INTRODUZIONE alla Lettera agli Ebrei e Capitolo 11, 1-3

LETTERA AGLI EBREI
Introduzione
Se guardiamo alla struttura della lettera egli ebrei appare
chiaramente qual è lo scopo dell’autore. La lettera inizia con la
dimostrazione della superiorità del Figlio di Dio (cap. 1) cui segue
subito un’esortazione a non trascurare il messaggio della salvezza
portato da lui (2, 1-8) senza lasciarsi ingannare dalla sua umiliazione
terrena, che era anzi il presupposto per il compimento della sua
missione sacerdotale (di sacrificio e offerta). Segue un’accentuata e
minacciosa messa in guardia dall’incredulità, che sarebbe fatale (3, 7 4,13). A questa si contrappone, poi, la confessione di Gesù come il
sommo sacerdote (4, 14 - 5, 10) che viene anticipata anch’essa da un
brano d’ammonimento, che sottolinea con forza ancora maggiore la
gravità della caduta insanabile ma
anche un profondo incoraggiamento nella visione della fedeltà di Dio
alle sue promesse (5,11 - 6,20).
Soltanto ora comincia la parte dottrinale della lettera, che va dal
sacerdozio di Cristo, alla sua opera, al ruolo di mediatore della Nuova
Alleanza. Incontriamo, ancora, un’esortazione molto forte a
perseverare e ad essere saldi nella fede con l’indicazione delle
rovinose conseguenze della caduta (10,19 – 12,29).
E al centro di questa sezione troviamo il grande capitolo
esemplificativo dei testimoni della fede nella storia d’Israele (cap. 11)
che ci accompagnerà quest’anno nel nostro cammino del sabato.
Dalla struttura appena illustrata, appunto, viene fuori una delle
caratteristiche della Lettera agli Ebrei: a sezioni di contenuto
dogmatico e dottrinale si alternano di continuo ampie esortazioni ed
indicazioni di carattere pratico-pastorale. E queste ultime hanno un
unico obiettivo, quello in pratica di richiamare con la massima forza
al dovere di mantenersi fermi nella confessione di Gesù, fermi nella
fede. L’autore grida a gran voce che la perseveranza nella fede
cristiana dà la salvezza. Tutti gli sforzi sono concentrati su questo.
E le parti dottrinali della lettera non restano fuori del fine che vuole
raggiungere, ma anzi gli servono da fondamento; offrono al lettore, a
noi tutti fratelli, un aiuto perché possiamo mantenerci decisi e sicuri
nel nostro cammino.
Una convinzione dottrinale ordinata e ferma, vedete, per l’autore
sono la base di una duratura decisione della volontà.
- E’ chiaro, allora, che la lettera è indirizzata ad un gruppo di lettori
che é in estremo pericolo di rigettare la fede in Gesù come rivelatore
e apportatore di salvezza. Sono stanchi, le loro gambe vacillano, c’è la
tentazione di abbandonare tutto vista la forma umiliante e dolorosa di
Gesù uomo, viste le sofferenze che essi stessi devono sopportare in
quanto cristiani (persecuzioni di Roma).
Molto probabilmente si tratta, poi, di cristiani d’origine giudaica (da
cui il titolo “agli ebrei”); i lettori parlano in greco perché la lettera è
stata scritta originariamente in greco. La condizione di pericolo, infine,
ed alcune allusioni al loro passato (precedenti persecuzioni) spingono
a pensare ad un gruppo di persone localmente delimitato che si
potrebbe trovare a Roma.
Si dovrebbe allora pensare ad un gruppo di giudeo cristiani all’interno
della comunità romana.
- Secondo molti, ancora, la lettera sarebbe una di quelle scritte da
Paolo: è vero che ci sono affermazioni e qualche concetto che
richiama alla memoria Paolo di Tarso, ma il suo stile e il suo modo di
esprimersi sono assolutamente differenti. Resta, in ogni caso, il fatto
che l’autore è certamente una persona di grande forza ed
indipendenza spirituale, piena di profonda passione cristiana.
- Il periodo di composizione si colloca tra la persecuzione di Nerone
(10, 32 ss.) e la Lettera di Clemente (95/96 d.C.) che l’ha utilizzata; di
dovrebbe poter datare la lettera intorno all’80.
La particolare importanza della lettera nel quadro del Nuovo
Testamento sta nella sua presentazione di Gesù come chi supera
l’istituzione cultuale dell’Antico testamento.
Paolo, Vedete, aveva insegnato che Gesù aveva superato e dato
compimento all’antica alleanza, aveva rilevato con forza e con la sua
stessa vita che la salvezza e la nostra giustificazione (nel senso di
essere stati resi giusti) venivano da Cristo e non dalla legge e dal culto
dell’antico testamento. Fine da raggiungere non attraverso la via
legalistica del farisaismo (“fa questo e allora vivrai”) ma soltanto
gratuitamente lungo la via della fede nella grazia di Dio, manifesta in
Cristo crocifisso. E questo è proprio quello che fa la Lettera agli Ebrei.
E’ insito in essa il concetto del compimento, che corrisponde anche a
quello di purificazione della coscienza, santificazione, redenzione,
riscatto, remissione dei peccati.
Come avrebbe potuto cancellare i peccati il sangue di buoi e arieti
(10,4)? L’immagine di Cristo della Lettera agli Ebrei mostra il sommo
sacerdote che con la sua offerta (di se stesso) ci ottiene una volta e
per sempre il perdono, aprendo così l’accesso a Dio.
Ma vedete, è bene dirci una cosa stasera: anche se le idee di culto
dell’A.T. sono ormai lontane da noi, le questioni e le miserie contro
cui si batte, non sono affatto solo del suo tempo soltanto, ma
accompagnano la comunità cristiana nel suo cammino attraverso i
secoli. Fratelli riguardano anche noi oggi, il nostro tempo.
E anche la solenne severità con cui questo maestro sconosciuto del I
secolo, d’altissima spiritualità, presenta la grandezza di Cristo che “ha
trovato un’eterna redenzione, purifica le nostre coscienze dalle opere
morte per il servizio del Dio vivente, così che possiamo accedere con il
cuore pieno di gioia al trono della grazia”; la solenne severità con la
quale pone l’estrema responsabilità della decisione di rimanere nella
fede e di rinnovarsi; tutto questo non ha perduto nulla della sua
efficacia e non lo perderà, finché ci saremo noi, cristiani discepoli di
Gesù Cristo Figlio di Dio.
Lettera agli Ebrei:
Cap. 11, 1-3
“La fede è uno star fermi a ciò che si spera, un essere convinti di cose invisibili. In
essa gli antichi hanno avuto testimonianza. Per la fede noi conosciamo che i mondi
sono stati creati dalla Parola di Dio, così che non da ciò che appare ha avuto origine
quel che si vede.”
Il capitolo 11, saldamente e organicamente collegato con i pensieri
fondamentali della lettera, ci annuncia che l’elemento che determina
fondamentalmente l’essere e l’agire cristiano, prendendolo e
penetrandolo tutto quanto, è LA FEDE.
Il versetto 1ci presenta la definizione essenziale della fede, posta qui
non tanto per un interesse teorico o filosofico, ma con un intento ed
un animo parenetico, cioè esortativo, per mettere in evidenza ciò che
occorre, di cui necessitano i destinatari della lettera (e noi oggi) e che
essi devono sforzarsi di acquistare. All’autore non interessa l’esattezza
scientifica della definizione, bensì indica un oggetto generale, quale è
la speranza, e con essa le realtà invisibili. L’esistenza del cristiano,
allora, si definisce, prende corpo a partire dall’avvenire, dalle realtà
sovramondane, escatologiche e trascendenti (pensiamo proprio al
vangelo di oggi).
E tutto questo fondato, fratelli, ricordiamolo sempre, solo ed
esclusivamente sulla RESURREZIONE di Gesù Cristo, alla quale pure
dobbiamo credere non avendone prova, se non nella fede aiutata
dalla Parola e dalle testimonianze di chi ci ha preceduto sin da allora.
L’alito di vita della nostra fede ha la sua sorgente in quel mattino di
Pasqua e nella sua energia di vita e salvezza.
E’ bene che la comunità destinataria della lettera, e tutte le comunità
di cristiani fino a noi, si persuada che gli antichi, elencati poi nel
prosieguo della lettera in una lunga serie di predecessori nel cammino
salvifico della storia, furono soggetti alla medesima prova (della fede
e dell’affidarsi a Dio senza nulla di concreto tra le mani) e che,
avendola superata, furono accetti a Dio, graditi a Lui.
In tutto il capitolo 11 l’autore esprime la sua idea fondamentale, vale
a dire che è all’opera sempre lo stesso Dio e lo stesso Spirito, e si
richiede all’uomo la medesima risposta, cioè la fede. Gli antichi
destinatari della rivelazione, avendo fornito buona prova di sé
mediante la fede, sono l’esempio di quel che anche noi dobbiamo
essere, poiché in un’economia imperfetta hanno fatto quel che a noi è
chiesto nell’economia perfetta. La fede degli antichi nominati in
seguito, poiché è in una penombra che li metteva alla prova, può
essere data come modello d’uno sforzo, di una ricerca nella notte;
diviene rimprovero e condanna per quelli che, camminando in pieno
sole (Gesù) si stancano e si smarriscono (perdono la fede, hanno poca
fede, richiamo alla nostra responsabilità, alla nostra incredulità).
Veniamo alla definizione.
La fede viene definita come “fondamento”, hypostasis; questo
termine va anche tradotto come “star fermo a qualcosa”, “tenere
per”, “stare saldo”. Quando indica un’azione significa a) sottoporre; b)
star sotto, dipendere, e connota il carattere della solidità e anche
della fiducia. Se invece indica una cosa allora designa il fondamento,
quindi ciò che sostiene una cosa, l’essere, la natura, la realtà. Capiamo
bene entrambi i casi sposano perfettamente cosa è la fede. Nel N.T.
troviamo il termine hypostasis cinque volte: Eb 1, 3 dove significa
senza dubbio “natura, realtà”, in 2 Cor 9, 4 e 11, 7 sembra assai
probabile, invece, il significato di “fiducia”.
Balza subito alla nostra attenzione che la fede è messa in relazione
con la speranza. Ci riportiamo a San Tommaso, che molto ha studiato
e commentato la lettera agli Ebrei. Egli indica le ragioni principali di
questo primo posto accordato alla speranza. Ascoltate bene: la fede è
emessa dall’intelligenza per comando della volontà. Il fine proprio
della volontà è la beatitudine, quindi Dio stesso, che quaggiù non
possiamo vedere e raggiungiamo solo in speranza. L’intelligenza, per
credere, è messa in movimento dalla volontà, che ha come oggetto
proprio beni da raggiungere, quindi in speranza.
Il bene proposto dalla fede come suo fine è al plurale: delle cose
sperate; è così scritto perché esse non sono considerate se non nella
misura in cui ci mancano, in cui sono desiderate, in cui la mostra
volontà tende verso di loro.
Allora la fede davvero è fondamento, sostegno, deposito, sedimento,
fermezza, fiducia.
Fiducia come ferma attesa, convinzione delle cose di Dio
(sottolineiamo nei gruppi questi concetti e chiediamo ai fratelli di
esprimersi anche raccontando le loro difficoltà su queste certezze): il
credente si sente sicuro dei beni promessi da Dio. La fede come
sostanza, sottomettendo l’intelligenza, ci fa ottenere quello che
perseguiamo; poi ci rende presenti i beni soprannaturali, ce ne dà
quasi un primo possesso (come leggiamo nella Scrittura… gustiamo le
realtà terrene prima di gustare un giorno quelle celesti). La fede ci
garantisce l’esistenza dei beni che desideriamo e la possibilità, e la
certezza, di raggiungerli.
Nella seconda parte della definizione spicca il termine “elegchos”, che
significa “dimostrazione”, “prova”, quasi una precisazione della prima
parte. E, in effetti, fonda la prima parte della definizione.
Qui è affrontato l’oggetto proprio della fede, le realtà invisibili, situate
nel futuro come contenuto delle promesse divine, o perché
inaccessibili ai nostri sensi o alla nostra intelligenza. E lo spirito dà il
suo consenso unicamente per l’autorità divina di cui è rivestita la
rivelazione di Dio.
Torniamo di nuovo a San Tommaso. Trattandosi dello stato d’animo
dell’uomo
il termine
potrebbe
essere
tradotto anche
con
“convincimento”, e San Tommaso, appunto, dice “la fede è una
predisposizione (habitus) dello spirito che, producendo il consenso
dell’intelletto alle realtà invisibili, ci fa iniziare la vita eterna”. Il
termine è qui tradotto dal santo come “inizio di una cosa” e così viene
detto allora della fede, per designarla come l’inizio, il germe di quella
visione di Dio, nella quale consiste la vita eterna. D’altronde le realtà
invisibili sono già esistenti in mezzo a noi e non devono ancora venire,
anche se non riusciamo a percepirle con i sensi o con l’intelletto. E
tornando al carattere esortativo della lettera possiamo ancora
definire la fede come una presa di Dio, realtà suprema, esercita
sull’uomo, determinandone tutta la vita e facendogli fare prova di sé
nell’’obbedienza, nella paziente perseveranza e nella costanza.
Ecco la potenza della fede, la sua capacità di farci vivere già nella
nostra vita su questa terra le realtà di Dio, la sua presenza viva, i suoi
sacramenti, la sua chiesa. Solo per la FEDE. La sua forza si manifesta
quando dà la capacità di affrontare anche il rischio più serio, quello di
metter in gioco, con incrollabile sicurezza, ciò che vediamo per amore
di ciò che non vediamo, di resistere attendendo con fiducia e con
pazienza (torna il tema della lotta spirituale, SOTTOLINEIAMOLO!!! –
vita intrisa di fede). Mi sento di dire, attualizzandolo e
contestualizzandolo, vale anche per i nostri rapporti fraterni, dove
non è detto e non è dato di vedere sempre i frutti dello Spirito, ma a
volte siamo chiamati a credere senza vedere, lottando nella
convinzione.
Questa è la prerogativa delle grandi figure della storia della salvezza e
di tutti coloro che, per amore di ciò che speravano e delle realtà
invisibili, rinunciarono alla vita e agli onori terreni. Ed è anche la
caratteristica di Gesù, autore e perfezionatore della nostra fede.
Prima di cominciare la serie dei testimoni della fede c’imbattiamo,
infine, nel versetto 3, che parla della fede che ci schiude la
conoscenza della creazione, compiuta dalla Parola di Dio. E’ una
digressione ben legittima, vedete, poiché l’autore vuole dire ai suoi
destinatari che cosa è la fede in se stessa. Il fatto stesso della
creazione dei mondi per opera della parola di Dio può essere
percepito solo dalla fede; da essa risulta subito chiaro che il centro di
gravità del reale non è in ciò che si vede, ma in quello che non si vede.
E’ fondamentale per l’autore porre l’accento che questo mondo
visibile (il nostro mondo) non poggia su se stesso, ma è come sospeso
a qualcosa che sta al di fuori di lui, che vien percepito solo nella fede,
e tuttavia è la vera realtà. I credenti ricevono dalla parola divina una
prima indicazione che dà loro un’intelligenza più profonda della
genesi dell’universo: non è la fede, ma una riflessione su un dato di
fede che porta alla verità. E’ nella scrittura che il credente scopre che
l’universo è stato creato dalla parola di Dio, senza sforzo e senza usare
una materia preesistente. Il credente in questo modo comprende che
non da elementi visibili, anteriori alla creazione, proviene il mondo
che vediamo. Dio, creatore, procede in maniera ben diversa da noi, e
questo modo della creazione ci accompagna a comprendere il primato
dell’invisibile in tutto ciò che esiste, e che tutto dipende da Dio, è
opera delle sue mani ed a lui solo si riconduce.