Camilla Miglio Metahistory. The Historical Imagination in Nineteenth-Century Europe (1973) è il titolo della monografia di Hayden White, Professor of Consciousness presso la University of California, Santa Cruz. Approdato a questa nuova disciplina dopo un percorso di formazione storica e filologica, con un occhio giovanile a Croce e alla sua Storia come pensiero e come azione (1938), ma anche a Roland Barthes, Northrop Frye, Kenneth Burke, White è autore di un libro-simbolo di quella che a molti è sembrata una rivoluzione all’interno della disciplina storica. La consapevolezza di un piano metastorico certamente non è nuova. Nuovo è l’uso del termine: Metahistory significa in questo caso discorso sulla storia intesa come discorso. White rivisita il topos dell’affinità tra storico e poeta, entrambi narratori – il primo solo un po’ meno libero del secondo. Egli mira infatti a fondare una teoria formale dell’opera storica, in grado di decodificare la retorica della storiografia, e dietro questa retorica, le rappresentazioni ideologiche che conducono lo storico o il filosofo della storia ad esporre, o disporre i fatti secondo un certo modello narrativo. Narrazione, retorica, rappresentazione sono gli aspetti che introducono la metastoria nella famiglia degli studi culturali contemporanei. Non solo la storia, la letteratura, la cultura sono oggetto di studio nelle loro rispettive rappresentazioni, ma la stessa storiografia è campo d’indagine: non più come scienza positiva, ma come narrazione, discorso, ovvero fonte culturale. In essa si possono rintracciare le rappresentazioni, i valori e le proiezioni degli storici nella doppia direzione di presente e passato. White propone di indagare l’immaginazione storica del XIX secolo secondo alcuni tropi del discorso storico intendendo per discorso storico l’opera di storici e filosofi della storia: Hegel, Michelet, Ranke, Tocqueville, Burckhardt, Marx, Nietzsche e Croce. Storiografia e 1 filosofia della storia avrebbero dunque una radice comune. La prima metterebbe per così dire in pratica le costruzioni della seconda. White passa attraverso i testi, servendosi di analisi testuali e stilistiche, in grado di rivelare una tipologia delle dimensioni morali, epistemologiche, estetiche e politiche della storiografia. Una tipologia che trova i suoi corrispettivi in scelte formali e narrative differenziate: spiegazione per argomento formale (formism, organicism, mechanicism, contestualism); per intreccio (romance , comedy, t r a g e d y , satire ); per implicazione ideologica (a n a r c h i s m , conservatism , radicalism , liberalism ). La combinazione di queste categorie consente di individuare la struttura superficiale del testo. White individua però una struttura più profonda, la poetic faculty dello storico, che orienta i modelli esplicativi in quello che egli chiama act of prefiguration. La codificazione di tali modelli è retorica, secondo i quattro tropi: metafora, metonimia, sineddoche, ironia. Così per esempio Michelet avrebbe scelto come plot il genere letterario del romance , dominato dal tropo della metafora, Ranke la commedia, con una organizzazione retorica metonimica, Tocqueville la tragedia, facendo ampio uso della sineddoche, Burckhardt la satira (o meglio satura ), attingendo ai modi dell’ironia. Queste quattro tipologie rispettivamente troverebbero corrispondenza in precise scelte etico-politiche: anarchismo, conservatorismo, radicalismo, liberalismo. Gli incroci tra storiografia, filosofia della storia e retorica rischiano tuttavia qualche semplificazione. E il dibattito successivo sulla metastoria non mancherà di rilevarlo. Qui basti un esempio: nel caso di Burckhardt, White parte da un’analisi testuale della Kultur der Renaissance in Italien (1860), allo scopo di risalire dall’elemento metastorico (le scelte retoriche e il metodo) alle istanze etiche e politiche della storiografia burckhardtiana. Nel tropo dell’ironia, il cui modo immaginario sarebbe la satura, nel senso latino di miscuglio, ricomposizione senza senso di frammenti sparsi, White cerca la chiave di volta del testo. Ciò a partire dalla struttura paratattica, che non consentirebbe alcuna costruzione ipotetica degli eventi. Si può rilevare invece – contrariamente a quanto sostenuto da White – una stretta consequenzialità tra i diversi blocchi del testo riconoscibile alla luce di analisi intertestuali, confronti con altre opere 2 burckhardtiane. È anzi la consequenzialità che permette di illuminare in successione le determinazioni del moderno nella grande architettura della Kultur. La successione di quadri positivi e negativi offre un taglio prospettico, ambivalente, della genesi del moderno, tutt’altro che antiideologico ed estetizzante . Esso è anzi del tutto permeato dalle preoccupazioni del presente, del tempo delle rivoluzioni, come Burckhardt amava chiamare il proprio secolo. Nelle pubblicazioni successive White approfondisce la sua visione del passato, che è costruzione più che ricostruzione. Così in Tropics of Discourse. Essays in Cultural Criticism (1978), la storia è sempre una forma di consapevolezza, che trova espressione nel linguaggio e nel discorso. Essa è sempre un testo rispetto al quale lo storico si pone in modo critico (vicinanza/distanza). In The Value of Narrativity in the Representation of Reality (1980) e in The Politics of Historical Interpretation. Discipline and Sublimation (1982) White, seguendo Genette e Benveniste, distingue il livello narrativo ( narrative ) dal discorso soggettivo (discourse). Il livello narrativo organizza consapevolmente o inconsapevolmente il discorso soggettivo secondo schemi che rispondono alle domande poste dalla cultura circostante, dai valori condivisi o rigettati della società in cui lo storico vive. Si tratta di un modo per moralizzare la realtà. Peter Munz, in The Shapes of Time continua, radicalizzandolo, il discorso di White: “Il tempo dei documenti è finito”, dichiara, provocatorio. L’interesse è tutto rivolto alla compenetrazione tra storiografia e filosofia della storia. La temporalità, in cui accadono gli eventi, di per sé è inattingibile. Accessibile e interpretabile è invece il livello delle descrizioni degli eventi stessi, con un salto dalla temporalità alla storicità (Munz 1977). Frederick Olafson, in The Dialectic of Action, mette, appunto, in rapporto dialettico il piano degli eventi con quello dell’interpretazione. Si tratta di due diversi tipi di action : azione nella storia (evento storico, res gesta) e azione di chi descrive e interpreta ciò che accade. Chi guarda alla storiografia deve tenere conto della influenza reciproca, della circolarità tra fatti e ricostruzioni umane. (Olafson 1979). Dominick La Capra, in Rethinking Intellectual History. Text, Contexts, Language (1983), mostra come 3 White non abbia tenuto presenti le tensioni tra testi e contesti, esponendosi a un relativismo che non rende giustizia ai contesti storici. La Capra indica una via per recuperare la storicità attraverso sei ipotesi di ricerca: il rapporto tra intenzione dell’autore e testo; tra vita dell’autore e testo; tra società e testo; tra cultura e testo; tra testo e opera complessiva dell’autore; tra discorso e testo. Negli sviluppi del metodo di White e degli studi da esso ispirato si riconoscono spunti di interesse e pericoli di semplificazione e relativismo. Un tentativo di mediazione e riflessione si trova nel bilancio meta-storico a cura di Jörn Stückrath e Jürg Zbinden che ha il pregio di collegare la ricerca americana con quella europea, inserendo White in un più ampio panorama interdisciplinare, per cui autori apparentemente diversi come quelli citati nel titolo avrebbero in comune la volontà di esplorare la percezione e la rappresentazione della realtà – appunto nei diversi campi del pensiero storico, della vita, della letteratura e dell’arte. Ne emerge la centralità della ricerca di White, ma anche i rischi cui la sua concezione si espone. Molto chiaramente si profila un nodo problematico della metastoria nel contributo di James E. Young, Hayden White, postmoderne Geschichte und der Holocaust (1997). L’occasione è data dalla polemica tra White e Carlo Ginzburg, glossata e commentata dallo stesso Young. L’approccio retorico whitiano alla scrittura storica ne svuoterebbe o depotenzierebbe il contenuto di realtà e di verità. Per cui, osserva Ginzburg, un libro come quello di Faurisson, che nega la verità storica della Shoah non può essere considerato, come invece fa White, una interpretazione errata dei fatti. Essa non è interpretazione, è semplicemente menzogna, non degna di essere definita storiograficamente (Ginzburg 1992). Questo caso limite, osserva Young, illustra il punto debole della impostazione di White. Pensato fino in fondo, il suo f o r m a l i s m o rischia di allontanare pericolosamente la storia dalla verità di alcuni fatti che devono restare tali, al di qua e al di là di ogni interpretazione dell’interpretazione. Nonostante Metahistory venga preso a punto di riferimento per una nuova visione linguistica e retorica della storiografia, va tenuto conto di sviluppi precedenti e paralleli, che arricchiscono, e in certa misura compensano, alcune unilateralità whitiane. Si può risalire addirittura a 4 Gervinus, che già nel 1837 individuava in epica, lirica e dramma le forme della rappresentazione storica. Oppure all’analisi retorica dell’opera di Tacito o Ammiano Marcellino di Erich Auerbach (Auerbach 1946). O, per tornare in ambito francese, consultare il Roland Barthes che illustra il linguaggio metaforico di Michelet (Barthes 1954). O ancora l’americano Jack Hexter, che intitolò un suo articolo per la Enciclopaedia of the Social Sciences proprio The Rethoric of History (1968). Come ha osservato Peter Burke in Metageschichte von Metahistory (1997), l’approccio di White resta comunque inconsueto, anche se debitore nei confronti di almeno altri due predecessori: il nordamericano Kenneth Burke (dal suo Grammar of Motives discenderebbero i quattro tropi fondamentali) e il canadese Northrop Frye (nel 1963, in New Directions for Old, già parlava di Metahistory e di plot nella scrittura storiografica). Secondo Peter Burke, anzi, White comincia laddove Frye si era fermato, “lasciando cadere sullo sfondo l’opposizione aristotelica tra poesia e storia (…) mettendo al centro della sua riflessione l’associazione di plot e modi della rappresentazione storica con le posizioni politiche” (Burke P. 1997, p. 77). Proprio l’intreccio tra visione strutturalista e lettura ideologica costituiscono, per Peter Burke, la novità, la forza e il rischio del libro di White. In Germania la scuola ermeneutica alla fine degli Sessanta raggiunge risultati se non paralleli, sicuramente confrontabili con il percorso di White. Nel 1970 a Reichenau si svolge il Fünftes Kolloquium der Arbeitsgruppe Poetik und Hermeneutik intorno al tema: Geschichten und Geschichte (Storie e Storia). I risultati del convegno sono raccolti nel volume Geschichte, Ereignis, Erzählung. Poetik und Hermeneutik V, curato da Reinhart Koselleck e Wolf-Dieter Stempel e pubblicato nel 1973. La storia viene intesa come collettivo singolare, ovvero come interpretazione complessiva di fenomeni logicamente concatenati o interpretabili ideologicamente, filosoficamente: in questa forma ha alimentato gli storicismi e le filosofie della storia. Si tratta di una storia al plurale: storie, cronache, come venivano praticate fino al XVIII secolo, con la consapevolezza che in entrambi i casi, sia che si tenda alla Storia, sia alla pluralità delle storie, si tratta di narrazioni. Da qui parte la questione posta da Koselleck nell’introduzione del volume: come si costituisce la 5 storia linguisticamente, nel suo farsi, manifestarsi in quanto racconto? Come e dove si rivelano effetti reciproci di influenza tra produzione/ricezione letteraria e storica? In che rapporto stanno evento e struttura, come possono venire raccontati e descritti? Sono questi alcuni dei nodi che il gruppo di Poetik und Hermeneutik ha cercato di sciogliere. Interessanti ai fini di una comparazione con Metahistory i saggi di Koselleck, (Geschichte, Geschichten und formale Zeitstrukturen, Stempel, Erzählung, Beschreibung und der Historische Diskurs , Jauss, Geschichte der Kunst und Historie e Zur Analogie von literarischem und historischem Ereignis , di Weinrich, Narrative Strukturen in der Geschichtsschreibung), di Fellmann (Das Ende des Laplaceschen Dämon) tutti raccolti nel testo di Koselleck e Stempel (1973). Jauss nel primo saggio tenta di dimostrare come la storiografia rankiana sia determinata da categorie estetiche. In questo modo Jauss riesce a mettere a fuoco il paradigma latente nella storiografia di Ranke: la Stilgeschichte winckelmanniana, artcolata in fasi ascendenti e discendenti di epoche storiche tutte di volta in volta in sé conchiuse. Jauss usa strumenti dell’esegesi letteraria, raccoglie spie linguistiche e stilistiche, identifica la posizione e la disposizione gerarchica degli eventi attraverso l’uso di avverbi e formule, cerca gli elementi linguistici in grado di segnalare il passaggio al nuovo , le fasi dello sviluppo, il telos . Nel secondo saggio Jauss argomenta l’analogia tra opera letteraria e avvenimento storico, Ereignis, che come tale, e come già tradizionalmente l’opera letteraria in quanto evento, chiede una interpretazione. Interpretazione che è ricezione, fatto storico a sua volta, dunque mai definitiva. Sull’interpretabilità continua degli avvenimenti s’incentra anche il saggio di Fellmann, che intende la storia come pluralità di storie. Le storie non sono unità precostituite e fissate una volta per tutte. Esse possiedono una specificazione funzionale, che chiarisce il carattere processuale della conoscenza storica. La storia di per sé non ha soggetto, e ha continuamente bisogno di un soggetto in grado di darle corpo. Lo storico diventa narratore e interprete allo stesso tempo. L’attenzione al come del discorso storico viene ancora ampiamente praticata, e con risultati davvero illuminanti, da Koselleck nell’ormai canonico volume, apparso 6 qualche anno dopo, Vergangene Zukunft (1979). Proprio lo studio del lessico (uso di avverbi e locuzioni temporali) e le strutture espositive della storiografia porta Koselleck a reinterpretare la svolta epocale tra Sette e Ottocento seguita alla Rivoluzione francese, in una nuova rappresentazione e percezione del fluire del tempo passato e presente. Per concludere conviene fare un passo indietro, ai primordi della riflessione meta-storica , laddove sarà possibile rintracciare in nuce i problemi affrontati nei successivi sessanta anni del XX secolo, insieme a qualche intelligente correttivo. Nel 1933 Lucien Febvre avvertiva di intendere bene frasi come la storia si fa con i testi, o concetti come quello di avvenimento, documento, fatto, “storia-scienza dell'uomo, e allora, sì i fatti, ma sono i fatti umani; compito dello storico: ritrovare gli uomini che hanno vissuto, e quelli che più tardi si sono sovrapposti a loro con tutte le proprie idee, per poterli interpretare. I testi, sì: ma sono testi umani. E le parole stesse che li formano sono gravidi di sostanza umana (…) esse suonano diversamente secondo i tempi, e anche se designano oggetti materiali, raramente significano realtà identiche, qualità uguali o equivalenti. I testi, senza dubbio: ma tutti i testi. E non solamente i documenti d'archivio in favore dei quali si è creato un privilegio (…). Ma una poesia, un quadro, un dramma: documenti per noi, testimoni di una storia vivente e umana, saturi di pensiero e azione in potenza” (Febvre 1934, p. 106). 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