www.ildirittoamministrativo.it
Rivista giuridica
Registrata presso il Tribunale di Catania
ISSN 2039-6937
OSSERVATORIO SULLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA DI
DIRITTO DELLA NAVIGAZIONE
AGGIORNATO AL 31 DICEMBRE 2011
A cura di
Luca SALAMONE
(www.lucasalamone.it)
Corte di Cassazione penale, sez. V, 24 ottobre 2011 n. 38349 (In tema di zona a
traffico limitato e falsificazione del pass auto).
Con la sentenza in rassegna il supremo giudice di legittimità ha stabilito che integra il
reato di falsità materiale del privato (art. 482 c.p.) la copia fotostatica del permesso,
legittimamente detenuto, rilasciato per l’accesso alla zona di traffico limitato, se la
riproduzione è disposta con modalità idonee a confondere l’originale con la copia,
essendo del tutto irrilevante l’assenza del timbro attestante l’autenticità.
La suprema Corte di Cassazione, rifacendosi ad un costante insegnamento
giurisprudenziale, richiamato dalla pronuncia in questione, ha sancito che integra il reato
di falsità materiale del privato in autorizzazioni amministrative la riproduzione
fotostatica del permesso di parcheggio riservato agli invalidi, a nulla rilevando l’assenza
del timbro a secco e, comunque, dell’attestazione di autenticità, la quale non incide sulla
rilevanza penale del falso allorché, come nella fattispecie in esame, il documento abbia
l’apparenza e sia utilizzato come originale, considerata anche la notevole sofisticazione
raggiunta dai macchinari utilizzati, capaci di formare copie fedeli all’originale, come tali
idonee a consentire un uso atto a trarre in inganno la pubblica fede.
Sulla base di tali considerazioni, la Suprema Corte ha statuito che “la fotocopia di un
documento autorizzativo legittimamente detenuto, realizzata con caratteristiche e dimensioni tali da avere
l’apparenza dell’originale, costituisce reato perché neppure al titolare del documento stesso è consentita la
riproduzione in maniera da creare un secondo documento che si presenti e sia utilizzato come l'originale”.
Infine, come tengono a precisare gli ermellini, la regola fin qui esposta non trova
applicazione nel caso in cui la fotocopia sia esibita come tale, sia pure dopo la
contraffazione, posto che, in tal caso, essa si presenta priva dei requisiti, di forma e di
sostanza, capaci di farla sembrare un provvedimento originale o la copia conforme di
esso.
Corte di Cassazione, Sez. III, 11 novembre 2011, n. 23563 (In tema di
provvedimenti necessari ai fini della sicurezza del traffico sulle strade ed
autostrade).
Con la sentenza in rassegna il supremo giudice di legittimità ha scandagliato la
discrezionalità di cui gode la pubblica amministrazione in ordine alla scelta dei criteri e
dei mezzi con cui realizzare e mantenere un’opera pubblica, evidenziando che tale
discrezionalità trova un limite nell’obbligo di osservare, a tutela dell’incolumità dei
cittadini e dell’integrità del loro patrimonio, tutte le norme di legge, regolamentari o
tecniche all’uopo predisposte, nonché le comuni regole di diligenza e prudenza. Ne
consegue che, qualora ciò non venga rispettato e da ciò derivino dei danni a terzi, l’ente
competente ne dovrà rispondere.
In particolare, ad avviso degli “ermellini”, l’ente proprietario della strada ha come suo
compito precipuo quello di garantire la sicurezza della circolazione, spettando al gestore
delle rete stradale ed autostradale italiana di interesse nazionale il compito di adottare i
provvedimenti necessari ai fini della sicurezza del traffico sulle strade ed autostrade
affidategli ed in relazione alle quali esso esercita i diritti ed i poteri attribuiti all'ente
proprietario (ai sensi dell’art. 2 d.lgs. n. 143 del 1994). Ciò premesso, non rileva stabilire
su chi ricadano i costi necessari per il risanamento delle sponde laterali delle strade,
atteso che il citato gestore non deve consentire la circolazione su di una strada di cui ha
la custodia, senza aver prima adottato, o essersi assicurato che siano stati adottati, i
presidi atti ad eliminare i fattori di rischio conosciuti o conoscibili con un attento e
scrupoloso monitoraggio del territorio.
Corte di Cassazione, Sez. III, 11 novembre 2011 n. 23573 (In tema di sinistro
stradale alla casalinga e risarcimento anche del danno patrimoniale).
Sulla falsa riga di una giurisprudenza oramai consolidata, la Cassazione nella sentenza in
rassegna ha stabilito che anche il lavoro domestico è suscettibile di valutazione
economica, per cui alla casalinga che subisce un infortunio stradale deve essere risarcito
non solo il danno biologico, ma anche quello patrimoniale purché dimostri il concreto
pregiudizio alla sua capacità lavorativa.
Il caso in rassegna riguardava una casalinga coinvolta in un incidente stradale, la quale,
non avendo nei precedenti gradi di giudizio ottenuto l’accoglimento della domanda di
risarcimento del danno patrimoniale da ridotta capacità lavorativa ha proposto ricorso
per Cassazione.
I giudici di legittimità hanno accolto il primo motivo di ricorso presentato dalla
ricorrente, argomentando che la liquidazione del danno patrimoniale da riduzione della
capacità lavorativa non è una conseguenza automatica delle lesioni personali, rendendosi
comunque necessario verificare nel caso concreto “la attuale o prevedibile incidenza dei
postumi sulla capacità di lavoro, anche generica, della vittima” (cfr. ex multis Cass., Sez. III,
sentenza 24 febbraio 2011, n. 4493). In tal senso anche il danno da riduzione della
capacità lavorativa patito dalla casalinga rientra tra le ipotesi di danno patrimoniale e non
biologico (cfr. ex multis Cass., Sez. III, sentenza 13 luglio 2010, 16392).
Alla luce di quanto, pertanto, su chi sostiene l’esistenza di tale danno graverà l’onere di
provare come la lesione della salute determini una riduzione della capacità lavorativa,
impedendo o rendendo più gravoso lo svolgimento del lavoro domestico.
Corte di Cassazione, Sez. II, ordinanza 15 novembre 2011 n. 23881 (In tema di
tutor, violazioni multiple e competenza del giudice di pace).
Nella fattispecie in esame, il trasgressore aveva impugnato l’ordinanza dell’ufficio del
giudice di pace, il quale aveva dichiarato inammissibile il ricorso in opposizione dallo
stesso presentato, avverso differenti verbali della polizia stradale per violazioni accertate
tramite sistema tutor rilevatore di velocità. Il ricorrente precisava di aver adito l’ufficio di
quel giudice di pace in quanto la propria residenza era in un Comune rientrante nella
competenza territoriale dello stesso giudice. Il giudice adito, però, dichiarava la propria
incompetenza a conoscere del ricorso, in quanto “il rimedio previsto dall’art. 204 – bis del
codice della strada debba essere azionato separatamente per ogni verbale; rilevato, altresì, che le
violazioni di cui agli impugnati verbali sono state commesse in località diverse tra di loro e tutte al di
fuori della competenza territoriale del giudice adito”.
Avverso tale decisione veniva proposto ricorso per cassazione per “nullità del procedimento
per violazione dell’articolo 23 della legge 24 novembre 1981 n. 689, poiché il giudice non avrebbe potuto
dichiarare l’inammissibilità del ricorso, effettuando la sola statuizione sulla competenza, senza
instaurazione preventiva del contraddittorio, e, quindi, in violazione dell’articolo 23 sopra citato”.
Secondo quanto precisato dai giudici di legittimità, investiti della questione, “il giudice di
pace col suo provvedimento d’inammissibilità ai sensi dell’articolo 23 della legge 24 novembre 1981 n.
689, ha adottato un provvedimento non previsto da tale norma, nel quale sostanzialmente si afferma che
in ipotesi di violazioni multiple, di competenza dei giudici di pace diversi perché commesse in luoghi
diversi, ciascuno dei quali rientranti nella competenza di diversi uffici del giudice di pace, il giudice di
pace investito dell’opposizione avverso tutti i verbali in questione, in relazione a ciascuno dei quali
sussiste la propria incompetenza territoriale, può adottare la statuizione di inammissibilità, prevista,
invece, dal primo comma dell’articolo 23 della legge 689/81, soltanto per l’ipotesi di tardività
dell’impugnazione”.
La Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia in rassegna ha statuito, quindi, che in
ipotesi di violazioni multiple, di competenza di giudici di pace diversi, perché commesse
in luoghi diversi, il giudice di pace investito dell’opposizione avverso tutti i verbali in
questione, in relazione a ciascuno dei quali sussiste la propria incompetenza territoriale,
deve emettere sentenza convocando le parti e non già un decreto di inammissibilità
inaudita altera parte.
In altri termini, con la decisione in rassegna la Suprema Corte di Cassazione esclude che
il giudice possa dichiarare (rectius attestare) la propria incompetenza territoriale mediante
decreto di inammisibilità inaudita altera parte, piuttosto che con una sentenza. Secondo i
giudici di legittimità, infatti, il decreto di inammissibilità viene ad applicarsi solamente
nella ipotesi di tardività della impugnazione ex articolo 23 della legge 24 novembre 1981,
n. 689 e non anche nel caso di incompetenza territoriale.
Ad avviso della Corte, la citata norma, dovendosi ritenere di stretta interpretazione,
risulta applicabile solamente nelle ipotesi dalla stessa considerate. Inoltre, la specialità
della norma deriva proprio dalla possibilità di pronunciare un provvedimento senza la
preventiva instaurazione del contradditorio e per ipotesi nelle quali si tratta di accertare
soltanto il rispetto o meno di un termine.
Corte di Cassazione, Sez. II, 15 novembre 2011, n. 23882 (In tema di infrazione
stradale rilevata dagli apparecchi elettronici e di modalità di proposizione del
quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c.).
La Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia in rassegna ha statuito che è legittima
la sentenza che ha annullato il verbale di accertamento inerente ad un’infrazione stradale
rilevata dagli apparecchi elettronici in assenza della contestazione immediata, allorché
risulti che tale contestazione era invero necessaria trattandosi di un’infrazione commessa
su una strada non inclusa nell’elenco di legge o nell'apposito decreto prefettizio delle
strade per le quali non è possibile il fermo del veicolo ai fini della contestazione
immediata delle infrazioni.
All’uopo il giudice di legittimità ha altresì ritenuto di precisare che spetta al Prefetto
l’individuazione delle strade, o dei singoli tratti di esse, diverse dalla autostrade o dalle
strade extraurbane principali, in cui non è possibile il fermo del veicolo, ai fini della
contestazione immediata delle infrazioni.
Inoltre, in tema di tecnica di ricorso in sede di legittimità gli “ermellini” precisano che i
quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c. deve essere inteso quale sintesi logicogiuridica della questione che consenta al Giudice di legittimità di enunciare una regula iuris
da applicare nel caso in esame. Risulta, pertanto, inammissibile il ricorso per Cassazione
in cui il quesito di diritto prescinda totalmente dalla fattispecie concreta rilevante nella
controversia, impedendo così al giudice di legittimità di comprendere, in base alla sola
sua lettura, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e di
rispondere al quesito de quo enunciando la citata regula iuris.
Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia - Sezione staccata di
Brescia, sezione II, 30 novembre 2011, n. 1676 (In tema di revisione della patente
e giurisdizione del G.A.).
Con la pronuncia in esame il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia – sez.
di Brescia – ha affermato che per quanto riguarda il provvedimento che dispone la
revisione della patente sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo, considerata la
necessità di concentrare presso un unico giudice tutte le questioni che riguardano
l’esercizio delle medesime funzioni pubbliche.
In particolare, per il TAR adito, in relazione all’impugnazione del provvedimento di
revisione in oggetto, è possibile tracciare il seguente quadro di riferimento.
Alcuni Tribunali amministrativi regionali ritengono competente il giudice ordinario in
quanto, una volta azzeratosi il punteggio inizialmente attribuito, la revisione della patente
di guida è un atto dovuto a contenuto vincolato. Secondo altra parte della giurisprudenza
ricorre invece la giurisdizione amministrativa, in quanto la revisione non ha natura
sanzionatoria, come le singole decurtazioni del punteggio, e sembrerebbe piuttosto
costituire espressione di un potere finalizzato alla tutela dell’interesse pubblico. La
giurisdizione amministrativa è affermata anche sulla base di una lettura complessiva delle
ipotesi di revisione previste dal codice della strada: in particolare, si sottolinea che la
fattispecie ex art. 126-bis, comma 6, C.d.S. collega alla perdita del punteggio una
presunzione di dubbio circa l’oggettiva idoneità alla guida, il che in sostanza
rappresenterebbe la mera specificazione in un caso particolare dei dubbi di cui tratta il
successivo art. 128 C.d.S. relativamente alla persistenza dei requisiti fisici e psichici e
dell’idoneità tecnica. A favore della giurisdizione amministrativa depone inoltre
l’estensione, recentemente acquisita, delle garanzie procedimentali alla revisione della
patente di guida anche nel caso di azzeramento del punteggio.
Per il TAR Brescia, quest’ultimo punto è riconosciuto dalla stessa amministrazione.
Difatti, la circolare del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti n. 60396 del 15
luglio 2010 suggerisce agli uffici di far precedere il provvedimento di revisione dalla
comunicazione di avvio del procedimento, per dare modo agli interessati di interloquire
con l’amministrazione evidenziando le circostanze ritenute favorevoli (ad esempio, la
pendenza di ricorsi contro i verbali di contestazione, la presenza di sentenze favorevoli,
eventuali errori nella decurtazione del punteggio). Le verifiche condotte sugli elementi
così acquisiti possono portare all’annullamento in autotutela del provvedimento di
revisione. Nelle maglie delle garanzie procedimentali gli uffici svolgono dunque,
evidentemente, un’attività amministrativa, sulla quale non può essere negato il controllo
nella sede propria davanti al giudice amministrativo.
Inoltre, la preferenza per questa opzione interpretativa deriva anche dalla necessità di
concentrare presso un unico giudice – quello amministrativo appunto – tutte le questioni
che riguardano l’esercizio delle medesime funzioni pubbliche, garantendo così anche
sotto questo profilo l’interesse di livello costituzionale alla ragionevole durata del
processo sancito dall’art. 111, comma 2, Cost. In conclusione, per il GA adito, nel
complesso sembrano quindi esservi molteplici e condivisibili ragioni a sostegno della
giurisdizione amministrativa.
Consiglio di Stato, Sez. VI, 5 dicembre 2011 (In tema di pratiche commerciali
scorrette e operazioni pubblicitarie delle compagnie di navigazione).
Il caso in rassegna scaturisce dall’impugnazione della sentenza resa dal Tribunale
amministrativo regionale del Lazio, con la quale il giudice amministrativo capitolino
aveva parzialmente accolto il ricorso di primo grado proposto da una nota compagnia di
navigazione volto ad ottenere l’annullamento di un provvedimento dell’Autorità garante
della concorrenza e del mercato, che aveva qualificato come “pratiche commerciali scorrette”
alcune condotte poste in essere dalla stessa irrogando nei suoi confronti due sanzioni
pecuniarie.
In particolare, con un primo provvedimento l’Autorità aveva applicato una sanzione in
relazione ad alcuni messaggi pubblicitari diffusi su quotidiani ed emittenti radiofoniche e
radiotelevisive e rilevati sul sito internet della società diretti a promuovere la tariffa “a
partire da 1 euro” per il trasporto sulle tratte servite dalla compagnia di navigazione. Ciò
nel presupposto che detti messaggi contenessero affermazioni scorrette e fuorvianti. Con
un secondo provvedimento l’Autorità aveva altresì applicato una sanzione alla medesima
società per avere posto in essere un comportamento della consistente nel prevedere già
“spuntata”, nel sistema di prenotazione on line, la voce di costo opzionale relativa
all’assicurazione. Ciò perché a cagione della procedura informatica reimpostata la
proposta di adesione alla polizza assicurativa annullamento viaggi opzionale, del costo di
4 euro a persona per tratta, non si realizzava tramite una dichiarazione espressa, bensì
mediante un meccanismo di silenzio-assenso da parte del consumatore, che doveva, nel
caso, rinunciare alla clausola spostando l’apposito segno grafico dalla casella di
accettazione a quella del rifiuto.
In primo grado, il Tribunale amministrativo ha ritenuto provata la responsabilità della
Snav s.p.a. ed “ingannevole” il contenuto della pubblicità, accogliendo il ricorso
unicamente sotto il profilo della inesattezza del giudizio di rilevante gravità della
condotta sanzionata, provvedendo a rideterminare in senso riduttivo la sanzione
applicata.
Quanto alla seconda condotta sanzionata, relativa alla polizza assicurativa facoltativa
offerta dalla compagnia di navigazione quale servizio accessorio e separato rispetto al
prodotto principale (di trasporto marittimo), ne ha escluso l’ingannevolezza, accogliendo
integralmente il ricorso ed annullando in parte qua il provvedimento.
Alla luce di quanto sopra, l’Autorità originaria resistente, rimasta parzialmente
soccombente, ha impugnato la decisione chiedendone la riforma. Secondo l’appellante,
in particolare, era contraddittorio riconoscere in sentenza la decettività dei messaggi e al
contempo ridurre la sanzione, evidenziando l’omessa valutazione di non ben delineate
situazioni di attenuata rilevanza dell’illecito. In particolare, quanto alla legittimità della
procedura relativa all’acquisto della polizza assicurativa, la sentenza appariva errata in
diritto e collideva con principi a più riprese affermati in passato dallo stesso Tribunale
amministrativo (cfr. decisioni nn. 5809/2009 e 633/2010).
Ad avviso del giudice amministrativo di appello il gravame risulta essere parzialmente
fondato e deve essere accolto unicamente con riferimento al capo della sentenza che ha
escluso la “gravità” delle violazioni e ha rideterminato la sanzione inflitta alla compagnia
di navigazione. Difatti, ad avviso del Collegio nessuna delle censure articolate dalla
compagnia di navigazione avverso il giudizio di “ingannevolezza” della pubblicità reso dal
primo giudice appare condivisibile.
In particolare, ad avviso del supremo consesso amministrativo, in aderenza al dato
normativo, quindi, l’intrinseca correttezza della campagna informativa/pubblicitaria può
non spiegare efficacia scriminante dirimente se la complessiva presentazione induca - o
possa indurre- il consumatore ad assumere una decisione di consumo viziata non
pienamente ed ordinariamente consapevole.
Sottolinea il Collegio che “i mezzi di pubblicità sono espressione di strategie commerciali che, con
rinvii, esterni o interni al testo pubblicitario, attivano l’interesse, la curiosità, il convincimento del
consumatore verso un certo prodotto, rappresentato come migliore e più conveniente, e richiamano la sua
libertà di scelta per aumentare la notorietà del marchio e stimolarlo all’acquisto: è fenomeno generale che
oggi la pubblicità è sempre più mirata a persuadere piuttosto che a informare, a orientare i consumi, a
stimolare i bisogni, a promuovere l’assorbimento della domanda e in questo quadro la liberta di scelta del
consumatore può essere attirata da messaggi che esaltano le qualità di un prodotto e che costituiscono
strumenti di sollecitazione orientati a provocare preferenze commerciali.
In questo quadro, il punto di rottura della liceità sta nell’alterazione della consapevolezza della facoltà di
scelta del consumatore. Così le norme contro le pratiche commerciali scorrette – e contro la pubblicità
ingannevole (su cui v. d.lgs. 2 agosto 2007, n. 145 circa i rapporti tra professionisti, e d.lgs. 2 agosto
2007, n. 146, che modifica il Codice del consumo, circa i rapporti tra professionisti e consumatori) –
sono tese a disciplinare la comunicazione pubblicitaria al fine di evitare effetti distorsivi sulle scelte: esse
tutelano il bene giuridico della consapevolezza della scelta del consumatore, in ragione del pregiudizio,
essenzialmente economico, che egli ne può ricevere e che non necessariamente deve avere la consistenza di
un vero e proprio danno, cioè di una diminuzione patrimoniale”.
Ad avviso del giudice di appello va anche rilevato che, “poiché per quanto qui rileva l’oggetto
giuridico tutelato consiste nella libertà di scelta del consumatore, va qualificata scorretta una pratica
commerciale pubblicitaria che miri a condizionare detta libertà, indipendentemente dall’effettiva lesione
patrimoniale. Per questa ragione i consumatori, fin dal primo contatto pubblicitario, devono essere e
rimanere in grado di poter valutare l’offerta economica nei suoi elementi essenziali al fine di percepirne
con chiarezza la portata e poter conseguentemente operare una consapevole scelta economica. D’altra
parte, una volta determinato il c.d. aggancio pubblicitario del consumatore, il solo fatto che questi sia
indotto a consultare il sito per ottenere ulteriori informazioni aumenta le possibilità che egli possa poi
effettivamente decidere di fruire delle prestazioni del professionista (per cui l’intento promozionale, una
volta che egli consulta il sito, può dirsi raggiunto: analogamente a quando la tecnica di aggancio muova
dalla pubblicità, televisiva, radiofonica o su quotidiani, e induca il consumatore a consultare il sito
internet o a recarsi personalmente ad accertare la reale portata dell’offerta o addirittura direttamente
l’acquisto)”.
Inoltre, ad avviso del giudice amministrativo di appello “Quanto all’offerta circa il prezzo, la
complessità delle offerte di prodotti e di servizi che si registra nella realtà del commercio induce ad
escludere che l’indicazione della tariffa debba includere qualsiasi onere economico gravante sul
consumatore il cui ammontare sia determinabile ex ante, ovvero presentare, contestualmente e con
adeguata evidenza grafica o sonora, tutte le componenti che concorrono al computo del prezzo al fine di
rendere chiara e compiuta l’informazione fornitagli. Vale piuttosto la considerazione che il precetto sul
divieto di ingannevolezza impone soltanto che sia consentito al consumatore di avere una percezione
precisa e sufficientemente immediata dell’esborso finale: perciò se anche in una pubblicità non venga
riportato il prezzo onnicomprensivo del prodotto o del servizio offerto, ma vi sia un chiaro riferimento alle
voci variabili che lo compongono, il messaggio non è ingannevole”.
Ciò posto, nel caso esaminato dal Collegio, legittima il giudizio di “ingannevolezza”
complessiva della campagna pubblicitaria ed impone sia il rigetto delle censure fondate
sull’inesistenza di tale elemento, difatti l’ “ingannevolezza” della pratica, invero, va valutata
ex ante, a prescindere dalla variabile circostanza dell’esito prodotto.
Ciò ad avviso del Collegio “vale anche nell’ipotesi inversa: può ben accadere che l’offerta, per quanto
enfaticamente ed ingannevolmente presentata, non fosse comunque conveniente (come pare nel caso di
specie), ma anche che una modesta omissione od errata indicazione abbia prodotto esiti ininfluenti perché
il prodotto offerto restava comunque conveniente (per questa ragione sia stato acquistato). Quello che
rileva, piuttosto, ai fini che qui interessano non è l’esito (peraltro difficilmente individuabile, disaggregato
com’è e non depurato da fattori oggettivi sulla reale convenienza del prodotto) cui la pubblicità è
effettivamente pervenuta, ma l’esito che appariva potenzialmente raggiungibile in termini di idoneità a
falsare la scelta del consumatore”.
In conclusione, ad avviso del giudice amministrativo di appello è incontestabile che la
campagna pubblicitaria in oggetto presentasse caratteristiche di decettività.