoperte scientifiche sul modo di rappresentare la realtà da parte degli artisti e quali suggestioni hanno creato, il ruolo dell’arte stessa nella rivoluzione della conoscenza scientifica. Fisic’Arte 7 Capitolo 1 LA#TECNOLOGIA# AL#SERVIZIO#DELL’ARTE# 1. Introduzione Nel corso del 1900, lo sviluppo della fisica ha comportato la nascita di numerosissime tecniche di indagine della realtà. All’inizio queste tecniche si svilupparono per le necessità di conoscenza e dell’analisi della struttura microscopica della materia. In particolare, discipline come la “fisica delle particelle” e la “struttura della materia” hanno permesso di ottenere, dal dopoguerra ad oggi, enormi passi in avanti alla scienza per quanto riguarda la conoscenza della realtà, la scoperta di nuove particelle e della struttura atomica e molecolare. Per realizzare queste scoperte sono stati costruiti una serie di apparati sperimentali che hanno portato, coerentemente con le basi del metodo scientifico, a suffragare o falsificare le ipotesi e teorie che nel corso del tempo si presentavano. Questi apparati sperimentali, con il tempo, sono entrati a far parte della ricerca, non esclusivamente di una disciplina come la fisica, e si sono diffusi in molti laboratori. A seguito di questa diffusione sono aumentati anche gli ambiti di utilizzo di queste apparecchiature. Negli ultimi tempi, proprio questi strumenti si sono rivelati utili nel campo della conservazione dei beni culturali. Lo scopo delle analisi scientifiche, in generale, nel campo dei “Beni Culturali” non è diretto solo alla tutela, alla conservazione, al restauro, che ovviamente sono di prioritaria importanza, ma esse assolvono anche allo scopo di fornire gli elementi di caratterizzazione di materiali che integrano i dati dell’analisi storico-stilistica e che possono prescindere del tutto da scopi di conservazione e di restauro. 2. Nozioni di fisica atomica La maggior parte delle tecniche analitiche utilizzate rientra nel gruppo di quelle definite spettroscopiche, basate cioè sull’interazione tra la materia e le radiazioni elettromagnetiche. L’intensità e il tipo di questa interazione possono essere sfruttati a scopo qualitativo per identificare elementi o composti chimici e a scopo quantitativo per determinarne la concentrazione nei campioni analizzati. Di particolare rilevanza è il fatto che la maggior parte delle tecniche sono di analisi tipo non distruttivo. Essendo il campione preso in esame un’opera d’arte, spesso di inestimabile valore, ogni tipo di “distruzione” di una sua parte è da evitare il più possibile. La radiazione elettromagnetica, ovvero la luce, ha una doppia natura: Fisic’Arte 8 ondulatoria, in quanto si propaga sotto forma di onda, caratterizzata da una certa frequenza f e da una certa lunghezza d’onda λ; l’energia di un’onda luminosa è proporzionale a f o inversamente proporzionale a λ; corpuscolare, in quanto composta da pacchetti di energia, i fotoni, che trasportano l’energia luminosa la quale, secondo l’equazione di Planck, è E=hf dove h è la costante di Planck. La luce visibile non è che un ristretto intervallo della radiazione elettromagnetica: è infatti la parte alla quale è sensibile l’occhio umano; tuttavia, la luce ha un range che si estende dai raggi gamma, con energia elevatissima, alle radiofrequenze, energia bassissima, passando per i raggi X, l’ultravioletto, il visibile, l’infrarosso e le microonde. L’insieme delle radiazioni luminose si definisce spettro elettromagnetico. In termini di ionizzazione, la radiazione, se in possesso di sufficiente energia, interagisce con la materia in tre modi principali: Effetto fotoelettrico: quando un fotone gamma interagisce con un elettrone orbitante attorno ad un atomo e gli trasferisce tutta la sua energia, col risultato di espellere l'elettrone dall'atomo. L'energia cinetica del "fotoelettrone" risultante è uguale all'energia del fotone gamma incidente meno l'energia di legame dell'elettrone; Scattering Compton: un fotone gamma incidente espelle un elettrone da un atomo, in modo simile al caso precedente, ma l'energia addizionale del fotone è convertita in un nuovo fotone gamma, meno energetico, con una direzione diversa dal fotone originale. La probabilità dello scattering Compton diminuisce con l'aumentare dell'energia del fotone. Il meccanismo è relativamente indipendente dal numero atomico del materiale assorbente; Produzione di coppie elettrone-positrone: è una reazione in cui un raggio gamma interagisce con la materia convertendo la sua energia in materia (elettrone) ed antimateria (positrone). Fisic’Arte 9 3. Principali tecniche diagnostiche Le tecniche spettroscopiche si differenziano in base all’energia della radiazione luminosa utilizzata e in base al meccanismo che si sfrutta analiticamente. Irraggiando la materia con la radiazione luminosa si creano effetti diversi a seconda dell’energia utilizzata: si va da reazioni che interessano il nucleo (raggi gamma, raggi X) a reazioni che interessano gli elettroni esterni (UV, visibile) fino a effetti che interessano la vibrazione delle molecole (infrarosso, microonde, onde radio). A seconda del range spettrale impiegato si hanno quindi le seguenti tecniche: spettroscopia a raggi X spettroscopia UV-visibile spettroscopia infrarossa e Raman A seconda del meccanismo sfruttato si ha invece la seguente suddivisione: Metodi in assorbimento, nei quali si misura la quantità e il tipo di luce assorbita dal campione irraggiato con una sorgente luminosa a λ definita o con un intervallo di λ definito; Metodi in emissione, nei quali invece si misura la quantità e il tipo di luce emessa dal campione quando ad esso viene somministrata energia sotto forma di calore; Metodi in fluorescenza, nei quali il campione viene irraggiato con luce a λ1 definita e si misura la quantità di luce emessa a λ2, con λ2 > λ1 in quanto si ha una perdita di energia per fenomeni vari. Dalla combinazione di queste classificazioni si hanno numerose tecniche delle quali saranno descritte quelle più utilizzate nell’analisi di campioni di interesse artisticoarcheologico. In base al tipo di materiale da analizzare, le tecniche più idonee sono le seguenti: Spettroscopia atomica: ideale per studiare ceramica, vetro, metalli, materiali lapidei; Spettroscopia molecolare: ideale per studiare pigmenti, materiale organico e cristalli; Riflettografia infrarossa; Raman Diffrazione (XRD) Spettroscopia X: ideale per studiare pigmenti, ceramica, vetro, metalli; Tecniche di Ion Beam Analysis: ideale per analisi di composizione chimica. I vantaggi dell’uso di queste tecniche spettroscopiche interessano vari operatori nel campo artistico. Case d'aste: La pubblicazione di cataloghi di opere d’arte viene curata dagli esperti della casa d'aste. Sino ad ora non si correvano seri rischi se i dati pubblicati erano sbagliati. Non si arrivava quasi mai a procedimenti legali con un verdetto chiaro, poiché i giudici potevano basarsi esclusivamente sull'opinione di altri esperti. Attraverso l’uso di queste tecniche diagnostiche, e con il miglioramento delle stesse, si arriverà a verdetti inconfutabili. Gli esami scientifici per l'accertamento dell'autenticità con strumenti computerizzati hanno un costo non indifferente, però, comportano anche un notevole rialzo del prezzo di un oggetto di provata autenticità e tutelano da eventuali contestazioni. Esperti e critici d'arte: La percentuale molto elevata di copie e falsi presenti nei musei e nelle collezioni dimostra che anche gli esperti si possono sbagliare. Fisic’Arte 10 L'accertamento dell'età di un oggetto d'arte permette ora ad un critico di dedicarsi totalmente e con serenità alla valutazione storica, artistica e commerciale. Antiquari e galleristi: Questa categoria si trova al centro del mercato ed è la più informata sulla quantità di copie e falsi e sull'influenza sulle vendite di un'autenticità certa. Una maggiore trasparenza e una rinnovata fiducia da parte degli acquirenti porta enormi vantaggi, non solo per la reputazione del commerciante, ma anche per l'aspetto economico. Investitori in arte e collezionisti: Acquistare arte è fondamentalmente più rischioso che comprare qualunque altra cosa. Nel campo dell'arte figurativa e dell'antiquariato manca un rapporto logico tra il costo di produzione, la qualità ed il prezzo di vendita. Prima dell'acquisto di un oggetto ligneo di valore bisognerebbe richiedere un certificato di datazione del legno. Autorità doganali e di polizia: Gli uffici di competenza dei paesi europei hanno spesso problemi nel valutare oggetti d'arte sequestrati. Un'analisi scientifica della qualità degli oggetti costituisce un'attendibile base per tale scopo. Analizziamo adesso le principali tecniche fisiche, spettroscopiche e non, come quelle radiometriche, impiegate nel campo dei beni culturali: Spettroscopia molecolare Questa tecnica è particolarmente indicata per la datazione scientifica di oggetti d’arte in legno come mobili, dipinti su tavola, travi, statue, strumenti musicali. La misurazione è basata sulle alterazioni chimiche del legno nel corso dei decenni e dei secoli. Il metodo è qui brevemente descritto: tutte le molecole del legno oscillano ad una frequenza fissa e ben determinata. Quando vengono colpite dai raggi infrarossi dello spettrometro sulla loro frequenza, esse assorbono l'energia irradiata. Questo assorbimento è rappresentato da una curva. Se viene inserita nello strumento una sottile pastiglia contenente pochi milligrammi di polvere del legno di un albero recentemente tagliato, il computer registra l'assorbimento di tutte le molecole di questo tipo specifico di albero e sullo schermo appare in pochi minuti una curva corrispondente alla composizione chimica. Tale curva può essere definita "l'impronta digitale" di un tipo di albero senza ricorrere ad analisi chimiche complesse. Lo strato esterno di un oggetto ligneo degenera relativamente in fretta nel corso dei secoli a causa degli agenti esterni, mentre l'interno del legno si modifica lentamente e quasi costantemente per effetti chimici e per la presenza di microrganismi. A causa di tale decadimento del legno fresco e della formazione di nuove molecole la curva originale si modifica continuamente ed indipendentemente da influssi esterni. La datazione assoluta viene calcolata confrontando la curva in esame con una "banca dati" di curve di campioni di datazione certa. Il confronto spettrografico tra lo strato esterno e quello interno del legno permette di Fisic’Arte 11 scoprire l'uso di legno già vecchio per simulare un'età superiore. Vengono considerate in particolare quelle molecole resistenti sia al calore che all'umidità. Per eseguire la datazione è necessario un prelievo di pochi milligrammi di polvere di legno presi un po' in profondità e scartando i primi 2-3 mm di superficie. Per prelevare si usa una fine punta da trapano del diametro inferiore ai 3mm che produce un forellino delle dimensioni di un foro di un tarlo. Anche se quindi questa tecnica non può essere definita "non invasiva" essa necessita comunque di una quantità di campione veramente contenuta. I vantaggi presentati da questo metodo d’indagine spettroscopica sono: 1) Il metodo di datazione ha raggiunto un alto grado di affidabilità. E’ semplice, veloce ed economico; 2) Oltre all’età, l’analisi spettroscopica fornisce anche informazioni sul tipo di legno analizzato; 3) Solo il metodo basato su un’analisi spettroscopica permette la scoperta dell’uso di legno vecchio per falsi recenti; 4) Il metodo sta ottenendo importanza per la sua veloce e precisa classificazione di lacche, colle e pigmenti, così come incrostazioni su bronzo e ceramiche da scavo paragonando tracce di tali campioni con gli spettri esistenti di riferimenti affidabili. Gli svantaggi, tuttora irrisolti, sono: 1) Alcuni legni come il mogano, il palissandro e il castagno non sono ancora databili con accuratezza; 2) Gli oggetti che sono rimasti per lunghi periodi al di sotto del punto di congelamento, risultano essere più giovani perché i processi chimici nel legno sono stati rallentati. Abbiamo questo problema in Europa con travi da rovine di vecchi castelli e chiese in montagna; 3) L’accuratezza diminuisce con il tempo. Il margine di errore, che è intorno al 10% fino a circa 350-450 anni di età aumenta fino a al 20% per legni di 800 anni o più; 4) Gli alberi della stessa famiglia possono avere sviluppato sottotipi in altri continenti. In modo da elaborare una completa tabella di datazione per i nuovi sottotipi sono richiesti due campioni di datazione certa. Riflettografia infrarossa Vincenzo Podesti San Giuseppe (XIX secolo, particolare); immagine a colori e riflettografia IR La riflettografia infrarossa è una metodologia di indagine ottica che si applica in genere ai dipinti, ai manoscritti e ai disegni. Essa è inquadrabile fra le tecniche di analisi di immagini come l’analisi fotografica nelle diverse versioni (macrofotografia, riprese in luce radente, IR, UV, falso colore, etc.), la radiografia, la spettroscopia per immagini. La riflettografia in infrarosso può essere considerata la naturale evoluzione della fotografia infrarossa, eseguita tradizionalmente con pellicole bianco/nero sensibili fino a circa 800 nm. L’impiego delle moderne telecamere, e più recentemente di particolari fotocamere (a Fisic’Arte 12 stato solido), permette di ottenere riprese fino a lunghezze d’onda nella zona dell’infrarosso vicino (NIR: 800-2000 nm) e perciò l’indagine riflettografica è particolarmente adatta a rendere visibile il disegno, denominato disegno preparatorio, tracciato dall'autore sulla preparazione presente sotto lo strato pittorico. La possibilità di osservare il disegno preparatorio ha un evidente interesse per i critici dell’arte perché permette di confrontare l’idea iniziale dell’autore con la realizzazione ultimata. E’ quindi possibile osservare le diverse modalità di lavoro dei pittori e tutti i casi in cui, per ragioni diverse, l’autore del quadro apportava delle modifiche al disegno originale. Infatti, per valori più elevati di lunghezza d’onda gli strati di pittura hanno in generale una trasparenza molto maggiore che nella zona più ristretta dello spettro infrarosso alla quale è limitata la sensibilità della pellicola infrarosso tradizionale. L'esame del disegno soggiacente nella maggior parte dei casi è di grande interesse per lo storico dell’arte perché rivela in modo diretto la mano dell’autore e ciò può essere di grande aiuto per esempio nei casi di dubbia attribuzione. Il disegno è a volte costituito da poche tracce essenziali, in altri casi invece è eseguito con grande dettaglio e precisione fino al tratteggio delle ombre, rappresentando così una vera e propria opera d’arte, testimonianza fedele del processo creativo destinata a rimanere nascosta, ma per nostra fortuna resa visibile da questa tecnica. L'analisi riflettografica inoltre è in grado di mostrare variazioni in corso d'opera (i cosiddetti pentimenti), l'estensione di interventi di restauro e ridipinture effettuati con pigmenti moderni e, in generale, lo stato di conservazione della superficie dell'opera. La riflettografia infrarossa è soprattutto impiegata per i dipinti su tavola o tela, raramente per le pitture murali. Nel caso degli affreschi, infatti, non essendo trasparente all'infrarosso lo strato di intonachino, il suo uso è limitato all’esame di zone di ripresa a secco. Spettroscopia XRF La Fluorescenza a raggi X è probabilmente la tecnica di analisi elementare più utilizzata nel campo dei beni culturali. In questa tecnica, il campione è colpito con un fascio di raggi X che causa l’espulsione di elettroni interni per effetto fotoelettrico, le vacanze (i posti vuoti) che si generano sono colmate mediante transizioni di elettroni esterni con emissione di raggi X specifici per ogni elemento. Siccome per vari motivi l'energia delle radiazioni emesse è minore di quella incidente, si parla di fluorescenza X o XRF (X-Ray Fluorescence). L'energia delle radiazioni emesse permette di riconoscere qualitativamente gli elementi presenti nel campione nel punto irraggiato, mentre l'intensità delle radiazioni è correlabile alla concentrazione degli elementi. La zona irraggiata può essere di 3-100 mm2 o minore nel caso di strumenti dotati di microscopio. Una limitazione di questa tecnica è che essa, per motivi strumentali, non è in grado di determinare elementi a basso peso atomico, in particolare dal magnesio all’idrogeno, se non con accorgimenti particolari (presenza di elio); è quindi poco adatta per il riconoscimento di molecole organiche. L’analisi XRF può essere effettuata in diverse configurazioni, a seconda del tipo di strumento impiegato e della geometria d’analisi. Esistono, ormai, strumentazioni portatili che analizzano la superficie del campione, fino ad una profondità variabile a seconda della composizione del campione stesso; gli strumenti Fisic’Arte 13 più recenti sono dotati di microscopio e possono quindi analizzare spot micrometrici. Con lo sviluppo della tecnologia, diventano disponibili strumenti portatili di dimensioni veramente ridotte, idonei per l’analisi in situ (ovvero nel luogo dove è presente l’opera) non distruttiva. Tecniche di Ion Beam Analysis A partire dalla metà degli anni Ottanta, l’uso di piccoli acceleratori di particelle (strumenti che accelerano attraverso campi elettromagnetici le particelle cariche) si è andato sempre più caratterizzando per l'impiego a scopo applicativo delle tecniche cosiddette di Ion Beam Analysis (nel seguito indicate anche con l'acronimo IBA). Queste tecniche consentono di determinare la composizione di un qualunque materiale sfruttando l'emissione di radiazioni X e γ e/o di particelle cariche prodotte da quel materiale quando viene usato come "bersaglio" per il fascio di particelle. Si può infatti associare univocamente l'energia della radiazione emessa a un dato elemento atomico, o addirittura isotopo; l'emissione di radiazione a una determinata energia rappresenta per così dire la "firma" della presenza del corrispondente elemento nel materiale "bombardato" dal fascio. L'analisi è multielementale, quantitativa, rapida, sensibile fino agli elementi presenti in traccia, e non distruttiva. Analizzare gli elementi che costituiscono un'opera d'arte è importante per: conoscere le tecnologie di produzione; avere informazioni sull'epoca e sull'area geografica di produzione; caratterizzare la tecnica di un'artista o di una scuola; indagare i meccanismi di degrado (in vista di un eventuale restauro). Fra tutte le tecniche IBA, in particolare, la tecnica PIXE in fascio esterno è molto utilizzata grazie alle sue caratteristiche di non distruttività. La tecnica non invasiva, chiamata PIXE (particle induced X-ray emission), permette di acquisire in pochi minuti informazioni su opere d’arte senza danneggiarle e spostarle. Il funzionamento è il seguente: una sorgente di polonio emette particelle alfa che inviate sull’oggetto da analizzare, stimolano gli atomi che compongono la superficie a emettere radiazione X di energia caratteristica per ciascuna specie atomica. Convogliati su un Fisic’Arte 14 rivelatore, i raggi X formano spettri in cui si può evidenziare, in corrispondenza di ogni picco, la presenza di un determinato elemento. Risalendo alle specie atomiche presenti sulla superficie di una ceramica, di un dipinto o di qualsiasi altro manufatto, è possibile distinguere un’opera vera da una falsa, attribuirla ad una cultura piuttosto che ad un’altra, oppure impostare un restauro reversibile. Grazie a questa metodica si è capito che il colore nero delle decorazioni dei vasi attici risalenti al 400–500 a.C. non sia da attribuire ad una vernice, ma all’applicazione di argilla purificata arricchita di ferro e di potassio estratto dalla cenere di alberi bruciati. Il nero delle decorazioni è pertanto il risultato delle trasformazioni di ossidi di ferro in ematite avvenuta in un ambiente privo di ossigeno. La stessa metodica ha consentito di stabilire che la stessa formula è stata usata per ornare i vasi di Kamares, realizzati intorno al 2000 a.C., ritrovati in una grotta a Creta e oggi conservati nel Museo Paolo Orsi di Siracusa. Non fanno parte di questo filone creativo i vasi conservati al Museo archeologico di Licata, le cui decorazioni sono state dipinte con una vernice nera contenente ossido di manganese. Lo spettro ottenuto con la tecnica PIXE è, infatti, del tutto diverso da quello rilevato sui vasi attici. La tecnica PIXE è stata applicata in moltissimi altri campi. Vediamo qualche esempio: Identificazione delle rigature nei manoscritti medievali. In manoscritti risalenti almeno alla fine del secolo XI si possono notare le sottili righe tracciate per delimitare il campo di scrittura e guidare la mano dei copisti. Le misure PIXE effettuate su un ampio corpus di manoscritti opportunamente selezionati dai codicologi in modo da costituire un campione statisticamente significativo, hanno consentito di identificare tre diverse tecniche per tracciare le rigature: con una punta di piombo; con inchiostro (in alcuni casi l'inchiostro era simile a quello utilizzato per il testo); con una punta in grafite (rivelabile attraverso tracce di Al, Si e Fe, elementi presenti anche nelle moderne matite). In precedenza le rigature tracciate con quest’ultimo sistema erano state erroneamente classificate come rigature al piombo sulla base di una osservazione meramente visuale dei manoscritti. Tali risultati sono stati utilizzati dagli umanisti come criterio di discriminazione e classificazione di tipologie diverse di manoscritti. Miniature nei codici medioevali e rinascimentali dell’Italia centrale. Misure PIXE in fascio esterno sono state effettuate su centinaia di miniature, tratte da manoscritti o frammenti risalenti al periodo XII-XV secolo (ovviamente, sempre scelti con criteri di rappresentatività da umanisti, in questo caso storici della miniatura). Obiettivi di tale lavoro erano quelli di costruire un soddisfacente database per gli elementi utilizzati nei diversi pigmenti, stabilire trend cronologici nell'utilizzo di vari materiali per i colori, dedurre alcune informazioni sulle Fisic’Arte 15 vie dei commerci per le materie prime, confermare oppure no l'attribuzione delle opere analizzate a un artista. Come esempio citiamo alcune interessanti osservazioni sull'utilizzo dei pigmenti blu. Molto utilizzati erano l'azzurrite e il blu oltremare (lapislazzulo); questo secondo pigmento era molto prezioso (proveniva dall'oriente) e si riteneva quindi che fosse utilizzato solo per opere di particolare valenza artistica. Al contrario le misure PIXE hanno messo in evidenza un suo largo utilizzo anche in opere all'apparenza molto semplici. A questo proposito è stata avanzata l'ipotesi che l'impiego del prezioso pigmento fosse legato non tanto alla qualità artistica della decorazione, quanto al carattere religioso delle opere. Inchiostri metallo-gallici. A partire dal secolo XI nei manoscritti vengono impiegati sempre di più i cosiddetti inchiostri metallo-gallici, ottenuti dalla reazione dell'acido gallico, contenuto nelle noci di galla, con il solfato ferroso. I rapporti fra le concentrazioni degli elementi metallici (Fe, Ni, Cu, Zn, Pb) variano da manoscritto a manoscritto e possono quindi servire come discriminante per distinguere diversi scriptoria e periodi. In particolare, in merito alle analisi di inchiostri, è attivo un importante progetto sulla ricostruzione della cronologia degli scritti di Galileo. Analisi microscopiche e analisi chimiche L'attenta analisi microscopica e le analisi chimiche spettroscopiche permettono di: a) riconoscere una craquelure (crettatura) che si è formata in modo naturale da una craquelure ottenuta artificialmente; b) riconoscere i pigmenti preparati artigianalmente da quelli puri e fini prodotti industrialmente; c) identificare leganti sintetici come gli acrilici o vinilici e i pigmenti moderni f) correlare l'intensità della crettatura formatasi in relazione all'età del dipinto. Metodo del carbonio-14 Il metodo del 14C (carbonio-14), o del radiocarbonio, è un metodo di datazione radiometrica basato sulla misura delle abbondanze relative degli isotopi del carbonio. Il metodo del 14C permette di datare materiali di origine organica (ossa, legno, fibre tessili, semi, carboni di legno) e si tratta di una datazione assoluta, vale a dire in anni calendariali, Fisic’Arte 16 ed è utilizzabile per materiali di età compresa tra i 50.000 e i 100 anni. La sua principale utilizzazione è per datare i reperti costituiti da materia organica, quindi contenenti atomi di carbonio. Il carbonio è un elemento chimico fondamentale per la vita e presente in tutte le sostanze organiche. Esso è presente sulla terra in tre isotopi: due stabili (12C e 13C) e uno radioattivo (14C). Il 14C si trasforma per decadimento beta in azoto (14N), con un tempo di dimezzamento medio (o emivita) di 5730 anni, di conseguenza questo isotopo a lungo andare scomparirebbe, se non venisse continuamente reintegrato; infatti, il 14C viene continuamente prodotto dal bombardamento dell’atmosfera da parte di raggi cosmici. L'equilibrio dinamico che si instaura tra produzione e decadimento radioattivo mantiene quindi costante la concentrazione di 14C nell'atmosfera, dove è presente principalmente legato all'ossigeno sotto forma di anidride carbonica. Tutti gli organismi viventi che fanno parte del ciclo del carbonio scambiano continuamente carbonio con l'atmosfera attraverso processi di respirazione (animali) o fotosintesi (vegetali), oppure lo assimilano nutrendosi di altri esseri viventi o sostanze organiche. Di conseguenza finché un organismo è vivo, il rapporto tra la sua concentrazione di 14C e quella degli altri due isotopi di carbonio si mantiene costante e uguale a quella che si riscontra nell'atmosfera. Dopo la morte, però, questi processi terminano e l'organismo non scambia più carbonio con l'esterno. Per effetto del decadimento, quindi, la concentrazione di 14C diminuisce esponenzialmente in modo regolare secondo la formula: c = c0e − Δt τ (1) dove c0 è la concentrazione di 14C nell'atmosfera, Δt il tempo trascorso dalla morte dell'organismo, τ = Δt/ln2 la vita media del 14C. Fisic’Arte 17 Misurando dunque la quantità c di 14C presente nei resti organici, se ne ricava l'età Δt come formula inversa della (1): Δt = −τ ln(c / c0 ) La misura del 14C si può effettuare con due metodi: metodo del contatore proporzionale: con un contatore Geiger o altra apparecchiatura simile si misurano gli elettroni prodotti dal decadimento del 14C nel campione. Questo è stato il primo metodo ad essere impiegato. metodo della spettrometria di massa (AMS, Accelerator Mass Spectrometry): utilizzando uno spettrometro di massa si misura direttamente la concentrazione di 14C presente nel campione. Questo metodo è di applicazione più recente, usato a partire dagli anni settanta. Rispetto al metodo del contatore proporzionale, il metodo AMS presenta il vantaggio di poter lavorare con campioni più piccoli (anche di pochi milligrammi) e di fornire un risultato in un tempo molto più breve (si possono misurare decine di campioni al giorno, mentre il contatore proporzionale può richiedere anche alcune settimane per un solo campione). Tuttavia presenta anche lo svantaggio di essere un metodo distruttivo: esso richiede infatti che il campione venga bruciato e ridotto in forma gassosa. Entrambi questi metodi permettono di ottenere datazioni con un margine di errore tra il 2 e il 5% e fino ad un tempo massimo di circa 50000 anni: per campioni più antichi, la concentrazione di 14C è troppo bassa per poter essere misurata con sufficiente accuratezza. Il caso mediatico più celebre di applicazione del metodo del 14C è stato la radiodatazione della Sindone di Torino eseguito in tre laboratori da un'equipe internazionale nel 1988, il cui risultato data la Sindone al periodo compreso tra il 1260 e il 1390. Metodo della termoluminescenza La termoluminescenza (TL) permette di datare vari materiali di natura archeologica che sono rimasti esposti a fonti di calore (fuoco o luce del sole): ceramica, pareti di forni, oggetti litici bruciati. Rispetto quindi al metodo 14C, con questo metodo si può datare la ceramica, che è il materiale più abbondante rinvenuto normalmente nei siti archeologici degli ultimi 10.000 anni. Oltre alla ceramica, è possibile datare anche altri materiali inorganici che siano stati sottoposti a combustione (ad es., le selci combuste), che risalgono a prima di 50.000 – 80.000 anni fa, epoca che non può essere datata con il metodo del 14C, perché troppo antica. Basi del metodo: i materiali a struttura cristallina (per esempio la ceramica) contengono elementi radioattivi: uranio, torio e potassio. Questi elementi decadono ad una velocità costante, emettendo radiazioni che bombardano la struttura cristallina dislocando alcuni elettroni che vengono poi intrappolati dal reticolo cristallino; il numero quindi cresce col passare del tempo. Riscaldando il materiale ad una temperatura di almeno 500 °C, gli elettroni precedentemente intrappolati possono fuggire riportando così l’orologio a zero. Durante questo processo gli elettroni emettono un fascio luminoso che costituisce il fenomeno della termoluminescenza. Misurando la quantità di termoluminescenza emessa da un campione riscaldato in laboratorio alla temperatura suddetta, si può calcolare quanto tempo sia trascorso a partire dal riscaldamento del reperto. Fisic’Arte 18 Limiti del metodo: l’intervallo cronologico è di circa 100.000 anni e le date ottenute con questo metodo riportano solitamente un errore pari a ± 10%. È quindi un metodo meno preciso del metodo 14C, ma rimane comunque molto utile nei casi in cui non sia possibile applicare quello del radiocarbonio. Duroflessometria Attraverso la misura della durezza e della deformabilità del colore, in funzione del tipo di legante e di pigmento utilizzato, si valuta l'essiccamento dello strato pittorico e quindi la sua compatibilità con un determinato periodo storico. Risonanza magnetica Spesso è difficile stabilire quando, dove e come intervenire per conservare le preziose opere d’arte di cui è ricco il nostro paese. A tale scopo ci viene in aiuto la risonanza magnetica, per cui monumenti, affreschi, sculture, opere in legno, libri, documenti possono essere analizzati con un nuovo dispositivo molto simile a quello impiegato nella diagnostica medica, ma meno ingombrante e quindi agevole da trasportare sul luogo di interesse. Essendo una tecnica non invasiva, ha il pregio di non manomettere l’opera d’arte evitando i danni permanenti che si producono nel prelevare i campioni da analizzare. Il principio di funzionamento è il seguente: la risonanza magnetica analizza il comportamento delle molecole di acqua (che rappresentano l’80% della massa del corpo umano) quando sono sottoposte a particolari campi magnetici. In ogni molecola (H2O) sono presenti due atomi di idrogeno, il cui nucleo è costituito da un protone. Ciascun protone si comporta come una minuscola calamita che “gira” continuamente un po’ come una trottola. E’ il campo magnetico dei protoni che viene dunque monitorato. Normalmente questi campi magnetici sono orientati in modo casuale, le “trottole” girano inclinate in ogni direzione, perciò la loro somma complessiva è nulla, cioè globalmente non si coglie nessun effetto, il materiale analizzato non è magnetizzato. La macchina della risonanza magnetica è dotata di un magnete che costringe tutti i campi magnetici dei protoni ad allinearsi parallelamente. Poco meno della metà è orientata nel verso del campo magnetico della RM, l’altra metà nel verso opposto. Il materiale si trasforma così in una calamita il cui campo magnetico è orientato nella direzione della maggioranza dei protoni. A questo punto la macchina produce una serie di onde radio a una frequenza ben precisa, che fanno ruotare di 90° il campo magnetico dei protoni. Il segnale radio è quindi interrotto e i protoni tornano nella posizione precedente. Questo ritorno ha lo stesso effetto di una calamita che ruota: induce un segnale elettrico. Questo segnale è registrato dai ricettori della macchina e fornisce l’informazione necessaria. Infatti questo segnale si esaurisce rapidamente, ma in tempi diversi a seconda del materiale in cui si trovano i protoni. I segnali elettrici sono quindi registrati, digitalizzati e inviati a un computer che costruisce un’immagine tridimensionale. Lo strumento che sfrutta questo principio fisico fornisce, pertanto, informazioni sulla distribuzione d’idrogeno (che fa parte dell’acqua H2O) all’interno di un materiale. Ciò consente di individuare non solo la quantità di acqua ma anche il modo in cui essa interagisce con la struttura del materiale stesso. Lo strumento Fisic’Arte 19 portatile, chiamato NMR-MOUSE, è stato testato su alcune opere (l’affresco romano del criptoportico del Colle Oppio, le Mura Aureliane, la scala lignea della Torre delle Milizie) ed ha funzionato egregiamente, dimostrando una notevole sensibilità nell’analisi di materiali diversi come legno, laterizi e strati pittorici. Strumento diagnostico per i dipinti a rischio di deterioramento Nelle opere d’arte la scelta di tecniche diagnostiche poco invasive è d’obbligo. Lo strumento ideato per la valutazione dello stato di salute delle opere pittoriche è, infatti, una sonda coassiale che consente di quantificare il grado di deterioramento di un dipinto in modo accurato e con un’operazione del tutto innocua. Il parametro che viene comunemente utilizzato, da questa come da altre metodiche, per esprimere il livello di conservazione di un’opera è la permittività, che indica, attraverso l’induzione di un campo elettrico, l’umidità contenuta in un materiale. Dato che proprio l’umidità è una delle principali cause di logoramento del legno dei dipinti, il suo monitoraggio prima che se ne manifestino gli effetti devastanti consente per esempio di adottare precocemente provvedimenti protettivi. In una seconda applicazione non meno importante, la permittività rappresenta la misura sulla base della quale è possibile dosare con precisione la somministrazione di onde elettromagnetiche «terapeutiche» ai dipinti infestati da funghi o parassiti. In questo caso, conoscere l’umidità presente nel materiale impedisce di surriscaldarlo, e quindi di danneggiarlo irreparabilmente, con un’overdose di radiazioni. I metodi finora disponibili per misurare la permittività presentavano due fondamentali difetti: o richiedevano l’asportazione di campioni dell’opera in esame, cioè dei veri sacrilegi del patrimonio artistico, oppure si avvalevano di strumenti più indicati per materiali liquidi o semisolidi e faticavano a ottenere dati affidabili dai materiali solidi a causa dell'irregolarità delle loro superfici. Termografia La termografia è una tecnica non a contatto che registra la distribuzione della temperatura superficiale di un oggetto di emissività nota per analizzarne la struttura esterna e subsuperficiale. Sfrutta il riscaldamento naturale (ad esempio irraggiamento solare) o indotto artificialmente (termoconvezione o irraggiamento IR). Le mappe termiche ottenute permettono di estrarre differenti tipologie di informazioni a seconda della modalità della loro realizzazione. Rivelano differenze e discontinuità di una superficie, nonché anomalie, difetti o peculiarità non visibili ad occhio nudo, grazie alla registrazione del diverso andamento della temperatura sulla superficie o a variazioni temporali di questa. Questa tecnica è utilizzata per il monitoraggio delle strutture murarie di edifici, degli intonaci e degli affreschi, nonché per superfici e strutture lapidee; sono possibili anche applicazioni nel settore dei manufatti lignei, dall'edilizia a statue e dipinti su tavola. È in grado di individuare umidità, riscaldamenti differenziali, ponti termici, dispersioni, crepe, tessiture e palinsesti murari, e quindi di valutare possibili cause di degrado. Fisic’Arte 20 L'indagine termica è assolutamente non invasiva, veloce ed estensiva, e permette di realizzare uno screening preliminare al fine di procedere con indagini (micro) distruttive solo quando necessario o in aree selezionate. Microscopio ottico La microscopia ottica consente la visione ingrandita (fino a un massimo di circa 1000 volte) degli oggetti o di parte di essi, mantenendo una rappresentazione d’insieme che permette di evidenziare in maniera più chiara la conformazione sia della struttura sia del colore e dei contrasti. Sui principi della microscopia ottica si basa il microscopio ottico che sfrutta la luce con lunghezza d'onda dal vicino infrarosso all'ultravioletto, coprendo tutto lo spettro visibile. Per quanto antica, la microscopia ottica trova ampi impieghi in quasi tutti i laboratori. Con alcuni accorgimenti è possibile raggiungere una risoluzione spaziale di circa 250 nm, anche se in tal modo la profondità di campo risulta essere molto bassa. Il microscopio ottico tradizionale è il più semplice. Per mezzo di lenti ingrandisce l'immagine del campione, illuminato con luce nell'intervallo spettrale del visibile. Può essere semplice (un solo sistema di lenti o addirittura una sola lente) o composto (almeno due sistemi, oculare ed obiettivo), e l'illuminazione può raggiungere il campione da dietro, attraversandolo (luce trasmessa), o esserne riflessa (luce riflessa). Il microscopio ottico permette di avere immagini di soggetti dimensionalmente collocati all'incirca tra il millimetro ed il micrometro. In campo artistico e del restauro vengono solitamente usati ingrandimenti da 40 X (basso) a 500 X (alto). Nel caso di bassi ingrandimenti il campione non richiede particolari preparazioni. Attualmente i microscopi ottici sono dotati di sistemi fotografici che consentono di raccogliere e catalogare le immagini; inoltre l’impiego di speciali macchine fotografiche sensibili all’UV (ultravioletto) e all’IR (infrarosso), rende evidenti particolari invisibili ai nostri occhi. Fisic’Arte 21 Secondo cronache del periodo, il ciclo decorativo dell’antico refettorio del convento di Roma di Trinità dei Monti fu dipinto da Padre Andrea Pozzo alla fine del XVII secolo; tuttavia gli esperti d’arte sono sempre stati divisi sull’attribuire l’intero ciclo a Pozzo. La teoria predominante è quella che vede Pozzo come responsabile del progetto iniziale e realizzatore della sola volta e delle rappresentazioni architettoniche, mentre le figure sui muri sarebbero state dipinte da artisti la cui identità non è certa. I recenti lavori di restauro hanno dato l’opportunità di effettuare nuove analisi sui dipinti per ottenere informazioni aggiuntive sugli stessi. Tra le varie analisi effettuate sono stati osservati con il microscopio ottico dei piccoli campioni prelevati dagli affreschi (l’analisi chimica dei pigmenti è stata invece effettuata direttamente sugli affreschi per mezzo di un XRF). Oltre a conoscere l’esatta composizione dei pigmenti pittorici, le analisi effettuate hanno confermato che le tecniche e i materiali usati per decorare il refettorio sono molto simili a quelli descritti da Pozzo nel suo trattato, in particolare riguardo la preparazione dei muri, le tecniche di trasferimento pittorico e il tipo di pigmenti utilizzati. Le similitudini sono tali da mostrare che Padre Pozzo fu sicuramente responsabile di tutto il progetto (se non anche l’esecutore materiale). Nanotecnologia Minuscole particelle di idrato di calcio (calce spenta) del diametro di pochi milionesimi di millimetro possono salvare gli antichi affreschi. Prima di iniziare a dipingere su tela, molti pittori del XV secolo realizzarono degli affreschi. La tecnica del tempo, di cui erano maestri Giotto e Michelangelo, richiedeva che il dipinto venisse realizzato sull'intonaco ancora fresco. I risultati di questa tecnica erano indubbiamente brillanti, ma mezzo millennio dopo molti di questi affreschi si stanno lo stesso staccando dai muri. Gli intonaci del tempo erano fatti di sabbia e calce, che diventava idrossido di calcio quando bagnata. Quando poi si asciuga, la calce spenta reagisce con l'anidride carbonica dell'aria per formare del carbonato di calcio. Gli scienziati hanno usato calce spenta come colla per far riaderire le scaglie di vernice. Essi l'hanno applicata come una sospensione di minuscoli cristalli di idrossido di calcio in alcool. Quando l'alcool evapora, i cristalli assorbono acqua e anidride carbonica e si mescolano con il carbonato di calcio del dipinto e l'intonaco sottostante, legandoli nuovamente insieme. Il trucco per il funzionamento della tecnica risiede nelle dimensioni dei cristalli di idrossido di calcio, che devono essere dell'ordine dei pochi milionesimi di millimetro, affinché possano penetrare in profondità nelle crepe dell'affresco. Fisic’Arte 22 Dosaggio luminoso nei musei Alcuni musei europei, tra cui anche gli Uffizi di Firenze, si sono muniti di un nuovo sistema di protezione delle opere dall’eccessiva esposizione alla luce. Questo sistema di dosaggio luminoso sensibile, economico e di facile impiego, consiste di piccole strisce di carta ricoperte da blu toluidina, un colorante che sbiadisce a una velocità proporzionale alla quantità di luce assorbita, passando gradualmente dall’azzurro intenso fino al bianco. Per controllare il livello di illuminazione di un’opera basta esporvi accanto una striscia e osservarne regolarmente il colore confrontandolo con una scala di riferimento. La dose massima consentita per oggetti sensibili è circa 100.000 lux all’ora per anno, che corrisponde al bianco; se il dosimetro assume questo colore in sei mesi, significa che l’oggetto è colpito da una quantità di luce doppia di quella consentita. I dosimetri incorporano soluzioni di alta tecnologia: il colorante è fissato su una speciale matrice a base di silani, che non solo garantisce robustezza al dispositivo ma ne migliora anche la risposta alla luce. 4. Tecniche informatiche Arte virtuale Opere come la Pietà di Michelangelo o il David di Donatello saranno digitalizzate e trasformate in forme tridimensionali, per poi essere salvate in database richiamabili da postazioni collocate nei musei attraverso Internet 2, una rete veloce a fibre ottiche e a tecnologia fotonica già funzionante. L’originale viene digitalizzato con uno scanner laser, in grado di riprodurre la superficie delle statue con una risoluzione fino a 0,1 mm, così da fornire una copia visiva persino delle venature del marmo. Successivamente viene aggiunto l’effetto tridimensionale e la sensazione tattile. La scultura verrà proiettata su uno schermo particolare e con l’aiuto di appositi occhiali si avrà la sensazione che esca dallo schermo. Il capolavoro può essere ingrandito, fatto ruotare e toccato con l’aiuto di guanti speciali pieni di sensori in grado di riprodurre sensazioni tattili complesse come la rugosità. Riconoscimento dei quadri d’autore Un gruppo di ricercatori negli Stati Uniti ha messo a punto una tecnica digitale per stabilire l’autenticità di un dipinto, un disegno o una stampa e valutare se è stato realizzato da uno o più artisti. Il principio consiste nell’individuare con un algoritmo gli elementi unici per ogni artista, quali la scelta delle parole ed il ritmo (in letteratura) o il tipo di tratto e la pennellata (in pittura). In pratica, i ricercatori effettuano una scansione digitale ad altissima risoluzione dell’opera. L’immagine è quindi suddivisa in varie regioni, ognuna delle quali viene scomposta in una serie di linee orizzontali, verticali e diagonali. La distribuzione nello spazio di queste linee, che corrisponde ai tratti caratteristici dell’artista in questione, è infine convertita in un set di numeri che rappresentano coordinate di punti in uno spazio tridimensionale. A stabilire la paternità artistica è il confronto statistico tra la Fisic’Arte 23 posizione su un grafico dei punti ricavati da opere differenti: se le pennellate appartengono alla stessa mano, infatti, tutti i punti cadranno vicini. Altrimenti, appariranno sul grafico distanti tra loro. Il metodo è stato testato con due esperimenti. Nel primo hanno analizzato una serie di tredici dipinti, di cui otto attribuiti al pittore fiammingo Bruegel (1525/30-1569) e cinque noti come imitazioni. Risultato: il computer ha confermato il giudizio formulato dagli esperti in storia dell’arte. Nel secondo test, i ricercatori hanno esaminato la Madonna con bambino del Perugino, un capolavoro del Rinascimento che molti ritengono eseguito a più mani. Anche in questo caso l’analisi ha dato ragione ai sospetti: mentre i volti della Vergine e di due santi risultano dipinti da un’unica mano (probabilmente dal Perugino), quelli del bambino e di altri due santi sembrano opera di altri autori. Questo software potrebbe rivelarsi prezioso soprattutto nell’ambito delle indagini legali. Fisic’Arte 24 Capitolo 2 LUCE#E#COLORE# 1. Introduzione A prima vista, fisica e pittura sembrano domini inconciliabili, eppure, se il loro tema comune è quello della luce e dei colori, questo ne giustifica l’intreccio in una trattazione comune. La luce fisica è un prodotto della mente, quella pittorica è manifestazione della mente. Lo stesso è per i colori, prodotti della luce, ma anche dell’ingegno umano e delle mani che li combinano e li dispongono in un dipinto. Quando luce e colori divennero oggetti di analisi scientifica Newton fu il primo scienziato occidentale che, tra i secoli XVII e XVIII, spiegò il rapporto tra luce bianca e colori suoi componenti. I colori materiali usati in pittura furono il prodotto della tecnologia dei vari periodi storici e così, oltre alla storia, ciò che condizionò sempre il colore dei dipinti fu la chimica. In particolare nel secolo XIX essa produsse numerosi nuovi pigmenti di sintesi e influenzò la pratica pittorica in modo sempre più evidente, fino all’esplosione, alla fine del secolo, della pittura impressionista, ultima corrente della pittura classica e prima manifestazione della pittura moderna intesa come momento di dissoluzione dell’immagine del mondo esterno per lasciare spazio all’immagine del mondo psichico dei pittori. A partire dal XIX secolo, lo studio dei rapporti tra luce e colori rientrò negli interessi dei fisici che, chiedendosi i giusti quesiti su questi fenomeni, riuscirono a costruire una nuova immagine del mondo. Cruciali per tale indagine furono potenti strumenti concettuali come la meccanica quantistica e la teoria della relatività che, assieme, concorsero ad una indagine sempre più approfondita dell’universo ed alla fondazione di una nuova cosmologia. Già durante la vita di Goethe (1749-1832), autore di una Teoria dei colori in gran parte errata da un punto di vista scientifico, vi fu un considerevole progresso nello studio della visione dei colori se nel 1801 Young (1723-1829) aveva proposto che la nostra percezione cromatica dipende da tre tipi di recettori, sensibili rispettivamente al rosso, al verde e al blu. Tali recettori dovevano essere localizzati nella retina, identificata già da Keplero (1571-1630) come sistema sensibile dell’occhio e corrispondevano a coni e bastoncelli, riconosciuti da Max Schultze (1825-1874) come specifici per il colore e la visione crepuscolare o notturna rispettivamente. Successivamente H. Munk (1852-1903) localizzò nell’area visiva della corteccia occipitale la sede del processo centrale della visione. L’ipotesi tricromatica venne confermata da esperimenti con miscele dei tre colori a lunghezza d’onda alta, media e bassa che riproducevano, oltre al bianco, tutti i colori possibili. Il meccanismo fisiologico della percezione del colore venne descritto dettagliatamente nel 1866 dal fisico Helmholtz (1821-1894). Nella seconda metà del secolo XIX nacque la biochimica e gli studi sulla visione confluirono in un nuovo paradigma che Fisic’Arte 25 considerava complessi sistemi di reazioni endocellulari altamente coordinate e specifiche da cui dipende la qualità e la chiarezza della visione. 2. Il meccanismo della visione Il concetto di luce, e quindi di colore, coinvolge immediatamente il concetto del meccanismo della visione e della percezione del mondo che ci circonda. Per capire il meccanismo della visione umana dobbiamo distinguere tre parti: L'occhio: un sistema ottico che forma e proietta le immagini su una superficie sensibile. La retina: una superficie sensibile che raccoglie le immagini, ne fa una prima elaborazione e trasmette l'informazione ai centri superiori (corpo genicolato laterale, corteccia cerebrale visiva). Il cervello: un elaboratore dei dati provenienti dalla retina che li elabora ulteriormente e "forma" l'immagine definitiva. L'occhio umano e' un sistema ottico relativamente semplice, costituito da un diottro (cornea, umor acqueo, e umor vitreo) di indice di rifrazione 1.33 e da una lente biconvessa, il cristallino, di indice di rifrazione 1.44, in cui la curvatura della faccia anteriore può essere modificata dalla contrazione dei muscoli ciliari, variando così la distanza focale della lente (accomodamento). Cornea, camera anteriore, cristallino e camera posteriore nel loro complesso formano una lente convergente (provvista di una distanza focale variabile fra 2,4 e 1,7 cm) che proietta le immagini sulla retina, rimpicciolite e capovolte. Una membrana muscolare, l'iride, al cui centro e' ricavata un'apertura, la pupilla, serve a diaframmare, cioè a regolare la quantità di luce che entra nell'occhio. La superficie sensibile dell'occhio e' costituita dai fotorecettori (i bastoncelli ed i coni), il cui compito è quello di trasformare in impulsi elettrici le informazioni ricevute dalle reazioni fotochimiche che vengono attivate dalla radiazione luminosa e di inviare questi segnali ai neuroni retinici (le cellule orizzontali, bipolari, amacrine e Fisic’Arte 26 ganglionari) che sono variamente connessi fra di loro ed effettuano una prima elaborazione del segnale visivo. In particolare bisogna puntualizzare la capacità di certe molecole di modificare i propri legami chimici per azione della luce: si tratta di pigmenti fotosensibili (es. rodopsina) contenuti nei bastoncelli alla periferia della retina e nei coni della fovea centrale. Nei coni vi sono sistemi fotochimici di tre tipi, sensibili a lunghezze d’onda diverse mentre, al loro livello, certi colori si annullano reciprocamente. I coni sono specializzati per la discriminazione dei colori e per una visione particolareggiata dell’immagine, i bastoncelli per la visione in penombra tanto che un bastoncello è capace di rispondere ad un solo fotone di luce. I raggi luminosi inducono nei pigmenti trasformazioni chimiche che provocano l’invio di impulsi nervosi al cervello. In definitiva, il sistema di lenti dell’occhio mette a fuoco le immagini sulla retina che, organizzata in strati diversi, contiene il sistema di trasduzione che trasforma l’immagine in impulso nervoso convogliato nelle fibre del nervo ottico e veicolato nell’area visiva della corteccia occipitale, ricreando così una mappa cerebrale della retina nel cervello. La corteccia cerebrale visiva è formata da colonne di cellule che effettuano analisi in parallelo del campo visivo finalizzata ad ottimizzare l’elaborazione dell’informazione visiva in generale e di quella cromatica in particolare. 3. La natura della luce La luce è una grandezza particolare poiché la sua definizione e la sua misura dipendono non solo da quantità fisiche oggettive, ma anche dal sistema visivo dell’essere umano. Per luce s’intendono le radiazioni elettromagnetiche in grado di stimolare la retina dell’occhio umano, producendo la sensazione visiva. Le radiazioni elettromagnetiche costituiscono un fenomeno ondulatorio di propagazione di energia che si manifesta con un campo elettrico ed un campo magnetico, oscillanti in piani ortogonali tra loro. Le caratteristiche di tali radiazioni variano in funzione del valore assunto dalle proprietà tipiche delle onde. La velocità di propagazione nel vuoto è costante ed è detta “velocità della luce” ed indicata con la lettera c. La lunghezza d’onda e la frequenza sono inversamente proporzionali. Al variare della frequenza, ossia della lunghezza d’onda, le radiazioni elettromagnetiche presentano caratteristiche differenti. Solo le radiazioni da lunghezza d’onda compresa nell’intervallo tra 380nm e 760nm stimolano la retina; tale intervallo è detto campo del visibile. Un corpo appare visibile o per emissione di radiazioni proprie o per riflessione o trasmissione di luce irraggiata da altri corpi. L’emissione di radiazioni proprie può avvenire per eccitazione termica o elettrica, fluorescenza, elettroluminescenza o Fisic’Arte 27 luminescenza chimica. La maggior parte delle sorgenti di luce forniscono radiazioni anche negli adiacenti campi dell’ultravioletto e dell’infrarosso. 4. La teoria del colore I colori degli oggetti derivano dalle caratteristiche spettrali della luce che incide su essi e dalle proprietà monocromatiche di assorbimento, riflessione e trasmissione degli oggetti stessi. I colori, dunque, non sono altro che manifestazioni energetiche di particelle elettromagnetiche capaci di essere percepite dal nostro occhio e decodificate dal cervello. Anche le onde radio, i raggi X, gli infrarossi o l’ultravioletto, sono manifestazioni di onde elettromagnetiche, ma non percepibili dai nostri occhi. Gli oggetti su cui incide la luce riflettono, assorbono e trasmettono le radiazioni in funzione della lunghezza d’onda. La composizione spettrale delle radiazioni provenienti dall’oggetto stimola in misura differente i tre tipi di coni presenti sulla retina, producendo la sensazione di colore. I colori in realtà non sono altro che lunghezze d’onda oppure vibrazioni con maggiori o minori frequenze: vengono percepiti dai fotoricettori centrali del nostro occhio (i coni), trasformati in segnali bioelettrici, inviati al cervello che si occupa di tradurli e interpretarli per fornirceli così come noi li vediamo. Le tre tipologie di coni presenti sulla retina hanno una sensibilità diversa al variare della lunghezza d’onda: la visione di un particolare colore è data dalla combinazione dei tre stimoli, di differente Fisic’Arte 28 intensità, provenienti dai tre recettori. Newton osservò che un raggio di luce bianca se fatto passare attraverso un prisma di cristallo veniva scisso in un arcobaleno di colori. Ciò è dovuto al fatto che energie con lunghezze d’onda o frequenze diverse vengono rifratte in modo diverso quando attraversano mezzi di densità diverse e quindi con diverse propagazioni d’onda. I colori percepibili partono dal violetto, con una lunghezza d’onda pari a 380/450 nm, si passa al blu (450/495nm), al verde (495/570nm), al giallo (570/590nm) all’arancione (590/620nm), per finire al rosso (620/750nm). Sia il colore, sia il suono rispondono a una stessa legge fisica, quella delle lunghezze d’onda. L’assieme delle onde sonore quando virtuosamente ordinato diviene musica, l’assieme delle onde luminose diviene colore. La classificazione dei colori si può ottenere tramite l'utilizzo di un cerchio diviso in 12 settori chiamato "Cerchio cromatico". Questo cerchio rappresenta la gamma di colori ottenibili mescolando i colori primari (giallo, rosso e blu) che per loro natura sono impossibili da riprodurre mediante mescolanza. Per i colori valgono le leggi di Grassmann (1809-1877): 1. 3. Ogni colore può essere riprodotto dalla miscela di non più di tre colori primari, scelti in modo tale che nessuno di essi possa essere ottenuto miscelando gli altri due. 2. La luminanza (definita come il rapporto tra l'intensità luminosa emessa da una sorgente verso una superficie normale alla direzione del flusso e l'area della superficie stessa) della miscela di due colori è uguale alla somma delle luminanze dei singoli componenti. Le combinazioni di colore godono della proprietà additiva, sottrattivi e transitiva: se C1= C2 e C3= C4, allora si ha C1+ C3 = C2 + C4 se C1= C2 e C3= C4, allora si ha C1 - C3 = C2 - C4 se C1 = C2 e C2 = C3, allora si ha C1 = C3 4. I componenti di una miscela di colore non possono essere distinti separatamente dall’occhio. I colori primari, mescolati con i colori intermedi, danno sfumature che variano a seconda della posizione che occupano rispettivamente nello spettro. Se sono vicini, la mescolanza ricorda l'uno e l'altro. Per esempio: Blu + verde = blu verdastro Blu + viola = blu violaceo Giallo + verde= giallo verde Giallo + arancione = giallo arancio ecc. Se i due colori non sono vicini sul cerchio cromatico, la loro mescolanza tende al grigio. Fisic’Arte 29 Colori in maiuscolo = Primari Colori in minuscolo = Mescolanze Si ottiene quindi il grigio mescolando: 1) Blu e arancione 2) Giallo e viola 3) Rosso e verde In pittura lo scopo è di ottenere la vivacità dei colori abbinati. Sappiamo che per ottenere un viola dobbiamo usare un blu ed un rosso. Ma quali? Per esempio, i viola ottenuti con il Blu di Prussia e il Vermiglione risulteranno grigiastri in quanto il Blu di Prussia tende al verde che avrà influenza negativa sul rosso. Al contrario, se abbiniamo il Blu Oltremare e la Lacca Carminio, tutti e due a tendenza violacea, otterremo un viola abbastanza accettabile anche se non perfetto perché i colori che lo compongono, considerati fondamentali dagli artisti, non corrispondono esattamente ai colori primari ideali. Queste osservazioni spiegano perché gli artisti ricorrono a più colori per soddisfare le loro esigenze e perché, nonostante le regole che conoscono benissimo e che permetterebbero loro di giocare con i colori complementari, preferiscono avere a loro disposizione colori che, con combinazioni chimiche riuscite, hanno un tono molto più vivo. Ogni colore è costituito da tre componenti: Tonalità, Luminosità, Saturazione. La Tonalità è un colore puro, cioè con una sola lunghezza d'onda all'interno dello spettro ottico della luce. In pittura il colore puro è senza aggiunta di pigmenti bianchi o neri. Tonalità differenti La Luminosità (o Valore) specifica la quantità di bianco o di nero presente nel colore percepito. Differenze di luminosità (con tonalità e saturazione costanti) La Saturazione è la misura della purezza, dell'intensità di un colore. Differenze di saturazione (con tonalità e luminosità costanti) Alcuni sinonimi usati per identificare i tre valori base: Tonalità: Tinta, Croma, Aromaticità Luminosità: Valore, Chiarezza, Brillanza Saturazione: Purezza, Pienezza, Intensità Per identificare un colore il primo passo è individuare la tonalità sul cerchio cromatico, per esempio rosso-viola. Il secondo passo la luminosità, ossia quanto è chiaro o scuro questo Fisic’Arte 30 rosso-viola. Il terzo passo la saturazione, ossia quale grado di intensità è presente nel colore, nel senso quanto è vivace od opaco. In definitiva abbiamo: Tonalità rosso-violetto Luminosità chiaro Saturazione opaco Uno schema di colore monocromatico utilizza una sola tonalità e tutti i suoi valori (le sfumature, l'aggiunta del nero, i toni, l'aggiunta del grigio, o tinte, aggiunta del bianco) per un effetto unitario e armonioso. Per conferire più profondità e volume all'immagine si usano estremi opposti della tonalità di colore. Aggiungendo del bianco al colore di base si crea una TINTA Aggiungendo del nero al colore base si crea un'OMBRA. Il valore si riferisce alla luminosità e oscurità di un colore, per cui se la luce cade su una palla verde la parte della sfera più vicina alla luce sarà più luminosa in termini di valore perchè riflette maggiormente la luce. La parte della palla opposta alla luce avrà ombre più profonde e quindi sarà più scura di valore. E' possibile ottenere diversi valori di un colore miscelando le sue sfumature e tinte. E’ anche possibile modificare il valore di un colore con l'aggiunta di nero (ombra), o bianco (tinta), o grigio (tono). Aggiungendo bianco a un colore questo diventa "più alto" in termini di valore (più luminoso). Aggiungendo nero diventa "più basso" in termini di valore (più scuro). Utilizzando valori che sono vicini tra loro si conferisce al lavoro che si esegue un aspetto tranquillo. Utilizzando invece i valori di colori puri come pure quelli delle tinte e delle sfumature si crea la sensazione di movimento. Valori di contrasto vengono usati per mostrare consistenza e come mezzo efficace per dirigere l'attenzione dello spettatore in uno specifico punto della composizione. I colori neutri, nero, bianco, grigio e talvolta il marrone, contengono parti uguali di ciascuno dei tre colori primari. Quando colori neutri sono aggiunti a un altro colore cambia solo il valore, tuttavia, se si tenta di fare un colore più scuro con l'aggiunta di un altro colore più scuro il colore (la tonalità) cambia. "Il bianco ed il nero hanno un loro significato, una loro motivazione e quando si cerca di eliminarli, il risultato è un errore: la cosa più logica è di considerali come dei neutri: il bianco come la più luminosa unione dei rossi, azzurri, gialli più chiari, e il nero, come la più luminosa combinazione dei più scuri rossi, azzurri e gialli." Vincent Van Gogh Fisic’Arte 31 I colori caldi suggeriscono calore e sembrano muoversi verso lo spettatore e quindi sembrano più vicini, ad esempio, rosso, arancio e giallo rappresentano i colori del fuoco. I colori freddi suggeriscono freddezza e sembrano allontanarsi dallo spettatore; ad esempio, blu e verde. In questo dipinto la donna appare al centro della scena, mentre solleva due recipienti, sullo sfondo di un paesaggio cittadino. L’immagine si scompone in una serie di volumi cilindrici a tronco di cono che, suggerendo una simultaneità di vedute diverse, si compenetrano tra loro e realizzano un effetto di dinamismo e astrazione simile a quello di un congegno meccanico, sottolineato anche dai colori freddi e metallici della composizione. Colori Primari, Secondari e Terziari: i colori primari sono rosso, giallo e blu. I tre colori secondari (verde, arancio e viola) sono creati mescolando due colori primari. Altri sei colori terziari sono creati miscelando i colori primari e secondari. “Dei colori di egual perfezione quello si dimostrerà di maggior eccellenza che sia veduto in compagnia del retto contrario, ed il pallido col rosso, il nero col bianco, benché né l’uno né l’altro sia colore: azzurro e giallo, verde e rosso, perché ogni colore si conosce meglio nel suo contrario che nel suo simile, come l’oscuro nel chiaro, il chiaro nello scuro..” dal trattato sulla pittura di Leonardo da Vinci Fisic’Arte 32 Klein (1928-1962) considerava la monocromia una “finestra aperta per la libertà, la possibilità di essere immersi nell’incommensurabile esistenza del colore”. Il particolarissimo blu fu ottenuto da Klein in collaborazione con un chimico al fine di individuare un legante che assorbisse il pigmento puro senza offuscarne l’intensità e la lucentezza. Già dal titolo, Giallo, Rosso, Blu si intuisce come protagonista del quadro è solo il colore, che qui viene impostato soprattutto sui tre primari. Nelle opere di Kandinskij (1866-1944) l’armonia dei colori corrisponde a quella dei suoni musicali, con la ricerca di un effetto psicologico che va al di là del soggetto. Così Kandinskij nelle sue variazioni di motivi trasforma il soggetto in una corrispondenza armoniosa secondo ritmi soprattutto diagonali e secondo toni originati dal blu, rosso, giallo, in diverse gradazioni e sfumature. Dopo aver collegato ciascun colore ad un suono, un profumo, un’emozione precisa, l’artista afferma che proprio grazie alle sue risonanze interiori, a seconda della sua diversità, ogni colore produce un effetto particolare sull’anima. Ogni forma come il colore, ha una precisa corrispondenza: al cerchio associa il blu, al triangolo il giallo, al quadrato il rosso. I colori analoghi sono quelli che contengono un colore comune e si trovano uno accanto all'altro sul cerchio cromatico, ad esempio, viola, rosso-viola, rosso e creano un senso di armonia, risultando piacevoli per l’occhio; inoltre si accostano bene creando composizioni serene e confortevoli. Di solito si sceglie un colore come dominante e il secondo di sostegno. Il terzo colore è usato (insieme con il nero, bianco o grigio) come un accento. I colori analoghi trovandosi uno accanto all'altro sulla ruota dei colori sono strettamente correlati perché hanno un colore in comune. Per esempio, blu, blu-verde, verde contengono tutti blu. Rosso, arancio e giallo sono analoghi perchè rosso e giallo creano l'arancio. I colori adiacenti sulla ruota sono simili e tendono a fondersi insieme. Fisic’Arte 33 I colori complementari sono due colori uno di fronte all'altro sulla ruota dei colori, ad esempio, blu e arancio, giallo e viola, rosso e verde. Quando una coppia di complementari ad alta intensità sono collocati fianco a fianco, sembrano vibrare e richiamare l'attenzione. Non tutte le combinazioni di colori, basato su colori complementari sono forti e impegnativi, se i colori sono di bassa intensità il contrasto non è troppo duro. L'intensità può essere modificata solo mescolando un colore con il suo complemento, che ha l'effetto di neutralizzare visivamente il colore. Cambiando i valori dei colori, con l'aggiunta di bianco o nero, si otterrà un effetto di ammorbidimento. Se si accostano due colori complementari si ottiene un effetto di massimo contrasto rafforzando la luminosità di entrambi. Se si pone un colore luminoso al centro del suo complementare meno luminoso, l'effetto di contrasto risulta particolarmente evidente. Coppie complementari contrastano, perchè non condividono colori comuni. Per esempio, rosso e verde sono complementari, perchè il verde è composto da blu e giallo. Mettendo i fiori di un d'arancio brillante contro uno sfondo luminoso blu, Vincent van Gogh (1853-1890) conferisce al suo dipinto Vaso con fiori una grande energia visiva. Van Gogh non lisciava i suoi colpi di pennello, così è facile vedere come ha usato le coppie complementari. Il rosso dei fiori contrasta con il verde delle foglie. Ha anche sprazzi di viola che interagiscono con i gialli. In Campi di grano con corvi van Gogh utilizza i colori ad alto contrasto per mettere in evidenza i campi di grano gialli che si stagliano contro il cielo blu scuro. Monet (1840-1826) in Ponte di Waterloo sceglie un basso contrasto per dare al dipinto un aspetto più morbido. Grunewald (1480-1528), in Resurrezione di Cristo, ci da un magistrale e potente esempio di contrasti con colori puri. Gli Impressionisti, influenzati molto probabilmente dai progressi scientifici che si andavano compiendo nel campo dell’ottica ed intorno ai meccanismi della visione, sperimentarono come dissolvere il colore delle singole forme in giustapposizioni di colori puri. Verificarono che ogni colore non esiste in sé, ma in rapporto con i toni vicini, da cui Fisic’Arte 34 viene influenzato e che, viceversa, influenza. La luce e i suoi riflessi erano studiati nelle situazioni più ricche di rifrazioni e di effetti luminosi. Intorno al 1880 alcuni artisti cercarono di oltrepassare l’esperienza impressionista e cominciarono a confrontarsi con le recenti scoperte nel campo della percezione visiva e dell’ottica. Artefice principale della svolta fu Georges-Pierre Seurat (1859-1891). La sua ricerca prese le mosse dalle ricerche sulle leggi ottiche della visione e dei colori complementari pubblicate, a partire dal 1839, dal chimico Michel-Eugéne Chevreul (17861889) (Della legge dei contrasti simultanei dei colori). Tali ricerche erano già conosciute dagli impressionisti, ma mai erano state sperimentate, prima di Seurat, con tanta coerenza ed esattezza matematica. Secondo Cheuvreul, se si affiancano due colori complementari (per esempio rosso e verde o arancio e azzurro) le loro qualità cromatiche, per contrasto, si accentuano. Al contrario, Fisic’Arte 35 se questi colori vengono mescolati tra loro tendono a smorzarsi a vicenda riducendosi ad un tono acromatico come il grigio. Chevreul si rese conto, insomma, che due colori accostati tra di loro tendevano a tingersi l'un l'altro del corrispettivo colore complementare. Vide che il giallo tendeva a colorare di un blu violaceo i colori vicini: il rosso di un verde tendente all'azzurro, il blu di un giallo aranciato. Un colore, secondo lo scienziato, non esiste di per sé, ma solo in rapporto a quelli che gli stanno attorno. Dall'osservazione e dallo studio di questi fenomeni Chevreul formulò la famosa legge dei contrasti simultanei che dice che: Due colori adiacenti, vengono percepiti dall'occhio in modo diverso da come sono realmente (quando vengono guardati isolatamente su uno sfondo neutro). Chevreul realizzò un cerchio dei colori in cui erano riportate 72 sfumature di colore alla loro massima saturazione, tale strumento avrebbe dovuto aiutare chi per mestiere si trovasse a lavorare con i colori, come i pittori. Attraverso questo cerchio è possibile trovare immediatamente il complementare di ogni colore individuabile nella parte opposta del cerchio. Nei suoi lavori, Chevreul avvisò gli artisti che non avrebbero dovuto solamente dipingere il colore dell'oggetto rappresentato, ma avrebbero dovuto aggiungere anche altri colori, con opportuni adattamenti per raggiungere l'armonia. Altra importante influenza su Seurat l'ebbe Ogden Rood (1831-1902), fisico statunitense. Mentre le teorie di Chevreul erano fondate sugli studi di Newton sulla mescolanza della luce, quelle di Rood si basavano sugli scritti di Helmholtz, che analizzava gli effetti delle mescolanze e delle giustapposizioni dei pigmenti. Per Rood, i colori primari erano rosso, verde e blu-violetto: come Chevreul, sosteneva che se due colori si trovano vicini, da una certa distanza sembrano un terzo colore. Inoltre, la giustapposizione di tinte primarie avrebbe creato un colore più intenso e gradevole di quanto si sarebbe ottenuto mescolando direttamente i pigmenti. Poneva anche l'attenzione sulla differenza tra colori additivi e sottrattivi, poiché la luce e la materia colorata si mescolano in modi diversi: Pigmenti: giallo+rosso+blu=nero Luce: giallo+rosso+blu=bianco Rood aveva anche dimostrato che la ricomposizione dei colori direttamente sulla retina produce una luminosità maggiore. Seurat, utilizzando le scoperte di Chevreul e di Rood, sperimentò una nuova tecnica pittorica definita peinture au point (pittura a punto), da cui deriva il termine Pointillisme (puntinismo). Il metodo consiste nell’accostare sulla tela tanti piccoli punti di colore puro in modo da creare a distanza la mescolanza voluta e la vibrazione stessa della luce. Anche gli Impressionisti giustapponevano tante macchie di colore puro, ma Seurat, invece di affidarsi all’istinto e abbandonarsi alla percezione immediata, fondava il suo metodo su una rigorosa giustificazione scientifica con l’obiettivo di rappresentare secondo ragione. Un bagno ad Asniéres segna profondamente il nuovo corso della pittura; nonostante Seurat avesse scelto un soggetto particolarmente caro agli Impressionisti, ottenne mediante la pennellata con il nuovo metodo e una composizione molto calcolata, risultati ben diversi. Fisic’Arte 36 Questa tela rappresenta il quadro-manifesto del Pointillisme. Seurat non lasciò nulla al caso: l’impianto compositivo è costruito secondo una griglia di verticali e orizzontali, con una precisione quasi architettonica. La tela, infatti, risulta tagliata perfettamente a metà dalla donna con il parasole rosso e le figure, immobili e fissate nelle loro diverse attitudini, sono ridotte a forme geometriche, modulate sul cilindro e sul cono. La prospettiva tradizionale è abbandonata, e alcune incongruenze rivelano come Seurat abbia combinato diversi punti di vista in una stessa immagine. Gli intervalli armonici calcolati matematicamente che separano una figura dall’altra, e le proporzioni studiata per ogni oggetto rappresentato, generano un effetto di calma e di ordine, suggerendo nel contempo Fisic’Arte 37 anche un’atmosfera di irreale sospensione, di un tempo immutabile. In questa tela la teoria dei contrasti simultanei è applicata con estremo rigore scientifico. Alla morte prematura di Seurat, il compito di proseguire e divulgare le sue ricerche e il suo messaggio pittorico toccò a Paul Signac (1863-1935). Signac sostituisce l’osservazione empirica delle leggi del contrasto con il metodo scientifico, approfondendo nel contempo gli studi sulle teorie del colore e della visione. Rispetto all’amico, Signac sviluppa i punti in più larghe e diradate macchie cromatiche, simili a tessere, creando così un effetto complessivo paragonabile a un mosaico: “Il Neoimpressionismo divide”. non punteggia, ma Robert Delaunay (1885-1941) era affascinato dal modo in cui l’interazione dei colori crea una sensazione di profondità e movimento, senza riferimenti al mondo naturale. In Contrasti simultanei il movimento è il ritmo del cosmo, perché la cornice circolare del dipinto rappresenta l’universo, e il flusso di rossi e aranciati, verdi e blu, si armonizza con il sole e la luna, con l’alternanza del giorno e della notte. Ma la stella e il satellite terrestre, rifratti dalla luce, esistono senza essere descritti in alcun modo letterale: “La frattura della forma a opera della luce crea piani colorati. Tali piani colorati sono la struttura del quadro e la natura non è più soggetto di descrizioni, ma pretesto”. In sostanza Delaunay abbandona le immagini o la natura perché corrompevano l’ordine del colore. Il titolo dell’opera è preso dal trattato di Chevreul Sulla legge del contrasto simultaneo dei colori, precedentemente analizzato. L’intensità di un colore è rappresentata dalla sua luminosità o debolezza. Una tinta pura è un colore ad alta intensità. Una tonalità debole, tipica di un colore miscelato con il suo complemento, è a bassa intensità. Fisic’Arte 38 Una triade di colore si compone di tre colori separati da una distanza uguale sul cerchio cromatico (per esempio rosso, giallo, blu). Il contrasto tra questi non è forte come quello tra i complementari. I colori intermedi sono quei colori creati mescolando un primario e un secondario: rossoarancio, giallo-arancio, giallo-verde, blu-verde, blu-viola, e rosso-porpora. Split complementari è la combinazione di una tonalità più i due colori ai lati del suo complemento. E’ più facile da utilizzare rispetto allo schema complementare, offre più varietà; ad esempio, rosso-arancio, blu e verde. Questa combinazione di colori ha lo stesso forte contrasto visivo dei colori complementari, ma ha meno tensione. Complementari doppi sono due colori (tonalità) adiacenti e i loro opposti. Utilizza quattro colori disposti in due coppie di colori complementari. Questo schema e’ difficile da armonizzare, se tutti e quattro i colori sono usati in quantità uguali, il sistema può sembrare sbilanciato, quindi è consigliabile scegliere un colore dominante. Fisic’Arte 39 Combinazione di colori a rettangolo utilizza quattro colori organizzati in due coppie di complementari. Questa soluzione, ricca di colore, offre numerose variazioni. Lo schema funziona al meglio se si lascia che un colore sia dominante. Si deve anche prestare attenzione per l'equilibrio tra i colori caldi e freddi. Schema quadrato è simile al rettangolo, ma con tutti e quattro i colori spaziati in modo uniforme intorno al cerchio di colore. Anche questo schema funziona meglio se si lascia che un colore sia dominante. Pure in questo caso si deve prestare attenzione all'equilibrio tra i colori caldi e freddi. Le composizioni dei colori possono dare vita a vari effetti. Effetti spaziali - I colori che sono più leggeri al massimo della saturazione (giallo, arancio) sembrano più grandi di quelli che sono più scuri a saturazione massima (ad esempio, blu e porpora). Quando un colore si espande visivamente, può anche sembrare più vicino. Generalmente i colori più caldi appaiono più vicini mentre i colori freddi sembrano più lontani. Gli artisti possono portare qualsiasi colore avanti o spingerlo indietro, utilizzando alcuni trucchi spaziali. In aggiunta, una forma di grandi dimensioni sembra essere più pesante di una piccola forma. Diverse forme di piccole dimensioni possono equilibrarne una grande. Un oggetto con un contorno complicato è più interessante e sembra essere più pesante di uno con un contorno semplice. Un oggetto piccolo e complesso è in grado di bilanciare un grande oggetto semplice. Durante il Rinascimento, gli artisti hanno utilizzato la prospettiva atmosferica per creare profondità nei loro paesaggi. I paesaggi solitamente erano dipinti come sfondi per ritrarre soggetti religiosi, piuttosto che per se stessi. Molti attribuiscono a Leonardo (1452-1519) l'invenzione della prospettiva atmosferica o aerea. In base a molte osservazioni e alle sue ricerche pittoriche, Leonardo sosteneva che si può cogliere la distanza tra le cose grazie alla massa d’aria che si frappone tra esse e il nostro occhio, e portava come esempio le montagne in lontananza, che alla vista appaiono azzurre, quasi avessero il colore dell’aria che sta loro davanti. Se sopra di noi e nelle vicinanze il cielo appare limpido, per i pochi strati di aria che il nostro sguardo deve attraversare, nelle zone più remote del paesaggio il cielo sembra invece bianco a causa del maggiore spessore dei vapori atmosferici. Pertanto, secondo Leonardo, occorreva Fisic’Arte 40 integrare la prospettiva lineare con quella aerea schiarendo i colori e sfumando i contorni degli oggetti più lontani, in modo da riprodurre l’effetto della foschia che satura lo spazio fra le cose. A tale fine egli utilizzava la tecnica pittorica dello sfumato, che attraverso a una serie di velature rende indefiniti i contorni e sbiadisce i colori. I paesaggi di Leonardo erano vere e proprie riflessioni filosofico-scientifiche sul ciclo delle acque e sulla trasformazione degli elementi: si trattava di costruzioni intellettuali. Tuttavia, altri artisti in precedenza, come gli antichi romani e anche i cinesi hanno dimostrato di conoscere i cambiamenti di colore e il loro valore per creare l'effetto di lontananza. Equilibrio e proporzione - Si usano colori altamente saturi o ad alta intensità (un colore puro senza altri colori miscelati) o zone molto dettagliate per attirare l'attenzione, e quindi dare l'impressione di portare un peso maggiore rispetto a zone meno sature, a bassa intensità o visivamente più semplici. Equilibrio di quantita' - Secondo Goethe, colori diversi sono in equilibrio quando coprono aree diverse. Il giallo, per esempio, è espansivo e quindi sembra che occupi più spazio. Questa illusione ottica porta ad assegnare al colore complementare, il viola, un’area proporzionalmente maggiore per avere l'equilibrio. Infatti basta una piccola quantità di giallo per dare luce ad una composizione. L’Enfasi è la zona in un'opera d'arte che attira per prima l'attenzione degli spettatori. L'elemento notato subito si chiama dominante; gli elementi notati in seguito sono chiamati subordinati. L'Enfasi è uno dei principi dell'arte. Nel dipinto, La Lettera, Cassatt ha enfatizzato la busta dipingendola di bianco contro il blu del tavolo e del vestito. Ha anche messo la busta al centro del dipinto per indirizzare l'occhio verso di essa. Il Punto focale (o centro di interesse) è il punto dove l'artista vuole indirizzare, al primo impatto, l'occhio dello spettatore. Per concentrare l’attenzione sul punto focale gli artisti utilizzano vari elementi. Nel suo quadro, Estate, Rousseau (1844-1910) attira l'occhio con colori complementari, brillanti, saturi. Il cavallo e lo scialle della donna risaltano per il contrasto del bianco, sullo sfondo scuro. È comune anche posizionare il punto focale nel centro. In questo caso, il punto focale è incorniciato dalle linee dei rami degli alberi. L'unità, uno dei principi dell'arte, permette allo spettatore di vedere una combinazione di elementi nel suo complesso. L'unità è creata da armonia, semplicità, Fisic’Arte 41 ripetizione, vicinanza e continuazione. Per esempio, è possibile utilizzare la ripetizione di uno schema di colori per unificare una composizione. Un altro modo per unificare una composizione è quello di semplificare la combinazione di colori, consentendo a un colore di dominare il lavoro. La tonalità non deve essere monocromatica, anche se l'effetto complessivo risulta come quello di un solo colore. La Varietà è un altro dei principi dell'arte. Si verifica quando un artista crea qualcosa che sembra diverso dal resto dell'opera. Un artista può utilizzare la varietà per risaltare una certa parte o semplicemente per rendere l'opera d'arte più interessante. Cropsey (1823-1900) ha dipinto un grande albero per creare varietà nel suo paesaggio. Movimento - Il colore può creare un senso di movimento. Quando i valori di un colore saltano rapidamente da molto alto a molto basso, si crea una sensazione di eccitazione e di movimento. Quando tutti i valori sono vicini tra loro il lavoro sembra molto più calmo. Quando si desidera creare il movimento con il colore bisogna utilizzare i valori di colori puri come pure quelli di tinte e sfumature. Il movimento crea l'illusione di azione e del cambiamento fisico in posizione. Nell’opera di Carrà (1881-1966), I cavalieri dell’apocalisse, la morte, di colore rosso drappeggiata, cavalca tumultuosa in un’atmosfera carica di movimento innescato dal verticismo del colore. Anche l'uso di elementi ripetuti crea l'illusione del movimento. Il ritmo visivo è percepito attraverso gli occhi ed è creato da ripetuti spazi positivi separati da spazi negativi. In Okazaki, Hiroshige (17971858) crea un ritmo che porta gli occhi attraverso il paesaggio. Fisic’Arte 42 Capitolo 3 OTTICA,#ILLUSIONE#OTTICA## E#ONIRICA# 1. Introduzione Le illusioni ottiche, sono alterazioni della percezione visiva, devianze dal modo corrente in cui i nostri occhi interpretano le immagini della realtà fisica e sensoriale, causate da fenomeni a cui la nostra mente non riesce a dare un'interpretazione logica e tali da mettere in crisi la relazione tra l'occhio che raccoglie l'informazione visiva ed il cervello che la elabora basandosi sulle precedenti esperienze. Tenendo presente che l'esperienza visiva ha carattere strettamente individuale sia sul piano fisico che su quello interpretativo è scontato che ciò che vediamo non è una realtà unica ed assoluta, ma la nostra personale percezione ed interpretazione della realtà: affermazione che si complica ulteriormente se parliamo d'arte visiva, perchè in questo caso siamo davanti alla valutazione di un'opera che esprime una prima elaborazione della realtà, quella compiuta dall'artista, e che richiede, per essere compresa, una seconda elaborazione da parte dell’osservatore. Da sempre l'arte figurativa cerca di esprimere la realtà utilizzando mezzi tecnici limitati, in rapporto alla complessità dell'oggetto da rappresentare, integrando ed intervenendo con mezzi immaginativi, in teoria illimitati, e con la creatività, grande risorsa della specie umana, dando vita talvolta a risultati paradossali: ciò accade quando i sensi percepiscono come possibili, logici, verosimili e quindi reali oggetti in realtà inesistenti, impossibili e quindi illusori. Si tratta di inganni ottici, inganni dei sensi, dai quali discendono rappresentazioni di impeccabile logica visiva, che sembrano generate da premesse vere, e che portano a risultati contradditori, come nelle opere di Escher. E' la riprova di come le percezioni sensoriali ricevute, in contrasto con le leggi fisiche della costruzione tridimensionale, non possano essere corrette dall'intelletto, dato che si basano su moduli cerebrali che agiscono in modo indipendente l'uno dall'altro, quindi non relazionabili e di come la geometria e le sue regole applicate al disegno ci permettano di rappresentare quello che vediamo in modo tale che il cervello lo ritenga simile alla realtà. Talvolta questo metodo consente anche di ingannare il cervello a cui l'occhio comunica percezioni falsate e di rappresentare oggetti o spazi in false prospettive, rendendo possibile la rappresentazione dell'impossibile, ma in definitiva gli occhi non sempre ne hanno colpa: è il cervello che imbroglia se stesso, abituato com’è a interpretare tutto ciò che vede e quando deve scegliere tra i suoi preconcetti, peraltro in gran parte suffragati dall'esperienza, e la realtà, preferisce salvare i primi e scartare la realtà. Fisic’Arte 43 E' proprio nella sostanziale indeterminazione della visione, della percezione e della ricostruzione della realtà che prende vita l'affascinante mondo dell'inganno dei sensi, dell'illusione ottica, del paradosso visivo al quale tante volte l'arte si è ispirata, e per realizzare tale inganno degli occhi gli artisti, nel corso della lunga storia della creatività, hanno utilizzato varie tecniche, tra cui il trompe l’oeil, l’applicazione dei principi dell’ottica e della stereoscopia, l’olografia e le tecniche digitali. A questi paradossi dei sensi, però, vogliamo aggiungere un’altra illusione, quella onirica, rappresentata molto bene da Magritte attraverso la rappresentazione di oggetti e realtà assurde che si comportano contro ogni legge fisica. 2. La prospettiva tra realtà, illusione ottica, onirica e paradosso visivo Per secoli la ricerca pittorica si è identificata nel tentativo di restituire la realtà nel modo più fedele possibile, ricerca che spesso si è diretta verso l’illusione, la simulazione e l’inganno arrivando anche a mirabili risultati come nei fantastici illusionismi trompe l’oeil. Il trompe l'œil, dal francese tromper, ingannare, e l'oeil, occhio, è una tecnica pittorica naturalistica, basata sull'uso del chiaroscuro e della prospettiva, che riproduce la realtà in modo tale da sembrare agli occhi dello spettatore illusione del reale. Essa crea un'ambiguità tra il piano pittorico e quello dell'osservatore, facendo risultare tridimensionale ciò che in realtà è bidimensionale; in questo modo infatti l'osservatore percepisce illusoriamente una realtà inesistente, creata artificialmente attraverso mezzi pittorici. Si basa sostanzialmente sulla creazione di una sorta di scenografia volta ad inglobare in maniera oculata elementi funzionali per arrivare poi a fondersi con l'architettura e nel contempo a superarne i limiti. La perfetta simulazione del mondo fisico dà vita ad un sottile gioco di rimandi tra realtà ed illusione percettiva nella quale l'uomo si perde e perde a sua volta le limitazioni imposte dal mondo fenomenologico. Dal punto di vista tecnico, il trompe l'oeil richiede un'assoluta conoscenza del disegno, delle regole prospettiche, dell'uso delle ombre e degli effetti di luce, oltre alla perfetta padronanza dell'uso del colore e delle sfumature, tecniche ben precise e severamente sottoposte a regole matematiche e geometriche che permettono la realizzazione di rappresentazioni creative quali appunto quelle basate sulla tecnica del trompe l'oeil. Il punto di vista dell'osservatore rispetto al dipinto è, come già accennato, fondamentale. Pertanto, subito dopo avere scelto l'area su cui operare l'intervento, è necessario individuare i punti di vista privilegiati, ossia i punti di vista da cui generalmente si osserva quell'area. Per esempio, se si decide di collocare il dipinto sulla parete di una stanza che sta di fronte alla porta di ingresso, si costruirà l'opera pittorica in modo da ingannare la percezione visiva di colui che entra nella stanza. Se l'artista desidera creare un'illusione prospettica, dovrà inoltre collocare il punto di fuga dell'immagine pittorica in corrispondenza del punto di vista dell'osservatore. L'illusione ottica è particolarmente efficace se l'osservatore si pone al centro della stanza, in corrispondenza del punto di fuga. È fondamentale, per raggiungere il massimo dell'illusorietà pittorica, tener conto delle reali sorgenti luminose dell'ambiente, la loro natura e la loro direzione, in modo che il soggetto rappresentato appaia come illuminato da quelle luci. Durante la fase progettuale del trompe l'oeil l'artista deve quindi scegliere accuratamente la collocazione del suo intervento pittorico in relazione ai possibili punti di vista dell'osservatore. Da queste considerazioni si capisce che l’artista opera come una sorta di scienziato nell’applicazione del metodo scientifico per la perfetta riuscita del proprio esperimento. Fisic’Arte 44 L'origine della tecnica del trompe d'oeil risale alle antiche pitture murali, nate con i primi insediamenti umani. Miti, battaglie e vicende della vita quotidiana come la caccia, le cerimonie religiose ecc. venivano immortalati sulle pareti delle caverne, nelle tombe, negli edifici di culto e nei palazzi. Le pareti tombali dell'antico Egitto infatti ci tramandano figure stilizzate e un ricchissimo repertorio naturalistico di dipinti eseguiti con campiture piatte di colori puri. Gli artisti egizi o minoici, con pitture raffiguranti giardini, coprivano le pareti dei templi, delle tombe o dei palazzi e non immaginavano che le forme da loro create si sostituissero a veri e propri giardini. Artisticamente prospere furono anche le civiltà mediterranee, come quella greca e cretese, le quali probabilmente influenzarono l'arte pittorica etrusca e poi quella romana da un punto di vista religioso ma soprattutto naturalistico e decorativo. A queste inoltre risalgono i primi “sfondati illusionistici” della storia e temi decorativi che sono entrati sistematicamente nel repertorio decorativo di oggi. Durante l'epoca ellenistica, nel mondo greco ed ellenizzato si assiste ad una diffusione senza precedenti dell'illusionismo nell'architettura e nella decorazione. Per esempio, le colonne esterne del tempio greco venivano leggermente inclinate all’interno perché se fossero state parallele alle altre sarebbero sembrate divergenti, mentre per evitare l’effetto ottico di caduta in avanti della costruzione, la trabeazione veniva variamente inclinata all’indietro secondo l’altezza delle colonne e le colonne poste in piena luce, che sarebbero parse più sottili di quelle in ombra, venivano costruite un poco più massicce di quelle oste nelle zone più buie in modo che tutte apparissero della stessa dimensione. Probabilmente anche l’uso dei colori, applicati con stucco policromo per rivestire le superfici del tempio, svolgeva una funzione di correzione ottica, smorzando gli effetti della luce naturale che avrebbero potuto alterare il perfetto equilibrio così faticosamente raggiunto. Nell'ultimo quarto del IV secolo a.C. e all'inizio del secolo successivo si sviluppa un'architettura "di facciata" che tende ad esaltare e contemporaneamente a dissimulare l'edificio sottostante. Alcuni monumenti presentano già due elementi caratteristici della decorazione illusionistica, sia che si tratti di una decorazione prevalentemente Fisic’Arte 45 architettonica o, più tardi, esclusivamente pittorica: la dilatazione dello spazio suggerita dalla sovrapposizione dei piani e il motivo di una finta galleria. Lo sviluppo di una decorazione monumentale fondata su effetti illusionistici è certamente da mettere in relazione con l'emergere di un modello di vita aristocratico e regale. In obscurum coni conduxit acumen (ovvero l’infinito in un punto) è un verso di Lucrezio (I sec. a.C.) che nel suo De rerum natura descrive la visione di un portico che si estende davanti a noi in profondità e che “congiunge tetto e suolo, tutto ciò che sta a destra e a sinistra, fino a terminare nella punta oscura di un cono”. Questa punta oscura dove gli oggetti infinitamente lontani si confondono gli uni agli altri e paiono raggrupparsi in un unico punto, questa illusione della visione che il pittore concretizza disegnando un punto, un punto di fuga, fa parte della grande eredità che ci proviene dal mondo classico; infatti i versi di Lucrezio riecheggiano teoremi più antichi di almeno due secoli, come possiamo leggere nell’Ottica di Euclide: 1. Tra i piani che giacciono sotto l’occhio quelli più lontani appaiono più in alto. 2. Tra i piani che stanno sopra l’occhio quelli più lontani appaiono più in basso. 3. Tra i piani che si estendono longitudinalmente, quelli a destra sembrano deviare verso sinistra, quelli a sinistra verso destra. L’esempio della Stanza delle maschere non lascia dubbi sull’uso del punto di fuga come unico punto di convergenza delle rette di profondità. Vi sono infatti decine e decine di segmenti anche molto lontani tra loro (l’affresco è lungo circa 5 metri) che, se prolungati, convergono ad un unico punto. Si pensa che l’affresco sia stato realizzato proprio piantando un chiodo nel punto di fuga e tirando con lo spago i vari segmenti. Ma se questo è vero, si dovrebbe ancora trovare una traccia sul muro: una stuccatura nel punto esatto dove convergono tutte le linee; però, in mancanza di una radiografia del muro, non è possibile dare, al momento, una prova certa e definitiva della presenza del chiodo. Tuttavia, analizzando da vicino l’affresco, si è trovato un’altra prova molto significativa. Di alcuni segmenti è rimasta la traccia di un breve prolungamento, cosa che non avrebbe senso fare se non si sapesse a priori che i prolungamenti debbono tutti convergere al chiodo. Una tale operazione non può che essere frutto di una costruzione geometrica rigorosa, le cui fondamenta si ritrovano nell’Ottica di Euclide ed erano forse note anche prima. Dopo secoli di barbarie, guerre, devastazioni che avevano fatto terra bruciata di gran parte del sapere scientifico antico, gli scienziati arabi, ai quali dobbiamo il parziale recupero delle conoscenze greche, sviluppano nel IX, X e XI secolo l’Ottica antica, ed in particolare Fisic’Arte 46 Alhazen, nella sua opera Ottica, prenderà in esame una serie di aspetti importanti della teoria della visione di Euclide. Riconosce il ruolo della luce nel fenomeno della visione e quello del cervello nella ricostruzione psichica delle immagini. C’è anche da dire che poco era l’interesse del mondo arabo per la pittura figurativa, legato anche alla proibizione di raffigurare Dio, e non ci stupisce quindi che questo settore non sia stato da loro preso in considerazione. Nel Medioevo, decadendo la definizione della spazialità, si annulla anche l’interesse per tutte le forme di riproduzione della realtà. Tracce della volontà di intervenire sullo spazio architettonico mediante degli artifici pittorici si rivedono nel Trecento e l'Italia diventa il maggior centro per questa forma d'arte e molti furono gli artisti che nel corso dei secoli utilizzarono questo tipo di tecnica pittorica. Giotto (12671337), nel '300, la impiegò nella Cappella degli Scrovegni di Padova dove si trovano, infatti, delle lastre dipinte con effetto marmo che alterano il costruito reale. Giotto conosceva anche le più avanzate teorie della visione, infatti, all'estremità di un tralcio all'antica vediamo due clipei, due tondi con figure: alla destra un uomo con bastone nodoso sulla spalla, corpetto di pelliccia, braccia nude; dal lato opposto una figura femminile vista di fronte che indica l'uomo con tre dita della mano destra. Essa reca in capo una corona e dagli occhi le escono due nodosi bastoni. L’interpretazione di questo particolare, secondo gli ultimi studi, è da ricercare nelle teorie della visione dell'antichità. I raggi partono dagli oggetti, suggerisce Platone nel Timeo; Euclide pensa a raggi visivi che si propagano dall'occhio alle cose e sondano gli oggetti, Alessandro di Afrodisia ritiene la vista un duplice cono e i raggi visivi come bastoni che sondano lo spazio. Questa spiegazione viene ripresa da Avicenna, mentre Alhazen teorizza che i raggi vanno dalle cose all'occhio. Dunque i due bastoni aperti a 180° negli occhi della figura femminile sono i raggi visivi. Il senso dei due clipei fa comprendere l'ammaestramento che gli affreschi dell' intera cappella intendono offrire: prima della conoscenza del messaggio di Cristo l'umanità era selvaggia e cieca come l'uomo alla destra, adesso è la luce della conoscenza, i bastoni cioè i raggi del vedere spirituale che fanno comprendere il vero. È forse nel cantiere della Basilica superiore di San Francesco ad Assisi, dove Cimabue e Giotto lavorano insieme, che nascono le prime sperimentazioni della visione nell’arte. Nella raffigurazione della Madonna sul trono, immagine molto diffusa nel Medio Evo, per dare il senso della profondità, il trono veniva solitamente rappresentato secondo una visione insieme frontale e obliqua, mostrando il lato laterale con parallelogrammi. Cimabue (1240-1302), per primo, rompe questa consuetudine e introduce un asse di simmetria centrale che dà all’insieme una maggiore compostezza e regolarità. L’introduzione di questa simmetria porta come conseguenza che i segmenti che si corrispondono nella simmetria, se prolungati, andranno (per ovvie ragioni geometriche) ad incontrarsi sull’asse di simmetria. È su questo schema che Giotto imposta le sue prime sperimentazioni. È chiaro che l’attenzione del pittore è tutta rivolta solo ai soffitti, elemento decorativo scelto per dare l’idea della profondità dell’ambiente senza armonizzare questo coi pavimenti. È chiaro anche come in Giotto manchi l’idea unificante che tutte le linee di profondità convergano a uno stesso punto di fuga dove si congiunge Fisic’Arte 47 tetto a suolo. Il pittore non dispone di uno schema geometrico globale ma riesce solo ad applicare localmente, per parti parziali del dipinto, l’apparente convergenza delle linee parallele, come si vede ad esempio nel suo affresco Pentecoste, dove ogni volta ha il suo punto di fuga . Fu però durante il Rinascimento che la pittura architettonica illusionista trovò la sua massima diffusione. In questo periodo storico, infatti, attraverso il recupero dell’impianto euclideo basato sui raggi visivi e sul cono visivo che ha come vertice l’occhio e come base i contorni della cosa vista, vennero teorizzate e codificate le prime regole della prospettiva ad opera di grandi maestri quali Masaccio, Brunelleschi e Leon Battista Alberti. Ogni figura si proietta a partire dall’occhio, con delle rette (i raggi visivi) su un piano. Il problema diventa, così, un problema puramente geometrico. Il trompe l'oeil venne condotto a livelli di estremo realismo e grande raffinatezza, applicato anche alle strutture architettoniche, deformate ed amplificate otticamente con la costruzione di falsi "sfondati" prospettici. Mantegna (1431–1406) utilizzò la prospettiva in modo illusionistico nella Camera degli Sposi del Palazzo Ducale di Mantova in cui il soffitto presenta un’apertura circolare dipinta, dalla quale si affacciano alcune figure che sembrano spiare all’interno della stanza. L’affresco riesce a ingannare chi si trova nell’ambiente, poiché il soffitto appare realmente sfondato, cioè aperto verso il cielo. Grazie a questo effetto illusionistico, l’opera divenne un punto di riferimento per numerosi artisti del XV e XVI secolo. Altro tipico esempio di illusione ottica è rappresentato dal dipinto Lo sposalizio della Vergine di Raffaello (1483-1520). Sullo sfondo è presente un tempio rinascimentale a pianta centrale contornato da un immenso cortile che delimita il paesaggio profondissimo, infatti il tempio non è soltanto un fondale, ma un tramite con il paesaggio, dove i colli lievemente Fisic’Arte 48 abbozzati rievocano una prospettiva infinita. In primo piano avviene l'episodio evangelico. In questo spazio unitario, dove l’osservatore viene letteralmente risucchiato in un unitario globo spaziale, Raffaello ha saputo compendiare tutti gli aspetti della natura e dell'opera dell'uomo con un discorso sacro coniugato in termini d'immersione nel reale. Un'immersione, però, che avviene in una realtà che viene sottoposta dall'autore ad una sorta di operazione di purificazione all'interno di una struttura ispirata al motivo del cerchio, la figura geometrica perfetta per antonomasia e simbolo dell'armonia cosmica. Come simbolo di quell'armonia è il tempietto rappresentato sullo sfondo del dipinto Nell’opera di Antonello da Messina (1429/30-1479) lo spettatore osserva la composizione come se fosse affacciato ad una porta gotica, secondo un abile illusionismo che suggerisce la continuità dello spazio ai lati. San Gerolamo è seduto nel suo studiolo ligneo inserito entro un ambiente basilicale con elementi gotici (la volta a crociera e le bifore) e rinascimentali (le finestre rettangolari e il luminoso loggiato a destra). La luce è resa con grande realismo e si offre all'occhio nelle sue molteplici manifestazioni, dai riflessi metallici del catino agli effetti di controluce nel leone o di morbidezza pulviscolare sul pavimento a sinistra, diventando uno strumento espressivo che crea un'atmosfera raccolta e silenziosa. Questo microcosmo è inserito entro una sapiente costruzione spaziale, la cui prospettiva è resa nello scorcio delle architetture e nel disegno delle maioliche del pavimento ed evidenziata dai raggi di luce. Solo la figura del santo sfugge alla prospettiva, in quanto evidenziata da un punto di vista ribassato e dall'illuminazione diretta. Nel campo delle tarsie lignee si ottennero effetti ottici molto audaci. Le tarsie venivano realizzate accostando l’una all’altra varietà di legno dal diverso colore, dopo averle ridotte in lamine e opportunamente sagomate. Oggetti, mensole e ante aperte sono riprodotte in modo illusionistico. Fisic’Arte 49 Giuseppe Arcimboldo (1527-1593) utilizzò le illusioni ottiche per i suoi ritratti, ottenuti attraverso l’utilizzo delle nature morte, di fiori, frutti, animali e altri oggetti, in maniera del tutto diversa da quanto in uso nell’arte pittorica del suo tempo. Egli, infatti non colloca un fiore in un vaso all’interno di un tradizionale ambiente domestico, ma si avvale di ogni oggetto per comporre soggetti umani e, in particolare, le sue famose “teste composte”. L'utilizzo di questa straordinaria quanto innovativa tecnica di pittura ripiega sulla facoltà della mente umana di elaborare le immagini che arrivano attraverso l'occhio, facendo così apparire un insieme di nature morte in un volto. Un principio si può dire analogo è utilizzato in psicologia nel Test di Rorschach ("test delle macchie"), in quanto, dopo aver mostrato macchie di inchiostro del tutto casuali, si avvale delle capacità elaborative dei singoli individui per tracciarne il profilo psicologico. Interessante e particolare è l’opera di Giulio Romano (1499–1546) a Mantova nel Palazzo Tè: in un corpo principale a pianta quadrata sono realizzate molte stanze riccamente decorate, in una di queste, la Sala dei Giganti, la scena della caduta dei colossi, che per superbia avevano osato innalzarsi fino al cielo, copre interamente l’ambiente, senza soluzioni di continuità, così da immergere l’osservatore in una specie di sogno, o incubo, dell’immagine della “caduta”. Nella Villa Barbaro a Maser, costruita su progetto di Andrea Palladio, Paolo Veronese (1528-1588) decora tutti gli ambienti principali giocando sui rapporti tra le strutture architettoniche reali e gli effetti illusionistici della pittura, portici trompe l’oeil incorniciano paesaggi fantastici, si fingono figure che hanno l’apparenza di statue, si aprono finte porte sull’esterno dalle quali si affacciano improvvisamente personaggi irreali. Fisic’Arte 50 Leonardo (1452-1519) impiegò scientificamente la prospettiva nelle sue opere e introdusse importanti intuizioni su di essa a livello cromatico. In base a molte osservazioni e alle sue ricerche pittoriche, Leonardo sosteneva che si può cogliere la distanza tra le cose grazie alla massa d’aria che si frappone tra esse e il nostro occhio, e portava come esempio le montagne in lontananza, che alla vista appaiono azzurre, quasi avessero il colore dell’aria che sta loro davanti. Se sopra di noi e nelle vicinanze il cielo appare limpido, per i pochi strati di aria che il nostro sguardo deve attraversare, nelle zone più remote del paesaggio il cielo sembra invece bianco a causa del maggiore spessore dei vapori atmosferici. Pertanto, secondo Leonardo, occorreva integrare la prospettiva lineare con quella aerea schiarendo i colori e sfumando i contorni degli oggetti più lontani, in modo da riprodurre l’effetto della foschia che satura lo spazio fra le cose. A tale fine egli utilizzava la tecnica pittorica dello sfumato, che attraverso a una serie di velature rende indefiniti i contorni e sbiadisce i colori. Nel Trattato della pittura dello stesso Leonardo si dice che “la pittura è composizione di luci e di tenebre insieme mista con le diverse qualità di tutti i suoi colori semplici e composti". Un’equipe di ricercatori canadesi del National Research Council del Canada ha studiato le immagini dell'impareggiabile sfumato, ed è riuscito a provare che la tecnica si basava su una sovrapposizione dei colori, attraverso cui Leonardo dava profondità all'immagine. Nel periodo barocco (XVII e inizio XVIII sec.) la pittura illusionistica ebbe un notevole sviluppo e cercava di rappresentare sui soffitti di chiese e palazzi uno spazio illusorio, infinito. Nelle volte affrescate delle chiese venivano generalmente raffigurati santi nell’atto di salire miracolosamente in cielo. Nella realizzazione dell’Apoteosi di sant’Ignazio Andrea Pozzo (1642-1709) è riuscito a nascondere il confine tra l’architettura reale e quella dipinta rendendo così credibile la grandiosa visione raffigurata nell’affresco. L’artista ha inoltre creato una continuità tra l’architettura dipinta e lo spazio aperto del cielo. La prospettiva è qui utilizzata per rappresentare non lo spazio reale, ma uno spazio immaginario. Gli elementi architettonici (colonne, archi e cornici), le figure umane, le nuvole sono dipinti in scorcio prospettico al fine di sfondare in modo illusorio il limite dell’architettura reale, creando uno spazio senza fine. Le dimensioni dei vari elementi si riducono a mano a mano che ci si avvicina al centro dell’affresco, per sottolinearne la lontananza sempre maggiore. Chi osserva il soffitto si sente attirato nello spazio divino in cui si manifesta il miracolo. La luce diventa più intensa nella parte centrale della composizione, quella che raffigura la zona più lontana, con lo scopo di conferire alla scena un carattere eccezionale, miracoloso. Le aree dell’affresco più vicine all’osservatore sono caratterizzate da un chiaroscuro deciso, mentre quelle più distanti sono dominate da un’intensa luminosità, che annulla le ombre e rappresenta simbolicamente il mondo ultraterreno. Il dipinto suggerisce un forte senso di dinamismo, perché lo sguardo di chi l’osserva è guidato verso il centro dalle linee oblique della prospettiva e dalla grande spirale determinata dai gruppi di figure all’interno della composizione. L’osservatore ha così l’impressione di lasciare lo spazio terreno. Sul pavimento della chiesa, un disco indica il punto esatto in cui l’illusione ottica creata dalla prospettiva è perfetta. Fisic’Arte 51 Anche la cornice, nella forma e nella funzione, rientra in gioco e in pochi decenni subisce profonde trasformazioni; osservando le decorazioni a stucchi e affreschi di chiese e palazzi fra il Cinquecento e il Seicento, si nota come questa cominci a travalicare il concetto di limite, di separazione e tenda invece ad amalgamarsi e a diventare parte dell’immagine pur mantenendo il ruolo di dare risalto alla rappresentazione. Questa trasformazione, che nasce dall’idea dell’oculo aperto della Camera degli Sposi di Mantegna, si sviluppa in vere e proprie macchine scenografiche dipinte che coinvolgono e risucchiano lo spettatore, facendogli dimenticare la piattezza della rappresentazione, per trascinarlo in un mondo fantastico e tridimensionale che si apre oltre l’architettura attraverso la cornice. Per raggiungere questa unificazione fra pittura e supporto architettonico è necessario coinvolgere proprio quest’ultima: essa perde i suoi limiti geometrici, invade lo spazio dipinto e quello strutturale. Questo è l’artificio sfruttato, per esempio, da Annibale Carracci (1560-1609) nella Galleria di Palazzo Farnese a Roma. In questo ambiente lungo e stretto coperto da una volta a botte, Carracci costruisce una scenografia potentissima, utilizzando gli elementi strutturali esistenti per rafforzare l’illusione complessiva, fonde strutture, pitture e sculture fino a far perdere i confini tra reale e raffigurato. Dipinge figure che vogliono sembrare reali, figure che vogliono sembrare dipinte in quadri riportati e figure che simulano sculture. Inganna l’occhio saltando dal bidimensionale al tridimensionale vero e falso, facendoci percepire l’uno per l’altro e viceversa. Fisic’Arte 52 I trompe l’oeil barocchi, dunque, rappresentano scene dinamiche lontane dalla staticità rinascimentale con una totale compenetrazione di architettura, pittura e scultura unita al gusto per la teatralità e la grandiosità scenografica, al recupero e allo stravolgimento di forme classiche per arrivare a suscitare nello spettatore confusione, persuasione e meraviglia, come nelle opere del Tiepolo (1696-1770). Nel Settecento, a soddisfare maggiormente il desiderio di mimesi dell’arte, s’introduce la camera oscura nel campo pittorico, e si sviluppa a Roma e in seguito a Venezia, la scuola dei vedutisti, cioè pittori che utilizzano la prospettiva per dipingere paesaggi e vedute di città inventate o copiate dalla realtà. Le loro rappresentazioni sono rigorose nell’impianto spaziale, frutto di attenti calcoli e di espedienti, appunto, come ad esempio la camera oscura, antenata dell’attuale macchina fotografica. Essa era una scatola buia nella quale, attraverso un foro e con un sistema di lenti e di specchi, l’immagine veniva proiettata su un piano di vetro. L’artista ricopiava con cura, nella semioscurità, la proiezione prospettica dei monumenti o di altro. Attenzione veniva Fisic’Arte 53 messa anche nello studio delle luci e dei colori, oltrechè nella resa minuziosa e oggettiva dei moltissimi particolari descritti. La camera oscura, evolvendosi, approderà nell’Ottocento alla fotografia, soluzione che sembrava condannare e demotivare la pittura, e invece provoca l’effetto contrario, la libera e le restituisce vitalità, permettendole di individuare nuovi percorsi interpretativi compresi quelli della trasfigurazione della realtà. L’arte moderna mette, infatti, in discussione la propria funzione mimetica: la rappresentazione non è più riproduzione, ma diventa espressione profonda della psiche umana. In ogni caso, se si eccettuano le cosiddette “stanze paese”, produzione setteottocentesca italiana di gusto romantico, costituite da stanze interamente dipinte da pavimento a soffitto, a volta senza angoli, con riproduzioni di paesaggi o giardini, alla metà del Settecento le rappresentazioni altamente scenografiche e illusorie entrano in declino, sia per esaurimento interno sia per il più generale decadere dell’affresco. L’arte moderna, smentendo il canone della bellezza classica e naturale, dall’avvento dell’Espressionismo, darà un duro colpo al tromp l’oeil. Fisic’Arte 54 Nell’Ottocento si ebbe anche una rivoluzione geometrica che andò ad intaccare le proprietà intrinseche dello spazio. In particolare, si creò una nuova geometria, chiamata iperbolica, che lasciava cadere il quinto postulato di Euclide, che limita a uno il numero di rette parallele a una data retta passante per un punto. In questa geometria non esistono più linee equidistanti, la somma degli angoli di un triangolo non è più di 180°, ecc. Lo spazio visivo si era sempre ritenuto che fosse euclideo, per cui si poteva pensare che la geometria iperbolica fosse solo un’invenzione matematica senza interesse percettivo. E invece nel 1947 Lunenberg ha scoperto che lo spazio visivo non solo non è euclideo, ma è precisamente iperbolico. Il che significa che le rappresentazioni che gli rendano giustizia appariranno necessariamente distorte a chi sia assuefatto a un’arte classica basata su canoni euclidei. I primi artisti disposti a dimenticare questi canoni e a ripartire da zero, nel tentativo di dipingere non ciò che l’occhio dovrebbe vedere secondo la teoria, ma ciò che effettivamente vede nella pratica, furono gli impressionisti. Un bell’esempio di come le percezioni arrivano iperboliche al cervello, prima che esso le rielabori per costringerle in schemi euclidei prefissati, è costituito dalla Camera di Arles di Van Gogh. Se opere come questa apparvero e appaiono sorprendenti, è perché appartengono ad un periodo in cui la prospettiva classica si era imposta come un paradigma culturale, e tale rimane. Prima del Rinascimento, invece, rappresentazioni curve di linee che la prospettiva richiederebbe di disegnare come rette erano usuali. Nell’arte greca e romana, per esempio, gli oggetti erano disegnati secondo le regole dell’Ottica euclidea. Cioè come se fossero proiettati non su un piano perpendicolare alla direzione dello sguardo, ma su una sfera che ha l’occhio dell’osservatore come centro. In particolare, le loro dimensioni erano proporzionali all’angolo sotteso rispetto all’occhio, e non alla loro distanza dall’osservatore. Proiettare gli oggetti su una sfera, invece che su un piano, produceva un vero e proprio cambiamento di prospettiva. L’unico punto di fuga della prospettiva centrale era infatti sostituito da un intero asse di fuga di una prospettiva assiale. E le rette ortogonali, invece di convergere rettilineamente nel punto di fuga, si avvicinavano asintoticamente all’asse di fuga. Questa tecnica fu riscoperta nel Medioevo, e fu usata più o meno consciamente da Giotto nella Conferma della regola ad Assisi e nell’Ultima cena a Padova, e da Duccio di Buoninsegna (1255-1318/19) nella sua Ultima cena. Soltanto nel Rinascimento fu poi soppiantata dalla prospettiva così come oggi la conosciamo, che divenne appunto la tecnica classica di rappresentazione. A conferma del fatto che la nostra percezione spaziale non è solo innata biologicamente, ma anche costruita culturalmente. Fisic’Arte Giotto – Conferma della regola – 1290/95 55 Giotto – Ultima cena – Seconda metà XIV sec. Duccio di Buoninsegna - Ultima cena – 1308/11 Finito quindi il periodo d’oro, il trompe l’oeil riappare ogni tanto, di volta in volta variamente interpretato; nel Surrealismo, per esempio, è chiamato a fissare le fantasie oniriche alla ricerca di un sogno e di un pensiero non controllato dalla ragione come nell’opera di Dalì, o nell’illusionismo onirico di Magritte, dove gioca con la confusione tra realtà e rappresentazione per provocare una riflessione proprio sul confine tra i due termini e dimostrare l’assurdità di voler dipingere il reale. Nel dipinto Mercato di schiavi … Voltaire si può scorgere facendo attenzione nel vedere le persone dipinte e presenti sullo sfondo dell’opera. I volti delle donne sono gli occhi di Voltaire. Fisic’Arte 56 In Enigma senza fine non c'è solo una doppia immagine, nascosti e suggeriti ci sono almeno sei oggetti differenti che Dalì, in un gioco "senza fine", riesce a far apparire e scomparire, secondo il grado di attenzione e di disponibilità dell'osservatore. Sono sei le diverse possibili letture dell'opera: 1) una testa poggiata sul braccio piegato; 2) un levriero sdraiato sulla tavola in primo piano; 3) un animale mitologico su parte delle colline di sfondo e sullo strumento musicale; 4) nella coppa trasparente il volto del grande ciclope; 5) la natura morta con un mandolino e con una fruttiera colma di frutti; 6) ed infine, in piccolo, una donna di spalle accanto ad una barca. Un'altra immagine a "due sensi", è Il grande paranoico, realizzata soltanto attraverso la composizione di figure nude che si muovono in un paesaggio deserto. Due figure in particolare sono più importanti e più grandi delle altre: in primo piano, al centro della scena, una ha il volto coperto dal braccio destro, l'altra la testa poggiata sul braccio sinistro. E' questa la "lettura" del dipinto; ma subito ce n'è una seconda. Se ci allontaniamo, se socchiudiamo gli occhi, se non concentriamo l'attenzione sulle singole figure, quanto piuttosto sull'insieme e quindi sul gioco delle ombre dei loro corpi, ecco prendere forma il volto di un vecchio, il grande paranoico. Magritte (1898-1967) dipinge, con una tecnica di illusionismo di ordine onirico, oggetti e realtà assurde, che sfidano le leggi della fisica. Magritte gioca con i nostri sensi, sovverte le leggi della fisica: immense rocce e castelli si librano in aria al posto delle nuvole a cui vengono paragonati e sostituiti. Tre sfere gigantesche che, nonostante il loro gran peso apparente, riescono con facilità a galleggiare sospese fra cielo e terra, sconfiggendo la forza di gravità. O meglio la certezza che ci dà la forza di gravità. Ma allora vi è anche una rottura delle forze naturali? Certo, nel mondo surreale, come nei sogni, tutto è possibile. Fisic’Arte 57 L’opera La condizione umana nasce come soluzione al problema della finestra ed illustratrice del parodosso riguardante la rappresentazione che vuole sostituirsi al reale. Un quadro all’interno del dipinto conduce questo gioco tra rappresentazione naturalistica e realtà: il quadro “falso” ha lo stesso identico aspetto del concreto “rappresentato”, al punto da fondersi e confondersi con esso. Le passeggiate di Euclide è un quadro che nel rappresentare o descrivere la realtà geometrica, si distacca quasi magicamente dal cavalletto dell’Autore per sovrapporsi e dissolversi nella visione ottica di essa. Il plurale usato Le passeggiate sta quasi ad indicare non solo l’opera più famosa di Euclide, Gli Elementi, ma “Le opere” come se nel pluralizzare, Magritte ci vuol forse ricordare anche quelle oggi meno note di Euclide, come L’Ottica e i Fenomeni, la prima che rappresenta una teoria della visione costruita sul fondamento degli Elementi, la seconda che rappresenta una teoria astronomica costruita sul fondamento dell’Ottica. Si noti la torre conica che si confronta in similitudine, quasi a confondersi con il vialone centrale, i cui lati paralleli, nel propagarsi verso la periferia del mondo conosciuto che per Euclide coincideva nel limite della visione con l’orizzonte cosmico, sembrano tracciare ancora, con un gioco di ombre e di colori, lo stesso cono geometrico. La figura conica per Euclide, fuoriusciva dall’occhio come un fascio di raggi emissivi col vertice del cono nella pupilla e stava alla base della sua teoria dell’Ottica o della visione. Tra le interpretazioni moderne del trompe l’oeil, assolutamente personale e interessante è l’opera di Maurits Cornelis Escher (1898-1972), acuto indagatore delle singolarissime possibilità che si nascondono nella struttura dello spazio e geniale creatore di prospettive impossibili e paradossi visivi, dove il trompe l'oeil è utilizzato volontariamente per destabilizzare il sistema percettivo dell'osservatore e mettere in dubbio l'univocità della rappresentazione, di volta in volta leggibile in modi opposti. Il Triangolo di Penrose è un triangolo impossibile, che può esistere solamente come rappresentazione bidimensionale e non può essere costruito nello spazio, poiché presenta una sovrapposizione impossibile di linee parallele con differenti costruzioni prospettiche. In sostanza tale triangolo è la proiezione bidimensionale di una costruzione formata da tre barre collegate l'una all'altra per mezzo di Fisic’Arte 58 angoli retti, dove ciascun angolo retto è correttamente rappresentato, ma i tre angoli sono collegati tra loro in modo scorretto, tanto che alla fine si ottiene un triangolo la cui somma degli angoli interni è pari a 270 gradi e quindi un triangolo impossibile. Nell’opera Cascata Escher utilizza il triangolo di Penrose per ben tre volte consecutive nella rappresentazione di un canale, che sembra localmente in piano, mentre le colonne della struttura che attraversa lo fanno sembrare su piani diversi e in salita: si crea così l'impressione paradossale, l'illusione ottica di un moto perpetuo dell'acqua che scorre all'insù, contro ogni regola dell'esperienza comune, infrangendo le leggi gravitazionali. Altro esempio di illusione ottica utilizzata da Escher è il cubo di Necker, pubblicato per la prima volta dallo studioso svizzero di cristallografia Louis Albert Necker nel 1832. Il cubo di Necker è una rappresentazione bidimensionale ambigua. Si tratta di una struttura a linee che corrisponde a una proiezione isometrica di un cubo. Gli incroci tra due linee non evidenziano quale linea si trovi sopra l'altra e quale sotto, così la rappresentazione è ambigua: non è possibile indicare quale faccia sia rivolta verso l'osservatore e quale sia di dietro al cubo. Guardando la figura si può facilmente passare da una interpretazione all'altra, si ha una percezione multistabile. L'effetto è interessante perché ogni parte della figura è ambigua per sé stessa e il sistema percettivo umano dà un'interpretazione delle parti tale da rendere l'intera figura congruente. Il cubo di Necker è a volte usato per testare i modelli informatici della visione umana, per comprendere se è in grado di dare un'interpretazione congruente dell'immagine allo stesso modo dell'uomo. Molte persone percepiscono la faccia in basso a sinistra come la faccia anteriore. Questo dipende probabilmente dal fatto che l'oggetto viene soggettivamente visto da sopra, con la faccia superiore visibile. Il cervello preferisce vedere il cubo da sopra. Si noti che il cubo di Necker non è un oggetto impossibile in quanto non presenta alcuna incongruenza e può rappresentare perfettamente un cubo reale. Nell’opera Belvedere un ragazzo ha in mano un cubo e osserva perplesso questo oggetto assurdo. Pur avendo in mano gli elementi che gli permettono di notare che qualcosa non va, pare non accorgersi del fatto che l'intero Belvedere è progettato su quella stessa struttura, il cubo di Neker. La scala che porta al secondo piano dell'edificio inoltre è contemporaneamente all'interno e all'esterno di esso, cioè si tratta di una scala impossibile. Fisic’Arte 59 La scala senza fine è un’altra figura paradossale nata da un’idea del matematico Penrose. Come si vede nel disegno, la sua caratteristica è quella che percorrendo gli scalini che la compongono si può proseguire in un’infinita discesa o viceversa in una salita senza fine. Il paradosso risulta evidente quando ci accorgiamo che effettivamente il gradino più basso della scala viene fatto coincidere visivamente con il più alto in modo da fornire un’impressione di discesa infinita. Quindi anche questa figura non può essere realizzata nella realtà, ma rimane solamente sulla carta. Questa illusione visiva è ben rappresentata in Salita e discesa dove delle persone camminano in un percorso circolare fatto di scalini. Apparentamente tutto sembra a posto, ma osservando attentamente la figura, ci si accorge che queste persone compiono un percorso sempre in discesa o sempre in salita, lungo una scala impossibile. L’opera di Escher è disseminata di figure impossibili e paradossi visivi. Il trompe l’oeile ricompare, periodicamente, nei periodi di vuoto ideologico, di crisi di identità, di sterilità creativa, come una certezza alla quale in ogni momento si può far riferimento perché basata sulla realtà: accade nell'Iperrealismo, nei Murales di Diego Rivera (1886-1957), di Orozco, di Siqueiros, in alcune correnti colte come il Post-moderno, accade nel Graffitismo, una delle forme d'arte moderna più esemplificativa dei nostri tempi, dove l'effetto illusionistico amplia di molto il significato del fenomeno, che non è più semplicemente un mezzo di comunicazione attraverso le tracce lasciate sui muri, ma diventa mezzo per appropriarsi del territorio, sovrapponendosi all'ambiente circostante, distruggendone le caratteristiche prospettiche e modificandone illusoriamente i confini. Fisic’Arte 60 Un particolare tipo di illusione ottica odierna è quella realizzata sui pavimenti stradali. Julian Beever, uno dei più famosi artisti di trompe d'oeil da marciapiede, crea disegni illusionistici con il gesso colorato su pavimenti e marciapiedi dalla metà degli anni novanta. Le sue opere vengono create utilizzando una proiezione chiamata anamorfosi per creare l'illusione tridimensionale quando viene visto da una determinata angolazione. L’invenzione della rappresentazione illusoria della realtà, antichissima e perfezionata nel Quattrocento con la codifica delle leggi della prospettiva, ha messo in moto un meccanismo di produzione (e di richiesta) di immagini sempre più fedeli al vero che nel tempo si è evoluto nella fotografia, nel cinema fino all’odierna realtà virtuale. Il visibile riprodotto vuole superare la realtà stessa alla ricerca di una fedeltà sempre più forte, con il rischio però, di perdere il limite di artificio dimenticando la sua natura di finzione. Questo genere di rappresentazione con alti e bassi ed evolvendosi tecnologicamente è arrivata quindi fino a noi. Oggi, più di ogni altra tendenza, è il fenomeno della realtà virtuale che riporta in primo piano il rapporto tra reale e finzione giocando proprio sull’ambiguità delle rappresentazioni. Le attuali immagini 3D probabilmente ci fanno provare delle sensazioni analoghe a quelle anticamente vissute di fronte alle invenzioni del trompe l’oeil. La tecnologia riporta in primo piano l’abilità dell’uomo di creare l’illusione, la tradizione rappresentativa mimetica si rimette in cammino: i computer diventano i nuovi creatori di illusionismi non più pittorici, ma digitali. 3. Pittura e dispositivi ottici Molti pittori europei a partire dal Quattrocento fecero uso di diversi apparecchi ottici per realizzare i loro capolavori, che vanno dagli specchi concavi, alle lenti, fino alle prime Fisic’Arte 61 forme di camera oscura e di camera lucida. Pittori come Van Eyck fino a Caravaggio, Lotto, Velazquez, Vermeer, Ingres, ecc., hanno per secoli utilizzato dei precursori delle macchine fotografiche prima dell’invenzione dei fissanti chimici nel 1839. Fu solo dopo la diffusione di questi fissanti che i pittori, improvvisamente stanchi del realismo ottico, intrapresero quella critica alla fotografia implicita nell’impressionismo, nell’espressionismo e nell’arte astratta. Queste argomentazioni, avanzate in serie pubblicazioni scientifiche, sono oggetto di controversie e, se si rivelassero veritiere, avrebbero importanti conseguenze nella nostra concezione della storia dell’arte. Secondo Hockney e Falco, artista inglese e fisico ottico, considerano come prova evidente della teoria precedentemente avanzata, il quadro Marito e moglie di Lorenzo Lotto (1480-1556). Essi fanno notare come il motivo del tappeto orientale sul tavolo vada fuori fuoco al centro, un effetto impossibile da vedere nella vita reale, ma inevitabile se una lente con una limitata profondità di campo proietta il soggetto su una superficie piana. Inoltre la parte posteriore dell’immagine torna improvvisamente nitida, grazie a una messa a fuoco della lente, che a sua volta porta a una leggera distorsione tra due diversi punti di fuga, non il singolo che ci si aspetterebbe se l’immagine fosse stata realizzata con il semplice uso della prospettiva geometrica. Da dove proviene questo “aspetto ottico”? Uno sguardo ai ritratti realizzati a partire dal XIII secolo dai pittori europei mostrerebbe come qualcosa di nuovo accade intorno ai primi decenni del Quattrocento a Bruges, nelle Fiandre. Il cardinale Niccolò Albergati visitò la città fiamminga nel 1431, durante la quale Jan van Eyck (1390-1441) organizzò una rapida sessione di disegno. Il risultato fu un disegno preparatorio in cui si notano le pupille a punta di spillo e le ombre scure, che suggeriscono una brillante luce esterna richiesta dall’uso di una proiezione ottica. Il disegno era circa la metà delle dimensioni reali; il quadro creato l’anno successivo era grande circa il 40% in più del disegno e, se riportato alle stesse dimensioni, vi si sovrappone perfettamente, come può essere ottenuto solo con l’utilizzo di un qualche dispositivo ottico. A Bruges, intorno al 1430, cent’anni prima di Lotto, è improbabile che esistessero le lenti adatte, ma lo stesso risultato può essere ottenuto da uno specchio concavo, costruito con la stessa tecnologia di quello convesso che compare nel Ritratto di Giovanni Arnolfini e della Fisic’Arte 62 moglie, che van Eyck realizzò nel 1434, adattato a fungere da epidiascopio (o episcopio), un primitivo “proiettore opaco”. Grazie a questo dispositivo van Eyck poté copiare e allargare il disegno preparatorio e poi realizzare il dipinto, come è mostrato in figura. L’ottica di uno specchio concavo può essere facilmente spiegata osservando come i raggi di luce paralleli provenienti da un oggetto distante sono riflessi e concentrati nel fuoco F. La distanza tra la superficie dello specchio e il punto F è la distanza focale f. Gli specchi concavi più semplici possono essere considerati come sezioni di una sfera, con centro C. Dall’ottica elementare sappiamo che il raggio della sfera, r, è due volte la lunghezza focale dello specchio, vale a dire r=2f. Le leggi che regolano la riflessione valgono ovviamente anche nel caso degli specchi concavi. Tuttavia le perpendicolari ai diversi punti degli specchi sono disposte radialmente e non parallelamente come negli specchi piani. Questo significa che raggi paralleli che colpiscono lo specchio in due punti diversi avranno un angolo di riflessione diverso. Ciò ha come conseguenza una deformazione delle immagini riflesse dallo specchio. Tale deformazione dipenderà dalla posizione relativa dell'oggetto rispetto allo specchio. Basandosi sulle dimensioni dei soggetti rappresentati e sulle loro distanze dall’artista, Hockney e Falco hanno valutato che la distanza focale dello specchio concavo usato nella creazione del ritratto degli Arnolfini potrebbe essere stata f=54 cm. Essi sostengono che altri dipinti furono realizzati con specchi con distanza focali simili e indicano il valore f=59cm come un valore ragionevole e rappresentativo. Alcune obiezioni sono state subito avanzate dagli storici dell’arte, e secondo David Stork, professore di Computer Science alla Stanford University, è possibile spiegare la tecnica di ingrandimento utilizzata da van Eyck per il suo ritratto del cardinale Albergati senza invocare l’uso di un episcopio. Il pittore potrebbe aver semplicemente fatto uso di una griglia a maglie quadrate, come si usa nei corsi di disegno, correggendo poi le eventuali imperfezioni, ecco perché il disegno e il dipinto “si sovrappongono perfettamente”. In Fisic’Arte 63 alternativa, van Eyck potrebbe aver usato un pantografo, che usava anche Leonardo. I pantografi si basano sul principio del parallelogramma nella geometria euclidea, conosciuto da più di ventitrè secoli. L’artista muove una punta secca posta su una parte dello strumento lungo i contorni dell’originale e una matita posta sull’altra parte riproduce l’immagine su un foglio di carta o sulla tela, ad una scala che può essere scelta opportunamente. Quanto ai difetti nel dipinto Marito e moglie di Lorenzo Lotto, Christopher Tyler, Direttore Associato dello SmithKettlewell Eye Research Institute in San Francisco, sostiene l’uso di due o più punti di fuga differenti, tecnica comune in moltissime opere di pittori tra il XV e il XVIII secolo, tra i quali Raffaello, Bellini, Holbein, Canaletto. Stork obietta poi che è possibile calcolare la distanza focale di un ipotetico dispositivo ottico per ogni quadro che presenta un numero sufficiente di oggetti posti a varie distanze, ma ciò non implica che tale dispositivo sia stato effettivamente utilizzato. Inoltre si chiede se esiste documentazione storica dell’esistenza di specchi e lenti appropriati durante il primo Rinascimento. Ora, tali specchi potevano essere costruiti da una sfera di vetro caldo nella quale, attraverso un tubo, sarebbe stata soffiata una mistura di stagno, antimonio e resina o catrame. Una volta raffreddato, il vetro sarebbe poi stato tagliato nelle dimensioni adatte per dare immagini sufficientemente ben definite. Egli ha calcolato la distanza focale dello specchio convesso rappresentato nel ritratto dei coniugi Arnolfini, ottenendo un risultato di f=12cm, assai diverso dal valore f=54cm per lo specchio concavo ipoteticamente utilizzato da van Eyck secondo Hockney. Ciò significa che se lo specchio convesso rappresentato può essere stato ottenuto da una sfera di vetro soffiato del diametro 4f=48cm, più o meno grande come un pallone da spiaggia, lo specchio concavo ipotizzato da Hockney e Falco dovrebbe essere stato tagliato da una sfera di vetro di diametro 4f=220cm, maggiore della più grande realizzata ai nostri tempi, e chiaramente impossibile nel XV secolo. Lo studio di specchi sferici o di sfere di vetro rappresentati nei quadri dei pittori dell’epoca considerata non ha poi fornito valori paragonabili a quelli dell’ipotesi di Hockney e Falco. C’è poi una considerazione riguardo alla luce necessaria affinché questi dispositivi potessero essere di qualche utilità pratica, che non poteva essere ottenuta se non riempiendo i locali di migliaia di candele. L’ipotesi di specchi concavi ottenuti da bronzo o altro metallo lucidato (del tipo degli specchi ustori di Archimede), prosegue Stork, è improponibile per il semplice fatto che la loro qualità non avrebbe mai potuto consentire la proiezione sulla tela di immagini sufficientemente nitide. In ogni caso, conclude, lucidare uno specchio metallico delle dimensioni di quello rappresentato nel ritratto degli Arnolfini sarebbe stata un’impresa incredibile, circa duecentocinquanta anni prima dell’invenzione dei telescopi a riflessione nel 1663. Infine, sempre secondo i critici verso l’uso di tali dispositivi ottici, le fonti storiche del XV secolo sarebbero insolitamente silenziose sull’uso di specchi concavi nella pittura, mentre abbondano i trattati sulla prospettiva. I quadri dell’epoca considerata riproducono una grande messe di strumenti ottici di ogni tipo (astrolabi, bussole, occhiali, ecc.), ma ben pochi specchi sferici o parabolici. Hockney e Falco hanno sintetizzato le principali obiezioni mosse al loro lavoro rispondendo che: Fisic’Arte 64 1) possediamo ampia documentazione che già nel XIV secolo esistevano dispositivi ottici, sia a riflessione che a rifrazione, adatti allo scopo, a prezzi assolutamente accessibili. I 40 ritratti di domenicani realizzati nel 1352 da Tommaso da Modena (1326-1379), in particolare Ugo di Provenza e Il Cardinale di Rouen mostrano, rispettivamente, occhiali e una lente d’ingrandimento, mentre Isnardo da Vicenza e il San Gerolamo affrescato successivamente su un pilastro dell'attigua chiesa rappresentano entrambi specchi concavi; 2) gli artisti non facevano uso di candele, ma della luce solare; 3) secondo lo storico Martin Kemp, il pantografo è stato inventato da Christopher Scheiner nel 1603, più di centocinquanta anni dopo che van Eyck dipinse il ritratto del cardinale Albergati, e 84 anni dopo la morte di Leonardo. In conclusione, secondo Hockney e Falco, i dispositivi ottici e i loro effetti sulla tela influenzarono l’arte europea dal 1430 a circa il 1850, fino all’arrivo della fotografia, che sembrò togliere alla pittura lo scopo di ritrarre il reale così come appare ai nostri occhi (a quelli del pittore). Di come la storia dell’uso di dispositivi ottici nella pittura continui dopo il Rinascimento, lo possiamo riscontrare nell’affascinante enigma della camera oscura del Caravaggio. Nella Cena di Emmaus (1602) del Caravaggio (1571- 1610), la mano destra del discepolo Cleofa appare più grande rispetto alla sinistra. Hockney considera questo errore visuale come una prova dell’uso di una camera oscura da parte dell’artista. Egli spiega questa anomalia della mano come una conseguenza dei movimenti (in avanti e all’indietro) di lente e tela durante la rimessa a fuoco, a causa di problemi di profondità di campo, avanzando la teoria che il pittore lombardo non solo avesse a disposizione una camera oscura naturale (riflessione sulla tela), ma anche una lente biconvessa, ossia una lente d’ingrandimento, (proiezione sulla tela). L’immagine era poi disegnata e risultava di un realismo assai dettagliato. Una risposta al problema dell’illuminazione è giunta da Roberta Lapucci, direttrice del Dipartimento di Restauro dell'Università americana di Firenze. La ricercatrice, che appoggia l’idea dell’uso di una camera oscura, afferma infatti che, da alcune prime analisi, si è trovata una diffusa presenza in molti quadri del Caravaggio di sostanze fluorescenti, in particolare di sali di mercurio. La sua ipotesi è che il pittore, dovendo disegnare in una camera priva di luce, usasse spalmare sulla tela dei sali di mercurio, la cui fluorescenza poteva garantirgli di vedere dove tracciare i segni. Fisic’Arte 65 La camera oscura più semplice è un dispositivo ottico che proietta un’immagine su uno schermo. Essa consiste di una scatola o di una stanza (“camera”, appunto) con un forellino in uno dei lati. La luce proveniente da una scena esterna passa attraverso il foro e colpisce una superficie sulla parete interna opposta, dove viene riprodotta capovolta, ma con i colori e la prospettiva preservati. L’immagine può essere proiettata sulla carta e può allora essere tracciata in modo da produrre una rappresentazione accurata del vero. Utilizzando uno specchio, come si faceva nel Settecento, è possibile ottenere un’immagine non ribaltata. Tanto più il forellino è piccolo, tanto più nitida è l’immagine che si ottiene, ma essa risulta più scura. Inoltre un foro d’entrata molto piccolo produce un offuscamento dovuto alla diffrazione. Per questo motivo si applica una lente sul foro in modo da consentire un’apertura maggiore che dà una luminosità sufficiente mantenendo la messa a fuoco. Sebbene Aristotele, Euclide e i cinesi conoscessero il fenomeno ottico della camera oscura e il grande scienziato arabo dell’XI secolo Alhazen ne avesse scritto diffusamente, furono gli italiani nel XVI secolo che fecero passi da gigante nello sviluppo di questo fenomeno ottico naturale verso quella che sarebbe con il tempo diventata la nostra moderna macchina fotografica. Nel 1515 Leonardo descrisse nel Codice Atlantico un procedimento per disegnare edifici e paesaggi dal vero che consisteva nel creare una camera oscura nella quale veniva praticato un unico foro su una parete, sul quale veniva posta una lente regolabile. Sulla parete opposta si proiettava così un'immagine fedele e capovolta del paesaggio esterno, che poteva essere copiata su un foglio di carta appositamente appeso, ottenendo un risultato di discreta qualità. Il veneziano Ettore Ausonio (ca. 1520-ca. 1570) fu il primo a tentare di integrare i problemi della posizione del punto focale e della formazione delle immagini in uno specchio concavo. Ausonio chiarì che il punto focale di un tale specchio coincide con il punto in cui cambia l’orientazione dell’immagine visibile nello specchio stesso. Il matematico Girolamo Cardano (1501-1576) fu invece il primo a descrivere l’uso di una lente biconvessa come miglioramento della camera oscura. Il nobile veneziano, e studioso di ottica, Daniele Barbaro (1513-1570) fu in grado di descrivere nella pratica della prospettiva un tale dispositivo, equipaggiato sia di una lente biconvessa sia di un diaframma. Barbaro suggeriva anche come rendere più nitida l’immagine, riducendo l’apertura e muovendo il supporto per il disegno in avanti e all’indietro. Il che è esattamente quello che Hockney suppone che abbia fatto Caravaggio durante la realizzazione della Cena di Emmaus. Ciò non prova che Caravaggio abbia utilizzato la camera oscura oppure ne fosse informato, ma la cronologia gioca a favore dell’ipotesi che egli abbia potuto farlo. La rete di collegamenti tra Caravaggio e i contemporanei progressi nella tecnologia della camera oscura è tuttavia interessante. Ad esempio, c’era un legame indiretto tra il mecenate del pittore della fine del Cinquecento, il Cardinal Del Monte, e il già citato nobile veneziano Daniele Barbaro. Nel 1545, Tiziano (c.1490-1576) aveva dipinto il suo ritratto. Questo piccolo dipinto mostra gli attributi realistici che Hockney associa all’uso della tecnologia della camera oscura come ausilio alla pittura, specialmente di ritratti. Una decina Fisic’Arte 66 d’anni dopo questo ritratto, Barbaro propone l’uso della camera oscura ai pittori e, descrivendo l’uso delle lenti convesse, mostra che l’immagine è più nitida e il suo contorno può essere perciò seguito con una matita. È difficile immaginare che Tiziano fosse disinteressato alle teorie sul disegno di Barbaro o che l’intellettualmente attivo Barbaro se ne stesse seduto mentre il pittore eseguiva il suo ritratto senza farne menzione. Ovviamente Tiziano era un grande artista e, se fece uso davvero del dispositivo, doveva farlo saltuariamente. La maturazione artistica del Caravaggio segue il percorso indicato da Hockney e Falco per lo sviluppo dell’utilizzo di dispositivi ottici nella pittura. Un suo contemporaneo, anch’egli pittore e biografo di artisti, il romano Giovanni Baglione (c.1566-1643), affermò che c’erano “alcuni piccoli quadri [del Caravaggio] ritratti con uno specchio”. Hockney sostiene che lo specchio di cui parla Baglione sia in effetti uno specchio concavo. Con questo dispositivo l’immagine utilizzabile non è mai più grande di 30 centimetri di larghezza; si tratta di una caratteristica di tutti gli specchi concavi, non importa quanto essi siano grandi. Al di fuori di questa superficie utile, è impossibile ottenere un’immagine a fuoco. I quadri fatti con l’ausilio di uno specchio concavo devono pertanto essere piccoli, o devono essere un collage di piccole vedute, come dettagli di mani, vestiti, frammenti di paesaggio e nature morte. Hockney cita il Bacchino malato (ca. 1593) come esempio di questo collage di vedute giustapposte. In effetti il quadro in questione è di piccole dimensioni. Caravaggio incomincia ad includere più di una figura, come nei Bari (ca. 1595). Lo sfondo è ora buio e spettacolare ma l’aspetto ottico è cambiato. Questo cambiamento potrebbe essere dovuto ad un miglioramento tecnologico, come quello ottenuto con una lente biconvessa che può proiettare una veduta più ampia, e quindi più figure in un colpo solo. Hockney è convinto che qualcuno diede al pittore una nuova lente, forse il suo potente protettore del tempo, il Cardinal Del Monte, portandolo all’idea di usarla al posto dello specchio concavo per ottenere il massimo rendimento dall’effetto della camera oscura. La sperimentazione di Caravaggio con proiezioni ottenute da lenti biconvesse coprì un periodo di cinque anni, durante i quali sarebbe passato da tele di piccole dimensioni, con l’ausilio di uno specchio, fino a dipinti di dimensioni medie come il Bacco, fatte con l’ausilio di una lente. Roberta Lapucci ritiene che il Bacco dimostri in modo evidente l'uso di lenti e specchi. La studiosa fa notare come il Bacco sia mancino, perché tiene il bicchiere con la mano sinistra. Non essendoci precedenti in tal senso, la Lapucci pensa che l'immagine sia il frutto di una proiezione ottenuta con uno strumento ottico. Se si ribalta l'immagine si ottiene una figura che appare assai più naturale. Fisic’Arte 67 Tra il 1598 e il 1599, tuttavia, Caravaggio deve aver cominciato a sperimentare un nuovo sistema di lenti, con il quale fu in grado di realizzare le tre tele con scene della vita di san Matteo che segnano un importante punto di svolta nel suo stile e stupirono il mondo dell’arte del Seicento quando furono visibili nel 1600. C’è un ulteriore informazione da segnalare sulla svolta stilistica di Caravaggio agli inizi del nuovo secolo, che richiede di tornare alla Cena di Emmaus, ma nella versione conservata a Milano e dipinta quattro anni più tardi di quella londinese. Essa sembra smentire definitivamente le obiezioni di Stork relative all’illuminazione e confermare l’assunto di Hockney e Falco che il pittore utilizzasse la luce solare. Lo studio dell’opera effettuato con l’ausilio dello scanner Multi-NIR (scanner multispettrale all’infrarosso) realizzato dall'Istituto Nazionale di Ottica (INO) del C.N.R di Firenze ha rilevato il disegno sottostante il dipinto conservato alla Pinacoteca di Brera. Dall'indagine sono infatti affiorati i contorni del volto di Cristo, degli apostoli, delle mani, oltre alla presenza delle incisioni tipiche della fase giovanile del Caravaggio e che Hockney attribuisce all’uso di dispositi ottici. Si può quindi concludere che Caravaggio, contrariamente a quanto generalmente si pensava, faceva uso di disegni preparatori. Inoltre, e ciò è assai importante per la nostra indagine, lo scanner ha rivelato anche la presenza di un significativo cambiamento nel corso della realizzazione dell’opera. Sul lato sinistro, dietro la figura in piedi, è emersa una finestra da cui si scorge un paesaggio dominato da un albero frondoso. Tale apertura era la fonte di luce naturale che illuminava i personaggi. Nella stesura definitiva, il pittore occultò questi elementi a favore di uno sfondo scuro, adatto alla resa di un'atmosfera più spirituale, illuminata da una luce di taglio, dall’effetto “soprannaturale”, rivelatrice della presenza divina. I risultati del Multi-NIR consentono di affermare che la Cena di Emmaus rappresenta lo spartiacque stilistico nella carriera pittorica del maestro lombardo. E gettano una nuova luce (è proprio il caso di dirlo) sulla tecnica pittorica adottata dal Caravaggio negli ultimi suoi anni di vita. 4. L’arte stereoscopica La sensazione di tridimensionalità che abbiamo quando guardiamo un oggetto ci è fornita dalla presenza dei due occhi, ossia dalla visione binoculare. Questi essendo distanziati tra loro (circa 6,5 cm) ci forniscono due immagini bidimensionali diverse, perché viste da angolazioni diverse, che il cervello elabora in un'unica immagine in rilievo, permettendoci di stimare le dimensioni attraverso una valutazione differenziale relativa. Questo effetto Fisic’Arte 68 percettivo prende il nome di stereoscopia. La stereoscopia è, dunque, una tecnica che consente la visione di immagini, fotografie e filmati dando il senso di profondità. Leonardo fu tra i primi ad usare la prospettiva aerea, cioè a dare il senso di profondità e lontananza degli oggetti rappresentati attraverso un sapiente uso del colore e modulazione di luce e ombra, in straordinari giochi di effetti atmosferici. Ciò che fino ad oggi sembra essere sfuggito agli studiosi è che tale senso di profondità possa essere notevolmente amplificato con l’ausilio di semplici strumenti suggeriti dallo stesso Leonardo nei suoi studi, cioè applicando i principi della stereoscopia. Questa potrebbe essere una lettura rivoluzionaria giacché le origini della stereoscopia comunemente sono attribuite a Charles Wheatsone inventore, nel diciannovesimo secolo, del primo stereoscopio della storia. Questo studio, invece, applicato alla Gioconda, suggerirebbe che Leonardo già possedeva e sperimentava tecniche legate alla visione binoculare. Come possiamo mettere in evidenza tali affermazioni. Basterà osservare, anche a occhio nudo, l’unica immagine risultante dalla composizione di due immagini diverse inviate ai nostri occhi. Come: si osservi prima con l’occhio destro e poi con l’occhio sinistro le porzioni del dipinto riportate nelle foto, con l’aiuto di uno stereoscopio. Osservando l’immagine risultante con la stessa tecnica utilizzata per le immagini stereoscopiche si visualizza l’immagine di un terzo volto dai tratti meno femminili. La percezione finale dà esito a un volto dai tratti spiccatamente più maschili. Che sia il volto di un uomo?. Un artista del quale siamo sicuri che abbia dipinto quadri stereoscopici, e che ha avuto una certa influenza su Dalì nell’applicazione di questa tecnica alla pittura, è Gèrard Dou (1613-1675). Dou era conosciuto per la grande attenzione e l’estrema minuzia nei suoi dipinti di dimensioni ridotte rispetto a quelli di genere. Per ottenere una rappresentazione di oggetti più piccoli del naturale ricorreva all’impiego dello specchio convesso. Il fisico danese Ole Borch che visitò l’artista il 9 novembre 1661 scrisse: “Tutte le volte che Dou dipinge, colloca tre magnifici occhiali davanti ai suoi occhi contemporaneamente, per vedere meglio”. Divenne infatti quasi cieco sui trent’anni. Le radiografie hanno rivelato cambiamenti compositivi e pentimenti in parecchie sue opere, mentre in altre si trova un attento metodo di lavoro. Il trompe l’oeil e l’illusione sono importanti componenti della Fisic’Arte 69 pittura di Dou. La sua concezione dell’illusione è leggera: suggerisce una consapevolezza dell’artificio nella mente dello spettatore e punta oltre esso stesso. Pone una relazione tra l’arte e la realtà che si sposta e si sovrappone, una volta vera, una volta falsa, secondo il livello a cui uno avvicina l’opera d’arte. Dalì, negli anni sessanta, si interessa di sperimentazioni ottiche, percezione visiva e leggi della Gestalt. L’idea portante dei fondatori della psicologia della Gestalt è che il tutto fosse diverso dalla somma delle singole parti, in particolare il tutto è più della somma delle parti. Le teorie della Gestalt, si rivelarono altamente innovative, in quanto rintracciarono le basi del comportamento, nel modo in cui viene percepita la realtà, anziché per quella che è realmente; quindi il primo pilastro della teoria della Gestalt fu costruito sullo studio dei processi percettivi e in una percezione immediata del mondo fenomenico. Per la psicologia della Gestalt non è giusto dividere l’esperienza umana nelle sue componenti elementari e occorre invece considerare l’intero come fenomeno sovraordinato rispetto alla somma dei suoi componenti. Quello che noi siamo e sentiamo, il nostro stesso comportamento, sono il risultato di una complessa organizzazione che guida anche i nostri processi di pensiero. La capacità di percepire un oggetto quindi deve essere rintracciata in una organizzazione presieduta dal sistema nervoso e non ad una banale immagine focalizzata dalla retina. Per comprendere il mondo circostante si tende a identificarvi forme secondo schemi che ci sembrano adatti – scelti per imitazione, apprendimento e condivisione – e attraverso simili processi si organizzano sia la percezione che il pensiero e la sensazione; ciò avviene di solito del tutto inconsapevolmente. Tornando a Dalì, prima della scoperta del laser e delle sue applicazioni nell'olografia, la visione stereoscopica era quella che più si avvicinava al suo scopo. È logico che, mentre egli mirava a conquistare la terza dimensione per la sua pittura, tutti gli effetti del rilievo assumevano ai suoi occhi un'importanza capitale, e applica i principi della stereoscopia alle sue opere solo dal 1969, quando rimane folgorato dal lavoro di Dou, per lui il “primo pittore stereoscopico” e comincia a creare immagini stereoscopiche riflesse per mezzo di specchi collocati a 60°. Gli specchi per Dalì erano un’ossessione, in particolare lo specchio deformante alla parete della camera da letto, che rifletteva tutta la stanza. L'ossessione degli specchi venne a Dalí mentre studiava le opere di Giambattista della Porta, l'astrologo napoletano vissuto nel XVI secolo che scrisse parecchi trattati sulle trasformazioni e aberrazioni ottiche. Siano deformanti o normali, gli specchi appagavano il desiderio di Dalí di vedere quello che non può essere visto. Nella sua casa gli specchi avevano la stessa funzione delle piccole finestre in uso nelle regioni mediterranee. Come queste, gli specchi inquadravano una superficie molto limitata costringendo l'occhio a soffermarsi su ogni minimo particolare, producendo Fisic’Arte 70 un effetto di acutezza e di immediatezza che non si ottiene mai con i finestroni panoramici avidi di orizzonti dell'architettura funzionale. Nel 1971, il fisico americano Dennis Gabor riceve il premio Nobel per la scoperta dell'olografia. L'olografia è una tecnologia ottica di memorizzazione di una informazione ottica sotto forma di registrazione di un finissimo intreccio di frange di interferenza con impiego di luce coerente laser (sia spazialmente sia temporalmente). L'informazione registrata è l'interferenza tra una parte di luce (proveniente dalla stessa sorgente coerente) riflessa da uno specchio e del fronte d'onda riflesso da un oggetto su una lastra fotografica a grana finissima, chiamato ologramma. All'immagine olografica (cioè alla ricostruzione dell'originario sistema di fronti d'onda provenienti dall'oggetto) viene attribuita la cosiddetta "tridimensionalità". L’olografia, dunque, permette la visione di immagini con un effetto tridimensionale grazie all’uso di un laser che crea figure d’onda interferenti. Dalí vede in questa invenzione il modo migliore per progredire nel suo intento di creare nello spazio, e probabilmente anche la strada per raggiungere l’immortalità dello spirito e delle immagini che desiderava tanto raggiungere. Durante la realizzazione di La mano di Dalì… il pittore si fece preparare un solido a forma di triangolo ricoperto di specchi, simile al triangolo di Kanizsa, che gli serviva per sovrapporre visivamente i due lavori, attuando una sintesi additiva. Il triangolo di Kanizsa è un'illusione ottica in cui il triangolo bianco che è inesistente, sembra essere più luminoso della zona circostante, mentre quell'area ha la stessa luminosità delle zone adiacenti. Ciò perché la nostra valutazione percettiva ha bisogno di contrasto figura/sfondo e anche quando questo non c'è si crea lo stesso. Dalì crea un’immagine olografica, ovvero un’immagine aperta alla terza dimensione. Quest’opera è ideata secondo i canoni classici degli stereogrammi: due immagini, una per occhio, ottenute con costruzioni geometriche e con foto scattate con un apparecchio con due obiettivi. Perché sovrapponendole si apprezzasse l’effetto tridimensionale, la coppia di tele, è stata dipinta da punti di vista particolari, e poi guardate simultaneamente grazie allo speciale specchio di cui sopra, o con occhiali dalle lenti apposite. Dalì solleva … è un altro esempio di visione binoculare con il ricorso a due dipinti complementari, così come Dalì di spalle… è realizzata utilizzando il sistema delle lenti di Fresnel (lenti di spessore ridotto rispetto a quelle standard), applicato alle cartoline in rilievo: Fisic’Arte 71 “La stereoscopia rende immortale e leggittimizza la geometria, perché grazie ad essa abbiamo la terza dimensione della sfera. Con l’Universo che essa è in grado di contenere e di limitare……….” Dalì di spalle che dipinge Gaia di spalle – 1972/73 Dalì solleva il mare per mostrare la nascita di Venere - 1977 Dalì Gala guarda il mare che a 20m si trasforma in Lincoln - 1976 Per realizzare questa immagine doppia, Dalì è partito da un’interpretazione digitale del viso di Lincoln ottenuta dal cibernetico a mericano Leon D. Harmon. Dalì ha usato qui il concetto di pixel (picture element) per creare un'immagine che appare diversa se vista da vicino oppure da lontano. Il dipinto è suddiviso in quadrati al cui interno il colore è quasi uniforme. Da lontano si perde la risoluzione dei dettagli, e ogni quadrato ci appare come un pixel di un unico colore, delineando il famoso ritratto di Abraham Lincoln. Nel tempo stesso cerca, per mezzo delle lenti di Fresnel, di semplificare il procedimento per rendere il quadro visibile in rilievo contemporaneamente da più persone. 5. Optical Art L’Optical art, nota anche come Op Art, è un movimento di arte astratta nato intorno agli anni sessanta. Le origini della Op Art, che si affianca con la cosiddetta Arte Cinetica, che sperimenta varie possibilità di movimento meccanico, luminoso, elettromagnetico, sono da individuare nell’interesse del rapporto tra arte e scienza. L’optical art, dunque, è arte in movimento; infatti l’essenza dell’arte astratta percettiva è la creazione di esperienze cinetiche mentali non reali, generate attraverso artifici sapientemente costruiti attingendo agli studi della Gestaltpsychologie (secondo gli psicologi Fisic’Arte 72 della Gestalt, detta anche psicologia della forma, la configurazione delle parti di una struttura, di una forma, Gestalt appunto, sia essa un disegno molto semplice o di un'opera più elaborata e complessa, viene colta dal soggetto che la percepisce non parte dopo parte, ma innanzi tutto nella sua globalità). Il fruitore dell’Op Art riceve sollecitazioni visive che colpiscono la selva di coni e bastoncelli da cui è formata la retina, discrepanze, conflitti percettivi, ambivalenze, catturano l’occhio dello spettatore che viene provocato affinché, corrispondendo alle intenzioni dell’autore, divenga partner nel processo di costruzione dell’opera, quasi completandola dinamicamente. E’ indicativo infatti il nome della mostra con cui nel 1965 questi artisti si presentarono al Museum of Modern Art di New York: The Responsive Eye. E così forme statiche con effetti ottici illusori, acquistano vita e mobilità, complice il nostro stesso sguardo. L’Optical Art si esprime in una pittura piatta, obbediente ad accurati schemi precostituiti, che suscitano problemi ottici nell’osservatore e si vogliono provocare principalmente le illusioni ottiche, tipicamente di movimento: la geometrizzazione parcellizzata di una superficie, può suggerire l’emersione o l’incavo delle forme, oppure provocare lo sdoppiamento della griglia. In altri casi può generare l’espansione mobile, o ricercare gli effetti di proiezione della luce colorata. Secondo le teorie di Chevreul, colori, collocati sulla tela, in modo tale da fondersi negli occhi del riguardante, vengono a suscitare particolari effetti ottici. In obbedienza alle teorie di questi ultimi, si ottiene un colore più puro e luminoso, collocando una commistione di materia inanimata, sulla tela, avvicinando il giallo ed il blu, per ottenere il verde; notate bene, solo avvicinandoli. A questa teoria, risalente a Seurat ed ai postimpressionisti, si aggiunge il rinnovamento della spiritualità del soggetto, con la ricerca di una nuova forma. Colori in movimento sottendono il dinamismo interiore. Una “poesia visiva” di Gianni Latronico intitolata OP ART, tradotta in prosa, potrebbe essere letta come il manifesto di questa corrente artistica: “La rigida geometria euclidea in arte, è superata da morbide linee sinuose di immagini asimmetriche di sfere coni rettangoli triangoli e cilindri Con lieve brezza una estrosa bizzarria un improvviso capriccio una ispirazione poetica serpeggian tra le maglie del tessuto connettivo e sconvolgon il sistema della tela di Aracne. Con maglie folli di fantasia lirica si capovolge la clessidra cambiando il tempo in eternità. “ L’optical art è un'arte essenzialmente grafica, basata su una rigorosa definizione del metodo operativo. Gli artisti vogliono ottenere, attraverso linee collocate in griglie modulari e strutturali diverse con l’aiuto di elementi di disturbo, effetti che inducono uno stato di instabilità percettiva. In tal modo, essi stimolano il coinvolgimento dell'osservatore. Uno degli artifici tipici di Vasarely (1906-1997) è la contrapposizione di due diversi sistemi prospettici, ottenuta in vari modi: ad esempio, affiancando due serie di figure geometriche simili orientate in Fisic’Arte 73 maniera diversa su un’unica tela, o riproducendo una stessa figura su due fogli di cellofan, che possono poi essere fatti scorrere uno sull’altro. Un’altra sua tecnica è la contrapposizione di colori di tinta contrastante, ma di tono identico. Una diversa tecnica di contrapposizione è adottata da Agam e Cruz-Diez (1923), che produce un analogo visivo delle opere a lettura multipla. Si tratta di usare tele costituite da triangoli paralleli in rilievo, o da asticelle parallele poste ad angolo retto rispetto al piano del quadro, in modo da poter disegnare due soggetti diversi sui due lati dei triangoli o delle asticelle: se si guarda da un lato del quadro, si vede soltanto uno dei due soggetti, mentre se si guarda di fronte si vede una combinazione di entrambi. La Riley (1931), altro esponente di spicco della Op Art, ha realizzato una serie di opere in cui fasci di linee ondulate parallele provocano effetti non solo tridimensionali, ma addirittura cromatici: i movimenti dell’occhio proiettano immagini consecutive di colore complementare sulla retina, inducendo la visione di colori inesistenti. Fisic’Arte 74 Capitolo 4 ARTE#E#FISICA#CLASSICA# 1. Introduzione Con il nome di fisica classica si raggruppano tutti gli ambiti e i settori della fisica che non fanno uso delle teorie scientifiche prodotte nel XX secolo, ossia la relatività ristretta e generale e le teorie quantistiche. Per tale motivo è possibile classificare come fisica classica tutte le teorie prodotte prima del 1900. Sono quindi comprese le teorie sulla meccanica, inclusa l'acustica, sulla termodinamica, sull'elettromagnetismo, inclusa l'ottica, e la gravità newtoniana. La fisica classica ricomprende teorie che avevano avuto la loro origine già prima della nascita del metodo scientifico, anche se fu solo dopo la codifica di quest'ultimo, attribuita a Galileo Galilei (1564-1642), che si ebbe la maggior parte delle scoperte. A seguito dei lavori dello scienziato pisano, si aprì una fase di indagine approfondita, che culminò nella poderosa opera I Principia di Newton (1642-1727). La curiosità della comunità scientifica si estese poi ai fenomeni elettrostatici e magnetici. Non bisogna dimenticare, nel definire la storia dello sviluppo di questa particolare branca della fisica, che i suoi molti settori attuali si sono evoluti parallelamente nel corso del tempo e hanno subito più volte scissioni e ricombinazioni fino ad assestarsi con le suddivisioni oggi comunemente accettate. Ad esempio l'attuale elettromagnetismo classico è frutto dell'unificazione di elettricità, magnetismo e ottica, operata grazie alla sintesi matematica che ne fece James Clerk Maxwell (1831-1879). Il legame del mondo dell’arte con la fisica classica, però, non va inteso solo per gli artisti che hanno vissuto nel clima culturale riguardante tale ambito della fisica. Infatti, per alcune avanguardie del XX secolo, come il futurismo, il tema dominante della loro arte era il movimento, concetto inteso in senso classico, così come parte dell’arte contemporanea, per intenderci quella che si è sviluppata dopo la fine della seconda guerra mondiale, è stata fortemente influenzata da un concetto, l’entropia, sviluppato nella seconda metà del XIX secolo, quindi, storicamente, appartenente alla fisica classica. 2. Spazio, tempo e arte È noto come ogni epoca ed ogni cultura sia stata contraddistinta da una diversa estetica e cioè da un diversa affinità per la bellezza, il gusto e il benessere. Infatti estetica etimologicamente deriva dal greco aisthetikos "sensitivo", e da "aisthanesthai" "percepire", e quindi indica quella "forma–mentis" che corrisponde alla opportunità di valorizzare una capacità storicamente-selettiva, che unendo ragione e emozioni, dà valore alle impressioni visive e percettive generate da un qualsiasi evento collocabile nel quadro di riferimento Fisic’Arte 75 dello spazio e nel tempo. I concetti di tempo e di spazio sono di conseguenza talmente fondamentali nella cultura di qualsiasi epoca, che ogni loro modificazione altera totalmente i criteri di base su cui poggia la nostra visione del mondo. Di conseguenza, la cultura acquisita in ogni epoca da ogni etnia culturale, diviene determinante nel definire le linee generali dell'estetica che puntualmente caratterizzano sia i criteri di valutazione della razionalità scientifica che quelli della bellezza nell'arte. Pertanto, le concezioni relative al tempo ed allo spazio sono fondamentali per individuare lo sfondo immaginario nel quale ogni elemento di apprezzamento estetico viene valutato sia razionalmente che emotivamente. In figura è riportato un particolare di pittura tombale egizia raffigurante una piscina. La fila di alberi che sono messi in alto, ci sembra dipinta correttamente. Quelli in basso sono invece rappresentati secondo il principio dello “scaglionamento”; siccome la piscina è dietro gli alberi, viene raffigurata più in alto. Gli alberi a sinistra invece, sono visti come una scatola che viene aperta e appoggiata su di un tavolo. Con questo tipo di tecnica, gli artisti egizi, cercavano di rappresentare il senso dello spazio nelle loro opere. La forma del tempio greco si presenta ordinata, con gli elementi chiaramente connessi e combinati, per cui nel tempio l’architetto non si preoccupava di organizzare lo spazio interno, ma di concepire un insieme perfetto e armonioso. Per raggiungere questo obiettivo i costruttori greci ricorrevano al modulo, una unità di misura convenzionale che regola il rapporto tra le varie parti che compongono un edificio e tra di esse e il tutto; in genere è il raggio alla base del fusto della colonna. Lo storico dell’architettura Pevsner ha scritto: “Ciò che distingue l’architettura dalla pittura e dalla scultura è la sua caratteristica spazialità … quindi la storia dell’architettura è, innanzitutto, la storia dell’uomo che modella lo spazio … “. È la capacità di modellare gli spazi interni suggerendo tensioni verso l’esterno è proprio la caratteristica principale degli architetti romani, che con archi, volte e cupole abilmente combinati e articolati, creavano forme spaziali di eccezionale interesse. In un’opera architettonica greca, l’impianto simmetrico dell’edificio consente, con un solo sguardo, di comprendere la struttura che si ripete quasi sempre uguale. In un’opera architettonica romana, invece, dove è espressa una concezione dinamica dello spazio, è ncessario muoversi, girarvi intorno, entrarvi per appropriarsi della sua forma. La concezione romana dello spazio è testimoniata dal Pantheon. Fisic’Arte 76 Anche nella pittura degli antichi Romani abbiamo numerose testimonianze su come cercavano di rappresentare lo spazio nelle loro opere. In un affresco da Pompei una villa è resa con un procedimento molto simile alla prospettiva geometrica del Rinascimento. Gli effetti di profondità sono dati dall’uso convergente delle linee oblique ma, a volte, anche dal progressivo sfumarsi verso il fondo dell’immagine (prospettiva atmosferica). Sant’Apollinare in Classe – Ravenna – 532/36-549 L’architettura cristiana, sviluppatasi a partire dal IV secolo, non avendo una prassi costruttiva propria, riprendeva tecniche costruttive e forme della tradizione romana. La chiesa cristiana era solitamente costruita in maniera tale che lo spazio si rivelasse dinamico e articolato, consono ad ospitare una molteplicità di funzioni in cui non si individuavano precisi orientamenti prospettici. Pertanto, dal punto di vista dello spazio, l’innovazione principale nelle basiliche cristiane è la concezione unitaria di tutti gli elementi strutturali e decorativi che crea una traiettoria longitudinale obbligata (ingresso, navate, altare, abside) per condurre l’occhio del visitatore verso il fondo, la parte più sacra della chiesa. Basilica Sant’Ambrogio – Milano – XI sec. Lo spazio nell’architettura romanica (XI e XII sec.) è plastico, organizzato e raggruppato e si oppone come concezione a quello fluido e luminoso delle basiliche paleocristiane e bizantine (dal IV al X sec.). Si presenta come se fosse modellato, con il carattere delle sue navate, divise in campate, alzate a diverse altezze, con il transetto che apre uno spazio trasversale, con le absidi che creano movimenti circolari e la cupola che si eleva sopra l’altare portato in alto dalla gradinata del presbitero. Se lo spazio dell’architettura romanica risulta separato in zone, quello dell’architettura gotica (dal XIII fino all’inizio del XVI sec), invece, si concede nella sua totalità in una continuità esemplare: le campate, fuse in una sequenza continua, Fisic’Arte 77 non sono otticamente definite, la netta distinzione tra navate e presbitero è abolita, il transetto è ridotto e quasi ingoblato nel corpo longitudinale della chiesa. La spinta verso l’alto è sconcertante, ma altrettanto coinvolgente è la direttrice longitudinale, che, varcata la soglia, conduce lo sguardo del visitatore verso l’altare e fa sì che si arresti solo davanti al perimetro sottile del coro. Lo spazio fugge e l’uomo si perde in una contemplazione estatica che lo esalta. L’effetto di continuità tra spazio interno e esterno, suggerito dalle ampie finestre, dalla illuminazione diffusa e dallo snellimento delle strutture, è un’altra delle affascinanti caratteristiche dell’architettura gotica. Duomo di Colonia – XIII sec. Nel periodo storico che ha contraddistinto la civiltà contadina, il passare del tempo era considerato ciclico, proprio in seguito alla necessità di considerare un tempo per seminare e uno per raccogliere. L'arte, in quel periodo storico, non venne considerata come realtà autonoma creativa, ma come una manifestazione di abilità fondata sull'imitazione e contemplazione della natura, quale creazione divina associata a una ciclicità allegorica dello scorrere ripetitivo della vita e della morte. I fondamentali schemi espressivi nel Medioevo, simboleggiano infatti la caducità della vita nel suo divenire nelle varie stagioni in contrasto con la eternità della morte e della vita extraterrena. Giudizio universale – Ciclo duecentesco - Aquila Per quanto riguarda la rappresentazione dello spazio, in questo periodo storico appare poco rilevante. Assumono infatti maggiore importanza i contenuti simbolici dei vari soggetti rappresentati. Ciò viene espresso con il variare delle dimensioni in relazione all’importanza del personaggio, cioè più importante era il personaggio da rappresentare sul supporto, e più grande degli altri personaggi veniva dipinto. Intorno al Trecento tuttavia, l’interesse per la resa dello spazio riemerge nuovamente con grande forza. In questo periodo è soprattutto la pittura di un grande maestro come Giotto, la più capace per esprimere la sensazione di concretezza spaziale mediante l’uso di superfici e quinte inclinate secondo un procedimento molto vicino al disegno assonometrico. Fisic’Arte 78 Agli inizi del Rinascimento la concettualità relativa al tempo e allo spazio venne a modificarsi assieme agli sviluppi delle concezioni meccaniche che dettero vita all'artigianato. La necessità di una misurazione precisa degli ingranaggi delle macchine rese inf atti necessaria una definizione puntuale della posizione degli oggetti nello spazio. Pertanto, in seguito al divenire di una concezione meccanica dello spazio-tempo, già Piero della Francesca (1415-1492) aveva definito in modo puntuale e con metodo matematicoscientifico la prospettiva nell'estetica pittorica nel suo libro intitolato "De Prospettiva Pingendi", intesa come un metodo per poter tradurre graficamente la profondità, in modo molto simile a come essa viene percepita dall’occhio umano. Piero della Francesca – La flagellazione di Cristo - 1455 Fisic’Arte 79 La prospettiva non era unicamente finalizzata alla rappresentazione dello spazio e alla resa realistica della scena dipinta, ma anche a disegnare figure in scorcio prospettico, a definire con precisione le esatte proporzioni dei vari elementi presenti nella scena (architetture, arredi o figure umane), mettendo in esatto rapporto gli elementi collocati in primo piano con quelli in lontananza. La prospettiva lineare organizza quindi l’immagine della realtà in un insieme ordinato e razionale, ponendo gli eventi rappresentati nello spazio naturale, fuori dal mondo astratto e ieratico delle opere medievali. Il pittore del Quattrocento non copia fedelmente la realtà, ma la ricostruisce razionalmente tramite l’architettura dipinta in prospettiva, riportando ogni elemento della composizione (figure e oggetti) a volumi geometrici regolari, anch’essi costruiti in relazione allo spazio prospettico. Pertanto, grazie all’innovazione della prospettiva, Piero della Francesca induce a credere che La flagellazione di Cristo sia un quadro di notevoli dimensioni, mentre in realtà è una tavoletta di dimensioni ridotte. Piero della Francesca – Leggenda della vera croce – 1452/60 Un'altra particolarità dello stile di Piero della Francesca riguardo alla rappresentazione dello spazio e del tempo è che tutti i personaggi delle sue opere sembrano come bloccati, immobili. Ogni gesto sembra come congelato all'improvviso, anche in situazioni dove il dinamismo sembrerebbe essenziale. Ad esempio, nelle battaglie c'è un grande senso di confusione, con l'intrigo di uomini, cavalli, lance, spade, stendardi e bandiere. Si vede gente che si scontra, che cade, che muore, che uccide. Ma presi singolarmente, i personaggi sembrano tutti bloccati, statici, come se il tempo si fosse fermato per incantesimo. Eppure la posizione dei cavalli e i gesti dei soldati, sono esatti, come pure il loro inserimento nello spazio prospettico. Ma è proprio questa esattezza che toglie l'effetto del movimento. Piero non vuole rappresentare lo svolgersi dell'azione nel tempo. Si allontana dalla rappresentazione realistica del dinamismo e cerca invece la rappresentazione astratta della perfezione. Piero toglie (astrae) il tempo della realtà, e secondo una concezione intellettuale ci restituisce un'immagine perfetta e senza tempo. Nello spazio esatto della geometria tutto è perfetto e immobile, perchè risponde alle stesse leggi matematiche. In una dimensione perfetta il tempo non esiste, perchè è intesa come una visione eterna. I fondamenti della geometria descrittiva, quale studio della rappresentazione oggettiva dello spazio tridimensionale, che sono alla base della tecnica pittorica del Rinascimento, Fisic’Arte 80 furono perfezionati da Leonardo. La prospettiva geometrica delinea perciò il passaggio da una concezione ciclica del tempo a una nuova sua dimensione lineare che sarà la base di riferimento della scienza meccanica durante tutto lo sviluppo dell'Epoca Industriale. Nell’architettura del XV sec. lo spazio perde il movimento direzionale; all’interno degli edifici persiste la sensazione del movimento, ma alla dimensione spaziale definita dalla direttrice longitudinale e verticale tipica del periodo precedente, si sostituisce uno spazio che si espande in più direzioni. Nel Cinquecento lo spazio mantiene quella leggibilità del secolo precedente. La progettazione modulare, basata su precise regole geometriche, conferisce a interni ed esterni forme armoniose e proporzionate. In termini generali si può affermare che lo spazio in questo secolo si espande, presenta combinazioni diverse, e dunque acquista una nuova risonanza senza, tuttavia, perdere il suo carattere razionale e funzionale. Nel periodo barocco (XVII sec.) la tecnica prospettica viene sempre di più perfezionata. I grandi affreschi su pareti e soffitti di chiese, saloni di palazzi e di abitazioni private dilatano visivamente lo spazio grazie alla straordinaria rappresentazione di cieli e dettagli architettonici in prospettiva, in cui compaiono figure in posizioni dinamiche, perfettamente inserite in grandiose invenzioni scenografiche miranti a coinvolgere emotivamente lo spettatore. Si sviluppa così la pittura illusionistica, un genere che cercava di rappresentare sui soffitti di chiese e palazzi uno spazio illusorio, infinito. Nelle volte affrescate delle chiese venivano generalmente raffigurati santi nell’atto di salire miracolosamente in cielo. Se nel Rinascimento la prospettiva aveva la funzione di ordinare la composizione e rappresentare uno spazio semplice e misurabile, nell’età barocca la prospettiva venne invece utilizzata per suggerire uno spazio immaginario senza confini, in cui i limiti del reale erano annullati attraverso il dinamismo e la teatralità dell’insieme. Quando le scoperte scientifiche non permisero più all’uomo di avere certezze relative all’ordine in cui fino ad allora erano stati gerarchicamente ricondotti tutti i fenomeni della realtà, lo spettacolo della natura cominciò ad essere considerato in perenne mutamento e venne rappresentato dagli artisti con composizioni di grande dinamismo. Anche l’interesse per uno spazio infinito derivava in buona parte dalle scoperte astronomiche del tempo che, come sosteneva Galileo, avevano ampliato i confini dell’universo fino ad allora conosciuto. Soprattutto nell’architettura lo spazio vive il suo trionfo. Slargare, aprire, sfondare, sono gli obiettivi che sottendono la rappresentazione dello spazio nel Seicento. Nel Barocco, in modo particolar, emerge la volontà di creare uno spazio che non appaia costretto entro i limiti delle pareti. Scrive Zevi: “Il Barocco è liberazione spaziale, è liberazione mentale dalle regole dei trattatisti, dalle convenzioni, dalla geometria elementare e dalla staticità, è liberazione dalla simmetria e dall’antitesi tra lo spazio interno ed esterno”. Fisic’Arte 81 I muri diventano ondulati per seguire il moto dello spazio interno e testimoniarlo all’esterno creando una continuità ideale. Quello spazio che l’architetto ha modellato con volumi e parti decorativi in movimento e che nel suo dispiegarsi implica l’assoluta negazione di ogni chiara e ritmica divisione, che rifiuta la caratterizzazione solo orizzontale o solo verticale, è uno spazio che dal pavimento alla cupola e da parete a parete si presenta come un tutto unico, dove nulla appare separato e distinto, perché ogni elemento è la logica continuazione di una forma organica e indiscindibile. Con l’affermarsi della concezione newtoniana dell’universo, la fisica classica approdò ad una concezione del tempo nettamente separato dallo spazio, nella quale la dimensione temporale fu ritenuta fondamentalmente soggettiva e pertanto convenzionalmente misurabile da un orologio, nel quadro di uno spazio esterno definibile nella sua dimensione oggettiva. Pertanto la struttura cartesiana dello spazio e del tempo, entrambi considerati come fattori indipendenti, si fondò su una netta e arbitraria distinzione tra oggetto e soggetto, andando oltre la concezione rinascimentale, che aveva mantenuto l'uomo al centro della capacità di integrazione cognitiva. Pertanto, la stabilizzazione della concettualità meccanica dette origine a quella separazione tra due culture, scientifica e artistica-umanistica che dominerà l'era industriale. Nel Settecento si sviluppa la scuola dei vedutisti, cioè pittori che utilizzano la prospettiva per dipingere paesaggi e vedute di città inventate o copiate dalla realtà. Le loro rappresentazioni sono rigorose, sia nell’impianto spaziale, frutto di attenti calcoli e di espedienti come ad esempio la “camera oscura”. Gli spazi nell’architettura del Settecento non hanno più l’energia o l’elasticità caratteristiche del Barocco, ma acquistano una mobilità e a volte una leggerezza tutte particolari. Le decorazioni che connotano il Rococò non hanno forti rilievi rispetto alla superficie del muro e perciò non alterano l’effetto della parete dal punto di vista della percezione spaziale: l’occhio coglie l’andamento dello spazio e i margini che lo configurano. La razionalizzazione degli ambienti nelle costruzioni neoclassiche, invece, produce una spazialità limpida definita da pareti con nitidi colori. Il ruolo della luce è importante: eliminati gli effetti di addensamento delle ombre nei cavi e di rilevamento delle superfici molto cari al Barocco, la luce diventa radente e chiara per conferire agli spazi un geometrismo che ben si addice agli architetti neoclassici. Come nell’architettura classica, lo spettatore, pur nella grandiosità degli interni e delle strutture, coglie la razionale definizione dello spazio che s’appella alla ragione e non all’emozione. Fisic’Arte 82 Boullè Progetto per Cenotafio a Newton – 1784/85 Nel Progetto per il Cenotafio a Newton, con un enorme globo sferico posato su una base cili ndrica a gradoni, Etienne-Louis Boullè (1728-1799) risolve la struttura in una pura forma geometrica e la ragione della scelta di questa forma la troviamo nelle parole dello stesso architetto: “O Newton, se con l’estensione dei tuoi lumi e il sublime tuo genio hai definito la figura della Terra, io ho concepito il progetto di avvolgerti nella tua stessa scoperta”. Evocare, quindi, con quel particolare corpo geometrico, sia la visione dell’immensità dell’universo sia il trionfo della ragione, attraverso la più perfetta delle forme. La rappresentazione del tempo su una tela, come dimensione da aggiungere a quelle tradizionali trovò la soluzione più semplice attraverso la produzione di serie di istantanee da osservare in sequenza. Fra le più note ricordiamo La Cattedrale di Rouen, dipinta da Monet (1840-1926) in cinquanta quadri, molti dei quali hanno per oggetto una stessa facciata ritratta dalla medesima prospettiva. Tuttavia sono tutti differenti, come mai? A cambiare è l’istante, l'ora, il giorno. 3. L’arte del movimento “Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente” Il dinamismo è il concetto chiave dell’Arte futurista. Se nel passato alla base del concetto di bellezza c’era l’armonia e l’equilibrio ora per i futuristi, nella frenesia della vita moderna, alla base della bellezza troviamo la velocità, il movimento, la dinamicità. L’aeroplano e l’automobile diventano le immagini simbolo della modernità, esse permettono di cogliere le sensazioni di velocità, di dinamismo e di simultaneità proprie della realtà attuale. Per gli artisti futuristi il problema era catturare la forma unitaria del corpo che si muove e dello spazio in cui si muove, rappresentare la vita nel suo infinito succedersi. La rappresentazione del movimento pone inoltre il problema della durata temporale dell’azione, che i Futuristi cercano di esprimere attraverso la resa simultanea dei diversi punti di vista e la scomposizione dell’immagine, che tende a fondere forme e oggetti con Fisic’Arte 83 lo spazio circostante. Ispirandosi alla tecnica divisionista, essi fanno uso di colori puri, accostandoli secondo la legge dei complementari con un cromatismo piuttosto acceso. In un ristretto spazio urbano, un cagnolino viene condotto al guinzaglio da una figura femminile di cui è visibile soltanto la parte inferiore della veste e i piedi. Si tratta della rappresentazione analitica delle fasi successive di spostamento di un corpo sullo stesso piano, attraverso la ripetizione delle parti in movimento, che, in questo caso, sono le zampe e la coda del cane, i piedi della donna e il guinzaglio che oscilla. Lo studio del moto lineare nello spazio interessa molte opere di Balla (1871-1958), in cui osserva di volta in volta le figure umane che camminano, le automobili in corsa o i voli degli uccelli, mettendone in risalto alcune “linee andamentali” che ne determinano la traiettoria. Uno stormo di rondini passa turbinando fuori dalla finestra. Balla ne ha colto la velocità e il movimento collocandole in una sequenza precisa una dietro l'altra. Sembra che abbia incluso la rigidità dell'imposta per contrastare con l'immobilità il continuo movimento degli uccelli. Il quadro è un ottimo esempio del movimento futurista italiano, che esaltava il concetto di movimento e dinamismo come massima espressione del mondo moderno. Fisic’Arte 84 La precisione nella redazione della moltiplicazione cinetica della forma, nel frazionamento dell’immagine in una sequenza di fotogrammi successivi, suggeriscono lo svolgersi del movimento ed evidenzia la sicura conoscenza della cronofotografia. Infatti, Balla conosceva la fotografia di Marey, che descriveva i movimenti degli animali, compresi gli uccelli, con sequenze ravvicinate di immagini. Il volo di rondini e Bambina che corre sul balcone, emulano l’analisi scientifica visiva di Marey. Etienne- Jules Marey (1830-1904), che da fisiologo studiava il movimento, nel 1881 l’opera del fotografo Muybridge lo indusse a cimentarsi nella fotografia. Marey registrava le fasi successive del movimento su di un’unica lastra, e così facendo, mentre analizzava il movimento, ne creava al contempo l’immagine virtuale. Marey ebbe un’influenza notevole sui futuristi come Balla e Severini. Con il progresso dell'aviazione nasce una nuova forma d'arte: l'aeropittura, che consiste nel rappresentare la realtà vista dall'alto, in un vasto cerchio di orizzonte, anzi quasi sfericamente, con una mutabilità che è legata alla tanto maggior velocità del mezzo. Mediante le tre forme angolari bianche, che in fasi ravvicinate passano dal quasi piatto all'acuto, è espressa l'essenza e la velocità dell'aereo, e mediante la diversa posizione di case e campanili, si intuiscono le successive posizioni dell'apparecchio che determinano differenti inclinazioni del raggio visivo, cogliendo in sintesi, con la violenza della spirale, la vastità e la totalità del panorama. Fisic’Arte 85 "Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido (...), le cose in movimento si moltiplicano, si deformano susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono" La città che sale rappresenta l'immagine della città moderna di cui si vuole cogliere l'intero dinamismo. Il cavallo, rappresentato in varie immagini, è simbolo di vitalità e di forza. La nota dominante è il movimento, inteso come sintesi simultanea che travolge, in un unico turbine ascensionale, uomini, cavalli e cose, tutti pervasi da uno stesso slancio creativo. Infatti, il taglio diagonale della composizione e l’utilizzo di un colorismo acceso, che procede con energiche pennellate curvilinee, realizza l’effetto di un moto a spirale. La raffigurazione del movimento per Boccioni (1882-1916) non costituisce la semplice rappresentazione di un fenomeno fisico e meccanico, ma intende comunicare una sensazione dinamica, espressione di uno stato d’animo. Dinamismo di un corpo umano è uno dei più celebri quadri di Boccioni, nel motivo del movimento di un corpo umano, più volte affrontato. Le linee-forza qui scompongono e ricompongono l'organicità del corpo, e l'effetto dinamico diventa vivissimo anche per il colore. Boccioni, prima di eseguire il quadro, studiava i problemi di ritmo e di movimento mediante le linee-forza di tensione compositiva: in Dinamismo di un ciclista anche il colore è diventato nitido, pulito negli accordi e dà al segno pittorico un'accentuazione espressiva di moto. La scultura futurista si rivolge allo studio del movimento nello spazio, cercando di fondere la forma con l’ambiente e l’atmosfera circostante. Fisic’Arte 86 La Bottiglia si espande nello spazio con moto spiraliforme, intorno ad un asse statico: è il movimento potenziale di un oggetto inanimato, sviluppato attraverso i rapporti geometrici tra forma piramidale e cilindrica. L’uomo di Boccioni, in Forme uniche nella continuità dello spazio, raggiunge le massime velocità non con mezzi naturali ma con mezzi meccanici e di questa velocità all’artista interessa studiare gli effetti sul corpo. Con un passo lungo, le gambe tese, i glutei evidenziati, testa e torace scomposti e animati in modo che creino una compenetrazione tra spazio e luce, la figura fende lo spazio. Boccioni riesce a rendere in questa scultura l'idea dei piani che si intersecano tra di loro nello spazio, senza l'aiuto del colore, ma facendo uso di forme particolari e astratte che si susseguono creando il movimento. In questa figura è come se la scia del corpo in corsa che attraversa lo spazio, si solidificasse. C'è una simultaneità delle fasi del movimento che nella realtà vengono scandite dal tempo. Il tempo viene eliminato in una sorta di condensazione, i momenti consecutivi si fondono in un momento unico e atemporale dove c'è una velocità ''congelata''. Eliminando il tempo che separa, divide le fasi del movimento della visione sequenziale, Boccioni realizza una sintesi tra figura e spazio. La continuità tra figura e spazio esiste perchè la figura è viva, si muove e il suo dinamismo le permette di diventare "continua", quindi infinita, nello spazio. Boccioni, attraverso forme scomposte come le pinne taglienti o sguscianti dalle superfici lisce o angolose, assemblate però in un blocco duro e compatto, sperimenta pure la rappresentazione del moto relativo della figura che procede nello spazio e del moto assoluto che sottende ogni aspetto dell’universo. Tra il 1912 e il 1915, prende vita il Vorticismo, movimento culturale che grazie alla raffigurazione di forme a vortice intendeva esprimere il concetto di energia, forza e dinamismo, e che si pone come antagonista del Futurismo, scardinandone alcuni presupposti e suggerendo precocemente degli sviluppi controproducenti insiti nel progresso tecnologico, e rappresenta la prima espressione di astrattismo inglese. In realtà il vorticismo ha molti punti di contatto con la poetica futurista, oltre che con quella cubista, entrambe interessate alla possibilità di inserire nella bidimensione della tela l’effetto dinamico l’una del movimento nello spazio, l’altra del movimento indotto dal trascorrere del tempo. Il più rappresentativo di questo movimento è David Bomberg (1890-1957), il cui linguaggio, tendente all’astrattismo, è spigoloso e duro, con giochi di linee geometriche che generano immagini vorticose impetuosamente dinamiche, con effetto caleidoscopico, molto prossime all'astrazione totale. L’arte di Bomberg, all’inizio fortemente influenzata Fisic’Arte 87 dal cubismo, progressivamente si libera dalla figuratività imitativa e dalla verosimiglianza cromatica per giungere ad una personale interpretazione del Futurismo, dominata da ritmi obliqui, vivaci campiture cromatiche giocate entro un numero limitato di colori dai toni contrastanti, con prevalenza dei blu, che accentuano il senso di una vitalità impetuosa ed esuberante. La rappresentazione pittorica del movimento su un’unica tela trova una delle espressione più significative nell’opera di Malevic, L’arrotino, in cui l’uomo si concentra sul suo lavoro, ma non è solo lui che si muove ma è anche il paesaggio circostante, che sembra subire l’effetto del suo movimento , della sua voglia di trasformazione . I colori sono sgargianti, dinamici e non permettono all’occhio umano di stare fermo, tutto è in movimento, nulla è escluso. Nelle parole dello stesso Duchamp (1887-1968), l’opera Nudo che scende le scale è “un’organizzazione di elementi cinetici, un’espressione del tempo e dello spazio attraverso la rappresentazione astratta del movimento”. Il dinamismo viene congelato in una sovrimpressione di istantanee, che trasforma il quadro in una sequenza cinematografica, riuscendo a trasmettere la sensazione del movimento anche meglio di molti quadri di analogo genere prodotti dai futuristi. Fisic’Arte 88 4. Il mondo dell’arte e la fisica classica Il mondo medievale era costituito come una gerarchia rigorosa sorretta da un’unica forza che dall’alto ne dirigeva e determinava tutti gli aspetti. Il mondo era un ordine necessario e perfetto nel quale ogni cosa aveva il suo posto e la sua funzione ed era mantenuta in questo posto e in questa funzione dalla forza infallibile che determinava e guidava il mondo dall’alto. Tutto ciò che l’uomo poteva e doveva fare era conformarsi a quest’ordine. Le istituzioni fondamentali del mondo medievale, l’Impero, la Chiesa, il Feudalesimo, si presentavano come i guardiani dell’ordine cosmico e gli strumenti della forza che lo reggeva. In un mondo siffatto, la scienza non poteva desumere i suoi principi che dalle stesse gerarchie e leggi in cui si concretava l’ordine universale. In più, la scienza era guardata con sospetto, non soltanto perché attinta da fonti religiosamente sospette (musulmane e pagane), non soltanto per i pericoli di eresia che sembrava implicare a ogni passo, ma soprattutto perché minacciava di operare come elemento eminentemente dinamico, e quindi disturbatore dell’ordine costituito. Nell’affresco di Raffaello (1483-1520) nella Stanza della Segnatura in Vaticano si può notare un’idea di universo dominato dalla certezza e dalla presenza di Dio. Terra e cielo sono ben distinti e ciascuno ha un posto ed un ruolo preciso. Il cielo è la perfezione, la terra, imperfetta, il mondo degli uomini. E’ il cielo di Aristotele. Aristotele (384 a.C.-322 a.C.) formulò una cosmologia scientifica destinata a fornire la rappresentazione dell’universo per duemila anni. L’universo fisico, era, secondo Aristotele, unico, chiuso su stesso, limitato nello spazio ed illimitato nel tempo, diviso in due regioni obbedienti a leggi fisiche diverse: i cieli formati dall’etere, inalterabili e incorruttibili, soggetti al moto circolare, il più perfetto dei moti, e dove la causa della regolarità e dell’eternità del moto degli astri andava ricercata nel primo motore immobile Fisic’Arte 89 che imprimeva il moto a tutte le sfere in cui erano incastonati gli astri; il mondo sublunare, il mondo del divenire, formato dai quattro elementi, nel quale le cose nascevano, si corrompevano e perivano e dove il moto degli oggetti era rettilineo o violento. Con Leonardo da Vinci (1452-1519) la scienza, seppur in modo ancora approssimativo, si avvia verso la visione moderna. Ma quali sono le idee di Leonardo nel campo della fisica? Ebbene a Leonardo dobbiamo la teoria del moto ondoso del mare, anzi considera il moto ondulatorio il più diffuso moto naturale, per cui questo rappresenta il più universale concetto fisico che abbia elaborato. Per Leonardo luce, suono, colore, magnetismo, odore e persino il pensiero si propagano per onde: “il moto è causa d’ogni vita”. Attraverso lo studio del volo umano, la sua più superba scoperta, Leonardo riconosce che la compressione dell’aria sotto le ali produce la forza che noi oggi chiamiamo sostentatrice, studia la resistenza dell’aria e l’atmosfera terrestre, dando vita a quella che oggi chiamiamo fisica atmosferica. La pittura, per Leonardo, è scienza, rappresentando «al senso con più verità e certezza le opere di natura». Infatti, Leonardo studiò per primo in Europa la possibilità di proiettare immagini dal vero su un foglio dove potevano essere facilmente ricopiate, con la cosiddetta camera oscura, nella quale veniva praticato un unico foro su una parete, sul quale veniva posta una lente regolabile. Sulla parete opposta veniva così a proiettarsi un'immagine fedele e capovolta del paesaggio esterno, che poteva essere copiata su un foglio di carta appositamente appeso, ottenendo un risultato di estrema precisione. I codici, scritti e disegni in forma di appunti che Leonardo ha redatto lungo tutto il corso della sua vita, rappresentano la dimostrazione del suo procedere mobile e creativo, capace di passare dall'indagine del movimento delle acque agli studi sul volo usando Fisic’Arte 90 indifferentemente le parole come i disegni. L'evolversi del suo pensiero scientifico e artistico, rintracciabili nei suoi dipinti, ne fanno un corpus scientifico di valore unico, dove si manifesta un reciproco scambio, una complementarità intrinseca tra arte e scienza. La Rivoluzione Astronomica, con cui prende avvio la Rivoluzione Scientifica nel XVII secolo, rappresenta uno degli avvenimenti culturali più importanti della storia dell’Occidente, che hanno maggiormente contribuito al passaggio dall'età anticomedioevale all'età moderna. Tale rivoluzione comincia con Copernico (1473-1543), dando così inizio ad un processo di pensiero che ha coinvolto, al tempo stesso, le scienze fisiche, la filosofia, la teologia e le arti umanistiche. Di conseguenza, l'intricato processo che porta alla Rivoluzione astronomica, intesa soprattutto come un passaggio “dal mondo chiuso all'universo infinito”, non è soltanto un fatto astronomico e scientifico, ma anche un appassionante avvenimento culturale, che mutando la visione complessiva del mondo che per secoli era stata propria dell'Occidente, segna in profondità anche gli altri ambiti della conoscenza umana come quella artistica. Galileo Galilei (1564-1652) è il pioniere della nuova scienza, di questa nuova visione del mondo, e per questo motivo è tanto più significativo il rapporto, strettissimo, che ha avuto con le arti figurative. Galileo ha usato l'immagine e ha contribuito a far sì che questo mezzo di espressione entrasse da protagonista nella comunicazione della scienza. Quando nel 1609, ebbe l'idea di puntare il cannocchiale verso il cielo, a iniziare dalla Luna, non si limitò a scrivere ciò che aveva visto, ma cercò anche di raffigurarlo, dandoci immagini molto precise e ben dettagliate soprattutto della Luna. Il suo Sidereus Nuncius è diventato un libro spartiacque nella storia dell'uomo non solo per il suo contenuto e per come è stato scritto, ma anche per come è stato raffigurato. Ma il rapporto con la pittura di Galileo non si limita alla sua capacità di disegnare. Le sue scoperte sono diventate uno tra i soggetti più frequentati dalla nuova arte del Seicento, in particolare del naturalismo barocco. Adam Elsheimer (1578-1610) pochi mesi dopo la pubblicazione del Sidereus ha rappresentato il cielo galileiano nella sua Fuga in Egitto, dove è riprodotta la Luna insieme a molte stelle e si riconosce persino la Via Lattea. Analizzando poi le costellazioni rappresentate la costellazione in alto a destra potrebbe suggerire l'Orsa Maggiore seppur rappresentata troppo piccola rispetto al diametro della Luna. Si sostiene che la rappresentazione del cielo sia esattamente quella visibile a Roma il 16 Fisic’Arte 91 giugno 1609 e che l'autore abbia fatto uso di un telescopio. Tuttavia, una ricostruzione a computer di questo cielo ritenuto una fedele rappresentazione del vero cielo del 16 giugno, o del 21 marzo, o del 19 aprile 1609, ha stabilito che in realtà non si tratta di una copia "dal vero" e non si tratta di una notte precisa. Ludovico Cardi detto il Cigoli (1559-1613), grande amico di Galileo, ha rappresentato più volte la Luna descritta dallo scienziato pisano. Nella corrispondenza fra i due si legge spesso delle macchie solari che il pittore toscano osservò personalmente, confermando le tesi dell'amico scienziato. In questo mutuo scambio il Cigoli dette l'occasione a Galileo di inserirsi, con una breve dissertazione contenuta in una lettera, nel dibattito, ormai divenuto passatempo intellettuale, su quale fosse l'arte preminente tra la pittura e la scultura, visto che si riteneva la scultura superiore alla pittura per la possibilità che aveva di riprodurre la tridimensionalità dei soggetti. Nella lettera del 26 giugno 1612 lo scienziato, premettendo la differenza tra percezione tattile e visiva, accordò alla pittura la supremazia rispetto all'arte sorella: Di quel rilevo che inganna la vista, ne è così partecipe la pittura come la scultura, anzi più; poiché nella pittura, oltre al chiaro et allo scuro, che sono, per così dirlo, il rilevo visibile della scultura, vi ha ella i colori naturalissimi, de' quali la scultura manca. […] Non ha la statua il rilevo per esser larga, lunga e profonda, ma per esser dove chiara e dove scura. […] E tutto questo è nella pittura non meno che nella scultura, dico il chiaro, lo scuro, la lunghezza e la larghezza: ma alla scultura il chiaro e lo scuro lo dà da per sè la natura, ed alla pittura lo dà l'arte: adunque anche per questa ragione si rende più ammirabile un'eccellente pittura di una eccellente scultura. Galileo, in linea con il suo metodo di indagine, propose una semplice esperienza: se si colora, infatti, un oggetto tridimensionale in modo che dove cade la luce risulti scuro, questo perde "il rilievo" e colui che guarda vede l'oggetto come fosse bidimensionale. Un importante tributo che il Cigoli pagò allo scienziato fu l'affresco dell'Assunzione della Vergine nella Cupola della Cappella Paolina in Santa Maria Maggiore a Roma, nel quale dipinse la luna sotto i piedi di Maria non mentre si ergeva sulla classica luna crescente, ma, per la prima volta nella storia dell’arte, esattamente come l'aveva rivelata il telescopio di Galileo e descritta nel Sidereus Nuncius: scabrosa, con i crateri e le ombre, e una specie di nuvola sottostante che simula i vapori, insomma corruttibile come la terra. La scoperta scientifica, quasi contemporaneamente alla sua diffusione, viene quindi adattata al campo della figurazione sacra in una delle più importanti cappelle della Roma del ‘600. È significativo ricordare il giudizio che diede dell’affresco uno degli uomini più colti di Roma, Federico Cesi, scienziato e fondatore dell’Accademia dei Lincei, in una lettera Fisic’Arte 92 inviata a Galileo nel 1612. È un elogio all’affresco del Cigoli, il quale «come amico e leale» di Galileo, «sotto l’immagine della beata Vergine ha dipinto la Luna nel modo che da Vossignoria è stata scoperta, colla divisione merlata e le sue isolette». Questa luna opaca e materica, come dipinta dal Cigoli, entrerà poi lentamente nell’iconografia dell’Immacolata, come dimostra la splendida tela di Murillo (1618-1682). Un precedente illustre, ed anche il primo, di una rappresentazione realistica di un fenomeno astronomico in una opera artistica, è L’adorazione dei Magi (1303) di Giotto. Giotto raffigurò la Cometa di Halley che aveva osservato al suo passaggio nel 1301 usandola come modello per la stella di Betlemme. Inoltre, nel giorno dell'Annunciazione, dedicato alla Madonna, un raggio di sole penetra da una fessura praticata ad una finestra della cappella e si verificano degli effetti di luce straordinari. Alcune strisce di luce colorate colpiscono la Madonna e salgono sulla miniatura della Cappella, a testimonianza della conoscenza del concetto di eclittica. Giotto – Adorazione dei Magi (1303) Giotto – Adorazione dei Magi (1303) Grazie a Galileo e a Newton la scienza, e la fisica in particolare, subisce un profondo riassestamento concettuale, aprendo le porte all’età della modernità. Astronomia, fisica e cosmologia da un lato, metodo di ricerca filosofica dall'altro, furono solidali e costanti nel procedere secondo una sola direzione, quella che avrebbe portato a concepire il Mondo come un'unica grande macchina, il cui meccanismo poteva rivelarsi banale a un'indagine scientifica condotta con i nuovi strumenti della fisica e della matematica. Galileo, inoltre, riteneva che la descrizione del mondo dovesse attuarsi passando per una riduzione di tutte le sue caratteristiche a quelle solamente che fossero quantificabili e misurabili. Ma fu con Newton (1643-1727) che l'immagine dell'universo-macchina, dell'ideale riduzionista, ebbe il suo trionfo. Egli realizzò il sogno di Cartesio e sviluppò una completa formulazione matematica della visione meccanicistica della natura. L'universo newtoniano Fisic’Arte 93 era un immenso sistema meccanico governato da leggi assolute ed esatte, leggi generali, valide per spiegare tanto la caduta di una mela dall'albero quanto i movimenti dei pianeti. Nei Principia mathematica Newton mette subito in evidenza il proprio atteggiamento riduzionista; anzitutto, gli elementi che formano il Mondo si muovono, per il fisico, in uno spazio e in un tempo assoluti, non condizionati cioè dagli eventi che si verificano dentro di essi, quindi eterni e immutabili. Questi elementi, poi, sono particelle, atomi, formati tutti della stessa materia e messi in movimento dalla forza di gravità, la quale agisce a distanza e istantaneamente. Nella meccanica di Newton tutti i fenomeni fisici si riconducono al moto di particelle elementari e materiali causato dalla loro attrazione reciproca; un'unica grande legge, quindi, a spiegazione della molteplicità degli eventi del Cosmo. L'equazione del moto di Newton diventa così la legge fondamentale del funzionamento dell'universo, la molla che carica l'orologio perfetto di Cartesio, eterna e immutabile. In questa maniera si connettono fra loro, in un'unione destinata a durare per tutto il Settecento e buona parte dell’Ottocento, la visione meccanicistica della natura e il determinismo, cioè quel atteggiamento che tende a interpretare ogni fenomeno come la manifestazione di una semplice catena di causa-effetto. In questo quadro, l’Onnipotente di William Blake (17571827) è possibile ritrovare una chiara esemplificazione dell’universo di Newton, un universo in cui le leggi della meccanica dominano, in cui tutto si riduce a moto, in cui Dio è un geometra. Nella seconda metà del XVIII secolo, la società inglese subì un mutamento sostanziale in conseguenza del progresso scientifico e tecnologico, basti pensare alla macchina a vapore inventata da Watt nel 1769, che trasformò un paese prevalentemente agricolo in una vera potenza industriale. In questo quadro culturale si inseriscono alcuni artisti di grande rilievo, che fanno delle nuove scoperte scientifiche il fulcro predominante della loro arte. Joseph Wrigth di Derby (1734-1797) denominato il pittore della scienza, fu il primo pittore professionista che espresse direttamente lo spirito della rivoluzione industriale, e fu un pioniere soprattutto quando scelse l’industria come soggetto di molti dei suoi più importanti dipinti. Con Wrigth la scienza diviene soggetto dell’opera d’arte, mezzo di divulgazione, occasione di confronto e di emancipazione sociale. La scena del quadro raffigura uno scienziato mentre sta eseguendo un esperimento nuovo per quei tempi: dimostrare che l'assenza di ossigeno provocava la morte. Per questo l'aria, grazie ad una pompa Fisic’Arte 94 pneumatica perfettamente uguale a quelle in uso all’epoca e che è la protagonista della scena, veniva pompata fuori da un contenitore nel quale era rinchiuso un animaletto (in questo caso un pappagallo bianco). Sul tavolo ci sono le due parti di una "sfera di Magdeburgo" che veniva usata per simulare, in piccolo, lo stesso esperimento del vuoto d'aria: le due parti venivano unite, poi l'aria all'interno veniva pompata fuori, in maniera tale che le due parti diventavano inseparabili, formando una sfera monolitica. La pompa ad aria venne inventata da Otto von Guericke nel 1650, anche se il suo costo dissuase la maggior parte dei contemporanei a costruire l'apparecchio. Wright per la prima volta propone un soggetto scientifico, in questo caso un esperimento di vuoto pneumatico, con la stessa ambientazione e rispetto precedentemente riservati ai soggetti religiosi. La scena, illuminata solo da una candela, e le diverse emozioni evidenziate dai vari personaggi esprimono i sentimenti contrastanti dell'epoca verso la scienza: meraviglia e timore, interesse e sgomento, curiosità e paura. A quel tempo venivano espressi dubbi sul fatto che le conoscenze razionali o scientifiche fossero in grado di rispondere a tutte le domande e di spiegare, in maniera soddisfacente, tutti i misteri della natura. Nell'ultimo decennio del XIX secolo la fisica aveva accettato le idee rivoluzionarie di Maxwell e di Boltzmann, accogliendo nel suo seno leggi probabilistiche; ma tra certezza e probabilità c'e un abisso. La fisica classica si trovò, dunque, di fronte a un dualismo inevitabile. In presenza di una qualunque legge che credesse d'interpretare un fenomeno, la fisica si doveva chiedere: è questa una legge dinamica, causale o una legge statistica di probabilità? Davanti a questo dualismo i fisici si divisero in due schiere. I pochi volevano superarlo negando l'esistenza di leggi certe e dando a tutte le leggi fisiche carattere di probabilità; i molti volevano ricondurre tutte le leggi statistiche a leggi dinamiche elementari. Le leggi statistiche, dicevano, sono sintesi di leggi individuali dinamiche causali, che la nostra mente non riesce a seguire tutte assieme; la probabilità che risulta dalle leggi statistiche è solamente la misura della nostra ignoranza; la scienza non si può fermare alle leggi statistiche, ma deve risalire da queste alle leggi individuali dinamiche che le compongono, perché solamente così la nostra mente può seguire i nessi causali. Ovviamente questi fisici ritenevano pienamente valido il rigido determinismo dei fenomeni naturali, affermato da Laplace. Ma gli ultimi anni del XIX secolo dovevano mettere in discussione questo rigido determinismo e dare il via alla crisi della fisica classica che si concretizzerà nei primi decenni del XX secolo ad opera della teoria della relatività e della meccanica quantistica. Nell’arte tutto ciò si manifesta nell’inquietudine, nell’insofferenza, nella ricerca di nuovi linguaggi estetici. L’arte diventa espressione della coscienza dell’uomo contemporaneo lacerato dalla mancanza di facili certezze. Lo storico dell'arte Arnheim ha cercato di dimostrare in un suo saggio (questo sarà argomento del prossimo capitolo) che l’arte contemporanea nasce dallo scontro tra semplicità (ordine) e caos (entropia) e forse è anche da questo che scaturiscono i molteplici linguaggi caratterizzanti le tendenze stilistiche tipiche dell’arte contemporanea. Tutto questo implicherà, soprattutto nel Novecento, un notevole spostamento di prospettiva: si mostra anzitutto come ogni idea di esattezza nella scienza, se è scaturita da una concezione del Mondo come meccanismo semplice, sia fittizia. Di conseguenza, si è manifestato il carattere puramente descrittivo delle leggi scientifiche, la loro incapacità, cioè, di andare oltre la semplice supposizione di uno stato di cose, di spiegare davvero un fenomeno, fatto questo che mette sotto una luce diversa anche il concetto di osservazione e Fisic’Arte 95 di esperimento, nonché quello di verità. Se le leggi non ci dicono nulla di preciso e affidabile riguardo il verificarsi di un fenomeno nello spazio e nel tempo, se sono ormai soltanto la descrizione di una possibilità che le cose accadano, allora la scienza si riduce ad essere solo uno dei possibili discorsi sul mondo, non più l'unico esatto. Del resto, l'osservazione di un fenomeno non è più il punto di partenza per individuare una spiegazione; compiere un esperimento non è più un atto costitutivo della conoscenza, ma piuttosto una pratica esplorativa, un modo come un altro per conoscere. Siamo passati così da un'immagine della scienza come episteme, cioè sicurezza, certezza, raggiungimento della verità, alla scienza come doxa, sapere fallibile, ipotetico, opinione, un discorso intorno alle cose. Forse è questo l'aspetto più importante che porterà alla crisi della fisica classica e che rappresenterà l’aspetto fondamentale della scienza del '900. Fisic’Arte 96 Capitolo 5 ARTE#E#FISICA#MODERNA# 1. Introduzione Con il nome di fisica moderna intendiamo tutti gli ambiti e i settori della fisica che fanno uso della teoria della relatività e della meccanica quantistica, teorie scientifiche prodotte nel XX secolo sulla base di un’analisi critica dei fondamenti della fisica classica, in particolare della meccanica newtoniana. Tra le implicazioni più importanti che la teoria della relatività (ristretta e generale) introduceva nel nuovo quadro che si andava disegnando vi era la variabilità dello spazio, del tempo e della massa con la velocità, la sostanziale identità tra massa ed energia, la deformabilità dello spaziotempo con la massa. La teoria einsteiniana non intaccava, però, il quadro deterministico (validità del principio di causa ed effetto) della fisica classica. La grande rivoluzione in questo senso si ebbe con la meccanica quantistica, le cui più importanti conseguenze per la nuova visione del mondo erano: il dualismo onda-corpuscolo, sia per l'energia che per i corpuscoli materiali e la natura probabilistica della conoscenza del mondo microscopico, per cui la causalità deterministica, pilastro delle teorie fisiche precedenti, veniva abbandonata in favore di teorie basate esclusivamente sulla probabilità. Quando si discute sull’arte moderna e contemporanea, quindi, è determinante aprirsi a nuove possibilità di discussione, cioè alle identità culturali che la circondano, e quindi di fondare, in particolare, sulla stutturalità delle conoscenze della fisica teorica la frontiera di corroborazione capace, non di spiegare, ma di attestare la pertinenza dell’opera d’arte al momento storico-culturale che le ha prodotte. La fisica apparirà, allora, come uno strumento efficace capace di vincolare verso le conoscenze del nostro tempo le testimonianze e le espressioni dell’arte. Le scienze non possono essere separate dall’avventura umana; Einstein diceva: “Dove il mondo cessa di essere il palcoscenico delle nostre speranze e dei nostri desideri per divenire l’oggetto della libera curiosità e della contemplazione là iniziano arte e scienza”. Se cerchiamo di descrivere la nostra esperienza all’interno degli schemi della logica, entriamo nel mondo della scienza; se invece le relazioni che intercorrono tra le forme della nostra rappresentazione sfuggono alla comprensione razionale e pur tuttavia manifestano intuitivamente il loro significato, entriamo nel mondo della creazione artistica. Ciò che accomuna i due mondi è l’aspirazione a qualcosa di non arbitrario, di universale. I due pilastri concettuali della fisica moderna, la Relatività e la Meccanica Quantistica, però, hanno caratteristiche strutturali e connotazioni epistemologiche molto diverse, e queste differenze influiscono direttamente sulle immagini e sul linguaggio che utilizziamo Fisic’Arte 97 per queste due visioni del mondo, ed è da queste che vogliamo partire per un viaggio attraverso le suggestioni cognitive che hanno prodotto nell’arte del XXI secolo. 2. Spazio e tempo nell’arte del XXI secolo La fisica, come formatrice di nuovo sapere, attraverso le sue scoperte ed i suoi principi, che possono essere considerati come strumenti intellettuali con cui gli uomini ritengono utile ed opportuno organizzare le loro rappresentazioni mentali della struttura interna del mondo reale, diventa il luogo centrale della formazione dei processi di sviluppo della conoscenza. Il concetto di spazio e di tempo sono così basilari per la nostra descrizione dei fenomeni naturali, che la loro radicale modificazione, comporta indubbiamente una modificazione dell’intero sistema di riferimenti che noi usiamo in fisica per descrivere la natura. La tridimensionalità dello spazio e l’unicità del tempo appartengono ad un modello di percezione cartesiana del mondo nella quale si ritiene che le immagini siano una riproduzione fedele della realtà. La percezione tridimensionale dello spazio è stata determinata antropologicamente dalla necessità di sviluppare facoltà mentali di riconoscimento della materia e del suo movimento. Tale prospettiva percettiva diventa insufficiente quando il problema epocale della percezione immaginativa si focalizza sulla rappresentazione non direttamente percettibile dell’energia. Inoltre, l’immagine prospettica fissata sulla tela e’ limitata dal fatto che può rappresentare solo un istante della percezione, pertanto la prospettiva coglie un solo punto di vista come una foto coglie solo un momento quale immagine del fotogramma. La semantica della espressione unidimensionale e lineare del tempo esprimibile in termini "passato," "presente" e "futuro” si associava perfettamente alla prospettiva nelle tre dimensioni dello spazio ma tale visione era divenuta insufficiente a dare una descrizione adeguata del divenire del tempo. Se a queste considerazioni di carattere puramente geometrico aggiungiamo il fatto che le immagini della pittura non potevano più esercitarsi a competere con la fotografia ed il film nel riprodurre fedelmente la realtà percepita mediante una concezione tradizionale prospettica della visione, allora la concettualità del modello cartesiano entra in crisi e gli artisti dell’inizio del XX secolo si trovarono nella necessità di esprimere le sensazioni artistiche attraverso schemi pittorici più profondi e dinamici, del tutto rivoluzionari rispetto all’arte fino ad allora prodotta. La fine del XIX secolo, pertanto, si caratterizza come un periodo pieno di fermenti sia nel campo scientifico che in quello delle arti figurative. La meccanica newtoniana era accreditata come la più compiuta delle scienze e la termodinamica aveva trovato una descrizione coerente nell’ambito del meccanicismo. D’altra parte l’elettromagnetismo aveva raggiunto piena maturità, ma sembrava irriducibile alla meccanica. Si era in presenza di due teorie di pieno successo nel loro ambito, ma assolutamente irriducibili. La concezione meccanicistica del mondo quindi entra in crisi e ciò apre la strada alle due grandi teorie scientifiche del XX secolo, la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica, che rivoluzionano la visione del mondo macroscopico e microscopico. Così quando nel 1905 appare la teoria di Einstein della Relatività Ristretta, dove il concetto di spazio e quello di tempo sono intimamente ed inscindibilmente connessi, sì da formare un continuo quadridimensionale chiamato “spazio-tempo” (detto anche cronotopo), le idee classiche di uno spazio assoluto e di un tempo assoluto vengono radicalmente mutate e poi abbandonate. Secondo la teoria di Einstein, tanto lo spazio quanto il tempo sono Fisic’Arte 98 concetti relativi, ridotti al ruolo soggettivo di elementi del linguaggio che un particolare osservatore usa per descrivere fenomeni naturali. D’ora in poi non potremo più parlare di spazio senza parlare anche di tempo e viceversa. La conseguenza più importante del sistema relativistico è stata la presa di coscienza del fatto che la massa non è altro che una forma di energia. Anche un oggetto in quiete ha dell’energia immagazzinata nella sua massa e la relazione fra le due è data dalla famosa equazione E=mc2 , dove “c” è la velocità della luce. I cubisti, i futuristi e i dadaisti conoscevano certamente questi studi, o perlomeno respiravano il nuovo clima che la fisica andava elaborando. La Teoria della Relatività metteva in questione la stabilità di tutte le forme spazialmente estese, sostenendo che i corpi cambiano la loro forma, quando si muovono, rispetto ad un sistema di riferimento fisso. Un corpo rigido, che ha la forma di una sfera quando è visto in stato di quiete, comincerà ad assumere una forma ellissoidale, quando è osservato in movimento; tutti gli oggetti tridimensionali si ”contrarranno in figure piane” quando la loro velocità relativa raggiunga la velocità della luce. La teoria generale della relatività demolisce invece il senso convenzionale di stabilità dell’intero universo materiale. Secondo Einstein ogni frammento di materia nell’universo genera una forma gravitazionale che accelera tutti i corpi materiali nel suo campo e modifica la loro dimensione visibile: non ci sono più corpi rigidi. L’Avanguardia Storica dei primi anni del secolo corre in parallelo alle scoperte della Relatività. Il Cubismo infatti rifletterà il senso della relatività della conoscenza; tale movimento non esprime più l’oggetto nella sua tradizionale collocazione spaziale, ma ne smonta la volumetria, cercando di rappresentare dell’oggetto tutti gli aspetti esprimibili in una simultaneità di visioni. Nel Futurismo lo spazio è reso come elemento attivo e costituente l’atmosfera, al pari del “soggetto”, un’atmosfera che è messa in movimento dai corpi in moto che la fendono e che interessa due entità: l’oggetto che si muove e lo spazio in cui si muove. I corpi, sotto la spinta della velocità, si deformano fino al limite dell’elasticità e si scompongono secondo le tendenze delle linee di forza. Ma procediamo con ordine. Prima della grande innovazione artistica introdotta da Picasso, vari artisti cominciarono a svincolarsi dalle leggi della costruzione prospettica, in particolare Cezanne (1839-1906) si impegnò a variare la prospettiva, in modo che le parti che compongono i suoi quadri fossero percepite da angoli di percezione diversi. Nel dipinto Natura morta Cezanne propone diversi punti di fuga in modo da mettere in evidenza più piani prospettici: il piatto e il piano del tavolo sono proposti sia frontalmente che dall'alto. La luce soffusa che avvolge l'immagine del dipinto Mont Saint-Victorie illumina una composizione composta, ferma, solida ed ordinata, nella quale i piani, soprattutto verticali, si dispongono in modo organico e Fisic’Arte 99 preciso, secondo una costruzione dell'insieme che vuole analizzare da più punti di osservazione il soggetto nella sua struttura profonda. Esiste in Cezanne una visione prospettica, ma l'osservazione avviene da angoli visivi diversi, con spostamenti del punto di vista a volte minimi, e neppure percepibili ad un primo sguardo, ma che di fatto demoliscono il principio fondamentale della prospettiva: l’unicità del punto di vista. Un altro punto fondamentale della ricerca di Cezanne è l'intenzione di trovare in qualche modo una lettura geometrica della realtà che conferisca chiarezza e leggibilità all'immagine, tanto che egli suggerisce, in una lettera inviata ad un giovane pittore, di guardare la natura attraverso "il cilindro, la sfera, il cono", elementi geometrici elementari in grado di facilitare una semplificazione delle forme che mantenga al tempo stesso solidità e profondità alla rappresentazione. Cézanne, primo decostruttore della forma dall’interno, distruttore del punto di vista unico, pone importanti premesse che verranno riprese e sviluppate nel cubismo e che si ritrovano, all’inizio del ‘900, in un importante filone dell’architettura basato sulla ricerca della verità strutturale della forma architettonica attraverso un approccio analitico e matematico alla realtà, il razionalismo, di cui è fondatore Le Corbusier (1887-1965). Per questa via Cezanne propone per la prima volta una realtà analizzata intellettualmente secondo una logica non naturalistica, ed è facile capire come i giovani artisti del movimento cubista, primo fra tutti Picasso, siano stati colpiti dall'opera di Cezanne. Avevano davanti ciò che da sempre ricercavano, l'esempio di una realtà non copiata ma costruita ed espressa attraverso la ricerca dei suoi aspetti essenziali, eterni, sovrasensoriali, pensata con la mente in tutte le sue varianti possibili, che l'occhio non può percepire contemporaneamente. Su questa ricerca, che col tempo divenne il tema fondamentale per l'artista, osserva molto pertinentemente Marco Vozza: "Alla luce del principio di indeterminazione di Heisenberg, lo scienziato osserva il comportamento degli elettroni allo stesso modo in cui Cezanne pose il suo cavalletto di fronte alla Saint-Victoire, consapevole dell'inevitabile relazione di incertezza determinata dal suo punto di osservazione". Cezanne pose quindi le basi non solo del Cubismo, ma grazie alla sua tecnica pittorica aprì le strade alle avanguardie artistiche europee del '900 che sconvolgeranno il mondo dell'arte cambiandolo per sempre. Ma la vera grande rivoluzione delle forme pittoriche, la definitiva rottura con la prospettiva rinascimentale e l’introduzione di un nuovo concetto di spazio pittorico sono prodotti da Picasso. Analizziamo le varie fasi e i contenuti più significativi di queste innovazioni artistiche e concettuali. Berna, 30 giugno del 1905. Un giovane fisico tedesco, Albert Einstein (1879-1955), 26 anni appena compiuti, invia alla rivista "Annalen der Physik" l’articolo sulla "Elektrodynamik bewegter Körper" in cui assume che la velocità della luce è costante in qualsiasi sistema di riferimento e che il principio di relatività galileano è valido per ogni sistema fisico in moto relativo uniforme. L’articolo manda definitivamente in frantumi la concezione classica del tempo e dello spazio. Parigi, anno 1906. Un giovane pittore spagnolo, Pablo Picasso (1881-1973), 25 anni appena compiuti, dà la prima pennellata a Les Damoiselles d’Avignon. Le cinque damigelle di Avignone rivivono sulla tela di Picasso in una «prospettiva spaccata, frantumata in volumi… incidenti l’uno nell’altro», che ce le propone in simultanea sebbene ciascuna viva in una sua dimensione spaziale (la donna in basso a destra mostra la schiena ma il volto è ritratto Fisic’Arte100 frontalmente). Viene rifiutata ogni illusorietà spaziale: ogni distinzione tra oggetto e spazio in cui esso è collocato viene a cadere, come pure mutano all’interno dell’oggetto stesso i rapporti tra le parti. Nell’ opera Picasso non solo dipinge lo spazio tra le figure con solidi spigolosi blu, ma gli spigoli di tali geometrie compenetrano le figure, costruendo una sintesi tra spazio e oggetto. Lo spazio e l’oggetto si influenzano a vicenda (tipico concetto della Teoria della relatività, in cui materia e spazio si influenzano a vicenda). Le figure tendono ad essere descritte come composizioni di forme geometriche astratte, componendole e ricomponendole. Picasso si propone di smontare il sistema percettivo spazio temporale su cui era stata costruita la pittura accademica sulla base della definizione delle regole della rappresentazione prospettica. Infatti, nel dipinto è visibile come lo spazio e il tempo siano scomposti in volumi bidimensionali distinti ma simultaneamente percepiti da postazioni diverse dei vari osservatori. Picasso affermava, e con esso il movimento cubista, che, per conoscere a fondo la realtà, era necessario indagarla con la propria mente, andando oltre l’apparenza delle cose. Essi sostenevano infatti che ognuno di noi possiede una visione mentale degli oggetti, ossia la visione che si forma nella nostra mente unendo i diversi punti di vista. I Cubisti cercano di realizzare, in sostanza, una rappresentazione non più riferita a ciò che dell’oggetto si vede, ma rivolta a cogliere ciò che dell’oggetto si conosce. I cubisti cercarono quindi di riprodurre questa visione mentale, rappresentando ogni oggetto contemporaneamente da più punti di vista, creando quella che essi chiamarono la visione simultanea. In questo modo veniva superata la visione prospettica tradizionale, che prevedeva un solo punto di vista all’interno del dipinto e tre dimensioni (altezza, larghezza e profondità), e introdussero quella che definirono la «quarta dimensione», che implicava oltre alla fusione delle tre dimensioni anche il concetto di tempo. Infatti la visione simultanea di tanti punti di vista contiene in sé il tempo indispensabile al pittore per studiare e scomporre l’oggetto e alla nostra mente per ricostruirlo. Il poeta Apollinaire (1880-1918), che partecipò a quasi tutti i movimenti d'avanguardia dei primi anni del Novecento, divenendo il teorico del movimento pittorico cubista, nota che: “I pittori sono stati portati naturalmente e, per così dire, intuitivamente, a preoccuparsi di nuove misure possibili dello spazio che, nel linguaggio figurativo dei moderni, si indicano tutte insieme brevemente con il termine di quarta dimensione. […] Dal punto di vista plastico, la quarta dimensione rappresenta l’immensità dello spazio, che si eterna in tutte le dimensioni in un momento determinato.” Fisic’Arte101 Per esempio, di un normale bicchiere noi non conosciamo solo ciò che vediamo da un unico punto di vista, ma ne cogliamo la forma circolare dell’orlo, lo spessore del vetro e le molteplici forme che assume se lo osserviamo da punti di vista differenti (prime cinque figure). Nelle opere dei pittori cubisti è raffigurata la nostra «immagine mentale», che riassume tutti i punti di vista in un’unica raffigurazione dell’oggetto. Il sesto disegno mostra una delle fasi di sovrapposizione dei diversi punti di vista; l’ottavo disegno presenta la composizione finita. I pittori cubisti rappresentano nelle loro opere quella che potremmo definire la nostra immagine mentale della realtà, che riassume tutti gli aspetti del soggetto raffigurato e non lo rappresenta solo da un particolare punto di vista. In tal modo impongono agli osservatori di andare oltre l’apparenza delle cose, per comprendere più a fondo la realtà e cogliere l’idea di un complesso spazio-temporale infinito. I cubisti tuttavia non giunsero mai fino all’astrazione e furono sempre attenti a non allontanarsi troppo da quanto vedevano intorno a loro, proprio per permettere agli osservatori di ricostruire il processo mentale che aveva guidato l’artista nella creazione del dipinto. L’idea di alterare l’unicità del punto di vista, cioè il principio basilare della prospettiva, collimò con la acquisizione della relatività scientificamente pronunciata da Einstein per cui il tempo dipendendo dallo stato e dal moto dell’osservatore, non può più essere sincronizzato da un unico punto di vista. Il quadro inaugura la stagione del cubismo e manda definitivamente in frantumi la concezione classica dello spazio e del tempo. Le due opere, il quadro e l’articolo, con strumenti diversi affrontano il medesimo problema: la natura della simultaneità. E, negli stessi mesi, giungono alla medesima conclusione iconoclasta: la degradazione di una concezione plurimillenaria dello spazio classico quale assoluto e ineffabile contenitore degli eventi cosmici. C'è una qualche correlazione tra queste due opere che aprono una nuova era, rispettivamente, nell’arte figurativa e nella fisica? C’è qualcosa che lega il più grande pittore del XX secolo, Picasso, al più grande fisico del XX secolo, Einstein? Einstein si arrovella intorno alla natura della simultaneità, cioè se e quando due eventi che avvengono nell’universo possono essere considerati simultanei nel tempo. E se la simultaneità temporale sia assoluta, valga per tutti e in ogni condizione. È grazie a questa riflessione che Einstein giunge alla conclusione che non esistono sistemi di riferimento assoluti. Poi Einstein introduce il concetto della invariabilità della velocità della luce: la luce viaggia nel vuoto a 300.000 chilometri al secondo, la sua velocità non può essere superata. Ne deriva che, qualsiasi sia il sistema di riferimento di chi la osserva, la velocità della luce risulta sempre costante. Da tutto questo deriva che non esistono eventi simultanei in assoluto nell’universo, ma che la simultaneità temporale dipende dal sistema di riferimento. Cosa c’entra Picasso con tutto ciò? Beh, c’entra. Perché il Fisic’Arte102 pittore spagnolo, come tutti i (futuri) esponenti del Cubismo all’inizio del XX secolo è impegnato in un vero e proprio programma di ricerca: la riduzione delle forme a rappresentazione geometrica. Il programma di ricerca di Picasso, come quello di Einstein, riguarda la simultaneità, anche se riferita allo spazio invece che al tempo. E l’ottica di Picasso è la medesima di Einstein: non esistono sistemi di riferimento privilegiati. La simultaneità assoluta non esiste. E ciascuno ha una visione dei fenomeni che avvengono nello spazio che dipende dal punto di osservazione. In definitiva, entrambi, Einstein e Picasso, tra il 1905 e il 1906 scoprono il concetto di relatività. Il primo (non senza incontrare ostacoli e resistenze) conferisce a questo concetto una piena dignità scientifica, attraverso un modello matematico. Il secondo (non senza incontrare ostacoli e resistenze) gli conferisce una piena dignità artistica, attraverso un nuovo modello geometrico. La fonte unica, alla quale entrambi i geni si sono abbeverati, è il matematico Poincaré (1854-1912), che ha affrontato il tema della simultaneità e la necessità di un approccio non euclideo (non classico) alla geometrizzazione del mondo fisico in un libro pubblicato nel 1902, La Science et l’hypothèse. Si sa per certo che Einstein legge direttamente Poincaré e che anche Picasso viene a conoscenza delle profonde idee del matematico francese attraverso le accese discussioni interne al circolo di giovani, «la banda Picasso», che frequenta a Parigi. Nelle discussioni sulla natura dello spazio, Picasso trova ispirazione per dare seguito artistico al suo progetto di ricerca sulla riduzione delle forme a rappresentazione geometrica. Nell’ultimo secolo, dopo Einstein e dopo Picasso, la nostra visione dello spazio e del tempo è senza dubbio cambiata. Tutti noi sentiamo in qualche modo che non viviamo in uno spaziotempo assoluto, ma relativistico. Appare singolare, ma fino ad un certo punto, come in due campi diversissimi tra loro per il metodo della conoscenza utilizzato, ma complementari, come l’arte e la scienza, si avverta la medesima necessità di andare oltre la conoscenza empirica della realtà oggettiva, per giungere a costruire nuovi modelli di descrizione e rappresentazione di una realtà energetica, offrendo una nuova chiave di lettura ai concetti generalmente sottesi alle teorie spazio-temporali di descrizione degli eventi. Tra i maggiori protagonisti di questo nuovo modo di rappresentare la tridimensionalità dello spazio, di frantumare lo spazio pittorico e prospettico, dobbiamo ricordare Georges Braque (1882-1963). Il dipinto Violino e brocca sembra a prima vista incomprensibile, eppure, osservandolo attentamente, emergono dalla sua superficie alcuni oggetti noti, come la brocca ed il violino, che il pittore ha attentamente studiato e riprodotto frammentandoli e scomponendoli. I rapporti spaziali tra gli oggetti sono illogici. Il piano orizzontale su cui è appoggiata la brocca è, ad esempio, rappresentato in posizione verticale dietro l’oggetto, mentre il violino in primo piano pare addirittura dissolversi e diventare tutt’uno con lo sfondo. La luce sembra provenire da più direzioni: il chiaroscuro è infatti utilizzato liberamente per dare tridimensionalità ai molti piani che frantumano gli oggetti e lo spazio vuoto dello sfondo. L’opera di Braque fu Fisic’Arte103 costantemente caratterizzata dalla problematica della rappresentazione dell’oggetto nello spazio e dello spazio vuoto tra gli oggetti, che è diventa a sua volta soggetto del dipinto. La frantumazione dello spazio prospettico, utilizzato nella pittura dal Rinascimento in poi, determina la sensazione che gli oggetti non siano disposti nello spazio, ma che siano essi stessi e i mille piani che li suddividono a creare lo spazio. La rappresentazione cubista dello spazio è del tutto rivoluzionaria, perché lo spazio vuoto sembra non esistere, in quanto tutto è portato in primo piano e gli oggetti sembrano compenetrarsi tra loro e con gli elementi dello sfondo. Nell’opera Natura morta con le Jour ogni dato informativo è compresente, simultaneamente, al momento della visione. La tridimensionalità viene resa con l’espediente compositivo della moltiplicazione dei punti di vista, per cui di ogni oggetto sono rappresentati fronte e retro. Altro importante artista che partecipò all’avventura cubista è Juan Gris (1887-1927). La particolarità dell’opera di Gris era la capacità di adottare le forme geometriche per rappresentare cose e figure, a differenza degli altri interpreti del cubismo che partivano dalle forme della realtà per ridurle in termini geometrici. Così in Omaggio a Picasso la figura è composta attraverso un repertorio geometrico preordinato che l’artista ha organizzato per tradurlo in viso, corpo e spazio Con la crisi della scienza come affinamento del senso comune, l’idea di quadro come riproduzione o mimesi della realtà, criterio con il quale si giudicava la bontà di un’opera d’arte dal Rinascimento in poi, entra in crisi, e come abbiamo visto, Les Damoiselles d’Avignon inaugurano la stagione del cubismo, in cui la realtà va vista nella sua molteplicità spaziale, frammentata e ricomposta. Si rinuncia alla prospettiva, al “senso comune” per penetrare più profondamente la realtà. Obiettivo primario dei cubisti non è la rappresentazione di ciò che si vede nella realtà come facevano gli impressionisti, né la rappresentazione di ciò che essi sentivano, proiettando la loro interiorità sulla realtà secondo le teorie espressioniste, ma è piuttosto il tentativo di rappresentare ciò che essi conoscono della realtà secondo princìpi di carattere razionale. Lo spazio, dunque, grazie all’opera di Picasso e dei cubisti perde definitivamente quelle caratteristiche che lo avevano contraddistinto dal Rinascimento fino alla fine dell’Ottocento. Il movimento russo Raggismo, si propose, per esempio, il progressivo superamento della rappresentazione naturalistica a favore di uno studio degli effetti di luce e di dinamismo. Si legge nel Fisic’Arte104 Manifesto: “Lo stile della pittura raggista che noi proponiamo si occupa delle forme spaziali conseguite con l’intersezione dei raggi riflessi da vari oggetti e delle forme individuate dall’artista. In modo convenzionale il raggio è rappresentato da una striscia di colore”. Le immagini, dunque, sono il risultato di un insieme di linee di forza intensamente colorate, che scompongono il soggetto raffigurato fino a confonderlo quasi completamente con lo spazio circostante. Il Suprematismo, altro movimento d’avanguardia russo, rifiutò la rappresentazione realistica a favore di una pittura fatta solo di relazioni spaziali e accordi cromatici tra colori e forme geometriche piane pure (triangoli, cerchi, linee, ecc). Si tratta quindi di un’arte di completa astrazione, in cui l’immagine bidimensionale e priva di ogni volumetria viene costruita attraverso i rapporti tra le diverse figure che animano la superficie del dipinto, definite da nitide campiture di colore. In questo dipinto la donna appare al centro della scena, mentre solleva due recipienti, sullo sfondo di un paesaggio cittadino. L’immagine si scompone in una serie di volumi cilindrici a tronco di cono che, suggerendo una simultaneità di vedute diverse, si compenetrano tra loro e realizzano un effetto di dinamismo e astrazione simile a quello di un congegno meccanico, sottolineato anche dai colori freddi e metallici della composizione. Con La Danza di Matisse siamo usciti completamente dal Rinascimento; c’è un nuovo sistema di relazioni tra quel che viene percepito e quel che viene espresso, fondato su altre strutture permanenti dello spirito. Andiamo verso uno spazio che ha le dimensioni polisensoriali delle nostre esperienze interne. Tra le riflessioni che hanno permesso lo sviluppo del sistema di visualizzazione fondato su associazioni inedite d’immagini, un posto importante tocca alle indagini sugli spazi curvi. E’ una rappresentazione spaziale moderna, basata sull’analisi dei riflessi, rappresentazione psico-fisica e non più ottica nel senso euclideo del termine. Lo studio degli spazi curvi non è soltanto di Matisse. Fisic’Arte105 La discussione sul tempo, che dopo Einstein ebbe vasto spazio nel dibattito filosofico (Bergson), ebbe la sua eco anche in pittura. “Se un’ombra è la proiezione bidimensionale di un mondo tridimensionale, allora il mondo tridimensionale è la proiezione di un universo a quattro dimensioni”. In questo quadro Duchamp (1887-1968) dipinge un corpo che scende le scale rappresentando tutti gli istanti contemporaneamente, realizzando, così, una sorta di spaziotempo di Minkowski. Kandinskij aveva pubblicato il saggio Punto, linea, superficie e aveva fissato i termini della teoria dell'astrattismo. Aveva individuato nella linea lo strumento della sua ricerca pittorica che prolunga e rende più chiaro il gesto del braccio che li manovra. Con il suo lavoro aveva sostituito il concetto di campo con quello di spazio (il campo gravitazionale è una deformazione dello spazio-tempo). Il campo è per Kandinskij una porzione di infinito determinata dall'interazione delle forze agenti simultaneamente, ed il suo insieme forma un sistema dinamico. Un campo siffatto non e più una rappresentazione ma un frammento reale di arte. Questi temi sono evidenti nel dipinto Punte nell’arco. Lo sfondo nero è il campo principale in cui agiscono altri campi. Le figure sovrapponendosi formano altre figure in un rincorrersi di nuove possibilità compositive: protagonista del dipinto è il movimento delle punte che allude ad un ordine. La composizione è semplice e nella geometria ricorda un arco teso che sta per scoccare la freccia, ma questa semplicità compositiva sottende un movimento che si manifesta Fisic’Arte106 nell'azione del lancio del dardo. Kandinskij inserisce la quarta dimensione: il tempo, che prende forma dalla reiterazione delle figure geometriche che compongono l’arco; l’occhio descrive un percorso dall’alto verso il basso, dai colori caldi a quelli freddi, impiegando un certo tempo che dipende dalla durata del periodo necessario affinché un colore-forma percepito dall’occhio si traduca in sensazione psicologica. Le figure nascono da sistemi di forme astratte, ideali, così come l’equazione di campo di Einstein, un’equazione astratta, puramente matematica, che però al suo interno contiene tutte le informazioni sulle interazioni tra spaziotempo, massa e energia. Mai come in questo periodo troviamo la scienza nell’arte e l’arte nella scienza. In questa opera di Mondrian (1872-1944) viene proposto un sistema astratto di sistemi di griglie a righe nere che dividono la superficie bidimensionale del quadro in scomparti piani riempiti di colore puro (blu, giallo, rosso) e dei tre non colori bianco, nero, grigio, ricercando delicati equilibri asimmetrici puramente geometrici, fondati sull'ortogonalità delle linee. Pur trattandosi di un linguaggio strutturato e retto da precise leggi e rapporti di proporzioni, esso possiede un suo carattere pittorico e non matematico, esiste uno spazio pittorico, esiste un ritmo delle campiture che si confrontano continuamente con il limite della tela, messo in discussione dalla asimmetria delle divisioni, esiste una modularità non dimensionale ma concettuale: è un'idea di spazio del tutto nuova e rivoluzionaria, che diverrà facilmente estensibile ad altre discipline, prima di tutto all'architettura neoplastica che scompone il volume delimitando lo spazio in piani verticali e orizzontali, secondo chiari criteri aggregativi. Per Mondrian l’artista è impegnato nella costante ricerca dell’universale. L’universale consiste in quella che lui chiama “realtà pura”. L’espressione della realtà pura è ostacolata da ogni componente personale e soggettiva, ma anche dalla rappresentazione di ogni dettaglio descrittivo. Quindi, l’unico modo per giungere all’espressione della realtà pura è l’astrazione. Scriveva: «L’aspetto delle forme naturali si modifica, mentre la realtà rimane costante. Per creare plasticamente la realtà pura è necessario ricondurre le forme naturali agli elementi costanti della forma, e i colori naturali ai colori primari». «Alla fine le mie composizioni consistevano solo di linee verticali e orizzontali ... Il tutto partendo da una natura che è «espressione di due forze opposte» mantenute in equilibrio: equilibrio tra forma e spazio. Questa unica forma, che egli chiama “neutra”, è il rettangolo, perché in esso la linea non ha l’ambiguità della curva, ma la decisione della retta e perché nei suoi angoli si equilibrano in unità le due forze contrastanti delle diverse direzioni della linea, quella verticale e quella orizzontale. Il suo è un tentativo di dare un senso ordinato, logico, lineare a una realtà che non ha senso. Fisic’Arte107 Questo per Mondrian è lo scopo della pittura moderna, la “neoplastica”, che non deve tendere all’illusione del rilievo, ma deve essere bidimensionale e limitare i colori a quelli elementari per evitare che nel loro rapporto reciproco si torni nuovamente a una sensazione tridimensionale. Il realismo va evitato con cura. Anche Dalí restò fortemente influenzato dagli sconvolgimenti teorici della fisica ad opera di Einstein. Nell’opera La persistenza della memoria, il maestro spagnolo ha voluto interpretare le indagini relativistiche sulla dimensione del tempo, introducendo nella rappresentazione pittorica la bidimensionalità del tempo. Il tempo infatti assume la dimensione duale propria di una effettiva durata, come conseguenza del fatto che per presentare la percezione da più punti di vista l’osservazione non si può limitare allo sguardo di un solo istante, ma il pittore si trova ad esprimere il rapporto temporale della persistenza dell’immagine effettivamente percepito durante la ricostruzione emotiva e razionale della rappresentazione pittorica. Dalì cambia radicalmente il modo di concepire la dimensione del tempo. Le ore degli orologi molli sono diverse perchè il tempo si dissolve e stemperandosi, non risponde più concettualmente ad una successione lineare di falsi istanti, proprio in quanto tale rappresentazione non appartiene più ad una visione univoca ed inalterabile dello spazio tempo. Dalì eredita dal cubismo il desiderio di percepire una dimensione quadri dimensionale dello spazio tempo per sbarazzarsi definitivamente dell'eredità della tradizione e saltare al di là dell'ingessante finzione tridimensionale della prospettiva rinascimentale. La deformazione delle immagini è uno strumento per mettere in dubbio le facoltà razionali, che vedono gli oggetti sempre con una forma definita. L'orologio è lo strumento razionale per eccellenza che permette di misurare il tempo, e di dividerlo in modo da piegarlo alle esigenze pratiche e quotidiane. Fisic’Arte108 Deformando l'orologio, trasformandolo in una figura liquida, che sembra sciogliersi e adattarsi alle superfici su cui viene posta, Dalí invita l'osservatore a riconsiderare la dimensione del tempo, della memoria, del sogno e del desiderio, non sottoposta alle regole apparentemente logiche, nella quale il prima e il dopo si mescolano e lo scorrere delle ore e dei giorni accelera e rallenta a seconda della percezione soggettiva. Una interpretazione filosofica che ben si associa con le proprietà metriche dello spazio e del tempo concepite con la relatività di Einstein. Dalì in Contemplazione davanti ai misteri dell’Universo, fissa sulla tela un istante di quello che definisce “lo spazio sospeso”, dove “gli esseri, gli oggetti, appaiono come corpi estranei fluttuanti nello spazio”. Il cosmo potrebbe essere molto più vasto di quello che pensiamo. Secondo alcune teorie moderne, infatti, oltre allo spazio tridimensionale che costituisce il nostro mondo, potrebbero esistere dimensioni aggiuntive, invisibili, che conterrebbero il nostro mondo. La teoria della relatività, infatti, si basa sull'esistenza di uno spazio-tempo quadridimensionale, nel quale le coordinate spaziali e temporali si “mischiano” tra loro. Spazio e tempo, insomma, non sono due concetti indipendenti, ma due aspetti di una realtà più ampia: lo spazio-tempo quadridimensionale. L'idea di una realtà quadridimensionale più profonda dello spazio tridimensionale nel quale viviamo (non necessariamente uguale allo spazio-tempo di Einstein), ha colpito la fantasia e la sensibilità di molti artisti. Nell’opera Corpus hypercubicus, Dalì fa riferimento al fatto che la figura di Cristo non è inchiodata all'usuale croce, ma è magicamente sospesa nell'aria, accostata ad una struttura fatta da otto cubi che simulano la forma della croce, ma che in realtà esprimono la rappresentazione dello sviluppo, nello spazio tridimensionale, di un solido che si studia nella geometria della quarta dimensione: l'ipercubo. Si tratta di un solido (avente come "facce" otto cubi) che non è possibile vedere, essendoci preclusa la quarta dimensione, ma solo intuire. L'analogia con lo sviluppo delle facce di cubo su di un piano, può aiutare a comprendere la raffigurazione. Una croce tradizionale, infatti, può essere ricondotta a un cubo. Un cubo è una figura tridimensionale delimitata da sei quadrati: se prendiamo un cubo fatto con un foglio di carta, per esempio, possiamo aprirlo in modo tale da fare stare tutta la sua superficie sullo Fisic’Arte109 stesso piano e ottenere una figura a forma di croce. Allo stesso modo, un ipercubo è una figura quadridimensionale delimitata da otto cubi e, se lo aprissimo, per così dire, in maniera opportuna, otterremmo proprio la strana croce dipinta da Dalì. Si tratta di una delle diverse opere in cui l'artista catalano, si accosta ai temi dell'arte sacra e, contemporaneamente, si avvale della fascinazione enigmatica di strutture geometriche. La croce, data dalla dispiegazione tridimensionale di un ipercubo, si staglia in alto nel buio del cielo, proiettando la sua ombra sopra la fredda geometria del pavimento, quasi a sottolineare, assieme alla irriducibilità delle diverse dimensioni spaziali, la inintelligibile distanza tra il naturale ed il soprannaturale. Anche l’italiano Attilio Pierelli si è cimentato con l’ipercubo e affascinato dal progresso e dagli studi matematici e fisici sugli spazi a più dimensioni (iperspazi), ha trovato ulteriori motivi per allargare la sua ricerca ad altre forme di figure a più di tre dimensioni, inaccessibili ai nostri sensi, ma che tuttavia la matematica ci permette di descrivere e di studiare fin nei minimi particolari. “Dell’esistenza dell’iperspazio mi ero accorto nel corso degli anni, costruendo sculture con l’acciaio speculare. Mentre lavoravo, mi capitava di vedere che dentro le sculture eseguite con questo materiale, oltre agli spazi superficiali riflettenti e curvilinei, si realizzavano forme autonome. Erano affascinanti solidi più o meno regolari formati di luce. Per molto tempo ho cercato di afferrare la loro vera natura finchè ho capito di essere in presenza di iperspazi. Iperspazi e geometrie non euclidee rappresentano la vera essenza delle mie sculture attuali, e sono convinto che esse hanno oggi la stessa importanza che nel Quattrocento ebbe la scoperta della prospettiva.” L'ipercubo di Pierelli è sospeso nello spazio infinito, il corpo geometrico è attraversato da raggi luminosi che colpiscono l'interno - massa deformando sul piano la sua immagine. L'artista è in possesso della conoscenza della fisica e della geometria, per mezzo di quest'ultima traduce ogni teorema che gli permette di creare immagini nello spazio. La luce è uno snodo importante per l'arte di Pierelli, attraverso le coordinate matematiche degli iperspazi crea forme che vengono investite da un sottile velo di luce che materializza i corpi geometrici. L'equazione di campo di Einstein relativa alla geometria degli iperspazi sono per Pierelli la chiave di accesso alla porta dello spazio a quattro dimensioni e fa uscire fuori dal nulla come un raggio di luce nel buio il sapiente ipercubo, l'armoniosa creatura geometrica a quattro dimensioni. Anche l’opera di Escher è fortemente legata alle scienze più avanzate del XX secolo, come la teoria della relatività o alle geometrie non euclidee. Fisic’Arte110 “Non posso esimermi dallo scherzare con le nostre inconfutabili certezze. Per esempio, è assai piacevole mescolare sapientemente la bidimensionalità con la tridimensionalità, la superficie piana con lo spazio, e divertirsi con la gravità. Siete proprio sicuri che il pavimento non possa anche essere il soffitto? Siete del tutto convinti che salendo una scala vi troverete più in alto? È vero che la metà di un uovo è anche la metà di un guscio?”. Uno dei temi che più affascinò Escher fu la rappresentazione di mondi simultanei, di un mondo infinito in uno spazio finito, tema che egli traspose visivamente in numerose sue opere nelle quali sono contemporaneamente presenti due mondi, quello percepito dall'artista e quello a cui le sue percezioni non possono arrivare, pur trovandosi nello stesso posto e nello stesso momento, a ciò corrispondendo studi grafici e rigorose modellizzazioni matematiche, frutto di ricerche condotte per lunghi anni. Questa stampa è la prima di una serie che tratta, come argomento principale, la relatività. Mostra l'interno di una struttura cubica, con finestre ad arco che si aprono su tre paesaggi differenti. Dalle due superiori si vede, come dalla cima di un campanile, il mondo sottostante; le finestre centrali sono ad altezza d'occhio e mostrano l'orizzonte; dalle due inferiori osserviamo le stelle. Può sembrare assurdo che nadir, orizzonte e zenit si combinino in un'unica costruzione, eppure tutto questo forma un insieme logico. Qualsiasi funzione che si voglia ascrivere ai diversi piani di questo edificio è relativa. Lo sfondo al centro della stampa, per esempio, ha tre significati: è un muro rispetto all'orizzonte che gli sta dietro; è un pavimento in relazione con la prospettiva superiore; è un soffitto rispetto alla visione del cielo stellato in basso. L’idea della presenza di un mondo infinito in uno spazio finito è trasposta visivamente in questa opera. Sono contemporaneamente presenti due mondi: quello che l'artista percepisce e quello a cui le sue percezioni non possono arrivare, nello stesso posto e nello stesso momento. La rappresentazione di mondi simultanei è uno dei temi fondamentali dell'opera di Escher e si avvale di studi grafici e di rigorose modellizzazioni matematiche, frutto di ricerche durate un ventennio. Il gusto della logica del paradosso permea tutta l'opera di Escher, come in questa Relatività, nella quale ci Fisic’Arte111 vengono proposti tre diversi livelli di applicazione dello stesso paradosso: tre mondi paralleli e separati coesistono all'interno di un edificio in cui sulle pareti, sul soffitto e sul pavimento si aprono finestre e porte da cui partono scale. Sedici figure umane si muovono nell'ambiente, suddivise in tre gruppi. Ciò che per un gruppo è il soffitto, per un altro gruppo è la parete, e ciò che per un gruppo è una finestra per un altro gruppo è un'apertura nel pavimento. Diverse realtà impossibili condividono un'impossibile convivenza. La medesima idea è stata ulteriormente sviluppata in Alto e basso. La stessa scena è ripetuta due volte: nella metà superiore del foglio guardiamo in basso, da un' altezza di circa tre piani, e scorgiamo la piazza di una città, con una palma al centro. La parte inferiore ci offre la stessa veduta, con il medesimo ragazzino seduto sui gradini e la stessa ragazza che guarda dalla finestra, ma non tutto viene visto dal pianterreno. Volgendo lo sguardo in alto verso lo zenit, vediamo il pavimento a piastrelle su cui ci troviamo, ripetuto al centro come soffitto. Nella scena superiore, queste stesse piastrelle servono di nuovo da pavimento, e ancora sopra vengono per la terza volta ripetute come soffitto. Le nuove idee sul tempo, tra cui l'irreversibilità, attraversavano la fine del XIX secolo le discipline scientifiche; la termodinamica e l'evoluzione biologica avevano messo in discussione la reversibilità temporale, da non confondere con la reversibilità del movimento. Qualche decennio dopo, nel quadro della reazione antipositivista, anche la filosofia riprese la riflessione su questi temi e Bergson attaccherà questo concetto insistendo su una temporalità anti-misura. Bergson aveva affermato che i concetti scientifici stanno alla conoscenza intuitiva della vita come un servizio fotografico relativo a una città sta alla sua conoscenza diretta. Il pittore futurista Boccioni tradusse questo concetto in La strada entra nella casa, in cui una città è rappresentata contemporaneamente da diversi punti di vista. La riflessione di Bergson sul tempo ebbe un impatto notevole sulla cultura e sulle arti visive in particolare. È stato coniato il termine bergsonismo per designare l'irruzione della dimensione temporale nello spazio pittorico, un elemento di poetica che accomuna praticamente tutte le avanguardie di inizio secolo, Futurismo e Cubismo in particolare. La scienza, spazializzando il tempo, lo snatura; inaspettatamente però la pittura si rivela in grado di ribaltare questo rapporto: attraverso una deformazione delle immagini spaziali essa inventa l'effetto visivo di un tempo vivo. Fisic’Arte112 Il Dinamismo di un cane al guinzaglio di Balla, sfidando le leggi della logica, riesce a rappresentare un movimento senza tuttavia cristallizzarlo nel tempo. E’ una soluzione in seguito divenuta usuale nella grafica, nei fumetti in particolare. Nell’opera La città c'è una visione simultanea non soltanto di tutte le facce degli oggetti che definiscono i volumi (soluzione cubista) ma anche la sintesi dei tempi successivi durante i quali noi abbiamo conosciuto l'oggetto. Si tratta di uno spazio-tempo intuitivo, che ricorda la filosofia di Bergson, appunto detta intuizionismo. Il soggetto nell’opera Ambroise Vollard è analizzato da diversi punti di vista, come da uno spettatore che si muova attorno ad esso; ma le successive visioni non si giustappongono in una sequenza, bensì si accostano e si ricompongono in un’unica immagine che inserisce l’elemento tempo (il tempo dello spettatore che compie il proprio giro attorno all’oggetto), contrapponendo alla temporalità intesa come sequenza, una temporalità intesa come durata. I Fumatori o Il Fumatore, dipinto di Fernand Lèger (18811955), presenta una dinamicità che lo contraddistingue dalle opere statiche di Picasso e Braque; infatti presenta un moto ascensionale che dirige lo sguardo dal basso verso l’alto ed è ipotizzabile che l’artista abbia voluto rappresentare non una scena osservata da più punti di vista, tipica dell’arte cubista, ma un unico fumatore ritratto in due momenti successivi nel tempo. Fisic’Arte113 Questo quadro nasce probabilmente dalla volontà di De Chirico (1888-1978) di rappresentare un orologio fermo. Appare tuttavia logico che, su un quadro, un orologio non potrà mai camminare. E così, guardando la raffigurazione di un orologio, non sapremo mai se funziona o non funziona. Tuttavia, è proprio la fermezza e l’immobilità di tutta l’immagine a suggerirci che anche l’orologio è fermo, anche se non lo sapremo mai. O forse esso è l’unica cosa che continua a muoversi, segnando un tempo senza senso. Un oggetto come la stessa vita è un continuo fluire. L’ostinato tentativo di cogliere con metodo e precisione quasi scientifici il trasmutare ininterrotto della luce sui vari soggetti porta l’artista a soluzioni brillanti. E’ proprio l’assenza di ogni riferimento temporale (in questo quadro le ombre possono suggerire un mattino o un pomeriggio con luce innaturale) la caratteristica della pittura metafisica. Tutto è immobile, oltre il tempo. Nel quadro tutto sembra così chiaro, eppure esso testimonia di una realtà sfuggente. La realtà è enigma. Con le sue opere Fontana (1899-1968) vuole proporre una nuova idea di spazio e tempo: “L’opera d’arte non vive in eterno, nel tempo reale esiste l’uomo e la sua creazione, finito l’uomo continua l’infinito …. Sono riuscito con questa formula a dare a chi guarda il quadro un’impressione di calma spaziale, di rigore cosmico, di serenità nell’infinito”. L’arte di Fontana annuncia una fatale “tetradimensionalità”, costituita dal rapporto costante di colore, suono, movimento e spazio. Il taglio di Fontana risponde dunque ad una precisa finalità costruttiva: creare una nuova dimensione spaziale, che esce dai limiti tradizionalmente prefissati per l’opera d’arte, coinvolgendo anche lo spazio che sta dietro al quadro, a cui lo spettatore non ha di solito accesso. Fisic’Arte114 <<Io buco, passa l'infinito di lì, passa la luce, non c'è bisogno di dipingere …invece tutti hanno pensato che io volessi distruggere: ma non è vero, io ho costruito, non distrutto……>> Fontana sentiva che i progressi scientifici imponevano una parallela innovazione nell’arte che, dichiarava, doveva dilatarsi nello spazio circostante, che non dovesse esistere in due dimensioni, ma nello spazio. La scultura, essendo tridimensionale, lo faceva di necessità, mentre la pittura richiedeva un intervento radicale, la rottura della piattezza del dipinto. Bucherellare o lacerare una superficie piana aveva questo scopo. Mario Marè (1921-1993) ha utilizzato cubi vacui per esplorare le pluridimensionalità spaziotemporali. Un’immagine classica che può aiutare a farsi un’idea del rapporto tra istante e durata è quella relativa al rapporto tra punto e linea. La dimensione temporale e quella spaziale trovano nell’istante e nel punto il loro più semplice e immediato grado di percezione. L’idea di Marè è quella di rendere pittoricamente l’istante, cioè, di fissare sulla tela un fotogramma. Egli tenta di configurare il tempo servendosi delle prospettive illusorie della geometria piana trasferita nello spazio. “La mia idea-pensiero è quella della rappresentazione del tempo identificandolo nell'istante. Partendo dalla supposizione che il tempo sia composto, si formi, esista dalla infinita successione di istanti, ho voluto avere la presunzione di rappresentare uno di questi istanti. Per cercare di fare questa operazione ho dovuto ricorrere all'artificio di rendere figurativo l'istante che diviene, fermarlo, e quindi fissarlo nel suo momento di immobilità. Da questo tentativo di rappresentare ciò che materialmente non esiste, viene la necessità più assoluta, più attenta, direi più esasperata, di attenersi a quei canoni che fanno la pittura; ricerca di colore, spazio, equilibrio, tensione…Non posso immaginare la rappresentazione del tempo se non in un contesto cosmico per cui il problema dello spazio, che ha sempre afflitto ogni pittore, qui si esaspera e il tentativo di dilatare la misera superficie a disposizione diventa drammatico, soprattutto non volendo ricorrere a figurazioni banali come astri lontani ecc. Perciò mi sono valso di ogni soccorso; dalla prospettiva cromatica a quella di disegno e introducendo anche quella materica. Le strutture libranti nel vuoto appoggiano però su un ideale e diverso piano tra loro per cui si ottengono prospettive varianti e diverse che accentuano la sensibilità dell'idea-spazio cioè lo spazio emozionale che intendevo proporre. Per gli stessi intenti il nero o uno scuro, per creare il buco e l’uscita dal quadro delle strutture, prese a prestito per la rappresentazione materiale dell'istante, così da introdurvi il fruitore per una maggiore partecipazione. Tenendo altresì presente che l'equilibrio, come già detto, è Fisic’Arte115 un elemento indispensabile ad un'opera pittorica, da qui lo studio di un'opportuna collocazione delle masse ed un'altrettanto opportuna scelta dei pesi delle stesse, il tutto non in contrasto con l'armonia delle linee, operazione di amalgamazione non facile quando specialmente si è voluto uscire da una rappresentazione comune….. Tutto ciò per arrivare, anche, alla tensione, cioè equilibrio che è, ma che sta per rompersi e quindi la crea col suo stato precario, tensione specialmente indispensabile in questo tipo di opera ove, uscendo dalla rappresentazione comune e reale, si deve dare l'idea che tutto sia immobile e tuttavia in movimento, una sospensione che ci dia l'idea di avere fermato l'istante, ma che contemporaneamente ci sta sfuggendo poiché nello spazio-tempo esistono infiniti equilibri, equilibri-attimi, necessari e reali nel divenire del tempo”. Sintetizzando l’aspirazione umana all’immortalità, De Dominicis diceva che «per esistere veramente dovremmo fermarci nel tempo». Esattamente questo egli cerca di raggiungere in quest’opera realizzata con mezzi minimi e non tradizionali: il superamento dello spazio e del tempo, la percezione di una straniante rivelazione. La lettura dell’opera di Max Neuhaus (1939-2009) non significa solo un’apertura dell’arte verso inediti confini, ma evidenzia una nuova ‘condizione antropologica’, in cui l’uomo si spinge oltre le proprie facoltà percettive verso le frontiere dell’inconcepibile e dell’impercettibile. Egli infatti nel 1977 colloca in un vano vuoto, posto sotto un’isola pedonale a Times Square a New York, una struttura elettronica che emette suoni armonici, che egli lascia completamente anonima per dieci anni. Non rivendicando l’opera come sua, l’artista delega l’ascoltatore a sentirla, e quindi riconoscerla, come opera d’arte. Lo stesso Neuhaus dice: “come molti artisti sono interessato ad entrare in comunicazione con la mente, ma invece di apparire nella sua finestra visiva, ho scelto di apparire nella sua finestra uditiva”. Questo approccio alla conoscenza è completamente inedito, in quanto attraverso questa nuova via della sensibilità si può aprire un territorio fresco per la conoscenza libera dei bagagli culturali preesistenti. In questo spostamento dal visuale-tattile all’uditivo, nel sentire lo spazio piuttosto che vederlo, risiede principalmente la sua scoperta. Il suono non è l’opera, ma il catalizzatore che impegna l’ascoltatore a ricercarne la fonte e nella ricerca egli trova una nuova struttura ed un nuovo orizzonte: lo ‘spazio-suono’. Si ha così una disposizione di suoni nello spazio ed una definizione sonora del luogo. In altri lavori come: Le linee infinite da fonti inafferrabili, l’artista lascia le pareti della galleria o del museo completamente spoglie. Il fruitore può muoversi nella stanza, incontrare luoghi nello spazio dove si sentano deil ‘click’ ed altri dove ci sia assenza di suono. La serie dei ‘click’ sembra sviluppare una linea infinita, “una frase che si evolve in perpetuo”. I suoni nelle loro variazioni di frequenza formano intrecci non visibili, che avvolgono ogni stanza. Fisic’Arte116 Le linee infinite richiamano come parallelismo in fisica la nuova dimensione introdotta nel 1969 da John Wheleer nella teoria dei buchi neri. Una dimensione al di là della nostra sensazione, da cui non è possibile sfuggire, in cui le leggi della scienza e le capacità di predire il futuro verrebbero meno. L’orizzonte degli eventi (la regione di confine dello spazio-tempo da cui non è possibile evadere) agisce come una membrana unidirezionale intorno al buco nero. L’arte, in questo modo, può finalmente sottrarre alcune sue strutture e funzioni, in quanto è legittimata dall’esistenza nell’universo di nuove possibilità oltre la realtà. Il lavoro di Neuhaus, che opera al di là dell’orizzonte degli eventi e della ‘censura cosmica’ apre l’arte alle frontiere dell’impercettibile e dell’inconcepibile, rendendo possibili le categorie dell’interazione, dell’anonimia, della clandestinità e dell’irreversibilità. 3. Caos e ordine nell’arte moderna e contemporanea Uno dei concetti più importanti della fisica classica è quello di entropia (il termine deriva da Entropè, che in greco vuol dire cambiamento od evoluzione) introdotto nel 1865 da Clausius (1822-1888) per esprimere la degradazione dell’energia ossia l'impossibilità di costruire sistemi termici idealmente conservativi, cioè la diminuzione della capacità di conversione di calore in lavoro. In particolare l’entropia doveva servire a distinguere un processo reversibile da uno irreversibile e di attribuire un significato preciso al concetto di degradazione dell'energia. Così l'entropia divenne la chiave di lettura dei fenomeni su scala macroscopica, cosmologica: l'energia del mondo è costante; l'entropia del mondo tende sempre ad aumentare fino a un massimo. Successivamente Boltzmann (1844-1906) nel 1887 intuisce che deve esserci una relazione tra entropia e probabilità, e dalla sua famosa equazione discende che ogni aumento di entropia in un processo irreversibile significa che la natura preferisce uno stato più probabile a uno meno probabile. E sotto questo nuovo punto di vista che la complessità si affaccia per la prima volta. Se è vero che l'entropia è la manifestazione di una perdita della capacità di trasformazione energetica bisogna quindi leggere le scoperte della termodinamica come un attentato all'armonia prestabilita dell'universo, lo svanire dell'illusione di un ordine interno e immutabile, l'irruzione del caos. Con Boltzmann si scopre il carattere fondamentalmente disordinato dei movimenti molecolari interni ad un sistema. L'aumento di entropia è pertanto connesso con il passaggio da una condizione di ordine a una di disordine. L'entropia diventa così la metafora del disordine: quando l'una cresce, cresce l'altro, e allo stato massimo, quello verso cui, secondo Clausius, l'universo stesso tenderebbe, corrisponde un disordine molecolare completo. Nel 1971 lo psicologo della conoscenza e storico dell'arte Rudolf Arnheim ha dedicato al concetto di entropia e alla sua utilità per l'analisi dell'opera d'arte un saggio fondamentale, in cui ha cercato di dimostrare che, poichè tale concetto di caos o di apeiron riveste un ruolo importante nella storia della filosofia e della scienza fin dai loro inizi, la pertinenza e l'utilità del concetto fisico di entropia anche rispetto all'analisi dell'opera d'arte, testimoniando una volta di più la vitalità delle peculiari categorie di ordine e disordine, permettendo di cogliere un nesso interdisciplinare ulteriore tra le scienze umane e quelle naturali. Fisic’Arte117 La scoperta che il disordine microscopico (o entropia) di un sistema e del suo intorno non decresce spontaneamente - scoperta cha ha poi indotto a definire l'entropia come la misura quantitativa del grado di disordine di un sistema - ha posto la fisica, e la scienza in generale, di fronte ad una apparente contraddizione: da un lato la natura, sia organica che inorganica, tende ad uno stato ordinato (e le azioni umane sembrano governate da un'analoga tendenza); dall'altro i sistemi fisici tendono ad uno stato di massimo disordine. Arnheim si sofferma sulla rilevanza che il concetto di "disordine" assume nelle arti (specialmente in quelle visive). Secondo gli psicologi della Gestalt, detta anche psicologia della forma, corrente psicologica riguardante la percezione e l'esperienza, la configurazione delle parti di una struttura, di una forma (Gestalt appunto), sia essa un disegno molto semplice o di un'opera più elaborata e complessa, viene colta dal soggetto che la percepisce non parte dopo parte, ma innanzi tutto nella sua globalità. In un famoso esperimento dei gestaltisti è possibile scorgere nel disegno di un vaso la figura di due profili umani contrapposti. L'aspetto interessante dell'esperimento consiste nel fatto che chiunque guardi il disegno potrà percepire l'una o l'altra figura - il vaso o i due profili - e mai entrambe contemporaneamente, cosa che non avrebbe ragione di accadere se la forma complessiva fosse percepita sommando i suoi tratti costitutivi. Viceversa, l'esito dell'esperimento sembra costituire una prova del fatto che noi non percepiamo le forme elemento per elemento, tratto dopo tratto, ma ne percepiamo la struttura globale rispetto a uno sfondo, e che la percezione di una forma esclude quella dell'altra. Nel suo saggio Arnheim fa riferimento alla teoria della Gestalt secondo il quale "il disordine non è l'assenza di qualsiasi ordine, ma piuttosto lo scontrarsi di ordini privi di mutuo rapporto". Per la psicologia della Gestalt infatti, come abbiamo detto, il soggetto umano non coglie i componenti di una struttura (linee, forme, oggetti) prima della loro forma globale, ma viceversa, la forma globale, o se vogliamo l'ordine strutturale complessivo, prima dei singoli elementi. Già a livello della percezione, quindi, ciò che viene colto non è una sommatoria di dati individuali, ma una giustapposizione di strutture. Dunque, Arnheim afferma che l’arte contemporanea nasce dallo scontro tra semplicità (ordine) e caos (entropia) e forse è anche da questo che scaturiscono i molteplici linguaggi caratterizzanti le tendenze stilistiche tipiche dell’arte contemporanea, che spesso utilizzano come “manifesto” la dissoluzione della classica figura e l’utilizzo di forme di rappresentazione della realtà intesa come flussi di energia che animano il mondo. Di questi flussi l’arte ne individua i movimenti, ne fissa le forme. Nascono gruppi, tendenze, manifesti programmatici, azioni e installazioni che scardinano la composizione dello spazio, alterano il senso del tempo, della contemporaneità e della Storia. E l’irrompere nella quotidianità del digitale e della “Rete” hanno reso il linguaggio un’orgia virtuale. Riferendosi a queste due tendenze stilistiche apparentemente opposte che attraversano l'arte contemporanea Arnheim nota che da un lato vi è l'esibizione di una semplicità estrema, quadri che si limitano a poche strisce parallele, tele coperte uniformemente da un solo colore, nude scatole di legno o metallo; dall'altro il trionfo del disordine, accidentale o deliberatamente proposto. In entrambi i casi, tuttavia, l'effetto voluto sarà conseguibile solo tenendo conto del fatto che l'apprensione del quadro da parte di un ipotetico spettatore è appunto di tipo globale, e che unitamente agli aspetti più caotici o disordinati la percezione dello spettatore tenderà spontaneamente a ricostruire un qualche ordine e a evidenziare la struttura interna della composizione. Quindi, in ogni caso si tratterà, da parte dell'artista, di saper comunque far leva su questa attitudine naturale della percezione. Fisic’Arte118 Nella pittura moderna vi sono quindi spesso "chiazze o spruzzi di colore più o meno controllati, nella scultura l'affidarsi a tessiture casuali, a strappi o intrecci di materiali diversi, nonché ad oggetti trovati". Alcune opere dell'Espressionismo astratto, come quelle di Jackson Pollock (1912-1956), consistono in "una distribuzione spaziale di pigmento spruzzato e spalmato controllato dal senso di ordine dell'artista", e possono costituire un valido esempio del libero gioco delle due tendenze prima citate da Arnheim. Per ottenere il massimo della libertà creativa ed il minimo del condizionamento sia mentale che fisico, Pollock usava una tecnica, il dripping che gli permette di depositare il colore sulla tela secondo flussi materici liberamente discendenti per forza di gravità, anziché in pennellate distese, in un processo ripetitivo e dinamico che sovrappone in più riprese varie stratificazioni di tracce colorate: facendo affiorare e liberando, in questo lungo processo gestuale, il sentimento interiore e gli impulsi più profondi, l'artista si muove attorno alla tela, posata a terra, impegnando nel gesto creativo non solo la mano ed il braccio, ma tutto il corpo, la tela non ha più un centro, un verso, un inizio ed una fine, ma diviene una sorta di territorio da percorrere sulle tracce di una grande composizione all over, indifferenziata e caotica. In realtà, lo sgocciolamento della vernice fluida è un processo naturale che obbedisce a leggi precise, all'interno di un "sistema caotico", secondo un ordine caotico, teorizzato negli anni '60 come teoria del caos (di cui Poincaré pose le basi, siamo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo), ipotesi scientifica formulata quando la scienza si rese conto di non essere in grado di spiegare secondo i principi tradizionali gli aspetti irregolari e incostanti della natura e della realtà in campo fisico, biologico e persino socio-economico. Fisic’Arte119 Ma poco dopo Mandelbrot (1924-2010) elabora una sua teoria, una nuova modalità di rappresentazione della teoria del caos, che, più di quella euclidea, si presta ad analizzare e classificare i fenomeni naturali, non racchiudibili nei consueti schemi geometrici, dando vita alla teoria dei frattali, in cui convergono geometria, fisica e informatica. Molto sinteticamente, si può dire che un frattale (dal latino fractus, infranto) che qualcuno ha definito l'impronta digitale della natura, è una figura geometrica nella quale si ripete su scala sempre più ridotta uno stesso motivo che all'ingrandimento rivela indefinitamente sempre nuovi particolari, in cui ogni piccola parte possiede una struttura molto simile a quella dell'insieme (proprietà dell'auto-similarità): si tratta di una figura molto adatta ad esprimere graficamente le forme della natura secondo un rigoroso modello matematico, legato ad un nuovo concetto di dimensione. Sono concetti legati proprio alla pittura di Pollock, apparentemente così istintiva e priva di regole, da un legame di relazione scoperto negli anni '90 da Taylor, un fisico-artista. A seguito della sua straordinaria intuizione, le opere di Pollock sono state scansionate al computer ed hanno evidenziato che il pigmento colato sulle tele definisce uno schema distributivo delle zone riempite di colore e delle zone bianche sempre uguale, per quanto si riduca la scala di osservazione, secondo una precisa struttura frattale simile a quella in cui evolvono le forme naturali: siamo negli anni '40, più di 25 anni prima della scoperta di Mandelbrodt. Un matematico ed un artista hanno trovato, per diverse vie, un nuovo modo di approccio alla conoscenza del mondo, l'arte, come più volte è già accaduto, ha fatto una fuga in avanti ed ha preceduto il pensiero razionale: inconsapevolmente Pollock, alla ricerca di una totale casualità compositiva, in realtà mima precisi schemi naturali. Il confine tra arte e scienza si fa sempre più labile, trovando il suo punto di tangenza nell'uomo, che non è scienziato, o artista o altro, ma una entità indivisibile nella quale tutto è contenuto, a livello conscio e razionale o sotto forma di archetipo mentale che l'intuizione svela ed esprime attraverso mezzi irrazionali, o attraverso l'arte. Fisic’Arte120 Il Dadaismo, avanguardia artistica nata tra il 1916 e il 1920, affida la produzione dell'opera d'arte proprio alla casualità che si realizza senza una causa definita e identificabile, contraddicendo così ogni teoria deterministica che assegna ad ogni accadimento una precisa causa. Dice Jean Arp: "La legge del caso, che racchiude in sé tutte le leggi e resta a noi incomprensibile come la causa prima onde origina la vita, può essere conosciuta soltanto in un completo abbandono all’inconscio. Io affermo che chi segue questa legge creerà la vita vera e propria." Quindi, con l'esaltazione della casualità e la negazione della razionalità, con uno stile eterogeneo e disparate tecniche espressive, con la voluta ricerca della non-funzionalità, il Dadaismo mette in crisi il pensiero funzionalista dell’epoca, producendo opere che non rappresentano nulla, sono un puro gesto contrapposto alla organizzata e razionale oggettualità e funzionalità del reale, che daranno un determinante contributo alla definizione di una nuova, rivoluzionaria concezione estetica. Nell’opera Collage disposto secondo le leggi della casualità Jean Arp (1887-1966) sperimentava le leggi del caso lasciando che le forme cadessero su una superficie e studiandone il risultato. Questo collage, in cui sono disposti con eleganza pezzi di carta strappata e incollata, è una composizione giocosa e quasi sincopata in cui i riquadri irregolari paiono danzare nello spazio. Come suggerito dal titolo, il collage non è stato creato secondo un progetto dell’artista ma casualmente. Arp cerca di realizzare un’opera scevra da interventi umani e più vicina ai fenomeni fisici naturali. In una serie di rilievi in legno Arp offrì una interpretazione visiva dell'aspetto casuale, ponendo un certo numero di forme autonome su uno sfondo vuoto in modo tale che esse non si adattassero ad alcuno schema compositivo generale, ma venissero tenute in equilibrio unicamente dalle loro mutue relazioni di peso e di distanza. Anche mostrando che medesimi elementi possono essere montati in tre modi diversi ma parimenti validi, egli sottolineava la natura fortuita del loro combinarsi: ma lo faceva con quel delicatissimo controllo dell'ordine la cui indispensabilità era giunto a riconoscere. Che la fantasia, la creatività e quindi l’arte traggano la loro origine proprio dal caos, lo confermano le parole di Francis Bacon (19091992), uno dei geni della pittura del ‘900, Fisic’Arte121 riferendosi al suo leggendario studio che somigliava a un fantastico immondezzaio: “mi sento a casa nel caos, perché il disordine suscita immagini”. Al contrario le sue opere sono studiate con molta attenzione e precisione. Il caso ha un ruolo molto importante in varie correnti culturali, basti pensare al Surrealismo, dove svolge il ruolo di rivelatore dell'inconscio, o anche a molti movimenti dell'arte moderna o contemporanea quali l'Astrattismo e l'Informale in tutte le sue varianti. L’artista informale non è più colui che crea nuovi elementi, ma colui che sa lasciarli accadere, limitandosi magari a favorirne l’attuazione con la spontaneità del caso o la fantasia del sogno. Nella tela Pittura i vortici e le macchie di colore fanno evidente riferimento a un’impostazione di tipo surrealista. Le esperienze più profonde della psiche emergono con spontanea casualità. La trascrizione delle sensazioni avviene con un automatismo slegato da qualsiasi intento descrittivo. Il disagio esistenziale dell’artista si fa materia, impastandosi con colori misti a sabbia, e saltando e del tutto ogni passaggio di tipo figurativo. L’Entropia è stato un tema costante anche in tutta l'arte di Robert Smithson (1928-1993) caratterizzata da degrado e rinnovamento, caos e ordine. Smithson ha parlato a lungo nelle sue interviste e saggi su entropia e la sua nozione del tempo. In Entropy and the New Monuments ha scritto: "... l'espansione urbana incontrollata, e l'infinito numero di abitazioni prodotto dal boom economico del dopoguerra ha contribuito all’ architettura di entropia" inoltre: "l'entropia è una condizione che si sta muovendo verso un graduale equilibrio ". Nella sua arte Smithson ha cercato di rappresentare l’entropia dell’esistenza, il tentativo umano di contrapporsi inutilmente a quest’entropia e i meccanismi che relazionano l’uomo, essere finito e mortale, con la natura, concetto invece che sfiora l’infinito e l’illimitato. Nei pressi di Roma è situata l’opera Asphalt Rundown creata nel 1969, quando fece scaricare da un camion una colata di asfalto sul ciglio di una cava abbandonata. L’opera evoca in noi, oggi, non tanto le considerazioni formali che Smithson probabilmente si prefiggeva quanto l’immagine triste e troppe volte vista di uno scarico abusivo di materiale inquinante. Smithson, del resto, non ha mai nascosto il suo scarso interesse per la natura in quanto tale. Coerentemente, egli stesso dichiara di preferire alle «bellezze naturali» i luoghi che sono stati stravolti, deturpati, e snaturati dall’intervento umano, ossia luoghi dove l’entropia segue il suo principio naturale, quello del suo inesorabile aumento, l’aumento del disordine. Fisic’Arte122 La creazione artistica di De Dominicis nasce, invece, come pratica anti-entropica e con lo scopo di arrestare l'irreversibilità del tempo. Infatti alla domanda: “Che cosa veramente la interessa nella costruzione di un quadro?" l’artista risponde: “Che una volta terminato mi sorprenda e mi rimandi più energie di quante ne ho messe per realizzarlo. Così l’opera essendo ‘antientropica’ contraddice il ‘secondo principio della termodinamica’ e si riappropria del problema della morte e dell’immortalità del corpo, che è sempre stata l’istanza principale dell’arte visiva, senza delegarlo alla scienza e agli scienziati, il che sarebbe pericoloso.” Con Tentativo di volo (1969) e Tentativo di formare quadrati invece che cerchi attorno ad un sasso che cade nell’acqua (1969), si basano sulla ripetizione infinita di un gesto assurdo: nel primo, l’artista agita le braccia come fossero ali sperando in un’eventuale evoluzione dell’arto; nel secondo cerca, con pazienti tentativi, di formare onde quadrate invece che circolari gettando un sasso nell’acqua. Lo spettatore si ritrova immerso in un paradosso: pur essendo perfettamente consapevole che l’uomo non imparerà mai a volare o che non riuscirà a creare degli elementi geometrici e razionali all’interno di un contesto naturale (ancora una volta il tutto è impossibile o altamente improbabile in base all’interpretazione probabilistica dell’entropia), continua a sperare in questa illusione. E di fatto l’illusione tanto anelata può realmente realizzarsi, non a livello retinico, ma, piuttosto, a livello mentale, metafisico. Il tema del caos e dell’ordine è presente tuttora nell’arte contemporanea, come nelle opere di Paolo Contin. I quadri di Contin, frutto di accostamenti cromatici spesso audaci e sorprendenti, anche quando sembrano provenire dal trionfo della casualità, sono in realtà il risultato di una esplorazione profonda dell’autore. Quel rettangolo di grovigli e grumi di colore palpitante apparentemente disordinato e sofferto, frutto di un dripping molto personale, altro non è che lo schermo su cui il pittore proietta la natura del suo Io. Accanto alla necessità interiore che vive nella fantasia dell’artista (Kandinsky), vi è anche l’ordine razionale e strutturale che è insito nella realtà (Mondrian). Il libero e disordinato fluire del colore si confronta infatti spesso con le figure più elementari della geometria euclidea, il triangolo, il quadrato, il cerchio, richiamo all’ordine di un mondo di leggi immutabili, solo apparentemente sovrastato dal caos. Con l’introduzione del principio di indeterminazione di Heisenberg (1926) si pone un limite teorico (e non solo pratico) alla possibilità di determinazione esatta e simultanea delle grandezze coniugate di un sistema microfisico (come, per esempio, posizione e velocità di una particella), e ciò si riflette anche sulla possibilità di precisione esatta Fisic’Arte123 consentita dalle leggi fisiche (che assume un carattere soltanto statistico). La casualità ora entra nel mondo della fisica con un ruolo fondamentale e inedito, anche se diverso rispetto al significato che ha nella fisica classica. Adesso la casualità a livello microscopico presenta un comportamento probabilistico non in virtù di una scarsa conoscenza di elementi per indagare sulle cause ben definite del fenomeno, ma perché è legge di natura, nel senso che è insita nella natura stessa del comportamento del microcosmo. In sostanza nella fisica quantistica il caso si presenta non perché siamo incapaci di scoprire la causa del singolo avvenimento, ma semplicemente perché l’avvenimento non ha alcuna causa. 4. Arte e fisica moderna Con la nascita della Meccanica Quantistica entra in crisi il senso della realtà e il principio di causalità. Il principio di indeterminazione di Heisenberg introduce per la prima volta un limite alla possibilità di conoscere la realtà: non possiamo conoscere contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella. Non esiste la traiettoria. La realtà è aleatoria. E ciò si riflette anche sulla possibilità di precisione esatta consentita dalle leggi fisiche (che assume un carattere soltanto statistico). La frattura tra ragione e realtà fisica determinata dalla Meccanica Quantistica, secondo la quale l'unica via della conoscenza nel microcosmo è quella probabilistica, tocca di fatto il problema dello statuto del realismo scientifico, apparentemente sensato, nel quale la realtà esterna viene considerata oggettiva, indipendentemente dall'esistenza del soggetto pensante. Una tale impostazione dette origine a conclusioni paradossali. Infatti, dato che per la MQ la realtà si può conoscere effettivamente solo al di là dell'indeterminazione, cioè solo quando diviene possibile misurarne la localizzazione nello spazio, Schrodinger formulò un'ulteriore riflessione conosciuta come il paradosso del Gatto di Shroedinger. Il gatto, chiuso in un contenitore, se non osservato può risultare vivo e morto simultaneamente. Infatti, secondo l'interpretazione probabilistica della MQ, quando nessuno lo guarda, il gatto esiste in uno stato di sovrapposizione, dove ha la probabilità al 50% di essere sia vivo che morto. Quindi, nella MQ il gatto può simultaneamente esistere e non esistere, in una visione complementare, riconosciuta valida dalla MQ. Solo se viene osservato aprendo il contenitore è infatti possibile sapere se effettivamente risulta essere vivo oppure morto. L’osservatore entra nella teoria e la realtà esiste solo quando l’osserviamo? Quando ciò accade diviene necessario rivedere i criteri di base che abbiamo ritenuto essere non modificabili, e quindi per assumere un nuovo concetto di realtà. Pertanto, dobbiamo accettare di cambiare il paradigma cognitivo che rende dogmaticamente inalterata la struttura dello spazio-tempo. Per demolire definitivamente l’idea rassicurante di un universo eterno (dipendente dalla volontà di Dio e quindi per questo soggetto alla razionalità), immutabile, discernibile, ci pensa Hubble che nel 1929 scopre che le galassie lontane si allontanano dalla Terra con una velocità che aumenta con la distanza: l’universo si espande, e si sviluppa l’idea di un universo che nasce dal caso, da una fluttuazione quantistica. Quale sarà il destino di questo universo? Qual è il ruolo dell’uomo in esso? L’universo si espanderà per sempre fino a diventare una “cosa” buia e fredda? Si fermerà fino ad implodere su se stesso? E’ questo un evento ciclico? Viviamo in un mondo tutt’altro che rassicurante, in un certo senso inquietante, dominato dal caso? Probabilmente non ci allontaniamo dal vero Fisic’Arte124 dicendo che la rivoluzione scientifica del Novecento ha messo in crisi l’idea finalistica di universo: un universo fatto per l’uomo. Nell’arte tutto ciò si manifesta nell’inquietudine, nell’insofferenza, nella ricerca di nuovi linguaggi. L’arte diventa espressione della coscienza dell’uomo contemporaneo lacerato dalla mancanza di facili certezze. Si rompe con la tradizione, si sperimentano nuovi linguaggi, si ricercano nuove vie espressive. Finito l’universo dei moti armonici sostenuti da forze angeliche, l’universo del Dio orologiaio, dove tutto è prestabilito, resta un universo aperto ad una sorte incerta e proprio per questo aperto a varie possibilità. Questo nuovo approccio che limita la conoscenza della realtà, o che comunque si discosta dalla visione della fisica classica e anche da quella relativistica, si manifesta quasi contemporaneamente. Dal tentativo dell’artista di sganciarsi dalla rappresentazione del dato di realtà così come appare per raggiungere una realtà altra, oltre l’apparenza sensibile, nacque l’arte astratta. Il percorso che portò a un tale esito è stato lungo e tormentato e nacque dall’esigenza di creare un’arte nuova. Tale ricerca del nuovo va comunque inserita nella crisi culturale di fine ottocento, quando il diffuso ottimismo derivante dai successi della scienza ottocentesca si incrina. Quindi l’arte astratta partecipa alla reazione generale verso il passato. Si chiede una nuova scienza e una nuova arte. Il dibattito sull’arte astratta e sul suo valore fu molto acceso e ricorda il dibattito che si sviluppò intorno alla meccanica quantistica. Diceva Picasso: “l’arte astratta è solo pittura, e il dramma?” Evidentemente secondo Picasso il dramma sta nella realtà. Allo stesso modo Einstein non accettò mai l’interpretazione probabilistica della meccanica quantistica: “Dio non gioca coi dadi”. Per Einstein era ancora difficile liberarsi di concetti quali traiettoria, posizione, misura classica, causa effetto. Nel saggio Lo spirituale nell’arte (1911) Kandinskij prende atto della “dissoluzione del soggetto” mettendo l’accento su quello che oggi chiameremmo piuttosto l’importanza del ruolo dell’osservatore e del suo “punto di vista”. L’arte - anche quella più apparentemente “figurativa”- non “rappresenta” il mondo, ma piuttosto lo denota tramite le scelte stilistiche peculiari di ogni artista. Semplificando, possiamo dire che Kandinskij pone l’ “occhio della mente” al centro del rapporto tra l’osservatore e il mondo, proprio come gli antichi maestri della prospettiva avevano fornito un modello matematico della visione “fisiologica”. Ed è interessante notare che tutto questo avviene in anni in cui la relatività e la fisica quantistica cominciavano a porre in termini scientifici la questione metodologica del ruolo dell’osservatore. Una prima conclusione provvisoria è dunque: noi vediamo il mondo attraverso il filtro cognitivo dei nostri modelli (culturali, concettuali, epistemologici, metodologici, formali). Questa crisi della realtà e il suo carattere aleatorio portano alla nascita, come abbiamo detto, nel campo figurativo, dell’arte astratta, l’arte oltre il visibile. Kandinsky (1866-1944) così come Klee (1879-1940) percepirono la esigenza di esprimere l’energia emotiva superando definitivamente la dimensione prospettica in una dimensione espressionista della pittura. In particolare Kandinsky fu affascinato dalla relazione tra la composizione musicale e quella artistica. Suono e tempo venivano così a corrispondere ad onde bidimensionali nello spazio e del tempo. Tale necessità interiore lo conduce ad esprimersi in uno stile intuitivo di una rinnovata composizione pittorica basata su proprietà non più rappresentative delle percezione visiva di tipo prospettico. Fisic’Arte125 Mondrian afferma: “Lo spirito nuovo distrugge la forma delimitata nell’espressione estetica, e ricostruisce un’apparenza equivalente del soggettivo e dell’oggettivo, del contenuto e del contenente: una dualità equilibrata dell’universale e dell’individuale e con questa dualità nella pluralità crea il rapporto puramente estetico”. Il confronto è immediato con il dualismo onda-corpuscolo della fisica quantistica e con il nuovo rapporto naturaosservatore. Così come la scienza cambia paradigma per descrivere la natura, l’arte si da nuove regole per andare oltre la limitante visione dell’occhio umano. I cubisti capiscono che il “davanti” e il “dietro” sono due parti integranti di un oggetto, due facce che l’uomo non può vedere contemporaneamente, e tentano di sopperire con la loro arte a tale mancanza. Essi vogliono rappresentare la realtà e il “dietro” è importante tanto quanto il “davanti”, quindi anch’esso va rappresentato. L’arte astratta introduce la dissoluzione del soggetto, e rende impossibile una netta separazione fra l’osservatore-artista e oggetto osservato, togliendo una delle caratteristiche più spontanee che il senso comune (e la fisica tradizionale) sottendevano per una conoscenza oggettiva del mondo, che ora viene descritto tramite la scelta di un proprio linguaggio estetico. Fisic’Arte126 Pertanto nel campo dell’arte, le due visioni “davanti-dietro” o “osservatore-oggetto osservato”, e nel campo fisico la dualità onda-corpuscolo, sono obbligate a convivere, non già in campi separati dell’arte o della fisica, come accadeva in precedenza, ma nella descrizione del comportamento di una medesima entità. Nel 1911 Rutherford con la scoperta del nucleo dell’atomo e la conferma della dissoluzione della sostanza della materia, nel gioco di forze elettriche fra atomi e molecole, porta avanti il più grande cambiamento alle nostre idee sulla materia, mai realizzato da Democrito in poi. Con la scoperta del vuoto della materia e la rappresentazione dell’atomo poroso come un sistema solare, viene messa in discussione la sostanzialità della vecchia materia. Nella Teoria dei Quanti tutto questo si tramuta nel radicale superamento tra la materia, concepita come un insieme di minuscole entità discrete ed individuali nello spazio e nel tempo e la radiazione, intesa come fenomeno continuo ed ondulatorio. I fenomeni studiati non possono prescindere dagli effetti, dalle azioni di disturbo, provocate dall’osservatore, che viene pertanto assunto come parte integrante del fenomeno; e con il principio di indeterminazione di Heisenberg si dissolve il meccanismo di ‘causa-effetto’ che aveva retto nella Fisica Classica Newtoniana il principio della possibilità di osservazione obiettiva del “reale”, facendo sì che la sorgente casuale di un fenomeno rappresenti la probabilità della sorgente casuale di un altro fenomeno. In questo contesto accade improvvisamente l’evento del gesto di Duchamp: una ruota di bicicletta montata su una sedia da cucina; oggetto anonimo prelevato dalla propria destinazione, che viene esposto in un luogo deputato all’arte, come vera opera d’arte. L’artista, dopo aver isolato l’oggetto dal proprio ambiente e dal proprio contesto fisico ed averlo confinato in un nuovo ordine di significati logici, rinominandolo con un diverso termine, compie un gesto e produce un evento: lo espone in una galleria o in un museo. L’oggetto divenuto ‘ready-made’ per scelta dell’artista, che lo mette in presa diretta con la realtà della struttura linguistica dell’arte, non solo muta la nozione stessa dell’arte, ma a sua volta, perso il suo statuto di utensile, viene trasformato dal sistema dell’arte in oggetto artistico. La casualità, tanto importante per Duchamp e il movimento Dadaista, intesa come indifferenza visiva ed attitudine alla libertà, trova nel principio di indeterminazione un approdo, che diventerà terra feconda di lavoro per tutta la Seconda Avanguardia del Secolo, la cui nascita può collocarsi intorno al 1956-58. Nel 1926 Schrödinger suggeriva che si può intendere la materia come collezione di onde che si sommano e interferiscono fra loro, affermando che una particella non era altro in realtà che un gruppo di onde di dimensioni relativamente piccole, introducendo, così, un’indeterminatezza di comportamento al carattere dell’atomo. Anderson nel 1932 otteneva una fotografia nitida di una particella, che si incurvava nella direzione sbagliata. La particella aveva la stessa massa, ma carica opposta. I positroni erano il nuovo tipo di materia-antimateria, che Dirac aveva previsto qualche anno prima (1930). Dirac infatti era arrivato a mettere a punto una nuova concezione del vuoto, come un mare senza fondo, occupato da elettroni di energia negativa. Un’altra frontiera era caduta. Da quel momento diviene sempre più chiaro che quasi tutte le particelle hanno un’anti-particella uguale di Fisic’Arte127 massa nella maggior parte delle proprietà, ma di carica opposta. Dirac era arrivato alla conclusione che il vuoto fosse pieno di copie virtuali (particelle-antiparticelle), che quando si incontrano si annichilano, liberando, con la scomparsa della materia, l’energia di massa (E=mc2 ) . Il concetto di materia e di antimateria, particella ed antiparticella rimanda e visualizza la nozione di positivo e di negativo ed apre la possibilità di indagine nel campo della negatività. La possibilità della materia di presentarsi sotto forme diverse, sia come energia che come materia universale, in quanto tutte le particelle elementari possono, ad energie sufficientemente alte, essere trasmutate in altre particelle, o possono semplicemente venir create dall’energia cinetica o risolversi in questa (ad esempio in radiazione), apre inediti orizzonti alla visualizzazione potenziale di nuovi linguaggi e di nuovi sconfinamenti per l’arte. Infatti i linguaggi che diventeranno la matrice genetica del grande sconfinamento verso il “fuori-quadro”, proprio della Seconda Avanguardia, iniziano la loro formulazione negli anni seguenti la Seconda Guerra Mondiale. La figura artistica che meglio ha interpretato questa nuova frontiera può essere indicata in Ad Reinhardt. Il movimento dell’Happening&Fluxus può essere visto come l’area di pensiero dove il sapere quantistico trova l’humus ideale per attivare la propria presa diretta sulla realtà. Infatti con l’Happening si ha l’integrazione di tutti gli elementi della rappresentazione, quali: l’environment, il tempo, lo spazio, le composizioni e la gente che vi partecipa, dove lo spettatore assume il ruolo di “partecipatore” all’evento stesso. 18 Happenings in 6 Parts è un’opera nella quale Allan Kaprow (1927) ha riversato la sua formazione all’action painting e lo studio delle performance di John Cage. L’happening si compone di una partitura attentamente concepita e scritta rigidamente, grazie alla quale il pubblico, per la prima volta nell’arte del ventesimo secolo, viene coinvolto e manipolato interattivamente. Queste le istruzioni fornite agli spettatori partecipanti: “la performance è divisa in sei parti... Ogni parte contiene tre happenings che accadono immediatamente. L'inizio e la conclusione di ciascuna performance saranno segnalati da una campana. Alla fine della performance verranno uditi due colpi di campana... non ci sarà applauso dopo ogni insieme, ma potete applaudire dopo il sesto insieme se lo desiderate.” Negli happenings di Kaprow gli spettatori si trasformano in vero e proprio materiale attraverso il quale l’artista può rappresentare la propria visione dell’arte e del mondo. Fluxus è un termine latino che significa flusso, quindi sta ad indicare un fenomeno in continuo mutamento, che non ha forma né luogo. Rifacendosi all’happening americano, Fluxus teorizza un modo di fare arte che è un fluire ininterrotto di situazioni, percezioni e molteplici esperienze estetiche e sperimentali. La caratteristica di Fluxus è l’interdisciplinarietà dei suoi eventi, che al suo interno possono contenere e inglobare svariate correnti artistiche, come per esempio la musica sperimentale, il noveau realism, la Fisic’Arte128 videoart, l’arte povera, il minimalismo e l’arte concettuale. Non è un gruppo unificato né ha un manifesto programmato, ma vuole piuttosto essere un insieme di individui, di artisti, che partecipano attivamente al movimento portando avanti le loro personali sperimentazioni. Fluxus evidenzia, quindi, quel grande fenomeno della de-realizzazione operata dall’avvento della televisione, una nuova realtà dell’immagine, che ha prodotto una perdita di consistenza nella natura delle cose. L’arte per questi artisti diviene il luogo totale, disponibile ad accogliere qualsiasi possibilità creativa. Tale movimento mette in luce il quotidiano totalizzante dell’era tecnotronica, il quotidiano che vive il mutamento radicale con le cose e con gli altri, la perdita della consistenza materiale degli oggetti della percezione, diventati e che diventeranno veri e propri simulacri immateriali. L’Arte Povera è stata una delle poetiche artistiche che meglio hanno caratterizzato la seconda metà degli anni sessanta. Questo movimento, fin dalle sue prime apparizioni, si è segnalato per la costante ricerca a “identificare l’azione dell’uomo nel suo libero progettarsi”, attraverso una continua focalizzazione nei suoi gesti sociali autonomi intesi come emergenza a sé stante. Infatti l’Arte Povera coltiva l’atteggiamento che tende al “reperimento del significato fattuale del senso emergente del vivere dell’uomo” come liberazione formativa e compositiva di un’arte che vuole “essere antisistema”. Per fare questo, l’artista, in una società dove tutto è sistema, rifiuta ogni posizione categoriale ed ogni etichetta per identificarsi solo con sè stesso. L’Arte Povera si presenta quindi come un’arte che si lega al contingente, all’evento ed al presente: un presente che non si chiude nel quotidiano, ma vive la dimensione “dell’astoricità”. L’arte quindi cessa di essere un manufatto privilegiato, per diventare una pratica processuale, dove i processi di realizzazione e le analisi che ne scaturiscono diventano più significativi dell’opera stessa. L’arte diventa così una sottile ed acuta definizione degli elementi psichici e naturali che attraverso la loro presentazione assumono la possibilità di diventare “oggetti di teorie”. La volontà di evidenziare “l’energia”, di analizzare “i processi naturali”, di ricorrere “ai materiali poveri”, indica la determinazione, da parte degli artisti dell’Arte Povera, di assumere un nuovo concetto di arte “come stimolo a verificare continuamente il proprio grado di esistenza mentale e fisico”, ma soprattutto “come l’urgenza di un esserci” che “elimina lo schermo fantastico e mimetico della rappresentazione artistica dinanzi alla comunità degli spettatori”. Questo movimento si caratterizza quindi per una forte tendenza al riduzionismo, inteso come recupero del “primario” nel senso di visualizzare come arte gli elementi primari della natura, quali: la terra, l’acqua, il fuoco, l’aria ma anche una non esclusione degli elementi che costituiscono il nostro panorama ed orizzonte quotidiano. Si realizza con l’Arte Povera un momento profondamente freddo che tende alla ‘decultura’, alla regressione dell’immagine allo stato ‘preiconografico’, ad un impegno con l’evento mentale e comportamentistico, dove la creatività Fisic’Arte129 tende a riempire il vuoto esistente tra arte e vita. Ne deriva ‘una fisicizzazione di un’idea, un’idea tradotta in materia, la quale produce una microemotività antropologica intensa e cerebrale. Indubbiamente l’Arte Povera non può sottrarsi al clima culturale che si era instaurato alla fine degli anni ‘50/inizio ‘60, quando l’esplorazione del mondo subatomico da parte della fisica quantistica aveva rivelato la natura intrinsecamente dinamica della materia. Infatti in quegli anni si era diffusa la conoscenza che i costituenti dell’atomo, ossia le particelle subatomiche, erano configurazioni dinamiche, che non esistono in quanto entità isolate, ma come parti integranti di un’inestricabile rete di interazioni. Queste interazioni comportano un flusso incessante di energie, che si manifesta come scambio di particelle: un’azione reciproca dinamica in cui le particelle sono create o distrutte in un processo senza fine, in una continua variazione di configurazioni di energia. Se la rottura del determinismo causa/effetto ed il principio di indeterminazione erano stati in qualche modo il portato epistemologico su cui si erano rette le problematiche dell’Happening & Fluxus, appare abbastanza evidente che il nuovo concetto di mutabilità della materia quantica in qualche modo corre in parallelo con le posizioni teoriche dell’Arte Povera. Tale arte, infatti, si pone come evidenziazione della forza energetica e processuale insita nella natura, come formulazione di equilibri instabili e di processualità dinamiche, come fisicizzazione della forza di un’azione e di un evento, come recupero di energie elementari biologiche e naturali, ecc. Privilegiando lo statuto di veicolo di informazione e di messaggio piuttosto che il valore estetico proprio dell’arte che l’aveva preceduto,essa trova nella dimensione quantitativa il proprio contesto espressivo. Il fruitore non è più un elemento passivo all’interno del fatto estetico, ma diventa partecipatore attivo al fatto stesso. Di qui nasce l’esigenza di un sempre maggiore coinvolgimento dell’osservatore che entra nell’evento come presenza necessaria. Per ottenere questo, l’artista estende le dimensioni dell’opera in modo da inglobare nel suo gioco linguistico l’osservatore, il quale partecipa attivamente al processo artistico. L’opera di Ad Reinhardt (1913-1967) invece diviene emblematica per la comprensione del Minimalismo e gli sviluppi dell’Arte Concettuale. I suoi ‘quadri neri’ ottenuti mediante un processo di riduzione, sottrazione e sospensione di tutti gli elementi che formano un quadro, aprono quella grande rivoluzione linguistica di “uscita dal quadro stesso”, che prenderà corpo e definizione qualche anno più tardi. La sua opera infatti rappresenta, sempre più nel tempo, il tendere dell’arte verso una ridefinizione ‘di sè da sè stessa’, cioè il momento catarchico dell’arte reso necessario dall’avvento del nuovo sapere. In tal modo Reinhardt riesce a spingere oltre al limite estremo della non percettibilità la rappresentazione e lo sfondo, raggiungendo, attraverso la loro immersione nel nero, la dimensione liminale di questi elementi. Le ‘pitture nere’ di Reinhardt, portate avanti dall’autore fino alla sua morte, visualizzano il raggiungimento della nuova dimensione legata al ‘vuoto quantico’ ed alla ‘negatività’, elementi che sono alla base della grande ‘frattura’ delle arti, propria della seconda metà del XX secolo. Fisic’Arte130 Muovendo dall’opera di Ad Reinhardt e di Barnet Newman (1905-1970), il paradigma teorico della Minimal Art vuole invece sostenere la più deliberata riduzione dei mezzi espressivi, assieme al rifiuto di qualsiasi inflessione soggettiva. Lo scopo di questi artisti minimalisti era quello di raggiungere, sia mediante rappresentazioni, che attraverso suggerimenti o allusioni, quel “minimum sensibile”, quel limite mitico della sensibilità, dove l’oggetto veniva dissolto ed il valore della sensibilità ridotto alla sua soglia più bassa. L’idea per gli artisti minimalisti prevede quindi lo svolgimento successivo dell’operazione, in quanto essa agisce da nucleo genetico di un’ operatività tendente ad un’ intelligenza teorica del fare arte. Il procedimento artistico si identifica quindi con le operazioni trasformazionali compiute all’interno del sistema ed il valore dell’opera risiede nelle modificazioni introdotte nel codice,che il codice prevede e comprende come campo di possibilità. Rimuovendo “il complesso” per arrivare “all’elementare irrelato”, i minimalisti fondano un nuovo principio regolativo dell’operare artistico, dove le “strutture primarie” della loro arte vengono costruite anche delimitando gli spazi in negativo e formalizzando le assenze. Con l’Arte Concettuale, movimento nato intorno agli anni 1966/67, si arriva pertanto alla rinuncia di ogni funzione rappresentativa ed espressiva, un'arte fondata sul pensiero e non più su un ormai frainteso ed equivoco piacere estetico. Questo tipo di ricerca non necessita più dell’uso di un codice rappresentativo o estetico. Non ricercando più un’esplorazione del mondo, ma esplorando l’arte stessa, il Concettuale fa cadere ogni genere di preoccupazione formale. E’ l’idea dell’arte nell’autoanalisi di sè stessa. L’Arte Concettuale è tautologica: l’idea dell’arte e l’arte sono la stessa cosa. L’arte può così instaurare un rapporto tra l’opera ed il fruitore dove il dato artistico diviene pura trasmissione di una informazione. Tale rapporto non presenta però il semplice carattere “unidirezionale” (dall’opera al fruitore), bensì include il destinatario nel processo conoscitivo come momento integrativo e performativo dell’atto stesso. Emblematico di questo pensiero è l’opera di Piero Manzoni (1933-1963), Merda d’artista. Per Sol Lewitt (1928-2007), uno dei fondatori dell’Arte Concettuale, proprio perché l’idea o appunto il concetto rappresenta l’aspetto più importante nella creazione artistica, ogni decisione sull’esecuzione e sulla presentazione di un’opera d’arte è presa antecedentemente e la sua realizzazione diviene un aspetto secondario, tanto che può essere attuata da chiunque purché si rispettino le istruzioni dell’artista, la precisa esplicazione della sue intenzioni, della sua idea. Per usare le parole dell’artista, l’idea diventa lo strumento che produce l’arte. Fisic’Arte131 Queste due vie: la linea dell’Happening & Fluxus e dell’Arte Povera e la linea di Ad Reinhardt, della Minimal Art e dell’Arte Concettuale possono essere considerate all’interno della Storia dell’Arte come i percorsi sincronici del sapere più vicini e paralleli allo sviluppo delle conoscenze della fisica ed ai suoi principi fondanti il nostro secolo: la prima linea può essere definita come la ‘linea epistemologica’ dell’arte e la seconda come la ‘linea linguistica’ o del proposizionalismo, legata allo sviluppo della struttura del linguaggio ed alla ridefinizione dell’arte nel suo rapporto dialettico con la scienza. A partire dagli anni cinquanta si sono sviluppate in fisica tre grandi scoperte: l’instabilità delle particelle elementari, le strutture del non equilibrio e l’evoluzione dell’universo, che va sotto il nome di ‘Big Bang’. Le strutture del non equilibrio, per soffermarci su questo solo problema, sono appunto quei sistemi che dissipano le spinte ambientali al mantenimento della propria organizzazione, senza che ciò implichi una rigidità nel comportamento strutturale. Lontano dall’equilibrio i processi irreversibili sono fonte di coerenza. L’apparizione di questa attività coerente della materia (le strutture dissipative) ci impone una nuova maniera di porci in rapporto col sistema che definiamo e manipoliamo. I sistemi lontani dall’equilibrio non subiscono la forza di gravità, allo stesso modo di un corpo pesante, ed il loro comportamento non è sottoposto ad una generica relazione di causa/effetto. La relazione causale è qui reciproca: è l’attività del sistema che “da senso” alla gravità, che la integra in modo specifico al suo regime di funzionamento e la gravità rende questo sistema capace di nuove strutture e nuove differenziazioni. E’ l’attività intrinseca del sistema che determina il modo in cui dobbiamo descrivere il suo rapporto con l’ambiente e che genera, dunque, il modello conoscitivo che sarà adeguato per comprendere le sue storie possibili. Possiamo quindi parlare delle strutture lontane dall’equilibrio, come di fenomeni di auto-organizzazione. Ma c’è di più! Vicino all’equilibrio, i punti che giacciono su uno stesso piano hanno tutti le stesse proprietà. Lontano dall’equilibrio compaiono zone di chirilità opposte. E’ presente quindi una rottura della simmetria dello spazio, allo stesso modo in cui nei fenomeni temporali l’irreversibilità provoca la rottura della simmetria del tempo. L’irreversiblità crea quindi una diversificazione all’interno del sistema; la forma dello spazio è diversa rispetto all’esterno del sistema stesso. Ogni stato esterno all’ambiente deve quindi essere interpretato in relazione allo stato interno del sistema ed ai fini che intende perseguire. Nasce così il problema dell’autoriferimento e soprattutto l’autocreazione di senso. L’esperienza artistica, che prima di tutte aveva aperto questa nuova frontiera, provocando una vera e propria ristrutturazione all’interno dei linguaggi dell’arte è quella di Neuhaus, esaminata in precedenza. Siamo alle soglie degli anni ‘90 dove il portato epistemologico delle “strutture dissipative” e della “complessità” ridisegna la conoscenza ed il sapere dell’ultimo paradigma di fine secolo. Questi concetti appaiono ora essenziali per far capire come ci troviamo all’interno di un nuovo sapere che presuppone una diversa realtà: una realtà che incorpora ora la non linearità, l’instabilità e la dissipazione nella descrizione di base della natura. L’ottimismo degli anni Sessanta, in cui si parlava non di previsioni sulla realtà, ma addirittura di controllo, è opportunità ormai lontana. La predicibilità a tempi lunghi é possibile solo all’interno della classe di sistemi lineari, allora i soli conosciuti. Attualmente la maggior parte degli avvenimenti è governata da leggi di evoluzione non lineari, dove sono presenti i fenomeni della forte dipendenza dalle condizioni iniziali. Qui piccole Fisic’Arte132 incertezze possono amplificarsi velocemente fino a rendere vano ogni tentativo di previsione dopo un tempo relativamente breve. Il sistema caotico è infatti impredicibile sui tempi lunghi a causa della crescita esponenziale della distanza tra due traiettorie inizialmente molto vicine. L’indeterminatezza, la complementarietà, la processualità, l’interdisciplinarietà che erano i campi del sapere entro i quali gravitavano i movimenti degli anni ‘60/’70 nell’arte, vengono ora scavalcati da una nuova visione del mondo che presuppone nuove categorie di pensiero quali: l’autoorganizzazione, l’interazione, la coevoluzione, la condivisione, la complessità, la contraddittorietà, il possibilismo, la traslocazione, la relazionabilità. Il linguaggio dell’arte, in questa nuova dimensione del sapere, dove il tempo è indissolubile dalla corporeità cosmica in quanto espresso in termini di relazioni tra le varie parti che compongono il sistema, non può far altro che registrare una fenomenologia dell’oggetto in perenne trasformazione e dislocazione, in quanto risponde ad una soggettività frantumata in continua ricettività rispetto alle autorganizzazioni che incontra. La scienza, però, oltre ad essere un possibile linguaggio per la descrizione del mondo, o della realtà sensibile, diventare tema di rappresentazioni pittoriche o influenzarle con le sue scoperte, può rappresentare anche un’ossessione, come nel caso di Dalì, capace di produrre opere artistiche: “Gli intellettuali e i letterati non possono darmi nulla. Gli scienziati mi danno tutto, perfino l’immortalità dell’anima”. Queste sono le parole di Dalì che fino in punto di morte tenne libri di Hawking e Schroedinger sul comodino. Per tutta la vita Dalì fu affascinato e ossessionato dalla scienza: moltissimi dei suoi dipinti sono ispirati alle maggiori scoperte del XX secolo e perfino la sua firma è direttamente influenzata da un’immagine scientifica. Ispirato dal Principio di indeterminazione di Heisenberg, scrisse il suo Manifesto Antimaterico: "Durante il periodo surrealista volevo creare l'iconografia del mondo interiore e del mondo del meraviglioso concepiti da mio padre Freud. Oggi, invece, il mondo esteriore e quello della fisica hanno superato quello della psicologia. oggi mio padre è il Dottor Heisenberg." Dalì era avido di ogni tipo di letteratura scientifica, dai trattati di psicoanalisi a quelli di meccanica quantistica, dalla matematica alla genetica; tentò in ogni modo di conoscere e scambiare idee con i più celebri scienziati dell’epoca tra cui Prigogine e Watson, che gli chiese di illustrare il suo libro sul DNA La doppia elica. Si fece amico di ricercatori in fisica, matematica e biologia, sorpresi di scoprire sotto la facciata del personaggio eccentrico sempre desideroso di scandalizzare, un brillante artista con cui poter discutere liberamente di arte e scienza. Suggestionato dalla meccanica quantistica, nel 1945 iniziò il suo periodo atomico: “L’esplosione atomica del 6 agosto 1945 mi aveva sismicamente fatto vacillare. Ormai l’atomo era il mio argomento di riflessione preferito …Voglio vedere e capire la forza e leggi nascoste delle cose per poterle controllare” . I suoi interessi, pertanto, si spostano bruscamente dalla psicoanalisi alla fisica nucleare. Questa scienza lo influenzerà fino al Cinquanta. Cercherà di coniugare la fisica quantistica alla tradizione classica e rinascimentale. I paesaggi dipinti dopo le esplosioni atomiche Fisic’Arte133 sono permeati dal terrore per ciò che è avvenuto e dal desiderio di dominare una realtà che crolla a pezzi. Questa serie di quadri è stata definita la “mistica nucleare” daliniana. È questo il periodo delle “visioni scientifiche” mistiche, quello in cui le nature morte “vive” o le composizioni architettoniche che fanno riferimento al patrimonio artistico sono un’espressione dell’atomo e dell’equilibrio intra-atomico rivelati dalle scoperte scientifiche. Tra essi ricordiamo: Idillio atomico e uranico melanconico del 1945 Leda atomica del 1949 La Madonna di Port Lligat del 1950. In essi “spazio fluttuante e realismo quantizzato” forniscono la chiave per dominare la forza di gravità. Ogni frammento appare sospeso ed estraneo alla composizione completa, come nell’equilibrio magnetico tra le particelle nella materia. Dalì smaterializza i corpi per poi ricomporli con rinnovata spiritualità, facendo fluire la loro energia interna atomica e sacra; quasi per esorcizzare la paura della distruzione del genere umano. Seppur umanamente disperato per le sorti delle vittime, non prende le distanze rispetto alla fisica atomica come gli altri surrealisti. Egli segue una posizione personale, e ne continua a celebrare la potenza e la modernità. Per lui, l’artista ha l’obbligo di trasmettere la cosmogonìa del suo tempo. E, poiché viviamo nell’era atomica questi ha il compito di elaborare un modo per trasmettere un messaggio al passo coi tempi. In Idillio atomico e uranico melanconico troviamo la testimonianza dello shock iniziale del dopo-atomica, terrificante ed esaltante insieme. Nell’atmosfera plumbea di un interno devastato dal bombardamento notturno, la vista si ritaglia qualche stralcio di cielo azzurro. In primo piano c’è una sagoma sulla quale poggia un orologio molle. Al suo interno, al posto della volta celeste, si intravede la forma del bombardiere Enola Gay, che sganciò la bomba atomica su Hiroshima, posto in maniera tale da alludere ai tratti di un viso. In alto, in una crepa nella parete, gli elefanti dalle gambe sottilissime, replicano in modo fantastico,l’azione di volo dell’aereo e sganciano bombe atomiche dai loro ventri. In un maliconico chiaro di luna assistiamo alla liberazione di atomi impazziti, trattenuti dalla materia. Tutto accade davanti agli occhi sgomenti di un uomo “atomizzato”, sulla sinistra, la cui orbita oculare ha espulso la pupilla, il cui pomo d’adamo è diventato un globo metallico che schizza fuori dalla gola. Centrale è la figura del battitore di baseball, Fisic’Arte134 che, con la sua mazza, è pronto a spedire nel cielo le palline atomiche volanti. Dalì lega l’epopea americana a innocue illustrazioni sportive, mescolando violenza e agonismo. Molti temi della sua pittura tornano in questa tela sorprendentemente tridimensionale: moderno e rinascimento, figure mortifere e fuoco nucleare, caos e ordine supremo, espresso con le forme di un tempietto che ricorda quello di Bramante visto a Roma (San Pietro in Montorio). Un orologio molle si trasforma in una vagina, divorata dalle formiche; accanto vasi e stampelle, estromesse dalle loro forme reali, ma parzialmente riconoscibili. Il tutto sospeso nello spazio. In questo drammatico scenario il dolore supremo è affidato all’orrenda faccia deforme con un naso lunghissimo grottescamente rigirato su se stesso, che si morsica la lingua. Nella Leda atomica e nella Madonna di Port Ligat tutto vi è sospeso nello spazio, senza che niente tocchi niente. “In un ribollire geniale di idee, decisi di applicarmi alla risoluzione plastica della teoria dei quanti e inventai il realismo quantificato per poter tenere sotto controllo la gravitazione…..Dematerializzavo plasticamente la materia, poi la spiritualizzavo per giungere a creare l’energia. L’oggetto è un essere che vive grazie all’energia che esso racchiude e irradia, grazie alla densità di materia che esso integra. Ciascuno dei miei soggetti è contemporaneamente un minerale che partecipa alle pulsioni del mondo e un pezzetto d’uranio vivente………La mia mistica non è soltanto religiosa ma anche nucleare……” Questa tematica “nucleare” condurrà il pittore catalano a scomporre ulteriormente la figura attraverso la cosiddetta “pittura crepuscolare” della Galatea delle Sfere, o dell’esplosione di Testa raffaellesca. La sintesi fra decostruzione trascendentale e riscoperta dello stile classico raggiunge il suo apice proprio nella tela Dematerializzazione vicino al naso di Nerone, conosciuta anche col suo titolo surrealista Separazione dell’atomo. Vediamo il paesaggio dell’Ampurdan, davanti al quale si compone un altare dedicato alla sparizione del genere umano. Il punto di fuga prospettico è perfettamente centrale. In primo piano, un cubo di marmo quadripartito fluttua; su di esso sono incise le parole Atomicus Nemo (in riferimento all’ultimo olocausto), al centro di questa figura c’è un melograno diviso a metà. Fisic’Arte135 E’ il simbolo di un universo atomico ed i chicchi si muovono come elettrificati, travaglio di un’umanità provata dai patimenti, sezionata nella sua fibra fisica e morale, frastornata e tremebonda, che cerca di ricomporsi ma non può. In alto un arco romano, sovrastato da un timpano, con nicchie contenti figure evanescenti, vola nel cielo azzurro. Le figure, sebbene non poggino a terra, sembrano statiche e immutabili. In mezzo all’architettura troviamo il busto di Nerone, emblema del potere. La statua appare in quattro frammenti: la gola, il basamento, il busto ed il naso, rimando alla distruzione dell’Impero romano e della civiltà contemporanea. Il naso è distaccato dalla faccia, come se fosse al primo stadio di decomposione; sospeso, funziona come un orologio solare, che segna l’ora nell’era atomica. Sopra il timpano troviamo due piccole figure: il progresso alato e un personaggio vestito di stracci. Essi raffigurano il dibattito (ancora attualissimo) sull’applicazione pacifica del nucleare e i terribili effetti del suo uso come arma. Le figure in basso sono persone come noi che guardano la scena, la morte è vestita di bianco; anche il cipresso è una metafora della morte ed è saldamente ancorato a terra. Al centro dell’opera, calmai e penne offrono la speranza di gestire questo potere con la negoziazione fra le potenze di tutti i continenti. In accordo con queste nuove convinzioni Dalì dipinse La disintegrazione della persistenza della memoria, opera con cui riprende La persistenza della memoria ma la rappresenta mentre va in frantumi e si scompone in tasselli. Dopo aver visto gli effetti distruttivi dell'utilizzo dell'energia atomica, Dalì decise che tempo e spazio non potevano più adattarsi alle circostanze, questa attenuante non poteva più esistere. In questo modo si riassumeva chiaramente il riconoscimento delle nuove frontiere della scienza. Anche l’opera di Domingo Notaro (1939) è percorsa da un filo conduttore, che è il legame con la scienza, in particolare con la cosmologia. Nella splendida serie di dipinti denominati Pluridimensione i grandi rettangoli implosi su sfondo galattico sono evocanti singolarità che richiamano l'enigmatico monolite nero del capolavoro di Stanley Kubrick 200l Odissea nello spazio, traccia reale ed inquietante di altre civiltà. Lo stesso stupore dell'astronauta di Kubrick, folgorato dalla strabiliante scoperta, la stessa “inquietudine scientifica” pervadono Notaro. La curiosità scientifica di Notaro va però oltre l'interesse per il cosmo, questo cosmo, il cui centro è ancora in definitiva il mistero dell'uomo. Fisic’Arte136 L'esploratore di Kubrick ritrova, intatti, ai confini dell'universo, dove lo spazio e il tempo si curvano secondo le leggi del campo di Einstein, se stesso all'inizio della sua parabola umana. Lo scienziato Notaro raffigura un "Pluriverso" - un universo plurimo einsteiniamente curvo, immerso nella luce fredda del big-bang primordiale, dal quale l'uomo non è escluso, ma non è più il centro del sistema, origine e fine di tutto. Ai margini dell'universo plurimo figure umane fluttuano in assenza di gravità come risucchiate da un gorgo cosmico mosso da una forza primordiale che le assottiglia, le rende evanescenti e infine le fa riapparire rigenerate. Le opere di Notaro fanno pensare alle suggestive moderne teorie cosmologiche sull’origine dell’universo, ai ponti di Einstein-Rosen che dovrebbero collegare i buchi neri di un universo ai buchi bianchi di un altro universo, da cui zampilla materia rigenerata. Le leggi fondamentali della Natura, così come le rivela la scienza, sono in sè semplici ed eleganti. Le leggi di invarianza, la conservazione di simmetrie originali, e la loro eventuale rottura, sono un modo per comprendere la Natura, talora il solo modo per interpretarla. La bellezza “artistica” delle leggi della Natura, che è il loro connotato più genuino, il loro DNA, sposa dunque in modo naturale scienza e arte. Un'arte con un forte contenuto scientifico, come è quella di Notaro, ha dunque un segno intrinseco, un "decodificatore" della Vita e perciò anche una "giustificazione-motivazione" per infrangere, eventualmente, l'obbedienza a regole fisse di composizione, per provocare, come fa Notaro con la sua opera. Anche il modo di esprimersi di Notaro è scientifico: Evento, Soglia, sono i nomi di sue opere più recenti, parole ricorrenti nel linguaggio scientifico. Scienza è bellezza. La grazia sensuale delle figure umane di Notaro, l'eleganza eterea di certe sue composizioni – si pensi, ad esempio, all'incanto di Anthurium richiamano l'armonia di certi principi di invarianza delle leggi fondamentali della Natura, sono compiute e perfette come un'equazione della teoria della relatività o della meccanica quantistica. Fisic’Arte137 5. Arte nucleare L'Arte nucleare è ben rappresentata dal cosiddetto Movimento nucleare, una corrente artistica nata quando Enrico Baj (1924-2003) e Sergio Dangelo (1932), ai quali in seguito si affiancheranno altri importanti artisti non solo italiani, pubblicano a Milano nel 1951 il Manifesto tecnico della Pittura nucleare, in cui si legge: «I Nucleari vogliono abbattere tutti gli "ismi" di una pittura che cade inevitabilmente nell'accademismo, qualunque sia la sua genesi. Essi vogliono e possono reinventare la Pittura. Le forme si disintegrano: le nuove forme dell'uomo sono quelle dell'universo atomico. Le forze sono le cariche elettroniche. La bellezza ideale non appartiene più ad una casta di stupidi eroi, nè ai robot. Ma coincide con la rappresentazione dell'uomo nucleare e del suo spazio. [...] La verità non vi appartiene: è dentro l'atomo. La pittura nucleare documenta la ricerca di questa verità.» La suggestione dell'epoca nucleare aveva già in passato interessato altri artisti come Dalì con la sua opera Idillio atomico, ma senza strutturarsi teoricamente come invece fà il gruppo milanese. Nella scia delle teorie atomiche ed einsteiniane, dei progressi scientifici nel campo della fisica e dello studio della materia e dell'energia, i pittori nucleari realizzano opere per lo più astratte o informali, dalle forme vorticose, a spirali, che vogliono rappresentare lo spazio cosmico impregnato di energia, a colori vivaci ed incandescenti, intensi, inusuali, in una interpretazione poetica dell'esplosione nucleare della materia: ancora una volta, vengono messi in discussione i principi tradizionali del dipingere, la forzata razionalizzazione e geometrizzazione dell'arte, la prevalenza della linea e dell'angolo retto, davanti alla dimostrata esistenza di fenomeni della realtà al di fuori delle possibilità percettive dell'uomo. E' l'inebriante scoperta di un mondo invisibile, fatto di radiazioni cosmiche, di onde elettromagnetiche, di universi alieni, mai prima di allora rappresentati. Enrico Baj – Bambini,1956 Sergio Dangelo – Tramonto,1955 Formalmente, nell’arte nucleare convergono elementi surrealisti, simbolisti, dadaisti, espressionisti gestuali, riecheggiati anche nei "concetti spaziali" di Lucio Fontana e dei pittori dello Spazialismo. In realtà i pittori nucleari finiranno per esprimere anche le proprie nevrosi e le vane aspirazioni ad una rappresentazione di ciò che non si può rappresentare, giungendo generalmente a posizioni critiche nei confronti di un mondo Fisic’Arte138 sostanzialmente ingovernabile ed inconoscibile, pericolosamente in bilico su un imminente disastro nucleare. Voltolino Fontani Dinamica di assestamento e mancata stasi,1948 I Nucleari furono preceduti dagli Eaisti, un gruppo di pittori e poeti livornesi, guidati dal pittore Voltolino Fontani (1920-1976), che dell'Eaismo (da Era Atomicaismo) fu l'ideatore. L'opera di Fontani Dinamica di assestamento e mancata stasi (1948), in cui si raffigurano radiazioni atomiche appena dopo una esplosione nucleare, testimonia l'affinità delle tematiche eaiste con quelle del movimento milanese, c he non nascondono però le notevoli divergenze di pensiero. Secondo l'Eaismo l'umanità stava entrando in un periodo nel quale improvvisamente risultava evidente l'inadeguatezza della dimensione morale dell'umanità nel suo complesso, rispetto alle magnifiche possibilità tecnico-scientifiche che di colpo in senso tragicamente negativo, con i devastanti bombardamenti nucleari sul Hiroshima e Nagasaki, tutti si rendevano conto di possedere e di dovere con grandissima saggezza contribuire a gestire in maniera non drammatica ed apocalittica. Si legge infatti nel Manifesto dell'Eaismo: « ...la scoperta dell'energia atomica è riguardata dagli EAISTI come l'acquisizione di un principio capace di rivoluzionare la nostra concezione dell'universo, e quindi di alterare quell'equilibrio sentimentale morale che in essa trovava il suo appoggio e la sua giustificazione e capace perciò di metterci di fronte a problemi di incalcolabile portata, quali quelli posti dall'inadeguatezza e sconcordanza oggi esistenti fra la verità e libertà raggiunte dal pensiero scientifico e il tono retrivo e tradizionale della nostra vita sentimentale e morale.» In senso estetico visivo stretto, la pittura eaista aveva il compito di rappresentare la frammentazione della materia con esplicito riferimento alla sua traumatica scomposizione fisico molecolare, ma dovevano anche suggerire la simultanea, costante, indispensabile presenza dell'umanità e dell'uomo nel suo contemporaneo, problematico divenire. Quindi l'Eaismo si proponeva di inserire in ogni singolo dipinto la scomposizione della materia ed altresì la contemporanea presenza dell'uomo (anche soltanto nella sua intuibilità visiva). Soprattutto premeva agli eaisti evidenziare la necessità di un'arte "progressiva" e quindi "aderente all'epoca", che non si identificasse tuttavia in un realismo troppo crudo ma che suggerisse la profonda inquietudine determinata dal progresso. 5. Arte quantistica Con l’avvento della Fisica Quantistica parliamo di caos, visto però come assenza di ordine, come complessità. Per la precisione un caos deterministico, dove il sistema ha un comportamento nel complesso regolare ma irregolare se esaminato in profondità, e quindi impossibile da prevedere. Spesso viene utilizzata la metafora della Danza di Shiva per Fisic’Arte139 spiegare il comportamento delle particelle subatomiche, che si esprimerebbero in una specie di danza cosmica, apparentemente disordinata, ma con strutture ricorrenti e riconoscibili. La Fisica Classica crede invece ad un mondo deterministico, governato da leggi ferree e da rapporti di causa ed effetto facilmente prevedibili. Oggi la Scienza ha accettato l’idea di un mondo retto dal caos, dove le leggi della fisica assumono un senso nuovo, esprimendo solo delle probabilità. Un universo dove tutte le cose e tutti gli eventi sono interconnessi, collegati fra loro; dove la percezione della realtà è trasfigurata dall’interazione tra soggetto vedente e oggetto veduto. Un mondo complesso e non lineare, al quale si riferì probabilmente Picasso quando definì l’Arte “una bugia che ci aiuta a riconoscere la verità“. Fare Arte Quantistica è dunque cercare una verità nascosta, non visibile ad occhio nudo, cercare di interpretare i concetti dei modelli scientifici secondo il sentire dell’artista che si esprime attraverso la pittura. La forza dell’artista non sta solo nella sua creatività, ma anche nella sua intuizione, che può emergere proprio nell’indagare una realtà che spesso è nascosta. L’arte infatti, come diceva Klee, “non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è.” Arte Quantistica, dunque, come strumento in grado di generare un nuovo sapere. Dice il prof. Paolo Manzelli, Direttore del laboratorio di Ricerca Educativa del dipartimento Chimica-Fisica dell’Università di Firenze: ”Il cambiamento cognitivo necessita di entanglement1 della fantasia artistica e della intuizione scientifica per trasfigurare i modelli concettuali, comunicativi ed artistici storicamente acquisiti in precedenza, che vengono trasformati da una proiezione quantistica della creatività umana che ricerca articolate nuove vie di sostenibilità mentale e culturale di dimensione univoca , coerente e trans-disciplinare”. Sintetizzando, il Manifesto dell’Arte Quantistica dell'aprile 2008 vuole essere il primo passo verso una forte interrelazione fra arte, scienza e società al fine di operare un cambiamento reale, sostanziale e non solo formale dei rapporti sociali, culturali ed economici. Uno degli esempi di arte quantistica è quella di Roberto Denti, uno degli autori del Manifesto, le cui creazioni non sono semplici fotografie ma vere e proprie tele. Per l’arte di Denti, come per la Fisica Quantistica, non abbiamo più una rappresentazione oggettiva della realtà, ma l’osservatore diventa parte integrante, per cui il nuovo concetto di realtà che la fisica quantistica ci fa intravedere è una realtà complessa bisognosa di un nuovo linguaggio più intuitivo e artistico. Arte, Fisica e Matematica si fondono attraverso supporti fotografici e pittorici. 1 Entanglement - Fenomeno che si verifica a livello quantistico, che coinvolge due o più particelle generate da uno Fisic’Arte140 La risurrezione è rappresentata dalla doppia rappresentazione della croce: la foto al centro dell'opera rappresenta in primo piano il particolare dell'incrocio dei legni, mentre nella parte bassa è specchiata la parte alta della croce con i ramoscelli d'ulivo. Alto e basso vengono invertiti direttamente nella ripresa fotografica effettuata con gli specchi secondo i dettami dell'Arte Quantistica. I due raggi di luce che partono dalla foto e si irraggiano verso il basso stanno a significare che ogni innalzamento spirituale deve partire dal basso e dal profondo di noi stessi. La componente intima della materia sono gli elettroni ed altre particelle sub-nucleari le cui proprietà sono le vibrazioni ondulatorie e la probabilità della loro distribuzione nello spazio tempo. In questo caso il vaso lo troviamo sulla destra della foto tagliato di tre quarti nell'inquadratura, al fine di dare spazio all'intorno. Una particolare tecnica di elaborazione grafica esalta le componenti essenziali dell'immagine, evidenziando così l'aspetto probabilistico e le vibrazioni ondulatorie. Non so se le opere di Teresa Iaria possono essere inquadrate e catalogate come arte quantistica e quale valore artistico abbiano, ma certamente descrivono, in maniera mirabile, attraverso un originale linguaggio figurativo, concetti e temi della fisica teorica, come il bosone di Higgs, che il modello standard indica come portatrice di forza del campo di Higgs, che si ritiene permei l'universo e conferirebbe la massa alle particelle, oppure i twistors, che nella fisica quantistica rappresentano una unità discreta di spazio-tempo , in accordo con il carattere quantizzato degli scambi energetici, sono rappresentati come delle trottole secondo l’idea di Penrose. L’opera Frequence, invece, nasce da una visita dell’artista al Virgo (rivelatore di onde gravitazionali) del CNR presso Pisa: “Ero interessata a realizzare un campo, un campo unico che invade tutto lo spazio espositivo dove si potessero cogliere frammenti, tracce di qualcosa non visibile, di intangibile come la musica,”. Il campo creato dall’artista si articola in due grandi disegni, in una scultura composta da fili di seta, in un pianoforte e nella musica di Ligeti. Sui disegni compaiono profili di donne dalle lunghe chiome policrome che fanno pensare a dei pentagrammi. Quanto alla scultura con i suoi lunghi fili di seta, una tendina eterea e sensibile, vuole essere una sorta di pettine capace di ordinare il flusso caotico dei cammini ondulatori e delle loro vibrazioni, e di Fisic’Arte141 rendere più percettibile il suono. Al centro di tutto vi è, infine, il pianoforte: l’emblema dell’istallazione da cui dipartono, idealmente, le frequenze (in realtà la musica proviene da un cd). Sono alcuni brani del musicista ungherese Ligeti. From string to loop riflette le ultime teorie della fisica teorica in particolare "la Teoria delle stringhe" e la "Teoria dei Loops", che cercano di combinare in una unica teoria le due grandi teorie del Novecento, La Relatività e la Meccanica quantistica, al momento inconciliabili. Le due teorie suggeriscono modelli del mondo dell'invisibile popolato in un caso da stringhe (particelle elementari unidimensionali) vibranti su undici dimensioni e dall'altro da loops che costituiscono la struttura dello spaziotempo. From string to loop è concepito sulla base di un principio ologrammatico, per cui ogni parte riflette l'ordine globale della struttura implicita attraverso l'auto-somiglianza. L'immagine generata non è altro che la proiezione bidimensionale di un oggetto più complesso visibile solo virtualmente nell'elaborazione in 3D. L'immagine-proiezione è una membrana o "brana" in cui stringhe e loops sono connesse da piccole figure che saltano utilizzando sottili cordicelle. Ad ogni salto il loop sottostante si dilata e sembra inghiottire la figura. Contemporaneamente la cordicella ritma e coordina il tempo di elevazione. L'oggetto complesso visibile in 3D è una membrana simile alla striscia di Moebius che è a sua volta stringa e loop. 6. Arte generativa Le rinnovate espressioni del sentire estetico nel nostro tempo hanno condotto ad un rinnovato ravvicinamento "interdisciplinare" ed a un esteso confronto tra arte e scienza. In primo luogo, l'evoluzione tecnologica dell'Information Communication Technology (ICT), ha permesso di riorganizzare le relazioni tra arte e scienza nel quadro delle simulazioni dell'immaginario scientifico, mediante l’espressione delle moderne attività di Digit-art. Infatti, con il computer gli artisti dispongono di un'ampia gamma di software che hanno favorito l'emergere di nuove tecniche capaci di potenziare la creatività dell' artista, che con la Generativeart diviene egli stesso l'inventore di algoritmi e di software decisamente importanti per attuare simulazioni scientifiche. Nata negli anni Ottanta, l'arte generativa è il frutto dall'interazione tra l'uomo, che crea un algoritmo matematico o Fisic’Arte142 informatico, e la macchina, caratterizzata da un certo grado di autonomia, che lo esegue potenzialmente all'infinito. Potremmo dire che l'arte generativa è l'utilizzo della matematica per generare bellezza. È insomma una sintesi tra scienza e creatività. Dagli anni '80 in poi la programmazione di applicazioni specifiche, hanno consentito uno sviluppo dell'arte generativa, partendo dalla creazione di forme semplici fino a strutture via via sempre più complesse, attraversando diversi stadi, per così dire, "architettonici", in un crescendo di codici, calcoli algoritmici, stringhe e "decisioni auto-generative dell'elaboratore". Si arriva così a definire la creazione di un nuovo territorio artistico: l’arte frattale, intrinsecamente legata agli schemi fisici della natura e le implicazioni matematiche che definiscono la materia, il mondo, l'universo e i sistemi legati alla vita. In realtà l'arte generativa è molto di più: è la figlia dell'arte concettuale. È un nuovo approccio all'arte, senza rinnegare l’abilità artigianale, che alla sensibilità dell'artista affianca una componente procedurale che può influenzare il lavoro finale in modo sorprendente. Avviare un programma generativo vuole dire fare partire un processo autonomo, che crea immagini grafiche sullo schermo, assolutamente imprevedibili e irrepetibili. Il ruolo dell’autore è ridotto alla costruzione di un algoritmo che non definisce il risultato finale con precisione. L’algoritmo crea solo un "gene" che si sviluppa in un "organismo" realizzandosi in un’immagine. In Natura due fogli d’albero non sono mai uguali e la stessa legge si applica al concetto generativo. Un’immagine non salvata è perduta per sempre perché non è possibile ripeterla. Il concetto è assolutamente sperimentale perché dalle formule matematiche dell’algoritmo è impossibile prevedere l’immagine che può nascere. Uno dei principali effetti di questo tipo di pratiche consiste nella completa ridefinizione della figura e del ruolo dell'autore. Allo stesso tempo il rapporto fra autore e opera d'arte si trova a essere completamente stravolto rispetto al passato poiché nel caso dell'Arte Generativa l'atto creativo viene sdoppiato e spostato su due diversi livelli temporalmente e gerarchicamente differenti. Da ciò deriva che è possibile pensare alla coesistenza di due distinti autori che operano in momenti e su scale gerarchiche differenti: sul livello gerarchico superiore si trova collocato l'Autore che concepisce, progetta e realizza il sistema di arte Generativa; sul livello gerarchico inferiore si trova l'autore materiale dell'opera generativa ossia la persona o il dispositivo (nella maggior parte dei casi un calcolatore) che mette in funzione il sistema generativo al fine di produrre un prodotto finito. Questa suddivisione di ruoli porta a dover riconsiderare il ruolo dell'autore che risulta essere notevolmente differente da quello ricoperto nelle pratiche artistiche tradizionali. Nel caso dell'Arte Generativa l'artista incarna il ruolo del “Creatore”, in maniera simile a quanto avviene nell'arte tradizionalmente intesa, ma egli risulta essere anche una sorta di “SemiDivinità” capace di creare un mondo artificiale che opportunamente attivato è capace di seguire una propria evoluzione e un proprio Fisic’Arte143 sviluppo autonomo. Da ciò emerge che nell'arte generativa il ruolo dell'artista consiste nel creare un dispositivo, un “ambiente di sviluppo” nel quale deporre un “seme” che avrà la capacità di svilupparsi in maniera indipendente. Completata la creazione del mondo artificiale l'Artista non può fare altro che diventare osservatore e assistere alle forme e al modo sotto cui prende vita e si sviluppa il frutto della sua opera. L'approccio generativo è spesso basato sull'impiego di processi casuali per introdurre variabilità e indeterminazione della procedura creativa. Ciò non rappresenta una totale novità poiché la casualità, come abbiamo visto, è stata spesso utilizzata nel XX secolo come strumento al servizio della creatività artistica. Mentre molti dei sistemi generativi finora concepiti funzionano in maniera completamente autonoma, esistono anche alcuni approcci generativi che incorporano dei sistemi d'interazione che consentono agli utenti o alle informazioni provenienti dall'ambiente esterno di intervenire nello sviluppo del processo generativo alterandone in qualche modo il suo normale corso. Anche se l'approccio generativo non è in alcun modo vincolato all'impiego di mezzi e di conoscenze scientifiche e matematiche, l'uso dei calcolatori elettronici per la realizzazione di procedure generative risulta essere uno dei principali terreni di sviluppo di questo nascente settore artistico. Molto frequentemente tali procedure sono basate sull'impiego di conoscenze scientifiche e di modelli matematici sviluppati in campi di ricerca molti diversi e distanti fra loro. Oltre all'impiego di generatori di numeri casuali e di tecniche probabilistiche è possibile utilizzare differenti tipologie di sistemi all'interno di procedure generative, come ad esempio: gli automi cellulari, i sistemi caotici, i frattali, le grammatiche generative, le reti neurali, gli algoritmi genetici. La ricerca scientifica offre dunque un'ampia gamma di teorie, di conoscenze e di modelli che possono trovare facilmente applicazione in contesti artistici. Tutto ciò apre nuovissime possibilità interessanti sia in campo artistico, sia in campo scientifico e tecnologico. In campo artistico ciò comporta un arricchimento e una estensione degli strumenti, delle tecniche a disposizione degli artisti per l'esplorazione di nuove forme di espressività. Inoltre l'impiego di conoscenze e modelli relativi a fenomeni naturali, a ricerche sull'origine e l'evoluzione della vita e sulla intelligenza e la vita artificiale fornisce agli artisti la possibilità di percorrere nuove strade, ancora quasi del tutto inesplorate, alla ricerca di risposte alle domande che sin dalle origini hanno animato la filosofia, l'arte e la scienza quali ad esempio: l'origine e il fine della vita, il rapporto fra uomo e natura, il bello in natura e nelle opere dell'ingegno umano. Tutto ciò può avere, inoltre, anche importanti ricadute in campo scientifico poiché l'espressione artistica, generalmente più libera e meno ristretta sotto forme rigorosamente codificate, può stimolare l'insorgere di nuove intuizioni e di collegamenti inaspettati fra aspetti apparentemente distinti di uno stesso fenomeno, può, inoltre, indurre a riflettere, in maniera consapevole oppure in modo del tutto inconscio, su similitudini e relazioni fra mondi, realtà e visioni che la conoscenza consolidata e la pratica quotidiana considerano del tutto separati e differenti. Fisic’Arte144 Capitolo 6 NUOVI#MATERIALI## PER#L’ARCHITETTURA# Per secoli e fino all’Ottocento, i materiali usati dall’uomo, per la realizzazione delle sue opere, erano disponibili direttamente in natura, o comunque ricavabili attraverso semplici trasformazioni della materia: la pietra, per costruire imponenti strutture megalitiche, la pietra e il marmo per realizzare i templi greci, l’amalgama cementizio, usato dai romani, permetteva di conferire maggiore flessibilità e leggerezza alle strutture. È nell’Ottocento che l’architettura, dal punto di vista dell’uso di nuovi materiali, subisce una vera rivoluzione. L’architettura del secondo Ottocento, definita come “l’architettura del ferro”, è segnata dai cambiamenti tecnici connessi con la rivoluzione industriale. L’uso sempre più diffuso delle macchine, la maggiore velocità nella produzione dei materiali e la possibilità di rendere più processi tecnici, portano a una produzione architettonica ricca e variegata, come ponti, gallerie, mercati, ferrovie, padiglioni espositivi. La tendenza ad applicare principi scientifici, già evidente nell’architettura del periodo precedente, si acuisce e, dunque, criteri rigorosi e sistematici diventano la base inscindibile di una progettazione complessa ed articolata. Calcoli e sperimentazioni precedono la realizzazione delle strutture, e allo scopo di fornire conoscenze tecniche ed una formazione scientifica approfondite ai vari architetti e ingeneri impegnati nella progettazione e costruzione delle opere, era nata a Parigi l’Ecole Polytechnique. Gli ingeneri, dunque, diventano protagonisti di un nuovo settore della produzione architettonica e il loro talento spesso supera quello degli architetti. La modernità impone all’arte del costruire criteri nuovi: è necessario lavorare in fretta con materiali poco costosi o, meglio, utilizzare al massimo il potenziale dei materiali. Anche quelli tradizionali come il legno, la pietra, i laterizi sono adoperati con maggiore cognizione di causa grazie alla conoscenza dei limiti di resistenza dei materiali stessi. Ma, a seguito dei progressi dell’industria, a Fisic’Arte145 caratterizzare e rendere possibile le nuove strutture sono soprattutto il cemento, la ghisa, il ferro, l’acciaio e il vetro. Dei nuovi materiali il ferro e, dal 1860, l’acciaio, rendono possibili coperture di una portata eccezionale; l’abbinamento di ferro, o acciaio, e vetro permette di costruire strutture che consentono alla luce di penetrare attraverso i tetti e i muri perimetrali in tutta la loro estensione e di inondare così gli interni. Queste realizzazioni sono una dimostrazione di come le nuove tecnologie costruttive contribuiscano a delineare una nuova architettura in cui la struttura stessa e il rapporto tra i vari elementi che la compongono possano definire forme compiute anche esteticamente. In combinazione con il ferro, il cemento (il cosiddetto cemento armato) realizzerà tutte le sue potenzialità. Il cemento armato, infatti, combina la sua notevole resistenza alla compressione con la resistenza alla trazione del metallo, e, nello stesso tempo, il conglomerato racchiude le armature di ferro proteggendole dagli agenti atmosferici esterni. È un materiale economico, versatile e può assumere forme diverse grazie alle casseforme. Pertanto, gli architetti più impegnati producono progetti e riflessioni che affrontano la questione dei rapporti tra architettura e nuovi materiali da costruzione. Con il sistema del cemento armato si possono ora costruire edifici di tuti i tipi; tra le strutture verticali, i pilastri hanno funzione portante; le intelaiature dei pilastri permettono di sostenere corpi di notevole peso di sviluppare forme originali e strutturalmente complesse. Parigi – Beabourg – 1971/78 Tra i tanti movimenti rappresentativi degli ultimi decenni spicca, per il carattere ardito e innovativo, la High Tech, termine con il quale si indica un approccio progettuale basato sull’esibizione esplicita di parti strutturali e impianti tecnologici in quanto elementi cui è attribuita una precisa valenza estetica. Caratteristiche ricorrenti di queste architetture sono l’utilizzo di materiali nuovi, strutture che si autoregolano, trasformabilità d’uso e indipendenza tra involucro e spazi organizzativi. Il Beabourg a Parigi (Centro Nazionale d’Arte e di Cultura) può essere considerato l’opera rappresentativa dell’architettura High Tech. L'innovazione tecnologica all'interno del processo di produzione edilizia interessa, nei giorni nostri, soprattutto i materiali ed i componenti dei vari sistemi che compongono un edificio. L'involucro esterno, la “pelle” dell’edificio, ne è diventato uno dei primi elementi rivelatori. In particolare per i materiali, l'innovazione tecnologica ha trovato occasioni di Fisic’Arte146 sviluppo sia grazie alla ricerca scientifica (sviluppo di nuovi materiali), sia grazie alla contaminazione tra campi d’applicazione diversi di materiali già conosciuti. Esemplificativo di quest'ultimo caso è l'impiego in campo architettonico, come elemento di rivestimento, il titanio, un metallo bianco argenteo, dotato di proprietà analoghe a quelle del silicio e dello stagno. L'occasione d’innovazione è stata fornita dal progetto per il museo Guggenheim di Bilbao, in cui l'arch. F. Gehry ha impiegato per l'involucro esterno il titanio in un modo che è risultato fortemente innovativo, sia per avere utilizzato un materiale fino allora mai utilizzato per questo scopo, sia per essere ricorso ad una tecnologia di software IBM, il programma CATIA 3D, fino ad allora applicato esclusivamente in campo aerospaziale. Da allora il titanio è stato impiegato da molti altri architetti, più o meno noti, per realizzare gli involucri esterni dei loro edifici, anche se il costo ne limita tuttora l'impiego diffuso in questo campo applicativo. La scienza non evoca e invoca solo nuova tecnologia, ma dovendo soddisfare a vincoli stringenti di ingegneria, la scienza evoca anche nuova architettura e, in definitiva, nuova arte. Testimonianza di questa affermazione è LHC (Large Hadron Collider), la grande opera architettonica realizzata dai fisici a Ginevra, dove, facendo impattare l’uno contro l’altro due fasci di protoni accelerati a velocità prossime a quelle della luce, ci cerca di indagare sui misteri del mondo microscopico ed aprire uno squarcio sulle condizioni fisiche presenti all’origine del nostro universo (big bang). (Large Hadron Collider), la grande opera architettonica realizzata dai fisici a Ginevra, facendo impattare l’uno contro Fisic’Arte147 l’altro due fasci di protoni accelerati a velocità prossime a quelle della luce, questa bellezza tecnologica è evidente. LHC – Large Hadron Collider La costruzione della macchina, tuttavia, aveva dei vincoli. Quelli scientifici, naturalmente. Doveva essere costruita per consentire a fasci di adroni di raggiungere velocità elevatissime e di collidere in un’enorme ma focalizzata esplosione di energia. Ma la macchina aveva anche stretti vincoli di forma. Doveva essere posizionata in uno spazio (grandissimo) già esistente: un anello con una circonferenza di 27 chilometri nel sottosuolo di Ginevra. Tutte le componenti della grande macchina dovevano essere posizionate con precisione millimetrica in quello spazio enorme, ma definito. Funzioni e forma si sono strettamente intrecciate. La costruzione di LHC è stata dunque una grande impresa architettonica. Una moderna e inedita forma di arte. Fisic’Arte148 Conclusioni In questo percorso attraverso lo sviluppo della fisica e le sue rivoluzioni scientifiche e di pensiero, e la parallela rivoluzione nel mondo delle arti visive, come quella rinascimentale o delle avanguardie del XX secolo, ho voluto mostrare che esiste uno spirito del tempo che informa un’intera epoca. Esso probabilmente consiste nella rete intricata delle relazioni tra le varie discipline. Tali relazioni sono spesso implicite e di esse non si ha piena coscienza. Probabilmente i fisici quantistici non pensavano alla pittura astratta e viceversa i pittori. Tuttavia è singolare la contemporaneità di due espressioni umane che hanno messo in crisi la concezione del mondo dettata dal “senso comune”. Quindi, i vari paradossi discussi nel quadro della scienza e delle rappresentazioni artistiche del '900, sono stati il segnale della necessità che la scienza e l'arte debbono ricomporsi entro un rinnovato criterio paradigmatico unitario, così come avvenne nel Rinascimento, nel quale si trovò una netta corrispondenza tra arte e scienza nell'unificare le basi cognitive ed estetiche, proprio in quanto l'uomo fu considerato al centro del processo conoscitivo. Di conseguenza, l'arte e la scienza contemporanee dovranno superare il riduzionismo meccanicista dettato sostanzialmente dal ritenere possibile di poter oggettivamente il mondo esterno senza rendersi conto di farne parte integrante. osservare Fisic’Arte149 Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. www.wikipedia.it Emma Bernini–Roberta Rota–Eilkon (guida alla storia dell’Arte)–Vol.1–Editori Laterza Emma Bernini–Roberta Rota–Eilkon (guida alla storia dell’Arte)–Vol.2–Editori Laterza Emma Bernini–Roberta Rota–Eilkon (guida alla storia dell’Arte)–Vol.3–Editori Laterza Piergiorgio Odifreddi- Penna, pennello e bacchetta- Editori Laterza Piergiorgio Odifreddi – Le Scienze – Giugno 2011 Vincenzo Pappalardo – Storia della fisica e del pensiero scientifico MOMA Highlights – Museo di arte moderna di New York Lauro Galzigna – Natura della realtà, realtà della natura – Ebook E. Tornagli – La forza dell’immagine e il linguaggio dell’arte – Loescher editore Ignazio Licata – Scienza come arte della conoscenza – Lectio Magistralis Aa vv - Lezioni di arte, vol 3, Electa-Bruno Mondadori Gilles Nèret – Dalì – L’Espresso Susanna Partsch – Klee – L’Espresso Enrico Pedrini - Arte & fisica: Dalla Relatività, all'indeterminismo, alla Dissipazione Laura Catastini e Franco Ghigne - In obscurum coni conduxit acumen (ovvero l’infinito in un punto) 17. David Hockney – Secret Knowledge Molte altre fonti sono siti internet dei quali, purtroppo, non ho gli indirizzi. Comunque, chiunque pensa che le informazioni contenute nel presente libro siano state ricavate da articoli, saggi od altro reperibili sul Web, è pregato di inviare l’indirizzo del sito a: [email protected] Fisic’Arte150