A10 611 Jacqueline Spaccini Aveva il viso di pietra scolpita Cinque saggi sull’opera di Cesare Pavese Copyright © MMX ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 isbn 978–88–548–3226–8 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: maggio 2010 Ad Alessandro, l’uomo della mia vita Indice 9 Nota dell’autrice 11 Capitolo I La memoria ritrovata in Cesare Pavese 45 Capitolo II La pregnante vanità di Colei che non ha posto 65 Capitolo III «Triste solitario y final» 81 Capitolo IV Lo specchio, quando s’è spezzato 115 Capitolo V Se non ora, quando? 133 Bibliografia 7 I saggi sono stati scritti tra il 2002 e il 2006. Per questo motivo sono diseguali nei toni (talora utilizzo la prima persona singolare, talora quella plurale) e nelle impostazioni tipografiche, che tuttavia - proprio per conservare i colori e i sapori del tempo in cui sono stati vergati - non ho voluto modificare. Nota dell’autrice Per tutti viene un momento nella vita di confrontarsi con un autore. Non che debba essere per forza quello che più amiamo o nel quale chissà mai perché ci identifichiamo. A me è successo con Pavese. Manco a dirsi, per caso. Pavese, l’avevo letto da ragazzina, un po’ m’era piaciuto e un po’ no. All’epoca, lo trovai troppo impegnato, ma anche contraddittorio e — con una parola orribile ma all’epoca di moda — sfigato (oggi si direbbe loser). Lui e le sue storie d’amore finite male. Lui e il suo rapporto controverso con il partito. Lui al confino e non sarà nemmeno partigiano. Lui che si ammazza in maniera teatrale (poteva farlo sembrare un incidente, no?) in una stanza d’albergo. Lui e il suo biglietto per chi lo troverà cadavere (Non fate troppi pettegolezzi). Come Majakovskij (ma questo è posticcio, lo scopersi dopo). No, non mi piaceva poi veramente. Ci sono autori che non vanno bene a tutte le età, a dire il vero. Penso a Buzzati e al suo Deserto dei Tartari, da anni mio vademecum. Letto a vent’anni e trovato noioso; riletto a quaranta e scoperto unico. Così Pavese. Per comprenderlo, bisognava che crescesse dentro di me quel sentimento di sradi9 10 Aveva il viso di pietra scolpita camento, maturato durante i lunghi anni di erranza attraverso l’Europa, quel senso di non appartenenza, quel tornare nei luoghi aviti e sentirsi estranei comunque. Quel cercarsi attraverso gli altri peregrinando per cascine. Per non ritrovarsi. Parigi, 2 febbraio 2010 Capitolo I La memoria ritrovata in Cesare Pavese Riflessioni su La luna e i falò a confronto con Il Quartiere di Vasco Pratolini «Anche domani» disse lui, «se potessi.» Cesare Pavese, La luna e i falò A proposito della metaphora memoriæ, Harald Weinrich1 scrive che secondo i retori «l’arte del ricordare consiste nel saper localizzare i contenuti della memoria: locos esse capiendos et ea, quae memoria tenere vellent, effigenda animo atque in iis locis collocanda»2. Gli oggetti da ritenere nella memoria vengono rappresentati quindi da imagines. E, continua Weinrich, in questo «magazzino della memoria», sono depositate le immagini delle cose che vengono portate alla superficie grazie al processo mentale. Diderot riprenderà quest’immagine della retorica classica, così intellettualizzandola: 1. Harald Weinrich, Metafora e menzogna, Bologna, Il Mulino, 1977. 2. Cicerone, De oratore, II, 354 (Citato in: Weinrich, p. 43). 11 12 Aveva il viso di pietra scolpita «une tête meublée d’un grand nombre de choses disparates et assez semblable à une bibliothèque de volumes dépareillés»3. Poi c’è la metafora della tavoletta di cera. Nel Teeteto, Platone fa dire a Socrate che questa tavoletta per qualcuno è grande, per qualche altro più piccola; in uno di cera più pura in un altro mista a scorie; a volte più dura a volte più molle; in altri infine modellata al punto giusto. Racine userà l’espressione: «libro della memoria»; Bergson quella più moderna di «apparecchio fotografico». Per Schopenhauer la memoria è paragonabile a un panno che conserva a lungo le pieghe avute un tempo. Diderot modificherà in seguito l’immagine metaforica della memoria, intendendola come una «catena»4, il che ci rimanda ad un’altra metafora, sulla quale ci soffermeremo più avanti, quella del «cordone ombelicale». La metafora della memoria, quale che sia, si oppone alla mnemotecnica, giacché la ricostruzione della memoria, cioè della rappresentazione della realtà e degli avvenimenti fisici e psichici, passa sovente attraverso il riaffiorare — più o meno volontario — del ricordo personale, quanto più intimo tanto più soggettivo. Ciò detto vale tanto per quei comuni mortali alle prese con la realtà quotidiana e il cui passato individuale non sarà trascritto sulla pagina stampata, quanto per quelli, 3. Denis Diderot, Lettre sur les sourds–muets à l’usage de ceux qui entendent et qui parlent. 1751, «una testa zeppa di un gran numero di cose disparate e abbastanza simile a una biblioteca di volumi sparigliati» [La traduzione è mia]. 4. Cfr. D. Diderot, Entretien entre D’Alembert et Diderot, 1769.