OPAL Osservatorio per le autonomie locali N.6/2015

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ISSN: 2038-7296
POLIS Working Papers
[Online]
Istituto di Politiche Pubbliche e Scelte Collettive – POLIS
Institute of Public Policy and Public Choice – POLIS
POLIS Working Papers n. 218
December 2014/January 2015
OPAL
Osservatorio per le autonomie locali
N.6/2015
Nicola Dessì et al. (DRASD)
UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE “Amedeo Avogadro” ALESSANDRIA
Periodico mensile on-line "POLIS Working Papers" - Iscrizione n.591 del 12/05/2006 - Tribunale di Alessandria
OPAL - Osservatorio Per le Autonomie Locali - Newsletter n. 6 Novembre/Dicembre 2014
OPAL
OSSERVATORIO PER LE
AUTOOMIE LOCALI
n. 6
Dicembre 2014 / Gennaio 2015
(a cura di Nicola Dessì)
1
IDICE
EDITORIALE
Servirebbe uno stress-test per le istituzioni di autonomia locale. Di Jörg Luther................................4
PARTE I
REGIO
I, STATO, EUROPA
Il diritto di riunione in Sassonia e il divieto della manifestazione di Pegida. Di Maike Heber............7
Gli enti locali tedeschi non possono rivendicare un diritto ad esercitare in autonomia il servizio di
collocamento. Annotazione alla sentenza del Tribunale costituzionale federale del 7.10.2014 - 2
BvR 1641/11. Di Giovanni Boggero....................................................................................................9
PARTE II
FU
ZIO
I E SERVIZI
Il Comune può escludere un diritto alla scelta tra mensa e panino. Nota alla sentenza del TAR
Piemonte del 31.07.2014, n. 1365. Di Maria Bottiglieri....................................................................12
Divorzi facili e matrimoni omosessuali in municipio. Nota alla circolare n. 10863/2014 del
Ministero dell'Interno. Di Matteo Cannonero....................................................................................20
La Regione può far cessare gli usi civici, dandone previa comunicazione ai competenti organi
statali. Annotazione alla sentenza della Corte Costituzionale del 09.07.2014, n. 210. Di icola
Dessì...................................................................................................................................................24
I sindaci possono limitare gli orari di apertura delle sale da gioco. Annotazione alla sentenza della
Corte Costituzionale del 09.07.2014, n. 220. Di icola Dessì...........................................................26
PARTE III
CITTADI
I ED E
TI
La lenta trasformazione delle Comunità montane piemontesi in Unioni montane di Comuni. Nota
alla sentenza del TAR Piemonte del 25.06.2014, n. 1116. Di Elisa Bellomo.....................................29
I tagli alla mobilità sanitaria interregionale. Nota alla sentenza del Consiglio di Stato del
22.01.2014, n. 296. Di Andrea Patanè...............................................................................................33
PARTE IV
ELEZIO
I ED ORGA
I
La garanzia dell'equilibrio di genere nella Giunta comunale si irrigidisce. Annotazione alla sentenza
27.05.2014, n. 3938, del Consiglio di Stato. Di icola Dessì............................................................38
L'interpretazione ministeriale della nuova forma di governo provinciale. Commento alla nota n.
1/2014 del Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie. Di Matteo Porricolo...........................41
2
PARTE V
PATRIMOIO E COTRATTI
Sussidiarietà orizzontale promossa: la partecipazione delle comunità locali alla cura di spazi
pubblici (art. 24 d.l. n. 133/2014 - c.d. Sblocca Italia). Di Davide Servetti...................................... 46
PARTE VI
FIAZA E COTABILITÀ
L'indennità di funzione del sindaco cresce con il transito nella fascia demografica superiore del
Comune. Nota alla delibera della sez. autonomie della Corte dei Conti del 15.09.2014, n. 24. Di
Marco Comaschi.................................................................................................................................51
La liquidazione in via equitativa del danno all'immagine deve essere ancorata a precisi parametri.
Nota alla sentenza della sez. giurisdizionale del Piemonte della Corte dei Conti del 25.09.2014, n.
116. Di Marco Comaschi....................................................................................................................54
La legge anticorruzione e il danno all'immagine della P.A. Commento e rassegna giurisprudenziale
sulla l. n. 190/2012. Di Paolo Marta..................................................................................................57
Confermata la giurisprudenza restrittiva della giurisdizione contabile sugli amministratori delle
società partecipate. Annotazione alle sentenze della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 22608 e
22609/2014. Di Alberto Rissolio........................................................................................................67
3
EDITORIALE
Servirebbe uno stress-test per le istituzioni di autonomia locale
di Jörg Luther
1. Sul sito web dell’ANCI si legge in data 20 dicembre 2014: “A Bologna vietati botti dalla vigilia
di Natale a Capodanno. Il Comune ha annunciato che il sindaco Virginio Merola firmerà oggi
un'ordinanza per disporre il divieto di scoppi di petardi, fuochi d'artificio e simili dalle 12 del 24
alle 7 del 1 gennaio su tutto il territorio comunale. La decisione e' stata assunta dal sindaco - viene
spiegato - in quanto ogni anno si verificano lesioni alle persone, anche gravi, provocate dall'uso
improprio o dal malfunzionamento di petardi e fuochi d'artificio, nonché effetti traumatici verso le
persone malate, anziane e negli animali da compagnia”. (com/gp)”
L’ordinanza analoga del Comune di Alessandria stabilisce: “Su tutto il territorio comunale è vietato
in modo assoluto l’accensione ed i lanci di fuochi d’artificio, lo sparo di petardi, lo scoppio di
mortaretti, razzi ed altri artifici pirotecnici nei giorni 31 Dicembre e 1 gennaio di ogni anno.
L’inosservanza di tale divieto è sanzionata, fatto salvo quanto previsto e punito dagli artt. 673 e 703
C.P. e dalla legislazione statale vigente, ai sensi dell’articolo 59 del Regolamento di Polizia Urbana,
con la sanzione amministrativa da Euro 25,00 ad Euro 150,00.”
Sotto il profilo formale va notato subito che a) alla cittadinanza l’ANCI non comunica quali sono i
comuni nei quali vigono ordinanze analoghe, b) non è dato sapere neppure il bilancio delle
infrazioni e delle sanzioni applicate, c) la legittimità delle ordinanze in questione, in particolare la
questione del rispetto del principio di proporzionalità con riguardo all’alternativa più mite di
destinare un’area particolare agevolmente controllabile ai fuochi artifici.
2. Sotto il profilo sostanziale, quel che lega tali ordinanze simbolicamente alla vita restante delle
istituzioni locali è il desiderio di ridurre lo stress di fine anno. Bisogna distinguere lo stress
fisiologico che deriva soprattutto dalla chiusura degli esercizi di bilancio e dalle difficoltà di fare
previsioni di bilancio per il futuro.
Lo stress che accomuna gli amministratori, tecnici e politici, è tale da disincentivare domande di
controllo dei cittadini e da disorientare l’opinione pubblica. Un episodio particolare di “saldi di fine
anno” nell’amministrazione del patrimonio degli anni è stato segnalato da Carlo Manacorda, la
delibera P-2014-07176 del Consiglio comunale di Torino: “Immobili di proprietà comunale
destinati alla logistica comunale. Nuovi interventi di razionalizzazione e conseguenti valorizzazioni.
Vendita a fondo gestito da CDPI SGR S.P.A. dell’edificio “ex preture” di Via Corte d’Appello 10.
Corrispettivo euro 7.000.000,00”. In sostanza, l’acquirente è la Cassa Depositi e Prestiti. Il futuro
dell’immobile storico nel centro della città di Torino, ora usato dal comune per gli uffici
dell’edilizia sociale, è un segreto nel senso che non si sa se è deciso, da chi è o sarà deciso e se
produrrà utili sociali e quali (http://www.lospiffero.com/a-conti-fatti/il-ballo-del-mattone20112.html).
3. Lo stress non investe solo i comuni, ma ancora di più le province e per le regioni. Per quanto
riguarda le province, gli effetti pirotecnici della legge 23 dicembre 2014, n. 190 “Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilita' 2015)” sono dovuti ai
seguenti commi:
Il prelievo dei tagli alla spesa: “418. Le province e le città metropolitane concorrono al
contenimento della spesa pubblica attraverso una riduzione della spesa corrente di 1.000 milioni di
euro per l'anno 2015, di 2.000 milioni di euro per l'anno 2016 e di 3.000 milioni di euro a
decorrere dall'anno 2017. In considerazione delle riduzioni di spesa di cui al periodo precedente,
ciascuna provincia e città metropolitana versa ad apposito capitolo di entrata del bilancio dello
4
Stato un ammontare di risorse pari ai predetti risparmi di spesa. Sono escluse dal versamento di
cui al periodo precedente, fermo restando l'ammontare complessivo del contributo dei periodi
precedenti, le province che risultano in dissesto alla data del 15 ottobre 2014. Con decreto di
natura non regolamentare del Ministero dell'interno, di concerto con il Ministero dell'economia e
delle finanze, da emanare entro il 15 febbraio 2015, con il supporto tecnico della società per gli
studi di settore --- SOSE Spa, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, e' stabilito
l'ammontare della riduzione della spesa corrente che ciascun ente deve conseguire e del
corrispondente versamento tenendo conto anche della differenza tra spesa storica e fabbisogni
standard.”
I divieti di mutui e di spese “culturali”: “420. A decorrere dal 1º gennaio 2015, alle province delle
regioni a statuto ordinario e' fatto divieto:
a) di ricorrere a mutui per spese non rientranti nelle funzioni concernenti la gestione dell'edilizia
scolastica, la costruzione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione
stradale ad esse inerente, nonche' la tutela e valorizzazione dell'ambiente, per gli aspetti di
competenza;
b) di effettuare spese per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e di rappresentanza;
c) di procedere ad assunzioni a tempo indeterminato, anche nell'ambito di procedure di mobilita';
d) di acquisire personale attraverso l'istituto del comando. I comandi in essere cessano alla
naturale scadenza ed e' fatto divieto di proroga degli stessi;
e) di attivare rapporti di lavoro ai sensi degli articoli 90 e 110 del testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive
modificazioni. I rapporti in essere ai sensi del predetto articolo 110 cessano alla naturale scadenza
ed e' fatto divieto di proroga degli stessi;
f) di instaurare rapporti di lavoro flessibile di cui all'articolo 9, comma 28, del decreto-legge 31
maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive
modificazioni;
g) di attribuire incarichi di studio e consulenza.
L’obbligo di riduzione del personale: “421. La dotazione organica delle città metropolitane e delle
province delle regioni a statuto ordinario e' stabilita, a decorrere dalla data di entrata in vigore
della presente legge, in misura pari alla spesa del personale di ruolo alla data di entrata in vigore
della legge 7 aprile 2014, n. 56, ridotta rispettivamente, tenuto conto delle funzioni attribuite ai
predetti enti dalla medesima legge 7 aprile 2014, n. 56, in misura pari al 30 e al 50 per cento e in
misura pari al 30 per cento per le province, con territorio interamente montano e confinanti con
Paesi stranieri, di cui all'articolo 1, comma 3, secondo periodo, della legge 7 aprile 2014, n. 56.
Entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, i predetti enti possono
deliberare una riduzione superiore. Restano fermi i divieti di cui al comma 420 del presente
articolo. Per le unita' soprannumerarie si applica la disciplina dei commi da 422 a 428 del
presente articolo.”
La razionalizzazione delle partecipate: Il comma 612 dispone che i presidenti delle regioni, delle
province e i sindaci "definiscono e approvano, entro il 31 marzo 2015, un piano operativo di
razionalizzazione delle società e delle partecipazioni societarie direttamente o indirettamente
possedute, le modalità e i tempi di attuazione, nonché l'esposizione in dettaglio dei risparmi da
conseguire".
Alcune commi offrono degli “ammortizzatori”. Ad es., il comma 429 si premura di “consentire il
regolare funzionamento dei servizi per l'impiego”, concedendo alle province “facoltà di finanziare i
rapporti di lavoro a tempo indeterminato nonché di prorogare i contratti di lavoro a tempo
determinato e i contratti di collaborazione coordinata e continuativa strettamente indispensabili per
la realizzazione di attività di gestione dei fondi strutturali e di interventi da essi finanziati, a valere
su piani e programmi nell'ambito dei fondi strutturali.” Il comma 467 consente “ai fini della verifica
del rispetto del patto di stabilita' interno” di considerare “nel limite massimo di 50 milioni di euro
5
per l'anno 2015 e 50 milioni di euro per l'anno 2016, le spese sostenute dalle province e dalle città
metropolitane per interventi di edilizia scolastica. Il comma 530 garantisce che “il personale delle
province eventualmente in esubero a seguito dei provvedimenti di attuazione della legge 7 aprile
2014, n. 56, e' prioritariamente assegnato al Ministero della giustizia per lo svolgimento dei compiti
correlati.”
4. Se le province piangono, le regioni non ridono. I fuochi d’artificio della politica di fine anno
hanno prodotto il disegno di legge costituzionale C 2479 del deputato Morassut che propone una
revisione dell'articolo 131 della Costituzione e prevede il passaggio da 20 a 12 Regioni:
• Regione Alpina: comprende Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria.
• Regione Lombardia.
• Regione Triveneto: comprende il Trentino Alto-Adige, il Friuli Venezia Giulia e il Veneto.
• Regione Emilia Romagna: ingloba la provincia di Pesaro e Urbino.
• Regione Appenninica: Toscana e Umbria, più la provincia di Viterbo (antica Etruria).
• Regione di Roma Capitale: Provincia di Roma.
• Regione Adriatica: province abruzzesi più Macerata, Ancona, Ascoli, Rieti e Isernia.
• Regione Tirrenica: Campania più province di Latina e Frosinone.
• Regione del Levante: Puglia più province di Matera e di Campobasso.
• Regione del Ponente: la Calabria più la provincia di Potenza.
• Regione Sicilia.
• Regione Sardegna.
Non vi è dubbio che una riforma costituzionale del regionalismo non potrà non riguardare anche la
geografia politica regionale, ma si possono nutrire dubbi che il tempo restante della legislatura sia
sufficiente a realizzarla in forme ragionevoli.
La ricerca scientifica giuridica farebbe bene a cercare un dialogo con i geografi oltre che con le
scienze sociali ed economiche per aiutare a costruire criteri e strumenti di ragionevolezza. In
particolare il tema della cooperazione interregionale attende di essere maggiori approfondimenti,
per valutare i limiti di rendimento del regionalismo oltre che le ragioni di eventuali accorpamenti.
Al di là della desiderabilità e fattibilità politica, anche per le regioni il nuovo anno può diventare
altamente stressante. Uno stress-test delle istituzioni potrebbe essere già un inizio di terapia.
6
PARTE I
REGIOI, STATO, EUROPA
Il diritto di riunione in Sassonia e il divieto della manifestazione di Pegida
di Maike Heber
Parole chiave: libertà di riunione, limiti locali
Riferimenti normativi: Legge del Land di Sassonia sulle riunioni del 25 gennaio 2012.
La decisione della autorità locali di polizia di Dresda, verosimilmente istruite dal Ministro
dell'Interno del Land di Sassonia, di vietare per il 18 gennaio 2015 ogni manifestazione all'aperto,
motivata con un pericolo concreto di attentati terroristici contro gli organizzatori, ha suscitato molto
clamore. Il divieto interessava in particolare il cd. movimento “Pegida” l'iniziativa dei “Europei
patriottici contro l'islamizzazione dell´Occidente” (Patriotische Europäer gegen die Islamisierung
des Abendlandes) che da ottobre 2014 organizza ogni lunedì grandi manifestazioni al centro di
Dresda, proclamando una diffusa insoddisfazione anche per l'immigrazione in Germania e per
l'accoglienza dei rifugiati e contro la classe politica e i mass media in generale. Il programma del
movimento chiede, tra l’altro, di inserire un diritto-dovere di integrazione a fianco del diritto di
asilo politico nella Legge fondamentale.1
In Germania, la disciplina del diritto di riunione spetta, sin dalla riforma costituzionale del
federalismo nel 2006, ai Länder. La maggior parte di essi non ha ancora esercitato tale competenza,
continuando ad applicare la pregressa legge federale. Accogliendo un’iniziativa del governo sassone
(CDU/FDP), il parlamento regionale ha approvato nel 2012 una propria legge organica regionale
sulle riunioni.2 In gran parte importa la legge federale che prevede o consente limitazioni o divieti
per riunioni in luoghi pubblici, per esempio il divieto di detenere armi e alcool. In particolare, le
autorità competenti del circondario possono vietare un corteo in caso di pericoli – esterni o interni
alla manifestazione – che mettano a rischio la sicurezza e l'ordine pubblico (§ 15 (co. 1).
Il divieto pronunciato per il 18 gennaio 2015, tuttavia, secondo alcuni esperti di sicurezza, non era
giustificato. Riguardo alle minacce terroristiche, le amministrazioni dei ministeri dell'interno
federale e dei Länder distinguono tra “indicazioni” concrete o astratte e, inoltre, tra un pericolo
concreto o astratto. Nel caso di Dresda, l'indicazione è stata concreta, ma il pericolo potrebbe essere
stato astratto. Il ministro federale de Maizière non si è pronunciato al riguardo. Alcuni politici ed
esperti invece hanno criticato apertamente il divieto, parlando di una decisione infelice ed esagerata.
Molti hanno richiesto che si getti luce fino in fondo sulle ragioni che hanno portato al
provvedimento, visto che bisogna avere motivi molto consistenti per restringere un diritto così
fondamentale per la democrazia. Fino a oggi, forse per ragioni di sicurezza, questo non è accaduto.
Si sa solo di un messaggio in lingua araba su Twitter che avrebbe fatto il nome di un capo nazista
del movimento, il sig. Bachmann, che ha poi anche dichiarato di dare le sue dimissioni dalle
funzioni di presidenza dell’associazione promotrice. Il ministro dell'Interno di Sassonia si è
riservato di esprimere una posizione entro gennaio.3
1
http://www.focus.de/politik/deutschland/woechentliche-demonstrationen-19-punkte-programm-was-will-pegidawirklich_id_4359150.html
2
http://www.sachsen-gesetze.de/shop/saechsgvbl/2012/2/read_pdf
3
N.d.R. Non esistono dichiarazioni ufficiali né del governo, né del Landtag che ha comunque discusso l’argomento sia
in commissione sia in plenum. Sulla stampa si è fatto riferimento a notizie di servizi segreti stranieri trasmessi
all’Ufficio federale di protezione della costituzione, al centro comune di antiterrorismo, all’Ufficio federale criminale e
7
Già in passato, il governo sassone si è mostrato non particolarmente favorevole a manifestazioni
politiche “delicate” quando ha inserito nella suddetta legge regionale sulle riunioni una disposizione
particolare, il § 15 (2) che deroga notevolmente alla legge federale, solo apparentemente simile.
Quest'ultima consente limitazioni o un divieto di manifestazioni per tutelare la dignità delle vittime
del regime nazista e si riferisce concretamente a riunioni che abbiano luogo di fronte a monumenti
commemorativi come, ad es., il monumento alla memoria delle vittime dell’olocausto a Berlino. La
legge della Sassonia ha esteso quella tutela ai luoghi della regione con un elevato significato storico
che ricordino a) persone maltrattate durante il regime nazista o quello comunista, b) persone che si
siano opposte a i suddetti regimi o che c) siano state vittime di una guerra. In questi luoghi sono
vietate in particolare manifestazioni negazioniste e manifestazioni contro la riconciliazione e la
comprensione reciproca (Verständigung) tra i popoli. Questo divieto si applica al monumento alla
Völkerschlacht (battaglia dei popoli) di Lipsia nonché alla Frauenkirche e al centro storico di
Dresda che era stato distrutto dai bombardamenti alleati della seconda guerra mondiale. Anche la
tutela della dignità di queste persone permette il divieto di una riunione.
La scelta dei gruppi di persone tutelate rimanda al contesto nel quale la legge è stata elaborata: poco
dopo, a Dresda si sarebbero riunite di nuovo migliaia di persone per l'anniversario del
bombardamento sulla città il 13 febbraio 1945. Da qualche anno i neonazisti locali erano riusciti a
organizzare in quel giorno la più grande manifestazione nazista in Europa e al governo serviva una
motivazione giuridica per poter vietare quella parata. Visto l'estensione della categoria delle persone
tutelate dalle vittime del regime nazista a quelle del regime comunista e delle guerre in generale, gli
esponenti di alcuni partiti e organizzazioni di sinistra ne ravvisavano un tentativo di vietare il 13
febbraio di ogni febbraio ogni manifestazione politica e di sanzionare un determinato modo di
commemorare il bombardamento della città. La critica giuridica contestò invece le formule troppo
generiche che avrebbero lasciato molto spazio a decisioni discrezionali. L'opposizione si rivolse alla
Corte costituzionale della Sassonia ottenendo però un successo solo temporaneo.4
Per quanto riguarda Pegida, non si è presa in considerazione la possibilità di vietare o limitare le
manifestazioni del movimento sulla base di quel paragrafo. Adesso neanche la sicurezza pubblica
sembra più a rischio. L'ultima riunione di Pegida si è svolta il 23 gennaio 2015 senza limitazioni né
misure di sicurezza maggiori. L'ex-organizzatore principale, al quale erano indirizzate le minacce
terroristiche e che si era dimesso qualche giorno prima a causa delle sue affermazioni razziste su
Facebook, non era presente ma non sembra essersi ritirato definitivamente. Nessuno sa spiegare
fino in fondo come mai l'allarme terroristico sia potuto svanire del tutto in soli sei giorni. Sembra
più probabile che la polizia locale e il ministero dell'Interno abbiano colto (troppo) volentieri
l'occasione di interrompere almeno per una settimana le manifestazioni che danneggiano la
reputazione di Dresda in Germania e in tutta l'Europa.
a quello regionale criminale. http://www.zeit.de/politik/deutschland/2015-01/dresden-demonstrationsverbotinnenminister-pegida-bachmann
4
Nel 2011 la Corte Costituzionale del Land dichiarò incostituzionale la legge per vizi formali. SächsVerfGH, Urteil
vom 19. April 2011 - Vf. 74-II-10. Dal 2012 è in vigore una legge identica, stavolta approvata in modo corretto. E
anche le critiche rimangono le stesse.
8
Gli enti locali tedeschi non possono rivendicare un diritto ad esercitare in autonomia il
servizio di collocamento. Annotazione alla sentenza del Tribunale costituzionale federale del
7.10.2014 - 2 BvR 1641/11
di Giovanni Boggero
Parole chiave: Germania, Uffici di collocamento, Agenzia federale per il lavoro, Autonomia
organizzativa degli enti locali, Federazione, Optionskommunen
Riferimenti normativi principali: Art. 91 lett. e) LF, Art. 28, co. 2 LF, Art. 70, co. 1 LF
Massima 1: L'art. 91 lett. e) è la fonte del rapporto finanziario diretto tra Federazione e
Optionskommunen e consente un controllo finanziario che si distingue dal tradizionale controllo
statale e anche dal controllo finanziario della Corte dei Conti federale.
Massima 2: L'art. 91 lett. e) co. 2 LF dà a Comuni e a enti integrativi di Comuni la possibilità
ma non il diritto di gestire autonomamente il servizio di ufficio di collocamento per le persone in
cerca di lavoro. La disciplina legislativa di tale possibilità deve avvenire in maniera non
arbitraria. La gestione del servizio rientra nell'ambito di protezione di cui alla garanzia
dell'autoamministrazione locale.
Massima 3: L'art. 91 lett. e) co. 3 LF contiene una riserva di legge molto ampia e aperta a favore
della Federazione. La Federazione ha perciò la potestà legislativa di disciplinare i rapporti
giuridici che discendono dall'autorizzazione all'esercizio del servizio da parte dei Comuni. La
competenza legislativa non può tuttavia estendersi alla determinazione delle modalità di
formazione della volontà interna degli enti locali.
Massima 4: Il § 6a co. 2 per. 3 del secondo libro del codice di diritto sociale non è conforme
all'art. 28, co. 2 in collegamento con l'art. 70, co. 1 LF nella misura in cui richiede che la
richiesta di autorizzazione da parte dell'ente locale sia subordinato all'approvazione da parte di
una maggioranza dei 2/3 dei componenti degli organi rappresentativi degli enti interessati. La
disposizione continua ad essere efficace nei confronti degli enti già autorizzati, ma non si applica
più nei nuovi procedimenti di autorizzazione.
Link al documento
Il Tribunale costituzionale federale di Karlsruhe ha giudicato ammissibili, ma infondati due ricorsi
costituzionali diretti di quindici Circondari tedeschi (Kreise) e del Comune di Leverkusen contro
alcune disposizioni del secondo libro del codice di diritto sociale (Sozialgesetzbuch, SGB) che, a
loro dire, avrebbero illegittimamente impedito l'esercizio in autonomia del servizio di ufficio di
collocamento per le persone in cerca di lavoro (Grundsicherung für Arbeitssuchende). In
particolare, secondo il Tribunale, è infondato il ricorso (1) contro la disposizione che fissa in una
quota massima del 25% del totale di centri il numero di enti locali che possono essere autorizzati
con decreto federale del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali approvato, senza l'assenso del
Bundesrat ad erogare in autonomia e non in amministrazione “mista” con l'agenzia federale per il
lavoro il servizio di ufficio di collocamento per le persone in cerca di lavoro (§ 6a, co. 2, per. 4,
SGB II). Parimenti infondato è il ricorso (2) contro la previsione del controllo esterno della Corte
dei Conti federale e del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali sulle risorse amministrate
dagli enti locali che gestiscono in autonomia tale servizio (il § 6b, co. 3 e 4, SGB II). Viceversa, è
9
stato giudicato fondato (3) il ricorso contro la norma che subordina la richiesta di autorizzazione
degli enti locali al Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali ad una deliberazione a maggioranza
dei due terzi da parte dei consigli degli enti locali interessati (§ 6a, co. 2, per. 3 SGB II).
Per quanto riguarda le censure di cui al primo ricorso (1), il Tribunale costituzionale federale
giudica che l'individuazione di un tetto massimo di enti incaricati dello svolgimento in autonomia
del servizio non viola la garanzia degli altri enti locali all'auto-amministrazione (kommunale
Selbstverwaltung) di cui all'art. 28, co. 2 LF, dal momento che, in base al novellato art. 91 lett. e)
LF, il servizio di ufficio di collocamento per le persone in cerca di lavoro non rientra, per i Comuni
(Gemeinden), tra le funzioni della comunità locale di cui all'art. 28, co. 2, per. 1 LF (örtliche
Gemeinschaft) e, per gli enti comprensivi di più Comuni (Gemeindeverbände), tra le funzioni ad
esse attribuite con legge in base all'art. 28, co. 2, per. 2 LF. A questo proposito, ai Circondari
ricorrenti non sono state sottratte funzioni, ma si è omesso di attribuirne una, circostanza che non è
di per sè suscettibile di ledere la garanzia dell'autonomia locale nel suo nucleo intangibile, dato che
a tali enti è comunque garantito un numero sufficiente di funzioni.
In conformità all'art. 91 lett. e) co. 2 e 3 LF, la Federazione non ha quindi creato un obbligo, ma
soltanto una facoltà di autorizzare un numero limitato di enti locali (cd. Optionskommunen)
all'erogazione del servizio in autonomia, che rimane, quale regola generale, gestito in forma di
amministrazione “mista” (Mischverwaltung) con l'agenzia federale del lavoro. Al legislatore
federale è garantito un ampio margine di discrezionalità nella disciplina dei dettagli della materia,
tra i quali rientrano anche il procedimento di autorizzazione e le modalità di organizzazione del
servizio, oltreché il numero di enti locali che possono esserne autorizzati all'esercizio. Nondimeno,
visto che la Costituzione prevede espressamente la possibilità di un'autorizzazione, al legislatore
federale che voglia optare per tale scelta è fatto obbligo di disciplinare i requisiti e il procedimento
per l'autorizzazione secondo norme non arbitrarie, trasparenti, comprensibili e tali da rispettare il
principio di parità di trattamento tra gli enti locali (Gleichbehandlungsgebot). Rimane
impregiudicata, in quanto non oggetto del giudizio, la questione se il decreto federale approvato con
l'assenso del Bundesrat che disciplina i requisiti e il procedimento di autorizzazione, rispetti questi
criteri. Ai fini del proprio giudizio, il Tribunale costituzionale federale rileva soltanto che la delega
legislativa con la quale il legislatore autorizza il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ad
adottare il decreto federale (§ 6a co 3 SGB II) rispetta la norma costituzionale, secondo cui “nella
legge federale devono essere determinati il contenuto, lo scopo e la misura della delega concessa”
(art. 80, co. 1, per. 2 LF).
Per quanto riguarda le censure di cui al secondo ricorso (2), l'esistenza di un rapporto finanziario
diretto tra Federazione ed enti locali non viola l'autonomia finanziaria degli enti locali di cui all'art.
28, co. 2 LF, dal momento che è necessitato dalla stessa previsione, in base ai quali “le spese
necessarie, comprese le spese amministrative, spettano al Bund nella misura in cui il compito di
dare attuazione alle leggi di cui al comma 1 spetti al Bund. Ulteriori aspetti sono regolati da una
legge federale che richiede l’assenso del Bundesrat” (art. 91 lett. e) co. 2, per. 2 e co. 3 LF). Il
controllo esterno da parte delle autorità federali non deriva automaticamente dal fatto che è la
Federazione a trasferire le risorse per l'erogazione del servizio. In particolare, la competenza della
Federazione ad esercitare il controllo attraverso la Corte dei Conti federale (Bundesrechnungshof)
avviene sulla base delle proprie competenze amministrative. Viceversa, il controllo finanziario da
parte del Ministero federale è un controllo amministrativo speciale volto a proteggere gli interessi
fiscali della Federazione che si distingue da quello tradizionale di legittimità e di merito (Rechtsund Fachaufsicht) e che è necessitato dall'art. 91 lett. e) co. 2, per. 2 e co. 3 LF. In particolare, il
Ministero verifica l'economicità e la correttezza dell'impiego delle risorse federali oltreché la
conformità alle leggi delle spese effettuate dall'ente locale.
Infine, con riguardo alle censure di cui al terzo ricorso (3), il Tribunale ha ravvisato una violazione
della potestà legislativa dei Länder (art. 70, co. 1 LF), dal momento che l'autoamministrazione
locale rientra tra le materie di loro competenza legislativa esclusiva. In particolare, decidere quali
10
siano le maggioranze per le deliberazioni e quale sia il rapporto che intercorre tra organo
deliberativo e organo esecutivo è infatti compito dei codici degli enti locali (Kommunalordnungen)
dei Länder. Inoltre, la disposizione in base alla quale la richiesta di autorizzazione allo svolgimento
del servizio di ufficio di collocamento deve essere subordinata all'approvazione da parte di una
maggioranza dei due terzi dei consigli (ossia dello Stadtrat o del Kreistag) degli enti locali
interessati (§ 6a co. 2 per. 3 SGB II) viola poi la garanzia dell'autoamministrazione locale di cui
all'art. 28, co. 2 LF, dal momento che lede il potere di organizzazione interna e formazione della
volontà dell'ente locale. La norma è perciò da dichiarare incompatibile con la Legge fondamentale,
anche se rimane efficace nei confronti degli enti già autorizzati ad esercitare in autonomia il servizio
di ufficio di collocamento.
11
PARTE II
FUZIOI E SERVIZI
Il Comune può escludere un diritto alla scelta tra mensa e panino.
ota alla sentenza del TAR Piemonte del 31.07.2014, n. 1365.
di Maria Bottiglieri
Parole-chiave: Enti locali, servizi pubblici locali, servizi a domanda individuale, cittadini e
istituzioni; istruzione, finanza locale, diritti fondamentali, diritti soggettivi e interessi legittimi,
riparto di competenze tra il giudice ordinario e il giudice amministrativo, diritto al cibo
adeguato;
Principali riferimenti normativi:
art. 6, comma 4 d.l. 28 febbraio 1983 n. 55, convertito in l. 26 aprile 1983, n. 131; art. 149
comma 8 e art. 172 comma 1 lett. e) decreto legislativo 19 agosto 2000, n. 267 (Testo unico
sull’ordinamento delle leggi sugli Enti locali); Decreto del Ministero dell’Interno 31 dicembre
1983 (“Individuazione delle categorie di servizi pubblici locali a domanda individuale”).
Massima 1: “Il servizio di refezione scolastica è un servizio pubblico locale a domanda
individuale, le cui tariffe sono determinate con una “amplissima discrezionalità”, limitata
solo dal rispetto dei principi di equilibrio economico-finanziario di gestione del servizio e di
pareggio di bilancio”.
Massima 2: “Il TAR non è competente a sindacare la sussistenza di un diritto al panino, sia
nel caso in cui tale posizione soggettiva sia configurabile come diritto soggettivo, sia come
interesse legittimo”.
Link al documento
1. Il caso.
I due principali servizi di ristorazione pubblica collettiva gestiti a livello locale sono quello di
ristorazione scolastica e quello di ristorazione socio-assistenziale (le cd. mense dei poveri).
Il servizio di ristorazione scolastica, in particolare, è finalizzato a garantire il diritto a ricevere
un’istruzione anche in materia alimentare, tutelato dagli artt. 33 e 34 Cost.. Nelle scuole, infatti, il
momento del pranzo non ha solo l’obiettivo di soddisfare le esigenze nutrizionali dello studente, ma
costituisce per i bambini e i ragazzi un ulteriore tappa del progetto educativo di cui sono
destinatari5. Mediante tale servizio, infatti, non si attua solo un’ “esperienza pratica” di educazione
5
C. GIANNONE, Mangiare a scuola non è solo un diritto, ma un percorso formativo. Gli sprechi: fino al 64%,
pubblicato il 7 febbraio 2013 in http://www.ilfattoalimentare.it/ (Articolo ripreso dalla rivista Ristorando
gennaio/febbraio 2013)
12
alimentare6, ma anche di educazione alla socialità e alla diversità7. Per rendere il momento del pasto
un’esperienza educativa, sussistono almeno due tipi di misure, ordinarie e straordinarie.
Una misura ordinaria è quella connessa alla medesima organizzazione del menu. Si pensi alla
previsione di menu differenziati non solo per ragioni di salute (diete), ma anche per rispondere al
diritto degli studenti di nutrirsi in modo conforme alla propria identità religiosa8 o ai propri
orientamenti culturali (vegetariani o vegani)9. Si pensi ancora alla normativa locale in materia di
orientamento ai consumi critici di alimenti10, la quale promuove forme di educazione a consumi
consapevoli o favorisce il consumo di alimenti biologici nelle mense collettive11. Tali misure di
regolazione sono diffuse anche in assenza di interventi di natura legislativa, e dove le medesime
finalità sono assicurate sulla base di atti di natura amministrativa (Linee-guida regionali oppure
6
Così in Ministero della Salute, Linee di indirizzo nazionale per la ristorazione scolastica , Conferenza Unificata
Provvedimento 29 aprile 2010 Intesa, ai sensi dell’art.8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n.131, G.U. n. 134 del 116-2010, p. 21, dove alla ristorazione scolastica è affidata la funzione di «svolgere un ruolo di rilievo nell’educazione
alimentare coinvolgendo bambini, famiglie, docenti» (p.5), oltre che di «educazione ambientale e di educazione al
consumo e alla solidarietà in cui i ragazzi delle scuole siano coinvolti in merito a: riciclo dei rifiuti organici
(compostaggio); educazione al consumo (accettazione dei cibi, richieste adeguate alla possibilità di consumo, ecc.);
iniziative di solidarietà per la destinazione del cibo ad enti assistenziali» (p. 25).
7
Cfr. Ministero della Salute, Linee di indirizzo nazionale per la ristorazione scolastica , cit., dove si evidenzia la
valenza interculturale della ristorazione scolastica: «Adottare la prospettiva interculturale, la promozione del dialogo e
del confronto tra culture, significa non limitarsi soltanto a misure compensatorie quali le diete speciali, ma organizzare
una strategia di reale crescita della qualità fondata anche su criteri di salute e prevenzione. “Cucinare” in una
prospettiva interculturale può voler dire assumere la varietà come paradigma dell’identità stessa della ristorazione,
occasione privilegiata di apertura a tutte le differenze» (pp. 16-17).
8
Riconoscono questo diritto i Regolamenti di Città come Venezia: cfr. in particolare l’art. 23 del Regolamento del
servizio refezioni scolastiche adottato nel 1997 che recita: «E’ concessa, su richiesta del genitore tramite l’istituzione
scolastica, la variazione di menu per motivi religiosi e per i soli alimenti non consentiti dalla medesima religione»
9
Consentono ad esempio diete differenziate per motivi etici oltre che religiosi il Regolamento per i servizi di
Ristorazione scolastica del Comune di Cuneo del 2004 in (il cui art. 20 prevede che «Possono essere formulate dalle
famiglie richieste di menu personalizzati secondo i seguenti criteri: … diete legate a particolari convinzioni religiose o
culturali: i genitori potranno richiedere per i propri figli diete particolari che rispettino le convinzioni religiose o
culturali del nucleo familiare») oppure l’art. 8 del Regolamento comunale per la gestione del servizio di ristorazione
scolastica di Chiusi (il cui art. 8 recita: «Per motivi etici, culturali e/o religiosi dovrà essere presentata specifica
richiesta da parte del genitore su modulo messo a disposizione dal Comune»).
10
Sul dovere dello Stato di educazione al consumo e sugli strumenti di sostegno pubblico al consumo critico cfr. F.
Pizzolato, Autorità e consumo. Diritti dei consumatori e regolazione del consumo, Milano, Giuffré editore, 2009.
11
Leggi regionali che favoriscono il consumo di alimenti biologici nei luoghi di ristorazione collettiva sono state
emanate nella Provincia autonoma di Trento, in Lazio (nell’art. 2 della L.R. 06 Aprile 2009, n. 10 Disposizioni in
materia di alimentazione consapevole e di qualità nei servizi di ristorazione collettiva per minori si legge: «La Regione
… interviene per garantire, nei servizi di ristorazione collettiva per minori nelle scuole, nei reparti ospedalieri di
pediatria anche accreditati e negli istituti di pena per minori, l’utilizzo di una percentuale non inferiore al 50 per cento di
prodotti agroalimentari tipici e tradizionali nonché zootecnici provenienti da coltivazioni e allevamenti biologici
regionali ed eventualmente nazionali»), Toscana (L.R. 27 maggio 2002, n. 18 orme per l'introduzione dei prodotti
biologici, tipici e tradizionali nelle mense pubbliche e programmi di educazione alimentare nella Regione Toscana, il
cui art. 1 recita: «La Regione, nell'ambito delle iniziative volte a tutelare la salute dei cittadini, promuove il consumo di
prodotti agroalimentari da agricoltura biologica, da agricoltura integrata, tipici e tradizionali, con particolare riguardo a
quelli provenienti da aziende in possesso di certificazione etica, nelle mense scolastiche, ed universitarie, nonché nelle
refezioni ospedaliere per i degenti e promuove programmi di educazione alimentare»), Puglia (L.R. 13 dicembre 2012,
n. 43 orme per il sostegno dei Gruppi acquisto solidale (GAS) e per la promozione dei prodotti agricoli da filiera
corta, a chilometro zero, di qualità dove si legge che «Per sostenere la filiera corta e i prodotti a chilometro zero e di
qualità la Regione Puglia intende favorire il loro impiego da parte dei gestori dei servizi di ristorazione collettiva
pubblica stabilendo che nei bandi per l’affidamento dei servizi di ristorazione collettiva gli enti pubblici devono
garantire priorità ai soggetti che prevedono l’utilizzo di prodotti da filiera corta, prodotti a chilometro zero, prodotti di
qualità in misura non inferiore al 35 per cento in valore rispetto ai prodotti agricoli complessivamente utilizzati su base
annua»). Una legge ragionale che, oltre all’aspetto biologico, affronta il tema della educazione alimentare è quella
emiliana: L.R. 4 novembre 2002, n. 29 orme per l'orientamento dei consumi e l'educazione alimentare e per la
qualificazione dei servizi di ristorazione collettiva il cui art. 1 dichiara: «la presente legge favorisce: a) l'educazione al
consumo consapevole, attraverso la comprensione delle relazioni esistenti tra sistemi produttivi, consumi alimentari e
13
delibere e bandi degli enti locali)12.
In via di misura straordinaria, il diritto degli studenti a una specifica educazione alimentare è
assicurato da numerosi progetti di educazione a stili di vita alimentari sani e solidali: si pensi al
progetto Frutta nelle scuole13 o al progetto del Buon Samaritano14, per indicarne due di rilievo
nazionale, o ai numerosi progetti promossi a livello locale15.
L’accessibilità economica del servizio di ristorazione scolastica, monitorata anche dal giudice
contabile16 è stata oggetto di una recente sentenza del giudice amministrativo che è intervenuto su
un aspetto sensibile del medesimo, ovvero sul costo eccessivo delle tariffe del servizio. Queste sono
generalmente determinate di anno in anno dalle amministrazioni comunali, sulla base del principio
di sana gestione delle risorse e nel rispetto degli equilibri di bilancio, tenendo conto, oltre che dei
ambiente, nella prospettiva di uno sviluppo sostenibile; b) l'adozione di corretti comportamenti alimentari e nutrizionali,
attraverso la conoscenza e il consumo di prodotti alimentari ed agroalimentari ottenuti nel rispetto della salute e
dell'ambiente o legati alla tradizione e alla cultura del territorio regionale; c) la diffusione d'informazioni sugli aspetti
storici, culturali, antropologici legati alle produzioni alimentari e al loro territorio d'origine».
12
Le clausole sociali in materia di fornitura di alimenti biologici o conformi alle regole alimentari religiose sono
contenute nei bandi di affidamento del servizio o nei contratti di servizio (a seconda se i Comuni gestiscano tale servizio
in via diretta o tramite una società in house). Della diversificazione delle diete alimentari si da conto ai cittadini nelle
diverse Carte dei servizi. Si veda ad esempio la Carta dei servizi della ristorazione scolastica delle scuole del Comune
di Torino, del Comune di Bologna del Comune di Milano . Le Regioni che non hanno legiferato in materia di
ristorazione scolastica si avvalgono però dello strumento delle Linee guida: si vedano ad esempio Linee guida di
Lombardia (Linee Guida della Regione Lombardia per la ristorazione scolastica) o quella del Friuli Venezia Giulia, ove
si prevede la possibilità di diete speciali dovute a ragioni etico – religiose (La ristorazione scolastica. Linee guida della
Regione Friuli Venezia Giulia).
13
Il programma "Frutta nelle scuole" è stato istituito con Regolamento (CE) n. 13 2009 del Consiglio del 18 dicembre
2008, con il quale si modifica il regolamento (CE) n. 1290/2005 relativo al finanziamento della politica agricola
comune e il regolamento (CE) n. 1234/2007 recante organizzazione comune dei mercati agricoli e disposizioni
specifiche per taluni prodotti agricoli (regolamento unico OCM). Un Regolamento successivo, il Regolamento (CE) n.
288/2009 della Commissione del 7 aprile 2009, ne definisce le modalità di applicazione. Due sono gli obiettivi
desumibili dai considerata di entrambi i regolamenti: il perseguimento di un livello elevato di protezione della salute
umana (IV consideratum del reg. 13/2009 e del reg. 288/2009) e la sensibilizzazione sugli effetti benefici per la salute
del consumo di frutta e verdura (XVI consideratum del reg. 13/2009) attuata attraverso la predisposizione di misure di
accompagnamento educativo rivolte ai bambini che beneficiano del programma (V consideratum del reg. 288/2009). Il
programma frutta nelle scuole ha definito modalità e strumenti per diffondere il consumo di frutta nelle scuole, che si
articolano essenzialmente in due momenti: a) distribuzione assistita di prodotti ortofrutticoli stagionali; b) campagna di
informazione sulle caratteristiche dei prodotti ortofrutticoli, in termini di aspetti nutrizionali, qualità e sicurezza,
biodiversità, stagionalità, territorialità e rispetto dell’ambiente.
14
La l. 155/2003, altrimenti detta “legge del buon samaritano” ha inteso perseguire l’obiettivo di promuovere, a scopo
benefico, il recupero dei prodotti alimentari non distribuiti, nell’intento di evitarne la distruzione quando potrebbero
essere ancora utilizzati. La legge equipara al “consumatore finale” le Onlus che effettuano, a fini di beneficenza,
distribuzione gratuita ai bisognosi, esautorandole da quegli adempimenti burocratici che, complicavano, o addirittura
impedivano, l’assistenza agli indigenti.
15
M. MARCELLINO, M.MANFREDI, Cibo e laboratori interculturali nella scuola dell’infanzia a Torino, in M.
BARADELLO, M. BOTTIGLIERI, L. FIERMONTE – P. MASCIA (a cura di), Cibo e città. Atti del I workshop del
progetto europeo “4cities4dev. Access to good, clean, fair food: the food community experience, Torino 3-4 ,ovembre
2011, Anci Comunicare Roma 2012, pp. 93-104 ove si espongono i progetti educativi di alcune scuole dell’infanzia
torinesi nei quali il cibo diventa occasione di integrazione culturale tra bambini (e con essi mamme e famiglie) di
culture, provenienze geografiche e religioni diverse. Tra questi vi è il laboratorio di cucina interculturale
Cibifavolecanzoni, nel cui ambito mamme, papà, operatori e insegnanti si ritrovavano in un locale della scuola per
cucinare, raccontare piatti di famiglia, assaggiare e conversare (ivi, p. 100).
16
Appare in tal senso interessante l’indagine effettuata dalla sezione Sardegna della Corte dei conti sul servizio di
ristorazione scolastica nei Comuni con più di 10.000 abitanti: cfr. Indagine di controllo sulla gestione delle mense
scolastiche dei Comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti della Provincia di Cagliari per gli anni 20042006 del 17/2009, da cui emergono dati interessanti sia sulla tipologia di gestione del servizio scelto dagli enti (gestione
indiretta con il servizio affidato a società esterne, individuate con il sistema dell’appalto pubblico con ribasso del
prezzo a base d’asta), sia sui criteri utilizzati per determinare la tariffa del servizio (“il costo dei pasti nella diverse
scuole cagliaritane non è univoco ma viene stabilito dai singoli Consigli di circolo tenuto conto “della situazione
economico-sociale in cui gravita la singola scuola”, con la conseguenza che nello stesso Comune, possono aversi costi
14
vincoli determinati dalle risorse finanziarie, dei costi effettivi del servizio e dei redditi dei
beneficiari, ma non dei loro bisogni particolari.
Ed è proprio sull’aspetto tariffario del servizio che si è pronunciato di recente il TAR Piemonte, il
quale ha respinto il ricorso di 583 genitori contro le delibere del Comune di Torino 17 che avevano
aumentato le tariffe della mensa scolastica delle scuole elementari, medie e superiori per l’anno
scolastico 2013-2014.
Il ricorso si fonda sui seguenti motivi:
l’aumento della percentuale di copertura del servizio a carico delle famiglie, arrivata al 79 per cento
del costo complessivo, contro il rimanente 21% coperto dal bilancio comunale; questo primo motivo si articola in quattro attinenti all’irragionevolezza dell’applicazione automatica dei criteri ISEE e
alla incomprensibile determinazione della tariffa “a consumo” di € 7,10 a pasto (per la fascia più
alta) a fronte di un costo effettivo medio di ogni singolo pasto pagato dal Comune all’appaltatore di
€ 4,29;
il secondo motivo si articola in due censure: la prima attiene ad una iniqua distribuzione degli aumenti tariffari tra i vari scaglioni ISEE; la seconda lamenta, invece, la lesione del principio di affidamento violato da un aumento tariffario intervenuto durante l’anno scolastico, il quale era venuto a
configurarsi di gran lunga superiore a quello che ci si poteva attendere legittimamente e intervenuta
nel corso dell’anno scolastico;
un ulteriore motivo attiene alla mancata previsione di un sistema dei rimborsi dei pasti non fruiti, ad
eccezione dei casi di mancata fruizione per cause imputabili all’Amministrazione;
con l'ultimo motivo, i ricorrenti censurano la delibera impugnata nella parte in cui non ha previsto la
mera “facoltatività” del servizio di refezione scolastica; chiedono al TAR di accertare e tutelare “il
diritto di scelta” spettante ai genitori tra l’iscrizione alla mensa scolastica e il consumo, a scuola,
durante l’orario deputato alla mensa, di un pasto preparato a casa.
2. Il servizio di refezione scolastica è un servizio pubblico locale a domanda individuale.
Il TAR respinge il ricorso rigettando tutte le doglianze dei ricorrenti.
Prima di addentrarsi nei singoli motivi, la sentenza opera una premessa sulla natura giuridica del
servizio di refezione scolastica, qualificato come un servizio pubblico "a domanda individuale"18.
Questo significa che l’ente locale non è obbligato a istituirlo, ma se lo istituisce è obbligato per
legge a stabilire la quota di copertura tariffaria a carico dell'utenza, come previsto sia dall’art. 6
comma 1 del d.l. n. 55/198319, sia dall'art. 172 comma 1 lett. c) d. lgs. 18 agosto 2000, n. 267 20.
diversi a parità di reddito), sia alle specifiche del servizio (preparazione dei pasti e loro distribuzione, nonché
organizzazione e successiva pulitura dei refettori) che degli obblighi di capitolato, da cui emerge che si tiene conto delle
diverse esigenze alimentari dei beneficiari, evidenziandosene anche le criticità (espresse soprattutto in termini di
controlli. Cfr. Corte dei conti – sez. di controllo per la Sardegna, Indagine di controllo sulla gestione delle mense
scolastiche dei Comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti della Provincia di Cagliari per gli anni 20042006 approvata con Delibera 17 gennaio 2009, in www.corteconti.it, pp.151-162.
17
Si tratta delle seguenti delibere: 1) deliberazione del consiglio comunale di Torino n. 2013 03524/07, avente ad
oggetto “indirizzi per l'esercizio 2013 del sistema tariffario dei servizi educativi ed approvazione quote e tariffe per
l'anno scolastico 2013/2014”, approvata nella seduta del 30.9.2013 e pubblicata dal 4 al 18 ottobre 2013; 2)
deliberazione del consiglio comunale di Torino, n. 2013 03941/024, avente ad oggetto “bilancio di previsione 2013.
relazione previsionale e programmatica. bilancio pluriennale per il triennio 2013-2015. approvazione”, approvata in
data 29.10.2013. I due atti sono accessibili e consultabili al sito: http://www.comune.torino.it/giunta/cerca.shtml
18
Cfr. D.M. 31 dicembre 1983. Individuazione delle categorie dei servizi pubblici locali a domanda individuale.
19
Art. 6: “(1) Le province, i Comuni, i loro consorzi e le comunità montane sono tenuti a definire, ((non oltre la data
della)) deliberazione del bilancio, la misura percentuale dei costi complessivi di tutti i servizi pubblici a domanda
individuale - e comunque per gli asili nido, per i bagni pubblici, per i mercati, per gli impianti sportivi, per il servizio
trasporti funebri, per le colonie e i soggiorni, per i teatri e per i parcheggi comunali - che viene finanziata da tariffe o
contribuzioni ed entrate specificamente destinate. (2) Con lo stesso atto vengono determinate le tariffe e le
contribuzioni”.
20
Art. 172: “Al bilancio di previsione sono allegati i documenti previsti dall'art. 11, comma 3, del decreto legislativo
15
Nell'esercizio di tale potere-dovere, ed in particolare nella quantificazione del tasso di copertura
tariffaria del costo di gestione del servizio, il comune gode di “amplissima discrezionalità” che non
trova nella legge alcuna limitazione in ordine alla misura massima imputabile agli utenti. L’unico
limite, che, secondo il TAR, la legge impone è quello ad agire nel rispetto del principio di pareggio
di bilancio, che, nel caso di specie, si declina nelle seguenti condizioni: 1) individuare il costo
complessivo del servizio, (che contempli sia i costi “diretti” sia quelli “indiretti”); 2) stabilire la
misura percentuale del costo finanziabile con risorse comunali; 3) determinare le tariffe o i
corrispettivi a carico degli utenti, anche in modo non generalizzato21. Con le delibere impugnate, il
Comune di Torino ha confermato il servizio, determinando quanto prescritto dalle leggi
(individuazione del costo, misura finanziabile con risorse proprie, misura delle tariffe a carico degli
utenti e differenziazione per fasce di reddito).
Su queste premesse, il TAR passa ad esaminare i singoli motivi di doglianza; il primo, l'aumento
eccessivo - esaminato nella sua totalità, e non per singole censure - non è ritenuto fondato. La legge,
secondo il giudice, non pone alcuna limitazione in ordine alla misura massima imputabile agli
utenti: la stessa percentuale “non inferiore al 36 per cento” prevista per gli enti locali in stato di
dissesto22, esprimerebbe solo la misura minima che l’ente locale (peraltro solo quello in stato di
dissesto) deve obbligatoriamente porre a carico dell’utenza, non quella massima. In via teorica,
continua il giudice amministrativo, il comune potrebbe decidere di prendersi carico dell’intero
importo o praticare una tariffa intera: tale scelta discrezionale sarebbe influenzata unicamente «dalle
disponibilità di bilancio e dalle scelte di politica economico-sociale dell’ente locale». Scelte di
ampia discrezionalità riservata per legge all’amministrazione comunale che pertanto sfuggono al
sindacato giurisdizionale, laddove non siano affette da vizi macroscopici di illogicità o di
irragionevolezza. Vizi che in questo caso il TAR non ravvisa.
Circa l’irragionevole determinazione della tariffa massima, il TAR ritiene di non poter condividere
le doglianze dei ricorrenti, atteso che la tariffa pagata dall’utente non è composta dalle sole voci di
spesa sostenute dall’Amministrazione per erogare il singolo pasto - costi diretti - ma anche da quelli
indiretti, tra i quali rientrano i costi sostenuti dall’Amministrazione per l’erogazione del servizio.
Pure non condivisibile è apparsa al collegio la doglianza relativa all’applicazione automatica
dell’ISEE che, a mente del ricorso, sarebbe stata la causa dell’aumento delle tariffe: l’aumento di
queste, infatti, non è dovuto all’applicazione dell’ISEE23 ma alla scelta motivata del Comune di
aumentare “la percentuale di contribuzione dell’utenza sul costo complessivo del servizio stabilito
per l’A.S. 2013-2014, così come la legge gli consentiva di fare”.
In relazione al secondo motivo, il TAR tiene a precisare che non è accoglibile la prima censura,
atteso che la legge non prevede un criterio a cui debba essere informata la progressione degli
scaglioni ISEE (progressività o proporzionalità); come pure risulta infondata la seconda censura
relativa alla lesione del principio di affidamento, atteso che sono le leggi a indicare nella data di
23 giugno 2011, n. 118, e successive modificazioni, e i seguenti documenti: (…) c) le deliberazioni con le quali sono
determinati, per l'esercizio successivo, le tariffe, le aliquote d'imposta e le eventuali maggiori detrazioni, le variazioni
dei limiti di reddito per i tributi locali e per i servizi locali, nonché, per i servizi a domanda individuale, i tassi di
copertura in percentuale del costo di gestione dei servizi stessi”.
21
Così come esplicitato dall’art. 6 comma 2 d.l. n. 55/1983; art. 149, comma 8 d. lgs. n. 267/2000 e, per la Regione
Piemonte, dalla l.r. 28 dicembre 2007 n. 28 (art. 25 comma 1)
22
Art. 243 comma 2 lett. a) del TUEL: «Gli enti locali strutturalmente deficitari sono soggetti ai controlli centrali in
materia di copertura del costo di alcuni servizi. Tali controlli verificano mediante un'apposita certificazione che: a) il
costo complessivo della gestione dei servizi a domanda individuale, riferito ai dati della competenza, sia stato coperto
con i relativi proventi tariffari e contributi finalizzati in misura non inferiore al 36 per cento, a tale fine i costi di
gestione degli asili nido sono calcolati al 50 per cento del loro ammontare».
23
Applicazione peraltro prevista dall’art. 1 comma 1 D.M. Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali 8 marzo 2013,
il quale include il servizio di “mensa scolastica” tra le “prestazioni sociali agevolate non destinate alla generalità dei
soggetti”, per l’accesso alle quali è consentito alle Amministrazioni competenti di utilizzare l’indicatore della situazione
economica equivalente al fine di definire condizioni agevolate di accesso al servizio.
16
approvazione del bilancio la dead line di definizione delle tariffe24. Termine rispettato dal Comune
di Torino con largo anticipo.
Con riguardo al terzo motivo il TAR ritiene che la determinazione forfettaria della tariffa è elemento
sufficiente per giustificare la generale non rimborsabilità dei singoli pasti non fruiti; pertanto il
diritto di rimborso dei pasti non fruiti nei soli casi di mancata erogazione per causa imputabile
all’Amministrazione costituisce una previsione di carattere derogatoria, e quindi eccezionale, che
non può essere commutata in un principio di ordine generale. Il TAR, infine, non ravvisa neanche
ragioni di disparità di trattamento con il sistema di tariffa a consumo previsto nelle scuole
elementari o nei nidi che costituiscono situazioni ontologicamente diverse.
Il TAR Piemonte dunque, ben lungi da configurare un diritto alla mensa scolastica, qualifica questa
situazione giuridica soggettiva un mero interesse legittimo: ma non un interesse al servizio mensa in
quanto tale e nemmeno a un servizio mensa erogato a un costo adeguato per le famiglie. La
situazione giuridica che sembra riconoscere è invece l’interesse a un servizio mensa praticato al
costo definito dalla Pubblica amministrazione medesima, sulla base di criteri definiti dalla legge.
3. Il TAR non è competente a sindacare la sussistenza di un “diritto al panino”.
La statuizione del collegio in merito all'ulteriore motivo di illegittimità presentato dai ricorrenti
affronta il problema del diritto al cibo adeguato25, sub specie di un “diritto al panino”: «I ricorrenti
lamentano che l’Amministrazione non abbia previsto nei provvedimenti impugnati il diritto dei
genitori di scegliere tra l’iscrizione del proprio figlio alla mensa scolastica e la possibilità per
l’alunno di consumare a scuola, durante l’orario destinato alla mensa, un pasto preparato a casa.
Chiedono quindi al TAR di accertare e dichiarare la sussistenza di tale “diritto di scelta”».
Sul punto il TAR non contesta né riconosce questo diritto, ma, sulla base di un criterio processuale,
si limita a dichiarare la sua incompetenza a pronunciarsi sul punto, sia nel caso in cui l’eventuale
diritto al panino configuri un diritto soggettivo, su cui sarebbe eventualmente competente il giudice
ordinario26, sia nel caso in cui tale pretesa si configuri come interesse legittimo: il TAR infatti è
incompetente a giudicare un potere amministrativo che la PA non ha ancora esercitato, come nel
caso di specie27.
Il diritto al panino non è qualificabile né come diritto soggettivo - perché manca il presidio
normativo che lo riconosce direttamente, a prescindere da ogni intermediazione del potere
amministrativo - né come interesse soggettivo leso, posto che la PA. non ha emanato alcun
provvedimento volto ad escluderlo.
Il passaggio della motivazione in cui il TAR evidenzia la “mancanza di presidio normativo” del
presunto diritto soggettivo alla scelta del panino sottolinea ulteriormente l’assenza, nel nostro
ordinamento, di un esplicita configurazione testuale del diritto al cibo adeguato, benché sub specie
di diritto al panino. Il diritto al cibo adeguato, coniato a livello internazionale nel 1948 nella
Dichiarazione dei Diritti umani28, meglio esplicitato nel Patto relativo ai diritti economici sociali e
24
Cfr. art. 6 d.l. n. 55/1983; art. 172 comma 1 lett. e) l d.lgs. n. 267/2000; art. 53 comma 16 L. n. 388/2000.
Per una breve sintesi sul concetto di diritto al cibo sia consentito rinviare a di M. BOTTIGLIERI, Finalmente i
cittadini europei hanno diritto al cibo adeguato. Anche le autonomie locali sono tenute a renderlo effettivo? Commento
a risoluzione Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa n. 1957/2013 adottata il 3 ottobre 2013, in Opal 1/2014.
26
“I ricorrenti rivendicano e chiedono l’accertamento di un preteso diritto soggettivo, il quale, tuttavia, esula, in
mancanza di presidio normativo, dall’ambito del rapporto di pubblico servizio intercorrente tra l’Amministrazione e gli
utenti del servizio, di modo che la sua cognizione sfugge alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo prevista
dall’art. 133 comma 1 lett. c) del codice del processo amministrativo, per rientrare in quella del giudice ordinario,
dinanzi al quale potrà essere eventualmente riproposta”. Cfr. TAR Piemonte, sentenza n. 01365 del 31/7/2014 cit.
27
“9.2. Sotto altro profilo, i ricorrenti non impugnano provvedimenti con cui l’amministrazione comunale abbia negato
il preteso diritto di cui, in questa sede, essi chiedono l’accertamento, sicchè la posizione giuridica soggettiva rivendicata
dai ricorrenti, ove anche intesa come interesse legittimo, non potrebbe essere accertata da questo TAR alla luce di
quanto previsto dall’art. 34 comma 2 c.p.a., il quale dispone che 'In nessun caso il giudice può pronunciare con
riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati'”. Cfr. TAR Piemonte, sentenza n. 01365 del 31/7/2014 cit.
28
Art. 25 DUDU: “Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e
25
17
culturali del 196629, nell’ordinamento giuridico italiano è assente, in modo esplicito, da tutti i livelli
di tutela, a partire da quello costituzionale per finire con quello locale.
Un assenza che a quanto pare inizia a “pesare” e che è tanto più evidente se si considera che il
diritto all’acqua, di più giovane generazione (perché riconosciuto come diritto fondamentale solo
nel 2010) 30 vanta ormai presidi normativi ad ogni livello di tutela, incluso quello locale. Numerosi,
infatti, sono gli Statuti municipali, recentemente modificati, che introducono un esplicita tutela del
diritto all’acqua31. Nessuno Statuto municipale tutela in modo esplicito il diritto al cibo adeguato,
che al momento sembra essere del tutto assente dalle carte fondamentali delle principali
municipalità italiana32.
Tale silenzio normativo è ormai particolarmente assordante, soprattutto se si compara la normativa
italiana a quella di numerosi Paesi dove, invece, il diritto al cibo adeguato degli studenti, o in
generale dei bambini, costituisce un diritto fondamentale addirittura di rilievo costituzionale.
Si pensi alla configurazione di un autonomo diritto al cibo degli studenti, esplicitamente tutelato
dalla Costituzione del Costa Rica33, oppure al diritto al cibo dei bambini, garantito dalle
della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione, e alle cure mediche e ai servizi
sociali necessari...”.
29
Art. 11 ICESCR: “Gli Stati Parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo ad un livello di vita
adeguato per sé e per la sua famiglia, che includa alimentazione, vestiario, ed alloggio adeguati, nonché al
miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita... Gli Stati Parti del presente Patto, riconoscendo il diritto
fondamentale di ogni individuo alla libertà dalla fame, adotteranno, individualmente e attraverso la cooperazione
internazionale, tutte le misure, e fra queste anche programmi concreti, che siano necessarie: a) per migliorare i metodi di
produzione, di conservazione e di distribuzione delle derrate alimentari mediante la piena applicazione delle
conoscenze tecniche e scientifiche, la diffusione di nozioni relative ai principi della nutrizione, e lo sviluppo o la
riforma dei regimi agrari, in modo da conseguire l'accrescimento e l'utilizzazione più efficaci delle risorse naturali; b)
per assicurare un'equa distribuzione delle risorse alimentari mondiali in relazione ai bisogni, tenendo conto dei
problemi tanto dei paesi importatori quanto dei paesi esportatori di derrate alimentari”.
30
L’acqua è stata dichiarata diritto umano con la Risoluzione n. 64/292 del 28/7/2010 che riconosce l’accesso ad
un’acqua sicura e pulita e all’igiene come un diritto umano (A/RES/64/292). Dopo circa 15 anni di dibattiti sulla
scarsità di acqua potabile del pianeta, le Nazioni Unite sono arrivate alla votazione del 28 luglio 2010, alla quale erano
presenti 163 Paesi (sui 192 che costituiscono l’Assemblea). Dei 163, 122 paesi hanno votato a favore, nessuno contro e
41 si sono astenuti. Tra i paesi che hanno votato a favore c’è anche l’Italia.
31
Cfr. l’art. 79 comma 6 Statuto Comune di Milano: “Il Comune riconosce l’acqua quale patrimonio dell’umanità, bene
comune, diritto inalienabile di ogni essere vivente. Il servizio idrico integrato è di interesse generale ed il Comune ne
assicura il carattere pubblico”; l’art. 4 Statuto Comune di Vicenza: «1. Il Comune di Vicenza riconosce il diritto umano
all’acqua, ossia l’accesso all’acqua potabile come diritto umano, universale, indivisibile, inalienabile e lo status
dell’acqua come bene comune pubblico e garantisce che la proprietà e la gestione degli impianti, della rete di
acquedotto, distribuzione, fognatura e depurazione siano pubbliche e inalienabili, nel rispetto delle normative
Comunitarie e nazionali. 2. Il servizio idrico integrato è un servizio pubblico locale di interesse generale che, in
attuazione della Costituzione ed in armonia con i principi Comunitari, deve essere effettuato da un soggetto di diritto
pubblico, non tenuto alle regole del mercato e della concorrenza»; l’art. 2 lett. n) Statuto Città di Torino in cui si afferma
che: “Il Comune esercita le proprie attribuzioni perseguendo le seguenti finalità: … n) assicurare il diritto universale
all'acqua potabile attraverso la garanzia dell'accesso individuale e collettivo dei cittadini alla risorsa”; l’art.3 dello
Statuto del Comune di Bari dice: “Riconosce il diritto umano all’acqua, ossia l’accesso all’acqua come diritto umano,
universale, indivisibile, inalienabile e lo status dell’acqua come bene comune pubblico. Riconosce, altresì, il servizio
idrico integrato come un servizio pubblico locale privo di rilevanza economica in quanto servizio pubblico essenziale
per garantire l’accesso all’acqua per tutti e pari dignità umana a tutti i cittadini, la cui gestione va quindi attuata
attraverso un Ente di diritto pubblico”. Riconoscono il diritto all’acqua gli Statuti di molte altre città come Genova,
Venezia, Firenze.
32
Ad oggi (20 dicembre 2014) non compare una tutela esplicita del diritto al cibo adeguato negli Statuti di città come
Torino, Milano, Genova, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Palermo.
33
Cfr. art. 82 Costituzione Costa Rica: “The State shall provide food and clothing for indigent pupils, in accordance
with the law”.
18
Costituzioni di Brasile34, Colombia35, Cuba36, Guatemala37, Honduras38, Messico39,
Panama40,Paraguay41 e Sud Africa42.
Basterebbe una statuizione di questo tenore anche nella normativa italiana (non necessariamente di
rango costituzionale) affinché, in casi come questi, il potere della PA di incidere sull’accesso al cibo
degli studenti possa essere valutato anche alla luce di parametri di legittimità ulteriori rispetto a
quelli che il giudice amministrativo ha potuto utilizzare nella sentenza in commento.
34
Art. 227: “It is the duty of the family, of society, and of the State to ensure children and adolescents, with absolute
priority, the right to life, health, and nourishment”.
35
Art. 44: “Children have fundamental rights to: life, integrity, health and social security, adequate food”.
36
Art. 8: “...as the power of the people and for the people, guarantees: ... That no child be left without schooling, food
and clothing”.
37
Art. 51: “The State will protect the physical, mental and moral health of minors and the elderly. It will guarantee them
their right to food, public health, education, security and social insurance”.
38
Art. 123: “Every child shall enjoy the benefits of the social security and education. They have the right to grow and
develop in good health, for which must be provided, both to him and his mother, special care from the prenatal period,
taking right to enjoy food”.
39
Art. 4: “Children’s needs to nourishment...shall be fulfilled”.
40
Art. 56: «The state will provide protection to minors’ physical, mental and moral health and will guarantee their right
to food, health, education and social protection. Elderly and persons with disabilities will have the same rights
guaranteed».
41
Art. 54: «Families, society, and the State have the obligation of guaranteeing a child the right to a harmonious,
comprehensive development, as well as the right to fully exercise his rights by protecting him against abandonment,
under nourishment, violence, abuse».
Art. 57: «Every senior citizen has the right to receive full protection by his family, society, and the State. State
organizations will promote the well-being of senior citizens by providing them with social services to meet their needs
for food, health, housing, culture, and leisure».
42
Art. 27: «Everyone has the right to have access to: sufficient food and water. (art.28 (c)) Every child has the right to
(c) basic nutrition, shelter, basic health care services and social services».
19
Divorzi facili e matrimoni omosessuali in Municipio.
ota alla circolare n. 10863/2014 del Ministero dell'Interno
di Matteo Cannonero
Parole chiave: Matrimoni omosessuali, sindaci, divorzi
Riferimenti normativi principali: Art. 12 decreto legislativo 12 settembre 2014, n. 132
(Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato
in materia di processo civile). Circolare n. 10863 del Ministero dell’Interno del 7.10.2014
(Trascrizione nei registri dello stato civile dei matrimoni tra persone dello stesso sesso
celebrati all'estero)
1. Il nuovo potere dei sindaci - in qualità di ufficiali di stato civile - di sciogliere o di far cessare gli
effetti del matrimonio civile, si riferisce al d.l. 12 settembre 2014, n. 132, cd. Decreto Orlando,
avente per argomento “Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la
definizione dell'arretrato in materia di processo civile”. Il preambolo annuncia quali siano gli scopi
del decreto: “emanare disposizioni in materia di degiurisdizionalizzazione e adottare altri
interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile, nonché misure urgenti per
la tutela del credito e la semplificazione e accelerazione del processo di esecuzione forzata – e di assicurare una maggiore funzionalità ed efficienza della giustizia civile mediante le predette
urgenti misure”. Il capo da prendere in riferimento è il Capo III “Ulteriori disposizioni per la
semplificazione dei procedimenti di separazione personale e di divorzio”, dalle cui disposizioni
sembrerebbe potersi ricavare che, superata la prima fase della separazione, la richiesta di divorzio
“breve” può essere presentata all’Ufficiale di Stato Civile.
La separazione consensuale è, notoriamente, lo strumento che gli artt. 149 ss.43 mettono a
disposizione dei coniugi che intendono separarsi di comune accordo e che hanno perciò stabilito
insieme i diritti spettanti a ognuno riguardo il patrimonio44, l'assegno di mantenimento per il
coniuge più debole e i figli45, l'affidamento della prole e l'assegnazione della casa coniugale. Infatti,
con il d.l. n. 132/2014, convertito con modificazioni dalla l. n. 162/2014, si è dato il via libera alla
norma sul divorzio immediato, la quale supera l'attuale legge che prevede un'attesa di tre anni di
ininterrotta separazione prima di poter chiedere il divorzio. In realtà, nella maggior parte dei paesi
europei tale procedura esiste e funziona da anni e, così facendo, l’Italia si allinea al resto d’Europa.
In Italia, la prassi naturale è quella di attendere anche 10 anni; sempre più coppie, infatti, per
velocizzare tale procedura, sceglievano sempre più di recarsi in un altro Paese dell’Unione Europea
per divorziare, facendo poi trascrivere l’atto nei registri dello Stato civile italiano.
Nello specifico, secondo l’art. 12, comma 1, del Decreto Orlando, il divorzio è possibile anche
“...innanzi all'ufficiale dello stato civile del comune di residenza di uno di loro o del comune presso
cui è iscritto o trascritto l'atto di matrimonio...”.
43
Cfr. Cassazione Civile, sez. I, sentenza 20 settembre 2007, n. 19450 e Cassazione Civile, sez. I, sentenza 20 marzo
2008, n. 7450 (in Altalex Massimario).
44
Cfr. Cassazione civile, sez. III, sentenza 17 luglio 2008, n. 19691, Corte Costituzionale, sentenza 30 luglio 2008, n.
308 e Cassazione civile, sez. II, sentenza 18 settembre 2009, n. 20144 (in Altalex Massimario). Vedasi anche:
Cassazione Civile, sez. I, sentenza 23 novembre 2007, n. 24407, Cassazione Civile, sez. I, sentenza 15 febbraio 2008, n.
3797 e Cassazione Civile, sez. I, sentenza 6 giugno 2008, n. 15086 (in Altalex Massimario).
45
Cfr. Tribunale di Napoli, sez. I, ordinanza 1 febbraio 2007, Cassazione Civile, sez. I, sentenza 22 marzo 2007, n.
6979, Cassazione Civile, sez. I, sentenza 23 novembre 2007, n. 24407, Tribunale di Firenze, sentenza 3 ottobre 2007,
Consiglio di Stato, sentenza 13 novembre 2007, n. 5825, Cassazione Civile, sez. I, sentenza 7 dicembre 2007, n. 25618,
Cassazione Civile, sez. I, sentenza 28 gennaio 2008, n. 1758, Cassazione Civile, sez. I, sentenza 18 febbraio 2008, n.
3934, Tribunale di Nicosia, decreto 22 aprile 2008, Cassazione Civile, sez. I, sentenza 28 gennaio 2009, n. 2191,
Cassazione Civile, sez. I, sentenza 27 febbraio 2009, n. 4816 e Cassazione Civile, sez. I, sentenza 6 novembre 2009, n.
23630 (in Altalex Massimario).
20
Il comma 2 afferma che tali disposizioni “...non si applicano in presenza di figli minori, di figli
maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non
autosufficienti...”. Questa proposizione potrebbe creare non pochi problemi di interpretazione,
specialmente con riguardo alla verifica dell'autosufficienza economica del figlio maggiorenne. In
proposito, alla luce dell'art. 3 Cost., è lecito dubitare della ragionevolezza di una simile disparità di
trattamento a sfavore dei genitori di figli non autosufficienti; tale disparità non sembra giustificata,
posto che i genitori hanno il dovere di mantenere i figli a prescindere dalla loro situazione
coniugale: è innanzitutto l'art. 30 Cost. a prevedere questo obbligo.
Il terzo comma sancisce con quali modalità i coniugi debbano presentare le domande rivolte
all’Ufficiale di Stato civile regolando, altresì, gli effetti che l’atto che si andrà a produrre avrà sul
futuro della (ex) coppia. Il punto quarto modifica alcuni passaggi della legge Fortuna - Baslini ossia
la legge che autorizzava la pratica del divorzio (Legge 1° dicembre 1970, n. 898), adeguandola,
all’attuale decreto di riforma della giustizia civile. Della stessa sostanza anche il punto quinto,
andante a modificare il d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la
semplificazione dell'ordinamento dello stato civile).
Infine i commi n° 6 e 7, grazie quali si stabiliscono i costi del procedimento e l’entrata in vigore
delle norme pocanzi esplicate.
2. Agli inizi del mese di ottobre 2014 alcuni sindaci di grandi città italiane, fra cui quelli di Roma,
Milano, Napoli e Bologna hanno autorizzato a trascrivere - nei registri dello stato civile - matrimoni
di persone dello stesso sesso contratti all’estero, oltreché a quelli tradizionali.
Considerando tali pratiche illegittime, il Ministro dell’Interno Alfano ha emanato la circolare n.
10863 del 7/10/2014 Ministero dell’Interno, indirizzata ai Prefetti, ai Commissari di Governo per le
provincie di Trento e Bolzano e al Presidente della Regione Valle D’Aosta, avente per oggetto la
“trascrizione nei registri dello stato civile dei matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati
all'estero”.
“Sono stati posti all'attenzione degli uffici ministeriali alcuni provvedimenti sindacali che
prescrivono agli ufficiali di stato civile di provvedere alla trascrizione dei matrimoni celebrati
all'estero tra persone dello stesso sesso. Tali "direttive", ad ogni evidenza, non sono conformi al
quadro normativo vigente. E ciò in quanto la disciplina dell'eventuale equiparazione dei matrimoni
omosessuali a quelli celebrati tra persone di sesso diverso e la conseguente trascrizione di tali
unioni nei registri dello stato civile rientrano nella competenza esclusiva del legislatore nazionale.
Sul punto, va innanzitutto rilevato che, nonostante la trascrizione abbia natura meramente
certificativa e dichiarativa, la sola sussistenza dei requisiti di validità previsti dalla lex loci, quanto
alla forma di celebrazione, non esime l'ufficiale di stato civile dalla previa verifica della
sussistenza dei requisiti di natura sostanziale in materia di stato e capacità delle persone.”
Con questa prima parte il Ministro dell’Interno afferma, innanzitutto, che l’argomento è di
competenza esclusiva del legislatore nazionale e non sussiste, quindi, alcun potere normativo in
capo ai sindaci, i quali, essendo Ufficiali di Stato Civile, non possono arrogarsi tale potere.
“Al riguardo, occorre fare riferimento, in primo luogo, all'art. 27, comma 1, della legge 31 maggio
1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), secondo cui «la
capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio sono regolate dalla legge
nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio», quindi all'art. 115 del codice civile,
secondo cui «il cittadino è soggetto alle disposizioni contenute nella sezione prima di questo capo,
anche quando contrae matrimonio in paese straniero secondo le forme ivi stabilite». Pertanto, al di
là della validità formale della celebrazione secondo la legge straniera, l'ufficiale di stato civile ha
il dovere di verificare la sussistenza dei requisiti sostanziali necessari affinché la celebrazione
possa produrre effetti giuridicamente rilevanti. 3on vi è dubbio che, ai sensi del codice civile
vigente, la diversità di sesso dei nubendi rappresenti un requisito necessario affinché il matrimonio
produca effetti giuridici nell'ordinamento interno, come è chiaramente affermato dall'art. 107 c.c.,
21
in base al quale l'ufficiale dello stato civile «riceve da ciascuna delle parti personalmente, l'una
dopo l'altra, la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie, e
di seguito dichiara che esse sono unite in matrimonio». Infatti, come è stato affermato dalla Corte
di Cassazione, l'intrascrivibilità delle unioni omosessuali dipende non più dalla loro inesistenza e
neppure dalla invalidità, ma dalla loro inidoneità a produrre, quali atti di matrimonio, qualsiasi
effetto giuridico nell'ordinamento italiano. Tali conclusioni non mutano neppure ove la questione
venga esaminata sul piano della legittimità costituzionale ovvero in relazione al contesto europeo.
Con riferimento al primo aspetto, infatti, la Corte costituzionale, sin dalla nota pronuncia n. 138
del 2010, ha statuito che l'art. 29 Cost. si riferisce alla nozione di matrimonio come unione tra
persone di sesso diverso e questo significato non può essere superato. )é, con riferimento all'art. 3,
comma 1, Cost., le unioni omosessuali possono essere ritenute tout court omogenee al matrimonio,
quantunque la Corte abbia stabilito che tra le formazioni sociali in grado di favorire il pieno
sviluppo della persona umana nella vita di relazione rientra anche l'unione omosessuale”.
3. La circolare pretende di arrestare le procedure di trascrizione in questione, affermando che, anche
laddove vi siano dei possibili appigli derivanti da leggi di altri Paesi dell’Unione Europea,
l’ordinamento italiano disciplina il matrimonio richiedendone alcuni elementi imprescindibili
perché lo stesso possa fondarsi quali la diversità di sesso degli interessati e le conseguenti
dichiarazioni di voler essere uniti qual marito e moglie.
Va ricordato che, con la sentenza del 24.06.2010, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto
che il diritto al matrimonio - riconosciuto dal combinato disposto dell'art. 12 CEDU e dell'art. 9
della Carta dei Diritti Fondamentali della UE - non dovesse più, necessariamente, essere limitato a
persone di sesso diverso.
Nella stessa sentenza, comunque, la Corte di Strasburgo ha lasciato “decidere alla legislazione
nazionale dello Stato contraente se permettere o meno il matrimonio omosessuale”. Di
conseguenza, nulla costringe il legislatore italiano a vietare i matrimoni omosessuali.
Nondimeno, secondo la sentenza n. 4184/2012 della Corte di cassazione, la diversità di sesso dei
nubendi non può più essere considerata come un elemento necessario - o “naturalistico”, come
scrive la S.C. - del matrimonio, stante l'interpretazione del diritto al matrimonio fornita dalla Corte
EDU. La Cassazione ne ricava che, se i matrimoni omosessuali celebrati all'estero non possono
essere trascritti nei registri dello stato civile, questo non dipende dall' “inesistenza” di tali
matrimoni, bensì - semplicemente - dalla loro inidoneità a produrre effetti giuridici nell'ordinamento
italiano.
Nel proseguo della circolare, non si cita né l'art. 2 (“formazioni sociali”), né l'art. 3, comma 2, Cost.,
che sembrerebbero dare ragione a quanti sono favorevoli a tali unioni. Pertanto, così come
richiamato anche dalla Corte Costituzionale che, con suo pronunciamento del 3 febbraio 1994 n. 13,
aveva già dato un importante avallo alla causa in esame. Ignorare un problema non è uguale a
risolverlo; risulta evidente la discriminazione posta in essere dalla legge italiana la quale nega la
possibilità a queste persone di essere realmente cittadini alla pari degli altri, e, non, additati e messi
all’angolo per il loro orientamento sessuale. Oramai, in tutti i maggiori Paesi d’Europa tale diritto seppur in forme differenti di matrimonio o di unione civile - è garantito e viene riconosciuta
l’unione fra persone del medesimo sesso, addirittura, nella Repubblica di San Marino.
“Tuttavia”, secondo la circolare, “spetta al Parlamento, nell'esercizio della sua discrezionalità
politica, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per tali unioni. Per quanto, invece,
concerne il riferimento al contesto europeo, non possono risultare dirimenti i richiami alle
disposizioni di cui agli articoli 12 della CEDU e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione
Europea, nota anche come "Carta di )izza", in quanto entrambe, anziché vincolare legislatori
nazionali, rimettono a questi ultimi la decisione in materia. Alla luce del quadro ordinamentale
delineato e considerato che spetta al Prefetto, ai sensi dell'art. 9 del d.P.R. 396/2000, la vigilanza
sugli uffici dello stato civile, si richiama l'attenzione delle SS.LL. sull'esigenza di garantire che la
22
fondamentale funzione di stato civile, esercitata, in ambito territoriale, dal sindaco nella veste di
ufficiale di Governo, sia svolta in piena coerenza con le norme attualmente vigenti che regolano la
materia. Pertanto, ove risultino adottate "direttive" sindacali in materia di trascrizione nei registri
dello stato civile dei matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati all'estero - e nel caso sia
stata data loro esecuzione le SS. LL. rivolgeranno ai sindaci formale invito al ritiro di tali
disposizioni ed alla cancellazione, ove effettuate, delle conseguenti trascrizioni, contestualmente
avvertendo che, in caso di inerzia, si procederà al successivo annullamento d'ufficio degli atti
illegittimamente adottati, ai sensi del combinato disposto degli articoli 21 nonies della legge 241
del 1990 e 54, commi 3 e 11, del d.lgs. 267/2001. Le SS.LL. vorranno, infine, sensibilizzare i
funzionari addetti alle verifiche anagrafiche a porre particolare attenzione, nello svolgimento di
tali adempimenti, sulla regolarità degli archivi dello stato civile prescritta dall'art. 104 del d.P.R.
396/2000”.
Infine, Angelino Alfano invita i prefetti a vigilare sugli uffici dello stato civile per “..garantire che
la fondamentale funzione di stato civile, esercitata, in ambito territoriale, dal sindaco nella veste di
ufficiale di governo, sia svolta in piena coerenza con le norme attualmente vigenti che regolano la
materia”. Come annunciato in precedenza, quindi, o i sindaci annulleranno le trascrizioni o le stesse
verranno dichiarate nulle d'ufficio.
Il sindaco di Bologna, Virginio Merola, ha immediatamente reagito alla posizione del Ministro: “Se
vogliono annullare gli atti delle trascrizioni dei matrimoni contratti all'estero lo facciano. Io non
ritiro la mia firma. Lo facciano dunque, ma non nel nome di Bologna, che come sindaco
rappresento”46.
Alcuni cittadini avevano presentato ricorso al TAR del Lazio, per ottenere - in via cautelare - la
sospensiva dell'atto con cui il prefetto di Roma ha annullato le trascrizioni operate dal sindaco di
Roma. Il 4 novembre 2014, con ordinanza, il TAR ha respinto il ricorso.
Il 10 novembre 2014, il consiglio comunale di Torino ha approvato una mozione che invita il
sindaco ad impegnarsi per la registrazione dei matrimoni e delle unioni celebrati all'estero, non solo
tra omosessuali, in una sezione specifica del registro delle unioni di fatto, che il Comune di Torino
aveva già istituito nel 2010. Inoltre, la mozione invita il sindaco ad impegnarsi per “respingere il
significato politico della circolare del Ministro dell'Interno”.
La Procura della Repubblica di Udine ha risposto negativamente ad un esposto, presentato allo
scopo di verificare se la cancellazione della trascrizione da parte del prefetto costituisse o meno
un'ipotesi di reato. Al contempo, però, la Procura di Udine ha affermato che un matrimonio
trascritto può essere cancellato solo dall'autorità giudiziaria, e non (anche) da quella amministrativa,
in base all'art. 95 del regolamento di stato civile (d.P.R. n. 396/2000). In seguito a ciò, il Governo rispondendo all'interpellanza urgente 2-00794, presentata alla Camera dei deputati il 9.1.2015 - ha
annunciato di non voler tenere in considerazione le precisazioni della Procura di Udine, ritenendo
che i prefetti abbiano agito in virtù della loro sovraordinazione gerarchica nei confronti dei sindaci,
i quali, come ufficiali di stato civile, esercitano una funzione di competenza statale.
4. Concludendo, da una parte l’Italia si è allineata alla maggior parte del resto d’Europa per quanto
concerne la riforma della giustizia civile e, nel caso specifico, a quanto concerne la pratica del
divorzio, ora denominato “divorzio breve” mentre, dall’altro lato, rimane l’unica - e l’ultima - in
Europa per quanto concerne i diritti delle persone omosessuali, giacché non consente a loro di unirsi
in matrimonio (o in forme analoghe) aventi effetti giuridici. Proprio sull’onda della disobbedienza
civile di taluni Primi cittadini di grandi città italiane, il Presidente del Consiglio dei Ministri Renzi
ha annunciato di voler realizzare una legge specifica inerente proprio le unioni fra persone del
medesimo sesso cercando, così, di ripianare un vuoto legislativo che danneggia migliaia di cittadini.
46
23
La dichiarazione del sindaco di Bologna è disponibile all'indirizzo
http://www.ansa.it/emiliaromagna/notizie/2014/10/07/nozze-gay-merola-io-non-obbedisco_df1ebb05-3c31-434b9b9f-637277d6c1c1.html. ANSA, 7 ottobre 2014.
La Regione può far cessare gli usi civici, dandone previa comunicazione ai competenti organi
statali. Annotazione alla sentenza della Corte Costituzionale del 09.07.2014, n. 210
di icola Dessì
Parole chiave: ambiente e tutela del paesaggio; usi civici; demanio e sdemanializzazione
Riferimenti normativi: Artt. 9, 117 comma 2, lettera s) Cost.
Artt. 135, 142 comma 1 lettera h), 143 decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni
culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137). Art. 3 comma
1 lettera n) legge costituzionale 6 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna). Art. 6
decreto del Presidente della Repubblica 22 maggio 1975, n. 480 (Nuove norme di attuazione dello
statuto speciale della regione autonoma della Sardegna).
orme oggetto. Art. 1 legge regionale della Sardegna 2 agosto 2013, n. 19 (Norme urgenti in
materia di usi civici, di pianificazione urbanistica, di beni paesaggistici e di impianti eolici).
Massima 1: Il piano regionale straordinario di accertamento demaniale può prevedere una
“sclassificazione” e cessazione degli usi civici, se prevede che “la tempestiva Comunicazione del
Piano straordinario di accertamento e degli altri atti modificativi dei vincoli di destinazione ai
competenti organi statali, affinché lo Stato possa far valere la propria competenza a tutelare il
paesaggio con la conservazione dei vincoli esistenti o l’apposizione di diversi vincoli, e affinché,
in ogni caso, effetti giuridici modificativi del regime dei relativi beni non si producano prima, e al
di fuori, del Piano paesaggistico regionale”.
Massima 2: La legge regionale non può consentire ai Comuni di attuare transazioni giudiziarie
in materia di usi civici: tutt’al più, i Comuni potranno avanzare proposte in tal senso.
Link al documento
La sentenza dichiara incostituzionale l’art. 1 della legge regionale n. 19/2013 della Sardegna.
L'intervento della Corte è di tipo manipolativo, additivo in una delle parti del dispositivo, sostitutivo
in un'altra parte.
1. L'art. 1, comma 3, della legge in oggetto consentiva ai Comuni di proporre (alla Giunta
regionale) “permute, alienazioni, sclassificazioni e trasferimenti” degli usi civici, nel quadro della
ricognizione prevista dal piano straordinario di accertamento demaniale. In base al comma 4, se la
Regione avesse accolto la proposta di “sclassificazione” dell’uso civico47, con riferimento a una
determinata area territoriale che ne era gravata, l’uso civico sarebbe cessato con effetto immediato.
A giudizio della Corte, la Sardegna non ha esercitato la potestà legislativa primaria in tema di usi
civici - pur riconosciuta dall'art. 3, co. 1, lett. n), statuto regionale - in armonia con la Costituzione,
la quale assegna allo Stato la potestà legislativa esclusiva in tema di ambiente (art. 117, co. 2, lett.
s), Cost.) e tutela il paesaggio della Nazione (art. 9 Cost.). Inoltre, le disposizioni impugnate si
47
Nel corso del giudizio, gli usi civici venivano definiti dal Governo ricorrente come “diritti reali millenari di natura
collettiva, volti ad assicurare un’utilità o comunque un beneficio ai singoli appartenenti ad una collettività”.
24
pongono in contrasto con il d. lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) con l'art.
142, comma 1, lettera h), il legislatore statale ha stabilito che gli usi civici “sono comunque di
interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni” del Codice, le quali sono state più volte
qualificate dalla Corte Costituzionale come “norme di grande riforma economico-sociale”, al punto
da imporsi al rispetto del legislatore della Regione sarda.
Perché lo Stato possa esercitare la tutela ambientale e paesaggistica affermata dal Codice dei beni
culturali e del paesaggio, è necessario che “possa far valere gli interessi di cui è portatore sin nella
formazione del piano straordinario di accertamento demaniale, concorrendo a verificare se
sussistano o meno le condizioni per la loro stessa conservazione, ferme restando le regole nazionali
inerenti al loro regime giuridico e alle relative forme di tutela”. Infatti, gli usi civici “non trovano la
loro fonte nel dato puramente geografico, oggetto di mera rilevazione nel piano paesaggistico (come
accade, ad esempio, per le fasce di rispetto), bensì in precedenti atti amministrativi, cosicché è in
questa fase a monte che si consuma la scelta ambientale”. Se - in virtù di un atto amministrativo viene meno l’uso civico con riferimento ad un’area territoriale, risulta difficile sottoporre quest'area
ad un’equivalente forma di tutela: “il mantenimento delle caratteristiche morfologiche ambientali
richiede non una disciplina meramente ‘passiva’, fondata su limiti e divieti, ma un intervento attivo”
che in questo caso viene affidata “alla collettività invece che alle istituzioni”, e così “si concreta in
particolari modalità di uso e di godimento, che garantiscono insieme la fruizione e la conservazione
del bene”.
Alle somme, la legge regionale sarda può disciplinare un procedimento di “sclassificazione” e
cessazione degli usi civici, in virtù della potestà legislativa prevista dallo statuto regionale. Al
contempo, la Regione Sardegna deve consentire allo Stato di intervenire in questo procedimento; ne
discende che il legislatore regionale deve prevedere un obbligo di tempestiva comunicazione nei
confronti dei competenti organi statali.
2. L'art. 1, comma 3, della legge in oggetto prevedeva, altresì, la possibilità che i Comuni attuassero
processi di transazione giurisdizionale, nel quadro di procedimenti giudiziari in corso, aventi ad
oggetto diritti reali gravati da usi civici. Poiché il potere di transigere in procedimenti relativi agli
usi civici incide direttamente sulla ricognizione degli stessi, la Corte ha dichiarato l’illegittimità di
questo disposto, richiamando implicitamente le considerazioni svolte in precedenza. Il legislatore
regionale può autorizzare i Comuni a “proporre” processi transattivi in tema di usi civici, ma non ad
“attuarli”.
25
Le ordinanze del sindaco possono limitare gli orari di apertura delle sale da gioco.
Annotazione alla sentenza della Corte Costituzionale 09.07.2014, n. 220
di icola Dessì
Parole chiave: commercio; tutela della concorrenza; sale da gioco, apparecchi da gioco e
ludopatia
Riferimenti normativi: Artt. 32, 118 co. 1, Cost.
Artt. 42 e 50, co. 7, decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali). Art. 31, co. 2, decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201
(Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, co. 1, legge 22 dicembre 2011, n. 214;
Massima: Rientra tra i poteri del sindaco in tema di orari degli esercizi commerciali, anche
quello di limitare gli orari d’apertura delle sale da gioco, allo scopo di contrastare il gioco
d'azzardo patologico, seppure questo potere non sia espressamente menzionato dal Testo unico
degli enti locali.
Link al documento
Con la sentenza n. 220/2014, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile, per omesso esame
di possibile interpretazione conforme a Costituzione, una questione di legittimità costituzionale
sollevata dal TAR Piemonte sul potere dei Comuni di regolamentare gli orari di apertura delle sale
da gioco. Inoltre, la Corte ha dichiarato inammissibile, per difetto di motivazione, un'altra questione
di legittimità costituzionale. Una terza questione di legittimità costituzionale è stata dichiarata
inammissibile, per indeterminatezza ed ambiguità del petitum.
Le tre ordinanze di rinvio ritenevano in contrasto con gli artt. 32 e 118, comma 1, Cost., le seguenti
disposizioni: artt. 42 e 50, comma 7, TUEL; art. 31, comma 2, d.l. n. 201/2011, convertito con
modificazioni dalla l. n. 214/2011 (cd. “SalvaItalia”).
1. L'art. 50, comma 7, TUEL, conferisce ai sindaci il potere di “coordinare e organizzare gli orari
degli esercizi commerciali”. La disposizione impugnata non impedisce ai sindaci il potere di
organizzare e coordinare gli orari delle sale da gioco, nonostante questo specifico potere non sia
espressamente conferito. Di conseguenza, non impedisce agli organi del Comune di contrastare
efficacemente il gioco d'azzardo patologico, svolgendo una funzione necessaria per la tutela della
salute48, diritto tutelato dall'art. 32 Cost.; inoltre, il TUEL non sottrae tale funzione al Comune, il
quale, secondo l'art. 118 comma 1 Cost., è titolare, in via generale, delle funzioni amministrative
Anzi, la giurisprudenza amministrativa “ha riconosciuto che − in forza della generale previsione
dell’art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267 del 2000 − il sindaco può disciplinare gli orari delle sale
giochi e degli esercizi nei quali siano installate apparecchiature per il gioco e che ciò può fare per
esigenze di tutela della salute, della quiete pubblica, ovvero della circolazione stradale”. Non
48
L'art. 7 del d.l. n.158/2012 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di
tutela della salute), convertito dalla l. n. 189/2012, dispone misure urgenti per il contrasto alle ludopatie.
26
mancano pronunce di senso opposto49, ma in questi casi, secondo la Corte, il giudice amministrativo
ha omesso “di confrontarsi con altre possibili soluzioni interpretative, limitandosi a richiamare solo
alcune pronunce di merito, a sostegno della illegittimità delle ordinanze in esame”.
Inoltre, la Corte fa notare che, in base alla giurisprudenza, “il potere di limitare la distribuzione sul
territorio delle sale da gioco (…) potrebbe altresì essere ricondotto alla potestà degli enti locali in
materia di pianificazione e governo del territorio”.
Così interpretata, la disposizione impugnata non impedisce ai sindaci di agire contro le ludopatie.
Di conseguenza, è possibile interpretare la disposizione in senso conforme alla Costituzione50.
2. L'art. 31, co. 2, del cd. decreto SalvaItalia liberalizza, in via generale, le attività commerciali,
sottraendo l’apertura dei nuovi esercizi a limitazioni e vincoli di qualsiasi natura. Il principio
generale affermato dalla disposizione è quello della “libertà di apertura” degli esercizi commerciali:
ne consegue che essa non si applica che ai nuovi esercizi commerciali.
Le ordinanze di rinvio non precisano se gli esercizi coinvolti nella controversia sono, o no, di nuova
apertura. Ne consegue che il giudice a quo non ha fornito una motivazione sufficiente alla necessità
di fare ricorso, nel giudizio, alla norma impugnata: e, dunque, alla necessità di porre una questione
di legittimità costituzionale a proposito della norma stessa. Pertanto, la questione è inammissibile.
D'altro canto, l'art. 31, co. 2, non stabilisce una libertà assoluta nell'apertura di nuovi esercizi. In
base alla stessa disposizione, sono ammesse deroghe al principio generale che impedisce
“limitazioni e vincoli”, in presenza di esigenze connesse - tra l'altro - alla tutela della salute. In tali
esigenze rientra il contrasto alle ludopatie51.
3. L'art. 42 del TUEL elenca le attribuzioni dei consigli comunali. I giudici rimettenti lamentano
l'assenza di specifiche disposizioni in merito al potere dei consigli di adottare misure a contrasto del
gioco d'azzardo patologico. In proposito, la Corte rileva che “il rimettente non invoca affatto una
pronuncia ablativa della norma censurata, ma richiede piuttosto un intervento di tipo additivo, volto
ad ampliare l’ambito delle attribuzioni consiliari, in una prospettiva di contrasto e prevenzione dei
fenomeni patologici connessi al gioco”, senza però che il rimettente chiarisca la direzione e il
contenuto dell'intervento richiesto alla Corte. Perciò, la questione è stata dichiarata inammissibile,
dal momento che il petitum è risultato viziato da “indeterminatezza e ambiguità”.
Le ordinanze di rinvio erano tre. Le prime due traevano origine dai giudizi relativi all’impugnazione
49
Una decisione recente, di poco anteriore rispetto alla sentenza in esame, aveva affermato che l'art. 50 comma TUEL
non consente ai sindaci di limitare gli orari delle sale da gioco. In quel caso, si era ritenuto che la finalità di lotta alla
ludopatia fosse estranea all'esigenza di “armonizzare l’espletamento dei servizi con le esigenze complessive e generali
degli utenti” che la stessa disposizione del TUEL indica come fondamento del potere di organizzare gli orari degli
esercizi commerciali. Così TAR Liguria, sentenza 5 febbraio 2014, n. 194 (ma cfr. anche TAR Lombardia, Brescia, sez.
II, 31 agosto 2012, n. 1484). Si veda la nota a sentenza di D. FORMAGGIO, contenuta nel n. 5 di OPAL.
50
Con la sentenza n. 300/2011, la Corte Costituzionale ha escluso la riserva di legge statale in materia di ordine
pubblico, qualora lo scopo delle norme non sia quello di reprimere una condotta penalmente rilevante, ma solo quello di
“preservare dalle implicazioni negative del gioco, anche se lecito, determinate categorie di persone, non in grado, per
le loro condizioni personali, di gestire in modo adeguato l’accesso a tale forma di intrattenimento”.
51
La già citata sentenza del TAR Liguria (n. 194/2014) aveva giudicato contra legem - apoditticamente, in verità - un
regolamento comunale che disciplinava e limitava gli orari delle sale da gioco. Infatti, l'art. 3 del d.l. n. 138/2011
(Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito con modificazioni dalla l. n.
148/2011, impone di adeguare l'ordinamento al principio della libertà dell'iniziativa privata, permettendo tutto ciò che
non è espressamente vietato dalla legge, e limitando tassativamente le ipotesi in cui la legge può porre dei divieti. Si
tratta di una disposizione per certi versi analoga all'art. 31, co. 2, del SalvaItalia: anche in questo caso, infatti, è
enunciato il principio generale della libertà di iniziativa. Diversamente dal SalvaItalia, però, l'art. 3 del d.l. n. 138/2011
non consente espressamente che si possa derogare a tale principio generale per esigenze dettate dalla tutela della salute,
ma - tutt'al più - quando sia necessario per rispettare i principi fondamentali della Costituzione.
27
di un’ordinanza del sindaco di Rivoli, con il quale era stata ordinata la limitazione oraria nell’uso di
tali apparecchi, nonché il regolamento sulle sale da gioco del medesimo Comune di Rivoli. La terza
ordinanza di rinvio, invece, veniva emessa dopo che il TAR aveva annullato due ordinanze del
sindaco di Santhià - volte a limitare l’apertura di nuove sale da gioco in centro storico - ed era stato
chiamato a giudicare la legittimità del regolamento che il Comune di Santhià aveva adottato in
materia. I ricorrenti nel giudizio a quo avevano fondato le loro pretese sull'assenza di un potere
normativo comunale espresso in materia di orari delle sale da gioco.
28
PARTE III
CITTADII ED ETI
La lenta trasformazione delle Comunità montane piemontesi in Unioni montane di Comuni.
ota alla sentenza del TAR Piemonte del 25.06.2014, n. 1116.
di Elisa Bellomo
Parole-chiave: gestione associata funzioni; Comuni; comunità montane; Unione montana; canoni
di concessione delle acque minerali e di sorgente destinate all’ imbottigliamento.
Riferimenti normativi: legge regionale 28 settembre 2012, n. 11; legge regionale 14 marzo 2014,
n. 3; Regolamento regionale 10 ottobre 2013 8/R.
Link al documento
Il Tar Piemonte Sez. I con sentenza n. 1116 del 25 giugno 2014, accogliendo un ricorso per
annullamento del decreto del Presidente della Giunta del 7 ottobre 2013 n. con cui è stato emanato
il regolamento regionale 8/R recante “disciplina dei canoni di concessione delle acque minerali e di
sorgente destinate all’imbottigliamento” si pronuncia sul nuovo ordinamento regionale dei territori
montani.
La Comunità montana Valle Stura impugna il regolamento in questione, in quanto esclude dai
beneficiari del gettito del canone le comunità montane, in violazione dell'art. 25 della l.r. n. 25/1994
(Ricerca e coltivazione di acque minerali e termali). L’amministrazione regionale resistente
eccepisce che il regolamento impugnato ha semplicemente preso atto che le comunità montane, nel
nuovo ordinamento, previsto dalla l.r. n. 11 del 2012, sono state sostanzialmente eliminate e
sostituite da unioni di Comuni.
La soppressione delle comunità montane è avvenuta ad opera della legge regionale del 28 settembre
2012, n. 11 (Disposizioni organiche in materia di enti locali), che fa seguito all'art. 2 comma 18
della legge 24 dicembre 2007, n. 241 (Legge finanziaria per il 2008), e successive disposizioni
ulteriori, nonché ad alcune riforme in altre Regioni52.
La pronuncia del collegio in commento ricostruisce, peraltro, la trasformazione ordinamentale del
territorio, evidenziandone le complicazioni.
La sentenza osserva che l’ art. 1253 l.r. n. 11/2012 non prevede una soppressione hic et nunc delle
comunità montane esistenti, ma una serie di procedimenti di trasformazione e successione che
possono variare tra la scelta di istituire delle unioni montane e quella di un commissariamento
regionale. La non automaticità è inoltre desumibile nell’ art. 14l. r. n. 11/201254 secondo cui, solo al
52
P. MORBIOLI, R. TOMMASI, Il riordino territoriale e istituzionale delle comunità montane, in Le istituzioni del
federalismo, Suppl. n. 4, 2008, pagg. 17 e ss.
53
Art. 12 l. r. n. 11/2012 recita “1. L'assemblea dei sindaci di ciascuna delle attuali comunità montane, entro il termine
perentorio di novanta giorni dall'entrata in vigore della presente legge, con deliberazione assunta a maggioranza può
chiedere alla Regione che l'ambito territoriale della Comunità montana sia individuato come ambito ottimale di
gestione associata per la costituzione di una o più unioni montane di Comuni (...)”.
54
Art. 16. Estinzione delle comunità montane
1. Al termine della procedura di liquidazione, il Presidente della Giunta regionale, con proprio decreto, dichiara
estinta la Comunità montana.
2. Il Presidente della Giunta regionale può adottare ogni atto necessario alla liquidazione della Comunità
montana e alla successione nei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo all'ente estinto.
29
termine di apposita procedura di liquidazione, il “Presidente della Giunta regionale, con proprio
decreto, dichiara estinta la Comunità montana”. Il procedimento di trasformazione è
particolarmente complesso in quanto la legge prevede una disciplina ad hoc sia per il trasferimento
del personale dalla Comunità montana alle unioni montane di Comuni (art. 18 l. r. 11/2012), sia per
la successione nei rapporti attivi e passivi. Infatti, sul territorio della Regione Piemonte, non si sta
assistendo ad un’abolizione tout court di un ente intermedio quale la Comunità montana, bensì a
una sostituzione con un nuovo soggetto volto ad acquisire funzioni e beni. L’art. 1 della l.r. n.
11/2012 individua le ragioni per cui la Regione Piemonte ha attuato un riassetto dei livelli di
governo delle autonomie locali: l’individuazione dei Comuni quali primi destinatari delle funzioni e
primi referenti nell’erogazione dei servizi amministrativi ai cittadini persegue la semplificazione
amministrativa e il contenimento della spesa pubblica.55 Nel farlo tuttavia sono state prese in
considerazione le specificità morfologiche dei territori montani e collinari e le particolari esigenze
dei cittadini ivi residenti.
I commi 5 e 6 dell’articolo spiegano che nel rispetto delle disposizioni di cui all’articolo 9, comma
1 bis del d.l. n. 95 del 6 luglio 2012 “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con
invarianza dei servizi ai cittadini”, così come modificato dalla legge 7 agosto 2012, n. 13556, la
Regione utilizza la regolamentazione della gestione associata obbligatoria delle funzioni e dei
servizi di competenza comunale e del superamento delle attuali comunità montane guardando alle
unioni di Comuni (art. 4 l.r. n.11/2012) o alle convenzioni (art. 5 l.r. 11/2012)57.
L’art. 2, invece, sintetizza l’ambito di applicazione della legge, richiamando l’individuazione della
dimensione territoriale ottimale e del limite demografico minimo di gestione obbligatoria, le forme
di esercizio associato, i requisiti di aggregazione e le procedura di individuazione degli ambiti
ottimali, le modalità di incentivazione alla fusione di Comuni, la trasformazione, appunto, delle
comunità montane in unioni montane di Comuni ed il procedimento di estinzione delle attuali
comunità montane.
I capi II e III della legge disciplinano le forme di esercizio associato di funzioni e servizi e richiama
le leggi statali che le impongono in un’ottica di risparmi di spesa e di razionalizzazione delle risorse
pubbliche, definendo i requisiti statutari minimi che l’Unione di comuni deve possedere.
La Regione, inoltre, ai sensi dell’art. 6, inoltre, ed ai fini dell'esercizio associato delle funzioni
comunali, prevede la divisione del territorio in tre grandi macroaree omogenee: a) area montana, b)
area collinare e c) area di pianura58. Vanno considerati come appartenenti all’area montana tutti i
Comuni ricompresi nelle comunità montane. L’appartenenza dei Comuni aggregati alla stessa
macroarea costituisce un criterio ottimale di aggregazione.
Infine, il Capo VII contiene le norme relative alle comunità montane. In particolare, i Comuni
appartenenti alle attuali comunità montane, possono richiedere alla Regione, all’unanimità o a
maggioranza dei Comuni interessati, di individuare l’ambito della Comunità montana, o parte di
esso, come ambito ottimale di gestione associata, al fine dell’istituzione di un’Unione montana di
comuni. In tale caso, estinta la Comunità montana secondo le procedure descritte negli articoli
successivi, l’Unione dei Comuni succede nei rapporti attivi e passivi della Comunità montana
estinta, secondo una gradualità dettagliata nella disposizione normativa.
Così come anche ricostruito dal TAR Piemonte, il percorso normativo di superamento delle
55
Per una più completa disamina degli obiettivi che la legge regionale intenderebbe perseguire, si veda la Relazione al
Disegno di legge regionale n. 92 presentato il 16 dicembre 2011 consultabile sul sito
http://arianna.consiglioregionale.piemonte.it
56
Per una rassegna del quadro legislativo nazionale di riferimento in merito alla gestione associata dei servizi e delle
funzioni fondamentali si veda il Manuale delle gestioni associate comunali – 2014, ANCI Piemonte, reperibile sul sito
www.anci.piemonte.it.
57
Cfr. artt. 30 e 32 del TUEL.
58
Cfr. deliberazione del Consiglio regionale del 12 maggio 1988 n. 826-6658 (Classificazione e ripartizione del
territorio regionale fra montagna, collina e pianura).
30
comunità montane, iniziato con la legge regionale n. 11/2012, tuttavia, non ha ancora avuto
concreta attuazione, entro il termine ordinatorio di tre mesi indicato dalla legge. La fase di
commissariamento delle comunità montane, propedeutica all’estinzione, infatti, ha incontrato non
pochi momenti di incertezza da parte dei Comuni.
Nell’ ottica di attuazione di politiche di salvaguardia, di sviluppo della montagna ed erogazione dei
servizi essenziali che necessita di particolare attenzione proprio per le caratteristiche della montagna
stessa, il legislatore regionale è intervenuto, inoltre, con la legge regionale 14 marzo 2014, n 3
“Sulla montagna” al fine di riconoscere, nel quadro delle finalità di cui all’articolo 44, secondo
comma, della Costituzione, la specificità delle aree montane, di promuoverne lo sviluppo socioeconomico, e di perseguire l’armonico riequilibrio delle condizioni di esistenza delle popolazioni
montane, la salvaguardia del territorio e la valorizzazione delle condizioni di esistenza delle risorse
umane e culturali (art. 1). Considerato che solo l’Unione dei comuni è la forma associativa in grado
di attuare le politiche regionali per la montagna, la legge regionale n. 3/2014 si propone di dare
impulso alla formazione di unioni montane destinate a subentrare nelle comunità montane per
esercitare le funzioni più strettamente connesse alla specificità delle zone montane ed accedere alle
provvidenze del fondo regionale per la montagna (artt. 6 e 16). In particolare, per unione montana si
intende l’Unione di comuni, di durata non inferiore a dieci anni e avente potestà statutaria e
regolamentare, costituita tra Comuni montani, classificabili come tali, oppure anche da Comuni non
montani già appartenenti o appartenuti a comunità montane (art. 2). Il ruolo fondamentale delle
unioni montane trova effettivo riscontro anzitutto nelle funzioni che le stesse sono chiamate a
svolgere a favore della montagna, in parte riconducibili a quelle già svolte dalle comunità montane,
in parte di titolarità comunale, da esercitare in forma associata tramite l’unione proprio in ragione
della specificità delle zone montane (art. 3). La legge dedica particolare attenzione al mantenimento
in montagna dei servizi scolastici, e più in generale, dei servizi essenziali, rispetto ai quali le unioni
montane, quando create, assumono la responsabilità principale (art. 7)59. Appare pertanto evidente
che, anche con la legge regionale n. 3/2014, si è voluto dare vigore e impulso al processo di
trasformazione della geografia territoriale degli enti locali appartenenti all'ambiente montanaro;
processo, tuttavia, che non è privo di difficoltà e rallentamenti e di cui è stato dato riscontro nella
sentenza del TAR.
I giudici hanno sottolineato come, seguendo il canone di interpretazione sistematica delle leggi
regionali che si sono susseguite nel tempo, non vi è stata alcuna radicale soppressione delle
comunità montane come enti intermedi, quanto piuttosto la ricerca di una loro graduale sostituzione
con le unioni montane, chiamate in linea di principio ad esercitarne le funzioni. L'art. 25, comma 4,
della legge regionale 4 maggio 2012 n. 5, intitolata “Legge finanziaria per l’anno 2012”, nel dettare
i criteri di riparto del canone di concessione delle acque minerali tra gli enti locali interessati,
richiede di individuare “gli enti territoriali e locali” come “destinatari dei proventi in ragione della
sottrazione di risorse e degli impatti dagli stessi subiti per effetto dell’esercizio dell’attività”. Ciò
posto, il regolamento di delegificazione, quindi, avrebbe dovuto, nell’individuazione dei soggetti
interessati dalla concessione, prendere in considerazione anche le comunità montane, perché
«parallelamente coinvolti da una complessa evoluzione normativa la quale trova la
regolamentazione dell’eventuale successione dei rapporti patrimoniali al momento dell’effettiva
estinzione dell’ente». Pertanto, è giudicata incongruente la scelta di escludere dalla devoluzione del
gettito del canone per le acque minerali le comunità montane, fin quando le stesse sono presenti sul
territorio della Regione Piemonte. Incongruenza evidente in relazione all’art. 5 della l.r. 3/2014, che
ha individuato tra i fondi per alimentare il “Fondo regionale per la montagna”, a sua volta destinato
alla copertura finanziaria delle Unioni di Comuni di nuova istituzione, “c) i proventi di competenza
regionale derivanti da canoni di concessione delle acque minerali e di sorgente destinate
59
Per un approfondimento dell’analisi del contenuto della legge regionale n. 3 del 2014 si veda la Relazione al Disegno
di
Legge
regionale
n.
373
presentato
il
23
ottobre
2013
consultabile
sul
sito
http://arianna.consiglioregionale.piemonte.it
31
all’imbottigliamento” così rimarcando, quale soggetto destinatario dei canoni in questione, la
Comunità montana - destinate a estinguersi, ma tale fino a quando presente sul territorio regionale nella cui posizione subentrerebbe l'Unione montana di comuni.
Per queste ragioni, e nel rispetto del percorso di superamento delle comunità montane così come
definito dal legislatore con le due leggi che si sono susseguite nel tempo, posto che non è
giustificabile discriminare tali enti presenti sul territorio, il collegio accoglie il ricorso e, per
l’effetto, annulla l’art. 2 dell’impugnato regolamento nella parte in cui non inserisce le comunità
montane tra i beneficiari del canone.
32
I tagli alla mobilità sanitaria interregionale.
ota alla sentenza del Consiglio di Stato n. 296/2014
di Andrea Patanè
Parole chiave: Mobilità sanitaria interregionale.
Riferimenti normativi principali: Intesa tra Governo, Regioni e Province autonome del 10
luglio 2014, c.d. “Patto della salute 2014-2016”.
Massima: In regime di piano di rientro, è legittimo tagliare unilateralmente i fondi per la
mobilità sanitaria verso un'altra Regione.
Link al documento
1. Il quadro normativo.
Per mobilità sanitaria interregionale si intende la possibilità per il cittadino residente in una Regione
di ottenere l’erogazione di una prestazione sanitaria da un’Azienda sanitaria locale di un’altra
Regione. Questo scritto, secondo la tradizione dell’Osservatorio per le Autonomie Locali, analizza
alcuni accordi, provvedimenti amministrativi e decisioni giurisprudenziali che assumono una
particolare rilevanza riguardo a tale istituto.
Il primo riferimento normativo che deve essere fatto è quello all’articolo 12, co. 3, del d.lgs. n 502
del 1992, così come modificato dall’articolo 14 d.lgs. n. 517 del 1993. La disposizione prevede, con
riguardo al fondo sanitario nazionale, che il finanziamento per le prestazioni erogate in caso di
mobilità sanitaria debba essere compensato «in sede di riparto, sulla base di contabilità analitiche
per singolo caso fornite dalle unità sanitarie locali e dalle aziende ospedaliere attraverso le
Regioni e le Province autonome». Il successivo articolo 8-sexies, co. 8, del d.lgs. n. 502/1992
sancisce che:“Il Ministro della sanità, d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo
Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, sentita l'Agenzia per i servizi
sanitari regionali, con apposito decreto, definisce i criteri generali per la compensazione
dell'assistenza prestata a cittadini in regioni diverse da quelle di residenza. (ell'ambito di tali
criteri, le regioni possono stabilire specifiche intese e concordare politiche tariffarie, anche al fine
di favorire il pieno utilizzo delle strutture e l'autosufficienza di ciascuna regione, nonché l'impiego
efficiente delle strutture che esercitano funzioni a valenza interregionale e nazionale”.
Il fenomeno non può essere ritenuto marginale, soprattutto per alcune Regioni: si consideri come in
alcuni casi il rimborso incide in modo non trascurabile sul bilancio della Regione di provenienza . 60
Allo stesso tempo la fruizione, da parte di molti utenti, dei servizi sanitari nelle Regioni riceventi
comporta conseguenze rilevanti in termini di organizzazione.
A dimostrazione di una non marginalità del fenomeno si consideri il numero di accordi che, ormai
da diversi anni, le Regioni hanno sottoscritto per cercare di regolamentare i propri rapporti in ordine
60
In tal senso G. ZUCCATELLI, La mobilità sanitaria: un fenomeno da governare, in Monitor n. 29/2012 p. 6 «Per
avere un’idea delle cifre in gioco, quando parliamo di mobilità di confine dobbiamo considerare che per la mobilità
per i ricoveri per acuti nel 2008, su un totale di circa 2,4 miliardi di euro scambiati e più della metà sono stati
scambiati tra regioni confinanti. Su questi scambi il privato pesa per circa un terzo, quando nella mobilità». Tra i dati a
sostegno,
vedi
tabella
C
dell’accordo
sul
riparto
del
Fondo
Sanitario
Nazionale
2014
(http://www.agenas.it/images/agenas/Agenews/newsletter7/riparto_fsn.pdf). Una valutazione dalla giurisprudenza «Al
riguardo si deve, in primo luogo, osservare che, in linea generale, non può ritenersi irrilevante per una Regione che le
prestazioni sanitarie vengano erogate in favore dei residenti nella stessa regione ovvero in favore di residenti in altre
regioni tenuto conto dell'interesse, proprio di ogni Regione, di soddisfare innanzitutto le esigenze sanitarie dei propri
residenti» (Cons. di Stato n. 495/2012 Sez. Terza).
33
ai rimborsi delle prestazioni erogate.61
Da ultimo, sul punto, il Patto per la salute 2014-2016, all’articolo 9 commi 2-5, interviene sugli
accordi finalizzati alla compensazione della mobilità interregionale prevedendone, tra l’altro,
l’obbligatorietà. Gli accordi dovranno essere finalizzati a disciplinare le “modalità di
compensazione dei costi dei ricoveri ospedalieri erogati, da unità operative e/o strutture
pediatriche”.62 A tal riguardo, conviene già anticipare l’idea che l’accordo tra le Regioni per una
programmazione territoriale di area vasta può essere lo strumento migliore attraverso cui i soggetti
istituzionali possono riuscire a bilanciare correttamente le esigenze in questione.
Occorre poi tener conto di alcuni provvedimenti assunti per l’attuazione dei piani di rientro ed il
loro rapporto con la mobilità sanitaria interregionale. Anche tralasciando di ripercorrere in questa
sede la vicenda dei piani di rientro e le problematiche sottese63, occorre ricordare come in caso di
mancato rispetto del piano sottoscritto è necessaria la nomina di un Commissario ad acta per la sua
attuazione.64 A tal riguardo, il Presidente della Regione Campania, nella sua funzione di
Commissario ad acta per il piano di rientro, al fine di ridurre la spesa, ha adottato i decreti
commissariali prot. n. 30 del 15.3.2012, prot. n. 72 del 29.6.2012, prot. n. 134 del 10.10.2012 e
prot. n. 17 del 12.2.2013 con cui ha stabilito che debba essere rilasciata una preventiva
autorizzazione da parte dell’Asl di competenza per ottenere il rimborso delle prestazioni sanitarie
nella Regione Lazio per i cittadini residenti nella Regione Campania; tale scelta ha trovato
conferma, da ultimo, nel decreto prot. n. 3 del 2014 dello stesso Commissario.
2. Il taglio commissariale dei fondi di mobilità sanitaria della Regione Campania.
Sulla scorta dei provvedimenti adottati dal Commissario, l’Associazione Italiana Ospedaliera
Privata per la Regione Lazio ha proposto ricorso contro per ottenere l’annullamento dei suddetti
decreti del Presidente della Regione in qualità di Commissario ad acta.
In prima istanza il TAR per la Regione Campania ha accolto le doglianze della ricorrente statuendo
che si deve escludere che la Regione, ancorché per motivi inerenti le esigenze di bilancio, possa
unilateralmente disciplinare la mobilità sanitaria verso altre Regioni. Sono diversi i motivi dei
ricorrenti accolti dal giudice amministrativo per la Campania. Due di essi rappresentano il cuore
della questione e lasciano intendere la più ampia complessità in ordine alle esigenze da bilanciare.65
Il primo aspetto dei provvedimenti del Commissario ad acta considerato dai giudici attiene
61
Da ultimo, in ordine di tempo, quello sottoscritto tra la Regione Umbria e la Regione Lazio il 9 gennaio 2015. Per un
confronto sui dati della mobilità sanitaria interregionale in alcune Regioni delle tre grandi aree del Paese si veda
http://151.1.149.50/mobilita-sanitaria
per
la
Regione
Lazio;
http://www.sito.
regione.campania.it/burc/pdf06/burc42or_06/del1200_06.pdf
per
la
Regione
Campania;
http://www.sistemapiemonte.it/cms/pa/sanita/143-flussi-informativi-regionali
per
la
Regione
Piemonte;
http://statistica.regione.veneto.it/banche_dati_societa_sanita.jsp
per
la
Regione
Veneto;
http://www.sanita.puglia.it/portal/page/portal/%20SAUSSC/Sistemi%252Informativi/Flussi
%20informativi/Aree/Mobilita%20sanitaria per la Regione Puglia.
62
Sulla questione della mobilità interregionale era già intervenuto il Patto per la salute 2010-2012, G. CARPANI, Il Patto
per la salute 2010-2012; questioni vecchie e modalità nuove di governo condiviso e responsabile del servizio sanitario,
in Amministrazione in Cammino, 28 novembre 2009.
63
Per necessità di sintesi si tralascia di ripercorrere in questa sede la vicenda dei Piani di rientro e delle problematiche
ad essa sottese, vedi M. BELLENTANI, L.BUGLIARI ARMENIO, La logica dei piani di rientro e il difficile equilibrio
tra autonomia e responsabilità in, a cura di, R. BALDUZZI, G. CARPANI, Manuale di diritto sanitario, Bologna,
2013. D. PARIS, Il Titolo V alla prova dei Piani di rientro: delegificazione dei principi fondamentali e asimmetria tra
Stato fra Stato e Regioni nel rispetto delle procedure di leale collaborazione, in Le Regioni, n. 1-2 Febbraio Aprile
2014. G. CARPANI, I piani di rientro tra emergenze finanziarie e l’equa ed appropriata erogazione dei Lea, in a cura
di R. BALDUZZI, La sanità italiana alla prova del federalismo fiscale, Bologna, Il Mulino, 2012.
64
M. BELLETTI, Poteri statali di garanzia e decisione ultima, commissariamenti e centralizzazione delle decisioni, in
atti del Convegno Dieci anni dopo più o meno autonomia regionale?, svoltosi a Bologna il 27 e 28 gennaio 2011; F.
MERLONI, Una definitiva conferma della legittimità dei poteri sostitutivi regionali, in Le Regioni, n. 4/2004; G.
AVANZINI, Il commissario straordinario, Torino, Giappichelli, 2013.
65
Si tralasciano in questa sede tutti i motivi dell’accoglimento da parte del TAR per la Regione Campania inerenti ad
aspetti processuali o che non attengono alla questione oggetto della presente riflessione.
34
all'eccepita violazione della libertà di scelta della cura e della struttura sanitaria.66 Si censura la
decisione, perché assunta senza previo accordo con la Regione Lazio.67 In effetti, la Regione che
limita la mobilità verso altre Regioni lo fa motivando questa scelta per l’esigenza di
programmazione delle risorse, ma allo stesso tempo condiziona la Regione che ha organizzato la
propria offerta anche su un flusso in entrata. L’argomento dei ricorrenti è che se la Regione
programma i propri servizi con riferimento alle richieste, l’organizzazione deve tenere conto anche
delle richieste della Regione da cui proviene la mobilità.68 Secondo i ricorrenti, l’adozione di un
provvedimento unilaterale viola “i principi di legalità, eguaglianza, leale collaborazione e
semplificazione”. Va ricordato, inoltre, che i ricorrenti avevano prospettato ulteriori profili di
contrasto con la disciplina della direttiva n. 2011/24 UE in materia di cure transfrontaliere. 69
Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 296/2014, ha riformato la pronuncia del TAR, e statuito che
è legittimo il provvedimento del Commissario ad acta per l’attuazione del piano di rientro della
Regione Campania sebbene sia un provvedimento che unilateralmente ha limitato la mobilità dei
cittadini per ottenere cure in altre Regioni. Nel riformare la sentenza di primo grado, i giudici del
Consiglio di Stato hanno inquadrato la questione anzitutto facendo riferimento ai principi
organizzativi su cui si fonda l’assistenza sanitaria nazionale, e in particolare prendendo le mosse dai
principi stabiliti dal d.lgs. n. 502/1992. Più in dettaglio, prima di affrontare la questione nel suo
punto crucis, i giudici hanno riconosciuto che non è possibile programmare una spesa senza porsi
alcun limite e “avendo riguardo soltanto ai bisogni, quale ne sia la gravità e l’urgenza”; e che,
dunque, “la spesa deve essere commisurata alle effettive disponibilità finanziarie, le quali
condizionano la quantità ed il livello delle prestazioni sanitarie, da determinarsi previa valutazione
delle priorità e delle compatibilità e tenuto ovviamente conto delle fondamentali esigenze connesse
alla tutela del diritto alla salute”.
Il Consiglio di Stato ha poi ribadito il principio di libertà dei cittadini di scegliere quale struttura
sanitaria reputano più idonea per ottenere l’erogazione della prestazione e la necessità di
programmare l’attività attraverso un piano regionale capace di migliorare la spesa sanitaria così da
ottenere un’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse sia per garantire un servizio efficiente e così
capace di garantire i LEA.
Nel caso in specie non è dunque in discussione il potere della Regione di assumere delle scelte che
riducano i servizi sanitari, senza intaccare i livelli essenziali; piuttosto la necessità sarebbe quella di
evitare che i cittadini ricorrano, senza una reale esigenza, a prestazioni sanitarie in Regioni diverse
dalla propria e così facendo realizzino uno spreco di risorse economiche ed organizzative della
Regione di residenza.
Il Consiglio di Stato ha così ben inquadrato la questione statuendo che “rilevano intuibili esigenze
di natura economico finanziaria a tutela dell'erario” ma anche che sussistono esigenze “di parità di
trattamento dei cittadini/utenti”. In merito all’eventuale violazione della libera scelta la conclusione
è che il provvedimento del Commissario ad cta non contrasta con il principio di libera scelta del
cittadino in quanto tale previsione è contemplata «da norme nazionali e regionali, si riferisce a
prestazioni prive di complessità e ad alto rischio di inappropriatezza (…) che i cittadini campani
ben possono ottenere nelle strutture sanitarie della Regione, essendo previsto comunque il rilascio
dell’autorizzazione in casi, predeterminati, oggettivamente di necessità».
Sul bilanciamento tra le esigenze di contenimento della spesa ed il diritto di ciascun paziente alla scelta della struttura
sanitaria si veda la sentenza della Corte Costituzionale n. 236/2012.
67
La preventiva autorizzazione è stata stabilita dal provvedimento del Commissario ad acta per le prestazioni sanitarie
erogate nella sola Regione Lazio.
68
In ordine al bilanciamento tra la tutela del diritto alla salute ex art. 32 Cost. e le esigenze di programmazione si
vedano sentenza Corte Cost. n. 200/2005 e n.248/2011.
69
In merito ad una riflessione sulla direttiva 2011/24, mi sia concesso rinviare ad A. PATANÈ, La tutela della salute
dei cittadini dell’Unione Europea nelle prestazioni sanitarie transfrontaliere. Il decreto legislativo n. 38/2014 in
attuazione della direttiva 2011/24 e le possibili conseguenze per il Servizio sanitario regionale, in a cura di A.
CIANCIO, "uove strategie per lo sviluppo democratico e l’integrazione politica in Europa, Aracne, Roma, 2014.
66
35
3. La necessità di un corretto bilanciamento tra le esigenze organizzative ed i principi
costituzionali.
Il tema è di particolare interesse e merita di essere studiato per l’importanza che ha l’organizzazione
della sanità regionale e di conseguenza la salute dei cittadini. L’organizzazione dei servizi sanitari
su base regionale è una scelta assunta dal legislatore ormai da diversi anni così da potersi definire
consolidata. Un quadro legislativo che si colloca pienamente nell’alveo della garanzia costituzionale
della tutela della salute (art. 32). Quest’impostazione non può però far considerare la “rete” del
Servizio Sanitario Nazionale come un sistema realizzato a compartimenti stagni in cui sia impedito
il diritto della scelta per il cittadino del medico e della struttura dove ottenere la prestazione
sanitaria.
Il dato di partenza che si condivide è quello per cui, anche nelle attuali condizioni organizzative ed
economiche, sussiste il diritto di scelta del cittadino a potersi rivolgere alla struttura che ritiene più
idonea al soddisfacimento delle proprie esigenze. Un diritto che però trova il suo limite nello
scorretto utilizzo delle risorse (carenti) a disposizioni delle Regioni.70 Sussiste dunque la necessità di
giungere ad un equilibrio tra la tutela della salute, il diritto alla scelta da parte dei cittadini e le
esigenze di organizzazione e programmazione delle Regioni in virtù di quel rapporto che deve
sussistere tra cittadini residenti e servizi erogati sul territorio. Il contesto in cui inserire tutto ciò è
quello di un regionalismo competitivo ed è dunque condivisibile una libera programmazione di
ciascuna Regione finalizzata ad individuare i propri limiti di spesa ed organizzare di conseguenza
gli investimenti che ritiene più idonei per erogare i servizi ai propri cittadini.
In questo senso una soluzione che sembra andare nella giusta direzione è quella prevista dal Patto
per la salute 2014-2016 in cui è sancita all’articolo 9 la prescrizione di stipulare accordi tra le
Regioni, soprattutto quelle confinanti. Si reputa che tale strumento sia il più adatto in quanto le
Regioni, in uno spirito di leale collaborazione, possono individuare le forme più adatte per
coordinare eventuali (reali) necessità da parte dei cittadini ad ottenere prestazioni da parte di altre
Asl. In assenza dei suddetti accordi, ed in mancanza di una collaborazione costruttiva e leale tra
Regioni, il rischio è quello di veder violato il principio della tutela della salute dei cittadini.
Valga come esempio quanto affermato dal Consiglio di Stato nella citata sentenza in cui si è statuito
che la limitazione alla mobilità è “sottoposta al controllo intrinseco del giudice amministrativo in
merito alla valutazione dei presupposti per la concessione dell’autorizzazione” e che dunque, nel
caso in cui ne ricorrano i requisiti71, sussiste la possibilità di ottenere una tutela giudiziaria.
Non si condivide questa parte di decisione del Consiglio di Stato, perché una tutela di questo tipo
passa attraverso un procedimento complesso e rappresenta una soluzione in ordine al tempo e alla
sostenibilità economica eccessivamente onerosa per molti cittadini che necessitano di una
prestazione sanitaria. Non pare condivisibile la tesi per cui l’esigenza di programmazione, ancorché
in una condizione di risorse limitate, possa dare origine alla limitazione della libertà di scelta da
parte dei cittadini, senza la garanzia di poter ottenere nel proprio territorio la prestazione nel pieno
rispetto dei livelli essenziali di assistenza. Un’impostazione di questo tipo comporterebbe una
violazione del diritto alla tutela della salute realizzando una disparità che non potrebbe trovare
giustificazione nel rapporto che intercorre tra residenza e diritto ad ottenere i servizi. Né può
giustificare una simile violazione l’obiettivo di impedire che si abusi di prestazioni a bassa
complessità (c.d. di routine) presso strutture sanitarie pubbliche o private convenzionate di Regioni
diverse rispetto a quella di residenza.
70
G. ZUCCATELLI, La mobilità sanitaria: un fenomeno da governare, in Monitor n. 29 del 2012, p. 5. La limitazione
al diritto della libertà di scelta del luogo di cura su tutto il territorio nazionale in virtù di limiti oggettivi e rappresentati
dalle risorse finanziarie è stata espressamente contemplata dalla Corte Costituzionale, si vedano le sentenze n.
248/2011, n. 94/2009 e la già citata sentenza 200/2005.
71
I requisiti considerati dal Consiglio di Stato sono quelli previsti nel decreto del Commissario ad Acta:
«indispensabilità di strutture adeguate in Campania, tempi adeguati, urgenza e gravità del caso, cure prestate a
cittadini che già si trovano fuori Regione, urgenza e adeguatezza delle cure e quant'altro».
36
In conclusione, l’accordo tra Regioni sembra essere lo strumento migliore al fine di programmare
su scala più vasta l’offerta dei servizi evitando uno spreco di risorse pubbliche o l’avvantaggiarsi di
soggetti privati a discapito di strutture pubbliche capaci di erogare le prestazioni richieste. Le
Regioni incapaci di erogare servizi adeguati dovranno, anche sulla base dei dati della mobilità
interregionale, adottare le decisioni migliori per correggere eventuali storture nell’erogazione della
prestazione dei servizi sanitari. Queste ultime però non possono trovare nella limitazione alla
mobilità lo strumento per protrarre condizioni di inefficienza in un servizio assai importante qual è
quello dell’erogazione delle prestazioni sanitarie. La soluzione a queste forme di inefficienza non
può essere la limitazione della mobilità, e quindi la compressione dei diritti, senza intervenire per il
miglioramento nell’erogazione dei servizi. Il rischio è quello di far pagare il costo dell’incapacità
gestionale ai cittadini utenti che si troverebbero limitati nella libertà di scelta. La soluzione
sembrerebbe piuttosto da ricercare nella realizzazione di sistemi sanzionatori per l'ente che, con la
propria inefficienza, incrementa fenomeni di mobilità, e premiali per chi dimostra di saper
organizzare un servizio all’altezza di un Sistema Sanitario Nazionale che nel suo complesso è tra i
migliori d’Europa.
37
PARTE IV
ELEZIOI ED ORGAI
La garanzia dell'equilibrio di genere nella Giunta comunale si irrigidisce.
Annotazione alla sentenza del Consiglio di Stato 27.05.2014, n. 3938
di icola Dessì
Parole chiave: giunta comunale, pari opportunità nell’accesso agli uffici pubblici, politiche di
genere.
Riferimenti normativi: Art. 51, co. 1, Cost. Art. 6, comma 3, decreto legislativo 19 agosto 2000,
n. 267 (Testo unico sull’ordinamento delle leggi sugli Enti locali), modificato dall'art. 1, comma 1,
legge 23 novembre 2012, n. 215 (Disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze
di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali. Disposizioni in
materia di pari opportunita' nella composizione delle commissioni di concorso nelle pubbliche
amministrazioni). Art. 30, co. 2, Statuto del Comune di Assisi.
Decreto del sindaco di Assisi 2 luglio 2012, prot. n. 0019139, per la nomina di vice-sindaco e
assessori, e conseguenti atti di conferimento delle deleghe; deliberazione della giunta comunale di
Assisi 12 luglio 2012, n. 282, in ordine alla regolare costituzione della giunta.
Massima: All'obbligo della garanzia della presenza di entrambi i generi nella giunta comunale
può essere derogato solo per motivi obiettivi, e non per il rifiuto della persona designata o per le
richieste politiche dei partiti e delle liste di maggioranza.
Link al documento
L’oggetto del contendere è il decreto con il quale il sindaco di Assisi, in data 2 luglio 2012, ha
nominato la giunta comunale. La nuova giunta non veniva nominata in seguito all’elezione di un
nuovo sindaco, né di un nuovo Consiglio comunale, ma in seguito alla sentenza 20 giugno 2012, n.
242, del TAR Umbria, che aveva annullato l’atto di nomina della giunta all’immediato indomani
delle elezioni comunali tenutesi nel 2011.
A giudizio dei ricorrenti - alcuni dei quali consiglieri del Comune di Assisi, altri semplici cittadini
elettori dello stesso Comune - l’atto di nomina della Giunta del 2011 era da considerarsi illegittimo.
La Giunta, infatti, era interamente formata da persone di sesso maschile. I ricorrenti, di
conseguenza, lamentavano la violazione degli artt. 3 e 51 Cost., nonché del TUEL, laddove - art. 6,
comma 3 - si imponeva alle autonomie locali di “promuovere” la presenza di entrambi i generi nei
loro organi collegiali, tramite l’adozione di apposite norme statutarie.
Il Comune di Assisi ha recepito questo principio all’art. 30, comma 2, del suo Statuto: il sindaco
deve nominare la Giunta “assicurando, di norma, la presenza di ambo i sessi”. Il TAR Umbria aveva
accolto il ricorso, annullando il decreto di nomina della Giunta.
Successivamente, il sindaco di Assisi ha nominato la nuova Giunta, confermando nei loro incarichi
tutti i componenti della Giunta precedente: ancora una volta, tutti i membri sono di sesso maschile.
Nel frattempo, va ricordato che, il 26 dicembre 2012, è entrata in vigore la legge n. 215/2012, la
quale, all'art. 1, comma 1, modifica l'art. 6, comma 3, del TUEL. In seguito all'intervento del
legislatore, gli statuti comunali devono stabilire norme per “garantire” - e non più solo per
“promuovere” la presenza di rappresentanti di ogni sesso, nelle giunte e negli organi collegiali non
elettivi del Comune. La novella legislativa, comunque, non poteva vincolare il sindaco di Assisi,
38
poiché la formazione della giunta - datata 2 luglio 2012 - era precedente alla sua entrata in vigore.
Anche il nuovo decreto di nomina, con altri successivi atti ad esso collegati, è stato oggetto di
ricorso al TAR Umbria. In questo caso, però, il giudice amministrativo ha respinto il ricorso, con la
sentenza 20 giugno 2013, n. 338; in seguito, la sentenza è stata impugnata davanti al Consiglio di
Stato.
A giudizio del TAR Umbria, il sindaco aveva compiuto un’adeguata istruttoria preliminare,
“mediante la consultazione dei gruppi politici e consiliari” che avevano sostenuto il sindaco, i quali
“hanno espresso la volontà politica che gli assessori siano scelti tra i candidati alla competizione
elettorale”. Tra essi, nessuna donna è stata ritenuta idonea a ricoprire la carica in oggetto, ad
eccezione della presidente del consiglio comunale che ha rifiutato l'ingresso in giunta. Di
conseguenza, il sindaco ha correttamente deciso di comporre una giunta di soli uomini. Nella
sentenza, si è ritenuto L’impossibilità di conciliare l’esigenza giuridica del riequilibrio di genere e le
richieste politiche della maggioranza consiliare era stata ritenuta una condizione sufficiente per
affermare che la situazione non corrispondesse alla “norma”, e - di conseguenza - che si potesse
derogare al principio generale affermato dallo statuto. D’altronde, rileva il TAR Umbria, il principio
generale contenuto nel TUEL - nella formulazione in vigore nel momento in cui la giunta è stata
nominata - è finalizzato a “promuovere”, ma non a “garantire”, la presenza dei due generi. Ciò ha
consentito al sindaco di esercitare la propria discrezionalità, assecondando le forze politiche che gli
imponevano di limitare il suo campo di scelta ai candidati consiglieri.
La V sezione del Consiglio di Stato ha accolto il ricorso; gli atti impugnati sono stati tutti annullati.
Il Consiglio di Stato ha ribadito quanto affermato in alcune sue precedenti decisioni72, seguendo un
percorso argomentativo che è stato avallato anche dalla Corte Costituzionale73.
Il parametro invocato per sostenere l’illegittimità del provvedimento non è l’art. 51 Cost., che pone
l’obiettivo delle pari opportunità tra donne e uomini nell’accesso ai pubblici uffici, ma indica
“appositi provvedimenti” quale mezzo per il suo raggiungimento; il Consiglio di Stato ne ricava che
la norma costituzionale in questione assume un valore meramente programmatico: infatti, “in
mancanza di appositi provvedimenti legislativi di carattere attuativo il principio” costituzionale
“non può trovare concreta ed immediata applicazione”74.
Il “provvedimento legislativo” attuativo è senz'altro contenuto nel TUEL, il quale, però - sia nella
sua attuale formulazione, sia nella versione in vigore al tempo dell’adozione dell’atto impugnato rinvia allo Statuto comunale le norme da adottare in tema di pari opportunità.
Si può individuare almeno un punto fermo: è pacifico che lo Statuto del Comune di Assisi - art. 30,
comma 2 - preveda la presenza di almeno una donna nella giunta comunale.
Al contempo, però, secondo lo statuto, la presenza di ambo i sessi nella giunta è assicurata “di
norma”, il che può ben significare - a contrario - che non è assicurata, qualora si verifichi una
situazione “anormale”. Anche il Consiglio di Stato interpreta in tal senso la disposizione statutaria.
Infatti, nella sentenza, non si afferma il divieto assoluto per la nomina di una giunta monogenere;
72
Nel giudizio, sono menzionate le seguenti sentenze: 27 luglio 2011, n. 4502; 21 giugno 2012, n. 3670; 5 dicembre
2012, n. 6228.
73
Cfr. Corte Costituzionale, sentenza 5 aprile 2012, n. 81. La Corte decise su un ricorso in via principale, sollevato dalla
Regione Campania nei confronti del TAR Campania. Con la sentenza 7 aprile 2011, n. 1985, il TAR Campania aveva
annullato l’atto di nomina di un assessore regionale, perché adottato in violazione dello Statuto regionale - art. 46,
comma 3 - che impone una “equilibrata” presenza di donne e uomini nella Giunta. La Regione, quindi, sollevò un
conflitto di attribuzione, ritenendo che la nomina della giunta fosse un atto politico, non sindacabile dal potere
giudiziario. La Corte giudicò inammissibile il ricorso: la discrezionalità politica trova un limite nei princípi giuridici
dell’ordinamento, posti a livello costituzionale e legislativo; in questo caso, trova un limite nelle disposizioni dello
Statuto regionale, che, ex art. 123 Cost., determina la forma di governo della Regione. La sentenza 1985/2011 del TAR
Campania fu impugnata davanti al Consiglio di Stato, che respinse il ricorso, con la sentenza n. 4502/2011, citata nella
nota sub 1.
74
A giudizio del Consiglio di Stato, l’art. 51, comma 1, Cost. può esplicare un effetto diretto solo se interpretato nella
sua accezione negativa, cioè solo se inteso come norma che vieta una condotta attivamente discriminatoria sulla base
del genere.
39
semplicemente, tale atto non è legittimo, se il sindaco non dà conto, “per motivi obiettivi, di essere
stato impossibilitato a garantire l’effettiva parità dei generi ossia la presenza di un numero di donne
tendenzialmente pari a quello degli uomini nella giunta, pena la violazione della citata norma
Statutaria, attuativa di una garanzia costituzionale, garantita anche a livello internazionale”.
Inoltre, il Consiglio di Stato non smentisce l’affermazione del TAR Umbria, secondo il quale lo
Statuto del Comune di Assisi, anche se interpretato nel senso di prevedere un’eccezione al
riequilibrio di genere, impone comunque una “azione positiva per obiettivo legale”, allo scopo di
promuovere le pari opportunità; ergo, lo Statuto comunale non può dirsi in contrasto con le
disposizioni costituzionali e legislative sovraordinate.
Così, la decisione finale dipende in primis dalla verifica della “anormalità” delle condizioni
concrete in cui la giunta è stata nominata. La disposizione statutaria pone un vincolo che, seppure
non assoluto, non può essere “opzionale”, né tantomeno “può essere disattesa per ragioni di
carattere politico”. L’eccezione alla “norma” di cui allo Statuto può sussistere solo in presenza di
circostanze fattuali, il cui onere della prova - peraltro - ricade sul sindaco. Per il resto, dal momento
che le pari opportunità sono oggetto di garanzia costituzionale, nessun’altra motivazione può
autorizzare la formazione di una giunta monogenere: neanche le motivazioni addotte nel caso di
specie, ossia le esigenze politiche della maggioranza e il rifiuto dell'unica donna designata quale
membro della giunta.
Il contenuto dello Statuto comunale di Assisi, e del suo art. 30 comma 2 - con la sua formulazione
“flessibile” - va confrontato con la nuova versione del TUEL, conseguente alla legge n. 215/2012, e
successiva all’atto di nomina annullato dal Consiglio di Stato. In precedenza, lo Statuto comunale
soddisfaceva senz’altro i requisiti di cui alla legge statale, scegliendo di “assicurare” ciò che il Testo
unico degli enti locali intendeva “promuovere”. Al contempo, però, lo Statuto assicura “di norma”
ciò che la legge, allo stato attuale, richiede di garantire senza condizioni. Se la Giunta fosse stata
nominata dopo l’intervento legislativo del 2012, non sarebbe da escludere una decisione diversa da
parte del Consiglio di Stato, nel senso di rivedere le sue conclusioni sulla corrispondenza dello
Statuto comunale alle norme di legge sovraordinate.
Ciò premesso, e astraendo dalla fattispecie in esame, la decisione del Consiglio di Stato consente di
riflettere sull’opportunità di limitare le garanzie in tema di rappresentanza di genere, al fine di
contemperare la finalità delle pari opportunità con altre necessità, siano esse di carattere giuridico, o
dettate dal caso concreto. È difficile ipotizzare che un bene giuridico possa essere leso dall’adozione
di misure a tutela del riequilibrio di genere, soprattutto se queste misure mirano ad imporre non una
parità assoluta, ma la semplice presenza di tutti i generi negli organi politici, a cominciare da quelli
non elettivi. Infatti, in linea di principio, può benissimo darsi il caso che - in un dato contesto - i
soggetti idonei a ricoprire le cariche politiche più importanti appartengano in maggioranza a un
genere preciso: ne consegue che, talora, lo stretto vincolo della parità potrebbe comportare un
peggioramento qualitativo in determinati organi, a detrimento del buon andamento dei pubblici
uffici, tutelato dalla Costituzione all’art. 97. Meno probabile - anche se non impossibile - è che uno
dei due generi non sia assolutamente in grado di esprimere soggetti capaci di rivestire un ruolo di
responsabilità: in considerazione di ciò, non può sussistere, neanche lontanamente, un contrasto fra
il buon andamento dell’amministrazione e l’obbligo della rappresentanza - almeno - di alcuni
esponenti del genere che, di volta in volta, risulta minoritario.
Il Consiglio di Stato afferma chiaramente che, se mai esiste un bene giuridico potenzialmente leso
dal riequilibrio di genere, a tal punto da richiedere un’attenuazione delle garanzie, questo non può
essere la discrezionalità politica di chi è deputato a guidare l’organo politico e nominarne i
componenti: nel caso, il sindaco. Del resto, la sentenza ricorda che “gli Assessori svolgono delicate
ed importanti funzioni non al servizio del partito di riferimento, ma al servizio della cittadinanza”. Il
Consiglio di Stato non lo aggiunge, ma è evidente che adempiere ad una funzione “al servizio della
cittadinanza” equivale a perseguire un interesse pubblico. La promozione delle pari opportunità, di
cui agli artt. 51 e 117 Cost., non può non considerarsi come una finalità di interesse pubblico.
40
L'interpretazione ministeriale della nuova forma di governo provinciale. Commento alla nota
n. 1/2014 del Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie
di Matteo Porricolo
Riferimenti normativi: D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 “Testo unico delle leggi sull'ordinamento
degli enti locali” (di seguito TUEL o Testo unico); Legge 7 aprile 2014, n. 56 “Disposizioni sulle
città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di Comuni” (nel testo Legge Delrio o
Legge 56).
Altri riferimenti: Nota n. 1/2014 del Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie.
Link alla nota
Con la nota 23 ottobre 2014 n. 1, una sorta di interpretazione semi-autentica della legge Delrio in
argomento, il Ministro per gli affari regionali e le autonomie ha provveduto a fornire
“chiarimenti in merito a talune problematiche sulle funzioni dei nuovi organi” provinciali e
metropolitani.
Nonostante la dottrina abbia affrontato sin da subito, con vari contributi, l'interpretazionedella
riforma delle autonomie locali, non moltissimo si è detto dei poteri degli organi a seguito
dell’entrata in vigore della cd. Legge Delrio75.
Le questioni giuridiche ipotizzabili sono diventate problemi concreti per gli amministratori. In
effetti, nell’imminenza delle elezioni e subito dopo di esse, erano pervenute al Ministro alcune
richieste di chiarimento riguardanti funzioni e modalità operative dei novellati organi delle
province e delle città metropolitane.
Per quanto riguarda le Province, la legge 8 aprile 2014 n. 56 al suo unico articolo, comma 51,
sembra stabilire che la disciplina per tali enti di area vasta sia integralmente da rinvenire in
quella fonte (“le province sono regolate dalla presente legge”).
Tuttavia, sarebbe irragionevole sostenere un tale principio di esaustività per le funzioni degli
organi, cui sono dedicati soltanto i commi 55 e 66.
È utile richiamare, allora, quali poteri la legge Delrio assegna agli organi (comma 55):
“Il presidente della provincia rappresenta l'ente, convoca e presiede il consiglio provinciale e
l'assemblea dei sindaci, sovrintende al funzionamento dei servizi e degli uffici e
all'esecuzione degli atti; esercita le altre funzioni attribuite dallo statuto.
Il consiglio e' l'organo di indirizzo e controllo, propone all'assemblea lo statuto, approva
regolamenti, piani, programmi; approva o adotta ogni altro atto ad esso sottoposto dal
presidente della provincia; esercita le altre funzioni attribuite dallo statuto. Su proposta del
presidente della provincia il consiglio adotta gli schemi di bilancio da sottoporre al parere
dell'assemblea dei sindaci. A seguito del parere espresso dall'assemblea dei sindaci con i
voti che rappresentino almeno un terzo dei Comuni compresi nella provincia e la maggioranza
della popolazione complessivamente residente, il consiglio approva in via definitiva i bilanci
dell'ente.
L'assemblea dei sindaci ha poteri propositivi, consultivi e di controllo secondo quanto disposto
dallo statuto. L'assemblea dei sindaci adotta o respinge lo statuto proposto dal consiglio e le
75
Cfr. però F. MERLONI, Sul destino delle funzioni di area vasta nella prospettiva di una riforma costituzionale
del Titolo V, in Istituzioni del Federalismo, 2, 2014, pp. 231-234. M. GORLANI, La “nuova” Provincia: l’avvio di una
rivoluzione nell’assetto territoriale italiano, in Forum Quaderni Costituzionali, Rassegna n. 8/2014, pp. 14-19.
41
sue successive modificazioni con i voti che rappresentino almeno un terzo dei Comuni compresi
nella provincia e la maggioranza della popolazione complessivamente residente.”
Questa disciplina è ben poco in confronto al dettaglio di attribuzioni che, in passato, il TUEL
specificava per i consigli e per i presidenti.76 In più, manca qualsiasi sorta di previsioni sul
funzionamento interno degli organi e sui diritti e i doveri dei componenti. Infine, scompare
l'organo a competenza residuale qual era la giunta provinciale.77
La nota chiarisce allora che, “al fine di garantire la funzionalità complessiva del sistema di
governo dell’ente”, trovano comunque applicazione le più complete norme del TUEL, in quanto
non incompatibili con la l. n. 56/2014, laddove la stessa nulla disciplini.
Lascia invece molto perplessi la supposta cedevolezza del Testo unico anche innanzi ad una
fonte quale lo statuto, come la nota pare fare intendere (“per quanto non disciplinato dalla stessa
[legge 56] e dallo statuto”). Troverebbe, quindi, applicazione la nuova legge congiuntamente con
lo statuto provinciale, e solo se vi siano ancora lacune le norme del TUEL, ove compatibili.
Si badi che un’interpretazione letterale della nota del Ministro porterebbe all’assurdo di ritenere
che lo statuto possa oramai derogare in toto al Testo unico, perché a ciò autorizzato dalla Delrio,
la quale avrebbe rimpiazzato le precedenti norme arrogandosi la prerogativa di essere l’unica
fonte che disciplina le province.
Va invece ricordato che il TUEL disciplina per gli Enti locali, nella prima parte dedicata
all’ordinamento istituzionale, anche i servizi pubblici, il personale e il sistema dei controlli e,
nella seconda parte, l’ordinamento finanziario e contabile. Si tratta di materie non toccate dalla l.
56/2014 e che non possono non essere disciplinate dalla legge.
Alla luce di questo, il rapporto tra le tre fonti in esame è quindi da intendersi nel senso che lo
statuto provinciale può derogare al TUEL soltanto nelle parti in cui quest’ultimo è stato derogato
dalla nuova legge speciale, e che essa, limitatamente a quelle materie da essa disciplinate (si
tratta sostanzialmente degli organi e poteri, del sistema elettorale e delle funzioni dell’Ente), può
aver lasciato - volutamente o meno - lacune.
A proposito dell’abrogazione delle norme incompatibili del Testo unico, ci sarebbe ancora da
aggiungere che la legge Delrio derogherebbe quindi anche all’articolo 1, comma 4, prevede che
“le leggi della Repubblica non possono introdurre deroghe al presente testo unico se non
mediante espressa modificazione delle sue disposizioni.”
La nota fornisce l’interpretazione ministeriale ancora su qualche punto ulteriore. Innanzitutto,
dedica un paragrafo al momento di insediamento dei nuovi organi e alla fase di transizione dagli
organi cessati o decaduti a quelli di nuova istituzione. Inoltre, in un capoverso, chiarisce
dell’assenza dell’obbligo di prestare giuramento. Questo esonero sarebbe dovuto al motivo
secondo cui i nuovi organi avrebbero già adempiuto all’obbligo nelle vesti di sindaci. Ciò getta
una luce chiara sull'idea che il potere ha delle province: non più enti autonomi, ma mere
derivazioni dei Comuni.
2. Si rammenta, inoltre, la possibilità per il presidente di nominare un suo vice, che, oltre a
sostituirlo in caso di impedimento, può essere destinatario di funzioni delegate (c. 66). Preme,
però, al Ministro precisare che la facoltà, prevista dal medesimo comma, di assegnare altre
specifiche deleghe anche ai consiglieri (oltre a ribadire come siano necessarie per questo
specifiche disposizioni statutarie) non può comportare la creazione di un nuovo organo composto
da presidente, vice presidente e consiglieri delegati. Cioè, mette in guardia da una reintroduzione
76
Per le competenze del consiglio secondo il TUEL cfr. art. 42. Per le competenze del presidente secondo il TUEL cfr.
art. 50. Per un confronto di queste tra T.U.E.L e L. Delrio, cfr. M. GORLANI, cit.
77
Ai sensi dell’art. 48 (nelle note i riferimenti normativi si riferiscono sempre al Testo unico).
42
surrettizia della defunta giunta78. Il principio di collegialità, di cui parla la legge relativamente
alla distribuzione delle deleghe, costituirebbe soltanto un metodo, non potendo essere invocato
per ricostituire organi che il legislatore ha voluto chiaramente abolire. Trattandosi di delega, non
ci sono dubbi che si tratta di un trasferimento di poteri, in questo caso esecutivi, che sono propri
dell’organo delegante, e non la specificazione di funzioni che siano già genericamente in capo
all’organo delegato.
Si pone peraltro il problema di come debbano adottarsi gli atti dei consiglieri delegati, visto che
una loro delibera collegiale (a mo’ di giunta) confliggerebbe con la legge laddove essa pone le
attribuzioni in modo tassativo in capo a presidente, consiglio e assemblea. Allora, ben vengano
forme informali di collaborazione e di riparto del lavoro, ma gli atti, alla fine, dovranno restare
quelli tipici dei tre organi. E ciò che spetta per legge al presidente non potrà diventare in generale
di competenza consiliare o di giunta: spetterà, semmai, a chi ha ricevuto per singoli affari una
delega specifica. Si potrebbe, pertanto, suggerire che - in virtù di apposita disposizione statutaria
- il provvedimento finale assuma la forma di un atto del consigliere delegato, controfirmato dal
presidente.
La nota distingue la nomina del vice presidente da quella dei consiglieri delegati, probabilmente
appoggiandosi sul dato letterale dell'art. 1, comma 66, legge n. 56/2014 che, se per la creazione
del primo impone solo l’immediata Comunicazione al consiglio, per le deleghe richiede che esse
siano conformi alle modalità e ai limiti previsti dallo statuto. Tale differenziazione crea problemi
interpretativi ulteriori. Ad esempio, subito dopo la sua elezione, prima dell’emanazione della
nota in esame, il presidente della provincia di Asti aveva provveduto a distribuire deleghe,
ricoprenti i vari settori, alla totalità dei consiglieri. In questo caso, si pone il dubbio che il potere
di delega sia esercitabile solo in presenza di norme statutarie specifiche. In assenza di tali norme,
il Presidente potrebbe incontrare difficoltà nel garantire la continuità amministrativa.
Al riguardo, va ricordato che, in base proprio al principio di continuità amministrativa, nelle
more dell’approvazione del nuovo statuto (che dovrà avvenire non oltre il 31 dicembre 2014; ma
il potere sostitutivo dello Stato interverrà solo se l’inadempienza permarrà oltre il 30 giugno
2015) si applicano il vecchio statuto e i regolamenti attinenti il funzionamento degli organi
residui. Bisogna poi valutare legittimità e opportunità dell’istituzione di commissioni o altre
strutture interne in un organo così ridotto qual è ora il consiglio, soprattutto se composte dai
consiglieri delegati, al fine di eludere del divieto di creazione di una “giunta bis”. È pacifico che
nulla osti, in ogni caso, all’istituzione di “gruppi operativi”, purché - come si è detto sopra - non
ledano le funzioni degli organi previsti tassativamente dalla legge.
Mancando nella legge n. 56/2014 una disposizione espressa sulla mozione di sfiducia così come
all’art. 52 del TUEL, si può concludere che il presidente non potrà più essere sfiduciato dal
consiglio. Tale scelta è motivata dal fatto che i due organi ricevono ormai una legittimazione
distinta proveniente da due votazioni separate, con mandati aventi durata differente (quattro anni
il presidente, due il consiglio ex art. 1, co. 59 e 68) e giuridicamente condizionati dall’incarico da
cui originano (sindaco o consigliere comunale), la cui decadenza travolge anche la seconda
carica (art. 1, co. 65 e 69).
Visto che non esiste un rapporto di fiducia, la nota ritiene che il Presidente della provincia non
sia tenuto a presentare al consiglio un programma, ma abbia la facoltà di esporre le sue linee
programmatiche. Non è dispensato, però, dalla relazione di inizio mandato di cui all’art. 4 bis del
d. lgs. 149/2011, volta a verificare la situazione finanziaria e patrimoniale e la misura
d’indebitamento dell’ente. Viene così sorprendentemente a crearsi per le province e per le città
metropolitane una particolare forma di governo presidenziale pura, del tutto nuova
Il comma 66 riporta: « Il presidente della provincia può nominare un vicepresidente, scelto tra i consiglieri
provinciali, stabilendo le eventuali funzioni a lui delegate e dandone immediata Comunicazione al consiglio. Il
vicepresidente esercita le funzioni del presidente in ogni caso in cui questi ne sia impedito. Il presidente può altresì
assegnare deleghe a consiglieri provinciali, nel rispetto del principio di collegialità, secondo le modalità e nei
limiti stabiliti dallo statuto. »
78
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nell’esperienza italiana e che, data la durata differente dei mandati, potrà inoltre generare curiosi
casi di coabitazione tra consiglio e presidente di diversa provenienza partitica.
Il nuovo modello trova dei correttivi, se così si possono definire, nelle citate deleghe che il nuovo
organo esecutivo monocratico potrà conferire a taluni consiglieri dal primo individuati. Se si
volesse riconoscere un potere di delega anche in mancanza di specifiche disposizioni statutarie,
le deleghe potranno essere revocati ad nutum dall’unico titolare originario del potere esecutivo,
ossia il presidente. Se il potere di delega non venisse rivendicato o esercitato, sarebbe il solo
presidente chiamato a dare attuazione agli indirizzi generali provenienti dal consiglio? La
risposta sembra affermativa, ma bisogna ricordare che, a differenza della giunta, il consiglio non
è un organo, per così dire, “monocolore” e, in quanto tale, non è più a piena disposizione del
vertice (e, come si è ricordato, potranno verificarsi ipotesi di coabitazione).
Per non tacere di un’altra problematica: assai probabilmente il consiglio (organo di indirizzo e
controllo), o rectius, parte di esso, sarà incaricato di poteri di natura esecutiva, divenendo un
organo ibrido, in cui, si mescoleranno nelle persone dei consiglieri sia i ruoli di controllante, sia
di controllato. È difficile sostenere che si possa “addolcire” questa nuova forma di governo,
tentando di reintrodurre in qualche modo il previgente modello parlamentare: gli statuti che
imponessero le dimissioni al presidente a fronte del venir meno della fiducia dell’organo
consiliare sarebbero contra legem79. Il governo non potrà che basarsi su una semplice valutazione
di opportunità da parte del vertice, al momento in cui si trovasse non più sostenuto politicamente
da un organo con cui deve necessariamente trattare. Forse, allora, questa insidia per il presidente
potrà dare luogo a forme più incisive di controllo del suo operato.
Si potrebbe sostenere un ruolo di contrappeso dell’Assemblea dei sindaci. Tuttavia, notevoli
debolezze caratterizzerebbero un tale modello, visto che l’Assemblea pare più che altro un
organo che, dopo aver approvato lo Statuto (e successive modifiche), si eclisserebbe dallo
scenario politico. I generici “poteri propositivi, consultivi e di controllo” di cui al comma 55
(formula potenzialmente molto ampia e incisiva), se non accuratamente concretizzati negli
statuti, potrebbero essere vanificati del tutto dal ruolo preponderante attribuito al presidente e,
qualora egli lo acconsentisse, ai consiglieri. Senza contare che il parere dell'Assemblea sui
bilanci non sarà per nulla vincolante per il Consiglio, cui spetterà l’approvazione definitiva. A
ben vedere, non si potrebbe immaginare un'Assemblea forte, soprattutto nelle realtà provinciali
piemontesi, composte di molti Comuni.80 Tali numeri si traducono in altrettanti componenti di
organi giganteschi, probabilmente incapaci di adottare soluzioni rapide81.
1. La domanda va posta, a questo punto, in questi termini: ogniqualvolta nel TUEL si parla di
“giunta” o “organo esecutivo”, come si deve interpretare tale disposizione alla luce della legge
Delrio? A chi spettano ora i compiti e poteri relativi? In capo a quale organo è finita la
competenza residuale che il TUEL assegnava alla giunta (art. 48, co. 2)?
A fronte del suo venire meno, la legge n. 56/2014 consente ai nuovi statuti di attribuire sia al
presidente sia al consiglio ulteriori funzioni oltre quelle elencate al comma 55.
Pare utile, quindi, addentrarci in una disamina più dettagliata, senza alcuna pretesa di trovare una
risposta definitiva a tali domande.
Quanto ai regolamenti sull'ordinamento degli uffici e dei servizi (che l’art. 48 c. 3 TUEL
riservava alla giunta come deroga al principio generale secondo cui i regolamenti sono di
79
Opinioni a vario titolo emerse al convegno sulla riforma delle province tenutosi a Vercelli il 5 dicembre 2014,
organizzato da Accademia per l’Autonomia.
80
A titolo esemplificativo: la provincia di Alessandria ne conta 190, Cuneo 250, Torino 316.
81
Marco Orlando, segretario dell’Unione delle Province Piemontesi, all’interno del citato convegno, ha suggerito, come
possibile soluzione al problema, la suddivisione delle Assemblee dei sindaci in più sottogruppi operativi ciascuno
rappresentativo delle zone omogenee che, secondo il comma 57 della l. 56/2014, possono essere istituite nelle province
con territorio interamente montano confinanti con Stati esteri; proponendo l’estensione di questa possibilità a tutte le
province (cosa che, però, la legge Delrio allo stato attuale non consente).
44
competenza del consiglio), oggi possono ritenersi ricompresi nella previsione dell'art. 1, comma
55, della legge Delrio, secondo cui “il consiglio […] approva regolamenti…”.
Quanto, invece, alla predisposizione del bilancio di previsione, ai fini della presentazione al
consiglio per la sua approvazione82, oggi l'art. 1, comma 55, legge n. 56/2014, stabilisce
espressamente che sia il presidente a proporre al consiglio gli schemi di bilancio.
Più incerta è la sorte delle competenze ulteriori. Al di là della competenza residuale, a norma del
TUEL, la giunta deliberava: la revoca del segretario per violazione dei doveri d'ufficio (art.
100)83, la nomina del Dirigente generale e la sua revoca (art. 108), il P.E.G. – Piano esecutivo di
gestione (art. 169)84 e il D.U.P. - Documento unico di programmazione, definito “guida
strategica ed operativa dell'ente”, “atto presupposto indispensabile per l'approvazione del
bilancio di previsione” (art. 170). Sempre alla giunta spettava poi redigere una relazione sulla
gestione, da allegare al rendiconto (art. 151 c. 6); determinare il trattamento economico
accessorio dei soggetti assunti a tempo determinato negli uffici di supporto agli organi di
direzione politica (art. 90 c. 3) e le integrazioni tramite indennità ad personam dello stipendio al
personale con qualifica dirigenziale o di alta specializzazione assunto a contratto (art. 110 c. 3);
in più, aveva poteri in materia di lavori pubblici di somma urgenza (art. 191 c. 3) e di richiesta di
anticipazioni di tesoreria (art. 222). Infine, la giunta nel TUEL aveva poteri in materia di
procedure esecutive nei confronti degli enti locali (art. 159 c. 3) e di prelevamento dal fondo di
riserva (art. 176). Erano ancora di sua competenza le variazioni urgenti in corso di esercizio al
bilancio di previsione, da sottoporre poi alla ratifica del consiglio (art. 175). Doveva motivare nel
caso in cui desse il diniego alla proposta di modifica della dotazione proveniente dai responsabili
del servizio (art. 177 c.2).
Gli interrogativi non si esauriscono nella riallocazione delle competenze della Giunta. Sarà
vietato, ad esempio, al presidente delegare il coniuge, gli ascendenti, i discendenti, i parenti e
affini entro il terzo grado facenti parte del consiglio, così come era vietato a costoro far parte
della giunta (art. 64 c. 4 TUEL)? Le incompatibilità di cui all’art. 2399 c.c., che l’art. 236 del
TUEL estendeva ai rapporti tra revisori e membri dell’organo esecutivo, sono da applicarsi anche
ai consiglieri delegati? Siccome la ratio delle norme era ed è evitare pericolosi affiatamenti, si
può ragionevolmente pensare che sia legittimo applicare analogamente i divieti anche ai delegati
in quanto compartecipi del potere esecutivo.
I dubbi e le problematiche che la riforma ha sollevato non possono dirsi esauriti dalla nota
esaminata. Se il primo esame della legge ne ha fatti emergere tanti, altrettanti affioreranno col
tempo. E sarebbe errato ritenere la legge Delrio non meritevole di studio scientifico
approfondito, vista la sua annunciata provvisorietà nell’attesa della modifica costituzionale. A
parte le osservazioni nel merito della sua interpretazione, si può considerarla legittimamente
viziata da un errore nel metodo. Si nota sin d'ora che, nell’affanno di tagliare ovunque e a tutti i
costi, la superficialità e la leggerezza con cui Parlamento e Governo hanno affrontato la materia
sono state imperdonabili.
La revisione del Titolo V della Costituzione potrebbe tardare. E non è neanche da escludere che
la legge n. 56/2014 possa restare, a Costituzione revisionata, la disciplina di un ente territoriale
non costituzionalmente garantito.
Allo stato attuale è opera ardua trovare risposta a tutti gli interrogativi di interpretazione. Alcuni
di essi si potranno risolvere al momento dell’approvazione degli statuti, decidendo dove far
pendere la bilancia o, meglio ancora, se trovar per essa un equilibrio, grazie a sistemi di pesi e
contrappesi.
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83
84
45
V. artt. 165 e 174. Per altre funzioni in materia economica, cfr. ad es. artt. 187 c. 3 quater e 195.
Si trova ora egli in balia delle decisioni del solo presidente?
La legge Delrio ora devolve al consiglio l’approvazione dei “piani”.
PARTE V
PATRIMOIO E COTRATTI
Sussidiarietà orizzontale promossa: la partecipazione delle comunità locali alla cura di spazi
pubblici (art. 24 d.l. n. 133/2014 - c.d. Sblocca Italia).
di Davide Servetti
Parole chiave: Sussidiarietà orizzontale - Comunità locali - Tutela e valorizzazione del territorio Riqualificazione del territorio comunale
Riferimenti normativi principali: Art. 24 decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure
urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del
Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle
attività produttive), convertito con modificazioni in legge 11 novembre 2014, n. 164.
Link alla legge
Tra le misure per il rilancio dell’edilizia cui è dedicato il capo V del decreto-legge n. 133/2014,
convertito con modificazioni in legge n. 164/2014, intitolato “Misure urgenti per l'apertura dei
cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione
burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive” e noto
alle cronache come “Sblocca Italia”, figura una che desta interesse oltre la prospettiva di
incentivazione di attività economiche propria dell’atto d’urgenza e che è contenuta all’art. 24 del
decreto, rubricato “Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di
tutela e valorizzazione del territorio”.
Si tratta di una norma con la quale il legislatore nazionale consente ai comuni di affidare a cittadini
singoli o associati determinati interventi aventi ad oggetto la cura di aree ed edifici pubblici,
beneficiando questi soggetti di alcuni sgravi fiscali inerenti alle attività da essi realizzate. La
disposizione, pur organizzata in unico comma, è complessa e merita una lettura attenta:
“I comuni possono definire con apposita delibera i criteri e le condizioni per la realizzazione di
interventi su progetti presentati da cittadini singoli o associati, purché individuati in relazione al
territorio da riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia, la manutenzione,
l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso,
con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione
di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano. In relazione alla tipologia dei predetti
interventi, i comuni possono deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti al tipo di attività
posta in essere. L'esenzione e' concessa per un periodo limitato e definito, per specifici tributi e per
attività individuate dai comuni, in ragione dell'esercizio sussidiario dell'attività posta in essere. Tali
riduzioni sono concesse prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme associative
stabili e giuridicamente riconosciute”.
La norma statale richiede peraltro ai comuni che intendano procedere ai predetti affidamenti di
dotarsi di una disciplina generale che determini “i criteri e le condizioni per la realizzazione di
interventi su progetti presentati da cittadini singoli o associati, purché individuati in relazione al
territorio da riqualificare”. Essa quindi prefigura un iter procedimentale al cui interno l’iniziativa è
riconducibile ad un progetto presentato da cittadini, sia come singoli sia in forma associata, che
abbia ad oggetto un programma di riqualificazione di determinati luoghi siti nel territorio comunale.
Di tali interventi il legislatore chiarisce sia il contenuto sia la finalità: essi “possono riguardare la
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pulizia, la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro
urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e
in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano”. L’impiego di
una forma verbale facoltizzante è tale da non escludere che i comuni possano allargare l’elenco,
benché questo risulti già comprensivo di un novero ampio e inclusivo di attività di riqualificazione e
cura di spazi pubblici.
La norma si distingue anche per l’apertura al pluralismo sociale che mostra nell’individuare i
possibili proponenti ed esecutori degli interventi di riqualificazione. A questo proposito, la presenza
di un ampio margine rispetto alla soggettività che le “comunità di cittadini” possono assumere al
fine di accedere agli affidamenti e alle collegate agevolazioni è da valutarsi soprattutto in relazione
alle difficoltà di attuazione di un’altra disposizione legislativa che ha recentemente valorizzato
l’impegno civico per la riqualificazione di spazi urbani e che è contenuta all’art. 4, commi 4-6, della
legge n. 10/2013 sullo sviluppo degli spazi verdi urbani85. In questa sede il legislatore aveva
previsto la possibilità per i comuni di affidare la gestione di aree verdi o di determinati edifici di
origine rurale ai cittadini residenti nei relativi comprensori mediante procedure di evidenza
pubblica, in forma ristretta, senza pubblicazione del bando di gara. Condizione per la partecipazione
a tali procedure, tuttavia, era la costituzione da parte dei cittadini di un consorzio del comprensorio
che raggiungesse almeno i due terzi della proprietà della corrispondente lottizzazione. Pur
commendevole nella finalità, la norma in questione sembra subire i limiti di un approccio
segnatamente urbanistico che finisce per restringerne sensibilmente l’applicazione concreta 86. Da
questo punto di vista, il legislatore dello Sblocca Italia compie una scelta diversa che apre ad una
serie diversificata di formazioni sociali, sebbene non rinunci ad incentivare il ricorso, da parte delle
comunità di cittadini, a “forme associative stabili e giuridicamente riconosciute”, cui viene
accordata priorità nel riconoscimento delle agevolazioni fiscali. Tale scelta sembra riprendere quella
riconoscibile nell’art. 23 del decreto-legge n. 185/2008 (conv. in l. n. 2/2009)87, che si riferiva a
85
Art. 4, commi da 4 a 6, legge n. 10/2013: “4. Le aree riservate al verde pubblico urbano e gli immobili di origine
rurale, riservati alle attività collettive sociali e culturali di quartiere, con esclusione degli immobili ad uso scolastico e
sportivo, ceduti al comune nell'ambito delle convenzioni e delle norme previste negli strumenti urbanistici attuativi,
comunque denominati, possono essere concessi in gestione, per quanto concerne la manutenzione, con diritto di
prelazione ai cittadini residenti nei comprensori oggetto delle suddette convenzioni e su cui insistono i suddetti beni o
aree, mediante procedura di evidenza pubblica, in forma ristretta, senza pubblicazione del bando di gara.
5. Ai fini della partecipazione alle procedure di evidenza pubblica di cui al comma 4, i cittadini residenti
costituiscono un consorzio del comprensorio che raggiunga almeno il 66 per cento della proprietà della lottizzazione.
6. Le regioni e i comuni possono prevedere incentivi alla gestione diretta delle aree e degli immobili di cui al
comma 4 da parte dei cittadini costituiti in consorzi anche mediante riduzione dei tributi propri”.
86
Segnala tali limiti anche F. RAGNO, La legge 14 gennaio 2013, n. 10: per città più verdi, in Labsus.org. Da una
sommaria rassegna di casi, sembra che la norma abbia trovato applicazione numericamente limitata, ad esempio nel
caso di consorzi costituti da condomini e simili complessi abitativi.
87
Art. 23 (Detassazione dei microprogetti di arredo urbano o di interesse locale operati dalla società civile nello spirito
della sussidiarietà) del decreto n. 185/2008: “1. Per la realizzazione di opere di interesse locale, gruppi di cittadini
organizzati possono formulare all'ente locale territoriale competente proposte operative di pronta realizzabilità, nel
rispetto degli strumenti urbanistici vigenti o delle clausole di salvaguardia degli strumenti urbanistici adottati,
indicandone i costi ed i mezzi di finanziamento, senza oneri per l'ente medesimo. L'ente locale provvede sulla proposta,
con il coinvolgimento, se necessario, di eventuali soggetti, enti ed uffici interessati, fornendo prescrizioni ed assistenza.
Gli enti locali possono predisporre apposito regolamento per disciplinare le attività ed i processi di cui al presente
comma.
2. Decorsi 2 mesi dalla presentazione della proposta, la proposta stessa si intende respinta. Entro il medesimo
termine l'ente locale può, con motivata delibera, disporre l'approvazione delle proposte formulate ai sensi del comma 1,
regolando altresì le fasi essenziali del procedimento di realizzazione e i tempi di esecuzione. La realizzazione degli
interventi di cui al presente articolo che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggisticoambientale è subordinata al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle disposizioni di legge
vigenti. Si applicano in particolare le disposizioni del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto
legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.
3. Le opere realizzate sono acquisite a titolo originario al patrimonio indisponibile dell'ente competente.
4. La realizzazione delle opere di cui al comma 1 non può in ogni caso dare luogo ad oneri fiscali ed
47
“gruppi di cittadini organizzati”, i quali, secondo tale norma, possono presentare microprogetti di
arredo urbano e di realizzazione di opere di interesse locale senz’oneri per l’ente, ottenendo così
una detrazione dall’imposta sul reddito delle spese da essi sostenute.
Proprio gli incentivi fiscali (in questo caso, relativi ai tributi locali inerenti all’attività posta in
essere) completano il quadro normativo delineato dall’art. 24 e concorrono a chiarirne i contorni.
Infatti, le riduzioni o le esenzioni d’imposta costituiscono non solo uno stimolo all’attivazione di
forme di gestione sussidiaria di luoghi pubblici da parte della cittadinanza, bensì anche il “prezzo”
(eventuale) che l’amministrazione è disposta a pagare a fronte di una riqualificazione espressamente
vincolata a finalità di interesse generale. In quest’ottica, benché la norma taccia sugli aspetti
finanziari dei progetti di riqualificazione e gestione dei beni interessati, il modello sottostante
sembra quello di un affidamento a titolo gratuito, in un rapporto sinallagmatico al cui interno
l’amministrazione comunale concede la gestione del bene, collegandola a sgravi fiscali, e le
comunità di cittadini si impegnano a riqualificarlo e farne un uso compatibile e coerente con finalità
di interesse generale.
Tale struttura del rapporto, peraltro, potrebbe non precludere la realizzazione di iniziative volte
all’autofinanziamento dei soggetti gestori che non si limitassero a forme, più o meno tradizionali, di
beneficenza o fund raising, bensì includessero attività commerciali o, in genere, a pagamento i cui
utili fossero destinati alla riqualificazione e gestione dello spazio pubblico; in tal caso, sembra
legittimo ritenere che tali attività non potrebbero prevalere sulle finalità di interesse generale, pena
l’alterazione della logica che pare sorreggere questa normativa. Certamente si tratta di un profilo
meritevole di attenzione, nell’ottica di un corretto bilanciamento tra valorizzazione del patrimonio
comunale e finalizzazione all’interesse pubblico delle attività strumentali a tale valorizzazione. Il
recente passato è ricco di esempi di operazioni di valorizzazione meramente economico-finanziaria
del patrimonio immobiliare degli enti pubblici, compresi quelli locali, spesso per esigenze
contingenti e immediate di bilancio. Neppure è raro che queste parte di queste operazioni abbia
condotto a risultati negativi o controversi88. Dai casi, finanziariamente più rilevanti, delle
cartolarizzazioni di immobili comunali (magari con procedura di c.d. riaffitto), a quelli minori di
sostanziale privatizzazione di strutture pubbliche (si pensi ad esempio alle prassi di concessione in
gestione di impianti sportivi), queste strategie di valorizzazione del patrimonio pubblico hanno
talora percorso traiettorie diverse da quelle inizialmente previste di perseguimento dell’interesse
generale, riproponendo in termini diversi alcuni storici problemi di gestione di tale patrimonio. È
chiaro che norme come quelle contenute all’art. 24 in commento abbiano per loro natura portata ed
effetti limitati, riguardanti situazioni locali o “micro-locali”, tali da non poter essere poste in
relazione alle richiamate operazioni se non in punto di principi ispiratori od orientamento culturale.
Tuttavia, sembra di potersi affermare che esse – e a questo riguardo va notata l’espressa
finalizzazione all’interesse generale degli interventi di recupero e riuso di aree e beni immobili
amministrativi a carico del gruppo attuatore, fatta eccezione per l'imposta sul valore aggiunto. Le spese per la
formulazione delle proposte e la realizzazione delle opere sono, fino alla attuazione del federalismo fiscale, ammesse in
detrazione dall'imposta sul reddito dei soggetti che le hanno sostenute, nella misura del 36 per cento, nel rispetto dei
limiti di ammontare e delle modalità di cui all'articolo 1 della legge 27 dicembre 1997, n. 449 e relativi provvedimenti
di attuazione, e per il periodo di applicazione delle agevolazioni previste dal medesimo articolo 1. Successivamente, ne
sarà prevista la detrazione dai tributi propri dell'ente competente.
5. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano nelle regioni a statuto ordinario a decorrere dal 60°
giorno dalla data di entrata in vigore del presente decreto, salvo che le leggi regionali vigenti siano già conformi a
quanto previsto dai commi 1, 2 e 3 del presente articolo. Resta fermo che le regioni a statuto ordinario possono ampliare
o ridurre l'ambito applicativo delle disposizioni di cui al periodo precedente. E' fatta in ogni caso salva la potestà
legislativa esclusiva delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano”.
88
Per un approfondimento sulla più diffusa forma di valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, consistente
nelle c.d. cartolarizzazioni, costituisce ancora un punto fermo di primario interesse la deliberazione n. 4/2006 della
Corte dei conti, sezione centrale di controllo, che approva la relazione finale sull’indagine svolta dalla Corte medesima
sulle principali operazioni di cartolarizzazione riguardanti attivi di bilancio di amministrazioni centrali ed enti
previdenziali, le quali si sono concentrate nella XIV legislatura; il testo della relazione presentata al Parlamento è
consultabile al seguente link: http://bit.ly/1ID7lsG.
48
inutilizzati – costituiscano contestualmente un’indicazione per le amministrazioni comunali rispetto
ad una diversa politica di valorizzazione per via partecipativa degli spazi pubblici e uno strumento
normativo utile a fornire supporto ad iniziative di questa natura.
Non a caso, da un certo tempo, non mancano presso alcuni comuni esperienze pilota di
regolamentazione della gestione di verde pubblico attraverso l’attività diretta di cittadini e
associazioni dichiaratamente ispirate al principio di sussidiarietà orizzontale89. Né l’art. 24 in
discorso è il primo caso di norma incentivante la partecipazione diretta dei cittadini alla cura di
spazi pubblici, come si è detto richiamando l’art. 23 del d.l. n. 185/2008 e l’art. 4 della l. n. 10/2013,
sicché può essere utile interrogarsi sulle caratteristiche di questa norma in confronto alle precedenti.
Si sono già notate la maggior ampiezza rispetto agli spazi oggetto di riqualificazione e la maggior
flessibilità quanto ai destinatari che questa norma presenta rispetto alla legge del 2013. Con
riguardo all’istituto dei microprogetti di cui al d.l. n. 185/2008, oltre alla già rilevata differenza in
punto di sgravi fiscali90, può osservarsi che se, da un lato, l’art. 24 in commento circoscrive l’ambito
di applicazione ad attività di riqualificazione di spazi pubblici esistenti (laddove il riferimento a
“opere di interesse locale”, nel precedente decreto, poteva comprendere la costruzione di nuovi
beni), dall’altro, la formulazione di questa disposizione, più aperta rispetto alle procedure di
affidamento, sembra concedere ai comuni e alle rispettive “comunità di cittadini” margini di
attuazione maggiori, tali anche da favorire una maggior collaborazione tra ente locale e cittadini
rispetto a quella praticabile alla luce del silenzio-rifiuto previsto dall’art. 23 del d.l. n. 185/200891.
Con i suoi precedenti normativi, in ogni caso, l’art. 24 condivide l’ispirazione comune al principio
di sussidiarietà orizzontale, che invero non richiama se non indirettamente quando afferma che
“l'esenzione [fiscale, n.d.r.] è concessa […] in ragione dell'esercizio sussidiario dell'attività posta in
essere”. Senza voler troppo trarre dalla lettera della legge, che il riferimento al principio sia
rinvenibile in questa sede può essere significativo sia per motivi puntuali che generali. Vincolare gli
sgravi al carattere sussidiario dell’attività di riqualificazione degli spazi pubblici in questione, nel
momento in cui l’agevolazione fiscale rappresenta l’unico incentivo messo a disposizione dal
legislatore (seppur in via eventuale), sembra indirizzare l’attuazione e l’applicazione della norma
verso progetti di valorizzazione che promuovano una condivisione di responsabilità e una
collaborazione tra amministrazione e cittadini: tali appaiono, infatti, e condizioni per poter far sì che
la cura di un certo spazio transiti dalla gestione diretta dell’ente a quella sussidiaria delle “comunità
di cittadini”. Inoltre, se l’attività è “sussidiaria” essa non potrà, a rigore, presentarsi incoerente, nei
modi e nelle finalità, con quella che porterebbe innanzi l’amministrazione nel perseguimento
dell’interesse generale; e questa interpretazione della norma potrebbe porsi a presidio da tentativi di
speculazione o ricorso improprio a queste procedure semplificate di affidamento di beni pubblici.
Infine, l’art. 24, potendo essere letto – come si suggerisce in questa sede – come un caso di
promozione della sussidiarietà orizzontale in attuazione dell’art. 118 Cost., ultimo comma, dà un
contributo alla riflessione relativa alle possibili manifestazioni concrete del principio. È noto infatti
che alla latitudine di significati che il dibattito scientifico e culturale assegna a quest’ultimo
corrispondono una serie piuttosto eterogenea di approcci che il legislatore d’attuazione dell’art. 118,
ultimo comma, può adottare, specie rispetto al problema dei rapporti tra attore pubblico e privato. Il
legislatore dell’art. 24, certamente, non prende alcuna posizione decisiva a riguardo, ma i vincoli
89
Ne prende in esame alcune F. RAGNO, Regolamenti adozioni aree verdi: panoramica nazionale, in Labsus.org, 25
luglio 2012. Per una rassegna di alcuni casi di gestione partecipata delle aree verdi quali esempi di cura di beni comuni
cfr. V. TACCONE, Quelli che il parco, 12 giugno 2011, e M.C. MARCHETTI, uovi spazi pubblici: il verde come
bene comune, 18 giugno 2012, entrambi in Labsus.org.
90
Che nel decreto del 2008 consistevano in detrazioni dall’imposizione sul reddito, mentre in questo caso riguardano
riduzioni o esenzioni tributi posti nella disponibilità degli enti locali e che questi stessi dovranno determinare. Per
approfondimenti sugli sgravi previsti dalla normativa del 2008 cfr. S. DE SANTIS, La detassazione dei microprogetti di
interesse locale, in Enti non profit, 2009, n. 2, pp. 17 ss.
91
Nota questa e altre criticità della disciplina del 2008 C. IAONE, Città e beni comuni, in L’Italia dei beni comuni, a
cura di G. ARENA e C. IAONE, Roma, Carocci, 2012, pp. 124-127.
49
che egli pone agli affidamenti finalizzati alla cura di spazi pubblici (e che sopra si sono considerati)
sono tali da poter ritenere che, in questo caso, l’attuazione del principio di sussidiarietà si sia
indirizzata verso forme di gestione tipiche del terzo settore e del non profit, piuttosto che non verso
soluzioni di mercato e privatizzazione del patrimonio pubblico.
Spetterà alle amministrazioni comunali – ed eventualmente anche ai legislatori regionali,
diversamente che nell’art. 23 del decreto-legge n. 185/2008, non considerati dalla norma – coltivare
gli spunti presenti in questa disposizione.
50
PARTE VI
FIAZA E COTABILITÀ
L'indennità di funzione del sindaco cresce con il transito nella fascia demografica superiore
del Comune. ota alla delibera della sez. autonomie della Corte dei Conti del 15.09.2014, n.
24.
di Marco Comaschi*
Parole chiave: Corte dei Conti, enti locali, finanza locale, amministratori locali, indennità di
funzione, classi demografiche enti locali.
Riferimenti normativi: art. 51 Cost. Art. 7 Convenzione Europea dell'autonomia locale; artt. 82 e
156 TUEL- art. 1, c. 54, l. 266/2005- art. 61, c. 10, D. l. 112/2008art. 1, cc. 135 e 136, l. 56/2014.
Massima: La previsione di cui all'art. 1, c. 54, della legge n. 266/2005 non incide sul
meccanismo tabellare per scaglioni previsto dal D.M. 119/2000, ancora vigente, talchè, nel caso
in cui l'Ente transiti in diversa classe demografica, l'indennità su cui operare la riduzione del
10% dovrà essere determinata in conformità.
Link al documento
La Sezione Autonomie della Corte dei Conti, in questa delibera, si pronuncia in ordine alle corrette
modalità di calcolo dell'indennità di funzione spettante al sindaco a seguito del sopravvenuto
transito dell'ente locale in una fascia demografica superiore.
Il Comune di Sanfrè (CN) aveva chiesto alla Sezione Regionale Piemonte della Corte dei Conti se,
dopo le elezioni del 2014, si sarebbe dovuto ricalcolare l'indennità spettante al sindaco, determinata
nel 2011, in quanto la popolazione residente del Comune era cresciuta e aveva portato l'ente locale,
precedentemente collocato nella seconda fascia demografica ai sensi del D.M. n. 119/2000, ad
appartenere alla fascia demografica superiore. L'adita sezione regionale di controllo, rilevando un
contrasto interpretativo, rinvia la questione alla competente sezione centrale. Più precisamente, le
Sezioni Riunite in sede di controllo con la deliberazione n. 1/2012 avevano ritenuto applicabile il
disposto di cui all'art. 1, comma 54, della legge finanziaria per il 2006, in quanto “il taglio operato
può ritenersi strutturale, avente, cioè, un orizzonte temporale non limitato all’esercizio 2006” 92; la
Sezione regionale di controllo per il Veneto, invece, con la pronuncia n. 1/2014 93 aveva affermato
che le indennità spettanti agli amministratori dovevano essere adeguate alla classe demografica di
riferimento in base alla popolazione residente al 31 dicembre del penultimo anno precedente, in
base al criterio indicato dall'art. 156 TUEl.
*
Dottorando, e sindaco del Comune di Trisobbio (AL).
l. 23-12-2005 n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato; legge finanziaria
2006). Art. 1, comma 54. “Per esigenze di coordinamento della finanza pubblica, sono rideterminati in riduzione nella
misura del 10 per cento rispetto all'ammontare risultante alla data del 30 settembre 2005 i seguenti emolumenti:
a) le indennità di funzione spettanti ai sindaci, ai presidenti delle province e delle regioni, ai presidenti delle
comunità montane, ai presidenti dei consigli circoscrizionali, comunali, provinciali e regionali, ai componenti degli
organi esecutivi e degli uffici di presidenza dei consigli dei citati enti;
b) le indennità e i gettoni di presenza spettanti ai consiglieri circoscrizionali, comunali, provinciali, regionali e
delle comunità montane;
c) le utilità comunque denominate spettanti per la partecipazione ad organi collegiali dei soggetti di cui alle
lettere a) e b) in ragione della carica rivestita.
93
Reperibile su https://servizi.corteconti.it/bdcaccessibile/ricercaInternet/doDettaglio.do?id=271-15/01/2014 SRCVEN
92
51
È prima facie evidente che la questione di diritto non ha una grande dimensione economica per gli
enti locali; inoltre, riguarda un caso particolare e alquanto raro. Tuttavia, pare soprattutto degna di
nota in quanto si colloca all'interno di un percorso legislativo e giurisprudenziale che, ormai da un
decennio, interessa le funzioni pubbliche elettive negli enti locali.
La soluzione del contrasto interpretativo viene individuata dal giudice contabile attraverso la
ricostruzione dell'articolata disciplina normativa esistente in materia richiamando, in primo luogo, i
principi previsti dall'art. 51 Cost., dall'art. 7 della Carta Europea dell'autonomia locale 94, e dall'art.
82 TUEL il quale individua non solo i soggetti a cui compete l'indennità di funzione ma, anche, la
commisurazione della stessa rinviando a tal fine al già citato D.M. n.n. 119/2000.
È in tale contesto che interviene l'art. 1, c. 54, della legge n. 266/2005, disposizione che, peraltro,
viene correttamente inquadrata dalla Corte in relazione alla successiva normazione in materia. In
particolare, il giudice contabile fa espressamente riferimento sia all'art. 61, c. 10 del d.lgs. n.
112/200895, che all'art. 1, cc. 135 e 136 della Legge 56/201496, disposizioni da cui traspare
un'evidente tensione a ridurre i costi della politica, che, pertanto, lo inducono a riconoscere carattere
strutturale e non meramente transitorio o eccezionale alle riduzioni previste con la Finanziaria 2006.
La Sezione autonomie non nega l'operatività dei meccanismi di cui al D.M. n. 119/2000 in caso di
sopravvenuto passaggio da una classe demografica ad un'altra. Tali meccanismi, peraltro,
potrebbero applicarsi sia in caso di incremento della popolazione, sia nell'ipotesi di una sua
diminuzione. D'altra parte la quantificazione primaria dell'indennità degli amministratori secondo il
combinato disposto di cui all'art. 82 del TUEL ed il D.M. n. 119/2000 costituiscono il presupposto
giuridico rispetto ad ogni successiva riduzione della stessa.
Pertanto la riduzione del 10% prevista con la legge Finanziaria 2006 andrà calcolata solo dopo aver
correttamente individuato l'indennità spettante per la fascia demografica in cui il Comune risulta
collocato in forza dei dati demografici del precedente biennio. Così individuata la soluzione
giuridica del caso, la Corte dei Conti si premura però di evidenziare che ogni decisione – peraltro
94
Articolo 7 della Carta Europea dell'autonomia locale.
Condizioni dell'esercizio delle responsabilità a livello locale
1. Lo statuto dei rappresentanti eletti dalle collettività locali deve assicurare il libero esercizio del loro mandato.
2. Esso deve consentire un adeguato compenso finanziario delle spese derivanti dall'esercizio del loro mandato, nonché,
se del caso, un compenso finanziario per i profitti persi, od una remunerazione per il lavoro svolto, nonché un'adeguata
copertura sociale.
3. Le funzioni ed attività incompatibili con il mandato di eletto locale possono essere stabilite solamente dalla legge o
dai principi giuridici fondamentali.
95
Art. 61 D.Lgs. 112/2008.
10. A decorrere dal 1° gennaio 2009 le indennità di funzione ed i gettoni di presenza indicati nell’ articolo 82 del testo
unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive
modificazioni, sono rideterminati con una riduzione del 30 per cento rispetto all’ammontare risultante alla data del 30
giugno 2008 per gli enti indicati nel medesimo articolo 82 che nell’anno precedente non hanno rispettato il patto di
stabilità. Sino al 2011 è sospesa la possibilità di incremento prevista nel comma 10 dell’ articolo 82 del citato testo
unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000.
96
Art. 1 l. 56/2014.
135. All'articolo 16, comma 17, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14
settembre 2011, n. 148, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) le lettere a) e b) sono sostituite dalle seguenti:
“a) per i comuni con popolazione fino a 3.000 abitanti, il consiglio comunale è composto, oltre che dal sindaco, da dieci
consiglieri e il numero massimo degli assessori è stabilito in due;
b) per i comuni con popolazione superiore a 3.000 e fino a 10.000 abitanti, il consiglio comunale è composto, oltre che
dal sindaco, da dodici consiglieri e il numero massimo di assessori è stabilito in quattro”;
b) le lettere c) e d) sono abrogate.
136. I comuni interessati dalla disposizione di cui al comma 135 provvedono, prima di applicarla, a rideterminare con
propri atti gli oneri connessi con le attività in materia di status degli amministratori locali, di cui al titolo III, capo IV
della parte prima del testo unico, al fine di assicurare l'invarianza della relativa spesa in rapporto alla legislazione
vigente, previa specifica attestazione del collegio dei revisori dei conti. Ai fini del rispetto dell'invarianza di spesa, sono
esclusi dal computo degli oneri connessi con le attività in materia di status degli amministratori quelli relativi ai
permessi retribuiti, agli oneri previdenziali, assistenziali ed assicurativi di cui agli articoli 80 e 86 del testo unico.
52
facoltativa – di rivedere in aumento l'indennità spettante debba comunque essere attentamente
ponderata, al fine di evitare che l'aumento di spesa derivante possa condurre l'ente a violare i vincoli
esistenti in materia. Al contrario, invece, l'eventuale riduzione dell'indennità per transito in una
classe demografica inferiore dovrà essere disposto “senza indugio”.
In conclusione, la pronuncia della Sezione autonomie pare, sotto il profilo giuridico, certamente
condivisibile mentre, per altro verso, conferma l'esistenza di quel discutibile percorso intrapreso dal
legislatore, secondo cui le funzioni pubbliche svolte a livello locale rappresentano unicamente delle
spese da tagliare. Basti dire in proposito che, nella pronuncia qui in analisi la Corte dei Conti giunge
addirittura ad individuare un vero e proprio “effetto di sterilizzazione permanente del sistema di
determinazione delle indennità e dei gettoni di presenza”. In questo quadro complessivo – ormai
del tutto disancorato dai principi costituzionali ed internazionali prima richiamati – il rischio
concreto è che se si continuerà, da un lato, a premere sulle sempre maggiori responsabilità
giuridiche gravanti sugli amministratori locali e, dall'altro, a perseverare in un atteggiamento di vera
e propria mortificazione del ruolo degli stessi – di cui la questione relativa alle indennità è solo una
parte – si finirà per demolire definitivamente, dopo la crisi irrimediabile in cui sono finite le
Province, il sistema degli enti locali.
53
La liquidazione in via equitativa del danno all'immagine deve essere ancorata a precisi
parametri. ota alla sentenza della sez. giurisdizionale del Piemonte della Corte dei Conti del
25.09.2014, n. 116.
di Marco Comaschi
Parole chiave: Corte dei Conti, responsabilità amministrativo-contabile, danno erariale, danno
d'immagine, danno non patrimoniale, lodo Bernardo, patteggiamento, confisca.
Riferimenti normativi: art. 54, 97 e 98 Cost.; artt. 1226 e 2059 c.c.; art. 1, c. 62 della Legge
190/2012; artt. 319 e 321 c.p.; art. 444 c.p.p.
Massima: Il danno all'immagine causato alla P.A. dev'essere ancorato, anche laddove debba
essere definito in via equitativa per inapplicabilità dell'art. 1, c. 1 sexies della Legge n. 20/1994,
a precisi parametri quali l'ambito di diffusione degli eventi, il coinvolgimento a titolo di concorso
di altre persone nonché il ruolo e la qualifica ricoperti dall'autore dell'illecito.
Link al documento
Con la sentenza sopra indicata la Corte dei conti, sezione giurisdizionale del Piemonte ha
nuovamente trattato sotto diverse prospettive il cd. danno all’immagine causato alla P.A.
soffermandosi, in particolare, sui criteri da adottare per la sua quantificazione.
Il caso oggetto del giudizio trae origine da numerosi episodi di corruzione, nei quali un addetto allo
sportello unico per l'immigrazione di una Prefettura adottava atti contrari al proprio ufficio al fine di
favorire istanze di ricongiungimento familiare. In sede penale l'imputato chiedeva – ed otteneva – il
patteggiamento per i reati contestati, e quindi veniva condannato alla pena di anni uno e mesi dieci
di reclusione. Unitamente alla pena detentiva, inoltre, veniva disposta dall'Autorità giudiziaria la
confisca della somma di € 45.000,00 in contanti che, dopo essere stata rinvenuta dagli inquirenti
presso il domicilio dell'imputato, veniva dallo stesso indicata come frutto degli illeciti commessi.
Così concluso il processo penale, con sentenza passata in giudicato – condizione in questo caso
indefettibile affinché la Procura contabile potesse esercitare la propria azione per ottenere il
risarcimento del danno erariale97 – veniva contestato al funzionario, con atto di citazione in
giudizio, il danno all'immagine di € 80.000,00, al netto dell'importo di € 10.000,00, già risarcito dal
medesimo nell'ambito del giudizio penale.
Il giudice contabile viene quindi a concentrare la sua attenzione su questa particolare figura di
danno erariale che, insieme al cd. danno da tangente, va assumendo sempre maggiore diffusione. In
97
L'art. 17, c. 30-ter, d.l. 1.7.2009, n. 78, impropriamente definito “Lodo Bernardo”, dispone infatti che per i delitti
contro la Pubblica Amministrazione previsti nel capo I del Titolo II del libro secondo del codice penale, ovverosia quei
delitti che presuppongono la qualifica soggettiva di pubblici ufficiali, il danno all'immagine possa essere contestato solo
dopo il giudicato penale di condanna. Contro l'intervento del legislatore sono state sollevate aspre critiche, sia a livello
dottrinale che giurisprudenziale, in merito alla violazione del basilare principio di autonomia tra magistratura contabile
e magistratura penale (cfr., Cass. pen., sez. un., 9.2.2011, n. 3165). La Consulta ha avvallato, in punto di
costituzionalità, l'intervento del legislatore con la sentenza n. 355/2010, anch'essa, a sua volta, oggetto di numerose
obiezioni. Si vedano, tra i molti, F. PAVONI, La Corte Costituzionale salva il Lodo Bernardo, in Foro.it, 2011, 3, I, 644;
M. PERIN, La Corte Costituzionale conferma la tutela minimale dell'immagine della pubblica amministrazione, in
www.lexItalia.it, n. 12/2010. La giurisprudenza contabile si è comunque adoperata per fornire, per quanto possibile, una
lettura estensiva della norma. In particolare ha da subito unanimemente affermato la possibilità di esercitare l'azione
risarcitoria anche in presenza, come nel caso di specie, di una sentenza di patteggiamento, così come in presenza di una
sentenza penale che si sia limitata a dichiarare la prescrizione del reato. Si veda F. CERIONI, Risarcibile il danno
all'immagine in tutti i casi di accertamento con sentenza definitiva della commissione di un reato contro la P.A. (nota a
Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale per la Lombardia, 14.3.2014, n. 47), in www.amministrativamente.com.
54
linea con la giurisprudenza suprema98, il danno all'immagine viene ricondotto all'interno del danno
non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c., in quanto ogni riferimento contenuto nella giurisprudenza
contabile alla patrimonialità del danno stesso dev'essere inteso come volto a descrivere un
“interesse giuridicamente rilevante e suscettibile di valutazione economica”. Inoltre viene precisato
che il danno – non patrimoniale – all'immagine della P.A., pur dovendo essere inteso quale dannoevento, tuttavia non si identifica con le sole spese necessarie per il ripristino che costituiscono solo
uno dei possibili parametri della quantificazione equitativa del risarcimento99. Così facendo la
sezione giurisdizionale del Piemonte si colloca nell'alveo di quella giurisprudenza contabile
secondo cui gli eventuali costi di ripristino dell'immagine sopportati dalla P.A. sono irrilevanti100, in
contrapposizione con l'indirizzo più restrittivo per cui il P.M. ha l'onere di provare la sussistenza del
danno mediante le spese effettivamente erogate o programmate per il suo ristoro 101. In merito
all'esistenza nel caso concreto di un danno all'immagine, il Collegio ritiene che la condotta illecita
commessa abbia certamente causato una menomazione dell'immagine alla Prefettura che, per le sue
specifiche funzioni di autorità, dovrebbe apparire all'esterno come “particolarmente trasparente,
sana e cristallina in funzione degli alti compiti istituzionali demandati alla medesima
dall'ordinamento giuridico”. A tal proposito il Collegio rammenta, come tra i parametri sociali
secondo cui verificare la sussistenza di un danno all'immagine rientri anche lo sconcerto che la
vicenda può provocare nei colleghi dell'imputato che, a differenza di questi, assolvono
diligentemente ed onorevolmente le proprie funzioni.
In merito, invece, alla quantificazione del danno recato all'immagine della Prefettura il giudice adito
rileva, innanzitutto, come non si possa fare riferimento alla norma introdotta dall'art. 1, c. 62 della l.
190/2012, e ciò in quanto il giudizio riguarda fatti antecedenti alla sua entrata in vigore102. Tale
intervento del legislatore, secondo cui il danno all'immagine si presume pari – salvo prova contraria
– al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale illecitamente percepito, è stato
giustificato proprio dall'esigenza di superare i disallineamenti che si erano verificati tra le varie
sezioni giurisdizionali in tema di criteri e relativa determinazione del quantum del danno
all'immagine103.La sezione giurisdizionale del Piemonte, non potendo conseguentemente fare
riferimento all'anzidetta presunzione, è ricorsa quindi ad una valutazione equitativa attraverso la
quale, peraltro, ha ritenuto di dover fortemente ridurre la pretesa risarcitoria avanzata dalla Procura.
Infatti, considerando l'ambito di diffusione degli avvenimenti, il numero cospicuo di persone
coinvolte a titolo di concorso nel sistema illegale, nonché del ruolo di basso livello ricoperto dal
funzionario, il Collegio ha ridotto da 90.000,00 a 25.000,00 € il danno all'immagine cagionato dal
convenuto al Ministero dell'Interno.
La somma dovuta a titolo di risarcimento per danno d'immagine così rideterminata pare, per certi
aspetti, eccessivamente ridotta rispetto alle pretese della Procura che, pur facendo in prima istanza
riferimento all'inapplicabile presunzione introdotta con la legge anticorruzione, trovavano supporto
in alcuni elementi in parte trascurati dal giudice contabile. Paiono infatti non essere stati
adeguatamente valutati l'ambito potenzialmente internazionale di diffusione dell'evento, il clamor
fori suscitato, la circostanza per cui la corruttela del funzionario favoriva non direttamente i singoli
extracomunitari ma organizzazioni intermediarie e di dubbia liceità nonché il fatto che fossero stati
98
Si vedano, in tal senso, la sentenza della Corte Costituzionale n. 355/2010 e le sentenze della Corte di Cassazione,
sez. un., nn. 10730/2003, 4582/2006 e 5756/2012.
99
A tal proposito le differenti posizioni assunte dalla giurisprudenza contabile hanno portato le Sezioni Unite della Corte
dei Conti ad esprimersi sul punto con la sentenza n. 1/2011, nella quale viene definitivamente inquadrato il danno
d'immagine quale danno-evento.
100
Si vedano, in particolare, Corte Conti, sez. riun., n. 1/2011; sez. Toscana n. 309/2007; sez. Sicilia n. 1374/2008.
101
Su tale linea si collocano le pronunce Corte Conti, sez. Veneto, n. 171/2011; sez. app. n.63/2002; sez. Lombardia
n.88/2001;
102
Non tutte le sezioni regionali convengono però sulla natura sostanziale e, come tale, non operante sui giudizi già
incardinati della novella del 2012. In senso contrario si veda C. Conti, sez. Puglia, sent. n. 1748/2012.
103
In ordine ai vari parametri equitativi a cui la giurisprudenza ha fatto ricorso si vedano, tra le molte, le sentenze Corte
Conti, sez. Liguria, 10.1.2013, n. 1 e Sez. Molise, 14.3.2012, n.28.
55
ritrovati ben 45.000,00 € in contanti presso la sua abitazione. Sebbene infatti tali somme siano state
prima sequestrate e, poi, confiscate, secondo una precisa funzione sanzionatoria e non risarcitoria,
pare probabile che tali contanti non rappresentassero interamente le somme percepite nei vari
episodi di corruzione.
56
La legge anticorruzione e il danno all'immagine della P.A.
Commento e rassegna giurisprudenziale sulla l. n. 190/2012
di Paolo Marta
Parole chiave: Legge anticorruzione - Danno all'immagine della P.A.
Riferimenti normativi: Legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la
repressione della corruzione e dell'illegalita' nella pubblica amministrazione); art. 17, comma 30ter, decreto-legge 1 luglio 2009 (provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini) convertito,
con modificazioni, in legge 3 agosto 2009, n. 102; art. 1, comma 1 sexies, legge 14 gennaio 1994
(Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), modificato dalla l.
190/2012.
Link alla legge anticorruzione
1. Introduzione
Il risarcimento del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione costituisce, senza dubbio,
un aspetto particolarmente interessante all’interno della materia della responsabilità amministrativa,
sia per l’applicazione dello stesso, che negli ultimi anni è stata piuttosto incisiva, sia per il
susseguirsi di disposizioni che hanno modificato il quadro legislativo di riferimento.
Scopo del presente lavoro è l’analisi dell’influenza che la legge n. 190/2012 (cd. legge
anticorruzione) ha avuto su questo istituto; pertanto, al fine di meglio comprendere il tema in
oggetto, è opportuno ricostruire sinteticamente l’evoluzione di questa fattispecie di danno.
Il diritto all’immagine rientra nel più ampio genus dei diritti della personalità. Tali diritti, diritti
dell’uomo o della persona umana, si caratterizzano per essere considerati diritti appartenenti
all’uomo in quanto tale, indipendentemente dall’apparato politico di governo e dalle mutazioni
sociali, morali e di costume che possono variare nel corso degli anni. Proprio per questa loro
specificità, si ritiene che ogni stato debba garantirne l’esercizio e la tutela, al di là delle ideologie
che possono differenziare i singoli apparati di potere104.
L’art. 2 Cost. attribuisce a questi diritti il carattere dell’inviolabilità, nel senso che gli stessi non
possono essere compressi dalla pubblica autorità nell’esercizio delle sue funzioni esecutive,
legislative e giudiziarie né possono essere violati da altri individui nei rapporti di diritto privato.
Altra caratteristica rilevante è la loro assolutezza, che gli consente di essere tutelabili ed esercitabili
nei confronti di chiunque, e la loro imprescrittibilità e indisponibilità.
Il diritto all’immagine è stato positivizzato in varie disposizioni; nell’ordinamento civile si possono
ricordare l’art. 10 c.c. e gli artt. 96, 97 e 98 della legge sul diritto d’autore (l. n. 633/1941), che,
tuttavia disciplinano la tutela dell’immagine come rappresentazione materiale. Esiste, però, una
diversa forma di tutela dell’immagine, in via indiretta, che vieta l’esposizione, la riproduzione e la
pubblicazione del ritratto altrui anche allorquando da tali attività possa derivare una lesione
dell’onore, della reputazione o del decoro della persona105.
104
Per una disamina dell’argomento vedi F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, vol. I, tomo I, Padova, 2004; F.
GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2000; P. RESCIGNO, Diritti della personalità, in Encic. Giurdica
Treccani, Roma, 1994; S. RUSCICA S., I diritti della personalità, Milano, 2014.
105
F. AVERSANO-A. LAINO-A. MUSIO, Il danno all’immagine delle persone giuridiche, Torino, 2012, pag. 6. Per
una definizione di onore, reputazione e decoro vedi V. ZENO ZENCOVICH V., Onore e reputazione, in Digesto delle
discipline privatistiche, Torino, 1995, pag. 91, A. DE CUPIS, I diritti della personalità, in Trattato di diritto civile e
commerciale, diretto da A. CICU e F. MESSINEO, Milano 1982, pag. 251 e ss., A. GIUFFRIDA, Il diritto all’onore,
alla reputazione e al decoro, in Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di P. CENDON, Torino, 2000, pag. 364.
57
Nella Carta costituzionale possiamo trovare disposizioni che tutelano implicitamente il diritto
all’immagine; in particolar modo gli artt. 2 e 3 costituiscono il fondamento costituzionale per la
tutela di questo diritto, pur non essendo lo stesso oggetto di specifica menzione 106; anche i principi
stabiliti dagli artt. 29, 30, 32, 36 e 41 possono considerarsi substrato costituzionale del diritto
all’immagine107.
Da ultimo, non bisogna dimenticare l’ordinamento penale, all’interno del quale l’immagine, intesa
come onore, decoro e reputazione, è tutelata dagli artt. 175, 594 e 595 c.p., e, in via indiretta, dagli
artt. 734 bis c.p. e 114 c.p.p.
Le disposizioni sopra richiamate sono state, tradizionalmente, applicate soltanto alle persone
fisiche, soprattutto in riferimento al concetto materiale di immagine; qualora, invece, si intenda
l’immagine nella sua accezione più ampia, ossia come onore, reputazione e decoro, l’approccio
cambia; infatti, a fronte di un orientamento che negava la tutela dell’onore delle persone giuridiche,
ancorato a una vecchia concezione di immagine come proiezione esterna della persona, è prevalso
un opposto orientamento che la ammette, soprattutto dopo l’avvento della Costituzione.
Secondo la giurisprudenza, è risarcibile il danno non patrimoniale subito da un ente collettivo a
seguito della lesione della sua immagine, intesa come diminuzione della considerazione dell’ente
offeso108.
Questa interpretazione può considerarsi sorretta anche dalle disposizioni costituzionali; gli artt. 2 e
3, fondamento della tutela del diritto all’immagine delle persone fisiche, devono essere letti in
armonia con l’art.18 Cost. che tutela il diritto di associazione. Secondo la dottrina, quest’ultimo
deve essere inteso non solo in senso formale, come diritto ad associarsi e a darsi una propria
organizzazione per gli individui che perseguano una scopo ideale, bensì in senso sostanziale, vale a
dire riconoscendo all’ente collettivo il diritto di tutelare quel comune sentire per il quale
l’associazione stessa si è costituita109. Naturalmente, fra gli enti collettivi rientrano a pieno titolo le
pubbliche amministrazioni.
La rilevanza del bene immagine in capo alla P.A. ha origine pretorie, non legislative; contrariamente
a quanto si potrebbe pensare, la Corte dei conti fu piuttosto scettica nel riconoscere questo tipo di
danno110; la prima apertura in questo senso arrivò per opera della Corte di Cassazione con la nota
sentenza del 21 marzo 1997, n.5668 (caso Poggiolini), che riconobbe la giurisdizione contabile per i
danni derivati all’immagine della P.A. a seguito della percezione di tangenti da parte di pubblici
funzionari111.
L’orientamento dei giudici di legittimità fu recepito dalla giurisdizione contabile, la quale cominciò
a pronunciarsi su questa voce di danno, dapprima sostenendo che lo stesso costituisse danno
106
S. CASTRO, Il danno all’immagine, Torino, 2008, pag. 5 e ss., L. BIGLIAZZI GERI-U. BRECCIA-F.D.
BUSNELLI-U. NATOLI, Diritto civile, 1, orme soggetti e rapporto giuridico, Torino, 1987, pag. 166; F.
AVERSANO, A. LAINO, A. MUSIO, op.cit., pag. 11.
107
M. DOGLIOTTI, Persone e famiglia, in Trattato di diritto privato, diretto da P. RESCIGNO, Torino, 1999, pag. 198.
108
Cass., sentenza 4 giugno 2007, n.12929.
109
F. AVERSANO, A. LAINO, A. MUSIO, op. cit., pag. 17; G. CASSANO, Il danno all’immagine della P.A. come
danno esistenziale?, in Danno e resp., 2001, 12, pag. 1191.
110
La magistratura contabile definì il danno de quo quale danno di natura non patrimoniale (ex art. 2059 c.c.), quindi,
come tale, sottratto alla giurisdizione contabile, deputata alla tutela degli interessi patrimoniali degli enti pubblici. Il
bene immagine fu considerato attenente alla sfera morale dei soggetti, quindi privo della patrimonialità necessaria per
essere sottoposto al giudizio della magistratura contabile (Corte conti, sez. Riun., sentenza 6 maggio 1988, n.580).
111
Cass., sez. Unite, sentenza 21 marzo 1997, n. 5668 in Guida al diritto, 1997, n.27, con nota di C. CHIAPPINELLI e
in Foro it., 1997, con nota di BARONE. Il merito della Cassazione fu quello di chiarire per la prima volta la distinzione
concettuale fra danno morale soggettivo (non patrimoniale) e danno all’immagine (avente carattere reddituale), laddove
la patrimonialità deve essere ravvisata non solo nella deminutio patrimonii già verificatasi per effetto dell’illecito
(dazione di tangente, in questo caso), ma anche in quella derivante da tutte le spese future che certamente
l’amministrazione dovrà sopportare in conseguenza della compromissione della sua reputazione esterna derivante dalla
conoscenza, da parte dell’opinione pubblica, del mercimonio fatto di una pubblica funzione; F. AVERSANO, A.
LAINO, A. MUSIO, op.cit., pag. 139.
58
patrimoniale112 e, successivamente, cambiando orientamento e facendolo rientrare nell’alveo del
danno non patrimoniale113.
La conseguenza di tale impostazione fu l’ampliamento delle fattispecie risarcibili: il presupposto
della commissione di un reato, ex art. 2059 c.c. e 185 c.p., non era più necessario e le corti
territoriali cominciarono a esprimersi maggiormente su questa voce di danno, tanto da determinare
alcuni eccessi risarcitori114.
In questo contesto che si stava delineando si inserì il legislatore con l’emanazione di una
disposizione volta a limitare fortemente la risarcibilità del danno all’immagine della P.A., l’art. 17,
comma 30 ter, d.l. n.78/2009, il cd. “Lodo Bernardo”115.
A seguito dell’entrata in vigore di questa legge, che prevedeva, quale presupposto necessario per
l’azione risarcitoria per danno all’immagine la commissione di un reato dei pubblici ufficiali contro
la P.A., la magistratura contabile si trovò nella situazione di non poter perseguire fattispecie di
rilevante gravità che ledevano la reputazione degli enti pubblici 116, oltre a creare evidenti
Corte conti sez. riun. 25 maggio 1999, n.16, le quali affermano che il danno all’immagine ha natura patrimoniale,
inteso come spesa che l’amministrazione deve sostenere per ripristinare il bene leso; vedi anche V. TENORE, La nuova
Corte dei conti: responsabilità, pensioni, controlli, Milano, 2013, pag. 182.
113
Corte dei conti, sez. riun., sentenza 23 aprile 2003, n. 10, in Foro amm. CDS, 2003, pag. 1419. L’evoluzione della
concezione dell’art. 2043 c.c., più attenta alle esigenze della collettività e tesa a risarcire i casi ingiusti
indipendentemente da una lesione di carattere patrimoniale, porta a una configurazione della responsabilità
amministrativa in cui, oltre alla tradizionale funzione recuperatoria del patrimonio pubblico, se ne affianca un’altra
finalizzata alla tutela di quei sostanziali interessi della collettività che sono di generale rilevanza. L’art. 2059 era da
ritenersi superato; tale danno, quindi, era da considerarsi non patrimoniale e da inquadrarsi come danno evento, non
come danno conseguenza, con le notevoli differenze che ne conseguirono in termini di oneri probatori.
114
P. SANTORO, L’illecito contabile e la responsabilità amministrativa-disciplina sostanziale e processuale;
Sant’arcangelo di Romagna, 2011, pag. 389. Corte conti, sez. Calabria, 17 settembre 2007, n. 761, in Riv. Corte Conti,
2007. Corte conti, sez. Toscana, 11 febbraio 2009, n.95, in Riv. Corte Conti, 2009. Corte conti, sez. Toscana, 4 febbraio
2009, n.70, in Riv. Corte conti, 2009. Si arrivò a ipotizzare, secondo le sentenze citate, il danno all’immagine per
convalida dell’elezione comunale in presenza di una condizione di incandidabilità del sindaco, o per il superamento del
limite di velocità da parte di un vigile in veste di privato cittadino, o per il docente che fuma in classe.
115
Si tratta dell’art. 17, comma 30 ter, del d.l. 1 luglio 2009, n.78, convertito nella l. 3 agosto 2009, n. 102, come
modificata dalla legge 3 ottobre 2009, n.141, di conversione del d.l. 3 agosto 2009, n.103, il cui testo, per successiva
comodità espositiva, si riporta: “le procure della Corte dei conti possono iniziare l’attività istruttoria ai fini
dell’esercizio dell’azione di danno erariale a fronte di specifica e concreta notizia di danno, fatte salve le fattispecie
direttamente sanzionate dalla legge. Le procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno
all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’art. 7 della legge 27 marzo 2001, n.97. A tale ultimo fine, il decorso
del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell’art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n.20, è sospeso fino alla
conclusione del procedimento penale. Qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle
disposizioni di cui al presente comma, salvo che sia stata già pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di
entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è nullo e la relativa nullità può essere fatta valere in
ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti,
che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta”.
Per completezza si riporta anche il testo dell’art. 7, legge 27 marzo 2001, n.97: ”la sentenza irrevocabile di
condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell’art. 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione
previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è comunicata al competente procuratore regionale
della Corte dei conti affinchè promuova entro trenta giorni l’eventuale procedimento di responsabilità per danno
erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall’art. 129 delle norme di attuazione, di
coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271”.
È bene precisare che si tratta dei seguenti reati: peculato, malversazione, corruzione, concussione, istigazione alla
corruzione, abuso d’ufficio, rifiuto e omissioni di atti d’ufficio, interruzione di servizio pubblico o di pubblica necessità,
sottrazione o danneggiamento di beni sottoposti a sequestro.
116
A titolo di mero esempio, l’immagine della P.A. non verrebbe risarcita in casi di truffa aggravata ai danni dello stato
o per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 e 640 bis c.p.), oppure nei casi, effettivamente accaduti, di
violenza sessuale di insegnanti nei confronti degli studenti, o di poliziotti penitenziari a danno dei detenuti. Per non
parlare di gravi episodi di responsabilità medica che ingenerano negli utenti un forte senso di sfiducia nel servizio
sanitario nazionale. Vedi anche, sul punto, A. BONOFIGLIO, Il danno all’immagine e i fatti della Diaz. Brevi
considerazioni, in www.contabilità-pubblica.it; P. DELLA VENTURA, 3uove (e non esaltanti) prospettive in tema di
112
59
problematiche in merito al principio di autonomia fra magistratura contabile e ordinaria117 e al tipo
di sentenza che possa costituire presupposto del danno118.
Ne conseguì, pertanto, una serie di ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale per vari profili
di illegittimità119.
Tuttavia, la Consulta, con sentenza interpretativa di rigetto, respinse le doglianze avanzate dai
giudici contabili120.
Alcune sezioni, in particolare la Corte toscana, cercarono di superare le limitazioni imposte dal
“Lodo Bernardo”121 fornendo una diversa interpretazione della disposizione.
Bisogna sottolineare, però, che la maggior parte delle sezioni territoriali si adeguarono
all’interpretazione data dai giudici costituzionali e, di conseguenza, molte fattispecie di rilevante
gravità continuarono a non poter essere perseguite ai fini risarcitori dell’immagine pubblica.
In questo panorama è intervenuto nuovamente il legislatore con la legge n. 190 del 31 ottobre 2012,
la quale, come vedremo, potrebbe avere un effetto ampliativo sulle fattispecie risarcibili per danno
all’immagine.
2. La corruzione in Italia
La corruzione è stata sempre considerata un male endemico del nostro paese, frutto di una mentalità
diffusa di violazione delle regole e della libera concorrenza, insita non solo nei funzionari pubblici o
negli esponenti di partito titolari di cariche elettive, ma anche all’interno della classe
imprenditoriale e professionale; è bene ricordarsi che il reato di corruzione è un reato a concorso
necessario, per cui, a fronte di un soggetto corrotto, vi è sempre un soggetto corruttore, non meno
responsabile del primo.
Secondo il report 2012 di Transparency International, nel nostro paese l’indice di percezione della
corruzione ci colloca al 72° posto al mondo, meglio, nella UE, soltanto di Bulgaria e Grecia.
La Corte dei conti non manca mai di sottolineare che, oltre al danno etico e civile determinato da
questo tipo di illeciti, vi è anche un danno al tessuto economico della nazione, considerato che i
fenomeni corruttivi scoraggiano gli investimenti, soprattutto stranieri122
In particolare, nella relazione del Presidente Gianpaolino per l’anno giudiziario 2013, si richiama
l’attenzione sul fenomeno della corruzione e sulla possibile efficacia rappresentata dalle misure
prese dal legislatore con la legge n.190 del 6 novembre 2012123.
“Con riguardo, invece, alle misure per combattere la corruzione politica e amministrativa,
emblematiche, sotto diversi profili, risultano alcune disposizioni contenute nella legge 6 novembre
2012, n.190.
È da tempo che si è avuto modo di rilevare che la corruzione è divenuta da fenomeno
burocratico/pulviscolare, fenomeno politico-amministrativo sistemico.
La risposta, pertanto, non può essere di soli puntuali, limitati interventi, circoscritti per di più su
singole norme del codice penale, ma la risposta deve essere articolata ed anch’essa sistemica.
Inoltre, la metamorfosi del fenomeno criminale della corruzione ha comportato un significativo
mutamento della natura del disvalore dei fatti di corruzione e del bene giuridico offeso…..in effetti ,
risarcibilità del danno all’immagine delle amministrazioni pubbliche, in www.amcorteconti.it.
117
Cass. Sez. un., sentenza 4 gennaio 2012, n.11, in Giust. Civ. Mass. 2012.
118
F. AVERSANO, A. LAINO, A. MUSIO, op. cit., pag. 166. Corte conti sez. Sicilia, 3 novembre 2011, n.3588, in
www.respamm.it
119
Si tratta delle ordinanze di rimessione n. 331/2009 (sez. Umbria), n.24/2010 (sez. Calabria), n. 25-26-27/2010 (sez.
Campania), n. 44/2010 (sez. Sicilia), n. 125/2010 (sez. Lombardia), n. 145/2010 (sez. Toscana), n. 162 (sez. I Centrale
d’Appello).
120
Corte Cost., 1 dicembre 2010, n. 355, in Guida al diritto, 3, 2011, pag. 83, in Danno e Resp., 2011, 6, pag. 595, con
nota di F.R. MAELLARO, in Corriere giur., 2011, 3, pag. 432, con nota di S. FELICETTI, M. SAN GIORGIO.
121
Corte conti sez. Toscana, 18 marzo 2011, n.90.
122
A. CARUSO, Intervento all’Università Bocconi, 18 marzo 2013.
123
L. GIANPAOLINO, Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013, su www.corteconti.it.
60
la corruzione sistemica, oltre al prestigio, all’imparzialità e al buon andamento della pubblica
amministrazione, pregiudica, da un lato, la legittimazione stessa delle pubbliche amministrazioni,
e, dall’altro,…..l’economia della nazione.
Da qui l’importanza della parte amministrativa della legge n. 190/2012 che assume la portata di
una riforma delle pubbliche amministrazioni ai fini della prevenzione e della lotta alla
corruzione……”
La legge n.190 del 2012 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e
dell’illegalità nella pubblica amministrazione), citata nella relazione predetta, fa parte di un più
ampio novero di attività legislativa posta in essere al fine di contrastare il fenomeno della
corruzione, sospinta anche da iniziative in ambito internazionale.
Nel corso della XVI legislatura, il primo intervento del Parlamento in tema di lotta alla corruzione è
stato l’approvazione della legge 116/2009 di ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite fatta a
Merida nel 2003.
Successivamente, vengono in rilievo la legge 28 giugno 2012, n.110, di ratifica della Convenzione
penale di Strasburgo del 1999 nonché la legge 28 giugno 2012, n.112 di ratifica della Convenzione
civile sulla corruzione di Strasburgo, sempre del 1999.
Per ciò che concerne l’ordinamento interno, il 31 ottobre 2012 è stata approvata la legge n.190,
composta di due soli articoli e svariati commi che hanno profondamente inciso gli istituti
determinanti in materia di corruzione (dalla trasparenza alla disciplina delle incompatibilità e
incandidabilità, dalle cause di risoluzione dei contratti pubblici alla rideterminazione delle pene di
alcuni reati propri contro la P.A.).
Per quanto di interesse in questo lavoro, una importante novità è rappresentata dall’art. 1, comma
62, che ha introdotto i commi 1 sexies e 1 septies dell’art. 1, l. n.20/1994; il comma 1 sexies afferma
che “nel giudizio di responsabilità l’entità del danno all’immagine della pubblica amministrazione
derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con
sentenza passata in giudicato si presume, salvo prova contraria, pari al doppio della somma di
denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente”; il comma 1
septies attiene invece alla fase della tutela del credito: “ nei giudizi di responsabilità atti o fatti di
cui al comma 1 sexies, il sequestro conservativo di cui all’art. 5, comma 2, Del decreto legge 15
novembre 1993, n.453, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 gennaio 1994, n.19, è
concesso in tutti i casi di fondato timore di attenuazione della garanzia del credito erariale”.
Da una prima lettura, si evince come questo atto legislativo possa incidere notevolmente sulla
disciplina sostanziale del danno all’immagine.
Infatti, a differenza di quanto previsto dall’art. 17, comma 30 ter, il testo della legge parla di reati
contro la pubblica amministrazione, senza specificare in modo tassativo la natura di questi reati,
ossia se si tratti dei reati propri di cui al capo I, titolo II del libro secondo del c.p. o, al contrario,
intenda ricomprendere anche i reati comuni che abbiano comunque la P.A. come soggetto passivo.
Preliminarmente, è bene precisare che il comma 1 sexies non prevede l’abrogazione di discipline
previgenti, quali il “lodo Bernardo”, le quali, senza dubbio, rimangono in vigore in quanto
compatibili.
Tuttavia, non sfugge che la dicitura adoperata dal legislatore (reato contro la pubblica
amministrazione) è ben diversa da quella adoperata dall’art. 17, comma 30 ter, il quale fa espresso
rinvio all’art. 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97, secondo la quale gli unici reati presupposti per il
risarcimento del danno all’immagine della P.A. sono i reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione.
La locuzione usata dal legislatore nella legge anticorruzione è più generica e questo comporta dei
problemi di “convivenza” fra le due disposizioni.
Naturalmente, parte della giurisprudenza e della dottrina non si è fatta attendere nell’interpretare la
legge de quo in senso estensivo, vale a dire cercando di fare rientrare fra i rati presupposti anche
quelli comuni che abbiano leso il bene immagine degli enti pubblici.
61
Si capisce l’importanza che la direzione scelta potrebbe avere, data la maggior ampiezza di
fattispecie punibili che si paleserebbero di fronte ai giudici contabili.
Per un’analisi approfondita della questione, appare opportuno soffermarci sulla sentenza n. 47 del
14 marzo 2014 della sez. Lombardia, la quale, con articolate argomentazioni, decide per il
superamento dei vincoli imposti dal “lodo Bernardo”.
3. La sez. Lombardia estende ai reati comuni la responsabilità per danno all’immagine124.
La sentenza in commento trae origine da una condanna di un carabiniere per i reati previsti dagli
artt. 47, n. 2 e 120, commi 1 e 2, c.p.m. (violata consegna pluriaggravata), per avere lo stesso
interrotto la vigilanza lungo il perimetro della caserma, al fine di recarsi presso un salone da barba.
La procura contabile ha agito in giudizio allo scopo di veder condannare il militare al risarcimento
del danno all’immagine e al prestigio del Ministero della Difesa-Arma dei Carabinieri ex art. 55
quinquies, D.lgs n. 165/2001.
Il collegio, investito della questione, innanzitutto ha escluso che il convenuto potesse essere ritenuto
responsabile ex art. 55 quinquies, D.lgs n.165/2001, in quanto la condotta non è consistita in alcuna
falsa attestazione di presenza mediante modalità fraudolente, non essendosi verificata alcuna
alterazione o contraffazione documentale, ovvero alcuna alterazione dei sistemi di rilevamento;
inoltre, l’accertamento in sede penale rappresenta un prius sia in ordine al risarcimento del danno
arrecato sia alla configurabilità stessa del danno all’immagine. Siccome la fattispecie concreta
concerne il reato di violata consegna pluriaggravata, l’art. 55 quinquies non è da ritenersi
applicabile.
A questo punto la Corte si interroga se sia configurabile un risarcimento per danno all’immagine a
seguito della condotta posta in essere dal carabiniere.
Dopo aver richiamato l’art. 17, comma 30 ter, ed aver appurato che il reato oggetto di giudizio non
rientra fra i delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., come richiesto dalla disposizione del “lodo
Bernardo”, si sofferma sulla nuova disciplina introdotta dalla legge n.190/2012.
“Il legislatore, nell’intento evidente di determinare (e limitare) con legge l’entità del risarcimento
del danno all’immagine della P.A., sia pure ricorrendo a una presunzione iuris tantum…..ha
espressamente statuito che il danno all’immagine della P.A…..è quello derivante dalla commissione
di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato”.
I magistrati milanesi ritengono che la disposizione che ha introdotto il comma 1 sexies dell’art. 1,
legge n.20/1994, abbia avuto un effetto innovativo sulla materia del danno all’immagine.
“la vera e profonda innovazione consiste nella locuzione successiva, secondo la quale tale danno
(all’immagine) deriva dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione
accertato con sentenza passata in giudicato”.
“Ad avviso di questo collegio, il mancato riferimento alla normazione vigente di cui all’art. 17,
comma 30 ter, per un verso, ……e la diversa innovativa locuzione adottata, per altro verso,
inducono a ritenere che il quadro normativo di riferimento, in tema di risarcimento del danno
all’immagine della P.A. nei giudizi di responsabilità presso questa corte, sia sostanzialmente
mutato.
In particolare:
1)
Il riferimento alla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione
implica che sia venuta meno la limitazione prevista nell’art. 17, comma 30 ter….
2)
La locuzione utilizzata, infatti, ha certamente contenuto tecnico, ma, altrettanto certamente,
contenuto non specifico: non vi è alcun riferimento al codice penale né ad altro corpus normativo;
non vi è alcun riferimento a leggi e regolamenti; non sono indicati eventuali presupposti o
particolari requisiti che il danno all’immagine deve avere. Resta unicamente che esso, per essere
risarcibile secondo l’entità prevista nella disposizione esaminata (ovviamente l’autore del reato
124
Dello stesso avviso è Corte dei conti, sez. Campania, ordinanza n. 287 del 23/8/2013.
62
deve essere incardinato nella struttura della P.A. sia pure con un rapporto di servizio anche
occasionale) deve derivare dalla commissione di un reato contro la P.A. accertato con sentenza
passata in giudicato. È questa, all’evidenza, una condizione per la promozione dell’azione di
responsabilità da parte della Procura contabile che il legislatore ha ritenuto di confermare anche
con la novella legislativa di cui trattasi”.
“il collegio ritiene, pertanto, che la fattispecie concreta oggetto di questo giudizio rientri nella
previsione normativa di cui all’art. 1, comma 1 sexies, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, sopra
illustrata; si tratta, infatti, di un reato previsto dal codice penale militare di pace, che rientra tra i
reati contro la pubblica amministrazione- secondo quanto sopra specificato- e che è stato accertato
con sentenza passata in giudicato”.
Alla luce di quanto riportato, dunque, si evidenzia come la Corte lombarda abbia interpretato il
comma 1 sexies in modo espansivo, attribuendo a tale disposizione una efficacia ampliativa delle
fattispecie penali che possono dare origine a un’azione per risarcimento del danno all’immagine.
In sostanza, il danno all’immagine sarebbe risarcibile ogni qual volta sia stato commesso un reato
contro la P.A., sia esso comune o proprio.
La legge anticorruzione, dunque, supererebbe i limiti posti dal “lodo Bernardo” consentendo di
condannare per danno all’immagine gli autori di reati comuni contro la P.A. (sempre che si tratti di
soggetti in rapporto di servizio); in questo contesto la nuova norma renderebbe superfluo il
ragionamento seguito dalla Corte dei conti Toscana per confutare l’interpretazione restrittiva che era
stata fornita dalla Corte costituzionale con la sentenza n.355/2010.
La dottrina si mostra d’accordo con la tesi della sezione Lombardia125.
La nuova disposizione legislativa sembra aver codificato il tentativo espansivo di parte della
giurisprudenza contabile; infatti, non sfuggono due novità: l’espressione “reato contro la P.A.”, a
fronte del quale può derivare un pregiudizio all’immagine pubblica dell’istituzione, è qualcosa di
diverso e ulteriore rispetto ai delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. contemplati apertis verbis
dal precedente “lodo Bernardo”; in secondo luogo, è scomparso ogni riferimento a una previa
sentenza di condanna, laddove ci si accontenta di un accertamento definitivo di un reato contro la
P.A. da parte del giudice penale (cfr l’inciso “sentenza passata in giudicato” che, dunque, potrà
essere non soltanto di condanna).
Pertanto, da un lato si trova una conferma ex lege della possibilità di configurare un danno
all’immagine della P.A. (anche) da reato comune (non più soltanto un danno da reato proprio) e,
dall’altro, ha trovato avallo legislativo la tesi della non necessaria previa esistenza di una sentenza
di condanna, ma anche di un altro accertamento del giudice penale concernente la commissione di
un reato contro la P.A. (che può essere contenuto in una sentenza di patteggiamento o di non doversi
procedere per prescrizione del reato), purchè passata in giudicato (come, d’altronde, aveva già
evidenziato la giurisprudenza prima che il principio fosse positivizzato).
Altra dottrina ritiene che la norma in oggetto si presti a possibili diverse interpretazioni, anche
maggiormente restrittive, come vedremo nel prossimo paragrafo.
Tuttavia, appare preferibile l’interpretazione che, quantomeno, confermi un espresso richiamo da
parte del comma 1 sexies ai reati previsti dal “lodo Bernardo”126.
Come detto sopra, l’interpretazione fornita dalla sez. Lombardia non è condivisa da tutta la
giurisprudenza contabile; la Corte dei conti, sez. Emilia Romagna, con la sentenza n. 57 del 23
aprile 2013, si pone in un’ottica diversa, anzi opposta, a quella dei giudici lombardi.
125
L. D’ANGELO, Lesione all’immagine della p.a. e legge anticorruzione: un ampliamento della tutela erariale
(anche cautelare)?, su www.respamm.it; M. ATELLI, An e quantum del danno all’immagine, in Dir. Prat. Amm., n.11
del 2012.
126
R. SCHULMERS, La legge anticorruzione e lo ius superveniens: quale futuro per il danno all’immagine?, in
www.respamm.it
63
4. La sez. Emilia Romagna adotta un’interpretazione restrittiva del comma 1 sexies
La Corte dei Conti, sezione dell’Emilia Romagna ricostruisce l’evoluzione del danno all’immagine
sino alla sentenza n. 355/2010 della Corte Costituzionale; sostanzialmente si inserisce nel solco
della giurisprudenza maggioritaria che, a seguito dell’interpretazione data dalla Consulta al “lodo
Bernardo”, considera risarcibile il danno all’immagine soltanto nel caso in cui questo sia derivante
dalla commissione di un reato proprio contro la P.A.
L’intervento operato dal legislatore con il comma 1 sexies, secondo i giudici emiliani, non ha
portato alcuna spinta espansiva in materia, ma, anzi, ha portato a un’altra restrizione delle
fattispecie perseguibili per il risarcimento del danno all’immagine.
Si legge nella motivazione che “l’ulteriore inciso, secondo cui l’entità del danno all’immagine si
presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di
altra utilità illecitamente percepita dal dipendente, induce il collegio a ritenere che il legislatore
abbia inteso circoscrivere ulteriormente la tipologia di illeciti da cui può scaturire un danno
all’immagine, fissando il principio che solo laddove il dipendente abbia illecitamente percepito una
somma di denaro o altra utilità sia possibile ipotizzare la sussistenza di un danno all’immagine
della pubblica amministrazione.”
“Secondo questa interpretazione, che il collegio fa propria, la clausola di salvezza “salvo prova
contraria” offre al giudice la possibilità di operare la quantificazione del danno in modo diverso
da quello indicato dalla norma, non incidendo, peraltro, sulla qualità degli illeciti idonei a causare
il danno all’immagine”.
Dunque, secondo il collegio emiliano, il comma 1 sexies non ha ampliato la platea dei reati che
possono costituire presupposto per il risarcimento del danno all’immagine, ma, addirittura,
l’avrebbe ristretta ai soli reati tramite i quali l’agente ha percepito una somma di denaro o altra
utilità; questo comporterebbe l’esclusione di alcuni gravi reati, come potrebbe essere l’abuso
d’ufficio.
Tuttavia, la sentenza sopra riportata si appalesa un po’ carente di argomentazioni nel sostenere tale
ipotesi.
5. Conclusioni.
Alla luce delle argomentazioni svolte, appare preferibile la tesi avanzata dalla sezione lombarda
della Corte.
Oltre a quanto affermato dai giudici, sembra che vi siano altre considerazioni da fare a sostegno di
questa interpretazione estensiva.
L’art. 17, comma 30 ter, rimanda all’art. 7 della legge n.97/2001 ove sono richiamati i reati di cui al
capo I, titolo II, libro II del codice penale; fa riferimento, quindi, a un’elencazione tassativa delle
fattispecie dalle quali può scaturire un’azione di responsabilità per danno all’immagine.
Il comma 1 sexies, al contrario, usa una locuzione generica, nel momento in cui parla di “reato
contro la pubblica amministrazione”.
Ora, considerato che il principio della tassatività della fattispecie costituisce un obbligo nel sistema
penale, altrettanto non si può dire per il sistema della responsabilità amministrativa.
Da una interpretazione logico-sistematica delle disposizioni in commento, pertanto, si evince che le
stesse non possono avere il medesimo significato.
Infatti, quando il legislatore ha voluto procedere a una tipizzazione specifica dei reati presupposto
del danno all’immagine, lo ha fatto; se nel comma 1 sexies questa elencazione non è stata
prospettata, evidentemente l’intenzione del legislatore era quella di ampliare la platea dei reati
presupposti, riferendosi a qualunque reato che possa ledere il bene giuridico dell’immagine
dell’ente pubblico.
Diversamente si sarebbe limitato a proporre il richiamo fatto dall’art. 17, comma 30 ter, oppure
64
avrebbe fatto riferimento, per relationem, al contenuto di cui all’art. 17, comma 30 ter.
Se ha voluto usare una espressione più generica, significa che ha voluto attribuirle un significato
diverso rispetto a quello scaturente dal “lodo Bernardo” e, di conseguenza, l’intento non può che
essere di allargare le maglie del risarcimento per danno all’immagine, con effetti implicitamente
abrogatori delle parti dell’art. 17, comma 30 ter, incompatibili con la nuova disciplina.
Inoltre, è bene sottolineare come all’interno dello stesso atto legislativo, la legge n. 190/2012, vi sia
l’art. 1, comma 12, il quale prevede la responsabilità per danno all’immagine del responsabile della
prevenzione della corruzione, nel caso di commissione di un reato all’interno dell’amministrazione,
qualora non dimostri di aver adottato il piano e vigilato sull’attuazione dello stesso.
In questo caso verrebbe risarcito il danno all’immagine in conseguenza di un comportamento
illecito non costituente reato; una interpretazione restrittiva del comma 1 sexies si porrebbe in
contraddizione all’interno dello stesso testo legislativo.
A sostegno di questa argomentazione, sempre in un’ottica sistematica, sovvengono altre
disposizioni, successive al “lodo Bernardo” e anche alla legge anticorruzione, che dimostrano come
il legislatore si sia orientato verso una maggiore sanzionabilità dei comportamenti illeciti forieri di
danno all’immagine.
Il d.l. n.150/2009 (decreto Brunetta), che ha introdotto la responsabilità per danno all’immagine per
false attestazioni e certificazioni (art. 55 quinquies, D.lgs n.165/2001); l’art. 10, d.l. n. 78/2010, che
prevede il danno all’immagine per i medici responsabili di false attestazioni di stati di invalidità o
handicap e, soprattutto, una legge passata un po’ in sordina, ma che potrebbe avere una notevole
rilevanza sulla materia, vale a dire il D.lgs n. 33/2013 (riordino della disciplina riguardante gli
obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte della P.A.) che all’art. 46
prevede la risarcibilità per danno all’immagine in caso di violazioni degli obblighi in materia di
trasparenza.
Queste norme sopra riportate, rientrano a pieno titolo nel “sistema” danno all’immagine della P.A.
e, pertanto, non possono essere trascurate nell’attività di interpretazione.
Forse le previsioni in materia di false attestazioni e certificazioni non si pongono nettamente in
contrasto col “lodo Bernardo”, ma l’art. 46, D.lgs n. 33/2013 (come l’art. 1, comma 12, l. n.
190/2012), sanziona con il risarcimento del danno all’immagine comportamenti che, addirittura,
non solo non configurano un reato diverso dai reati propri contro la P.A., ma non configurano alcun
reato.
Appare evidente, quindi, che, se il legislatore è orientato a considerare presupposto per il
risarcimento un comportamento illecito, ma non penalmente rilevante, sarebbe del tutto in
contraddizione un’interpretazione del comma 1 sexies che comportasse addirittura una limitazione
ulteriore rispetto al “lodo Bernardo”.
Non si vede, in un’ottica di sistema, come potrebbe reggere a una critica di irragionevolezza un
apparato di disposizioni che esclude dalla risarcibilità per danno all’immagine reati di elevata
gravità, per includere, invece, illeciti che, se pur importanti, non costituiscono nemmeno fattispecie
di rilevanza penale.
La Corte dei conti, sez. Emilia Romagna, non pare aver preso in considerazione l’evoluzione
legislativa che si è affermata negli anni successivi al “lodo Bernardo” e che è andata in tutt’altra
direzione rispetto all’art. 17, comma 30 ter.
Ne deriva un’interpretazione del comma 1 sexies che sembra non essere supportata da idonea
argomentazione.
Il riferimento alla quantificazione del danno predeterminata per legge non pare sufficiente a
suffragare questa interpretazione restrittiva, sia per le considerazioni sopra svolte, sia per il fatto che
questa disposizione sembra più che altro voler accentuare i profili sanzionatori del danno
all’immagine, andando oltre alla tradizionale concezione risarcitoria di questo istituto.
Se si aderisse alla tesi formulata dal collegio emiliano, verrebbero meno tutte quelle fattispecie
previste dalle leggi speciali che ho in precedenza commentato, ma, visto che la legge sulla
65
trasparenza è cronologicamente successiva al comma 1 sexies, non si prospetta condivisibile una
siffatta impostazione.
Naturalmente il dibattito non si conclude qui, in quanto, presumibilmente, vi saranno altre decisioni
che si porranno in contrasto fra di loro; non è da escludere un orientamento di tipo intermedio che
possa attribuire al comma 1 sexies una semplice funzione di quantificazione del danno, lasciando
intatta la previsione del “lodo Bernardo”*.
*
N.d.R.: cfr., per la giurisprudenza precedente alla legge anticorruzione, la sentenza 27 marzo 2012, n. 110, sezione
giurisdizionale d'appello per la Regione siciliana.
66
Confermata la giurisprudenza restrittiva della giurisdizione contabile sugli amministratori
delle società partecipate. Annotazione alle sentenze della Corte di Cassazione, Sezioni Unite,
n. 22608 e 22609/2014
di Alberto Rissolio
Parole chiave: responsabilità amministrativa, società private a partecipazione pubblica, in house
providing.
Riferimenti normativi: art. 103, comma 2, Cost.; art. 13 r.d. 12/07/1934, n. 1214; art. 1, comma
4, l. 14/01/1994, n. 20, artt. 2393, 2393 bis e 2395 c.c., art. 12 dir. 2014/24/UE
Massima: Si conferma l'interpretazione restrittiva del concetto di società in house, e della
giurisdizione della Corte dei conti sugli amministratori della stessa (sent. nn. 5491 e 7177/2014).
Link alla sentenza n. 22608/2014
Link alla sentenza n. 22609/2014
Con la sentenza n. 26283/2013, già annotata sul n. 3 di questa rivista, le Sezioni Unite della Corte di
Cassazione, intervenendo in tema di responsabilità per mala gestio degli organi sociali per danni
cagionati al patrimonio di società partecipate, avevano aperto spiragli, all’apparenza non irrilevanti,
per l’intervento della Corte dei conti.
Se, infatti, in linea generale l’autonomia patrimoniale e soggettiva della società partecipata esclude
la configurabilità di una responsabilità erariale in capo agli amministratori che compiano atti
contrari ai loro doveri d’ufficio, tale responsabilità è, invece, concepibile nell’ipotesi di società in
house, in ragione della sua speciale natura di articolazione interna dell’ente controllante.
Le sentenze in oggetto, pur collocandosi nel solco dell’autorevole precedente arresto, forniscono
qualche ulteriore indicazione applicativa, che consente di meglio inquadrare la portata concreta del
principio.
I fatti alla base delle due pronunce hanno molti punti in comune. Da una parte, vi sono gli
amministratori di una società ad integrale partecipazione pubblica accusati di aver indebitamente
sostenuto una serie di spese “di rappresentanza”, quali abbonamenti allo stadio o teatrali. Dall’altra,
a un amministratore di una società interamente partecipata da comuni è stato chiesto un
risarcimento del danno all’immagine nei confronti della società stessa, per il fatto di esser stato
condannato per reati di corruzione. Al di là delle particolarità di ciascuna fattispecie, in entrambi i
casi vi sono amministratori ritenuti responsabili di danni causati a società per azioni ad integrale
partecipazione pubblica.
La questione giuridica di fondo era se tali società fossero, o meno, in house, e soggette alla
giurisdizione della Corte dei conti.
Le Sezioni Unite, in aderenza a una giurisprudenza consolidata attraverso le sentenze nn. 5491/2014
e 7177/2014, concentrano la loro analisi sulle previsioni statutarie.
Poiché, però, entrambe le società coinvolte, attraverso successive modifiche dei rispettivi statuti,
sono nel tempo andate conformandosi al modello dell’in house, il primo profilo rilevante consiste
nell’individuare la versione dello statuto temporalmente rilevante.
Sotto questo profilo, la Corte aveva già precisato che, nel procedere in tale indagine, occorre
considerare le condizioni in essere al momento in cui risale la condotta ipotizzata come illecita
(sentenza n. 7177/2014).
Questo passaggio è all’apparenza ineccepibile, ma necessiterebbe, forse, di qualche ulteriore
67
riflessione su quelle ipotesi in cui vi sia una discrasia temporale tra la condotta e le sue conseguenze
dannose sul patrimonio della società. In tal caso, se nelle more del prodursi del danno la società
subisse trasformazioni tali da ricondurla nell’alveo dell’in house, sarebbe davvero certa l’esclusione
di un danno erariale, in quanto incidente sulle casse di un soggetto che ormai è a tutti gli effetti
articolazione di un ente pubblico?
I tre requisiti che consentono di qualificare una società come in house sono quelli ormai noti:
azionariato integralmente pubblico, attività svolta prevalentemente in favore degli enti partecipanti
“in modo che l'eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul mercato e
rivesta una valenza meramente strumentale” e c.d. “controllo analogo” a quello sugli uffici interni
(sentenza n. 5491/2014). Non basta però che tali situazioni si manifestino in un dato momento;
occorre, invece, che trovino concretizzazione in apposite clausole statutarie vigenti, tali da
escludere modifiche, anche solo potenziali, della struttura societaria. Per esemplificare: non è
sufficiente che la totalità delle azioni sia in mano pubblica; lo statuto deve anche espressamente
escludere l’ingresso di capitali privati.
Nell’ambito degli appalti pubblici, questo tipo di impostazione ha senz’altro una sua solida ratio. A
fronte di un potenziale ingresso di soggetti privati, così come una sia pur non attuata possibilità di
agire sul mercato libero, è bene evitare forme di affidamento diretto in deroga all’evidenza
pubblica, a fronte dell’alterazione del gioco concorrenziale che ne deriverebbe. Non è, però, detto
che questa logica del “potenziale” sia altrettanto ragionevole laddove ci si occupi di sanzionare un
danno erariale.
Da un punto di vista formale, è certo vero che la normale società partecipata è un soggetto
autonomo rispetto all’ente pubblico azionista, così come, invece, la società in house ne costituisce
un’articolazione interna. Non sempre, però, la distinzione è così netta. Si immagini una società
integralmente partecipata da un singolo ente, che svolge la sua attività prevalente in suo favore, pur
senza che ciò sia imposto da clausole statutarie: la differenza, rispetto ad una società in house si
fonda, a questo punto, esclusivamente sulle previsioni di statuto. A fronte di differenze minime, e a
conti fatti, astratte, l’amministratore che compie atti contrari ai propri doveri incorre in
responsabilità profondamente diverse: civilistica in un caso ed erariale nell’altro.
In ogni caso, maggior chiarezza applicativa potrà discendere dalla nuova definizione di società in
house contenuta nella direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014, che all’art. 12 positivizza i
requisiti dell’istituto, introducendo qualche importante novità rispetto alla giurisprudenza
consolidata, quale, ad esempio, la possibile presenza di capitale privato, purché esso non determini
controllo o potere di veto.
68
Recent working papers
The complete list of working papers is can be found at http://polis.unipmn.it/index.php?cosa=ricerca,polis
*Economics Series
Q
**Political Theory and Law

Al.Ex Series
Quaderni CIVIS
2014 n.218** Nicola Dessì et al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali
N.5/2014
2014 n.217*
Roberto Ippoliti: Efficienza tecnica e geografia giudiziaria
2014 n.216** Elena Ponzo et al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali
N.5/2014
2014 n.215
Gianna Lotito, Anna Maffioletti and Marco Novarese: Are better students really
less overconfident? - A preliminary test of different measures
2014 n.214*
Gloria Origgi, Giovanni B. Ramello and Francesco Silva: Publish or Perish.
Cause e conseguenze di un paradigma
2014 n.213** Andrea Patanè et al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali
N.4/2014
2014 n.212** Francesco Ingravalle et al.: L’evento. Aspetti e problemi
2013 n.211** Massimo Carcione: La garanzia dei diritti culturali: Recepimento delle norme
internazionali, sussidarietà e sistema dei servizi alla cultura .
Case study: La valorizzazione della Cittadella di Alessandria e del sito storico
di Marengo.
2013 n.210** Massimo Carcione: La garanzia dei diritti culturali: Recepimento delle norme
internazionali, sussidarietà e sistema dei servizi alla cultura
2013 n.209** Maria Bottigliero et al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali
N.3/2013
2013 n.208** Joerg Luther, Piera Maria Vipiana Perpetua et. al.: Contributi in tema di
semplificazione normativa e amministrativa
2013 n.207*
Roberto Ippoliti: Efficienza giudiziaria e mercato forense
2013 n.206*
Mario Ferrero: Extermination as a substitute for assimilation or deportation: an
economic approach
2013 n.205*
Tiziana Caliman and Alberto Cassone: The choice to enrol in a small university:
A case study of Piemonte Orientale
2013 n.204*
Magnus Carlsson, Luca Fumarco and Dan-Olof Rooth: Artifactual evidence of
discrimination in correspondence studies? A replication of the Neumark method
2013 n.203** Daniel Bosioc et. al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali
N.2/2013
2013 n.202* Davide Ticchi, Thierry Verdier and Andrea Vindigni: Democracy, Dictatorship
and the Cultural Transmission of Political Values
2013 n.201** Giovanni Boggero et. al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie
locali N.1/2013
2013 n.200* Giovanna Garrone and Guido Ortona: The determinants of perceived overall
security
2012 n.199*
Gilles Saint-Paul, Davide Ticchi, Andrea Vindigni: A theory of political
entrenchment
2012 n.198*
Ugo Panizza and Andrea F. Presbitero: Public debt and economic growth: Is
there a causal effect?
2012 n.197
Matteo Migheli, Guido Ortona and Ferruccio Ponzano: Competition among
parties and power: An empirical analysis
2012 n.196*
Roberto Bombana and Carla Marchese: Designing Fees for Music Copyright
Holders in Radio Services
2012 n.195*
Roberto Ippoliti and Greta Falavigna: Pharmaceutical clinical research and
regulation: an impact evaluation of public policy
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