JÜRGEN
MOLTMANN
A cura di Diego Fusaro
"L’escatologia è la dottrina della speranza cristiana, che abbraccia tanto la cosa sperata quanto l’atto
dello sperare. Il cristianesimo è escatologia dal principio alla fine, e non soltanto in appendice: è
speranza, è orientamento e movimento in avanti e perciò è anche rivoluzionamento e trasformazione
del presente. L’elemento escatologico non è una delle componenti del cristianesimo, ma è in senso
assoluto il tramite della fede cristiana, è la nota su cui si accorda tutto il resto, è l’aurora dell’atteso
nuovo giorno che colora ogni cosa con la sua luce" (Teologia della speranza).
Jürgen Moltmann nasce nel 1926 ad Amburgo:
prigioniero di guerra in Gran Bretagna, inizia là i suoi studi di
teologia, che terminerà a Gottinga nel 1956 con una tesi sulla
teologia degli ugonotti. Divenuto libero docente nel 1957 con
un lavoro sul calvinismo, Moltmann tiene lezione in parecchie
università, tra le quali quella di Bonn e di Tubinga. Ad
affascinarlo e ad avviarlo alla riflessione filosofica è
soprattutto la lettura de Il principio speranza di Ernst Bloch:
l’opera blochiana lo induce a domandarsi con insistenza
perché alla fede cristiana sia sfuggito il tema della speranza,
che è in realtà il suo tema principale. Riflettendo su questi
argomenti, Moltmann compone nel 1963 un saggio su Il
principio speranza e la fiducia cristiana: in questo scritto, esaminando le tesi di
Bloch, egli mette in luce come l’intero impianto della filosofia blochiana tenda al
futuro e, in forza di ciò, si proponga di recuperare gli elementi di speranza
racchiusi nel passato. Il marxismo, nell’ottica blochiana, non è altro che la docta
spes che recupera e rende superiori (conferendo ad esse la veste scientifica del
materialismo storico) le speranze del passato, dalla preistoria ad oggi. Ma la pur
pregevolissima filosofia di Bloch fa naufragio di fronte ad alcuni aspetti del
cristianesimo, carichi di speranza, ma di una speranza ultramondana che non
può in alcun caso essere ricondotta all’ipermondana riconquista dell’armonia
dell’uomo vagheggiata da Bloch. Questi fondava la speranza su basi oggettive,
mostrando come la realtà stessa, nelle sue strutture profonde di possibilità
(strutture colte da Avicenna più che da ogni altro filosofo), è speranza: in ciò si
risolve la blochiana ontologia del non-ancora-divenuto. L’uomo, in quanto non
ancora compiuto, vive affacciato sul futuro: la sua piena realizzazione ancora non
c’è stata, sicché per ora l’uomo è un homo absconditus, la cui vera realtà ha
ancora da emergere. Ma questa speranza tutta intramondana, secondo
Moltmann, non è assolutamente in grado di fronteggiare la morte: di fronte ad
essa, la speranza va in frantumi. Solo la speranza cristiana, ponendo l’accento su
una realtà ultramondana e trascendente, può vincere la morte: sicché non il
marxismo (come credeva Bloch), bensì il cristianesimo, con la sua speranza in
Dio, dev’essere considerato come la “dotta speranza” che eredita quelle del
passato e che tiene viva, fra gli oppressi, la prospettiva di un futuro di giustizia. Il
frutto di queste riflessioni su Bloch è la Teologia della speranza, del 1964:
quest’opera segna una vera e propria svolta nel panorama teologico di quegli
anni, ponendosi come alternativa alle posizioni di Barth e di Bultmann. In
Teologia della speranza, Moltmann interpreta l’intera rivelazione cristiana alla
luce del “principio speranza”, muovendo dalla constatazione che l’essenza del
cristianesimo sia la sua escatologia, la quale dev’essere dunque intesa come il
cuore del Nuovo Testamento. A questo proposito, Moltmann analizza una dopo
l’altra le grandi interpretazioni dell’escatologia prospettate da teologi e filosofi:
in particolare, egli rigetta la tesi kantiana per cui la dimensione escatologica altro
non sarebbe se non la condizione di possibilità dell’esistenza etica. Da rifiutare è
anche la lettura data da Karl Barth e incentrata sulla nozione greca di epifania
(che, facendo della rivelazione una manifestazione dell’eterno nel tempo, nega la
speranza in un futuro che deve ancora giungere). Lo stesso Bultmann sbaglia a
far leva esclusivamente sulle speranze del singolo. In opposizione a queste
interpretazioni, Moltmann mette in luce come l’Antico Testamento tratteggi la
religiosità di Israele come rivolta al futuro e costellata da una serie di promesse
divine sviluppate su di una terra che – ottenuta, perduta, riconquistata – è la base
su cui poggiano attese più grandi, quali l’instaurarsi della pace e della giustizia.
La stessa predicazione profetica e la letteratura apocalittica non fanno altro che
radicalizzare e universalizzare le promesse, prospettando un futuro che riguarda
non solo Israele, ma l’intera umanità. Il Nuovo Testamento deve essere letto in
continuità con l’Antico Testamento, come un ampliarsi su scala universale e
storica di tutte le promesse e le speranze: la stessa resurrezione di Gesù è
l’evento che avvalora le speranze antiche e che ne fa nascere di nuove; è un
evento storico non perché descrivibile con le categorie della scienza storica, ma
piuttosto perché reale possibilità di eventi futuri. Moltmann nota come
l’annuncio della resurrezione di Cristo abbia senso soltanto se incastonato
nell’orizzonte biblico delle promesse e in quello moderno dell’utopia. La
riflessione teologica deve dunque essere sviluppata nell’ottica della speranza
messianica e della resurrezione, senza nulla concedere alla “teologia naturale” o
alle prove razionalistiche dell’esistenza di Dio. Il cristianesimo deve poi
rivolgersi non solo all’interiorità del singolo, ma alla storia tutta. In questa
prospettiva di speranza, Moltmann analizza il gioco (nell’opera Sul gioco): se
nella società moderna esso si inquadra nell’attività produttiva (condividendone
il carattere alienante) e riveste una funzione distensiva, nella sua reale essenza,
che dev’essere recuperata, il gioco ha potenzialità liberatrici e sovversive, tutte
tese verso il futuro. Lo stesso cristianesimo, secondo Moltmann, deve porsi come
il gioco, in maniera altamente estetica e liberatrice, foriera di gioia e di gaudio.
Ciò non toglie, però, che l’evento cardinale del cristianesimo, la croce di Cristo,
non sia sottoponibile, nella sua assoluta specificità, alle categorie estetiche del
gioco. Nel saggio Uomo, Moltmann fa un’accurata indagine sulle diverse
antropologie, a partire da quelle biologiche che leggono l’uomo a partire dalla
sua “animalità”, per poi passare a quelle culturali e religiose, che leggono l’uomo
in chiave religiosa e spirituale. Solo l’antropologia cristiana si confronta
direttamente col dolore, negando tutte le pretese umane di autodivinizzazione.
In un mondo dilacerato da accadimenti tragici come Auschwitz o Hiroshima, la
coscienza utopica può resistere solo poggiando sulla vicenda cristica: è solo
seguendo il percorso di Cristo, scegliendo l’amore anziché la violenza, credendo
in una futura vittoria sulla morte, che si può evitare di precipitare nella
disperazione o nell’inerzia. Elaborando la sua “teologia della croce” come teoria
critico/liberatrice, Moltmann ha degli interlocutori privilegiati, dalla Scuola di
Francoforte e Benjamin alla psicanalisi, fino alla teologia di Metz. Nel 1972
appare Dio crocifisso, un’opera che segna una svolta nel pensiero moltmanniano:
nella prima parte dello scritto, egli critica tutte le forme alienanti di culto della
croce, quali ad esempio gli atteggiamenti “doloristici”, quelli esaltanti il sacrificio
e quelli mistici. Se considerata in maniera storica e precisa, la croce è, di per sé,
irreligiosa, poiché appare come uno strumento di tortura e di oppressione, come
il trionfo del non-Dio e della non-giustizia. Essa acquista senso solo se letta in
senso escatologico e, insieme, storico. Bisogna interrogarsi sulle causae crucis,
giacché da esse affiora un duplice conflitto teologico e politico. Cristo è
condannato come ribelle e riottoso sovversivo e, insieme, come bestemmiatore
per la sua opposizione all’interpretazione dominante della legge ebraica. In
Cristo risorto è racchiuso e anticipato il futuro dell’umanità: e Cristo non è altro
che un oppresso, un essere ingiustamente condannato dagli uomini e salvato da
Dio. La vicenda cristica è l’emblema di questa teologia della speranza per cui,
guardando alle vicende di Cristo, tutti quanti possiamo sperare in una salvezza
futura e attuantesi non in questo mondo, bensì nell’alto dei Cieli. Opponendosi
alle teologie apatiche, per cui Dio è unità inscindibilmente perfetta e non soggetta
a patimenti, Moltmann elabora una teologia altamente patetica, per cui ampio
spazio è concesso al soffrire di Dio per l’umanità. In questa prospettiva,
Moltmann interpreta anche la risposta dell’uomo che, guardando al soffrire
divino, si sforza di vivere nella fede e nella speranza, combattendo contro le
diverse forme di alienazione e oppressione (autoritarismo, violazione dei diritti,
distruzione dell’ambiente naturale). L’impegno per la pace e l’attenzione ai temi
dell’ecologia caratterizzano la riflessione successiva di Moltmann, che nei saggi
La giustizia crea il futuro (1989) e Lo Spirito della vita (1991) mette in evidenza i
fondamenti della missione di riconciliazione dei credenti. La Chiesa nasce
dall’agire giustificante e pacificatore di Dio, per mezzo di Cristo, nei confronti di
uomini che erano privi di giustizia e di pace. Se Dio non ci fosse, ci si potrebbe
accontentare dello status quo, dell’ingiustizia e della violenza; ma poiché Dio
esiste ed è giusto, non ci si può accontentare, ma si deve vivere nella speranza.
Moltmann individua tre diversi ambiti in cui adoperarsi per costruire una
giustizia che fondi la pace: il primo ambito ha a che fare con le persone e con le
loro relazioni; si tratta, dice Moltmann, di ridefinire il lavoro, ripartire
equamente le possibilità lavorative ed economiche. Il secondo ambito riguarda
invece i rapporti tra le diverse generazioni, e il terzo i rapporti tra l’umanità e
l’ambiente. In altri termini, è necessario superare l’egoismo della presente
generazione che sta sperperando senza criterio le risorse disponibili e
generando un inquinamento insostenibile per la natura.