4 Martedì 16 Novembre 2010 PRIMO PIANO Stupore, rabbia e incredulità nel Pdl (in calo) dopo il dato pubblicato dal Corriere della Sera Non è detto che i traditori perdano I sondaggi: Fli all’8%. Pesca consensi anche a sinistra DI MARCO BERTONCINI S tupore, incredulità, rabbia non troppo nascosta. Nel centro-destra sono i sentimenti diffusi dopo alcuni sondaggi che assegnano percentuali inattese a Fli. È stato soprattutto il Corriere della Sera a destare sconcerto, riportando un dato di Renato Mannheimer che attribuisce al partito di Gianfranco Fini più dell’8%. È logico che la stampa berlusconiana, affannata come non mai a esorcizzare il presidente della Camera e sovente incentrata su altri sondaggi, più casalinghi, che conferiscono a Fli un dato dimezzato e peggio, sia amareggiata. C’è tuttavia una spiegazione e c’è altresì un precedente, che andrebbero valutati. Fini, collocandosi in posizione in certa misura estranea alla destra tradizionale, rastrella potenzialmente seguito non solo nel centro, ma altresì nella sinistra. Può attirare (può: non è detto che ci riesca) elettori oggi astensionisti, simpatizzanti dell’Idv (è esemplare l’insistito, fin troppo, richiamo alla legalità), delusi dal Pd. L’erosione di consensi, quindi, non sarebbe soltanto nei confronti del Pdl. Il Pdl è sì in perdita, e forte (alcuni sondaggisti lo collocano perfino sotto il 25%), ma a vantaggio non certo del solo Fli, bensì pure della Lega, ed essenzialmente del non voto. Offrendosi sul mercato elettorale con merce diversa da quella abituale sia nell’antico Msi sia nel nuovo Pdl, Fini può recuperare in vari settori. Alcune adesioni radicali (non soltanto Benedetto Della Vedova, ma altresì Francesca Scopelliti) ne sono sintomo. Il tema della laicità, negli ultimi anni pretermesso dal Pdl (comportamento privati esclusi), risponde a una peculiare domanda presente fra gli elettori. Bisogna poi riflettere su un’esperienza che di solito si trascura, ma che invece rivela parecchio. Se andiamo indietro esattamente di sedici anni, le polemiche odierne contro i traditori sono le stesse che fra autunno del ’94 e inverno del ’95 venivano sollevate contro i leghisti (e allora in prima fila nel denunciare la violazione del patto elettorale era Fini), con motivazioni sostanziali identiche. Perché si giunse al ribaltone? Per una paura folle di Umberto Bossi: essere fagocitato. Bossi aveva stretto con Berlusconi un patto convenientissimo, che gli aveva fruttato seggi e ministeri a iosa. Però aveva presto avvertito un pericolo mortale: essere assorbito da Fi, non totalmente, certo, ma in misura tale Vignetta di Claudio Cadei da ridurlo a un partitino. Due cifre chiariranno l’assunto. Alle politiche del marzo ’94 Fi era arrivata a 8.136mila voti (21%), mentre la Lega ne aveva nel carniere 3.235mila (8,3%). Alle europee del giugno successivo Fi aveva sfondato i 10 milioni di voti (30,6%), laddove la Lega era precipitata a 2.162mila voti (6,5%). Quasi due milioni in più a Berlusconi, un milione in meno a Bossi. Il ribaltone fu dal dominus leghista attuato con piena coscienza di rimetterci, subito, le poltrone governative e, in prospettiva, una barca di parlamentari. Molti de- Malcontento degli amministratori locali del Mezzogiorno I finiani rischiano di fermarsi a Eboli DI L ANTONIO CALITRI e dimissioni dei finiani dal governo e la proposta del presidente della Camera a Umberto Bossi di affidare un nuovo esecutivo a Roberto Maroni o a Giulio Tremonti fanno già vacillare la bandiera dalla difesa del Mezzogiorno, innalzata da Fini come una delle principali ragioni dello strappo. Con i primi segni di un terremoto che potrebbe avvenire proprio nel granaio finiano del Sud, avvenuto nel week-end con i telefoni dei principali collaboratori, a partire da Italo Bocchino, Carmelo Briguglio e Fabio Granata, incandescenti per le proteste ricevute proprio dal Mezzogiorno. La prima palese contraddizione della politica del presidente della Camera, su un cavallo di battaglia del suo nuovo partito, rischia di trasformarsi in un boomerang. Dei 15mila iscritti a Generazione Italia, embrione di Futuro e libertà, e del migliaio di amministratori che hanno seguito il presidente della Camera, oltre due terzi stanno a Mezzogiorno. Per loro le parole che ha utilizzato Fini per condannare a più riprese la politica del governo guidato da Silvio Berlusconi sono sempre state musica. Prima alla direzione nazionale del «che fai mi cacci», poi a Mirabello e due settimane fa a Bastia Umbra, la musica di Fini non è mai cambiata: la Lega è il vero motore di questo governo che trascura il Sud. E poi, un attacco diretto a Giulio Tremonti. «I fondi per le aree sottosviluppate», ha detto Fini durante il suo intervento «non possono essere più un bancomat che usa Tremonti quando la Lega glielo chiede perché tanto sono per il Sud, ma vanno concentrate su poche, pochissime grandi opere» e «fiscalità di vantaggio per il Sud». Due mesi fa, invece, in quel di Mirabello, attaccava sul federalismo che «deve essere fatto nell’interesse di tutta l’Italia, non soltanto nella parte più sviluppata del Paese. Bossi sa che è possibile realizzare il federalismo, ma solo se nell’interesse generale e se non è a scapito del Mezzogiorno. Solo chi non conosce la storia, oltreché la geografia, può pensare che la Padania possa esistere davvero». Senza parlare delle critiche all’indirizzo di Maroni da parte di Briguglio che per difendere Fini dalla richiesta di dimissioni lo attaccò dicendo che «non è l’unico cha ricoprire una carica istituzionale e a fare discorsi politici» e mettendo in dubbio l’imparzialità del Viminale. Maroni e Tremonti nell’obiettivo dei finiani sono diventati così una bandiera dei supporter finiani. Di colpo però, nella trattativa con Bossi sulla possibilità di proseguire la legislatura, Fini commette una gaffe imperdonabile proprio per il suo più grande bacino. Pur di mandare a casa il nemico Berlusconi, al Senatur ha proposto niente poco di meno che Maroni o Tremonti a capo del governo. Non tutti però, l’hanno presa bene. Il malcontento è in crescita in questi ultimi giorni. Gli amministratori del mezzogiorno chiedono spiegazioni da poter dare alla base che ha notato la prima incongruenza di Fini. Le dimissioni di ieri poi, si sono aggiunte allo sconforto degli amministratori locali che ora vedono smarrire ogni punto di riferimento all’interno del governo. E iniziano a tremare. Se la strategia finiana non porterà risultati immediati il rischio che la bandiera del sud si trasformi in una breccia per una emorragia di sostenitori si fa sempre più reale. © Riproduzione riservata putati e senatori, in effetti, se ne andarono subito o poco dopo, per restare fedeli all’impegno elettorale e non spostarsi a sinistra. Ebbene, allora i giornali di centro-destra, com’era ovvio, marciarono compatti contro i leghisti, accusati di aver voltato le spalle agli elettori (il che era vero) e minacciati di vedersi in seguito voltate le spalle proprio dai loro elettori, indignati. Così, invece, non fu. Alle successive politiche, nel ’96, la Lega andò da sola e spuntò 3.776mila suffragi (10,1%). I traditori portarono a casa mezzo milione di voti in più, guadagnando poco meno di due punti percentuali. La perdita in seggi fu macroscopica, per effetto del sistema elettorale e della mancata alleanza con altri; i voti, invece, non solo tornarono tutti, ma pure più numerosi. I dati delle politiche ’96 restano tuttora il vertice elettorale raggiunto dalla Lega, in valori assoluti e anche percentuali. Ecco perché quando oggi si leggono articoli di omaggio a Silvio Berlusconi, con la previsione di catastrofici esiti per Fini, occorre prudenza. I sondaggi, per quel che valgono, smentiscono i profeti di sventure. Il precedente di Bossi avvalora la possibilità che chi venga accusato di tradimento sia poi non già punito, bensì locupletato, dalla base elettorale. © Riproduzione riservata DECRITTAZIONI di Marco Cobianchi - Rosy Bindi: «Dovremmo allearci con Fini e Casini che tentano di costituire il terzo polo». Voleva dire: - Il futuro del Pd è di diventare la terza gamba del terzo polo. Miracolo a destra Ora il Secolo elogia Feltri DI PIERRE DE NOLAC O ra i finiani adulano Vittorio Feltri. «I maligni sostengono che voglia abbandonare la nave berlusconiana», scrive il Secolo d’Italia, e questo basta per dimenticare le tantissime prime pagine dedicate dal Giornale alla casa di Montecarlo. Valter Delle Donne sul quotidiano diretto da Flavia Perina ha elogiato Feltri senza alcun freno: «Da molto tempo sul Giornale in prima pagina non si leggeva un titolo come quello di mercoledì: «Governo, si sfascia tutto». Bisogna tornare ai giorni di Prodi premier. Come si spiega l’inversione di rotta? Semplice: in tanti nel centrodestra guardano a Feltri come a un vecchio lupo di mare che sa annusare il vento come pochi. Se c’è tempesta, lui lo sente prima degli altri. Vittorio pronto a passare con Gianfranco Fini in Futuro e libertà? Per il Secolo è possibile: «Dagli sfoghi del giornalista bergamasco emerge una insofferenza crescente nei confronti di quel mondo che finora lo aveva scelto come cantore del pensiero berlusconiano. Piccoli segnali, talvolta in codice, talvolta espliciti. Prendete l’intervista al Fatto quotidiano, proprio al quotidiano che dell’antiberlusconismo ha fatto la sua ragione sociale. Non solo ha bacchettato il Cavaliere per la sua vita privata, ma ha lasciato intendere un possibile addio: «Conta anche il fatto che dai big del Pdl o come c... si chiama, non mi è arrivata una parola pubblica di solidarietà»» E sfruttando le ultime interviste che il direttore ha concesso, il Secolo rileva: «Stavolta Feltri ha già in testa il modello per il nuovo giornale: una sorta di Fatto quotidiano. L’idea, suggestiva dal punto di vista editoriale, «è quella di una boutique» dell’informazione. Cosa impossibile con un quotidiano come quello di via Negri «perché ha trenta, quaranta vetrine, mentre a me ne servono un paio». Una modo per uscire finalmente dall’apnea. Senza più l’obbligo di difendere il Cavaliere, senza la necessità di campagne di stampa monotematiche sull’avversario di turno di Berlusconi. Senza i condizionamenti e i pregiudizi inevitabili su un prodotto editoriale che porta in gerenza il cognome del premier. Magari ripescando lo spirito dell’inviato del Corriere che smascherava ciarlatani e denunciava casi di malasanità (trent’anni prima delle «Jene») o che difendeva Enzo Tortora quando quasi tutti lo etichettavano come «camorrista». © Riproduzione riservata