Boris Pahor e i ricordi.
di Francesco Cecchini
Boris Pahor e Fabienne Issartel cima al monte Nanos in Slovenia nella scena finale del documentario “ Boris Pahor portrait d’
un homme libre” di Fabienne Issartel. *
Il tempo tra la Giornata della Memoria ed il Giorno del Ricordo è un’opportunità per
ricordare. Il ricordo al servizio della verità storica, sempre rivoluzionaria secondo Gramsci,
e dell’ azione politica, che deve andare oltre le due date ufficiali.
NI OLVIDO NI PERDON, dicono gli argentini, come le madri e le nonne di Plaza de Mayo
che ancor’ oggi combattono per trovare figli e nipoti e per trascinare in giudizio criminali
fascisti della dittatura militare del 1976–1982.
Non va ricordato, quindi, solo l’olocausto del popolo ebraico, ma tutte le pulizie etniche ed i
genocidi i genocidi avvenuti il secolo scorso, quello del popolo armeno, quello dei Tutsi in
Ruanda, quello tuttora in corso del popolo palestinese ed altri, non ultimo quello, rimosso e
dimenticato, di oltre un milione di comunisti, avvenuto in Indonesia nel 1965.
Moni Ovadia, ebreo, la scorsa giornata della memoria, ha detto:
«La giornata deve diventar delle memorie, per rilanciare attraverso l’edificio della memoria,
un’azione comune per portare pace, uguaglianza sociale ed applicazione vera dei diritti.
Una condizione universale dell’esistere dove ogni persona sia libera di circolare nel mondo
senza restrizioni di diritti e di dignità.»
Parole che valgono anche per il 10 febbraio, giorno del ricordo, che deve diventare giorno
dei ricordi.
L’istituzione, il 10 febbraio di ogni anno, di una «giornata della memoria dell’esodo
dall’Istria, dall’Istria, da Fiume e dalle coste dalmate» – con la legge 92 del 30 marzo
2004, approvata dalla Camera con il voto favorevole del “centro-sinistra” guidato dagli
allora Ds (che nel maggio 2003 avevano presentato una proposta di legge in tal senso,
firmatari il segretario Piero Fassino, Luciano Violante e il deputato Alessandro Maran
eletto nel Friuli-Venezia Giulia) – è un oltraggio alla Resistenza. Una «memoria condivisa»
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che in realtà cancella ogni distinzione storica e politica fra fascismo e antifascismo. La
storia non si può eliminare, né strumentalmente riscrivere a colpi di leggi; si può anche
rinnegare, certo, ma cambiare no.
Non va ricordato solo la fuga dall’Istria e dalla Dalmazia di qualche decina di migliaia di
italiana o le foibe, ma anche tutti i crimini fascisti in Africa ed in Europa. Tra questi l’
oppressione con massacri del popolo slavo.
Emblematico di quello che avvenne nelle terre poi acquisite dal trattato di Rapallo (quello
del novembre 1920) fu il discorso di Benito Mussolini, tenuto a Pola il 22 settembre 1920
:«Di fronte ad una razza inferiore e barbara come quella slava non si deve seguire la
politica che dà lo zuccherino ma quella del bastone … i confini dell’Italia devono
essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare
500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».
Seguirono giorni di terribile umiliazione per il popolo sloveno attraverso la cancellazione
dei suoi simboli, della storia e della cultura, la repressione con esecuzioni e torture delle
proteste e della ribellione di chi si opponeva a questa pulizia etnica. Infine gli anni terribili
della seconda guerra mondiale con l’ invasione della Jugoslavia. Ma per avere una prima
idea è sufficiente la sintesi, fornita dallo storico Angelo Del Boca, del bilancio delle vittime
civili in 26 mesi (1941 – 1943) di terrore italo-fascista nella sola “provincia di Lubiana:
Ostaggi fucilati per rappresaglia: 1.500
Fucilati sul posto durante i rastrellamenti: 2.500
Deceduti per sevizie: 84
Torturati e arsi vivi: 103
Uomini, donne e bambini morti nei campi di concentramento: 7.000
Totale: 11.100
Se si contano i circa 900 partigiani catturati e “passati per le armi” sul posto, nonché le 83
sentenze di morte emesse dal tribunale militare di guerra di Lubiana (che comminò anche
434 ergastoli e 2695 altre pene detentive per un totale di 25.459 anni) le vittime furono più
di 12.000.
I villaggi completamente devastati furono 800 e più di 3000 le case saccheggiate e
distrutte col fuoco. Tutta la Slovenia, il Friuli Venezia Giulia ed anche il Veneto vennero
disseminati di campi di concentramento per sloveni e slavi. Il campo di concentamento
dell’ isola di Arbe aveva una mortalità giornaliera superiore al lager di Buchenwald.
Lo scrittore, italiano di lingua slovena, Boris Pahor ha compiuto cent’anni lo scorso 26
agosto, ha attraversato quindi tutto il secolo breve vivendo la repressione fascista, la
ribellione a questa, la deportazione e l’internamento in un campo nazista, i problemi legati
al confine orientale nel secondo dopoguerra.
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Boris Pahor in una foto di cinque anni fa. Nel 2009 a Trieste in Piazza Oberdan fotografato da Fabienne Issartel.
Una sua risposta in un intervista, apparsa lo scorso ottobre nel supplemento letterario di
un giornale argentino riassume molto bene la sua esperienza dolorosa di vita.
Dopo tutto quello che ha vissuto, qual’ è la ferita più grande?
«Il fascismo. Il fascismo mi rovinò la vita, mi rovinò la gioventù. Lì immagine che più mi ha
lasciato un segno e che anche lasciò una traccia nella mia scrittura, avvenne quando
avevo sette anni ed i fascisti bruciarono la casa della cultura slovena a Trieste. Era un
edificio di 6 piani. I fascisti ruppero gli idranti e ballavano tutt’intorno come pazzi. In quel
momento rimasi paralizzato. Dovetti diventare un altro, parlare italiano e non ero capace di
farlo.S i capisce che dopo, essere vicino alla morte non era una cosa senza importanza,
ma ro un uomo più maturo e preparato perché con i tedeschi mi potesse capitare qualcosa
di cattivo. Ci tolsero la lingua, la scuola e la nostra società. In seguito i miei genitori mi
mandarono in seminario non perché volvano che diventassi prete, ma perché non
sapevano dove mandarmi. Era difficile studiare di nascosto in sloveno perché non si
trovavano libri. Abbiamo avuto una doppia vita: italiana negli studi, slovena per
convinzione. Lì compresi che nessun potere poteva obbligarmi a cambiare identità. Con
altri compagni studiavamo di nascosto cultura slovena. Cercavamo libri come fossero
sigarette di contrabbando.»
L’ incendio del Narodi Dom, Casa Nazionale, fu l’inizio dell’ odissea di Boris Pahor.
Costruito nel 1904, il Narodni Dom era il cuore dellacomunità slovena di Trieste. Il
palazzo era costituito da un albergo, l'Hotel Balkan, un teatro, alcune abitazioni private ed
era la sede di numerose organizzazioni e da sedi di varie organizzazioni politiche
economiche e culturali slovene, ma anche croate, serbe ceche e slovacche. Narodni Dom
era il simbolo della presenza slovena a Trieste che prima della guerra del 15-18 era di
circa 60.000 persone, il 25% della popolazione. Durante tumulti anti-slavi, il 13 luglio1920
l'edificio fu distrutto da squadre fasciste che appiccarono il fuoco e impedirono l'intervento
dei pompieri. L'intento era quello di eliminare ciò che per loro costituiva un’ affronto
all'italianità della città e incendiare, insieme al palazzo, gli archivi che raccoglievano la
memoria della comunità slovena triestina. I responsabili del rogo non furono mai
processati, né i proprietari risarciti. Successivamente, l'affermarsi del regime fascista
comportò la completa negazione dei diritti e dell'identità delle minoranze e nel 1927 si
giunse alla chiusura definitiva di tutte le organizzazioni slovene.
Boris Pahor ha raccontato la su tragica ed eroica vita in moltissime opere tra le quali
Necropoli, Il rogo nel porto, Il petalo giallo, Qui è proibito parlare, Nella cittadella triestina,
Bonaccia con gli aranci, Una primavera difficile, Piazza Oberdan, Figlio di nessuno.
Il 28 agosto scorso per la collana Overlook di Bompiani è uscito l’ ultimo libro di Boris Pahor, “Così
ho vissuto. Biografia di un secolo”, a cura di Tatjana Rojc.
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Tatjana Rojc, così introduce la biografia:
“Il racconto della sua esperienza esistenziale è, dunque, un racconto etico e vivo, denso di avvenimenti e
aneddoti che seguono un tracciato cronologico ma mai banale o scontato. La sua biografia si sviluppa
attraverso questo racconto, fatto da Pahor in prima persona, e contestualizzato dalla curatrice. Non si tratta
solo di una autobiografia ma anche di una storia di Trieste, storia in cui si specchia la storia del novecento
europeo. Così, accanto alla storia viva, in presa diretta di Trieste, della comunità slovena e delle altre
comunità che arricchivano e in parte arricchiscono, la città; accanto alla cronaca della disgregazione
dell’Impero asburgico, della Grande guerra, dello squadrismo e del fascismo, Boris Pahor racconta la sua
crisi esistenziale, l’esperienza della guerra in Africa, l’adesione al Fronte di liberazione sloveno e la
conseguente deportazione nei lager, il difficile ritorno alla libertà e alla vita. Un libro che si legge come un
romanzo. Un libro che rimarrà come testimonianza inaggirabile della storia d’Europa”.
*Il documentario, “Boris Pahor,un homme libre”, può essere richiesto direttamente all’ autrice:
[email protected]
Boris Pahor e Isabelle Issartel
Del suo incontro Fabienne dice:
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« L’écrivain Boris Pahor qui a eu 100 ans au mois d’août dernier, m’a donné non seulement sa très belle
amitié, mais aussi une formidable leçon de vie. Car son énergie vitale hors norme est contagieuse.
Moi aussi je veux être immortelle : comme Boris !
Dans ce documentaire, le récit de la vie de Boris Pahor, et l’histoire de notre rencontre se superposent. C’est
dans la brume du sommet du Nanos, à la fin du film, qu’il aborde l’idée de sa propre disparition… avant de
réaparaître encore et encore. On a du mal à finir le film lui et moi. C’est que l’immortalité en impose ! C’est
après avoir lu ses bouquins, que j’ai décidé, un jour de février 2008 d’aller le rencontrer à Trieste… C’est
comme ça que tout a commencé pour moi.
Ce portrait donnera envie aux spectateurs de découvrir l’oeuvre de Boris Pahor, traduite partiellement en
français aux éditions du Rocher, chez Phébus et chez Pierre-Guillaume de Roux éditions. Car il faut lire
Pahor. C’est aux mots, à la langue qu’il doit sa survie. »
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