LUIGI FIRPO Giovanni Gentile e gli studi campanelliani, “Giornale critico della filosofia italiana” (Firenze), XXVI, 1947, pp. 129-137. Rist. con egual titolo in: [Autori vari], Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, Firenze, Sansoni, vol. I, 1948, pp. 195-205. 1 Quando, nel lontano 1906, Giovanni Gentile si volse agli studi sul Campanella la filosofia della Rinascenza gli si offriva per la prima volta quale campo di ricerche originali: i suoi maggiori lavori pubblicati sino a quel tempo trattavano del pensiero del Sette e dell’Ottocento e dello stoicismo romano: solo il saggio sul teatro del Grazzini toccava il nostro Rinascimento con interesse schiettamente letterario; di là da venire erano i lavori sul Bruno (la conferenza palermitana è del 1907) e sul Telesio (commemorato nel 1911). Nacque quel primo incontro da una coincidenza fortuita di letture, che stimolò l’interesse storico, la cura per il rigore biografico, che sempre distinsero il Gentile tra i filosofi speculativi spesso inclini a ignorare il nesso che in ogni autore inviluppa la vicenda esteriore della persona e quella interiore dello spirito. C’era nella monumentale biografia del Campanella ricostruita un vent’anni prima dall’amorosa solerzia di Luigi Amabile un punto oscuro per la contraddizione delle fonti documentarie nel narrare la vicenda del primo processo subito dal Filosofo, sosteneva l’Amabile che quel penoso incidente giudiziario si era concluso in Roma nel 1591 con la gravissima pena dell’abiura, mentre una pagina autobiografica ed una lettera dell’agente toscano a Napoli suggerivano diversa cronologia e sentenza più mite. In base ad un nuovo documento, edito da Alessandro Paoli un decennio avanti in un volume galileiano, ma non ancora convenientemente sfruttato, il Gentile fu in grado di proporre una ricostruzione assai più coerente col complesso delle testimonianze e con le ulteriori vicende del Campanella 1, mostrando che questi ai primi di settembre del 1592 non s’era ancor mosso da Napoli, dove si svolse per intero il suo primo processo. Quindici anni più tardi veniva in luce la sentenza conclusiva di quel giudizio a confermare appieno le fondate ipotesi, che avevano felicemente integrato i dati delle fonti. 1 Il primo processo di eresia di Tommaso Campanella, “Archivio storico napoletano”, XXXI, 1906, pp. 623-631 (ora in Studi sul Rinascimento, Firenze, 1923, pp. 165-173, e ristampe seguenti). 2 Nello stesso 1906 condusse il Gentile verso il Filosofo di Stilo un altro interesse, che spesso negli studiosi più scrupolosi si accompagna a quello biografico: l’ansiosa curiosità per gli inediti, il bisogno di buoni e sicuri testi, la passione filologica che nei migliori disciplina l’impulso all’immediata interpretazione, ammaestrando alla pazienza vigile che valuta le parole ad una ad una. Ben misera sorte era toccata sino a quel giorno ai testi filosofici campanelliani, dimenticati in gran parte nelle rare e squallide edizioni latine, mentre le ben più vive redazioni italiane degli anni giovanili erano andate perdute o giacevano inesplorate nei loro vecchi manoscritti. Ad uno di questi testi italiani, il più importante per molti riguardi e certo il più spontaneo e rivelatore, si volse il Gentile nel suo saggio dedicato al Senso delle cose 1, nel quale non solo ricostruì con acume la complessa cronologia redazionale dell’opera tre volte riscritta e tanto sovente ritoccata nel corso di poco men che mezzo secolo, ma diede in luce per la prima volta alcuni capitoli del secondo libro, in cui si tratta dell’anima, dell’intelletto e dello spirito e si scioglie un inno fervente alla dignità umana insignita del divino suggello dell’immortalità. Quei saggi frammentari d’una prosa rozza insieme e vibrante venivano offerti al pubblico come stimolo a più compiuta fatica, e il suggerimento non riuscì vano, se quattro lustri più tardi, nei “Classici della filosofia moderna” di cui era condirettore, il Gentile poteva finalmente dare in luce il testo critico integrale del Senso delle cose amorosamente curato da Antonio Bruers. Ad assumere per sé la cura di un completo volume campanelliano egli fu indotto qualche anno più innanzi, nel 1913, allorché apparve per le stampe la prima silloge completa delle poesie fino a quel giorno disperse del Frate di Stilo: l’aveva allestita, con metodi di cui è carità di patria tacere, Giovanni Papini, riscotendone dalla critica apprezzamenti tanto aspramente negativi quanto unanimi. A restaurare lo scempio si accinse allora il Gentile, che due anni più tardi pubblicava nella collana degli “Scrittori d’Italia” il ben noto testo critico, cui il successivo trentennio non ha potuto arrecare altro che minime emendazioni congetturali. Impeccabile nella ricognizione e classificazione delle fonti, cauto ed acuto nella scelta delle lezioni e nei restauri, ricco di erudizione nel commento quel libro 1 Le varie redazioni del “De sensu rerum” di T. Campanella con un saggio del testo italiano inedito (Per nozze Maturi-Amatucci), Napoli, 1906 (ora in Studi sul Rinascimento cit., pp. 174214). 3 subito apparve – e tale rimase – in veste di sistemazione definitiva; quando, in tempi recenti, il primitivo editore, resasi desiderata una ristampa, soggiacque a preoccupazioni estranee alla serena valutazione degli studi e preferì affidarne la cura ad un diverso studioso, questi, che pur non era nuovo alle onorevoli prove, non riuscì a superare il modello che da un quarto di secolo teneva il campo e finì col fornire una stampa tanto evidentemente deteriore da permettere al Gentile di riprodurre quasi immutata, con altri tipi, la sua antica ma non invecchiata edizione 1. È a partire da quegli anni precedenti al primo conflitto mondiale, che Campanella diventa pel Gentile un autore intimamente posseduto non solo più sul piano della cultura, ma in quella sfera di illuminazione totale in cui il pensiero si nutre del pensiero e le parole antiche risuonano con significazioni pregnanti. Non c’è ormai più aspetto veruno degli studi campanelliani che non attragga la sua attenzione. Per restare nel campo erudito, eccolo seguire con interesse nel 1912 le fortunate ricerche bibliografiche del Kvačala 2, convenire col Gherghi nel 1920 circa l’indagine delle fonti del Senso delle cose, non senza muovergli qualche utile appunto 3, annunciare con opportuni rilievi in quell’anno stesso il testo della Città del Sole curato dal Paladino 4, dettare una bella pagina nel 1927 in occasione della pubblicazione organica delle Lettere compiuta dallo Spampanato 5, dare in luce contemporaneamente un carteggio tra Victor Cousin e Pasquale Galluppi relativo agli anni 1841-1842, che tocca fra altri argomenti gli studi campanelliani e le ricerche del Baldacchini 6, occuparsi ancora nel 1930 dell’opportunità e dei criteri di quella stampa della Theologia, che sin d’allora l’Amerio andava preparando 7. 1 Cfr. T. CAMPANELLA, Poesie a cura di G. Gentile, Bari, Laterza, 1915; Firenze Sansoni, 1939. Cfr. la recensione apparsa ne “La critica”, X, 1912, pp. 51-52 (ora in Studi sul Rinascimento cit., pp. 215-216). 3 Cfr. la recensione in questo “Giornale”, I, 1920, fasc. I, pp. 127-128. 4 Cfr. la recensione ne “La critica”, XVIII, 1920, pp. 180-182. 5 Cfr. T. Campanella, “Corriere della Sera”, 27 agosto 1927. 6 Cfr. questo “Giornale”, VIII, 1927, p. 223; X, 1929, pp. 143-145. 7 Cfr. Teologia del Campanella, in questo “Giornale”, XI, 1930, p. 80. 2 4 All’interesse del filologo e del biografo si era intanto affiancato in lui da gran tempo l’altro e maggiore del filosofo, e Campanella diveniva oggetto d’una indagine speculativa intesa a definirne sempre meglio la figura molteplice e ad illustrarne gli apporti fecondi. In questa valutazione Campanella non appare mai come tema isolato di una ricerca monografica facilmente soggetta a perder di vista nessi essenziali e continuità di movenze spirituali: sta anzi profondamente inserito nell’età che fu sua, epigono ultimo ed esponente più alto di quel naturalismo della Rinascenza italiana, che non soltanto ebbe in lui la più matura e complessa sistemazione dottrinale e in lui divenne – fuor dei limitati interessi d’un Telesio e d’un Bruno – vero sistema universale del sapere, ma che per suo tramite, coi carteggi e le amicizie internazionali, la fama immensa, l’evasione dell’esilio francese, la stessa diaspora europea dei codici e delle edizioni, si innestò finalmente nel vivo della nuova cultura e della nuova scienza, nutrendo di sé Grozio ed Herbert di Cherbury, Cartesio e Leibniz. Doppiamente caro al Gentile questo nostro naturalismo e perché italiano e perché immanentistico: da un lato vi ravvisava l’ultima rigogliosa fioritura del nostro pensiero speculativo, nel suo mezzogiorno che aveva dato Telesio e Vanini, Bruno e Campanella ad una sorda Italia che si appresta a farsi pedestre ripetitrice di dottrine straniere, rimuginando Cartesio e Gassendi, Locke e l’Enciclopedia, ad una Italia che avrebbe ignorato la solitaria grandezza di un Vico e solo col Gioberti avrebbe ritrovato una sua filosofia 1. Per l’altro lato riconosceva in questa filosofia, tutta rivolta a spiegare la natura iuxta propria principia e così ostile a riconoscere la dommatica istanza del trascendente, la riscossa squillante dello spirito, il grido di libertà lungamente represso, quel capovolgimento di valori che riportava l’uomo al centro del cosmo e riduceva l’essere a pensiero: un idealismo avanti lettera, incerto forse e involuto nelle sue enunciazioni formali, ma squisitamente conscio della propria esigenza interiore, se giungeva a dare di sé testimonianza col patibolo di Vanini, il rogo di Bruno, il carcere trentennale e le sette torture di Campanella. 1 Cfr. Il carattere storico della filosofia italiana, Bari, 1918 (sul Campanella in particolare le pp. 22-26 e 30-31). 5 Ora è proprio nel caso di Campanella che questa interpretazione – che pure ha il merito di porre in luce l’aspetto più suggestivo e fecondo di quel filosofare – si esaurisce in un particolarismo insufficiente ad abbracciarne la figura tanto complessa e discorde: i testi fondamentali dell’età matura venuti in luce in tempi recentissimi (il primo libro della Theologia apparve nel ‘36, una metà del Reminiscentur nel ‘39) aprono oggi più vasti orizzonti e sempre più chiaramente risulta come una definizione veramente coerente del Filosofo di Stilo debba tener conto di assai maggiori interessi speculativi di quanti ne abbracciasse lo schietto naturalismo rinascimentale: Campanella ha sì studiato Platone e Plotino, Ficino e Pico, ha sì impostata la sua cosmologia e la sua fisica su uno schema fedelmente telesiano, ma in lui convergono anche correnti scolastiche assorbite nell’adolescenza conventuale e soprattutto – bastano pochi anni a mutare un clima – egli vive la sua maturità nel pieno della Controriforma, respirando un’atmosfera satura di angosciosi interrogativi, oppressa dall’urgere di problemi politici e morali, che il pieno Cinquecento pareva ancora ignorare. Da questo punto di vista, schiuso sopra un orizzonte tanto più vasto e vario, riesce interessante rileggere ad esempio la recensione che il Gentile dettava nel 1912 per il saggio del Déjob 1. Lo studioso francese si era proposto di risolvere con un taglio netto, con una definizione precisa il dilemma campanelliano, quella sua contraddizione continua tra azione ed enunciazione, tra vita vissuta e pagina scritta: stando alla ricostruzione biografica dell’Amabile – egli si era detto – Campanella sarebbe il più sfrontato ed ipocrita dei simulatori, un machiavellico tanto astuto da parlar male di Machiavelli, un uomo disposto a tutti i compromessi col potere temporale e con quello ecclesiastico pur di salvar la propria vita fisica e la propria libertà di pensiero. Come accettare una simile interpretazione, quando tutta l’opera sua, fiumana impetuosa d’un sessantennio infaticabile, si rivela intimamente coerente, fedele a se stessa fino alla più monotona tautologia, e non solo rigidamente ortodossa, ma esaltatrice addirittura della universale teocrazia? Superficiale ed esteriore è dunque la tesi del deismo campanelliano e lo Stilese deve essere ricollocato nella compagnia cui di fatto appartiene, fra i più ligi teocrati del medioevo. 1 Ne “La critica”, X, 1912, pp. 53-56 (ora in Studi sul Rinascimento cit., pp. 217-221). 6 Buon giuoco ebbe il Gentile a cogliere in fallo il Déjob in questa soluzione, che peccava evidentemente di semplicismo e si appoggiava inoltre al riscontro dei soli testi politici del Campanella, ma in realtà quella tesi attendeva soltanto più fondate pezze d’appoggio e formulazione meno sbrigativa per trionfare. Se è vero che Campanella fu troppo amico della libertà di coscienza per esser uomo del medioevo, se non manca di significato un fugace rapporto da lui avuto al cadere del 1633 con Herbert di Cherbury, che può dirsi il primo teorizzatore del deismo, non è men vero che la tesi della simulazione è ormai totalmente superata – il Bobbio, che tentò riprenderla, non incontrò di recente che vivaci contrasti – e si è ormai concordi nel riconoscere la piena ortodossia della matura speculazione campanelliana e la coesistenza in lui del teocrate medievale e del naturalista rinascimentale in una sintesi che la critica ha facoltà di risolvere ai fini analitici, ma non può decomporre né rinnegare. Non a torto il Gentile accettava il suggerimento del Déjob: doversi evitar l’errore di giudicare un uomo come Campanella sulla base di singoli fatti anziché al lume dell’intera sua vita. Otto anni più tardi gli studi francesi riscattavano quel tentativo inconsistente dedicando allo Stilese la complessa e completa monografia del Blanchet, ancor oggi insuperata sintesi del sistema campanelliano, e il Gentile, che vi trovava felicemente accolti ed approfonditi taluni dei suoi suggerimenti ed avvii interpretativi, ne dava ragguaglio con parole di plauso 1, non senza suggerire utili integrazioni, sia additando nel nostro Vico una continuità vitale di concezioni campanelliane riconosciuta dal Blanchet nel Sei e nel Settecento solo in filosofi d’oltralpe, sia insistendo sull’originalità e precocità del motivo soggettivistico al centro della gnoseologia campanelliana fin dalla sua prima fase più fedelmente telesiana, che già ravvisa nella sensazione non più una passio, ma una passionis perceptio, ed assume pertanto un decisivo orientamento idealistico. E parole di elogio riserbava l’anno seguente al più esile ma non superficiale lavoro della Dentice d’Accadia 2, che aveva tratteggiato alla brava un profilo del Campanella, 1 Ne “La critica”, XVIII, 1920, pp. 362-366; si veda per contro nella stessa annata (pp. 43-49) la motivata, severa recensione al grosso tomo dello Charbonnel sui liberi pensatori italiani del ‘500, che interessa pure il Campanella. Entrambi questi scritti rividero la luce nei cit. Studi sul Rinascimento (pp. 222-8 e 145-55). 2 Cfr. la recensione ne “La critica”, XIX, 1921, pp. 360-363. 7 talvolta più letterariamente compiaciuto che criticamente fondato, ma che si rilegge ancora non senza vantaggio da chi ricerchi intera, in un primo accostamento non eccessivamente impegnativo, la figura multiforme dell’uomo e del pensatore. È merito comunque del lavoro, che il Gentile ha bene sottolineato, l’esposizione sincrona della vicenda biografica e della dottrina enunciata, metodo discusso e discutibile per qualunque altro filosofo, ma imprescindibile per Campanella, in cui non puoi distinguere la vita dal pensiero, tanto quest’uomo del passato e dell’avvenire, sempre rapito nei più impossibili sogni, è piantato nel sodo dell’esperienza quotidiana, che ora per ora lo nutre e lo determina. Dopo aver tanto spesso toccato del Campanella a proposito degli scritti altrui, il Gentile aveva cominciato frattanto a parlarne anche nei proprii, talora di passata, come quando ravvisava in lui quel moderno concetto di progresso, di priorità dei contemporanei rispetto agli antichi, che aveva colto nei dialoghi bruniani, o quando poneva l’accento sul suo pregnante concetto della natura intimamente assimilata all’uomo e in lui risolta in una interiorità che prelude alla sua identificazione con lo spirito 1; ma talvolta lo Stilese gli si poneva dinnanzi come tema precipuo dell’indagine e gli ispirava pagine tuttora fondamentali per la comprensione dei motivi etici della Rinascita: analizzando un sonetto campanelliano, rozzo e balenante come tanta della sua lirica, egli poneva in luce una concezione radicalmente nuova del bene e del male nella sfera umana, che Campanella credeva di mediare da una giovanile reminiscenza dello PseudoClemente, ma che in lui nasceva invece dalla sete di autosufficienza terrena che fu propria dell’età sua. Dice dunque Campanella, che quando pure l’anima non fosse immortale e non esistesse il supremo Giudice restauratore della turbata giustizia, già in terra la buona e la mala azione troverebbero in se medesime premio nella tranquilla coscienza e pena nell’implacabile rimorso: al di là della tesi sostenuta ben vide qui il Gentile quella aspirazione ad un mondo di per sé bastevole al proprio equilibrio etico in cui si rivela l’istanza immanentistica del Rinascimento, quella stessa che ispirava ancora al Campanella l’inno esultante e commosso alla possanza dell’uomo 2. 1 Cfr. la nota Veritas filia temporis in “Scritti vari di erudizione in onore di R. Renier” Torino, 1912 (rifusa poi in G. Bruno e il pensiero del Rinascimento, Firenze, 1925, pp. 233-5), nonché il saggio Umanesimo e Rinascimento in “Rivista di cultura”, I, 1920, pp. 145-157 ora anch’esso nel G. Bruno ecc. cit., di cui cfr. le pp. 16, 19 e 29-31). 2 Cfr. Il concetto dell’uomo nel Rinascimento nel “Giornale storico della lett. it.”, LXVII, 1916, pp. 17-75 (rifuso nel G. Bruno ecc. cit., pp. 33-96). 8 Quando il munifico gesto di un memore emigrato concesse alla città di Stilo di erigere un monumento a gloria del suo Filosofo, il Gentile fu chiamato a pronunciare l’orazione inaugurale, tenuta il 19 ottobre 1924 1. Davanti alla folla convenuta la rievocazione si svolse in toni scevri di retorica, per staccate illuminazioni successive dei molteplici aspetti dell’uomo e del pensatore, sì da porgere almeno il senso della sua complessità e ricchezza, quando riusciva impossibile esporre una analisi organica. Movendo dalla risorgente fortuna del Campanella e dalla sua ormai riconosciuta grandezza, il Gentile trattò del suo sentimento dell’avvenire, così intenso di aspettazione alla soglia di una nuova èra, della sua fiera e commossa coscienza di italiano, della sua volontà ardente di agire nel mondo reale per trasformarlo alla luce delle verità riconosciute, della sua alata glorificazione dell’umano pensiero, connessa in lui al riconoscimento della propria alta missione di banditore del secolo rinnovato. Disse poi dei cardini del suo filosofare: lo studio diretto della natura, la spiritualizzazione e interiorizzazione della natura stessa, l’identificazione del conoscere con l’essere, la concezione del pensiero come attività creatrice, la certezza in una cosmica armonia che abbracci non solo il mondo fisico, ma anche quello morale e religioso dell’uomo; e ravvisò il fondamento della sua etica nel superamento dell’amor proprio, fonte d’ogni contrasto, placato solo nell’amore universale: riconobbe che la sua religione naturale poteva conciliarsi senza difficoltà con l’ortodossia cattolica: conchiuse ravvisando in lui la ricomparsa, dopo la parentesi dell’individualismo umanistico, dell’uomo intero ed integro che fa del proprio pensiero non già un pretesto per esercitazioni letterarie, ma una missione cui è sacra tutta la propria vita. Si concludeva così l’attività speculativa del Gentile nei riguardi del Campanella, con risultanze che gli studi ulteriori hanno arricchito ed integrato in più luoghi, ma che fanno parte definitivamente acquisita ormai del patrimonio della nostra cultura. 1 Pubblicato in questo “Giornale”, V, 1924, pp. 321-345 e riprodotto nel G. Bruno cit., pp. 251282. 9 Non avendo egli mostrato speciale interesse ai fondamentali testi politici ed inaccessibili essendogli rimasti quelli teologici inediti, può dirsi che la sua visione peccasse di incompletezza e che meno afferrabile gli riuscisse l’esatta percezione del continuo divenire, attraverso dodici lustri senza riposo, delle concezioni campanelliane: pure nel campo della gnoseologia, dell’etica, della metafisica le sue tesi rimangono tuttora punto di partenza obbligato per il moderno interprete. Gli studi si intensificavano in ogni campo, scritti inediti o smarriti rivedevan la luce, nuovi saggi chiarivano questo o quel punto della cronologia, della bibliografia, dell’esegesi, ma il Gentile, che a quegli studi aveva dato sì largo contributo proprio, continuava ad incoraggiare ed a guidare quelli altrui: trenta e più fra articoli, note e recensioni campanelliane volle accogliere in questo “Giornale”, sempre largo di consigli e di aiuti, sempre liberale – egli che taluno accusò di intolleranza – nel dar la parola ai dissenzienti. Che qua e là sorgevano, com’è naturale nel fervore della ricerca; e se taluni erano arzigogolanti che facevan schiamazzo per coprir magagne, altri ve n’erano che si fondavano sopra meditazione severa e studio di testimonianze di recente dissepolte, uomini degni, che intendevano rivedere tutta intera l’interpretazione del Campanella uomo e filosofo, respingendo deismo e immanentismo per sostenerne la sostanziale ortodossia con argomenti ben più validi di quelli un tempo messi in campo dal Déjob. Con essi non volle convenire il Gentile; ma quando la tesi mi parve inoppugnabile – almeno per la maturità campanelliana – e ritenni giunto il momento di enunciarla dalle pagine di questo stesso “Giornale”, egli rispose alla nota inviatagli, e che subito pubblicò integralmente, con una lettera dimessa e schietta in cui mi parve di leggere tra le righe un’ombra di accoramento: “Non sono in tutto d’accordo” scriveva il 20 maggio del ‘40 “nel suo giudizio sull’ultima fase del filosofare del Campanella. Ma ciò importa poco”. D’altro invero importavagli: del progresso costante e sereno dei liberi studi. LUIGI FIRPO. 10