DOTTORATO DI RICERCA IN FILOSOFIA CICLO XXVI COORDINATORE Prof. Stefano Poggi L'intuizione temporale nei commentari anglofoni alla prima Critica kantiana Settore Scientifico Disciplinare M-FIL/01 Dottorando Dott. Francesco Venturi Tutor Prof.ssa Roberta Lanfredini __________________________ __________________________ Coordinatore Prof. Stefano Poggi _______________________ Anni 2011/2014 Sommario Introduzione. .............................................................................................................. 3 I. Il Tempo prima e dopo Kant. .............................................................................. 17 I.1. Introduzione. ........................................................................................................ 17 I.2. Il tempo prima di Kant: Leibniz e Newton. ......................................................... 18 I.3. Il Tempo al tempo di Kant. .................................................................................. 28 I.4. Il tempo dopo Kant. ............................................................................................. 40 I.5. Il tempo di Kant al nostro tempo. ........................................................................ 48 II. Il tempo come forma del senso interno. ............................................................ 55 II.1. Introduzione. ....................................................................................................... 55 II.2. Il tempo tra facoltà e capacità. ............................................................................ 57 II.3. Il tempo come senso interno nell'Estetica trascendentale. ................................. 62 II.4. Apprensione. ....................................................................................................... 67 II.5. Dall'autocoscienza all'appercezione. .................................................................. 70 II.6. Appercezione. ..................................................................................................... 78 II.7. Il ruolo dell'Immaginazione e lo Schematismo. ................................................. 87 II.8. Sintesi. ................................................................................................................ 97 III. Il tempo nel suo uso esterno. ........................................................................... 107 III. 1. Introduzione. .................................................................................................. 107 III. 2. Il passaggio dalla prima alla seconda edizione. ............................................. 108 III. 3. Tempo e discipline fisico-matematiche. ........................................................ 117 III. 4. Tempo e analogie: successione temporale e irreversibilità. ........................... 128 III. 5. Tempo e analogie: permanenza temporale. .................................................... 141 III. 6. Il tempo, i tempi. ............................................................................................ 155 Riferimenti Bibliografici. ....................................................................................... 163 1 2 Introduzione. Il lavoro che segue ha come intento quello di studiare il modo in cui alcuni moderni studiosi di Kant hanno analizzato l’intuizione temporale, così come viene esposta soprattutto nella Critica della ragion pura. Le proprietà che caratterizzano l’insieme degli autori selezionati sono sostanzialmente tre: in primo luogo, si ha una restrizione – solo apparentemente – di tipo stilistico, in quanto verranno presi in considerazione soprattutto coloro che hanno espresso le proprie idee attraverso un commentario sulla Ragion pura; in secondo luogo, ci concentreremo sugli studiosi che hanno pubblicato le loro opere dalla seconda metà del Novecento in poi; infine, i pensatori presi in esame sono angloamericani e/o scrivono in inglese. Le tre limitazioni sopraelencate permettono, di analizzare una tipologia di autore ben definita: la presente ricerca si occuperà di chi non si è limitato a cogliere un aspetto o uno spunto del pensiero di Kant, ma ha ripreso del tutto o in gran parte le sue teorie, utilizzandole per fronteggiare problemi contemporanei. Tra coloro che si sono formati in ambienti anglofoni e che si sono confrontati con le tesi kantiane – si pensi alla tradizione analitica, al pragmatismo o ai filosofi della scienza, senza contare coloro che sono difficilmente collocabili in un filone specifico – si è cercato di operare una scelta che non solo porti vantaggi metodologici, ma che sia sostenuta da forti motivazioni teoriche, accompagnate da importanti evidenze storiografiche. Nelle pagine di questa introduzione, verrà esposto, a grandi linee, come e perché Kant è stato ripreso da altre tradizioni filosofiche; si cercheranno di delineare, in seguito, i motivi che hanno spinto a concentrarsi, tra tutte i possibili testi da studiare, sui commentari; e, infine, perché, all’interno di questi specifici testi, si è scelto un tema ben preciso, il tempo. I motivi della “riscoperta” del testo kantiano in ambito anglofono viaggiano, di solito, su un doppio binario: da un lato ci sono difficoltà nate in ambito scientifico, che hanno portato a studiare modi alternativi, da parte dei filosofi, con cui rapportarsi alle discipline fisico-matematiche; dall’altro si hanno problemi totalmente interni a indirizzi di studio quali la filosofia della scienza o quella analitica. Michael Friedman, per esempio, si rende ben conto di entrambi i lati del problema. Friedman 3 (1998: 121) ipotizza che il ritorno a Kant «derivi direttamente dai recenti attacchi naturalistici rivolti all’autonomia della filosofia dovuti, in particolare, all’opera di Quine». Ciò che più preoccupa delle teorie quineiane è il loro «naturalismo forte (hard)» derivato dal «rifiuto dell’esistenza di un peculiare dominio di “verità matematiche o concettuali oggettive” che si collochi completamente al di fuori dell’ambito delle scienze empiriche naturali moderne»1. Ed è per questo che: I filosofi contemporanei, insoddisfatti dalla tendenza prevalente a “naturalizzare” le loro discipline, incorporando anche la filosofia tra le scienze naturali, sono perciò tornati indietro, verso la filosofia di Kant, il quale, per primo, ha perciò imposto la richiesta di un compito distintivo, “trascendentale” che si ponga al di fuori del dominio delle stesse scienze di primo livello.2 Come suggeriscono le parole di Friedman, a grandi linee, sembra che le cause principali della ripresa, in tempi recenti, del pensiero critico siano state due: 1) una netta divisione dei ruoli tra filosofia e scienza, la quale, da un lato, non precluda la possibilità di una consequenzialità tra i due domini, ma che, dall’altro, non li ponga su uno stesso livello; 2) il tipo di impostazione gnoseologica che Kant conferisce al suo impianto: un idealismo trascendentale delle forme conoscitive, legato alla sua rivoluzione copernicana, che si accompagna ad un realismo empirico. Un tipo di impostazione quest’ultimo che, unito al punto precedente, permetterebbe – sebbene non costringa – di partire dalla conoscenza quotidiana per arrivare a quella scientifica in senso stretto, e che consentirebbe di differenziare sia lo status dei principi conoscitivi, intesi in senso generale, sia quello dei concetti caratterizzanti le varie discipline scientifiche. Un impianto concettuale in cui gli schemi di riferimento siano ritenuti i nodi di una griglia, attraverso la quale sia possibile passare dalla conoscenza di tutti i giorni alla descrizione scientifica degli oggetti, è alla base dell’interesse di Wilfrid Sellars per la filosofia critica. Verso la metà del secolo scorso, il filosofo analitico 1 2 Friedman (1998b: 117). Friedman (1998b: 112). 4 riprende alcune idee dalla dottrina di Kant e le rielabora, o le sviluppa, in vari passi delle sue opere. Ad essere recuperata è innanzitutto l’impostazione suddetta, tramite la quale viene rimarcata, rispetto alle filosofie precedenti, l’originalità del pensiero di Kant, il quale cercherebbe di sostituire le considerazioni metafisiche sul contenuto degli oggetti attraverso considerazioni scientifiche3. Le tesi dei due filosofi sono molto vicine anche per ciò che riguarda il modo di considerare la sensibilità, tanto che Sellars (1963: 46) afferma candidamente che «fortunatamente, [la tesi sulla sensibilità] può essere separata dalle altre caratteristiche, meno attrattive, del sistema kantiano». All’importanza ad essa riconosciuta si associa però la difficoltà nell’assegnare una condizione ben definita ai suoi elementi: la sensibilità, infatti, «rende possibile la conoscenza ed è un elemento essenziale della conoscenza, anche se di se stessa non si sa niente»4. Nonostante la genericità dello status conferito alle forme a priori della sensibilità5, Kant aveva tuttavia correttamente riconosciuto allo spazio e al tempo la caratteristica di essere delle non-cose6. Nel corso delle sue analisi, inoltre, Sellars sembra accorgersi che anche ai suoi schemi di riferimento occorrano delle basi adeguate. Neanche in questo caso è estraneo l’influsso di Kant, il quale viene indicato come colui che per primo ha riconosciuto la necessità di una conoscenza mediata degli elementi gnoseologici fondamentali del soggetto, la quale preveda, per prima cosa, la distinzione tra «il sé e i suoi atti come oggetto trascendente (an sich) e il sé e i suoi atti come oggetto immanente (fuer mich)»7. Il ragionamento prende spunto, e ruota attorno, a ciò che dovrebbe essere il fulcro dell’attività conoscitiva di Kant: l’irriducibilità dell’Io dentro lo schema di riferimento del discorso in prima persona (e, difatti, anche del tu e dell’egli) è compatibile con la tesi che una persona può essere descritta esaustivamente – in linea di principio – in termini che non implicano riferimenti a quel soggetto logico irriducibile. La descrizione, perciò, invece di usare lo schema di 3 Cfr. Sellars (1991: 100). Sellars (1991: 46). 5 Sellars (1977a: 9 n 1). 6 Sellars (1977b: 113 n 50). 7 Sellars (1977a: 9). 4 5 riferimento a cui quei soggetti logici appartengono, lo citerà.8 Sembra farsi strada l’idea, in seguito molto battuta, che gli elementi gnoseologici del soggetto possano essere conosciuti solo attraverso il loro modo di operare, che, cioè, Kant sia un funzionalista: egli non ci fornisce una descrizione precisa e puntuale delle sue nozioni, ma le presenta attraverso le cose che fanno o che ci permettono di fare, vale a dire, tramite il loro funzionamento. In questo modo, tuttavia, se, da un lato, si sposta tutta l’attenzione sul versante dell’epistemologia, dall’altro, viene lasciato in penombra proprio ciò da cui era partito il ragionamento, ossia il fondamento su cui dovrebbero appoggiarsi gli schemi di riferimento. Già da ora è bene specificare che, nel presente lavoro, parlando soprattutto di autori anglofoni, con il termine “epistemologia” si intende «indicare quell’area di intersezione fra due discipline specialistiche (la filosofia della conoscenza, o gnoseologia, e la filosofia della scienza) la quale si occupa in modo specifico della validità/verità delle nostre pretese conoscitive, comuni e scientifiche»9. Tra gli autori più recenti e di un certo peso che hanno inserito elementi kantiani all’interno dei loro sistemi, non si può non citare John McDowell. Egli, come Sellars, e in parte per controbattere il suo punto di vista10, importa dalla filosofia critica soprattutto il dualismo tra schemi di riferimento mentali e mondo: «Kant deve continuare a occupare un posto centrale nella nostra discussione del modo in cui il pensiero ha a che fare con la realtà»11. La fonte di ispirazione per McDowell (1994/1999: 49) è quindi, anche in questo caso, l’impostazione dell’approccio gnoseologico: «si deve concepire la conoscenza empirica come cooperazione di sensibilità e intelletto, come fa Kant». Tuttavia, nel far ciò, non è possibile seguire pedissequamente il modello, dato che oggi alcuni presupposti kantiani non vengono più ritenuti sostenibili: primo tra tutti, secondo McDowell (1994/1999: 102) – e a differenza di molti altri filosofi anglofoni – la cornice trascendentale che fa da contorno a tutta la concezione critica dell’esperienza. La spiegazione che dà McDowell del perché Kant insista sugli aspetti trascendentali è 8 Sellars (1991: 101). Parrini (2011: 493). 10 McDowell (1994/1999: 5 n 4). 11 McDowell (1994/1999: 3). 9 6 interessante e mette in luce una linea interpretativa che si sta facendo strada tra gli odierni commentatori: L’impianto trascendentale dà l’apparenza di spiegare come possa esserci conoscenza delle caratteristiche necessarie dell’esperienza. E Kant pensa che ammettere il soprasensibile sia un modo per proteggere gli interessi della religione e della morale.12 Si punta, in pratica, ad una possibile continuità tra le opere morali e quelle teoretiche. Purtroppo, come sarà ribadito in seguito, questo tema potrà solo essere accennato nel corso dell’esposizione, poiché svierebbe troppo dai nostri scopi attuali. Gli autori e i testi fin qui citati danno un senso di fermento e di vivida attività intellettuale intorno alle teorie del filosofo critico. Eppure, il pensiero kantiano, dalla metà del secolo scorso in poi, non è stato ristudiato affinché alcune sue singole parti possano essere sfruttate all’interno di speculazioni personali di singoli pensatori. Come si è detto all’inizio, l’esame sulla Ragion pura è stato portato avanti, inoltre, tramite vari commentari. Partendo dalle problematiche sottolineate precedentemente dalle parole di Friedman, chi si impegna nel produrre un commentario sulla prima Critica sembra essere mosso dalla volontà di testare ampie porzioni del pensiero teorico kantiano (se non, addirittura, la sua totalità), al fine di osservare quanti e quali aspetti della filosofia in questione possano essere ancora utilizzabili. Certo, quasi tutti tendono a concentrarsi solo su determinate parti dell’opera, ma sono spesso quelle in cui, per loro, si manifesta il nocciolo del criticismo. La produzione di questo tipo di testi ha alcuni vantaggi ben precisi: in primo luogo, i commentari sulla prima Critica possono rappresentare quasi una sorta di “genere letterario” o di filone all’interno della più vasta produzione anglofona. Ciò permette quindi di non disperdersi tra filosofi della scienza, filosofi analitici e così via, ma di concentrarsi su di una sorta di corrente di pensiero specifica, al cui interno si animano dibattiti e si avanzano teorie provenienti anche dall’ambiente circostante. Un’area di discussione filosofica forse ristretta, ma, allo stesso tempo, permeabile a molte delle istanze e delle problematiche tipiche dei maggiori indirizzi di studio 12 McDowell (1994/1999: 103). 7 anglofoni: in pratica, grazie a questa metodologia d’indagine si ha una sintesi di ciò che accade anche al di fuori, il tutto filtrato attraverso il terreno comune della filosofia kantiana. Nello specifico, tra i commentari che saranno presi in considerazione, si tenterà, in primo luogo, di vagliare testi con orientamenti differenti, al fine di avere più punti di vista e una più vasta obiettività di giudizio. Per esempio, c’è chi si è interessato maggiormente alla componente trascendentale del soggetto conoscente, cercando di separarla delle implicazioni scientifiche dell’epoca, ritenute da Kant sicuramente valide, ma oggi considerate troppo compromettenti – operazione compiuta, per esempio, da Henry E. Allison nel suo Kant's Transcendental Idealism ispirato dalle tesi che Gerd Buchdahl espone in Kant and the Dynamics of Reason; altri, invece, sottolineano proprio la continuità con le discipline scientifiche, arrivando a modificare, di contro, il modo di intendere i principi a priori kantiani – e il caso di Michael Friedman e del suo Kant and the Exact Sciences; alcuni osservano le posizioni kantiane alla luce del commentario di Heidegger, Kant e il problema della metafisica, traendo ispirazione da entrambi gli autori – si pensi a Charles M. Sherover, Heidegger, Kant and Time; in più, c’è chi punta ad una lettura prettamente funzionalistica della prima Critica – ad esempio, Graham Bird, The Revolutinonary Kant; non mancheranno, infine, opere scritte, ormai diversi anni fa, come Kant and The Claims of Knowledge di Paul Guyer. Ma l’opera forse più storicamente importante, con la quale si può dire che abbia preso l’avvio questo metodo d’indagine al di fuori dell’Europa continentale, è, naturalmente, quella di Peter Frederick Strawson, The Bounds of Sense (1966). Sebbene ci fossero già stati in precedenza dei commentari, come quelli di Norman Kemp Smith (A Commentary to Kant’s “Critique of Pure Reason”) o di H. J. Paton (Kant’s Metaphysic of Experience), e opere praticamente coeve, come Kant’s Analytic di Jonathan Bennett, è con Strawson che sembra farsi largo la tendenza ad utilizzare le pagine di Kant per rispondere a problemi contemporanei e tipici di un certo tipo di filosofia – nel suo caso, quella analitica13. Come afferma esplicitamente Anche O’Shea (2006: 521) sottolinea come sia da individuare in questo periodo il punto di svolta nell’approccio a Kant da parte dei filosofi di tradizione analitica: «dagli anni Sessanta, una delle maggiori fonti della crescente influenza delle prospettive dichiaratamente kantiane nell’epistemologia e nella metafisica si è avuta con Strawson […]. Quando [le sue opere] venivano considerate insieme, 13 8 Friedman (1998: 113): «[n]essuno, all’interno della tradizione analitica, ha fatto di più per risvegliare l’interesse sulla filosofia trascendentale kantiana di P. F. Strawson». Il testo di Strawson, infatti, oltre a raffrontarsi con molte delle ipotesi sopraelencate, sembra essere stato un modello, per coloro che si sono apprestati a scrivere un commentario. Nei testi precedenti dello stesso tipo apparivano più forti gli influssi di opere simili in lingua tedesca e anche l’impostazione sembrava leggermente diversa rispetto a quelle più recenti. Per esempio – e ciò non è detto che sia sempre un fatto positivo – in Strawson è maggiore l’attenzione per gli aspetti prettamente epistemologici che si scontrano con le possibili implicazioni ontologiche pur presenti in Kant. Questa tendenza sembrerà accentuarsi nei commentari contemporanei. L’opera di Strawson è inoltre importante non solo per l’impostazione, ma anche per i temi trattati, per lo stile e per la metodologia con cui si approccia alla Ragion pura. Tuttavia, paradossalmente, il libro di Strawson ha contribuito a sollevare il dibattito su Kant proprio perché, secondo molti, sotto alcuni punti di vista, il filosofo analitico ha totalmente frainteso certi aspetti dell’elaborazione intellettuale di Kant. Proprio perché le impostazioni e le finalità sono molteplici, nell’esegesi di un testo come la Ragion pura, si è pensato di concentrarsi su di una sorta di caso di studio: l’intuizione temporale. La scelta è caduta sul tempo perché, esaminata più da vicino, una tale nozione mostra come su di essa possano convergere molte problematiche, ipotesi interessanti e addirittura contraddizioni dalle varie tradizioni e linee interpretative delle differenti filosofie anglofone. Però, prima di entrare più nel dettaglio, è bene tenere presenti due punti di partenza che hanno guidato l’analisi del presente lavoro: da un lato, ritengo che sia stata quasi sempre sottostimata l’importanza del tempo kantiano dalla maggior parte degli interpreti – e gli autori anglofoni non fanno eccezione – tranne casi singoli, sebbene importanti; in secondo luogo, ritengo che, nonostante ciò, far luce su una nozione come l’intuizione temporale, la quale presenta ancora molti punti oscuri, potrebbe chiarire meglio molte delle difficoltà in cui si sono imbattuti i commentatori anglofoni. A livello introduttivo, si può dire che, nella Critica della Ragion pura, Kant in particolare, a quelle di Bird (1962) e di Bennett (1966), i maggiori lavori sulla prima Critica si presentavano adesso con quegli argomenti forti, per tesi sostanzialmente kantiane, che erano espressi e valutati usando analisi e stili argomentativi della filosofia analitica contemporanea». 9 sviluppa le sua concezione del tempo lungo due direttive principali: stando alla prima, lo si considera come forma del senso interno, mentre, stando alla seconda, si parla del tempo nella sua funzione mediata, come forma dei fenomeni esterni. Kant inizialmente espone, com'è noto, la sua nozione di intuizione temporale nell'Estetica trascendentale e, pertanto, si sarebbe tentati di estendere quanto lì viene affermato alle altre sezioni dell'opera. Tuttavia nell’Estetica si ha solo un'introduzione preliminare che dovrà essere integrata con quanto viene affermato nel corso della trattazione. In particolare, l'esposizione si protrae in paragrafi in cui sono ben evidenti le differenze se si considera il tempo come forma del senso interno o in rapporto ai fenomeni esterni: per esempio, per quel che riguarda il primo caso, sono illuminanti certe sezioni dello Schematismo trascendentale; per quel che riguarda il secondo, saranno presi in considerazione, soprattutto, i paragrafi relativi alle Analogie dell'esperienza. Tutto ciò verrà esposto più dettagliatamente nei tre capitoli di cui si compone il presente lavoro e che sono riassunti qui di seguito. Il primo capitolo ha un indirizzo più generale, storico ed introduttivo. Verranno analizzate le teorie storiografiche sviluppate dagli odierni commentatori di Kant per spiegare il formarsi e lo svilupparsi della sua riflessione filosofica, con particolare attenzione all’intuizione temporale. Si può già da ora anticipare che il tutto sarà visto come un’elaborazione originale, la quale, tuttavia, si fonda su di un tentativo di sintesi tra correnti di pensiero a lui precedenti, come il cartesianesimo, il razionalismo e le teorie scientifiche di Newton. Dopo di che, verranno esposte certe particolari linee interpretative avanzate da alcuni commentatori tedeschi ottocenteschi di Kant, dato che esse presentano evidenti affinità con quelle messe in campo dagli autori anglofoni qui presi in considerazione. Sarà interessante notare come, implicitamente o inconsapevolmente, molti temi e metodologie si ripresentino allo stesso modo nelle odierne letture. Infine, si cercherà esporre più approfonditamente gli aspetti che hanno spinto alcuni, tramite percorsi originali e in base ad esigenze specifiche, a ritornare verso la prima Critica di Kant. Si accennerà, a tal proposito, nella parte finale della sezione, ai noti problemi di incomunicabilità tra la filosofia continentale e quella di tradizione analitica che hanno forti ripercussioni sui modi di analizzare l’opera di Kant. Nel secondo capitolo viene analizzato il tempo come forma del senso interno. 10 Ciò darà la possibilità di iniziare ad osservare, più nel dettaglio, come questa nozione venga introdotta nella prima Critica. Per prima cosa, saranno presentate le caratteristiche dell’intuizione temporale così come vengono esposte nell’Estetica trascendentale. Dopo di che, si inizierà ad esaminare il tempo in quanto forma del senso interno. Si è pensato che il modo migliore per presentare l‘intuizione temporale in questa veste, fosse quello di indagare i suoi rapporti con nozioni importantissime per l’impianto conoscitivo kantiano, ma spesso messe in secondo piano a causa della loro “oscurità”. Il tempo, infatti, in quanto forma del senso interno, viene visto come il collante che tiene unite molte delle funzioni e capacità kantiane. E, proprio a seguito di una più minuziosa distinzione tra facoltà e capacità, si prenderà in considerazione il rapporto tra la forma del senso interno e alcune attività del soggetto conoscente, quali, ad esempio, l’Apprensione e l’Appercezione. Già da ora si può affermare che le analisi di questo capitolo rappresentano una sorta di eccezione rispetto alle altre parti del presente lavoro o a quanto detto poc’anzi: molti autori anglofoni che si sono concentrati sull’intuizione temporale come forma del senso interno hanno cercato, difatti, di evidenziarne le proprietà ontologiche. A questo tipo di interpretazioni non saranno estranee chiavi di lettura singolari, alcune delle quali affondano le loro radici nella particolare interpretazione che Heidegger ha offerto di Kant. Nel terzo capitolo si analizzerà il tempo nel suo uso esterno mediato, cioè nel suo rapporto con i fenomeni, si entrerà forzatamente in contatto con le discipline inerenti alla misurazione e alla spiegazione dei rapporti degli oggetti esterni. Ciò ci porterà a confrontarsi con una delle tematiche più dibattute da parte dagli odierni commentatori anglofoni di Kant, quella che prende le mosse dal rapporto tra filosofia e scienza, in cui spesso si inserisce quello tra conoscenza comune e conoscenza scientifica. La discussione quindi non si interesserà soltanto dell’esperienza di tutti i giorni ma si andranno a toccare quelli che per Kant erano i presupposti delle discipline fisico-matematiche, legate, inoltre, a nozioni quali lo spazio e le analogie dell’esperienza. Ci concentreremo, in particolare, sulla prima e sulla seconda analogia che, a dispetto della terza, sono state molto più dibattute all’interno dei vari commentari e sulle quali si sono sviluppate tesi innovative ed interessanti. Le varie posizioni e le diverse letture saranno introdotte, all’inizio del capitolo, da un’analisi 11 delle differenze tra la prima e la seconda edizione della Critica della ragion pura. La ricerca affronterà e cercherà di analizzare molte tematiche, ma saranno due le conclusioni a cui mira e che intende mettere in luce il presente lavoro. Innanzitutto, lo studio sul tempo ci porterà a riconsiderare i problemi del rapporto tra epistemologia e ontologia, così come vengono valutati in ambienti angloamericani, in cui, cioè, si dà importanza, quasi esclusivamente, ad una prospettiva epistemologica, riduttivistica e naturalistica. In un contesto simile, si cercherà quindi di sostenere, in primo luogo, che non è possibile operare una distinzione netta tra l'ontologia e l'epistemologia quando si ha a che fare con nozioni che operano ad un livello così profondo, come l’intuizione temporale. Ciò mette in dubbio la famosa concezione kantiana, stando alla quale l'ontologia corrisponde esclusivamente all’analitica, cioè a quella griglia di principi e di nozioni a priori che formerebbero l’intelaiatura gnoseologica del soggetto conoscente: I princìpi di cui si è in possesso non sono altro che i princìpi dell’esposizione dei fenomeni e il nome risonante di ontologia, che pretende dare in una teoria sistematica conoscenze sintetiche a priori delle cose in generale (ad esempio, il principio di causalità) deve cedere il posto a quello modesto di una semplice analitica dell’intelletto puro.14 Detto altrimenti, non solo l’ontologia dipenderebbe dall’epistemologia, ma da un tipo particolare di epistemologia. Il problema è che – e l’intuizione temporale ne è un caso esemplare – non è così facile distinguere, dove finiscano le componenti ritenute, in senso stretto, conoscitive e dove inizino quelle, per così dire, strutturali. Infatti, ad esempio, come si tenterà di mettere in luce, sono proprio le caratteristiche ontologiche del tempo che vanno a colmare, in fase conoscitiva, lacune prettamente epistemologiche. Per gli autori presi in considerazione, nei i quali è nettamente predominante la componente gnoseologica e sembrano eludere gli altri aspetti del soggetto conoscente, è quindi possibile considerare alcune funzioni dell’intuizione temporale – così come vengono espresse nell’Estetica o nello Schematismo – eminentemente epistemologiche? E, inoltre, questi attributi dell’intuizione temporale 14 Kant (1781/2005: 271; A 247/B 303). 12 possono, perciò, essere ancora considerati come proprietà di cui si può avere conoscenza solo attraverso l’analitica dell’intelletto puro? È dunque realmente possibile tracciare una linea dicendo “qui cominciano le considerazioni ontologiche e qui quelle epistemologiche”? Il rapporto tra epistemologia ed ontologia che si viene delineando nei commentari inglesi su Kant sembra che possa essere criticato nello stesso modo in cui – mi sia permesso un parallelo ardito – Duhem criticava gli esperimenta crucis in un paragrafo intitolato Un esperimento di fisica non può mai condannare un’ipotesi isolata, ma soltanto un insieme teorico15: il fisico non può mai sottoporre al controllo della esperienza un’ipotesi isolata, ma soltanto tutto un insieme di ipotesi. Quando l’esperienza è in disaccordo con le sue previsioni, essa insegna che almeno una delle ipotesi costituenti l’insieme è inaccettabile e deve essere modificata, ma non gli indica quale dovrà essere cambiata.16 Credo che l’idealismo kantiano si trovi in una situazione simile: quando l’impianto di Kant arriva a fare i conti con la realtà, ammettendo che si sia riusciti a circoscrivere il più possibile le funzioni di una nozione quale l’intuizione temporale, è difficile capire se un eventuale problema, relativo al soggetto conoscente nel rendere conto della realtà stessa, derivi da una proprietà intrinseca della struttura del tempo (attributo che potrebbe essere definito “ontologico”) o dal modo in cui svolge i suoi compiti epistemologici. Una situazione che si ripropone costantemente quando si fanno asserzioni su entità epistemologiche così fondamentali. Il soggetto conoscente cerca di riflettere su se stesso e sull’organizzazione stessa delle sue nozioni, ma siamo ad un livello simile a quello in cui, per usare una metafora, l’occhio tenta di vedere se stesso. In egual misura, durante il processo conoscitivo si cerca di rendere conto del tempo essendo esso stesso la forma del senso interno e ritrovandosi, quindi, praticamente immersi nella temporalità. Tutte queste riflessioni sono legate ad un secondo aspetto importante che si 15 16 Duhem (1914/1978: 207). Duhem (1914/1978: 211). 13 tenterà di mettere in mostra: sia che si guardi il tempo nella direzione della forma interna (più legato, quindi, agli aspetti ontologici), sia che lo si osservi come relazione tra i fenomeni (in una sua funzione eminentemente epistemologica), in Kant una tale nozione non appare mai come ultima o fondativa, ma sembra sempre svilupparsi o appoggiarsi su enti ancor più basilari. Detto altrimenti, l’intuizione temporale sembrerebbe essere una nozione che presupponga qualcosa al di sotto di essa, che non sia – per rubare il linguaggio dalla filosofia continentale – originaria ma originata. Alcuni di quelli che potremmo chiamare gli “ontologici”, per esempio, pongono a fondamento del tempo la Sintesi trascendentale, cioè la sorgente dell’attività gnoseologica spontanea del soggetto conoscente; invece, gli “epistemologi” si soffermano spesso sul concetto di tempo oggettivo, ossia su di un particolare concetto di tempo come prodotto dall’attività delle analogie dell’esperienza. Ricapitolando, il tempo come senso interno ha forti connotati ontologici che funzionano come una base per determinate operazioni epistemologiche, ma che, a loro volta, poggiano su qualcos’altro; nel caso del tempo come senso esterno mediato, invece, l’intuizione temporale partecipa con le analogie, e soprattutto con il principio di causalità, alla formulazione di un concetto di tempo oggettivo che sembra avere una portata esclusivamente epistemologica. Da entrambe le posizioni, dunque, secondo angolazioni e prospettive diverse, è ipotizzabile che si possa escludere che il tempo sia un’entità originaria la quale non presuppone niente al di sotto di sé. Oltre a ciò, lungo il corso dell’analisi, si presenteranno spesso temi ricorrenti. Come accennato in precedenza, tra questi vi è, ad esempio, il rapporto tra i commentatori anglofoni e un certo tipo di filosofia continentale. Da questo punto di vista, la ripresa, lo studio e la rielaborazione del pensiero di Kant da parte di autori di tradizioni così diverse e che, come vedremo, hanno intrecciato poche relazioni tra di loro, può rappresentare un punto di incontro per tentare di sviluppare un nuovo dialogo. Infatti, a fronte di varie difficoltà, il ritorno, senza intermediazioni, al testo kantiano – ed ecco un motivo di importanza in più per studiarne i commentari – ha il pregio di utilizzare un terreno comune, la filosofia critica appunto, che può essere utilizzato come base di un confronto tra più indirizzi filosofici, grazie alla sua grande influenza, importanza e fama. Se ci soffermassimo a riflettere su questi presupposti, 14 perde addirittura di senso la domanda: perché studiare (ancora) Kant? Paradossalmente, sembra quasi che non siano gli autori contemporanei che devono impegnarsi nel riscoprire Kant, ma che sia Kant stesso a riproporsi autonomamente. Collegato a ciò vi è la volontà e, mi sia permesso, l’ambizione di intensificare, anche in Italia, il dialogo con alcuni recenti autori anglofoni, evidenziando temi a loro cari e che, anche qui da noi, sono stati spesso affrontati. Ad esempio: l’impostazione gnoseologica dell’attività conoscitiva; il rapporto tra epistemologia e discipline scientifiche che, come accennato, potrebbe allungarsi fino al campo della morale; certi elementi che emergono spesso nel dibattito più prettamente kantiano come la sua concezione dell’esperienza, i legami tra le varie sezioni dell’opera o il modo in cui considerare i principi sintetici a priori. E queste sono solo alcune delle molteplici implicazioni in cui ci si può imbattere quando si inizia ad indagare una nozione complicata e fondamentale come l’intuizione temporale kantiana. Una nozione che ci costringe a guardare all’interno del percorso che si snoda in noi stessi in quanto soggetti conoscenti. Una situazione simile a quella in cui si trova il viandante di Novalis che, abbandonati gli spazi illuminati, chiari e diurni della via maestra, è costretto ad affrontare il buio, rivolgendosi al proprio interno, un regno oscuro e notturno, che all’inizio può spaventare ma dentro il quale, una volta esplorato con accortezza, «[p]iù divini/delle stelle scintillanti/ci sembrano gli occhi infiniti/che in noi la notte dischiude»17. 17 Novalis ([2002]: 9). 15 16 I. Il Tempo prima e dopo Kant. I.1. Introduzione. Il modo in cui Kant concepisce il tempo è innovativo: un tempo che tra le due grandi tradizioni – sostanzialista (in cui lo si considera un ente distinto e autonomo) e riduttivista (in cui lo si considera una relazione tra oggetti) – si colloca a metà strada e che, contemporaneamente, viene indicato quale nozione di riferimento per tutte le altre. Tutto ciò è il risultato, da un lato, delle proprietà che Kant gli conferisce, ispirate in parte dalle riflessioni filosofiche a lui precedenti, da l’altro, ad un lavoro di ridefinizione e di “ripulitura” del concetto stesso a cui vanno aggiunti i vari atti di bilanciamento delle funzioni temporali e dei suoi rapporti rispetto ad altre nozioni chiave dell'impianto critico. Infatti, storicamente, il ruolo di nozione di riferimento era stato destinato, di sovente, ad altri enti, tra i quali, per esempio, lo spazio. Compito di questo capitolo sarà, in primo luogo, quello di mostrare il contesto storico che ha spinto Kant verso la sua personale concezione. Successivamente cercheremo di illustrare brevemente come egli sia stato, a sua volta, un punto di partenza per elaborazioni successive. In particolare, ci concentreremo su quegli autori e su quelle correnti che, in qualche modo, possono essere messi in parallelo con un gruppo, forse ristretto ma molto attivo, di filosofi anglofoni. È forse bene chiarire fin da subito che, per quanto riguarda questi ultimi autori, ci concentreremo su una cerchia ristretta di nomi. Ogni ricerca di questo genere ha il difetto di apparire incompleta o arbitraria, selettiva e non omogenea. I vari autori che prenderemo in considerazione appartengono a indirizzi, periodi o nazioni differenti, pertanto è lecito domandarsi se non possano apparire artificiosi i vari confronti che seguiranno. Ritengo tuttavia che, per quel che riguarda i nostri scopi, ossia l’analisi del tempo principalmente nella Critica della ragion pura da parte dei pensatori anglofoni, alcuni autori abbiano contribuito più di altri ad impostare la discussione su temi precisi, dando vita quasi ad una sorta di dibattito a distanza, i cui contributi maggiori vengono appunto dai commentari sulla Ragion Pura e da articoli ad essi collegati. Al senso di arbitrarietà generale hanno 17 contribuito, in parte, gli stessi autori che prenderemo in considerazione, i quali hanno assunto, più o meno univocamente, un quadro di riferimento accuratamente selezionato quale contesto storico da presentare come terreno in cui sono germogliate le tesi kantiane, in particolar modo proprio per ciò che riguarda l’intuizione temporale. Quindi ci concentreremo, nello specifico, su quegli aspetti storiografici che più hanno ispirato le loro tesi, come le famose dispute tra leibiziani-wolffiani e newtoniani, partecipando alle quali il giovane Kant ha iniziato la sua carriera filosofica. Siamo consapevoli che sarebbe riduttivo considerare il pensiero di Kant solamente come uno sforzo di sintesi tra quelle due direttive principali: molti altri sono stati gli autori con cui egli si è confrontato (ad esempio, Hume, Cartesio...) e che sono stati per lui fonte di ispirazione. Eppure, i commentatori che prenderemo in esame mettono sul piatto buone argomentazioni stando alle quali proprio nel punto di contatto tra la spinta newtoniana e leibniziana si sia formata l’innovativa concezione kantiana del tempo. I.2. Il tempo prima di Kant: Leibniz e Newton. Ci sono diverse motivazioni e diversi gradi di consapevolezza nella ripresa, da parte di autori anglofoni, dei temi messi sul tavolo da Kant. Certi pensatori, come Michael Friedman o Graham Bird, hanno rielaborato alcuni elementi kantiani affinché potessero essere ancora oggi riutilizzati, mostrandone, al contempo, lo sviluppo e la continuità con opere di altri filosofi. Altri sembrano limitarsi alla ricerca di un’idea per affrontare un periodo di cambiamento scientifico, simile a quello che si è avuto nel Seicento o con la crisi della fisica tra XIX e XX secolo. Una tendenza che in Kant trova il suo massimo sviluppo, e che spesso è ritenuta meritevole di essere ripresa, è, per l’appunto, l’approccio attento e dialogante nei confronti degli sviluppi scientifici della sua epoca; atteggiamento che, tuttavia, non si appiattiva unicamente a favore di essi. D'altro canto, proprio l’analisi di una nozione come il tempo, paradossalmente, si è dimostrata importante anche per coloro che hanno voluto allentare i legami con le discipline fisico-matematiche, ribadendo una sorta di primato o di precedenza della speculazione filosofica. Il modo di porsi di Kant nei confronti delle materie scientifiche e il rapporto che instaura tra scienza e 18 filosofia risente del clima dell’epoca in cui si è formato, in parte dovuto, come accennato, ad alcuni confronti tra concezioni opposte. Alcune delle più famose fanno capo alle teorie di Leibniz e di Newton. È difficile capire quanto e cosa del pensiero originale dei due autori sia arrivato fino a Kant. Per esempio, egli potrebbe non aver avuto una conoscenza diretta delle opere di Leibniz, ma i suoi studi si baserebbero su ciò che di esse riportavano i testi di Wolff1. A proposito di Leibniz, difficoltà ulteriori sono date dal fatto che, esattamente per quel che riguarda temi quali lo spazio e il tempo, la posizione del filosofo razionalista sia cambiata nel corso degli anni: inizialmente le sue considerazioni sullo spazio convergevano verso la nozione di spazio assoluto2 ma, cercando di prendere le distanze da quella sorta di ingenuo idealismo empirico di alcuni suoi predecessori, ha elaborato una sua personale posizione del tutto originale. È su questa concezione più caratteristica e matura dello spazio e del tempo che la maggior parte dei commentatori ha posto l’accento, considerano due testi in particolare: la Monadologia (1714) e il suo scambio epistolare con Samuel Clarke (1715-16). Stando alla metafisica delineata in tali opere, le reali componenti del mondo sarebbero le monadi, sostanze semplici e indivisibili, «dove non esistono parti, non v’è estensione, né figura, né divisibilità possibile»3. Anche il soggetto conoscente è da considerarsi, a sua volta, una monade, la quale, proprio durante le operazioni conoscitive, può avvalersi con sicurezza solo dell’attività razionale dato che la percezione degli oggetti fornisce una conoscenza inattendibile e confusa. La sensibilità è, infatti, una facoltà inaffidabile, se non illusoria, e solo la ragione dà libero accesso al mondo reale. Siamo di fronte, pertanto, ad una conoscenza che deriva da un certo modo di intendere l'ontologia e che punta verso delle entità 1 Kemp Smith (1918/1979: 605). Vailati (1997: 112). Cfr. anche Hartz/Cover (1988) i quali individuano tre momenti nello sviluppo del pensiero di Leibniz su spazio e tempo: un primo periodo (anni 1676-88) in cui tempo e spazio sarebbero “fenomeni ben fondati”; un periodo di passaggio (1689-1709) in cui spazio e tempo vengono considerati, alla stregua dei numeri, oggetti del pensiero, nettamente separati dall’altro livello degli oggetti reali e concreti; infine il periodo del pensiero maturo (1711-16), a cui corrisponde lo scambio con Clarke e che sembra essere quello a cui si fa maggiormente riferimento. È qui che si ha una tripartizione ontologica della realtà in cui si ha il livello delle monadi (substantiae), quello dei fenomeni o dei corpi (quasi-substantiae) e infine quello degli entia rationis a cui apparterrebbero proprio lo spazio e il tempo. 3 Leibniz ([1986]: 33). 2 19 intellegibili poste a fondamento della realtà. In aggiunta a quanto appena detto, Leibniz sostiene che le monadi siano “senza finestre”, che non abbiano cioè modo di comunicare con il mondo esterno o tra di loro. Gli stati interni, dunque, possono essere spiegati soltanto da un principio anch’esso interiore, che viene presentato come una sorta di forza attiva. Ciò comporta però dei problemi di difficile soluzione: per esempio, come spiegare, tra le tante, la corrispondenza tra una monade e l'altra? Come chiarire la coerenza tra le esperienze di diversi soggetti che, per definizione, non interagiscono tra loro? Oppure la sintonia tra ciò che percepisco ed il mondo esterno? Per giustificare la coordinazione degli stati interni con quelli esterni, com’è noto, Leibniz fa ricorso alla famosa tesi – sulla quale purtroppo non possiamo dilungarci – de “l’armonia prestabilita”, asserita da Dio fin dalla creazione. In un quadro simile, in cui l'esistenza si basa su entità prive di grandezza, quindi né spaziali né temporali, tali dimensioni non possono essere pensate come metafisicamente reali: la loro ragion d’essere deve ritrovarsi nella maniera stessa in cui le monadi si rapportano tra di loro. Spazio e tempo, perciò, vengono considerati come degli ideali a cui puntare4. Lo spazio può essere ritenuto un insieme di relazioni che le monadi intrattengono l'una con l'altra: è, più precisamente, l'ordine delle cose coesistenti. Il tempo, invece, deriverebbe inizialmente dall'ordine dei rapporti tra gli stati di coscienza interni e consecutivi di una singola monade; la temporalità sarebbe data, cioè, dalla disposizione delle cose successive, degli oggetti che si susseguono l’un l’altro. Questa maniera di considerare spazio e tempo troverebbe ispirazione, almeno in parte, in un nuovo modo di intendere la “continuità”: come si capirà meglio nel corso dell’esposizione, lo spazio e il tempo, in quanto continui, non possono essere considerati come se fossero composti da unità discrete; le divisioni al loro interno, come punti o istanti, devono essere ritenute dei termini potenziali5. Essendo una quantità continua, il tempo ha una struttura infinitesimale, al contrario della durata e del moto, che vengono considerate, loro sì, discrete. Ciò ci aiuta a determinare, per esempio, l’accelerazione e la velocità istantanea6. 4 Cassirer (1902/1986: 188) afferma che «Leibniz pensa i concetti di spazio e tempo come i concetti logici e matematici. Gli uni e gli altri sono puri prodotti di quell’”intellectus ipse” che dai sensi viene solo spinto a trarli fuori di sé». 5 Cfr. Vailati (1997: 113). 6 Cfr. Vailati (1997: 121). A questo proposito Leibniz ([1963]: 451) afferma che «Lo spazio e la materia differiscono come il tempo e il movimento». 20 Posto quindi che il tempo sia continuo, Leibniz cerca di spiegare anche come si possa accertare che l’istante a preceda l’istante b. La determinazione temporale delle cose avviene stabilendo dei rapporti di successione tra gli oggetti stessi: visto che sappiamo (grazie all’uso del Principio di Ragione Sufficiente) che A precede B e stabilito che nell’istante a si è verificato A mentre nell’istante b si è verificato B, possiamo affermare la successione tra i due momenti. Ma l'associazione di un determinato oggetto con quel determinato punto temporale non è condizionata da nessun altro fattore, ossia non dipende dalla struttura formale del tempo in sé. Essendo insensato parlare di un ordine temporale al di fuori delle monadi, il tempo sarebbe inconcepibile senza di esse. Detto con le parole dei Kant: spazio e tempo divenivano possibili, il primo mediante la relazione delle sostanze, il secondo in base alla reciproca connessione delle loro determinazioni come ragioni e conseguenze. Così infatti dovrebbero stare le cose se l'intelletto puro potesse riferirsi immediatamente agli oggetti e se spazio e tempo costituissero determinazioni delle cose in se stesse.7 Al contrario di Leibniz, Newton non vede spazio e tempo come relazioni, bensì come due entità distinte. Questa impostazione permette, a differenza di Leibniz, di arginare meglio eventuali eccessi di tipo spinoziano che dipendono, a loro volta, dall’identificazione ipotizzata da Cartesio della materia con l’estensione8. Per Newton spazio e tempo sono dimensioni da intendersi come dei contenitori infiniti all’interno dei quali interno si possono collocare gli oggetti. Ciò, da un lato, comporta che si abbia un'unica estensione, una singola durata temporale ed una sola distanza assoluta tra due punti; dall’altro, spazio e tempo sono indipendenti dagli oggetti che si trovano al loro interno. Questi ultimi possono occupare posizioni assolute, ereditando le proprietà dello spazio (come quelle geometriche) o del tempo, venendo perciò considerati, a loro volta, spazio-temporali. Infine, non solo gli oggetti sono in costante interazione gli uni con gli altri grazie, ad esempio, alla legge di gravitazione universale ma, stando alla legge di inerzia, i corpi non potrebbero cambiare i loro stati se su di essi non agissero forze esterne. 7 8 Kant (1781/2005: 284; A 267/B 323). Cfr. Vailati (1997: 112). 21 Il tempo in Newton, dunque, è sia reale – esiste indipendentemente da una mente che lo pensi (ad eccezione, forse, di quella di Dio) – sia assoluto – esiste indipendentemente dagli oggetti al suo interno. In pratica, potremmo vedere il tempo newtoniano come una monodimensione vuota su cui è possibile indicare la posizione degli oggetti: come la linea di un asse cartesiano, con una sua struttura propria, in cui è possibile far corrispondere ad ogni punto un determinato valore. Secondo questa concezione un tempo “disabitato” è assolutamente coerente. Ma la caratteristica che è bene sottolineare fin da ora, e che sarà motivo di scontro nei capitoli seguenti, è che il tempo, nella visione newtoniana, scorre costantemente a dispetto degli oggetti al suo interno: Il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente, e con altro nome è chiamato durata; quello relativo, apparente e volgare, è una misura (esatta o inesatta) sensibile ed esterna della durata per mezzo del moto, che comunemente viene impiegata al posto del vero tempo: tali sono l’ora, il giorno, il mese, l’anno.9 Fortunatamente, come già accennato in precedenza, possiamo avvalerci anche di un confronto diretto tra le due posizioni, svoltosi fra il 1715 e il 1716 attraverso uno scambio epistolare tra Leibniz e Clarke, studioso e sostenitore delle tesi newtoniane10. Tra i molti argomenti di cui discutono i due pensatori, la nostra attenzione si focalizzerà soprattutto sugli aspetti riguardanti il tempo, del quale si inizia a parlare più nel dettaglio nel terzo scritto di Leibniz (la seconda replica a Clarke). In primo luogo, nella lettera viene ricordata la definizione leibniziana di tempo come «ordine delle successioni»11; fatto ciò, vengono sollevate le critiche alla concezione di Newton. La prima obiezione, molto famosa, nasce dall’unione di alcune premesse teologiche con due principi molto cari a Leibniz, quello di Ragione 9 Newton ([1965]: 101-2) La parte più difficile nel riportare lo scambio epistolare, è riuscire a mantenere la discussione su un piano prettamente filosofico. Infatti sono molto frequenti i riferimenti teologici che servono anche da puntello alle teorie dell’uno e dell’altro pensatore. Nelle pagine seguenti tenteremo di limitare il più possibile gli accenni all’ambito prettamente religioso sia perché non abbiamo gli strumenti per analizzare a fondo tali aspetti, sia perché saranno argomenti quasi del tutto tralasciati nelle posizioni che analizzeremo in seguito. 11 Leibniz ([1963]: 400). 10 22 Sufficiente e quello dell’Identità degli Indiscernibili: se il tempo fosse assoluto e omogeneo non ci sarebbe una ragione per la quale Dio abbia fatto iniziare il mondo proprio in quel momento e non in un altro: Supposto che qualcuno domandi perché Dio non ha creato ogni cosa un anno più presto, e che quella persona voglia inferire che Dio ha fatto qualcosa senza che possa esservi una ragione per cui l’abbia fatta così e non altrimenti, gli si potrebbe rispondere che la sua illazione sarebbe vera se il tempo fosse qualcosa fuori delle cose temporali: infatti non vi potrebbe essere alcuna ragione perché le cose fossero attribuite a tali momenti piuttosto che ad altri, la loro successione restando la stessa. Ma proprio ciò dimostra che gli istanti, fuori dalle cose, non sono niente, e che essi non consistono in altro che nel loro ordine successivo.12 Clarke, in un primo momento, non sembra troppo turbato dall’ipotesi del tempo come un qualcosa al di “fuori delle cose temporali”, dando l’impressione di non aver capito a fondo i rilievi di Leibniz e continuando ad applicare alla teoria dell’avversario i propri modelli. Quando Clarke, nella sua replica, afferma: «se il tempo non fosse che un ordine di successioni nelle creature, ne seguirebbe che, se Dio avesse creato il mondo alcuni milioni di anni prima, egli non l’avrebbe tuttavia creato prima»13, sembra, per così dire, confondere la temporalità con la sua misurazione. Leibniz non sta ipotizzando che il tempo sia una specie di flusso all’interno del quale le cose vengono a trovarsi; sta invece sostenendo che sono presenti un tempo ed una successione solo se siamo in presenza di cose e se queste sono successive le une alle altre. Non è solo un problema epistemologico, al contrario, siamo di fronte ad un problema ontologico: come fare a misurare temporalmente gli eventi o le cose prima che ci siano gli oggetti stessi? Come pensare ad un’entità “tempo” senza gli oggetti? Confusione amplificata da Clarke – stando a ciò che dice sullo spazio – ammettendo la possibilità che possano far parte del tempo assoluto zone con cui gli oggetti non potranno mai entrare in contatto e che, talvolta, vengono chiamate “immaginarie”. 12 13 Leibniz ([1963]: 401). Leibniz ([1963]: 406). 23 Vedendo che il problema viene in qualche modo eluso, Leibniz cerca di riproporre nuovamente le sue critiche in passaggi molto più articolati. Nella sua quarta lettera, egli, ripartendo da dove si era fermato Clarke, afferma che uno spazio – e, per estensione, anche un tempo – senza oggetti al suo interno potrebbe essere chiamato “immaginario”14, tuttavia “immaginario” non può avere lo stesso significato assegnatogli dai newtoniani ma deve essere considerato solo come una possibilità all’interno del pensiero di Dio. Nello stesso scritto Leibniz rincara la dose con una nota in cui esclude categoricamente che siano presenti contemporaneamente tutte le parti del tempo. Così facendo, egli nega l’eventualità che il tempo assoluto possa essere un presupposto di partenza e che possa esistere nella realtà come tale15. Clarke, a questo punto, sembra iniziare a capire l’importanza dell’obiezione leibniziana visto che, nella replica successiva, cerca di fornire una risposta più particolareggiata sulle nozioni di spazio e tempo, cominciando con alcune definizioni: «Lo spazio è il luogo di tutte le cose e di tutte le idee, proprio come il tempo è la durata di tutte le cose e di tutte le idee»16. In tal modo sembra riaffermare che il raggio di azione del tempo non sia limitato solo agli oggetti, ma anche ai nostri stati interni o alle cose pensate, soprattutto – ed è questo forse un presupposto implicito – se sono pensate da Dio. Non dobbiamo dimenticare che Clarke, seguendo alcuni spunti di Newton, al fine di evitare il materialismo, lega «l’esistenza di Dio allo spazio e al tempo eguagliandoli all’immensità ed eternità divine»17. Infatti il tempo non è al di fuori di Dio, ma è una conseguenza immediata dell’esistenza divina: ad esempio, senza il tempo Dio non potrebbe essere eterno18. La conclusione è il riconoscimento del tempo quale attributo o proprietà divina19. Ma Clarke non rimane sulla difensiva. In precedenza aveva affermato che gli istanti di tempo, a differenza degli oggetti, sono completamente simili tra loro, nonostante possano essere considerati in maniera individuale, per esempio indicandoli con nomi diversi20. Questa riflessione scaturisce dall’aver posto alla base – e quasi come garanzia – dei rapporti temporali tra gli oggetti, una dimensione 14 Cfr. Leibniz ([1963]: 410). Cfr. Leibniz ([1963]: 411 n 10). 16 Leibniz ([1963]: 425). 17 Vailati (1997:22). 18 Cfr. Leibniz ([1963]: 421). 19 Cfr. Vailati (1997: 35). 20 Cfr. Leibniz ([1963]: 420). 15 24 composta da elementi tutti uguali tra di loro che scorre uniformemente. Tutto ciò, unito a quanto già detto, non è che il preludio per un attacco alla definizione di tempo come ordine della successione. Secondo Clarke, sebbene l’ordine resti identico, se la dimensione temporale fosse solamente un rapporto tra oggetti o pensieri, la quantità di tempo tra due cose potrebbe essere considerata, in situazioni diverse, più grande o più piccola. È possibile che Clarke intraveda un punto debole nel ritenere il tempo l’ordine della successione e l’insieme degli intervalli tra gli eventi, un tallone d’Achille che, ipoteticamente, potremmo rendere così: qualora il tempo fosse solo una relazione tra gli oggetti e fosse del tutto dipendente da essi, se in una data successione che fino ad oggi abbiamo considerato essere costituita da X elementi scoprissimo che implica X+1 elementi, avremmo allora una dilatazione della temporalità perché, letteralmente, nella successione ci sarebbe un oggetto in più e quindi anche la relazione sarebbe ampliata. Una situazione che, se da un lato ricorda alcuni vecchi paradossi stoici, dall’altro era tutt’altro che ipotetica dato che, in un periodo come quello in cui vivevano i due corrispondenti, le nuove scoperte nel campo del microscopico o dell’infinitamente piccolo erano all’ordine del giorno e si puntava continuamente a importanti conferme sperimentali: per esempio, è noto che Leibniz fosse profondamente colpito e meravigliato dalle scoperte biologiche fatte al microscopio; i newtoniani, dal canto loro, erano strenui sostenitori della teoria corpuscolare della luce, avversa a quella ondulatoria, e per anni hanno cercato conferme alle loro ipotesi. In entrambi i casi si apriva la prospettiva che ci fossero nuovi attori in scena all’interno di sequenze fino ad allora ritenute ben più semplici. L’aumento di oggetti all’interno di un processo comportava quindi l’aumento della durata del processo stesso e la dilatazione della successione lì riscontrata? O, ancora, in casi analoghi la successione è considerata, rispetto al modo di intenderla precedentemente, più veloce o più lenta? Clarke, infatti, in alcuni passi sembra proprio riferirsi alla velocità dello scorrere del tempo: per lui, che una cosa possa seguirne un’altra più o meno velocemente, non dovrebbe incidere sul fluire del tempo in sé, dato che, in una successione, stabilito il punto iniziale e quello finale, la velocità dello scorrere del tempo non dovrebbe mutare. Clarke conclude affermando che il tempo non può essere considerato una relazione tra gli oggetti e ribadendo che se «non vi fossero creature, l’ubiquità di Dio e la continuazione della sua esistenza 25 renderebbero lo spazio e il tempo identici a quelli attuali»21. Alcune espressioni di Leibniz hanno fatto pensare che la replica fornita da Clarke colpisse nel segno22. Tuttavia, un’analisi più puntuale mostra che tali repliche, da un lato portano Leibniz a dover esporre le sue tesi con maggior cura, da l’altro sembrano spingerlo verso un salto concettuale che arricchisce la sua formulazione delle dottrine spazio-temporali. Nella sua ultima lettera, tra tutte quella significativamente più lunga, Leibniz sembra prendere in considerazione la possibilità che la scoperta di nuovi oggetti o nuovi rapporti tra oggetti, potrebbe, in qualche modo, alterare la successione temporale. Nella risposta data da Leibniz, egli suggerisce di considerare il tempo come un ens rationis, cioè un ideale regolativo, il quale ha al suo interno, almeno in potenza, tutti i possibili istanti. Stando così le cose, appare adesso possibile che la successione, almeno in linea di principio, debba prevedere al suo interno tutti i possibili stati che un soggetto conoscente potrebbe riscontrare. La scoperta di nuovi elementi nelle varie sequenze è dovuta, presumibilmente, alle debolezze di noi soggetti conoscenti che non riusciamo a vedere sin da subito la totalità delle relazioni coinvolte. Ma – si potrebbe replicare – una delle obiezioni al tempo assoluto non andava proprio contro l’eventualità che tutte le sue parti fossero date nello stesso momento? Per controbattere a tali questioni, vanno ricordate le importanti differenze delle due posizioni legate ai presupposti di partenza: un leibniziano, infatti, potrebbe ribadire che a livello ontologico e a differenza dei newtoniani, non c’è un’entità che si possa chiamare tempo, ma solo monadi; qualora si abbia a che fare con una dimensione temporale e con le sue funzioni, ciò avviene solo a livello epistemologico. La totalità del tempo va perciò considerata con una finalità regolativa in cui possono trovare posto tutti i possibili momenti, e differenziando concettualmente la lunghezza della sequenza dal numero di fasi che è possibile trovare al suo interno: «se il tempo è più grande, vi sarà un numero maggiore di quegli stati successivi interposti; e se è più piccolo, ve ne sarà uno minore, poiché nel tempo non c’è vuoto, né condensazione, né 21 Leibniz ([1963]: 427). Qualcosa di simile a quello che illustra Vailati (1997: 136): «se gli eventi A e B sono dati in quell’ordine temporale, con T quale insieme di istanti tra di loro, e c’è un lasso di tempo tra di essi, allora il nuovo insieme di istanti U tra di loro include propriamente T e l’ordine della successione, cioè la collezione di “luoghi” temporali, è differente dall’originale». 22 26 penetrazione»23. Se rimaniamo su questo piano ideale, Leibniz ([1963]: 436) ammette perfino la possibilità di eventuali confusioni, come quella di chiamare lo stessa porzione temporale in maniera diversa, dato che, a quel livello, «esse si rassomigliano perfettamente, come due unità astratte». Ma questa eventualità è esclusa se consideriamo due unità temporali attuali, cioè i rapporti tra due oggetti che sono constatabili proprio in questo momento. Che essi siano esattamente due istanti qualitativamente distinti, è dovuto al fatto che occupano due posizioni diverse all’interno di una successione. Sono precisazioni che servono, inoltre, a ribadire la posizione di Leibniz sul rapporto tra la creazione del mondo e la temporalità: non ha proprio senso chiedersi se il mondo potesse cominciare prima o dopo quando gli oggetti e il modo di misurarli hanno un legame così stretto; a ciò va aggiunto che la domanda perde di significato anche se si considera il tempo in maniera ideale24. Nelle varie lettere di Leibniz c’è un altro tema che aleggia ma che non sembra trovare una trattazione sistematica e che in parte si nutre dell’ambivalenza di un tempo ideale e relazionale che deve però render conto di oggetti reali e preclusi l’uno a l’altro: sebbene il tempo sia una nozione prevalentemente epistemologica, è possibile assegnargli, per così dire, “di riflesso”, una qualche valenza ontologica? Va ricordato che Leibniz aveva pensato agli istanti come a dei punti infinitesimali, come una sorta, anche in questo caso, di termini ideali che si avviavano verso quantità minime se non nulle: come può esistere, però, anche solo a livello epistemologico, qualcosa le cui parti tendono verso zero? Per Leibniz non siamo di fronte ad una semplice questione concettuale o di definizione terminologica, dato che tali questioni vanno a toccare la tesi del continuo temporale. A tutto questo si aggiunge l’ipotesi che si possa avere a che fare solo con l’istante presente, l’adesso: stretti tra un passato che non c’è più ed un futuro che non c’è ancora, ci ritroveremmo in un istante che, seguendo i modelli matematici, può essere ridotto ad un attimo senza durata. Anche Clarke sembra intravedere il problema, ma lo liquida come una specie gioco di parole, potendo la sua concezione aggrapparsi alla teoria degli istanti come unità discrete della durata. Ma proprio la differenza tra durata e tempo ideale era uno 23 24 Leibniz ([1963]: 461). Cfr. Leibniz ([1963]: 447-8). 27 degli argomenti che metteva maggiormente in difficoltà le tesi di Clarke, rendendo complicato il paragonare tra i momenti e le porzioni discrete di tempo 25: come abbiamo visto più volte, Dio doveva aver avuto una ragione (sufficiente) per porre l’inizio del mondo proprio in quel punto e non in un altro, ed un tempo omogeneo e indifferenziabile, come quello assoluto – fosse anche considerato puramente ideale – non andava d’accordo con questa parte delle tesi leibniziane. Anche per questo motivo – il rischio di andare contro, sebbene implicitamente, ad alcuni assunti teologici26 – tali idee sembrano arrestarsi ad un certo punto. Su questi e su altri temi, purtroppo, il confronto si concluse bruscamente con la morte di Leibniz. Il carteggio fu pubblicato dallo stesso Clarke nel 1717, ebbe numerose ristampe e fu alla base delle dispute successive tra leibniziani e newtoniani, lasciando che la discussione, in qualche modo, proseguisse. L’autorità e i successi della fisica newtoniana sembravano dare un vantaggio notevole alle tesi di Clarke, eppure le critiche di Leibniz continuarono ad essere costantemente una spina nel fianco per i seguaci del fisico inglese. Questo fu, almeno in parte, il terreno fertile in cui si sviluppò il pensiero del giovane Kant. I.3. Il Tempo al tempo di Kant. Gli allievi di Leibniz e Newton hanno continuato a confrontarsi per molti anni e in varie parti d’Europa. Per esempio, a metà del Diciottesimo secolo, nell’allora Prussia, è possibile assistere a due importanti dibattiti che spaziano su più argomenti e su più livelli di discussione (epistemologico, ontologico, idealistico…)27: il primo, tra gli anni 1725 e 1746, ha impegnato sulla vis viva newtoniani e discepoli di Christian Wolff, il quale aveva ripreso e, in alcuni casi, fortemente rielaborato le tesi di Leibniz, nell'Accademia delle Scienze di S. Pietroburgo; il secondo, tra il 1740 e il 1759, fu un confronto fra fazioni analoghe ed ebbe luogo all'Accademia delle scienze 25 Cfr. Vailati (1997: 122-3). Cfr. Vailati (1997: 122). Leibniz, in più, faceva osservare che ciò avrebbe potuto comportare la conseguenza, teologicamente inaccettabile, che Dio avesse delle parti. Inoltre, non si capirebbe il rapporto tra Dio nel tempo e tempo in Dio, cioè dove sia il confine tra soggetto e proprietà: «Si è ben sentito dire che la proprietà è nel soggetto, ma non si è mai sentito dire che il soggetto è nella proprietà. Egualmente, Dio esiste in ogni tempo: come allora il tempo è in Dio, e come può essere una proprietà in Dio?» (Leibniz [1963]: 441). 27 Per esempio cfr. Friedman (1983: 233). 26 28 di Berlino, guidata, in quel periodo, dal newtoniano Maupertuis. Gli echi delle dispute devono essere giunti alle orecchie di Kant grazie al suo maestro Martin Knutzen28, un wolffiano moderatamente revisionista che fu anche uno dei primi, in quelle zone, ad accettare le teorie di Newton. Non sorprende quindi che i primi elaborati del giovane Kant siano proprio dei tentativi di risposta ai temi discussi in quei dibattiti: intorno al primo confronto ruoteranno i Pensieri sulla vera stima delle forze vive (1746)29, mentre le considerazioni in merito al secondo saranno affidate a Monadologia physica (1756)30. Da Knutzen, inoltre, Kant avrebbe tratto ispirazione per il tentativo di riconciliare la fisica dell’epoca con le tesi dei filosofi razionalisti31. Kant si adopererà per circa vent'anni nella ricerca di un punto d'incontro tra le due posizioni32, anni in cui considererà il mondo sensibile, in cui operano le leggi fisiche, nient’altro che un riflesso di quello intellegibile di matrice leibniziana33. Inizialmente, infatti, il modus operandi kantiano si è impostato su presupposti razionalistici o meglio wolffiano-leibniziani34, assunti come punti di partenza, cercando poi di “innestarvi” i risultati della fisica della sua epoca. Lentamente però la situazione ha iniziato a cambiare e le tesi di Newton hanno acquistato un’importanza sempre maggiore. Tendenza che giunge a piena maturazione con Del primo fondamento della distinzione delle regioni dello spazio (1768), testo che precede di poco il De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis (1770) – detto anche, soprattutto nel mondo angloamericano, Dissertazione Inaugurale35 – opera quest’ultima con cui si fa canonicamente cominciare il periodo critico. Da qui in poi Kant cercherà di includerle in una prospettiva del tutto originale elementi di entrambe le dottrine filosofiche. Soprattutto nella prima Critica, infatti, quasi a voler rimarcare la differenza con le sue vecchie posizioni, non solo le tesi di Wolff e Leibniz non rappresentano più il punto di partenza ma vengono spesso 28 Schönfeld (2006: 35-6) fa notare, tuttavia, come i rapporti tra Kant il suo maestro non fossero idilliaci a seguito, soprattutto, della stesura di Pensieri sulla vera stima delle forze vive (1746). 29 Schönfeld (2006: 33) è molto critico con questo testo che definisce «pieno di errori, difficile da leggere e un fallimento accademico». 30 Per quel che riguarda questi dibattiti cfr. Friedman (1994a: 3-4). 31 Kemp Smith (1918/1979: 161). 32 Friedman (1994a: 4). 33 Friedman (1994a: 34). 34 C'è chi come Dicker (2004: 23) sottolinea che Kant, indottrinato dai testi per gli studenti tedeschi scritti da C. Wolff, fosse per tutto il periodo precritico un «deciso» razionalista. 35 Kemp Smith (1918/1979: 140). Qui si specifica anche come Kant fosse probabilmente al corrente proprio della diatriba originale tra Leibniz e Clarke. 29 fortemente attaccate: Il sostenere, quindi, che l'intera nostra sensibilità altro non sia che una confusa rappresentazione delle cose […] equivale a falsificare il concetto di sensibilità e di fenomeno, rendendone pienamente vana e inutile l'intera dottrina. La diversità di una rappresentazione chiara da una oscura è semplicemente logica, e non concerne il contenuto. […] La filosofia di Leibniz e Wolff ha dunque impresso a tutte le ricerche sulla natura e l'origine delle nostre conoscenze un indirizzo del tutto erroneo, col ritenere puramente logica la differenza fra il sensibile e l'intellettuale, quando è invece indubitabilmente trascendentale.36 Sintetizzando un po’ bruscamente, sembra quasi che Kant, ad un certo punto, smetta di rispondere ai problemi della sua epoca partendo da un'ottica inizialmente leibniziana, prendendo da Leibniz il buono che c'è da prendere e abbandonando il resto. Data la sua formazione, non sarà infatti facile separarsi del tutto dalla filosofia razionalista e, del resto, è indubbio che in testi come la prima Critica si ritrovino elementi, spunti e idee leibniziane37. Addirittura, come vedremo meglio in seguito, nella vastissima letteratura su Kant non mancheranno coloro che sottolineeranno l’affinità e addirittura la consequenzialità tra le due filosofie. Ma passi importanti, come quello riportato in precedenza, sembrano voler segnare una frattura quanto meno nei confronti degli aspetti più compromettenti di quella tradizione. Il primo di questi riguarda le entità ultime messe a fondamento della realtà, siano esse chiamate monadi o noumeni, e i risvolti epistemologici che implicherebbe un confronto diretto con esse. È vero, Kant preserva una certa attenzione per la componente formale, tanto che «[d]opo la sua correzione, rimane qualcosa dello schema concettuale di Leibniz, ma non l'impegno nei confronti di una realtà monadica»38. Tuttavia, il maggior motivo di biasimo nei confronti delle teorie razionaliste 36 Kant (1781/2005: 114-5; A 43-4/B 60-1). Secondo Bird (2006: 853-4), per esempio, gli aspetti leibniziani che possono essere accettati sono una struttura puramente formale con cui schematizzare l'esperienza e i concetti di un oggetto in generale o di un “noumeno” come correlati dell'esperienza sensibile (i quali però vengono mal formulati da Leibniz). 38 Bird (2006: 546-7). Di contro Paton (1936/1976: V. I, 183) sostiene che forse non è irragionevole pensare che, stando almeno ad un passo della prima edizione della Critica (A 359-60), Kant possa ancora ragionare nei termini di una realtà ultima, monadica che tuttavia non può essere raggiunta dalla conoscenza umana. 37 30 deriva forse dal fatto che, se si considerano le dimensioni spaziotemporali in maniera relazionale, diventa difficile concepire come esse possano rappresentare una base metafisica solida per le scienze. Un’organizzazione simile a quella razionalista mostra tutta la sua debolezza proprio quando si rapporta a nozioni quali il tempo. Come fa notare Herbert James Paton, ponendosi all’interno dell’ottica kantiana, se il tempo fosse una caratteristica indipendente dalle forme del soggetto conoscente e fosse una relazione che si stabilisce tra gli oggetti in sé, esso sarebbe una generalizzazione in base a dati empirici. Ciò implicherebbe che, essendo le verità matematiche legate al tempo e allo spazio, non potrebbero essere investite della certezza apodittica di cui godono: se fossero solo generalizzazioni di esperienze avute da qualcuno, si potrebbe sostenere che con dati empirici differenti avremmo avuto generalizzazioni diverse39. Di contro Kant, soprattutto nella Prefazione alla sua prima Critica, manifesta una profonda fiducia nella matematica e negli sviluppi della fisica della sua epoca40, accettandone tesi fondamentali ed “estreme”, quali l'attrazione come forza che agisce immediatamente e a distanza. Però, agli occhi di Kant, ciò che le eleva a modello non sono tanto la capacità predittiva o la precisione con cui ordinano i dati empirici, ma soprattutto la loro struttura: un’intelaiatura di forme a priori che si impongono alla nostra esperienza della natura41. L'escamotage di Kant, com’è noto, è quello di mettere in piedi una struttura simile affinché sia il sostegno di un tipo di rapporti del tutto particolare: non quelli tra le cose-in-sé, ma quelli tra gli oggetti intesi come fenomeni e il soggetto conoscente: Per mezzo di semplici rapporti non è certamente possibile conoscere una cosa in se stessa; bisogna dunque riconoscere che, poiché per il senso esterno non ci vengono date che semplici rappresentazioni di rapporti, esso non può contenere, nella sua rappresentazione, altro che il rapporto di un oggetto col soggetto, e non qualcosa di interno che sia proprio dell'oggetto in sé. Lo stesso 39 Cfr. Paton (1936/1976: V. I, 133-4). Stando a Schönfeld (2006: 33), ciò si evince soprattutto dalla nuova impostazione newtoniana sul modo di intendere le forze: «si era sviluppato, in Europa, un consenso stando al quale c’era un solo modo corretto di studiare le forze, quello di Newton, che, casualmente, differiva da quello proprio di Kant. Il trionfo delle meccaniche celesti – uno dei motori dell’Illuminismo – sottolineava la forza dei metodi rigorosi di Newton e metteva da parte le speculazioni concettuali». 41 A questo proposito cfr. Friedman (2001: 11; 37). 40 31 dicasi dell'intuizione interna (B 67)42. Nonostante ciò, allo stesso tempo Kant riteneva che la fisica di Newton, così com’era impostata, non fosse autosufficiente e fosse anch’essa priva di un fondamento metafisico adeguato43. Sebbene Kant non partisse più da presupposti razionalistici, non poteva, in effetti, ignorare le ben note obiezioni di Leibniz: se ci attenessimo strettamente alla teoria newtoniana, diventerebbe impossibile stabilire la differenza tra due stati di cose differenti qualora non mutassero i rapporti tra gli oggetti al loro interno ma cambiassero soltanto rispetto ad un tempo e/o ad uno spazio assoluti. I due stati di cose rimarrebbero indiscernibili e, contemporaneamente, la loro posizione assoluta non avrebbe più senso; un punto debole alimentato dal fatto che spazio e tempo assoluti non possono essere percepiti direttamente. Ciò non vuol dire soltanto che non siamo in grado di distinguere due stati di cose differenti: «l'argomento di Leibniz non è una semplice applicazione del verificazionismo. Il problema non è che l'assolutista supponga stati di cose non osservabili; piuttosto che egli si impegni nel distinguere stati di cose che, anche in virtù del suo determinato apparato teorico, non si possono distinguere»44. Uno degli obiettivi che darà vita alla prima Critica sembra quindi chiaro: fornire un’adeguata base metafisica alle discipline scientifiche della sua epoca; meno chiaro è il modo di raggiungerlo. La situazione in cui si trova Kant, soprattutto all’inizio del periodo critico, è simile a quella di un esploratore che, abbandonato dalle sue guide, cerca di orientarsi; un viaggiatore che ha tratto degli utili insegnamenti da chi l’ha portato fin lì e che è desideroso di concludere il suo cammino di cui crede di conoscere già la meta finale. Perché l’impresa vada a buon fine è necessario procedere a piccole tappe, portando a termine degli obiettivi intermedi; la rotta che l’esploratore ha deciso di percorrere è però del tutto nuova e va nella direzione opposta ai tragitti fino ad allora intrapresi. La Rivoluzione Copernicana, come 42 una scossa tellurica, investe In Guyer (1987: 352) si sostiene che questa mossa non dà i frutti sperati, visto che è la premessa metafisica che le relazioni non siano reali che porta a concludere ciò che si deve dimostrare, cioè che lo spazio e il tempo siano le nostre forme di rappresentazione in quanto non possono essere proprietà delle cose in sé. 43 A questo proposito, per esempio Kemp Smith (1918/1979: 162) sottolinea come Kant nutrisse forti perplessità per ciò che concerneva lo spazio assoluto. 44 Friedman (1983: 219). 32 principalmente la maniera di considerare l'epistemologia e il suo rapporto con l'ontologia. In seguito vedremo meglio, e più nel dettaglio, che si fanno pressanti i problemi su dove finisca l'epistemologia e dove inizi l'ontologia. E la nuova concezione kantiana del il tempo starà lì a confermarlo: un mondo di entità intellegibili (le cose-in-sé) che fanno da sfondo ai fenomeni, trova un corrispettivo in un'entità intellegibile, il tempo come senso interno, che fa da sfondo alle varie attività del soggetto conoscente. Tuttavia, una volta assunta la sua nuova impostazione, Kant si spenderà molto nel cercare un equilibrio che possa essere mantenuto tra le sue varie nozioni, prime fra tutte quelle della sensibilità: lo spazio e il tempo. Per capire ancora meglio la portata della rivoluzione kantiana45 anche in questo caso basta confrontarla con le dottrine anteriori alla sua, operazione compiuta dallo stesso Kant (1781/2005: 100; A 23/B 37-8) il quale si domanda retoricamente: Che cosa sono allora spazio e tempo? Forse entità reali? O sono semplicemente determinazioni o rapporti delle cose, che appartengono comunque alle cose in sé, anche se non sono intuite? O sono tali da appartenere soltanto alla forma dell'intuizione e così alla costituzione soggettiva del nostro animo, senza di che questi predicati non potrebbero essere attribuiti a cosa alcuna? Tradizionalmente, al primo gruppo si rifarebbe la prospettiva newtoniana; al secondo, grosso modo (si sottolinea spesso che non è del tutto identica), la prospettiva leibniziana; mentre il terzo indicherebbe la nuova linea di pensiero inaugurata da Kant46. Con il brano precedente è come se Kant anticipasse improvvisamente la sua posizione per poi fare un passo indietro. Infatti, prima di un nuovo modo di intendere il tempo, è necessario spiegare l’utilizzo di un vocabolario di fondo rinnovato, in cui trovano posto nozioni quali “intuizione”, “sensazione” e “fenomeno”47. Uno spostamento semantico che mira verso l'area della sensibilità alle cui forme Kant 45 C'è chi, come Paton (1936/1976: V. I, 563), ci ricorda che Kant arriva alla formulazione della Rivoluzione Copernicana «attraverso una considerazione del tempo e dello spazio, non attraverso una considerazione delle categorie». 46 Si veda, ad esempio, Paton (1936/1976: V. I, 107). 47 Bird (2006: 99-100). 33 assegna un'idealità incompatibile con la tradizione wolffiano-leibniziana: là l'intuizione sensibile rappresentava la conoscenza confusa; qui, avvicinandola alle dimensioni spazio-temporali e quindi alle discipline matematiche, rappresenta un primo passo verso la scienza ben fondata per eccellenza48: Leibniz ebbe a concepire lo spazio come un determinato ordine della comunanza delle sostanze, e il tempo come la successione dinamica dei loro stati. Ciò tuttavia che l'uno e l'altro sembrano avere in sé di peculiare e di indipendente rispetto alle cose, fu da Leibniz attribuito alla confusione di questi concetti, onde quella che è soltanto una forma di relazioni dinamiche fu assunta come un'intuizione a sé stante, sussistente di per sé e anteriormente alle cose. Tempo e spazio divennero in tal modo la forma intelligibile della connessione delle cose in sé (sostanze e loro stati). Le cose vennero invece intese come sostanze intellegibili (substantiae noumena). Ma Leibniz pretese far valere questi concetti come fenomeni, poiché negava alla sensibilità una modalità peculiare di intuizione, riponendo nell'intelletto ogni rappresentazione degli oggetti, anche quella empirica, e conferendo ai sensi soltanto il compito servile di confondere e alterare le rappresentazioni dell'intelletto.49 Per Kant lo spazio e il tempo non possono essere ritenuti delle entità o, ancora, degli ens rationis50, bensì possono essere considerati solo delle non-cose (Unding). Uno status che permette, tra l’altro, di non considerare qualitativamente e logicamente differenti il livello sensibile e quello intellegibile intendendoli, invece, come due diversi piani trascendentali51. Non si hanno due zone separate, l'una chiara e distinta, l'altra confusa; si hanno due aspetti, due fasi della conoscenza con contenuti differenti, ognuno affidato ad una facoltà distinta: In noi, intelletto e sensibilità sono in grado di determinare gli oggetti soltanto 48 Friedman (1994a: 31). Kant (1781/2005: 290; (A 275-6/B 331-2). 50 Kant (1781/2005: 300; A 292/B 348). A questo proposito per esempio Paton (1936/1976: V. I, 171 e sgg) crede che Kant non offra una vera a propria controprova, ma che la sua posizione escluda automaticamente le altre. 51 Paton (1936/1976: V. I, 133). 49 34 in quando vengono uniti. Tenendoli separati, si hanno intuizioni senza concetti oppure concetti senza intuizioni: in un caso come nell'altro abbiamo rappresentazioni che non possono essere riferite ad alcun oggetto determinato.52 Il tempo, in particolare, non essendo più ritenuto un'entità a sé o una relazione tra oggetti, diviene, in primo luogo, una facoltà epistemologica o una «condizione epistemica», come dirà Allison (1983/2004: 11), il quale definisce le nozioni a priori kantiane «necessarie per la rappresentazione di oggetti, cioè condizioni senza le quali le nostre rappresentazioni non si riferirebbero agli oggetti, o, ugualmente, non avrebbero una realtà oggettiva»; nel caso specifico siamo di fronte ad una forma a priori della sensibilità del soggetto conoscente. Partendo da qui, Allison (1983/2004: 97) cerca di spiegare il taglio netto operato da Kant nei confronti delle teorie precedenti riprendendo, parafrasando ed in parte estendendo il passo da noi precedentemente riportato: Kant si volge improvvisamente verso il problema della natura dello spazio e del tempo. Sono introdotte quattro possibilità. Possono essere: a) entità reali (sostanze); b) determinazioni di cose (accidenti); c) relazioni di cose che “apparterebbero loro anche se non fossero intuite”; o d) “sono tali da appartenere soltanto alla forma dell'intuizione e così alla costituzione soggettiva del nostro animo, senza di che questi predicati non potrebbero essere attribuiti a cosa alcuna”. Alle tre possibilità elencate in precedenza, ne aggiunge una, la b). Sempre Allison sostiene che di queste quattro possibilità, fin dalla Dissertazione Inaugurale, Kant avesse affermato la seria sostenibilità, in opposizione alla sua nuova prospettiva critica, solamente di due di esse: quella newtoniana appunto, che, sempre secondo Allison, corrisponderebbe a b) – in quanto tempo e spazio sono accidenti di Dio – e 52 Kant (1781/2005: 279; A 258/B 314). E poco prima, con un'aggiunta in nota presente solo nella seconda edizione, Kant (1781/2005: 278; B 313), specificava, dopo averla contrapposta a mundus sensibilis, l'espressione mundus intelligibilis :«Non si deve usare, in luogo di questa espressione, quella di “mondo intellettuale”, come si è soliti fare in tedesco; infatti, intellettuali e sensitive sono solo le conoscenze. Ciò invece che può essere colto dall'uno o dall'altro modo di intuire, cioè l'oggetto, dobbiamo chiamarlo […] intelligibile o sensibile». 35 quella leibniziana, la c). Rispetto al passo da cui è stata tratta la citazione, e ribadendo la continuità tra Critica e Dissertazione per quel che riguarda il modo di intendere lo spazio e il tempo, Bird ci fornisce un’altra lettura. Per prima cosa Bird ristabilisce la tripartizione, per così dire, classica escludendo il punto b) introdotto da Allison. Con quest’ultimo ritiene che il punto c) rappresenti la prospettiva razionalista ma, a differenza di lui, Bird afferma che sia la possibilità a) quella che rispecchia il punto di vista newtoniano, ossia che spazio e tempo siano stimati quali entità reali53. Tuttavia una divisione così netta può essere forviante. Infatti Bird è molto cauto e sottolinea come sia complicato assegnare ad una singola scuola di pensiero i vari modi di considerare il tempo elencati nel brano: bisognerebbe, per esempio, specificare cosa si intende per «esistenza reale» al fine di attribuire una tale posizione a Newton; oppure si dovrebbe esaminare meglio il modo di intendere il termine «relazione» poiché potrebbero entrare in gioco fattori riguardanti proprietà intrinseche o razionali: non sembrerebbe infatti impossibile escludere, in linea di principio, una posizione che analizzi le connessioni temporali tra gli oggetti come relazioni e che, di pari passo, sostenga il tempo assoluto in generale; infine, si potrebbe essere sostenitori del punto c) e non essere kantiani, accettando, per esempio, il tempo come intuizione, ma rifiutando alcune sue funzioni riguardanti gli stati interni del soggetto conoscente e/o parte dei suoi compiti in quanto facoltà sensibile54. Riassumendo, non è detto che accettare una tesi escluda automaticamente anche l'altra55. L'attenzione minuta per i dettagli serve a Bird (2006: 114) per suddividere in due gruppi i commentatori di Kant: i “rivoluzionari” e i “tradizionalisti”56. E proprio il tempo è uno dei temi su cui, con maggior evidenza, si può effettuare questa separazione. Per i primi, più che il modo di concepire il tempo, ad essere realmente innovativa è la svolta epistemologica che Kant imprime rispetto alle prospettive 53 Bird (2006: 107). Bird (2006: 107; 788 n 3). 55 Bird (2006: 137-8). 56 Questa suddivisione era già stata introdotta da Bird (2006: 8) definendo “tradizionalisti” quei commentatori che consideravano Kant come un fenomenista alla Berkeley o dedito ad un impegno epistemologico nei confronti della realtà degli oggetti trascendenti; chiama, invece, ”rivoluzionari” coloro che si rifiutano di associare l'epistemologia normativa antiscettica di Kant con una visione dualista dell'idealismo e che prendono seriamente la portata rivoluzionaria del pensiero kantiano. Tra i primi rientrano, per esempio, James Von Cleve, Paul Guyer e Frederick Strawson; tra i secondi Arthur Collin. 54 36 precedenti, incentrate fortemente sull’ontologia. Per i secondi, anche per quel che riguarda il tempo, Kant, dal periodo precritico, non farebbe altro che riproporre in maniera riveduta e corretta temi, per esempio, di razionalismo leibniziano, magari anche per trarne conseguenze del tutto diverse57. Affidandoci al significato letterale del termine ed ampliando un po’ la distinzione di Bird, potremmo chiamare tradizionalisti anche coloro che vedono in Kant uno strenuo persecutore di teorie genuinamente newtoniane, oppure chi lo considera un pensatore che abbia cercato costantemente una sintesi tra i due indirizzi non distaccandosi però troppo da essi. Tra i tradizionalisti, dunque, potrebbero rientrare tutti quei pensatori a cui accennavamo in precedenza e che hanno continuato a ritenere la filosofia leibniziana il punto di partenza per il pensiero critico. Tra di essi, alcuni hanno suggerito che Kant, in realtà, volesse solo allontanarsi dal Leibniz, per così dire, tratteggiato da Wolff e insegnato nelle scuole58. C’è pure chi si è spinto addirittura oltre, insistendo sulla linearità tra la filosofia di Kant e quella di Leibniz: «si resta stupiti di fronte al profondo nesso interno che qui risulta fra la dottrina di Leibniz e il sistema critico»59. Parlando del tempo, in questo gruppo (almeno per le condizioni di partenza) sembra rientrare a pieno titolo Paul Guyer (1987: 37) il quale evidenzia come Kant, «per spiegare l'inadeguatezza della struttura formale del tempo per la conoscenza empirica», mostri come il principio di successione sia prodotto direttamente dal principio di ragione sufficiente fortemente contaminato da elementi newtoniani (si afferma infatti che nessuna successione di stati avverrebbe senza l'azione di una sostanza sull'altra)60. Andando oltre ciò che proponeva Leibniz, Kant sosterrebbe che le posizioni temporali necessitino di regole aggiuntive per la loro determinazione. 57 Guyer (1987: 37). In questo caso Guyer basa la sua analisi sul fondo Duisburg e il suo intento è quello, non solo di far vedere la differenze tra Kant e Leibniz derivate da una stessa premessa, ma mostrare che un primo sviluppo di pensiero in questa direzione porterebbe 1) ad una struttura del tempo «terribilmente astratta» e 2) non spiegherebbe perché questa struttura avrebbe bisogno di regole aggiuntive per fissare i momenti temporali (Ibi : 38). 58 Per esempio, «Natorp rivendica un Leibniz già “kantiano”; anche perché la polemica antileibniziana di Kant – precisa Natorp – è una polemica contro il leibnizianesimo di scuola, contro il Leibniz di Wolff: là dove Kant ha approfondito il suo rapporto con il “vero” Leibniz (come avviene nella discussione con Eberhard) la convergenza delle due prospettive va al di là di ogni possibile frattura» (Ferrari 1988: 76). A questo proposito cfr. Cassirer (1902/1986: 193; 195-6). 59 Cassirer (1902/1986: 192). 60 Guyer (1987: 308). Per Guyer tali regole sono le Analogie dell'Esperienza, il cui apporto alla discussione vedremo meglio in seguito. Per ora è sufficiente sottolineare che, attraverso tali regole, sarà anche possibile applicare il principio di ragione sufficiente agli oggetti o eventi empirici: questo perché, il principio non è ontologico bensì epistemologico. 37 Una nuova impostazione epistemologica che non sarebbe priva di conseguenza ontologiche e che per Guyer condurrebbe ad un tempo fatto di istanti tutti uguali tra di loro. Tra i tradizionalisti che vedono in Kant un fautore della sintesi tra i due indirizzi potrebbe essere inserito un autore come George Dicker, il quale vede una netta cesura rispetto alla tradizione del razionalismo tedesco di matrice wolffiana ed evidenzia lo sforzo di sintesi kantiano tra l’impostazione newtoniana e quella leibniziana per dar vita ad un nuovo indirizzo filosofico dentro il quale il tempo sia considerato ideale ma assoluto61. Tuttavia, sempre secondo Dicker, all’interno del suo progetto, su alcuni temi particolari, Kant non riuscirebbe a staccarsi dalla tradizione razionalista in cui si è formato62. Anche Charles M. Sherover (1971: 51) propone una lettura simile, in cui si dà risalto alla continuità tra la filosofia critica e il pensiero leibniziano ma, allo stesso tempo, si cerca di mostrare come alcuni spunti tratti da Newton vengano «interiorizzati» in essa. In tal modo, Sherover fornisce una definizione del tempo che può essere accostata a quella di Dicker, considerandolo «“empiricamente reale” ma “trascendentalmente ideale”». Friedman, dal canto suo, sottolinea la linearità dello sviluppo del pensiero kantiano dai suoi predecessori, ma, se da un lato cerca di ridimensionare l’importanza del versante razionalista, dall’altro pone l’accento sull'avvicinamento costante e asintotico delle nozioni di Kant a quelle della philosophia naturalis63. Molta importanza è data al peso che le scienze positive assumono nella nuova concezione dello spazio e del tempo: tali nozioni si collegherebbero direttamente a quelle derivabili dalle scienze matematiche. All’interno della svolta critica, questo nesso risolverebbe tre problemi in cui si era imbattuto il giovane Kant: in primo luogo, le discipline matematiche non correrebbero più il rischio di esprimere proprietà spaziali e temporali relazionali che dipenderebbero, in ultima analisi, da una realtà monadica di entità né spaziali né temporali. Per esempio, la continuità dipenderebbe dalla continuità intuitiva del tempo stesso e non deriverebbe, per vie traverse, dal rapporto tra più enti. Secondariamente, sempre riguardo al tempo, le sue 61 Dicker (2004: 28). Dicker (2004: 23), in particolare, si sta riferendo alle influenze su modo di considerare il principio di causalità. 63 Cfr. Friedman (1994a: 30). 62 38 proprietà non sarebbero più soggette a confutazione empirica, dato che non proverrebbero più dalle leggi dell'interazione dinamica. Infine, si ha una ridefinizione un po’ più chiara degli ambiti di competenza tra il mondo sensibile e quello intellegibile. Si potrebbe far presente, come contraltare a questa impostazione fortemente “filoscientifica” di Friedman, che, come abbiamo visto, anche Leibniz, applica alla sua ontologia una parte dell'armamentario della logica e della matematica dell'epoca64. Anzi, come fa notare Bird, per entrambi gli indirizzi l’utilizzo delle discipline matematiche indicava il tentativo di oltrepassare un limite comune, seguendo però percorsi diversi: sia con l’impostazione newtoniana sia con quella leibniziana infatti, si pretendeva un accesso diretto alle cose-in-sé65. Tuttavia, sembra che, secondo Friedman, l’impostazione kantiana rappresenti un’ancora di salvezza per le tesi newtoniane, mentre la concezione leibniziana non può essere del tutto redenta a causa di una specie di “peccato originale”. Proprio sul tempo – che Friedman, dal canto suo, considera ideale ma non assoluto – il filosofo razionalista non riuscirebbe a giungere ad un significato totalmente nuovo, improntato sul modo di rapportarsi ai fenomeni (interni ed esterni) e non più alle cose-in-sé, a cui si arriva solo grazie agli sviluppi di Kant. Sviluppi che supplivano alle carenze dell’impostazione newtoniana e che la filosofia di Leibniz precludeva già con la sua impostazione ontologica. Soprattutto negli ultimi anni, come gli esempi degli autori precedenti hanno cercato di illustrare, la divisione di Bird si è dimostrata forse un po' troppo manichea, dato che si hanno autori “rivoluzionari” su alcuni temi e “tradizionalisti” su altri o viceversa. Emergono chiaramente, invece, le intenzioni dei commentatori di Kant, che già sulla continuità con Leibniz o Newton, innestano le loro future interpretazioni. Il risalto dato a queste due direttive del pensiero kantiano, quella leibniziana e quella newtoniana appunto, è infatti una chiave di lettura ricorrente nel dibattito tra i pensatori anglofoni. Vedere in Kant uno strenuo prosecutore del razionalismo o un fervente difensore delle scienze, darà coraggio e armi ora alla causa dell’una ora alla causa dell’altra interpretazione, soprattutto della prima Critica. Per quel che riguarda più da vicino il tempo, in generale, viene anch’esso 64 65 Bird (2006: 546). Bird (2006: 216). 39 analizzato partendo da quelle due prospettive: se lo si considera una nozione che ha subito fortemente l’influenza di Newton e delle scienze di quel periodo, viene esaminato maggiormente nel suo uso esterno e nel suo valore epistemologico; se la sua formulazione è ritenuta un’eredità delle tesi razionaliste, vengono messi in luce i suoi aspetti ontologici e la sua funzione quale senso interno. È interessante notare, o almeno accennare, ad una “coincidenza”: i primi commentatori kantiani di lingua tedesca si erano trovati più o meno nella stessa situazione dei loro futuri colleghi anglofoni. Tuttavia è altrettanto singolare evidenziare come i commentatori anglofoni, escluse particolari eccezioni (si pensi, per esempio, a Friedman e ad alcune sue posizioni, definite appunto “neokantiane”66), non citino molto spesso i loro colleghi continentali. Nonostante ciò, credo che una breve analisi di alcune indagini dei commentatori tedeschi ottocenteschi di Kant, date appunto le suddette corrispondenze, possa tornar utile anche per ciò che verrà esposto in seguito. I.4. Il tempo dopo Kant. L'importanza di Kant per i suoi diretti successori è stata enorme e palese. Sembra difficile trovare un filosofo che non sia stato influenzato o non abbia subito il fascino di alcune tesi kantiane. L’ascendente kantiano non ha irrigidito la crescita delle teorie successive le quali, anzi, sono approdate a posizioni innovative che molto si distaccavano dalle dottrine originarie e dalle tendenze del momento. Qui però, dopo una breve introduzione, al fine di evitare un discorso che sarebbe a dir poco enciclopedico, applicheremo tre tipi di limitazioni: da un lato ci concentreremo sulle posizioni di coloro che hanno tentato di riproporre le nozioni kantiane nel loro contesto, temporalmente e filosoficamente differente, spesso con qualche aggiustamento; in secondo luogo, all’interno delle tesi di questi autori, ci concentreremo sugli aspetti riguardanti principalmente il tempo; infine – e questo è forse il punto più soggettivo – cercheremo di segnalare quelle posizioni che possono avere un qualche interesse per il successivo dibattito tra i filosofi anglofoni, in 66 Soprattutto Friedman (2001) è stato considerato un testo che cerca di rivalutare il neokantismo e di portarne avanti una nuova concezione. Si veda, ad esempio, Lange (2004). 40 particolar modo perché, più o meno implicitamente, anticipano alcuni dei loro studi. Quello che in Germania è stato chiamato il “ritorno a Kant” è avvenuto in un periodo fortemente dominato dall’empirismo e dal positivismo: questo tipo di filosofie si erano molto sviluppate – cercando una data, all'incirca dopo la morte di Hegel, nel 1831 – come reazione nei confronti degli eccessi metafisici dell’idealismo. Le tesi kantiane sembravano proporre un buon compromesso a coloro che volevano arginare i problemi dati da un empirismo ingenuo e a chi cercasse una strada alternativa per rapportarsi ai recenti sviluppi scientifici67. Il 1865 viene spesso usata come data indicativa per la “riscoperta” dell'impostazione kantiana in Germania: è l’anno dell’uscita del libro Kant und die Epigonen di Otto Liebmann, la prima di una serie di opere sul filosofo critico che, dalla seconda metà del Diciannovesimo secolo in poi, vedono una vera e propria proliferazione. Basti citare i testi più importanti: la monografia su Kant di Kuno Fisher del 1968, le opere Versuch einer Entwickelunggeschichte der Kantischen Erkenntnistheorie (1875) di Friedrich Paulsen, Kant's Kriticismus in der ersten und in der zweiten Auflage der Kritik der reinen Vernunft (1878) di Benno Erdmann (il quale, tra il 1882 e il 1884 rende accessibile anche il Nachlaß di Kant) e, soprattutto, il primo volume del Kommentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft (1881) di Hans Vaihinger, il quale ha rappresentato una sorta di modello per tutta la filologia kantiana. Ma l’indirizzo che per eccellenza si rifà al pensiero di Kant è, naturalmente, il neokantismo, il quale si divide principalmente in due scuole: quella cosiddetta “di Marburgo”, che ha avuto tra i suoi esponenti pensatori come Hermann Cohen, Paul Natorp e Ernst Cassirer, e la “scuola di Baden” o “del Sud-Ovest della Germania”, tra le cui fila hanno militato Wilhelm Windelband, Heinrich Rickert e nel cui solco si è formato il giovane Martin Heidegger. È interessante la posizione di Heidegger, che potremmo definire quasi “l’antagonista per eccellenza”: tra il 1923 e il 1927 insegnerà a Marburgo, per così dire, nella tana del lupo; nel 1929, come vedremo meglio in seguito, parteciperà ad una famosa conferenza a Davos durante la quale confronterà le sue posizioni con quelle di Cassirer. Tuttavia, nonostante gli spunti offerti, le sue tesi non saranno tenute in gran considerazione dalla maggior parte dei filosofi anglofoni o, tutt’al più, sarà usato come esempio in negativo di una 67 Cfr., per esempio, Lyne (2000: 206). 41 prospettiva diametralmente opposta alla loro. Tornando alle differenze tra le due scuole, stando a quello che dice per esempio Lyne (2000: 206), «entrambe, in modi differenti, richiamano l'attenzione sulla netta distinzione di Kant tra la filosofia trascendentale e un approccio più lockeano, genetico all'epistemologia». È la logica, liberata dalla psicologia empirica, che si guadagna il centro della scena. Mentre però la scuola del Sud-Ovest si concentra sull'analisi delle scienze storiche, cercando di allentare i legami – ritenuti troppo stretti – tra il pensiero kantiano e le discipline scientifiche, la scuola di Marburgo tentava invece una maggiore integrazione tra il pensiero critico e gli ultimi sviluppi sia fisici sia matematici68. A questo proposito, è utile notare come la filogenesi della scuola di Marburgo riproponga e riporti in luce, fin da subito, il contrasto tra gli elementi razionalistici e quelli scientifici, ripartendo, da un certo punto di vista, dalla situazione in cui si trovò Kant all’inizio della sua attività speculativa. A tal proposito, è esemplare l'analisi di Hermann Cohen. Cohen, da un lato, si sofferma sulla figura di Kant come momento fondamentale di un processo che, in linea con la filosofia leibniziana, continua lo sviluppo dell'idealismo il quale, passando per Cartesio, ha la sua origine in Platone69. Dall’altro lato, Cohen non può non vedere come il metodo trascendentale sia anche figlio dell'esame dei principi della scienza di Newton70. Il risultato sembra essere una sorta di idealismo scientifico in cui l’opera di Kant rappresenta il punto più alto di una strada che non è stata ancora del tutto percorsa. Ciò che ha impedito a questo processo di arrivare al traguardo sembrerebbe imputabile, stando a Cohen, ad alcune implicazioni dipendenti dalle istanze newtoniane accolte all’interno del sistema critico, le quali hanno arrestato la spinta della filosofia kantiana. Ciò sarebbe riscontrabile soprattutto nel modo di considerare l'intuizione pura, la quale «rivela la dipendenza (negativa) di Kant dal newtonianesimo, essendo caratteristico del sistema di Newton il ricorso al metodo sintetico degli antichi e quindi l'uso “sovrano” 68 Cfr. Lyne (2000: 206-7). Ferrari (1988: 38). Uno sviluppo non solo filosofico, dato che arriverebbe a coinvolgere altre personalità della cultura tedesca, come Von Boyen e Clausewitz (Ferrari 1998: 443-4). 70 Cfr. Ferrari (1988: 51-3). E altrove: «Siamo insomma di fronte al newtonianesimo di Kant: il sistema dei principi rappresenta la determinazione dell'oggetto della fisica-matematica dei Principia di Newton» (Ferrari 1988: 55). 69 42 dell'intuizione»71. Il senso denigratorio assegnato all'intuizione pura, il cui valore sarebbe puramente metodico, rientra nel progetto di alcuni pensatori neokantiani che vorrebbero assoggettarla ai principi dell'intelletto al fine di limitarla e di farla, per così dire, assorbire dal pensiero puro. Dopotutto non c’era ragione perché le due facoltà, in quanto entrambe pure, fossero così nettamente divise. Posto che si consideri la facoltà principale l’intelletto, il muro tra di loro poteva essere abbattuto72 valutando la sensibilità in modo puramente funzionale nei confronti della facoltà dei principi. Ma la posizione di Cohen su questi temi non è condivisa da tutta la scuola di Marburgo. Proprio sull'intuizione pura, o meglio, sul rapporto tra sensibilità ed intelletto, le differenze sia con Natorp, sia, in seguito ed in maniera più accentuata, con Cassirer, sono evidenti. Cohen e Natorp sostengono entrambi che lo spazio e il tempo siano le condizioni relazionali attraverso cui ci si rapporta agli oggetti e tramite le quali sia possibile fornire contenuti alle scienze. Tuttavia Natorp riconosce «l'esigenza di trasporre spazio e tempo sul piano categoriale, ma conservandone una posizione particolare: spazio e tempo non sono soltanto, come per Cohen, categorie della matematica, bensì categorie dell'individuazione»73. In seguito Cassirer, in linea con il pensiero di Natorp, svilupperà alcuni di questi elementi partendo dal presupposto che tempo e spazio abbiano una natura relazionale e funzionale74. Cassirer sottolinea – e qui sarà importante tenere presenti le analisi fatte nei paragrafi precedenti – una sorta di filiazione di questi concetti dal pensiero di Leibniz: spazio e tempo sono dunque la conferma […] della logica leibniziana come logica delle relazioni: in essi si esprime la funzione produttiva del pensiero, la sua originaria legalità relazionale che assolve il compito di oggettivare la conoscenza al di fuori di ogni tradizionale schema predicativo.75 Lo studio effettuato da Cassirer sul tempo in Leibniz, in funzione dei suoi rapporti con Kant, ci porta alla questione del suo legame con la sostanza, vista come 71 Ferrari (1988: 60-1). Ferrari (1988: 60). 73 Ferrari (1988: 221). 74 Ferrari (1988: 221). 75 Ferrari (1988: 221). 72 43 il presupposto per avere una sequenza temporale logicamente oggettivata o, detto altrimenti, come se la successione fosse fondata su una determinazione legale 76. Tutto ciò rientrava nell'analisi della discussione, centrale per Leibniz, del concetto di forza. Purtroppo qui non possiamo addentrarci ulteriormente in tali argomenti perché ci allontaneremmo troppo dagli intenti del paragrafo. Tornando alla discussione principale, è interessante notare come Cassirer, sia da giovane analizzando Leibniz sia nella maturità sul pensiero di Kant, applichi una chiave interpretativa sviluppatasi nell'ambiente di Marburgo stando alla quale i contenuti interni del soggetto sarebbero ottenuti attraverso un’opera di produzione sintetica da parte del pensiero puro77. Ciò era reso possibile grazie ad alcune caratteristiche del lavoro del pensiero stesso, come la “continuità” – concetto già analizzato da Cohen il quale, a sua volta, riprendeva molti spunti leibniziani: all'interno del pensiero si ha infatti una produzione continua che porta da un elemento all’altro e che dà il senso di un passaggio ininterrotto. Cassirer arriverà a sviluppare questa teoria svuotandola di ogni significato metafisico e associandola ad un procedimento logico78. Lo studio di Cassirer si muove anche su un piano più storiografico e cerca di render conto di un atteggiamento nuovo nei confronti della realtà, così come emerge nei dibattiti tra Sei e Settecento, mostrando una gran quantità di posizioni originali e di nuove teorie riguardo alla dimensione temporale. Uno dei punti sui quali Cassirer pone l’accento è proprio l’importanza della concezione del tempo in Leibniz vista come momento di svolta rispetto al pensiero di Cartesio79. Quest’ultimo faceva ruotare alcuni dei suoi concetti cardine attorno alla nozione di spazio. Una strategia non nuova, basti pensare che Aristotele faceva leva sugli stessi presupposti derivando la continuità del tempo proprio da quella spaziale: dato che lo spazio è continuo, anche i moti che lo attraversano devono essere continui; ma per misurare i moti si utilizza anche il tempo; quindi, fissata una corrispondenza tra i punti di una traiettoria e il suo moto, si arrivava a stabilire la continuità temporale 80. Come nota 76 Cfr. Ferrari (1988: 226-7; 232). Cfr. Ferrari (1988: 266). 78 Cfr. Ferrari (1988: 209-11). 79 «Descartes non riesce invece ad individuare la determinazione temporale come costitutiva della dinamica: non concepisce il tempo indipendentemente dai movimenti dei corpi, non lo isola nella sua purezza metodica e nella sua specificazione matematica come tempo infinitesimo diverso dal tempo empirico» (Ferrari 1988: 174). 80 Gale (1968: 1). Il dibattito se sia il tempo a appoggiarsi sullo spazio o viceversa, è cresciuto molto 77 44 Cassirer (1902/1986: pp. 202), per Cartesio il tempo, «come concetto di genere si staccava dalle cose solo in un secondo momento», di modo che, associando «l’espressione sufficiente dell’essere» all’estensione, si cercava di «equiparare il corpo naturale all’estensione come sostanza estesa»81. Inoltre lo spazio esterno aveva un rapporto molto stretto con ciò che lo occupava, vale a dire la materia: così, attraverso una serie di rimandi che partono dall’estensione, Cartesio arriverebbe a mettere in relazione il concetto di sostanza con quello di spazio82. Anche qui un ruolo fondamentale è giocato dalla sua concezione della continuità, il cui sviluppo sarebbe rintracciabile nell’infinità geometrica dello spazio inteso come «aggregato rigido di parti»83. È interessante notare proprio il ruolo della geometria analitica84. Il modo di considerare il rapporto tra la sostanza e lo spazio sarebbe proprio dettato dai risultati matematici raggiunti da Cartesio – un’inclinazione che, in precedenza, era già stata riscontrata sia in Newton sia in Leibniz. È possibile che ciò sia dovuto alla capacità che la matematica ha di puntare direttamente agli aspetti essenziali del mondo circostante: individuare i tratti salienti portati in luce dalla matematica, dunque, equivarrebbe ad evidenziare le proprietà essenziali della realtà. È questo il quadro di riferimento che fa da sfondo alle lettere inviate da Burchard De Volder, sostenitore delle teorie cartesiane, a Leibniz, il quale, come accennato, avrebbe tratto ispirazione, per alcune sue ipotesi, dal calcolo infinitesimale85. De Volder «vede nell’estensione la vera realtà effettuale di cui la in seguito agli sviluppi einsteiniani della fisica. Sebbene la spazializzazione del tempo sia stata la tattica effettuata più di frequente, ci sono autori che hanno proposto anche punti di vista alternativi (come la dinamizzazione dello spazio). Ad essere più precisi, sembra quasi che una volta scelta, tra le due, la dimensione di riferimento l'altra possa esser derivata di conseguenza. Alcuni esempi possono essere tratti da Čapek (1976). 81 Cassirer (1902/1986: p. 28). C’è chi, come Vailati (1997: 137), ritiene che solo la teoria newtoniana sia riuscita a compiere la separazione netta tra spazio e materia, allontanandosi dal cartesianesimo, mentre la posizione di Leibniz presupporrebbe anch’essa, in qualche modo, una materia esistente necessariamente non riuscendosi a legare del tutto dalle teorie precedenti. 82 Cfr. Cassirer (1902/1986: p. 34). 83 Cassirer (1902/1986: 67). 84 Cassirer (1902/1986: p. 27): «La sostanza è dunque il presupposto generale dell’estensione ma l’estensione non la esaurisce né la dà ancora nella sua funzione essenziale. Se nondimeno è giustificato continuare a pensare sostanza e spazio in un rapporto particolare fra loro, questo può significare solo che la geometria costituisce appunto la premessa necessaria per il problema della sostanza, cioè per l’assunto di conoscere l’identità della legge in tutti i mutamenti della sostanza». 85 Per esempio, secondo Cassirer (1902/1986: 187-8), proprio le possibilità aperte dal calcolo infinitesimale mostrano che la «natura propria del tempo è espressa nella fattispecie dal suo conservare il carattere di variabile indipendente rispetto ad ogni grandezza con cui entra in rapporto. 45 continuità è una proprietà immediata. Il tempo e la sua continuità viceversa sono per lui una semplice astrazione, un ens rationis nel significato scolastico negativo di questo concetto»86. A Cartesio (e, di conseguenza, allo stesso De Volder), influenzato in parte dalle teorie scolastiche, resta preclusa un’inedita concezione della continuità dovuta soprattutto dal nuovo modo di concepire la conservazione della velocità87. Inoltre, stando sempre a Cassirer (1902/1986: 67), il modo diverso di intendere la continuità dipenderebbe, in parte, dagli sviluppi di Galilei e di Cavalieri, dove «i costrutti spaziali» nascono «dal “flusso continuo” del tempo». Flusso continuo che, all’interno del sistema leibniziano, non può naturalmente essere recepito come un’entità in continuo scorrere, ma che deve essere ritenuto come l’ordine, il passaggio consecutivo e costante da un oggetto all’altro. Cambiamenti che hanno ripercussioni sul significato di sostanza, il quale, una volta «liberato dalle strettoie dell’esserci spaziale e riferito al problema del tempo, […] frutta il concetto di conservazione»88. Lo studio delle flussioni e del calcolo infinitesimale, pertanto, permetteva a Newton e soprattutto a Leibniz di osservare la sostanza da un nuovo punto di vista. Come evidenzia efficacemente Cassirer (1902/1986: 203), «uno degli elementi essenziali nella concezione leibniziana della sostanza» prende in considerazione proprio il concetto di continuità, che «viene foggiato con esplicito riguardo al problema del tempo». O, come dice altrove, Cartesio non riesce a fondare il sistema della conoscenza della natura perché – nella tendenza a ridurre e a restringere tutti i concetti fondamentali a rapporti spaziali – perde di vista la base della dinamica moderna, il concetto di tempo. Nessun altro concetto segna con altrettanta chiarezza i limiti originari del sistema cartesiano della meccanica. Quanto è rimasto oscuro e lacunoso nei singoli concetti e problemi, si può ricondurre in massima parte In questa relativa indipendenza gli ordini, che inizialmente designavano sistemi di luoghi, pervengono al nuovo significato logico della misura». 86 Cassirer (1902/1986: 202). 87 Cassirer (1902/1986: 66). 88 Cassirer (1902/1986: 67). È bene notare che, sebbene subito di seguito mi riferirò principalmente a Leibniz, in queste pagine Cassirer rileva spesso anche il contrasto tra Cartesio e Newton, sottolineando le novità di quest’ultimo rispetto alle posizioni definite spesso ancora aristoteliche del filosofo francese. 46 all’imprecisione in cui è pensato il loro rapporto col concetto di tempo.89 Concetto, invece, posto al centro da Leibniz, il quale, come già accennato, intenderebbe «la sostanza come legalità della successione temporale» determinando, in tal modo, la natura come «conservazione del mutamento»90. La sostanza, associata al tempo, «diviene il metodo dell’oggettivare logicamente la successione temporale: solo come tale essa è in grado di esprimere mediatamente anche l’essere dello spazio»91. Ricapitolando, la scuola cartesiana, ispirandosi alle leggi della geometria che esprimo oggetti dalle caratteristiche costanti, propone una concezione della sostanza “rigida”, impostata e ferma, in cui il cambiamento non è previsto; Leibniz, invece, pone la sostanza come fondamento delle leggi della variazione, del mutamento e della successione, rendendola in ciò affine, e costituendo un parallelo, con alcune proprietà particolari del pensiero puro92. Questo è un passaggio essenziale messo in luce dagli esponenti neokantiani perché, come vedremo in seguito, non solo lo stesso Kant sembrerà oscillare sulla possibilità di accostare il concetto di sostanza ora allo spazio ora al tempo, ma proprio questa “indecisione” darà adito a due delle principali chiavi di lettura del testo kantiano da parte dei commentatori anglofoni: la sostanza va pensata in riferimento allo spazio o al tempo? E il fatto che due indirizzi di studio, che poco hanno comunicato tra loro, arrivino ad evidenziare gli stessi problemi riguardo l’esegesi del testo kantiano sta forse ad indicare una difficoltà oggettiva e mai totalmente superata da parte del filosofo critico: una difficoltà che non è nata con Kant ma a cui egli, soprattutto nella prima Critica, ha cercato di dare una risposta appoggiandosi alla sua nozione di tempo a cui però non sembra aver fornito le armi risolutive per porre termine, una volta per tutte, alla discussione. 89 Cassirer (1902/1986: 66). Cassirer (1902/1986: 204). 91 Cassirer (1902/1986: 203). 92 Cfr. Cassirer (1902/1986: 203-4). Come vedremo meglio anche in seguito, l’ultimo passo di Leibniz consiste nel legare la successione al principio di causalità e questo al principio di ragione sufficiente. Nello specifico, l’ordine della successione oggettiva di un elemento dopo l’altro può risultare solo se alla base del processo vi è un principio di causa-effetto. Un tema questo molto caro a Kant e che egli svilupperà in seguito. 90 47 I.5. Il tempo di Kant al nostro tempo. Cassirer è anche al centro di un episodio che alcuni autori indicano come lo spartiacque storico nei rapporti tra le varie correnti filosofiche occidentali. L’evento in questione è la famosissima conferenza di Davos, in Svizzera, nel 1929, in cui si poté assistere ad un dibattito tra Cassirer, allora cinquantacinquenne ed esponente di quello che ormai era considerato un indirizzo di studio istituzionalizzato della filosofia tedesca, e Heidegger, di quindici anni più giovane, il quale era visto come il rappresentante di un modo nuovo di fare filosofia. Ad assistere tra il pubblico, inoltre, vi era un giovane Carnap, il quale poté addirittura parlare con Heidegger, cosa che dovette colpirlo molto, in quanto, successivamente, mostrò un particolare interesse per la sua filosofia93. Tutta la vicenda è al centro, ad esempio, dell’analisi di Friedman. Egli è ben consapevole che le cause della rottura dei rapporti e del dialogo tra filosofi analitici e continentali non si limitano a quelle che emersero durante l’incontro94. Tuttavia, ai suoi occhi, sembra quasi che la conferenza assuma un valore simbolico, l’ultima occasione in cui tradizioni così diverse si sono potute confrontare tra di loro: mentre negli anni precedenti l’incontro di Davos le differenti tendenze filosofiche dalle quali poi emersero le tradizioni analitica e continentale erano in grado di comunicare tra loro con profitto, sulla base di un comune vocabolario filosofico, gli anni che seguirono all’incontro videro un crescente isolamento – intellettuale, linguistico e geografico – e un’estraniazione delle due tradizioni, dovuti in gran parte alla presa del potere da parte dei nazisti nel 1933 e all’emigrazione intellettuale che ne risultò, a seguito della quale Heidegger rimase solo sul continente.95 Friedman assegna un peso importante a fattori extra-filosofici, quali la politica tedesca negli anni 30 del secolo scorso. Ciononostante, si può affermare che questi motivi vadano a rinforzare gli evidenti contrasti che erano già emersi tra filosofi analitici e continentali, basta leggere le prole con cui Ryle accoglieva Essere e tempo: 93 Friedman (2000/2004: 5). Cfr. Friedman (2000/2004: 7). 95 Friedman (2000/2004: X-XI). 94 48 «[q]uesto è un lavoro molto difficile e importante che segna un avanzamento considerevole nell’applicazione del “Metodo Fenomenologico” – sebbene potrei esprimere subito il sospetto che tale avanzamento sia un’avanzata verso il disastro»96. È tuttavia interessante osservare quale fosse per Friedman il terreno comune su cui avevano dibattuto in precedenza le varie tendenze filosofiche: esso era rappresentato da «un comune retaggio neokantiano»97. Un’area che permetteva il confronto tra le più importanti correnti di pensiero dell’epoca: L’empirismo logico, la fenomenologia husserliana, il neokantismo e la nuova variante “ermeneutico-esistenziale” della fenomenologia, proposta da Heidegger, erano piuttosto impegnate un un’affascinante serie di scambi filosofici e di lotte intorno ai mutamenti rivoluzionari che allora stavano attraversando sia le Naturwissenschaften [scienze della natura] sia le Geistewissenschaften [scienze dello spirito].98 Più nello specifico, durante il loro confronto Cassirer e Heidegger hanno dibattuto «sul destino del neokantismo agli inizi del XX secolo; sulla corretta interpretazione di Kant e, in particolare, sulla relazione tra facoltà logica dell’intelletto e facoltà sensibile dell’immaginazione all’interno del pensiero kantiano»99, temi ben noti alle scuole neokantiane. Tuttavia, qui non si è in presenza di un semplice confronto tra due studiosi formatisi in indirizzi differenti. Infatti, l’intento di Heidegger, che proprio in quell’anno dà alle stampe Kant e il problema della metafisica, appariva molto più ambizioso: egli avrebbe tentato di «condurre finalmente a termine la tradizione neokantina»100. Ciò che, però, in quegli stessi anni sembra terminare è, come abbiamo visto, il dialogo tra le correnti di pensiero occidentali, in particolare tra filosofi analitici e continentale. Cosa ancor più strana se, come suggerisce Friedman (2000/2004: 189), entrambe le scuole, analitica e continentale, si trovano a fronteggiare le conseguenze 96 Ryle (1929: 355). Friedman (2000/2004: 6). 98 Friedman (2000/2004: 5). 99 Friedman (2000/2004: 7). 100 Friedman (2000/2004: 79). 97 49 della «distruzione dell’intricata architettura kantiana», la cui chiave di volta consisteva proprio nella distinzione tra facoltà sensibile e intellettuale: una tale distinzione presupponeva, al suo interno, che la struttura del pensiero fosse modellata in base alla la logica formale, costituendo anche il presupposto dell’attività intellettuale e culturale. Davanti a questa eventualità, dopo gli sforzi del neokantismo, secondo Friedman (2000/2004: 190): Possiamo restare legati, come Carnap, alla logica formale in quanto ideale di validità universale e relegare noi stessi, di conseguenza, entro i confini delle scienze esatte matematiche; oppure possiamo separarci, con Heidegger, dalla logica e dal “pensiero esatto” in generale, con il risultato di rinunciare all’ideale stesso della validità veramente universale. Proprio con Carnap la «“filosofia scientifica” in quanto tale aveva lasciato il mondo di lingua tedesca, e alla fine mise radici negli Stati Uniti. Qui si mescolò con altre tendenze importanti interne al pensiero filosofico di lingua inglese (in particolare della Gran Bretagna) per creare quella che ora chiamiamo tradizione analitica»101. Sebbene, forse, il termine “tradizione analitica” sia forviante – ragione per cui qui si è preferito usare l’indicazione linguistica, facendo riferimento alla tradizione anglofona – i filosofi a cui sembra pensare Friedman costituiscono, implicitamente, il retroterra culturale di coloro che si sono impegnati nella scrittura di un commentario kantiano. Forse è proprio a causa di questi antenati comuni che, implicitamente, le problematiche esposte dai neokantiani si sono ripresentate anche tra i nuovi commentatori di Kant. Se Carnap viene considerato tra coloro che hanno innestato i temi delle tradizioni continentali, da cui proveniva, in ambiente anglofono, appare molto più netto il filo conduttore che va da alcuni commentatori tedeschi di Kant a quelli anglofoni: dopo Carnap e, soprattutto, la sua polemica con Quine102, i commentatori anglofoni, proprio per contestare alcune tesi quineiane, sembrano voler ritornare all’origine di questo percorso, cercando di restaurare 101 Friedman (2000/2004: 190). Com’è noto, il confronto tra i due autori prende le mosse dalla distinzione di Carnap tra i problemi riguardanti la scelta di un’intelaiatura linguistica e quelli che si presentano all’interno dell’intelaiatura scelta; il rifiuto dei due dogmi dell’empirismo ad opera di Quine (riguardanti l’analiticità e il riduzionismo) si scontra totalmente con l’impostazione carnapiana. Cfr. Parrini (2002: 173 e sgg.). 102 50 l’architrave di un’impostazione che non solo permetta una distinzione tra un livello epistemologico ed uno più prettamente empirico, ma che, così facendo, agevoli un confronto tra i soggetti conoscenti. Appare quindi meno casuale che il processo di riscoperta di Kant da parte dei commentatori anglofoni segua, a grandi linee, le orme dei commentatori neokantiani, e, soprattutto, dei membri della scuola di Marburgo. Quanto detto in precedenza, in più, si unisce all’esigenza di coniugare gli sviluppi scientifici ad un quadro filosofico che potesse rendere loro piena giustizia. A tal proposito, non sono infatti passati inosservati i punti in comune tra Cohen e Peter Frederick Strawson, colui che sembra aver riacceso l’interesse per Kant tra gli anglofoni. Strawson con The Bounds of Sense, commentario sulla prima Critica kantiana, analizza i contenuti dell’opera con “lenti analitiche”. Le similitudini con quanto già fatto dai neokantiani, e soprattutto da Cohen – nonostante il testo appaia come un primo tentativo di avvicinare il pensiero critico alle tematiche e al linguaggio di un tipo di filosofia del tutto diverso – riguardano, ad esempio, l'atteggiamento positivo nei confronti delle discipline scientifiche e il rifiuto di interpretazioni soggettivistiche o psicologiche della Ragion Pura. Quest'ultimo punto, in particolare, ha nella lettura di Strawson tre conseguenze molto importanti: la prima è la perdita del significato originario del dualismo tra fenomeno e cosa in sé; in secondo luogo, si prospetta una rivalutazione del significato di a priori (riconsiderazione a cui non sembrano estranee le tesi di Reichenbach); e, infine, si pone un’attenzione maggiore sull'Analitica dei principi a discapito di altre parti dell’opera103. L’importanza assegnata al testo di Strawson non vuole dimenticare le opere precedenti di autori (soprattutto inglesi) riguardanti in special modo la prima Critica – basti pensare al commentario di Norman Kemp Smith. Tuttavia è dopo il libro di Strawson, e soprattutto dopo il dibattito che ne è seguito, che nella seconda metà del Ventesimo secolo c'è un notevole sviluppo di interesse per il pensiero di Kant da parte degli autori angloamericani. Le numerose reazioni, iniziate su alcuni temi particolari, hanno contribuito a sviluppare un vero e proprio dibattito a tutto campo, quasi un genere letterario, che, gradualmente, si è esteso a tutto lo spettro delle tematiche della filosofia critica. Il pensiero di Kant è stato usato come terreno di 103 Cfr. Edel (1997 : 62-4). 51 scontro, per esempio, tra autori prettamente analitici e autori che si rifacevano alla filosofia della scienza, così come si è sviluppata quale corrente di pensiero soprattutto in ambiti americani. Non solo: proprio negli anni Cinquanta questa sorta di “ritorno a Kant anglofono” è stato visto sia come un colpo di coda nei confronti delle tesi di Quine, sia come la riscoperta di un atteggiamento dialogante e proficuo nei confronti degli sviluppi scientifici104. Tuttavia, a dispetto dell’elevata quantità di lavori e dell'importanza del concetto, il materiale disponibile sulla nozione “tempo” rimane, tutto sommato, relativamente modesto. Sia perché esso è vittima di determinate strategie interpretative, sia perché, proprio a livello esegetico, non riscuote il successo ricevuto da altre nozioni. È possibile che ciò sia il risultato di più fattori: da un lato c’è l’oscurità e l’indeterminatezza con cui, anche da parte di Kant, viene trattata l’intuizione temporale – basti pensare che le parti in cui il tempo è la nozione chiave sono quelle più rimaneggiate nella prima Critica; in secondo luogo, al posto dell’intuizione temporale, viene spesso analizzato e portato come esempio – anche per ciò che riguarda la sensibilità in generale – lo spazio: ciò potrebbe essere dovuto, da un lato, alla maggiore chiarezza espositiva con cui viene presentata tale nozione nelle opere di Kant, e, dall’altro, dalla linfa vitale che i dibattiti in merito all’intuizione spaziale hanno ricevuto dalle rivoluzioni geometriche sviluppatesi già dalla metà dell’Ottocento. Quanto emerso finora dovrebbe rappresentare il quadro di riferimento in cui si muoveranno le analisi dei commentatori anglofoni. Un quadro in cui si è tentato di sottolineare, come affermato fin dall’inizio del capitolo, da una parte, i riferimenti storici che rappresentano le premesse delle diverse cornici interpretative degli autori che andremo a trattare, e, dall’altro, le linee guida su certe dispute su temi ricorrenti che già in passato hanno coinvolto i commentatori di Kant e che si ripresenteranno, in qualche modo, anche in Gran Bretagna o in America. Nei capitoli seguenti cercheremo, più di ogni altra cosa, di rendere giustizia alla concezione kantiana del tempo, facendo tesoro di quanto fin qui emerso. Al fine di rendere più agevole 104 Anche Bird (1998: 133), a questo proposito, sembra accettare che le «condizioni trascendentali che, per Kant, rendono possibile l’esperienza umana non includono i principi fondamentali delle scienze esatte; piuttosto, quelle condizioni trascendentali rendono possibili quei principi scientifici». Alla base di questa distinzione c’è, com’è facile intuire, la volontà da parte di Bird di prendere le distanze dall’impostazione di Quine. 52 l’esposizione, dedicheremo ognuno dei due capitoli successivi ad una delle due funzioni che Kant assegna all’intuizione temporale: il tempo come senso interno e il tempo come senso esterno mediato. Inizieremo dall’analisi del tempo come senso interno. 53 54 II. Il tempo come forma del senso interno. II.1. Introduzione. In una delle sue famose osservazioni, il signor Palomar, vedendo la luce del sole riflessa sul mare, pensa: «Non posso raggiungerla, è sempre lì davanti, non può essere insieme dentro di me e qualcosa in cui nuoto, se la vedo ne resto fuori ed essa resta fuori»1. Ecco, per quel che riguarda il tempo la situazione è l'esatto contrario: è qualcosa dentro cui nuoto ma, nello stesso momento, è anche dentro di me. O meglio, come spiega William Barrett: «L'uomo trascende il tempo ma attraverso le strutture del tempo. […] Io trascendo la mia condizione finita ma questa trascendenza è essa stessa una sintesi […] del tempo. L'uomo trascende il tempo ma solo dentro il tempo»2. Tra la sua funzione immediata e quella mediata, come le chiama Kant, tuttavia qualcosa cambia. In questo capitolo ci occuperemo del tempo come senso interno, dei suoi rapporti con altre facoltà o capacità che si occupano dell'unità della conoscenza interna e delle letture che ne hanno dato i vari commentatori, cercando di fornire un'analisi che non vada oltre il soggetto conoscente ma che resti al suo interno. Uno dei nodi principali che intendo affrontare riguarda la difficoltà di separare nettamene i confini del piano epistemologico da quello ontologico. La complessità di un compito del genere si evince facilmente dall'andamento delle interpretazioni di tali argomenti, le quali, in periodi differenti, sono state impostate ora su un determinato tipo di lettura, ora sull'altro. Lo sviluppo complessivo delle analisi, pertanto, non si presenta con un incedere, per così dire, progressivo, ma appare come un processo che si muove per strappi, rimozioni e riprese. Alcuni esempi: la lettura ontologica di Kant forse più nota è quella data da Heidegger nel suo famoso Kant e il problema della metafisica. Tuttavia, lo stesso tipo di lettura era stato, un decennio prima, il punto di partenza di uno dei più illustri commentatori inglesi di Kant, Norman Kemp Smith: 1 2 Calvino (1983/2012: 14-15). Sherover (1971: XII). 55 L'aspetto ontologico, creativo o dinamico – e potrei continuare – della coscienza deve essere sempre tenuto presente se si vuole osservare correttamente il punto di vista critico. L'analisi logica è davvero lo scopo della parte centrale della Critica, la più importante, e da sola permette uno sviluppo dettagliato ed esaustivo; tuttavia l'altra non è meno essenziale al fine di apprezzare l'atteggiamento di Kant verso i problemi più squisitamente metafisici della dialettica.3 Quando nella seconda metà del secolo, Sherover analizzerà il tempo kantiano cercando di evidenziarne gli aspetti ontologici, ricordati i presupposti di partenza di Kemp Smith, utilizzerà in misura preponderante il commentario di Heidegger 4. Ciò in parte è dovuto all'estrema rilevanza data da Heidegger al tempo e alla sintesi a priori, vista come uno dei cardini della Rivoluzione Copernicana, la quale permette di andare oltre i dati materiali per arrivare alla conoscenza dell'ontologia immanente degli oggetti conosciuti5. È su questo rapporto – l'essere degli oggetti in rapporto alle nostre facoltà di conoscerli – che diviene in seguito possibile l'indagine dei fondamenti a priori delle condizioni epistemologiche. Agli antipodi dell'esempio precedente c'è la posizione di Allison. Egli parte dal presupposto che l'idealismo kantiano rifiuti le ontologie del passato, ma non con lo scopo di fondarne una nuova, bensì con l'intenzione di arrivare ad «un'alternativa all'ontologia, secondo la quale spazio e tempo sono concepiti nei termini delle loro funzioni epistemiche»6. In questo altalenarsi da una posizione all'altra, gioca un ruolo fondamentale una peculiarità del tempo: nonostante la centralità assegnatagli da Kant – ricordiamoci che rappresenta la forma a priori di tutti i fenomeni in generale – esso è una nozione profondamente poco chiara. O meglio, nel tempo sembrano fondersi insieme evidenza e indeterminatezza. Non è un caso che Heidegger sembra proprio riferirsi a tale nozione quando parla della «radice a noi sconosciuta» citata da Kant7. 3 Kemp Smith (1918/1979: XLV). Cfr. Sherover (1971: 31-2). 5 Sherover (1971: 35). 6 Allison (2004: 98). 7 Heidegger (1929/2006: 41). Heidegger sembra qui riferirsi a questo passo di Kant (1781/2005: 625, 4 56 E Kemp Smith (1918/1979: xliii-xliv), parlando più in generale dei processi interni della coscienza, nei quali il tempo ha un ruolo importantissimo, arriva ad usare termini molto simili: i processi sono conosciuti solo attraverso quello che essi condizionano e, in base all'insegnamento di Kant, siamo completamente tagliati fuori dal tentare di comprenderne anche la loro possibilità. Devono essere pensati come cose che si verificano ma non possono essere conosciuti, cioè la loro natura non può essere definita specificatamente. […] La mente (mind) può rivelare i suoi contenuti nella luce della coscienza solo perché le sue radici si spingono nella profondità di un suolo in cui la luce non penetra. Data la complessità di posizioni che stiamo per affrontare, avremmo bisogno di un filo che ci guidi nel labirinto di attributi di volta in volta assegnati al tempo. Questo filo, in verità molto sottile, può essere rappresentato dal modo in cui sono collegate tra loro le facoltà kantiane. II.2. Il tempo tra facoltà e capacità. L'architettura della prima Critica per molti è già un indice dell'importanza e dei rapporti di forza interni all'opera. Nel corso della discussione l'attenzione sarà posta su quelle facoltà e su quelle sezioni che più direttamente hanno a che fare con il tempo come senso interno. Ciò vuol dire occuparsi principalmente del diverso trattamento che il tempo riceve nell'Estetica e nell'Analitica trascendentale. La mia analisi, tuttavia, parte da un presupposto che, se corretto, permette di spiegare la – per così dire – “fluidità” delle relazioni tra le varie facoltà e di conseguenza la varietà delle molteplici interpretazioni. Prima però è bene sottolineare alcune cose. In primo luogo, come evidenzia anche Kitcher (1999: 364), Kant è un funzionalista: spesso non si sofferma a definire A 835/B 863): «Noi ci limiteremo qui, per completare la nostra opera, a progettare soltanto l'architettonica dell'intera conoscenza ricavabile dalla ragion pura, prendendo le mosse dal punto in cui la radice universale della nostra facoltà conoscitiva si suddivide in due ceppi, di cui uno è la ragione. Per ragione intendo qui tutta la facoltà conoscitiva superiore, contrapponendo in tal modo il razionale all'empirico». 57 le facoltà; esse, il più delle volte, sono descritte attraverso l'esposizione dei loro processi. Ciò vale anche per le singole nozioni. In più, non è raro che queste descrizioni siano sparse lungo il corso di tutta l'opera, magari enunciando alcuni aspetti in un primo momento e completando l'elenco in seguito. A queste difficoltà metodologiche si aggiungono quelle terminologiche. È molto difficile mantenere una distinzione costante tra quelle che Paton (1936/1976: V. I, 345) chiama “capacità” (Fähigkeit) e quelle che chiama “facoltà (power)” (Vermögen). Inizialmente, secondo l'autore, nel primo gruppo rientrerebbero le competenze passive del soggetto conoscente, mentre nel secondo quelle attive 8. Tuttavia lo stesso Paton è subito costretto a ricalibrare il tiro, forse memore del famoso passo della prima edizione della Critica: «[e]sistono dunque tre fonti originarie (capacità o poteri dell'anima), che contengono le condizioni della possibilità di ogni esperienza, e che non possono trarre origine da alcun'altra facoltà dell'animo, cioè: senso, immaginazione e appercezione»9. Salta subito all'occhio che il senso, e quindi la sensibilità, sia considerata una capacità attiva, contrariamente ad altri luoghi della critica. Crea ben più complicazioni lo stesso Paton (1936/1976: V. I, 397) quando sfuma il confine tra capacità e facoltà sostenendo che si possa usare “appercezione” per identificare l'intelletto (o il pensiero in generale), se si parla, in primo luogo, dell'autocoscienza. Viene da chiedersi: allora l'intelletto, quando non è considerato nell'accezione di appercezione, è una facoltà passiva? Non sembrerebbe essere possibile10, dato che, parlando soprattutto della formazione dei concetti, viene spesso contrapposto alla sensibilità, e le caratteristiche di quest'ultima, a loro volta, farebbero pensare ad una facoltà eminentemente passiva: «[l]a capacità di ricevere (recettività) rappresentazioni, mediante il modo in cui siamo affetti dagli oggetti, si chiama sensibilità»11. È vero, alcuni autori hanno sottolineato le caratteristiche di 8 Paton (1936/1976: V. I, 345 n5). Kant (1781/2005: 159, A 94). 10 Si pensi ai passi, tratti dalla prima e dalla seconda edizione: «abbiamo dato dell'intelletto definizioni diverse: la spontaneità della conoscenza (di contro alla ricettività del senso)» (A 126); «la congiunzione (conjunctio) di un molteplice in generale non può mai provenirci dai sensi, e neppure esser racchiusa nella forma pura dell'intuizione sensibile. Essa è infatti un atto della spontaneità della facoltà rappresentativa, la quale, per esser distinta dalla sensibilità, è detta intelletto» (Kant 1781/2005: 161, B 130). 11 Kant (1781/2005: 97, A 19/B 33). 9 58 creatività dell'intuizione pura: basti pensare al fatto che le forme a priori della sensibilità impongono i loro caratteri ad ogni possibile oggetto di conoscenza e ciò non può essere ritenuto frutto di proprietà meramente passive12. In più, si tende a distinguere tra sensibilità stessa, intuizione e percezione13, termini in cui si evidenzia il diverso grado di partecipazione al processo di acquisizione al materiale empirico da parte del soggetto conoscente. Tuttavia la sensibilità è vista, fin dalla sua definizione, come una facoltà passiva: «[l]a capacità di ricevere (recettività) rappresentazioni, mediante il modo in cui siamo affetti dagli oggetti»14. L'idea è pertanto quella di mantenere la distinzione lessicale tra “facoltà” e “capacità” evidenziata da Paton, cercando di migliorarne i criteri: nel primo gruppo rientrerebbero funzioni, quali la sensibilità, l'intelletto e la ragione, a cui Kant ha dedicato una sezione nella sua opera. Nello stesso gruppo sarebbe inserita anche l'immaginazione, sia perché ritenuta spesso, dagli autori che hanno preceduto Kant e dai suoi coevi, una facoltà conoscitiva dell'animo umano, sia perché, almeno per tutta la prima edizione, viene considerata una funzione molto importante, quasi sullo stesso livello della sensibilità e dell'intelletto. Chiameremo invece “capacità”, per esclusione, quelle funzioni che non assurgono al ruolo di facoltà canoniche e che sembrano, in qualche modo, svolgere funzioni per conto o all'interno delle stesse facoltà. L'immagine delle facoltà e delle capacità kantiane che se ne ricava è, pertanto, simile a quella della struttura geologica della Terra, in cui, a livello superficiale, abbiamo le tre facoltà, per così dire, canoniche: sensibilità, intelletto e ragione. Tra di esse, surrettiziamente, soprattutto nelle crepe tra sensibilità ed intelletto, risale dalle profondità, come un fiume lavico, l'immaginazione, con una violenza tale che a volte distacca, talvolta salda e, in rari casi, crea un nuovo 12 Sherover (1971: 53). Com'è noto, l'intuizione è il modo della conoscenza che si riferisce immediatamente agli oggetti (cfr. Kant 1781/2005: 97, A 19/B 33); mentre la percezione si ha quando il fenomeno «è legato alla coscienza» (cfr. Kant (1781/2005: 653, A 120) oppure è definita «la relativa coscienza empirica (come fenomeno)» (Kant (1781/2005: 180, B 160). È interessante notare come questo passaggio (e soprattutto la nota al suo interno) sia alla base dell’interpretazione di Waxman (1991: 80): «una volta che ci si approccia con la consapevolezza che nell’Estetica è stato lasciato libero un posto per l’attribuzione di una spontaneità pre-concettuale e non-discorsiva allo spazio e al tempo, [quel passo] comincia ad apparire per cosa, stando alla mia interpretazione è: la più chiara e la più inequivocabile affermazione dell’origine, dovuta all’immaginazione, dello spazio e del tempo nella Critica della Ragion pura». 14 Kant (1781/2005: 97, A 19/B 33). 13 59 territorio tra le altre facoltà. Ad un livello più profondo, come placche che slittano tra una zolla e l'altra, troviamo tutte quelle capacità che Kant cita nella sua Critica, quali l'appercezione o l'apprensione, e il cui compito sarebbe proprio quello di muoversi tra l'una e l'altra placca superiore. Fuor di metafora: Kant sembra mantenere la distinzione classica tra le facoltà, ma introduce capacità che servono da un lato a collegare tra di loro le facoltà superiori e, dall'altro, a spiegare il funzionamento dei punti oscuri dell'epistemologia kantiana. La similitudine proposta aiuta anche a capire i rapporti di forza tra le facoltà kantiane e le “incoerenze” tra di esse, temi che hanno trovato spazio in quasi tutte le opere dei commentatori di Kant. Secondo alcuni, nell'Estetica trascendentale, che si occupa della sensibilità, si analizzerebbero quelli che sono gli elementi passivi dell'attività epistemologica, mentre nell'Analitica, in cui si parla anzitutto dell'intelletto, quelli attivi, facendo emergere, di conseguenza, questi due aspetti del tempo15. È facile infatti constatare le differenze nel modo di considerare tale nozione nelle due parti dell'opera. Differenti sono state però le spiegazioni a proposito, spesso dovute all'importanza che il commentatore assegna ad una facoltà specifica in vista di suoi scopi specifici. Un punto di vista che ha avuto molto seguito in alcune scuole neokantiane evidenziava il ruolo che l'intelletto avrebbe avuto sulla sensibilità, la quale fornisce il materiale empirico non svolgendo altro che una funzione, per così dire, di servizio. Ciò implicherebbe una diretta dipendenza del tempo dai principi dell'intelletto, in particolare dalle analogie dell'esperienza. Sul continente c'era chi invece abbracciava la teoria completamente opposta. Famosa è infatti la posizione Heidegger16, il quale afferma che a fondamento di tutta la conoscenza c'è la sensibilità o meglio, l'intuizione, e che sia l'intelletto a basarsi su di essa: l'intuizione finita (sensibilità) ha bisogno, come tale, di essere determinata mediante l'intelletto. Ma l'intelletto, già in se stesso finito, è a sua volta assegnato all'intuizione […]. [Kant] colloca il carattere fondamentale del 15 Sherover (1971: 53). Nell'Analitica, inoltre, sparirebbe quella sorta di parità tra spazio e tempo e quest'ultimo mostrerebbe a pieno il suo ruolo di facoltà kantiana fondamentale. 16 Tra l'altro in aperta opposizione alla scuola di Marburgo e al suo tentativo «di concepire spazio e tempo come “categorie” in senso logico e di risolvere nella logica l'estetica trascendentale», definito «insostenibile» (Heidegger 1929/2006: 129). 60 conoscere nell'intuizione. Ma la necessaria appartenenza della sensibilità e dell'intelletto all'unità essenziale della conoscenza finita non esclude, anzi implica che vi sia una gerarchia nel fondarsi strutturale del pensiero sull'intuizione, intesa come rappresentazione conduttrice.17 È già lì che si afferma la supremazia del tempo: «Heidegger ha interpretato l'Estetica come se volesse dirci che l'intuizione, la possibilità della sensibilità, fosse “riducibile” al tempo, la forma del senso interno»18. Lo stesso Kant non è immune da colpe, dato che le varie posizioni sono alimentate dai cambiamenti da lui effettuati tra le due edizioni dell'opera. Per esempio, nella prima edizione della Critica, cercando di definire l'appercezione, si afferma che si hanno tre sorgenti soggettive di conoscenza pura su sui poggia la possibilità di un'esperienza in generale e della conoscenza dei suoi oggetti: senso, immaginazione e appercezione. […] Il senso rappresenta in modo empirico i fenomeni nella percezione, l'immaginazione nella associazione (e nella riproduzione), l'appercezione nella coscienza empirica dell'identità intercorrente fra queste rappresentazioni riproduttive e i fenomeni mediante cui esse sono date, quindi nella ricognizione.19 Poco dopo Kant precisa ulteriormente tutto dichiarando che a fondamento della percezione (e quindi, presumibilmente, del senso) c'è l'intuizione pura, mentre la sintesi pura dell'immaginazione è la base a priori dell'associazione ed infine l'appercezione lo è della conoscenza empirica. Ora, trascurando la questione dei 17 Heidegger (1929/2006: 40). È interessante, a livello introduttivo, notare la differenza che Dreyfus (1991: 343-4, n 13) sottolinea tra l’impostazione kantiana e quella heideggeriana: «[c]osì come le categorie di Kant ci parlano, in generale, delle caratteristiche di un oggetto, allo stesso modo gli esistenziali di Heidegger ci parlano delle caratteristiche generali dell’Esserci. Dobbiamo, comunque, essere cauti per evitare la tentazione di pensare gli esistenziali come la struttura generale dei soggetti, analogo al modo in cui le categorie sono la struttura generale degli oggetti. Piuttosto, poiché l’esserci è, essenzialmente un ente che si auto-interpreta, gli esistenziali ci danno la struttura generale dell’esistenza. […] Perciò Heidegger chiama la sua indagine esistenziale di contro all’analitica trascendentale. In accordo con l’analitica esistenziale di Heidegger, l’Esserci deve esistere fattualmente – cioè, diversamente dall’ego trascendentale) è necessariamente implicato nel (e dipendente dal) mondo che esso dischiude e non può mai gettare luce su che cosa il mondo è in sé». 18 Sherover (1971: 58). 19 Kant (1781/2005: 650-1, A 115). 61 rapporti gerarchici tra, per esempio, sintesi e intuizione pura – qui messe sullo stesso piano, a fondamento delle sorgenti conoscitive, ma altrove considerata una più fondamentale dell'altra – c'è, come vedremo meglio in seguito, il grosso problema che nella seconda edizione tutto questo non viene riportato, mentre dell'appercezione e dell'immaginazione si dà un'analisi molto diversa20. A differenza delle scuole ottocentesche e novecentesche, oggi si sta sempre più affermando la tendenza a non considerare in contrasto le due parti della Critica, ma a ritenerle complementari. Secondo Allison (2004: 191-2), ad esempio, «la necessità di rappresentare tutti i fenomeni in un singolo tempo e in un singolo spazio non è una pretesa (demand) imposta alla sensibilità dall'intelletto ma è piuttosto una richiesta di quest'ultimo alla prima». Date queste difficoltà, cercheremo pertanto di seguire l'ordine di esposizione delle varie nozioni, partendo dalla principale, ossia dal senso interno. II.3. Il tempo come senso interno nell'Estetica trascendentale. Kant stabilisce l'uguaglianza tra tempo e senso interno nella prima sezione – escluse naturalmente le introduzioni – della Critica, l'Estetica trascendentale, definita la «scienza di tutti i principi a priori della sensibilità»21. Tali principi sono le forme a priori del soggetto conoscente entro cui gli oggetti esterni devono essere sussunti per poter essere intuiti. Nel caso un oggetto non possa essere intuito all'interno di esse non può diventare un oggetto di esperienza possibile, non può essere conosciuto. Com'è noto le forme a priori della sensibilità sono lo spazio e il tempo. Di quest'ultimo, in questa stessa sezione, viene anche affermata l'identità con il senso interno: Il tempo non è altro che la forma del senso interno, ossia dell'intuizione di noi stessi e del nostro stato interno. Difatti il tempo non può essere a nessun titolo una determinazione dei fenomeni esterni […] ma, al contrario, determina il 20 C'è chi si è spinto ben oltre in questo progetto. Per esempio Buchdahl (1992: 169) afferma che «la nozione di apparenza di legalità (lawlikness) e di sistematicità della natura è definita da Kant solo attraverso la 'ragione', l''intelletto' non assicura altro che la possibilità di giudizi contingenti concernenti particolari materie di fatto». 21 Kant (1781/2005: 98, A 21/B 35). 62 rapporto delle rappresentazioni nel nostro stato interno. 22 Tuttavia questa è solo la seconda di tre conseguenze che Kant elenca dopo i cinque punti dell'Esposizione metafisica del concetto di tempo in cui vengono stilate le varie caratteristiche dell'intuizione temporale. I primi tre punti e il quinto sono abbastanza lineari. Nel primo punto si afferma che il tempo non è un concetto empirico perché «la simultaneità o la successione non potrebbero neppure mai costituirsi come percezioni se non ci fosse a priori, quale fondamento, la rappresentazione del tempo»23. La simultaneità si ha quando qualcosa è rappresentato nello stesso tempo, la successione in tempi diversi. Il secondo punto stabilisce che il tempo è a priori e a fondamento di tutte le intuizioni. Il genere di “esperimento mentale” che propone Kant per dimostrare la necessità del tempo rispetto alle rappresentazioni è quello di far vedere la possibilità di svuotare il tempo di tutti i fenomeni e l'impossibilità di togliere il tempo stesso come tale. I principi necessari, definiti “assiomi del tempo in generale”, vengono presentati nel terzo punto: essi sono la monodimensionalità e il fatto che «tempi diversi non sono simultanei ma successivi»24. Tali caratteristiche potranno essere apprezzate a pieno solo grazie a quanto viene detto nei punti seguenti. Infine, il punto 5 ci dice che possiamo avere varie quantità determinate di tempo solo se a fondamento di tutto c'è un unico tempo illimitato. Il quarto punto è forse il più articolato, poiché vengo messi in luce alcuni aspetti che non sono immediatamente collegabili tra loro. All'inizio Kant sembra riprendere i primi due punti per poi svilupparli: «il tempo non è un concetto discorsivo o, come si suol dire, universale, ma una forma pura dell'intuizione sensibile»25. Quindi il tempo non è solo base per le intuizioni, ma è un'intuizione a sua volta e per di più pura. Un'intuizione pura è un'intuizione «in cui nulla è riscontrabile che appartenga alla sensazione»26 e in cui si dà «la semplice forma dei fenomeni, ossia l'unica cosa che la sensibilità possa fornire a priori»27. Inoltre, come 22 Kant (1781/2005: 108, A 33/B 49-50). Kant (1781/2005: 106, A 30/B 46). 24 Kant (1781/2005: 106, A 31/B 47). 25 Kant (1781/2005: 107, A 31/B 47). 26 Kant (1781/2005: 98, A 20/B 34). 27 Kant (1781/2005: 99, A 22/B 36). 23 63 passo successivo, viene affermato che «[t]empi diversi non sono che parti dello stesso tempo». Quanto detto finora è sintetizzato nella dichiarazione: «la rappresentazione che può essere data solo da un unico oggetto è un'intuizione». Infine, con una mossa a metà strada tra una spiegazione e una conseguenza, Kant chiarisce che la proposizione «tempi diversi non possono essere simultanei», essendo «contenuta immediatamente nell'intuizione e nella rappresentazione del tempo»28 è una proposizione sintetica e non può essere ricavata da un concetto, per quanto generale. Dai cinque punti Kant trae tre conseguenze. La prima, parallela a quanto detto per lo spazio, getta le basi per l'equivalenza tra tempo e senso interno, affermando che «il tempo altro non è che la condizione soggettiva per la quale tutte le intuizioni possono aver luogo in noi. […] forma dell'intuizione interna [che] può essere rappresentata anteriormente agli oggetti, quindi a priori»29. Nella seconda conseguenza non solo viene stabilita l'uguaglianza sopra riportata, ma viene introdotto un esempio che sarà molto importante per le discussioni successive: è proprio perché questa intuizione interna non ha alcuna figura che noi cerchiamo di porvi rimedio con analogie, rappresentando la successione temporale con una linea che va all'infinito, nella quale il molteplice dà luogo a una serie monodimensionale; e dalle caratteristiche di questa linea inferiamo tutte le proprietà del tempo, tranne una sola, giacché le parti della linea sono simultanee, mentre quelle del tempo sono successive.30 La terza conseguenza entra più nel dettaglio, ridefinendo i rapporti tra rappresentazioni e senso interno. Ribadita la sua idealità trascendentale, si sottolinea che il tempo è la condizione formale di tutti i fenomeni dato che le rappresentazioni «appartengono in se stesse, quali determinazioni dell'animo, allo stato interno, e siccome questo stato interno ubbidisce alla condizione formale dell'intuizione interna, ossia del tempo, ne segue che quest'ultimo è la condizione a priori di ogni fenomeno in generale: condizione immediata dei fenomeni interni (delle nostre 28 Kant (1781/2005: 107, A 31-2/B 47). Kant (1781/2005: 108, A 33/B 49). 30 Kant (1781/2005: 108, A 33/B 50). 29 64 anime) e, di conseguenza, condizione mediata di quelli esterni»31. A ciò va aggiunta un'ultima precisazione, una puntualizzazione che Kant fa nella seconda edizione e che chiama Esposizione trascendentale del concetto di tempo. In questo paragrafo viene affermato che il movimento (regolato dalle leggi del moto) e il mutamento sono possibili solo grazie alla rappresentazione del tempo e che se questo non fosse un'intuizione non potremmo, per esempio in un passaggio di stato, mettere in relazione tra loro due predicati appartenenti ad uno stesso concetto. Se per esempio io dico che la cera prima era solida e ora è liquida (magari perché si è sciolta al sole) abbiamo due predicati contraddittori e il poterli riferire sempre alla cera è reso possibile dall'intuizione temporale la quale ha, appunto, le caratteristiche sopra elencate: «[s]olo nel tempo due determinazioni opposte contraddittorie possono aver luogo in un medesimo oggetto, e precisamente l'una dopo l'altra»32. Molto di ciò che è stato detto fin qui, come vedremo, sarà la base di vari punti che cercherò di approfondire nel corso della ricerca. Per ora è importante ritornare al tempo come senso interno. C'è un modo, dopo quanto è stato detto, di esemplificare la funzione minima, essenziale, dell'intuizione temporale che ha in mente Kant? Proverò a fornire un esempio. Innanzitutto il tempo deve poter render conto della successione e/o della sequenza: riducendo al nocciolo la sequenza più basilare a cui si possa pensare si ottiene da una successione di due elementi o stati, A e B. Questa sequenza, in secondo luogo, deve essere interna al soggetto conoscente: pensiamo quindi che A e B siano due rappresentazioni e, seguendo l'esempio di Kant, spogliamo le rappresentazioni di tutto ciò che possono aver ricevuto dall'esterno. Ciò va dall'immagine della lancetta dei secondi che scorre costantemente ad intervalli uniformi fino alle grandi astrazioni della fisica, come il tempo assoluto newtoniano. Naturalmente siamo in una condizione molto artificiosa. “Ripulito” da tutto, il nocciolo del tempo come senso interno sta in questa sorta di monodimensione su cui è possibile che si succedano A e B: questi due stadi diversi sono già tempo. Un soggetto conoscente i cui stati interni non siano pronti ad accogliere una sequenza minima di questo tipo, in cui ci sia immobilità, in cui il suo stato sia, per così dire, 31 32 Kant (1781/2005: 109, A 34/B 50). Kant (1781/2005: 108, B 49). 65 congelato, anche a dispetto di un mondo che muta, non avrebbe l'intuizione del tempo. Dopodiché l'esperienza dà l'occasione affinché il senso interno sia, per così dire, spezzato in due: da una parte la rappresentazione A, dall'altra B. Penso che sia questa la funzione minima e fondamentale che Kant assegna al tempo, soprattutto in quanto forma del senso interno. Certo, se anche quanto ho esposto fosse corretto, rimarrebbero sempre molti punti da chiarire. In primis: questa capacità di render conto di istanti successivi avviene in base a fattori strettamente epistemologici oppure le caratteristiche del senso interno possono o devono essere intese ontologicamente? I commentatori sono divisi sui presupposti appartenenti all'uno o all'altro livello; tuttavia sembra esserci abbastanza condivisione sul fatto che le conseguenze si presentino sia a livello ontologico sia a livello epistemologico (per come abbiamo definito l’epistemologia in precedenza). Sherover (1971: 54), per esempio, sebbene appoggi una prospettiva ontologica, non può definire il tempo semplicemente un ente e non può ignorarne le implicazioni epistemologiche: esso «è una funzione, la capacità del soggetto di avere un'esperienza interna coerente; è un modo di collegare tra loro le esperienze; non ha un contenuto proprio ma è il modo in cui ogni contenuto deve essere ricevuto». Al contrario Allison (2004: 276-7) comincia la sua analisi considerando il senso interno in funzione della conoscenza di sé, del legame particolare che intrattiene con le analogie dell'esperienza (soprattutto sul tema dell'ordine temporale oggettivo) ed evidenziando, in questo modo, l'importanza data agli aspetti epistemologici. Anche la rappresentazione del tempo come una linea, in cui la tematica della produzione da parte dell'immaginazione è sfiorato, si risolve immediatamente nel problema di dover trovare dei candidati esterni per la rappresentazione del tempo. Stando alle conclusioni a cui giunge Allison (2004: 277) il senso interno si deve appellare costantemente allo spazio, sbilanciando a favore di quest'ultimo i rapporti di forza all'interno della sensibilità. Infatti il tempo non ha un proprio molteplice e non rientrerebbero nel senso interno come rappresentazioni del sé33 neanche i sentimenti. Oggetto del senso interno sarebbero le rappresentazioni empiriche intese come una mediazione di quelle offerte dal senso esterno. A ciò si rifarà il contrasto tra senso interno e appercezione «come due modi di autocoscienza, 33 Allison (2004: 278). 66 dove l'ultimo produce il pensiero del sé ma non la sua conoscenza»34. Ciò ci porta al modo in cui si prende coscienza di noi stessi. Su questo – e il proseguimento della discussione tenderà a confermarlo – Kant sembra separare due livelli: il più superficiale, quello che Allison sopra ha chiamato “pensiero di sé”, in cui abbiamo a che fare con i nostri stati acquisiti empiricamente; il secondo, che potremmo chiamare trascendentale, in cui operano nozioni quali l'intelletto e l'appercezione le quali provvedono a dare unità agli stati provenienti dalla sensibilità. Ad occuparsi del primo livello è proprio il senso interno, il quale rende conto, appunto, degli stati empirici: «per suo mezzo, noi intuiamo noi stessi soltanto nel modo in cui veniamo interamente affetti da noi stessi, cioè che, per quanto concerne l'intuizione interna, noi conosciamo il nostro proprio soggetto soltanto come fenomeno e non già in quanto è in se stesso»35. A creare confusione è quanto succede in seguito: quali sono i limiti dell'azione dell'intelletto nel momento in cui conferisce unità ai dati sensibili? La podestà che esso esercita vale solo sui dati empirici o anche sulla sensibilità stessa? La sensibilità, in pratica, deve essere intesa come una facoltà che sottostà all'intelletto? E in che misura? Oppure va considerata una facoltà autonoma? Per capire se e quanta libertà abbia il tempo nei confronti delle altre capacità e facoltà è forse bene iniziare ad esaminare quelle a lui più vicine. II.4. Apprensione. Se noi seguiamo la falsariga della Critica della Ragion pura, ci imbattiamo in prima luogo nelle capacità che hanno a che fare con l'Estetica, e quindi con la sensibilità. Tra queste troviamo l'apprensione, una capacità che, almeno inizialmente, è ritenuta legata sostanzialmente e unicamente proprio alla sensibilità. Sherover (1971: 72) definisce l'apprensione come «un'immediata consapevolezza di un oggetto nella percezione: sono immediatamente consapevole di una qualche rappresentazione». Dopo averne sottolineata la forma, data dal senso interno, Sherover (1971: 72) prosegue il suo ragionamento concentrandosi a fondo sul rapporto tra l'intuizione sensibile e ciò che viene percepito, arrivando ad affermare 34 35 Allison (2004: 280). Kant (1781/2005: 177, B 156). 67 che, affinché ci sia consapevolezza, la rappresentazione dell'oggetto non può essere istantanea, ma deve estendersi per un certo “lasso di tempo”: «la mia consapevolezza presenta già alla mente una rappresentazione che innanzitutto sia stata “passata e tenuta assieme” in un ordine sequenziale – nell'ordine delle modificazioni sequenziali della mia mente». L'unità è data dalla sintesi dell'apprensione, presupposto di ogni atto percettivo in quanto permette che i dati empirici siano considerati come rappresentazioni di un singolo molteplice. Nella prima edizione, addirittura, le operazioni svolte dall'intelletto sarebbe state rese possibili, esclusivamente, sulla base dalla sintesi dell'apprensione, intesa come momento della triplice sintesi, che ha luogo necessariamente in ogni conoscenza: la sintesi dell'apprensione delle rappresentazioni, quali affezioni dell'animo nell'intuizione; la sintesi della riproduzione di esse nell'immaginazione; la sintesi della loro ricognizione nel concetto. Queste sintesi conducono a tre sorgenti soggettive della conoscenza, che rendono possibile l'intelletto stesso e, attraverso l'intelletto, l'intera esperienza, in quanto prodotto empirico dell'intelletto stesso.36 Tuttavia una definizione ultima e condivisa dell'apprensione, soprattutto della sua sintesi, è resa complicata dal fatto che la maggior parte dei riferimenti su di essa sono situati nella Deduzione trascendentale, la sezione che forse ha subito le modificazioni più profonde tra prima e seconda edizione. Ciò che rimane uguale in entrambe le edizioni37, tuttavia, è il carattere successivo e soggettivo dell'apprensione, il cui ordine equivale a quello in cui le rappresentazioni degli eventi esterni si presentano nella coscienza. Kant, nella seconda edizione, la descrive in questi termini: «altro non è che il porre assieme il molteplice dell'intuizione empirica, e in essa non è riscontrabile una rappresentazione della necessità dell'esistenza congiunta dei fenomeni che essa pone 36 Kant (1781/2005: 640-1, A 97-8). Kant (1781/2005: 227, A 189/B 234): «L'apprensione del molteplice del fenomeno è sempre successiva. Le rappresentazioni delle parti si susseguono». 37 68 assieme nello spazio e nel tempo»38. Specifico di questa edizione è il ricondurre direttamente l'apprensione alla percezione, intendendola come la coscienza di ciò che è presente in un'intuizione empirica (espressione che generalmente ne indica il contenuto). Funzione principale dell'apprensione sarebbe la sua sintesi, intesa come «riunione del molteplice di un'intuizione empirica, mediante la quale diviene possibile la percezione, cioè la relativa coscienza empirica (come fenomeno)»39. Collaborazione tra sintesi dell'apprensione e forme a priori della sensibilità che si gioca su un piano prettamente a priori: «la stessa unità della sintesi del molteplice […] è parimenti data a priori quale condizione della sintesi dell'apprensione, con (e non in) queste intuizioni»40. Questo perché l'unità che viene conferita ai dati empirici non può essere tratta dai dati empirici stessi e deve rispecchiare l'unità dello spazio e del tempo. Sebbene si sia indicato un rapporto preferenziale tra sensibilità e apprensione, soprattutto nella seconda edizione Kant sottomette esplicitamente la sintesi dell'apprensione all'appercezione41, spianando la strada alla subordinazione della sensibilità all'intelletto: la sintesi dell'apprensione, che è empirica, dev'essere necessariamente conforme alla sintesi dell'appercezione, che è intellettuale e contenuta interamente a priori nella categoria. È una stessa ed unica spontaneità, che là sotto il nome di immaginazione e qui sotto quello di intelletto introduce il congiungimento nel molteplice dell'intuizione.42 Secondo Allison (2004: 198), il quale, su questi temi, fonda molto della sua analisi sulla seconda edizione, l'apprensione di una sequenza temporale presuppone la rappresentazione dell'unità sintetica del tempo, e perciò una sintesi governata da una categoria. […] solo come risultato di tale 38 Kant (1781/2005: 216, B 219). Kant (1781/2005: 180, B 160). 40 Kant (1781/2005: 180, B 161). 41 Kant (1781/2005: 181, B 163): «In tal modo si dimostra che la sintesi dell'apprensione, che è empirica, dev'essere necessariamente conforme alla sintesi dell'appercezione, che è intellettuale e contenuta interamente a priori nella categoria». 42 Kant (1781/2005: 181, B 162). 39 69 determinazione di tempo, la quale è presumibilmente accompagnata dalla sintesi trascendentale dell'immaginazione, è possibile apprendere una determinata sequenza di percezioni nel tempo.43 Il riferimento alle categorie, in particolar modo quella di causalità44, sottintende già da ora la sua concezione secondo la quale la sensibilità, e nello specifico il tempo, sono subordinati all'intelletto, in particolare alle analogie. In un quadro simile, la difficoltà maggiore è riuscire a porre una netta separazione tra i compiti dell'apprensione e quelli dell'appercezione. La differenza maggiore tra le due può essere riassunta da questo periodo di Kemp Smith (1918/1979: xlix), il quale, paragonando la conoscenza degli esseri umani a quella degli animali, afferma, riguardo a questi ultimi: la loro esperienza deve sfaldarsi (fall apart) negli eventi, i quali, forse, potrebbero essere descritti come mentali ma non possono essere considerati equivalenti ad un atto di consapevolezza. “Apprehensio bruta senza coscienza”: tale è il punto di vista di Kant sulla mente animale. I loro stati mentali, come quelli di tutte le altre esistenze naturali, sono eventi nel tempo, esplicabili alla stessa maniera naturalistica del processo corporeo da cui sono condizionati; non possono essere equiparati alla coscienza umana che ci permette di riflettere su di essi e di determinare le condizioni del loro accadere temporale. II.5. Dall'autocoscienza all'appercezione. Il passaggio dalla consapevolezza di ciò che sto percependo alla consapevolezza che io sto percependo, sembra breve. Eppure, come illustra anche il brano precedente, solo gli esseri umani ne sembrano capaci. Tradotto in termini kantiani è il percorso tra l'apprensione e l'autocoscienza: 43 Allison (2004: 198). Non mancano i passi kantiani che lo affermano esplicitamente: «Questa unità sintetica, quale condizione a priori in base a cui congiungo il molteplice d'una intuizione in generale […] è la categoria di causa […]. Dunque, l'apprensione in un tale evento, e con ciò l'evento stesso quanto alla sua possibile percezione, è sottoposta al concetto di relazione fra effetti e causa» (Kant 1781/2005: 181, B 163). 44 70 Non è infatti possibile che l'animo riesca a pensare, per di più a priori, l'identità di se stesso nella molteplicità delle proprie rappresentazioni, se non ha innanzi agli occhi l'identità della propria operazione, che sottopone qualunque sintesi dell'apprensione (che è empirica) a un'unità trascendentale, rendendo in tal modo possibile la connessione delle rappresentazioni secondo regole a priori.45 In questo brano si incontrano molti termini, molte tappe di un percorso, il cui punto di partenza è il senso interno, mentre il traguardo sarà rappresentato dalla capacità, l'appercezione, di avere coscienza di sé. E proprio quest'ultimo elemento l'oggetto di questo paragrafo: la coscienza di sé o autocoscienza. Il termine “autocoscienza” porta con sé varie problematiche, soprattutto di tipo storico46, dovute alla stratificazione di più tesi confluite lentamente nel dibattito filosofico di fine settecento. Come sottolinea Kitcher (1982: 45), il punto di partenza di Kant sarebbe la teoria di Locke secondo la quale c'è «analogia tra la percezione sensibile e una facoltà quale il “senso interno” attraverso cui si “percepiscono” i contenuti delle nostre menti». Tuttavia questa posizione, in precedenza, era stata facile preda di Hume, il quale, non solo aveva sostenuto che fosse impossibile arrivare ad un sé profondo analizzando gli stati del senso interno, ma si era anche professato scettico proprio sull'identità del sé. Stando alla sua posizione, era possibile che i soggetti non fossero altro che un insieme di percezioni, diversi di momento in momento, a cui mancasse un'unità comune di riferimento47. Kant sembra capire i rischi della tesi humeana: una semplice unità al livello del senso interno può essere un punto di partenza, ma è insufficiente quale unità del sé. Proprio per questo cercherà di ribattere a questa tesi, come vedremo, attraverso l'accostamento tra autocoscienza e appercezione48. Una volta abbandonato il piano storico, si prospetta però un nuovo problema: a quale livello della coscienza di sé può essere equiparata l'autocoscienza? Come nota Bird (2006: 816, n12), infatti, «considerando l'autocoscienza come coscienza di 45 Kant (1781/2005: 646-7, A 108). Si pensi, ad esempio, alla sua identificazione con il cogito cartesiano (cfr. Bird 2006: 366-69). 47 Cfr. Kitcher (1982: 44). 48 A questo proposito si vedano sia Bird (2006: 289) sia Kitcher (1982). 46 71 un “sé” nei termini kantiani, si è condannati all'ambiguità tra la coscienza di un sé empirico e la coscienza trascendentale del sé, la quale non è concepita in rapporto ad un oggetto, né dell'esperienza né oltre di essa». Alcuni commentatori hanno inteso il riferimento ad una zona trascendentale, al di là dell'esperienza fenomenica, come un invito a considerare il sé una specie di entità noumenica, spingendoli a impostare una ricerca immanente della coscienza in senso kantiano. Secondo Kemp Smith, per esempio, Kant non può ammettere l'immediata conoscenza delle attività mentali e, allo stesso tempo, escludere la conoscenza del noumeno49: nell'Estetica si avrebbe così «la conclusione che, come il tempo è la forma del senso interno, tutto ciò che è appreso nel tempo e, di conseguenza, tutti gli stati e le attività interne, possono essere conosciuti come fenomeni. La mente […] è indirettamente conosciuta come lo è, in ogni altro modo, l'esistenza noumenica»50. In particolare, alcuni passi della seconda edizione farebbero pensare che tutto ciò che si possa conoscere del sé nel senso kantiano del termine – cioè come unione dell'attività dell'intuizione e dell'intelletto – sia la parte fenomenica che ha a che fare con il senso interno; al di fuori c'è l'opera del soggetto conoscente, ma quest'azione può essere solo nominata, non conosciuta nel senso pieno. Ciò porta Kemp Smith ad equiparare questa zona a quella delle cose in sé: Kant collocherebbe un ego al di fuori del tempo e applicabile al sé trascendentale, ponendo in tal modo uno iato tra la parte sconosciuta della coscienza e il senso interno. Kemp Smith poggia la sua lettura su passi come il seguente, proveniente dalla Confutazione dell'idealismo: Certamente la rappresentazione: «io sono», che esprime la coscienza che può accompagnare ogni pensiero, è ciò che racchiude in sé immediatamente l'esistenza di un soggetto, non però tuttavia ancora una conoscenza di esso, e tanto meno quindi una sua conoscenza empirica o esperienza. A tal fine occorre infatti, oltre al pensiero dell'esistenza di alcunché, anche l'intuizione, e in questo caso l'intuizione interna, in relazione alla quale, ossia al tempo, il 49 Kemp Smith (1918/1979: 296). Kemp Smith (1918/1979: 297). In precedenza, sempre a questo proposito e sempre sul doppio binario di mettere in parallelo il lato empirico con quello trascendentale (l'interno con l'esterno) Kemp Smith (1918/1979: 295) aveva distinto attentamente ciò che si trova nello spazio, gli oggetti delle rappresentazioni, da ciò che si trova nel tempo, le rappresentazioni, gli unici candidati ad essere stati della mente. 50 72 soggetto deve essere determinato.51 Anche nell'Analitica c'è un brano che potrebbe far pensar ciò: siccome per la conoscenza di noi stessi è indispensabile, oltre all'operazione del pensare, che riconduce il molteplice di ogni intuizione possibile all'unità dell'appercezione, anche una determinata specie di intuizione, per la quale questo molteplice è dato, ne deriva che la mia propria esistenza non è per nulla fenomeno (e tanto meno semplice parvenza), ma che la determinazione della mia esistenza può aver luogo soltanto secondo la forma del senso interno, in quel particolare modo in cui il molteplice che congiungo può esser dato nell'intuizione interna.52 La conclusione a cui giunge Kemp Smith (1918/1979: 328) è che le modificazioni e le aggiunte della seconda edizione prospettano come risultato la possibilità che, dopo gli studi sulla filosofia morale53, «il sé, in quanto ente auto-cosciente, sia un'esistenza genuinamente noumenica». Nei passi precedenti si è anche accennato all'“Io sono”, che Kant identifica con l'“Io Penso”. Quest'ultimo può essere inteso come un atto della spontaneità del soggetto conoscente che accompagna le operazioni di cui è conscio. Naturalmente ciò non vuol dire che sia un pensiero costante54: l'“Io penso”, potenzialmente, può accompagnare ogni singolo momento dell'esperienza del soggetto conoscente. Kant qui tende a riportare un'esperienza comune, stando alla quale noi compiamo decine e decine di azioni senza rifletterci, in automatico, salvo poi “tornare in noi” e rendersi conto di cosa stiamo facendo. Ecco, una volta che ci accorgiamo delle nostre operazioni, stando a quanto esposto da Kant – come emerge in maniera più chiara dalla seconda edizione – possiamo esprimere l'“Io Penso” attraverso un giudizio o una proposizione empirica, sottolineando che all'intelletto spetta la parte formale e 51 Kant (1781/2005: 253, B 277). Kant (1781/2005: 178, B 157-8). 53 Tra color che accostano il Kant epistemologo al Kant morale, c'è Kitcher (1999: 383 n26): «nella sua teoria, l'azione morale richiede una coscienza implicita dell'attività di applicare le leggi morali generate spontaneamente alle massime particolari. […] sia l'epistemologia kantiana sia l'etica kantiana sosterrebbero la necessità di una coscienza implicita di alcune delle sorgenti di pensiero e di azione che chi cerca l'autocoscienza spera di comprendere esplicitamente». 54 A questo proposito si veda Allison (2004: 164). 52 73 che, implicitamente, l'occasione del suo impiego sia data dal molteplice del senso interno: «[l]a proposizione: “Io penso”, oppure: “Io esisto pensando”, è una proposizione empirica. A suo fondamento sta un'intuizione empirica, perciò anche l'oggetto pensato, come fenomeno»55. Ora, non si corre il rischio di non poter rendere adeguatamente conto di ciò, attraverso un giudizio empirico, visto che siamo pericolosamente vicini a quella zona – le attività dell'autocoscienza – in cui non si può accedere con le condizioni epistemiche? Per Kemp Smith c'è un limite epistemologico a cui ci si può arrestare: ritenere l'identità ciò che è immutabile allo scorrere del tempo. Per far questo in modo rigoroso, ci si affida ad un procedimento che prende le mosse dall'autocoscienza empirica: «la coscienza del tempo implica l'autocoscienza empirica; l'autocoscienza empirica è condizionata dall'autocoscienza trascendentale; e tale autocoscienza trascendentale è essa stessa, a sua volta, condizionata dalla coscienza di oggetti»56. Ciò che viene generalmente etichettato come “pensiero” riposa su un processo sintetico: la sintesi trascendentale del molteplice; attività, questa sì, che sta al di fuori del dominio empirico57. Sebbene ci siano ampie convergenze su quest'ultimo passaggio, come vedremo meglio in seguito, i commentatori anglofoni più recenti escludono tuttavia che si sia di fronte ad una realtà nuomenica. C'è chi esclude che l'intenzione di Kant sia quella di andare al di là dei dati fenomenici. Al contrario, le sue intenzioni sarebbero prettamente epistemologiche, volte soltanto ad affermare che quello a cui possiamo puntare è unicamente una conoscenza di noi come soggetti fenomenici. Per esempio, Allison cerca di mostrare la distanza del testo kantiano sia dalle letture ontologiche sia dalle tesi psicologistiche, sostenendo che non si possa passare dal piano epistemologico dell'appercezione, in cui siamo all'interno di una necessità soggettiva, al piano di una necessità oggettiva, magari assegnandole lo status di un'entità noumenica, quasi fosse una specie di anima58. Un riscontro di ciò si avrebbe nei Paralogismi: 55 Kant (1781/2005: 349, B 428). Kemp Smith (1918/1979: 253). 57 In seguito Kemp Smith (1918/1979: 476) sarà ancora più netto, dicendo che nell'esperienza «il principio di causalità regola universalmente e completamente, unendo l'esperienza interna del senso, del sentimento e del desiderio con le condizioni esterne, organiche e fisiche». 58 Cfr. Allison (2004: 339). 56 74 L'autocoscienza in generale è pertanto la rappresentazione di ciò che vale come condizione di ogni unità, e che, in quanto tale, è incondizionato. Dell'io pensante (anima), il quale si pensa come sostanza semplice, numericamente identico in ogni tempo, correlato di ogni esistenza, da cui ogni altra esistenza dev'essere inferita, si può pertanto dire che esso non ha conoscenza di se stesso mediante le categorie, e mediante esse di tutti gli oggetti, nell'unità assoluta dell'appercezione, e perciò mediante se stesso.59 Secondo Bird (2006: 381), sebbene brani come quelli precedenti, dato il rifiuto di considerare l'esistenza come un fenomeno, possano indurre alla tentazione di rapportarsi al piano delle cose in sé – e di considerare addirittura il senso interno affine a quel piano – «Kant nega esplicitamente che l'unità trascendentale dell'appercezione fornisca conoscenza o anche coscienza di me stesso come cosa in sé». Fermo restando il rapporto tra appercezione trascendentale e autocoscienza trascendentale, tutto ciò che si riferisce ad un fantomatico soggetto trascendentale deve essere considerata una condizione «astratta e potenzialmente forviante»60 per la nostra esperienza. Resta il problema di circoscrivere o di specificare la definizione di “autocoscienza” di modo che non dia adito a dubbi. Bird (2006: 371-2) distingue due modi di intendere l'autocoscienza in Kant che presuppongono entrambi l'unità della persona: nel primo caso si afferma che essere autocoscienti presupponga una coscienza unificata (termine a sua volta soggetto ad ambiguità); nel secondo si associa al pensiero riflessivo e ad espressioni quali “sto pensando a ...”. Una sorta di risposta minimalista da parte di Bird e improntata alla prudenza. Del resto ciò non stupisce: data l'oscurità delle nozioni considerate non sorprende la prudenza da parte di alcuni a non spingersi oltre nell'analisi. Ciò che sia Allison che Bird sembrano però voler affermare con una buona dose di sicurezza è che i cambiamenti che avvenuti nella seconda edizione non solo tendono ad escludere rapporti con le cose in sé ma spingono infatti verso una lettura prettamente più epistemologica del testo kantiano. A livello ancor più generale, quello che sembra condiviso dalla maggior parte dei commentatori è che l'autocoscienza sia anzitutto trascendentale e, in secondo 59 60 Kant (1781/2005: 690-1, A 401-2). Bird (2006: 653). 75 luogo, sia considerata un atto mentale o un'attività: l'autocoscienza «producendo la rappresentazione io penso […] non può essere accompagnata da nessun'altra. L'unità di questa rappresentazione la chiamo anche unità trascendentale dell'autocoscienza»61. Inoltre, sebbene possa sembrare paradossale, questa attività non si manifesta al soggetto conoscente in tutta la sua chiarezza: «l'autocoscienza kantiana implica una necessaria coscienza delle attività mentali richieste per la conoscenza ma [è] una coscienza che non permette al soggetto di vedere chiaramente quelle attività per ciò che sono realmente»62. O, detto in maniera diversa: «l'autocoscienza di Kant implica una coscienza necessaria delle attività mentali richieste per la conoscenza e una coscienza che non permette al soggetto di vedere chiaramente quelle attività per quel che sono»63. Ciononostante la sua necessità non è in discussione: «[a] noi stessi infatti, in base alla nostra coscienza, non è possibile giudicare se, in quanto anime, siamo permanenti o meno, perché al nostro identico me-stesso attribuiamo soltanto ciò di cui siamo coscienti; e così dobbiamo necessariamente giudicare che, per tutto il tempo in cui siamo coscienti, continuiamo ad essere i medesimi»64. Fin qui abbiamo tentato di offrire degli spunti sull'autocoscienza isolatamente presa. Ma non è questa la tattica più seguita. Spesso i commentatori partono dall'uguaglianza tra autocoscienza e appercezione: è, per esempio, il caso di Paton (1936/1976: V. I, 398-9) il quale afferma candidamente di considerare l'appercezione come sinonimo di autocoscienza. La sua analisi inizia definendo l'appercezione «un atto di spontaneità» e arriva molto vicino alle conclusioni viste in precedenza dato che questo atto, a sua volta, viene «identificato con l'idea “Io Penso” la quale deve poter accompagnare tutte le mie idee; tuttavia essa è anche descritta come l'autocoscienza che produce l'idea “Io Penso”»65. Ciò che sembra differenziare la lettura di Paton da quelle illustrate prima è l'attenzione all'“Io penso” sia come atto, 61 Kant (1781/2005: 162, B 132). Kitcher (1999: 346) probabilmente ispirato da questo passo kantiano: «Questa coscienza può sovente essere molto debole, cosicché noi la colleghiamo nell'effetto – e non nell'atto stesso cioè immediatamente – al prodursi della rappresentazione; ma, nonostante questa differenza, una coscienza deve esser pur presente, anche se mancante della chiarezza piena» (Kant 1781/2005: 644, A 103-4). 63 Kitcher (1999: 346). Kant sarebbe influenzato in ciò dalla teoria delle petit perceptions di Leibniz (Ivi: 349). 64 Kant (1781/2005: 669, A 364). 65 Paton (1936/1976: V. I, 501). Prospettiva molto simile a quella illustrata da Kemp Smith (1918/1979: 211-2). 62 76 associato presumibilmente dell'intelletto, sia come prodotto finale di questo stesso atto. In altri termini, l'“Io penso” viene mostrato sia come soggetto che come oggetto. Partendo da tale distinzione, Paton discerne non solo i modi di approcciarsi all' “Io”, ma il ruolo che, così facendo, viene assegnato al senso interno: La logica studia l'“Io” come soggetto del pensiero; la psicologia lo studia come un oggetto della percezione. Posso comunque essere conscio, attraverso il senso interno, del cambiamento dei miei stati interni solo perché mi rappresento me stesso attraverso l'appercezione pura come uno ed un solo soggetto di questi stati differenti.66 Il soggetto conoscente visto, da una parte, come un ente costante che mantiene la sua unicità, e, da l'altra, come lo stesso ente che affronta i continui cambiamenti di stato a cui siamo sottoposti: simile ad un programma sempre uguale che elabora dati sempre diversi. E per far fronte a dati sempre nuovi, abbiamo bisogno di qualcosa che presupponga il cambiamento, qualcosa con cui essi si possano confrontare. Ecco perché la rappresentazione del tempo come flusso continuo – immagine che, tuttavia, porta a molti distinguo sul modo di considerare la successione temporale. Molte cose dette fin qui sono state riassunte in maniera più semplice e chiara da Kant stesso in Antropologia dal punto di vista pragmatico, dove si dà anche una risposta negativa definitiva all'interpretazione del sé come entità noumenica: Io, in quanto essere pensante, sono un unico e stesso soggetto con me in quanto essere sensibile; ma in quanto oggetto dell'intuizione empirica interna, cioè nella misura in cui sono internamente affetto dalle sensazioni nel tempo, siano esse simultanee o successive, io mi conosco soltanto come appaio fenomenicamente a me stesso, non come cosa in sé. Ciò dipende dalla condizione del tempo che non è un concetto dell'intelletto (perciò non è semplice spontaneità), cioè da una condizione nei confronti della quale la mia facoltà rappresentativa è passiva (e fa parte della recettività).67 66 67 Paton (1936/1976: V. I, 399, n 2). Kant (1798/2006: 562). 77 A render conto di questa doppia veste del soggetto conoscente ci pensa l'appercezione la quale può essere considerata sia empirica sia trascendentale e funge da punto di raccordo tra l'intelletto e la molteplicità dei fenomeni «essendo la condizione ultima di ogni riconoscimento e il principio delle forme del pensiero»68. II.6. Appercezione. Il tema dell'appercezione sembra essere abbastanza presente nella letteratura tedesca che è stata fonte d'ispirazione per Kant: per esempio, Leibniz la definisce «una percezione esplicita, una rappresentazione di uno stato di cose oggettivo o uno stimolo che è sufficientemente chiaro e distinto da prenderne coscienza»69. Lo stesso interesse si può ritrovare nei primi commentatori anglofoni di Kant, interesse in parte dovuto all'ispirazione ricevuta dagli studi tedeschi sul testo kantiano, come quelli di Hans Vaihinger. Un modo di impostare la discussione è, infatti, quello, di evidenziare la continuità con le affermazioni leibniziane. Non mancano i riferimenti che potrebbero far pensare ciò70, rafforzati dal legame, visto in precedenza, che Kant ha stabilito tra autocoscienza e appercezione71. Tra i commentatori odierni, invece, l'argomento sembra essere tenuto più sullo sfondo. Eppure un autore come Paton (1936/1976: V. I, 397), potrebbe criticare non poco i giovani colleghi, sottolineando che «[q]uesto è il punto in cui noi arriviamo davvero ad afferrare la più centrale, la più importante e anche, in qualche modo, la più elusiva di tutta le dottrine kantiane». Basti pensare all'enfasi con cui l'appercezione viene introdotta nella prima edizione: in noi non può darsi conoscenza né connessione o unità delle conoscenze fra loro, senza quell'unità della coscienza che precede ogni dato dell'intuizione e in relazione alla quale soltanto diviene possibile ogni rappresentazione di 68 Paton (1936/1976: V. I, 379). Guyer (1987:32). Di questo significato di appercezione in Leibniz, molto vicino all'autocoscienza, se ne accorge anche Paton (1936/1976: V. I, 398). Dal canto suo, Kemp Smith attribuisce il lessico usato a volte da Kant sull'appercezione al carattere spiritualistico che egli eredita da Leibniz. 70 Si veda, ad esempio Kant (1781/2005: 651, A 116). 71 «Non conta se questa rappresentazione [quella dell'Io] sia chiara (coscienza empirica) o oscura, e neppure conta la realtà della medesima; ma la possibilità della forma logica di ogni conoscenza poggia necessariamente sul rapporto a questa appercezione come ad una facoltà» (Kant 1781/2005: 652, A 117). 69 78 oggetti. A questa coscienza pura, originaria, immutabile, intendo dare il nome di appercezione trascendentale.72 In maniera più sintetica, nell'Antropologia, l'appercezione è definita come «la coscienza pura dell'azione in cui consiste il pensiero»73. A differenza di altri, chi sembra rendersi ben conto dell'importanza di questa capacità è Sherover, il quale definisce l'appercezione trascendentale, come “coscienza di sé”, intesa come riflessione del soggetto conoscente sulle sue funzioni, e non sui suoi stati empirici74. Per puntellare la sua definizione, Sherover cita alcuni passi, tratti soprattutto della prima edizione, come il seguente: è proprio questa unità trascendentale dell'appercezione quella che, di tutti i possibili fenomeni che possano comunque raccogliersi in una esperienza, fa una connessione secondo leggi. Infatti, questa unità della coscienza risulterebbe impossibile se nella conoscenza del molteplice il nostro animo non potesse aver coscienza della funzione con la quale esso lo congiunge sinteticamente in una conoscenza.75 Sempre nella prima edizione – in un passo di cui Kant sottolinea l'importanza – sembra che si voglia assicurare la continuità tra le varie facoltà, in quanto viene affermato che abbiamo «un'unità sintetica del molteplice (della coscienza), che è conosciuta a priori e che, come tale, fornisce il fondamento delle proposizioni sintetiche a priori concernenti il pensiero puro, allo stesso modo che lo spazio e il tempo forniscono il fondamento di quelle concernenti la forma della semplice intuizione»76. Nell'edizione del 1787, l'importanza dell'appercezione sembra addirittura accresciuta: «l'unità sintetica dell'appercezione costituisce il punto supremo a cui deve ricollegarsi ogni uso dell'intelletto, la stessa intera logica, e dopo di essa la 72 Kant (1781/2005: 646, A 107). Kant ([2006]: 561). 74 Cfr. Sherover (1971: 76-7). 75 Kant (1781/2005: 646, A 108). 76 Kant (1781/2005: 652, A 117). 73 79 filosofia trascendentale; anzi, questa facoltà è l'intelletto stesso»77. L'ultima frase può sembrare un'esagerazione ma in realtà può essere vista come un punto di arrivo, dato che il principio supremo di tutto l'intelletto recita: «tutto il molteplice dell'intuizione è sottoposto alle condizioni dell'unità sintetica originaria dell'appercezione»78. Tra le due edizioni la funzione di fondo dell'appercezione, identificata come l'atto o l'azione che sta alla base dell'unità di ogni singola esperienza che si può avere, sembra mantenersi. Tuttavia cambiano i modi e i presupposti sul come essa lavora. Il primo cambiamento che salta all'occhio è che il principio dell'appercezione, nonostante la sua funzione sintetica, «è in verità esso stesso una proposizione identica e come tale analitica»79, proprio perché «l'unità analitica dell'appercezione è possibile solo sul presupposto di un'unità sintetica»80. Nella precedente edizione la sintesi sembrava assicurata grazie al suo rapporto con il tempo81, mentre adesso tale capacità sembra spingersi in un'altra direzione, puntando a stringere i suoi legami con l'Io penso: la rappresentazione io penso è un atto della spontaneità, ossia non può venir ritenuta propria della sensibilità. Io la chiamo appercezione pura, per distinguerla dalla empirica, o anche appercezione originaria, perché essa è quella autocoscienza che, producendo la rappresentazione io penso – che deve poter accompagnare tutte le altre, ed è una e identica in ogni coscienza – non può essere accompagnata da nessun'altra.82 Kemp Smith sembra avere in mente questo passaggio quando analizza il rapporto tra appercezione e senso interno. Egli specifica, in primo luogo, come il sé trascendentale non abbia un contenuto e debba essere considerato una «mera forma attraverso cui i contenuti, che da soli non potrebbero mai costituire il sé, sono tuttavia appresi come oggetti facenti parte del sé»83. Dato che, come si è visto, l'unità analitica dell'appercezione è possibile solo sul presupposto di un'unità sintetica, tale 77 Kant (1781/2005: 163, B 134). Kant (1781/2005: 164-5, B 136). 79 Kant (1781/2005: 164, B 135). 80 Kant (1781/2005: 163, B 133). 81 Cfr. Kant (1781/2005: 646, A 107-8). 82 Kant (1781/2005: 162, B 132). 83 Kemp Smith (1918/1979: 251). 78 80 unità può essere intesa come l'identità “Io sono Io”, una volta stabilita la quale è possibile accogliere gli oggetti all'interno del soggetto conoscente: «[s]olo dunque in quanto posso congiungere in una coscienza un molteplice di rappresentazioni date, mi diviene possibile rappresentarmi l'identità della coscienza in queste rappresentazioni»84. L'unità della coscienza implica inoltre che si abbia «la coscienza di un singolo tempo cosmico e di un singolo spazio cosmico dentro i quali rientrino tutti gli eventi e al cui interno essi formino un insieme di esistenze causalmente interdipendenti. È per questo motivo che [Kant] chiama ciò l'unità oggettiva dell'appercezione»85. Dove sono finiti i passaggi, visti in precedenza, che portavano dall'autocoscienza empirica all'autocoscienza trascendentale? Non c'è più una sorta di moto ascensionale che dal senso interno passa al piano intellettuale? Sembrerebbe di no. Ora ciò che viene compiuto dall'intelletto si presenta sul piano sensibile come calato dall'alto. La funzione dell'appercezione pura o trascendentale si impone all'unità del senso interno in quanto, come sottolineano alcuni autori, viene considerata atemporale, cioè considerata al di sopra del raggio d'azione del senso interno, dato che è inutile chiedersi quando un atto di appercezione pura ha avuto luogo86. La consequenzialità è stata vittima di quel processo per cui vien data una centralità maggiore all'intelletto rispetto all'intuizione nella seconda edizione. Qui Kant difende con veemenza la tesi dell'affezione del senso interno – «[n]on vedo in qual modo si trovino tante difficoltà nell'ammettere che il senso interno venga affetto da noi stessi» – specificando che non siamo di fronte all'azione del senso interno su se stesso, bensì siamo in presenza di un atto dell'intelletto87. Ma se una facoltà si impone all'altra, ciò significa che siamo all'interno di una gerarchia dentro la quale il senso interno rende conto dei fenomeni e l'intelletto, grazie soprattutto all'appercezione, rende conto del senso interno? Nella descrizione del sé in rapporto all'appercezione trascendentale, Bird (2006: 366) sembra accennare ad una tale 84 Kant (1781/2005: 163, B 133). Kemp Smith (1918/1979: 270). Altrove Kemp Smith (1918/1979: 286) definisce l'unità dell'appercezione oggettiva come: 1) si può apprendere l'unità analitica solo attraverso la scoperta dell'unità di ciò che è dato; 2) l'unità sintetica del molteplice può essere considerata il prodotto di un processo tramite cui possiamo riferire le rappresentazioni agli oggetti. 86 Bird (2006: 716-7). 87 Cfr. Kant (1781/2005: 177, B 156-7). 85 81 possibilità quando afferma che si «delinea una struttura schematica che governa l'intera nostra esperienza in cui la nostra concezione del sé è accettata come fondamentale». Tuttavia, l'appercezione pura ha come oggetto, in ultima analisi, non solo le funzioni delle facoltà, ma anche dei dati temporali, dato che la nostra coscienza è composta, in aggiunta, di conoscenze acquisite a posteriori. Infatti, quando si opera coscientemente su di una rappresentazione, ciò non significa soltanto che la coscienza si rende conto che sta operando ma anche che quella rappresentazione è inserita all'interno dell'unità della coscienza. Il senso interno non viene ritenuto soltanto un contenitore degli oggetti sottoposti a processo, ma la sua stessa unità sembra essere considerata un punto di arrivo e di confronto rispetto all'attività dell'appercezione. Un ragionamento credo sia implicito nel pensiero di Bird (2006: 716), il quale, basandosi proprio sulla seconda edizione, definisce l'appercezione come «una funzione dell'intelletto esemplificata empiricamente e offerta al senso interno, in atti presenti che partecipano a qualche caso attuale di un determinato tipo». Per chiarire meglio la questione, prendiamo ad esempio un altro punto cruciale della Critica, la parte dedicata alle Analogie dell'Esperienza. Qui, non a caso poco dopo la definizione dell'apprensione, si parla di appercezione pura affermando che essa «si riferisce al senso interno (all'insieme di tutte le rappresentazioni), e a priori alla forma del senso interno, cioè alla connessione della coscienza empirica del molteplice nel tempo»88. L'appercezione trascendentale ha quindi come oggetto l'unità della coscienza, di tutta la coscienza, di tutto ciò che entra a far parte del soggetto conoscente, come le rappresentazioni. Inoltre, sembra che, per riflettere al meglio gli ambiti di competenza e le differenze, Kant cerchi di mettere in risalto le due nozioni ponendole di fronte l'una all'altra. Da questo contrasto tra qualcosa di stabile che sia un porto sicuro per la marea in continuo movimento dei fenomeni, nasce la tesi per cui l'unità del tempo dipenderebbe dall'unità dell'appercezione trascendentale89, tesi supportata anche da periodi come il seguente: 88 Kant (1781/2005: 217, A 177/B 220). Paton (1936/1976: V. I, 410-1). Com'è facile prevedere, in una distinzione simile per Paton (1936/1976: V. I, 520) ha un ruolo fondamentale anche la seconda analogia, in quanto, offrendo le relazioni temporali necessarie, agisce sul piano dell'unità sintetica originale dell'appercezione. 89 82 L'unità trascendentale dell'appercezione è quella in virtù della quale tutto il molteplice dato in una intuizione è unificato in un concetto dell'oggetto. Essa si chiama quindi oggettiva e dev'essere distinta dall'unità soggettiva della coscienza, che è una determinazione del senso interno, mediante la quale quel molteplice dell'intuizione è empiricamente dato per tale congiunzione.90 Ci troviamo di fronte alla netta separazione delle aree di competenza tra l'appercezione trascendentale, che permette l'unità dell'appercezione e la formulazione dell'espressione “Io penso”, e l'appercezione empirica che è collegata alla determinazione del senso interno. Tuttavia non siamo in presenza di due generi diversi di appercezione, piuttosto di due funzioni diverse: è la stessa appercezione ora rivolta verso l'unità del soggetto in generale, ora verso gli stati interni dello stesso soggetto. Tale suddivisione, a cui si associa quella tra unità trascendentale dell'appercezione come “originale” e unità empirica come “derivata”91, viene utilizzata da Paton (1936/1976: V. I, 401) per distinguere le situazioni in cui c'è un collegamento oggettivo tra il molteplice delle intuizioni, per esempio la cera lasciata al sole che si scioglie, ed un mero collegamento soggettivo. In quest'ultimo genere di collegamenti rientrano sia quelli casuali, come quando si passa sotto ad un lampione e questo si spenge, sia le associazioni di vari dati empirici ad opera del soggetto conoscente che hanno un valore puramente individuale, per esempio l'unione di un particolare suono con un'immagine dovuta ad un preciso ricordo92. Così facendo l'appercezione deve essere intesa in modo abbastanza ampio da poter rendere conto sia dei contenuti che potranno essere considerati oggettivi sia di quei contenuti meramente soggettivi93:«[p]oiché l'appercezione empirica è un modo di consapevolezza (coscienza empirica) distinto dal giudizio sui contenuti del senso interno (che, come giudizio, è oggettivamente valido), si deve intendere l'unità 90 Kant (1781/2005: 166-7, B 139). Paton (1936/1976: V. I, 520). 92 Certo, come fa Paton (1936/1976: V. I, 521), l'azione di associare una parola ad una precisa immagine, per così dire ad un secondo livello o “vista da fuori”, è un fatto oggettivo, la cui determinazione dipenderà sempre dall'unità trascendentale dell'appercezione. 93 Un problema simile era stato riportato da Paton (1936/1976: V. I, 403), quando mostra la difficoltà nell'identificare l'atto del pensiero, e quindi la forma che esso assume, con la sua coscienza. Questo perché la forma del pensiero è qui identificata con la forma di giudizio, ma il soggetto conoscente non è esplicitamente consapevole che ogni atto possa essere identificato con la formula “S è P”. 91 83 soggettiva della coscienza al fine di includere un modo soggettivo di consapevolezza nella coscienza, così come le unità non rappresentazionali»94. In tal modo la dottrina dell'appercezione può essere considerata «uno schema o un modello formale per l'analisi dell'intelletto e delle sue attività “logiche”»95. Se intendiamo questo discorso in maniera forte, e alcuni passi di un autore come Allison potrebbero portarci a credere ciò, sembra che si voglia sottrarre ogni valenza ontologica all'appercezione al fine di conferirgli una valenza esclusivamente epistemologica. Si può pensare all'unità dell'appercezione come un fine ideale a cui puntare, ma ciò avrebbe quasi e soltanto una funzione metodologica come base del pensiero96. Ma come giunge l'appercezione all'unità? In particolare, come si arriva all'unità del senso interno? Va ricordato che l'appercezione si rivolge alle relazioni del senso interno in quanto tutto ciò che può sottostare ad un concetto, tutto ciò che entra a far parte delle rappresentazioni del soggetto conoscente, deve aver a che fare con il tempo in quanto forma generale di tutti i fenomeni97. Dato che ci stiamo riferendo al senso interno si deve chiamare in causa, presumibilmente, l'appercezione empirica. A questa capacità Paton (1936/1976: V. I, 401) affida un compito specifico, che rientra nel più vasto programma tendente all'unità dell'appercezione: affinché si considerino le manifestazioni fenomeniche come proprie di un oggetto, è necessario un lavoro di riconoscimento, reso possibile in parte dalla memoria98, in parte, attraverso l'immaginazione tramite un processo di riproduzione con il quale andiamo a riprodurre le rappresentazioni dei fenomeni con cui abbiamo avuto a che fare. La proprietà di sintesi, il legante che tiene unite le rappresentazioni passate con quelle riprodotte e, in alcuni casi, con quelle presenti, è la capacità sintetica dell'appercezione empirica, che funziona come una sorta di colla tra i vari pezzi del mosaico. Tutte le tesi illustrate fin qui, tuttavia, sembrano tralasciare qualcosa. Ancora sembra non si riesca a focalizzare il perché ci sia e ci debba essere questo rapporto tra appercezione e senso interno. Per capire l'importanza che è necessario assegnare 94 Allison (2004: 184). Allison (2004: 172). 96 Allison (2004: 340). 97 Cfr. Paton (1936/1976: V. II, 162). 98 Il ruolo della memoria, secondo alcuni, andrebbe in qualche modo ridimensionato: Bird (2006: 375), per esempio, nota che sono pochi i riferimenti testuali riguardanti questa capacità nella parte riguardante l'appercezione. 95 84 all'unità temporale ritorniamo alla sequenza temporale minima illustrata in precedenza, il semplice passaggio da A a B. La successione da l'uno all'altro indica una qualche sorta di unità tra questi due stati? Magari si ha solo l'impressione che si voglia giocare con le parole, ma la successione temporale implica una continuità tra lo stato A e lo stato B e tale continuità, a sua volta, sembra implicare un'unità di fondo. Per stabilire ciò, inizialmente si osservano le rappresentazioni: esse possono provenire da fenomeni differenti che nulla hanno a che fare tra di loro. Eppure, una volta considerate in quanto rappresentazioni e, pertanto, interne al soggetto conoscente, esse, almeno implicitamente, rimandando ad un qualche genere di unità: quella del soggetto conoscente, il “contenitore” all'interno del quale esse si trovano. Le due rappresentazioni sono il tipico caso in cui il mondo esterno dà modo di iniziare l'esperienza e di confrontarsi con le forme con cui il soggetto conoscente si appropria di essa. Ora, che tipo di unità viene, per così dire, portata alla luce dagli stati A e B? Le due rappresentazioni si trovano nel senso interno; ma esso è capace di render conto autonomamente della propria unità? Il ragionamento di Kant sembrerebbe mirare a questo: egli ha stabilito che il tempo sia unico, che le sue parti siano parti di un unico tempo e che esso corrisponda al senso interno; ma affinché la sua unità sia garantita non solo non è sufficiente dire che i dati empirici siano raccolti in un solo serbatoio, ma c'è bisogno che l'unità del contenitore sia in qualche modo garantita. Altrimenti si incorerebbe nel tipo di critiche mosse da Hume a Locke a cui abbiamo accennato in precedenza. Al fine di garantire questa unità è necessaria l'attività a priori (e quindi valida universalmente e necessariamente) di una capacità quale l'appercezione che sia in grado di stabilire l'unità della coscienza. E sembra che la netta separazione tra appercezione e senso interno serva anche per garantire che ciò che proviene da fuori non potrà mai, in alcun modo, variare l'azione della prima che si compie sul secondo. Ed è per questo che, in quanto soggetti conoscenti, possiamo permetterci di dire “Io penso” attraverso una proposizione empirica che accompagni i miei stati. Questa formulazione è in qualche modo metafora e summa di tutto il procedimento: il mondo esterno dà l'occasione dell'esperienza (la proposizione empirica) ma la garanzia sul tipo di esperienza è data solo dalle forme a priori del soggetto conoscente (il processo che porta ad accompagnare i miei stati con la 85 formula “Io penso”). A livello epistemologico, soprattutto dopo la seconda edizione, per quel che riguarda la conoscenza di sé e la comprensione di ciò che avviene alle rappresentazioni dentro al senso interno, siano necessari entrambi i tipi di appercezione. In generale si può dire che è l'esperienza tutta che ha bisogno delle varie articolazioni dell'appercezione, sia essa considerata come proveniente dai fenomeni, sia essa riferita all'autocoscienza; ma in entrambi i casi è preclusa la conoscenza della natura ultima del sé99. Il procedimento di Kant, se da un lato sembra aver dato una risposta a Hume, dall'altro sembra sfuggire al suo controllo. La griglia che l'appercezione crea sul senso interno si rivolge verso un lato solo, al massimo le sue sbarre coincidono con il livello dell'appercezione stessa, ma, al di là di quella soglia essa non ha potere. Oltre questo limite, le forze e i poteri che esercitano le capacità stesse ci sono inconoscibili in senso kantiano. Tuttavia, alcune pagine di Kant lasciano pensare che alcuni poteri profondi e propulsivi del soggetto conoscente siano collegate al tempo e giochino un ruolo importante. Ricordiamoci che Kant è un funzionalista e che la descrizione di queste abilità si può ricavare dal modo in cui esse agiscono all'interno del tempo. Con il rischio di identificare l'unita dell'appercezione con il soggetto conoscente stesso, il fascino di questi luoghi esercita comunque un'inevitabile attrazione: «nulla v'è di più naturale e ammaliante della parvenza che ci fa scambiare l'unità nella sintesi del pensiero per un'unità percepita nel soggetto di questi pensieri. Si potrebbe darle il nome di surrezione della coscienza ipostatizzata (apperceptionis substantiatae)»100. Ed è proprio in questo territorio che hanno cercato di spingersi le analisi di alcuni commentari, impostando una lettura ontologica e immanente dei testi di Kant. Questi autori hanno posto sotto la lente d'ingrandimento i rapporti tra il senso interno, e quindi il tempo, con l'immaginazione e successivamente con la sintesi. Le loro analisi nascono dal contrasto tra la consapevolezza del nostro sé empirico e il mistero che circonda processi, che operano, per così dire, al di sotto di questo livello, quali la sintesi trascendentale. Come afferma Kemp Smith (1918/1979: 322): 99 Kemp Smith (1918/1979: 279). Kant (1781/2005: 690-1, A 402). 100 86 Un fenomeno, per essere fenomeno, non solo presuppone la realtà di ciò che appare, ma anche il processo mentale per mezzo del quale viene appreso. Ma se la realtà è data solo nella sensibilità e tuttavia l'intera esperienza che implica la sensibilità è soltanto fenomenica, non c'è nessun sé attraverso cui l'esperienza possa essere condizionata; e non il fenomeno (Erscheinung), ma solo l'illusione (Schein) viene lasciata.101 II.7. Il ruolo dell'Immaginazione e lo Schematismo. Può sembrare contraddittorio, o per lo meno un elemento di debolezza, che il fulcro delle letture ontologiche di Kant sia l'analisi dell'immaginazione: come, la branca della filosofia che tenta di render conto di ciò che c'è, può cercare il suo fondamento in una facoltà che quasi sempre è associata alla fantasia? Eppure in Kant la sintesi si basa proprio sull'immaginazione pura ed è a sua volta l'immaginazione che, attraverso la sintesi, rende possibile l'unificazione di senso e intelletto, colmando la distanza tra tempo e categorie102. L'immaginazione infatti è la facoltà che fa da tramite e che è responsabile della sintesi e il punto di giuntura, l'elemento unificatore è reso possibile proprio dalla sintesi, considerata un atto dell'immaginazione pura103. L'appartenenza della sintesi generale all'immaginazione e il suo ruolo vengono confermate in entrambe le edizioni: «la sintesi in generale è il semplice risultato dell'immaginazione, ossia di una funzione dell'anima, cieca e tuttavia indispensabile, senza la quale non potremmo a nessun titolo avere una qualsiasi conoscenza, ma della quale siamo consapevoli solo di rado»104. L'immaginazione collega i contenuti del tempo in quanto senso interno alle categorie, contribuendo in maniera essenziale all'unità dell'appercezione. L'importanza del ruolo di passaggio di questa facoltà era molto più evidente nella prima edizione dato che è proprio sulla sintesi immaginativa che si fondano le altre105. E, per quel che riguarda i nostri scopi, il rapporto tra tempo e immaginazione 101 Kemp Smith (1918/1979: 323). Cfr. Sherover (1971: 65-6). 103 Sherover (1971: 66). 104 Kant (1781/2005: 144, A 78/B 103). 105 Sherover (1971: 64). 102 87 è evidente quando quest'ultima mette assieme i contenuti passati con quelli presenti e «fornisce la condizione necessaria per la consapevolezza di un oggetto “nel tempo” e della relazione tra oggetti in “tempi differenti”»106. Sebbene non abbia una sezione a lei dedicata, come l'intelletto o la sensibilità, l'immaginazione è considerata una facoltà distinta che apporta il suo contributo nella percezione stessa: Siamo dunque in possesso d'una immaginazione pura, come facoltà fondamentale dell'anima umana, che sta a fondamento di ogni conoscenza a priori; per suo mezzo, congiungiamo il molteplice dell'intuizione con la condizione dell'unità necessaria dell'appercezione pura. Ambedue i termini estremi, sensibilità e intelletto, debbono necessariamente congiungersi sulla base di questa funzione trascendentale dell'immaginazione.107 E la funzione di collegamento non si esaurisce nei rapporti, generali, tra le facoltà, ma è anzi riscontrabile nei processi conoscitivi ordinari. È l'immaginazione che ha il compito, come abbiamo visto prima nel procedimento illustrato da Paton, di riprodurre nel presente le apprensioni passate depositate nella memoria e ricollegarle a ciò che sta accadendo. Un processo simile a quello delle memorie RAM dei computer: le rappresentazioni dei fenomeni di cui si ha bisogno vengono “caricate” durante la fase di concettualizzazione sulla memoria per essere poi elaborate. E proprio come nei processi in cui sono coinvolte le RAM, non assistiamo soltanto ad attività passive – di “sola lettura” – ma la distinzione tra soggetto e oggetto serve anche a sottolineare le caratteristiche attive del processo di appercezione empirica. Tutto ciò è, a pieno titolo, un processo temporale che permette di associare diversi istanti in un unico lasso di tempo o di selezionare e confrontare le cose passate con le presenti108. Questa operazione, effettuata durante la percezione empirica, è una condizione necessaria dell'esperienza possibile: La sintesi dell'apprensione è pertanto legata inscindibilmente con la sintesi della riproduzione. E poiché la prima costituisce il fondamento trascendentale della possibilità di ogni conoscenza in generale (non solo delle empiriche, ma 106 Sherover (1971: 74). Kant (1781/2005: 656, A 124). 108 Sherover (1971: 74). 107 88 anche delle pure a priori), ne segue che la sintesi riproduttiva dell'immaginazione appartiene alle operazioni trascendentali dell'animo; e, riguardo a queste, chiameremo anche questa facoltà, facoltà trascendentale dell'immaginazione.109 Non è un caso che qui venga citata l'apprensione perché il procedimento è analogo a quello sottinteso nel famoso esempio di Kant sulla percezione di una casa110. In quell'esempio Kant parla esplicitamente e più volte di successione dell'apprensione111. Non è un caso che, poco prima dell'esempio, Kant affermasse: «[i] fenomeni, come semplici rappresentazioni, sono oggetti della coscienza e non si distinguono per nulla dall'apprensione, cioè dall'immissione nella sintesi dell'immaginazione»112. Lasciando da parte le questioni sull'irreversibilità della successione, lì si ha un caso di varie rappresentazioni, quelle di una casa appunto, che si ricollegano tra di loro fino a formare l'oggetto. La rappresentazione totale dell'oggetto me viene formata passo passo: prima vedo il tetto, poi il primo piano, poi il pian terreno e così via. Ma per far sì che l'oggetto sia completo e definito, devo mettere insieme e assemblare le varie rappresentazioni, sia quelle che ho in questo momento, sia quelle che avevo pocanzi. Questo, come abbiamo visto, è il compito dell'immaginazione, incarico che viene confermato anche nella seconda edizione. Lì infatti, a proposito della connessione di due percezioni, si afferma: la connessione, in verità, non è affatto un prodotto del semplice senso e dell'intuizione, bensì il risultato di una capacità sintetica dell'immaginazione, che determina il senso interno in ordine al rapporto temporale. L'immaginazione è però in grado di connettere i due stati di cui si parla, in due maniere diverse, sì che o l'uno o l'altro abbia a precedere nel tempo. [...] Io sono dunque cosciente soltanto del fatto che la mia immaginazione colloca uno stato prima dell'altro.113 109 Kant (1781/2005: 643, A 102). Kant (1781/2005: 227-8, A 189-191/B234-236). 111 Kant (1781/2005: 228, A 191/B236): «ciò che si trova nell'apprensione successiva è assunto come rappresentazione, ma il fenomeno che mi è dato, pur non essendo altro che un complesso di queste rappresentazioni, è assunto come il loro oggetto, col quale deve accordarsi il mio concetto, che ricavo dalle rappresentazioni dell'apprensione». 112 Kant (1781/2005: 227, A 189-90/B234-5). 113 Kant (1781/2005: 226, B 235). 110 89 Il ruolo di sintesi dell'immaginazione è stato fortemente sottolineato da coloro che vogliono estendere l'importanza dell'immaginazione in quanto facoltà cognitiva: L'immaginazione, come centro di sintesi cognitiva, è essa stessa il principio della trascendenza che rende possibile l'esperienza. La sintesi immaginativa, quindi, non è solo una facoltà o una capacità in più tra la sensibilità e il pensiero ma, in un certo senso, è la loro unità strutturale che funziona attivamente, è l'unità strutturale del processo cognitivo.114 Dopo aver ribadito, poco di seguito, che la sintesi immaginativa è un «processo dinamico», Sherover afferma, sintetizzando, che «[l]'immaginazione trascendentale è la trascendenza stessa». È per questo che egli aveva potuto affermare che «l'immaginazione è perciò il principio della possibilità dell'esperienza stessa. Come immaginazione pura è interessata ai fenomeni nell'intuizione pura (nel tempo), è fondata necessariamente sul tempo»115. Sebbene, come si è detto nei primi paragrafi, l'immaginazione non abbia una parte della Critica a lei dedicata, all'interno della Deduzione trascendentale c'è un paragrafo lo Schematismo trascendentale, in cui si parla principalmente del suo ruolo di trait d'union tra sensibilità e intelletto. L'utilità della sezione è accentuata dal fatto che, nel passaggio tra le due edizioni, non viene modificata. Più nello specifico, lo Schematismo trascendentale è quella parte della Critica in cui si cerca di spiegare come le categorie possano essere collegate al materiale empirico. È dunque facile capire perché venga chiamato in gioco il tempo e la sua unità: da un lato, il tempo ha a che fare direttamente con tutti i possibili fenomeni, dall'altro è anch'esso a priori. In pratica il candidato ideale a fare da tramite. Il tempo, quale condizione formale del molteplice del senso interno, perciò della connessione di tutte le rappresentazioni, contiene un molteplice a priori 114 Sherover (1971: 136). Sherover (1971: 99). C’è chi è stato ancora più estremo nella sua analisi. Waxman (1991: 14) sostiene che «dobbiamo quindi supporre che tutte le relazioni spaziali e temporali esistono solo all’interno e attraverso l’immaginazione e in nessun modo caratterizzano le sensazioni; non ci può essere “flusso” di rappresentazioni nel senso interno e non può essere considerato un dato genuino neanche una “macchia” di colore». 115 90 nell'intuizione pura. Ma una determinazione trascendentale di tempo è omogenea alla categoria (che ne determina l'unità) in quanto è universale e riposa su una regola a priori; per un altro verso, però, è omogenea al fenomeno, in quanto il tempo è incluso in ogni rappresentazione empirica del molteplice. Di conseguenza, un'applicazione della categoria ai fenomeni sarà possibile per mezzo della determinazione trascendentale del tempo, determinazione che, in quanto schema dei concetti dell'intelletto, fa da mediatrice nella sussunzione dei fenomeni sotto la categoria.116 In precedenza, nell'Estetica, non si era accennato a questa funzione del tempo. Ciò vuol dire che, nella prima parte dell'opera, non è stato detto tutto e l'elenco delle caratteristiche e dei compiti lì assegnati al tempo non era esaurito: L'estetica quindi espone il problema ma non lo risolve: il tempo non è soltanto la forma pura dell'intuizione, è anche la forma dello schema come tale. Il tempo è la forma di ogni schema, definisce la loro applicabilità per ogni oggetto e ci permette di vedere ogni aspetto percepibile di ogni cosa che entra nel nostro campo di esperienza.117 Per collegare i dati sensibili ai concetti puri, nello Schematismo viene introdotto un livello intermedio, lo schema appunto, attraverso il quale sarà possibile sussumere i fenomeni sotto le categorie. Lo schema, prodotto dell'immaginazione, non è altro che la categoria usata all'interno del tempo: gli schemi non sono altro che determinazioni a priori del tempo secondo regole, le quali si riferiscono, secondo l'ordine delle categorie, alla serie del tempo, al contenuto del tempo, all'ordine del tempo e, infine, all'insieme del tempo nei riguardi di tutti gli oggetti possibili.118 Fedele alla definizione di sintesi dell'immaginazione – che verrà esaminata più da vicino nel paragrafo successivo – considerata quale atto, anche lo schema, sebbene 116 Kant (1781/2005: 191, A 138-9/B 177-8). Sherover (1971: 115). 118 Kant (1781/2005: 195, A 145/B 184-5). 117 91 sia associato ad un “modello”, non deve far pensare ad un oggetto. Sherover (1971: 105) lo definisce «una procedura schematica», «pre-empirica» attraverso cui poter produrre un modello, una «forma temporale» entro cui si possano incontrare il percepito e il concetto. Tali categorie schematizzate ci danno anche il modo in cui il tempo viene strutturato, in cui si ha una determinazione trascendentale del tempo che infatti viene definita «omogenea»119 alla categoria e al fenomeno: una volta fissato un punto sia dal lato dei fenomeni sia da quello delle categorie è come se si marchiasse il senso interno e quindi avessimo delle coordinate di riferimento per computarlo. La precedenza avuta dagli schemi rispetto alle categorie nell'esposizione, in aggiunta ad alcuni brani che parlano dei limiti delle categorie avulse dal piano sensibile120, induce Sherover (1971: 114), a sostenere che «la categoria schematizzata è centrale mentre la categoria non schematizzata è essenzialmente derivata». Ciò significa che sono le categorie a priori ad essere considerate come un prodotto derivato dallo schema. Spunti questi che sono stati probabilmente sviluppati dal pensiero di Martin (1955: 85): Per Kant stesso non c'è prime una categoria pura e quindi qualcosa aggiunto ad essa nello schema ma la determinazione temporale delle categorie è qualcosa che ci viene dato originariamente e inseparabilmente, il quale viene soltanto analizzato […] Per noi il risultato decisivo è che le categorie hanno un qualche significato soltanto se hanno una modificazione temporale e, allo stesso tempo, questa modificazione temporale delle categorie negli schemi limita l'applicazione delle categorie a cosa può essere determinato temporalmente. Quanto detto finora, secondo Sherover (1971: 139) porta a concludere che nello Schematismo Kant non ha più un interesse epistemologico – esaurito nella Deduzione trascendentale – bensì si tratterebbe di una sorta di premessa alla sezione 119 Kant (1781/2005: 191, A 138-9/B 177-8). Sherover cita per esempio: «le categorie prive di schemi sono esclusivamente funzioni dell'intelletto per i concetti, ma non rappresentano oggetti di sorta. Un significato del genere deriva loro dall'intervento della sensibilità, la quale realizza l'intelletto, nell'atto stesso in cui lo restringe» (Kant 1781/2005: 191, A 147/B 187). 120 92 successiva, l'Analitica dei principi. L'affinità con questa parte della Critica sarebbe data dagli argomenti trattati: il rapporto e l'applicazione delle regole ai singoli casi e dunque, per estensione, la conclusione di tutto il processo conoscitivo nell'unità dell'esperienza stessa – il fine della metafisica così come concepito da Kant 121. Pertanto nello Schematismo, con la centralità data al tempo, all'immaginazione e alle sue funzioni di passaggio, si coronerebbe quella visione ontologica prospettata dai primi commentatori angloamericani di Kant – «in senso stretto è vero solo che tutti i fenomeni sono nel tempo, così che, in senso stretto, solo il tempo è il carattere decisivo dell'essere»122 – e riportata in voga da Heidegger: la forma del tempo, prima di ogni percezione particolare, delimita l'orizzonte dentro il quale si deve presentare ogni percezione. Entro un tale orizzonte, come condizione ontologica affinché un qualunque fenomeno si manifesti, le entità particolari diventano oggetti per noi. Funzionando come un contrassegno ontologico per gli oggetti che si presentano, il tempo rende possibile la stessa oggettività. […] Il successo dello Schematismo sta così nel portare il concetto di tempo al centro dei fondamenti della possibilità di esperienza.123 Uno dei punti chiave di chi, come Sherover, prende a modello l'analisi heideggeriana è la necessità di una relazione tra l'immaginazione, vista come una facoltà temporale, e l'atemporalità dell'intelletto puro. Il rapporto è completamente ribaltato rispetto a quello esaminato in precedenza ed è l'attività dell'intelletto, compresa l'appercezione, che si deve conformare ai dettami dell'immaginazione, la quale, a sua volta, proprio in quanto facoltà temporale è collegata all'intuizione pura. In altre parole, ci sarebbe «un'estrema dipendenza di tutta la struttura della conoscenza dai limiti della natura temporale dell'intuizione pura» e ciò 121 Un altro legame ad un livello più generale riguarda la continuità tra la prima e la seconda Critica. Kant, dopo la prima Critica, credendo di aver fornito una risposta al problema dell'oggettività della conoscenza umana, avrebbe fatto lo stesso con la moralità, attraverso la Critica della ragion pratica. Secondo Sherover (1971: 174), alla pubblicazione della prima Critica, la seconda era già praticamente finita, ma è uscita solo tre anni dopo, aspettando che le spianassero la strada sia la Metafisica dei costumi sia la seconda edizione della prima Critica. Quest'ultima infatti, allargherebbe i temi della finitezza e della razionalità generali spinta dal problema della Moralità come derivato diretto della razionalità e non si accontenterebbe di render conto della ragione in rapporto alla finitezza umana. 122 Martin (1955: 151). 123 Sherover (1971: 118). 93 implicherebbe anche che «la funzione dell'immaginazione [sia] di portare i concetti atemporali in relazione con essa»124. O, detto altrimenti: Empiricamente, l'immaginazione funziona in considerazione di oggetti particolari; trascendentalmente il suo interesse è verso l'unità sintetica necessaria del campo dei fenomeni come tale. L'immaginazione trascendentale “colma” il “vuoto” tra la capacità di avere impressioni sensibili separate di cose specifiche differenti in “tempi” specifici e la capacità di rendere tali presentazioni, quando unificate, intelligibili in termini di concetti generali che non hanno un riferimento temporale essenziale e che dall'appercezione pura, la capacità di pronunciare un “Io penso”. emanano 125 Ma non è forse eccessivo identificare il tempo sia con l'intuizione pura sia con l'immaginazione? E come mai viene stabilita questa equazione? Si è già sottolineato come il tempo, in quanto senso interno, rappresenti la forma di ogni possibile rappresentazione, di ogni possibile oggetto di esperienza, di tutti gli oggetti intuibili: da qui è tratta la conclusione che sia la forma fondamentale dell'intuizione stessa. Si passa quindi dalla forma, imposta dall'intuizione, che tutti i fenomeni devono avere per essere oggetti di esperienza possibile, all'identificazione dell'intuizione con la forma che lui stesso impone. Per quanto riguarda l'immaginazione invece, abbiamo già visto che nel suo ruolo di passaggio tra sensibilità e intelletto, riproduce le rappresentazioni dal passato, nel presente e per il futuro, agendo lungo quelle che Heidegger chiamerà le tre estasi temporali, manifestando, in questo modo, la padronanza del uso agire con queste dimensioni. Da lì ad associare tale funzione con il tempo stesso il passo è breve. Quindi entrambe le facoltà, avendo a che fare con il tempo, vengono ad esso associate. Se quanto detto fin qui è corretto, viene da chiedersi: se il tempo è considerato l'elemento di fondo di entrambe le facoltà, perché allora distinguerle? La conclusione a cui giungono alcune di queste letture è infatti qualcosa di molto simile: come vedremo parlando della sintesi, si cercherà di far derivare queste facoltà da un unico principio, un'unica fonte. Tuttavia i problemi, come sempre, si annidano nei dettagli e qui cercheremo di 124 125 Sherover (1971: 97). Sherover (1971: 99). 94 illustrare le prime difficoltà a cui vanno incontro questi tentativi interpretativi. Innanzitutto è già difficile identificare tutta l'intuizione sensibile presa in blocco con il tempo. Nonostante l'universalità del tempo, la sua identificazione con il senso interno e mediatamente con quello esterno, l'intuizione spaziale ha delle prerogative dimensionali (il numero delle dimensioni geometriche euclidee, la possibilità di spostamento all'interno di esse...) che l'intuizione temporale difficilmente può coprire e sostituire con una successione monodimensionale. Inoltre, per quanto riguarda l'uguaglianza o, per lo meno, il parallelismo tra il tempo e la sintesi immaginativa, possiamo dire che, sebbene collaborino allo stesso fine, ossia l'unità dell'esperienza in generale, ne curano aspetti differenti: il tempo in quanto senso interno è, come già detto più volte, una sorta di contenitore per tutte le rappresentazioni; la sintesi dell'immaginazione sfrutta la mobilità datale dall'ampiezza e dalle dimensioni del contenitore per svolgere i suoi compiti di collegamento. Come in un magazzino, il tempo è la scaffalatura su cui stanno gli oggetti e quindi contiene le rappresentazioni empiriche; mentre la sintesi dell'immaginazione è l'operatore che le sposta e le movimenta. Tuttavia le difficoltà più rilevanti di questo tipo di letture non sono esegetiche ma testuali. Il problema maggiore di questa ricostruzione è l'indebolimento del ruolo dell'immaginazione avvenuto nella seconda edizione. Molti dei brani precedenti, riguardanti soprattutto la sintesi dell'immaginazione presenti nella prima stesura della Deduzione trascendentale vengono semplicemente esclusi. Lo Schematismo rimane sostanzialmente uguale ma, in questo nuovo contesto, le sue funzioni sono profondamente ridimensionate. Infatti, ed è questo il cambiamento più notevole, l'immaginazione non è più una facoltà autonoma e viene definita come un effetto dell'intelletto sulla sensibilità: l'immaginazione è per questo riguardo una capacità di determinare a priori la sensibilità; e la sintesi delle intuizioni che essa opera, in conformità alle categorie, deve costituire la sintesi trascendentale dell'immaginazione; il che è un effetto dell'intelletto sulla sensibilità ed è la prima applicazione (e, nel contempo, il fondamento di ogni altra) dell'intelletto a oggetti dell'intuizione 95 possibile.126 Conseguenza non da poco anche per il tempo che si vede fortemente ridimensionato a favore dei concetti, i quali non vengono più astratti dalla percezione temporale ma vengono imposti ad essa127. Si è forse esagerato, pertanto, nell'importanza data all'immaginazione? Come spiegare altrimenti il passaggio da facoltà fondamentale a facoltà di contorno? Per spiegare i cambiamenti avvenuti nell'edizione del 1787 si sono avute le reazioni più disparate. Vale la pena riportare la spiegazione data da Heidegger (1929/2006: 141) in cui la sua prosa si proietta ai limiti del lirismo: se nella seconda edizione l'immaginazione trascendentale, quanto alla sua funzione di facoltà fondamentale intermediaria, doveva essere accantonata, occorreva anzitutto che la deduzione trascendentale subisse una rielaborazione completa. L'immaginazione trascendentale è l'ignoto inquietante, che ha fornito il motivo per la nuova redazione della deduzione trascendentale. C'è invece chi, sembra quasi deluso che Kant non abbia apportato modifiche più profonde, come Wolff (1963: 43), il quale considera lo Schematismo «inutile (unnecessary) e la sua presenza oscura il collegamento tra la Deduzione e il Sistema di tutti princìpi dell'intelletto puro». Dal canto suo Paton ribadisce che nella seconda edizione non c'è niente che non fosse presente, almeno implicitamente, già nella prima. E, più che una spiegazione, propone una giustificazione del comportamento di Kant, dovuto in prevalenza alle critiche ricevute, che l'hanno portato ad adottare un atteggiamento più prudente128. Ciò ha comportato l'abbandono delle tesi psicologiche del suo tempo, troppo deboli nei confronti di possibili obiezioni, e la scelta di una prospettiva più rigorosamente logica. In particolare, tutto questo ha causato l'abbandono dell'immaginazione produttiva, vista quale facoltà fortemente soggettiva e a rischio di psicologismo, come funzione trascendentale fondamentale e il tentativo di mettere da parte le caratteristiche più compromettenti all'immaginazione 126 Kant (1781/2005: 174, B 152). Sherover (1971: 176). 128 Paton (1936/1976: V. I, 500). 127 96 riproduttiva: per ciò che l'immaginazione possiede di spontaneità, io la designo talvolta con il nome di immaginazione produttiva, distinguendola così dalla riproduttiva, la cui sintesi ubbidisce semplicemente a leggi empiriche, cioè a quelle dell'associazione, la quale non è in grado di dare alcun contributo alla spiegazione della possibilità della conoscenza a priori, e rientra, anziché nella filosofia trascendentale, nella psicologia.129 All'immaginazione produttiva nella seconda edizione si accenna solamente, distinguendola da quella riproduttiva che si basa solo su leggi empiriche. Ciò porta anche a nuovi tentativi di incastro tra le due fonti di conoscenza e le tre facoltà elencate in precedenza. Il tutto può risultare un po' forzato nonostante all'immaginazione si accenni sempre, sebbene quasi en passant. Se si osserva l'evoluzione della prima Critica, è plausibile pensare che l'immaginazione fosse sì una facoltà, anche di una certa importanza, ma che fosse “sacrificabile”, e quindi non paragonabile alla sensibilità o all'intelletto. Ciò che non sembra perdere di importanza è la capacità legata inizialmente all'immaginazione, la sintesi, tanto che risulta necessario trovarle un posto alle dirette dipendenze dell'intelletto. II.8. Sintesi. La sintesi è stata finora una sorta di ombra che si è aggirata lungo tutta la discussione. Se abbiamo deciso di affrontarla alla fine è proprio perché, ironicamente, al pari della sua funzione, essa è collegata e fa da collante tra tutte le nozioni fin qui incontrate: «tutto deve essere necessariamente conforme alle condizioni dell'unità totale dell'autocoscienza, cioè deve subordinarsi alle funzioni universali della sintesi in base a concetti, come l'unica in cui l'appercezione abbia la possibilità di dimostrare a priori la propria piena e necessaria identità»130. Una nozione così essenziale avrebbe bisogno di essere chiara e 129 130 Kant (1781/2005: 174-5, B 152). Kant (1781/2005: 648-9, A 111-2). 97 comprensibile: com'è possibile definire la sintesi in quanto capacità? Kant distingue in prima luogo tra una sintesi in generale e una sintesi pura: Per sintesi, nel suo significato più generale, intendo l'operazione consistente nel riunire diverse rappresentazioni e nel comprendere la loro molteplicità in una conoscenza. Una tal sintesi è pura se il molteplice è dato in modo non empirico, cioè a priori. [...] la sintesi di un molteplice (sia esso dato empiricamente o a priori), comincia col produrre una conoscenza che dapprima può certamente risultare ancora grezza e confusa e bisognosa quindi dell'analisi. Comunque la sintesi è ciò che effettivamente raccoglie gli elementi per la conoscenza, unificandoli in un certo contenuto.131 Poco dopo Kant chiarisce che la sintesi definita pura «ci dà ora il concetto puro dell'intelletto. Ma per sintesi pura intendo quella che riposa sul fondamento dell'unità sintetica a priori. […] Sotto questo concetto l'unità della sintesi del molteplice diviene necessaria»132. Nonostante le precisazioni, i commentatori hanno sottolineato la mancanza di chiarezza nelle definizioni kantiane. Per esempio, non viene indicato secondo quali canoni avviene la riunificazione dei dati empirici. Posto che per la sintesi pura a fare da linee guida siano le categorie, per la sintesi in generale non ci vengono forniti parametri. Problema già portato alla luce da Kitcher, secondo la quale Kant non è in grado di definire la relazione di sintesi, di darne, diremmo noi, una formulazione soddisfacente ed utilizzabile133. In un quadro storico in cui forti si fanno sentire i problemi filosofici del periodo – come, ad esempio, la risposta da dare a Hume – la formulazione fornita da Kant risulta talmente semplice da rischiare di indebolire l'identificazione del soggetto che effettua la sintesi stessa134. Tuttavia, secondo Kitcher, la sintesi, imponendo determinate caratteristiche ai dati empirici, ha un valore fortemente epistemologico: da un lato, la sintesi trascendentale può essere 131 Kant (1781/2005: 144, A 77-8/B 103). Kant (1781/2005: 144-5, A 78/B 104). 133 Kitcher (1982: 59). 134 Kitcher (1982: 53). Per cercare di evitare spiacevoli conseguenze, Kitcher (1982: 56) distingue tra due significati in cui Kant utilizza il termine “sintesi”: “Sintesi” – maiuscolo – sta per «la relazione puntuale di connessione di contenuto causale che si produce tra gli stati interni della mente di qualcuno», mentre “sintesi” – minuscolo – sta per «una relazione generica di contenuto causalmente interconnessa». 132 98 considerata l'argomento fondamentale per stabilire la parte soggettiva dell'appercezione, mentre dall'altro, proprio tramite l'appercezione, Kant cercherebbe di imporre la sintesi come una relazione epistemologica necessaria tra gli stati135. Anche secondo Allison la nozione di sintesi in Kant è abbastanza problematica: egli ritiene che Kant utilizzi il termine “sintesi” in due modi: sia intendendo l'atto stesso sia ciò che produce. È il primo significato che può portare a dei problemi, dato che, come abbiamo visto, Kant esclude che si possa sempre essere consapevoli del nostro agire. Per allontanare questa eventualità Allison propone di considerare come atti coscienti della sintesi solo quelli che implicano l'intelletto e non l'immaginazione136. Sherover invece parte dal presupposto diametralmente opposto a quello di Allison, prendendo in considerazione l'atto della sintesi pura dell'immaginazione: essa «costituisce l'abilità umana di scoprire, dentro se stessi, la capacità di trascendere i dati grezzi ricevuti»137. Capacità fondamentale, come accennato in precedenza, anche per quel che riguarda il tempo affinché esso sia riconoscibile nella successione delle impressioni, dato che, basandosi solo su di esse e occupando ognuna un istante diverso dalle altre, non sarebbe possibile distinguere altrimenti il tempo come successione. Se così non fosse, avremmo solo degli oggetti sparsi e ciò non implica che essi siano successivi. Tuttavia affinché da questo molteplice possa nascere l'unità dell'intuizione […] occorre in primo luogo passare attraverso il molteplice, per poi raccoglierlo insieme; operazione, questa, che io chiamo sintesi dell'apprensione, perché essa si volge direttamente all'intuizione, la quale offre, sì, un molteplice, ma senza essere in grado di costituirlo come tale senza l'intervento di una sintesi, cioè come contenuto di un'unica rappresentazione.138 La sintesi permette tutte le rappresentazioni ed è a esse precedente. Ora, ed è questo il punto centrale delle letture ontologiche, la sintesi precede e permette anche la rappresentazione del tempo? Se sì, in che termini? I sostenitori di una prospettiva 135 Cfr. Kitcher (1982: 56-8). Cfr. Allison (2004: 169-70). 137 Sherover (1971: 35). 138 Kant (1781/2005: 641, A 99). 136 99 ontologica rispondono affermativamente e ritengono che il supporto della sintesi alla rappresentazione del tempo avvenga ad un livello profondo, quasi come fosse il motore che permette la successione temporale stessa. Sebben la – per così dire – “spinta” sia unica, essa si articola su due fronti: quello della sintesi dell'apprensione, sempre successiva e che permetterebbe pertanto la sequenza temporale; e quello della sintesi immaginativa che ci fornirebbe l'immagine vera e propria del tempo. Inoltre, dal lato sensibile, come abbiamo visto, la sintesi dell'immaginazione è legata a quella dell'apprensione, permettendo le connessioni degli istanti percettivi e delle successioni dell'apprensione. D'altro canto, la sintesi immaginativa si rapporta, a livello concettuale, anche con l'autocoscienza, dato che opera, riportandole alla luce e rendendole utilizzabili, sulle rappresentazioni di oggetti passati impresse nella memoria139. La sintesi e la memoria hanno un ruolo fondamentale nel fornirci un'immagine del tempo. Stando infatti a ciò che possiamo ricavare dall'Estetica, la rappresentazione del tempo, non essendo presente nell'intuizione, necessita proprio di una funzione che la renda presente. Come spiega Kant, non solo non è possibile percepire il tempo, ma quando ci rapportiamo ad esso in realtà ci confrontiamo solo con singole porzioni di tempo: «ogni misura determinata di tempo è intuita come una parte di un singolo tempo che comprende tutto, il quale sia esso stesso rappresentato come un'infinita grandezza data»140. Ed è grazie alla sintesi immaginativa che ci possiamo rappresentare il tempo come una linea – le conseguenze di ciò verranno esposte in maniera più approfondita nel prossimo capitolo. Stando così le cose, l'intuizione pura non può essere vista in maniera statica ma deve essere considerata dinamica, come una “formazione di tempo”: L'intuizione pura, come tale, presuppone una coscienza temporale che rende possibile afferrare immediatamente un qualunque oggetto con il campo visivo in cui appare; questo “afferrare” immediato è la Sintesi dell'Apprensione e costituisce la prima possibilità di qualsiasi consapevolezza. La precedente dottrina dell'Estetica sosteneva che tutte la rappresentazioni siano necessariamente apprese sotto la forma del tempo. L'analitica già dall'inizio va 139 140 Sherover (1971: 75). Allison (2004: 189). 100 oltre: la coscienza temporale è necessaria anche per la forma del tempo stesso.141 L'elemento fondamentale per questo tipo di letture è proprio la “coscienza temporale” di cui parla Sherover con la quale è plausibile credere che si stia riferendo al soggetto conoscente al di fuori delle sue condizioni epistemiche. L'analisi si sposta su un soggetto immanente, artefice delle operazioni conoscitive: deve esserci, al di là del tempo, dell'appercezione e di tutte le altre facoltà e capacità kantiane, un soggetto conoscente che le mette in moto. Ma, paradossalmente, restando al di fuori di queste stesse capacità non è possibile conoscerlo in senso kantiano. Tuttavia possiamo vedere i suoi effetti (ricordiamoci che Kant è un funzionalista) e tra di essi i sostenitori di una lettura ontologica vedono quello che potremmo chiamare la “produzione di tempo”. Che il soggetto conoscente possa avere due rappresentazioni diverse A e B nel suo senso interno dipende anche dalla capacità di sintesi del soggetto stesso. Questa, oscura e indefinita quanto si vuole, deve però permette a livello più semplice possibile l'aggiunta di un elemento ad un altro. Detto altrimenti, le capacità temporali del soggetto conoscente prenderebbero avvio da questa capacità propulsiva di aggiungere una cosa all'altra; l'ontologia sarebbe antecedente all'epistemologia. Come cercano di mostrare questi passi, il tema della sintesi trascendentale è un tema fondamentale soprattutto per coloro che offrono una lettura ontologica di Kant. È tuttavia famoso il caso di Heidegger, per il quale la sintesi è una delle pietre di paragone attorno a cui ruota tutta la sua analisi142. Che sia la capacità fondamentale è data dal fatto che proprio grazie alla sintesi è possibile dimostrare l'accordo tra intuizione e pensiero o, detto forse in maniera più corretta, tra sensibilità e intelletto. Abbiamo tuttavia osservato che, soprattutto dopo la seconda edizione, le 141 Sherover (1971: 73) troverebbe sostegno in un passo di Kant (1781/2005: 193, A 142-3/B 182) del quale egli cita solo la parte finale: «io produco il tempo stesso nell'apprensione dell'intuizione». Il brano nella sua interezza può avere una lettura leggermente diversa: «Ne segue che il numero altro non è che l'unità della sintesi del molteplice d'una intuizione omogenea in generale, per il fatto che io produco il tempo stesso nell'apprensione dell'intuizione». Qualcuno potrebbe sottolineare che qui ci si sta rivolgendo solo all'attività di enumerazione. 142 Heidegger (1929/2006: 42): «[l]a fondazione della metafisica è il progetto dell'intrinseca possibilità della sintesi a priori». Heidegger (1929/2006: 43): «nel problema della sintesi a priori, intesa come sintesi ontologica, l'indagine relativa all'essenza dei “predicati ontologici” deve prendere il posto centrale». «In particolare Heidegger (1929/2006: 35) si riferisce alla sintesi veritativa, grazie alla quale, unendo pensiero e intuizione, l'oggetto diviene vero nell'unità di un'intuizione pensante. 101 possibilità del senso interno o del tempo come entità ontologicamente indipendenti sono fortemente ridimensionate. Fin qui, infatti, abbiamo esaminato un senso forte di “rappresentazione del tempo”. Questo concetto può essere letto anche in maniera molto più debole. In tal caso, ciò che si richiede è solo un'immagine, un'esemplificazione del tempo. Ritorna subito alla mente la rappresentazione del tempo come una linea. Possiamo arrivare a questa immagine senza andare a smuovere le potenze profonde del soggetto conoscente? È possibile, a tal fine, utilizzare quelle che sono le abilità eminentemente epistemologiche del soggetto conoscente quali l'intelletto o l'appercezione? Una domanda simile se l'è posta Allison. Secondo lui la rappresentazione del tempo attraverso il disegno di una linea deve conformarsi alle condizioni della sua unità sintetica. Non soltanto la rappresentazione intuitiva di una linea come tale ma anche “l'interpretazione” della sua sintesi successiva come immagine pura del tempo presuppone un singolo soggetto conscio della sua identità attraverso il processo generativo. In breve, anche se […] il tempo non è un'unità sintetica composta di parti preesistenti, la sua rappresentazione determinata richiede un'unità sintetica della coscienza che riconduce questa rappresentazione alle categorie. 143 Secondo Allison (2004: 189), è per questo che la sintesi deve essere sia a priori sia trascendentale affinché «funzioni nella determinazione del tempo come forma del senso interno». Tuttavia i molteplici riferimenti all'appercezione sembrano far intendere che la sintesi possa agire solo all'interno e in collaborazione con le altre facoltà epistemologiche del soggetto conoscente e non possa andare al di fuori di esse. Accorgimenti che presumibilmente tengono conto sia delle modifiche avvenute nella seconda edizione, sia della distinzione tra la sintesi intesa in senso generale e le sue articolazioni particolari, concepite come manifestazioni diverse della stessa sintesi e operanti all'interno delle facoltà o capacità specifiche, tra le quali l'intelletto. Infatti, nella seconda edizione, come abbiamo già accennato, il ruolo della sintesi trascendentale – così chiamata in quanto permette l'unità dei contenuti fenomenici e l'applicabilità dei concetti alle cose – 143 Allison (2004: 191). 102 cambia appannaggio dell'intelletto:«[l]a sintesi, o congiunzione del molteplice in essi [i concetti puri dell'intelletto], si riferisce semplicemente all'unità dell'appercezione ed è perciò il fondamento della possibilità della conoscenza a priori, in quanto si fonda sull'intelletto; essa è dunque non solo trascendentale, ma anche puramente intellettuale»144. Come abbiamo già avuto modo di vedere, l'obbiettivo è spostato sul modo in cui l'intelletto agisce sul senso interno. Un'estremizzazione di questo genere ridimensiona drammaticamente il ruolo del senso interno e del tempo. A farne le spesse è proprio l'immaginazione che, derubricata a funzione dell'intelletto, ha il compito di fare da tramite tra di esso e la sensibilità. Ciò è reso possibile proprio grazie alla sua sintesi che viene ridefinita “sintesi figurativa” (synthesis speciosa), anch'essa considerata una competenza dell'intelletto: Questa sintesi del molteplice dell'intuizione sensibile che risulta possibile e necessaria a priori, può essere detta figurata (synthesis speciosa), per distinguerla da quella pensata nella semplice categoria rispetto al molteplice di un'intuizione in generale, che prende il nome di congiunzione intellettuale (synthesis intellectualis); l'una e l'altra sono trascendentali, non solo perché procedono a priori, ma anche perché fondano la possibilità di altra conoscenza a priori.145 La sintesi intellettuale, a differenza di quella figurata, è sempre eseguita dall'intelletto senza l'aiuto dell'immaginazione146. Ciò fa presumere che sintesi figurata, invece, operi per mezzo di essa. Nella seconda edizione Kant è quindi arrivato a sostenere la dipendenza del senso interno dall'intelletto? Malgrado una centralità maggiore data ad alcune funzioni, ci sono alcuni elementi che fanno pensare che, nella seconda edizione, la sensibilità rimanga comunque una facoltà indipendente e il tempo, in quanto senso interno, non dipenda in blocco dai principi intellettuali. In primo luogo, l'intelletto rielabora i dati provenienti dalla sensibilità, ma su quei dati e sull'ordine soggettivo 144 Kant (1781/2005: 173, B 150). Kant (1781/2005: 174, B 151). 146 Cfr. Kant (1781/2005: 174, B 152). 145 103 che si trovano ad avere, la podestà è tutto del tempo. Ciò che spesso, secondo me, si perde di vista è che l'indagine di Kant è fortemente parziale e tende ad illuminare gli aspetti che più gli stanno a cuore per i suoi interessi. Ma anche al netto dell'avvicinamento delle basi dell'epistemologia alle discipline scientifiche effettuato da Kant nell'edizione del 1787, è come il soggetto conoscente sia alle prese in maniera prevalente con conoscenze che non definiremmo oggettive. C'è infatti un'area su cui i principi dell'intelletto non agiscono (almeno non tutti insieme). È questa l'area in cui agisce il senso interno, offrendo una dimensione in cui tutti i fenomeni si presentano e in cui poi, solo in alcuni casi, vengono sottoposti alle categorie. Ritorniamo all'eventualità in cui un lampione si spenge quando ci passo sotto; siamo di fronte ad un caso di causa-effetto? Non credo. Siamo di fronte ad una successione temporale? Sì. Non è detto che in tutti i casi in cui B segua A si sia in presenza di una seconda analogia, tuttavia siamo sempre in presenza di una successione temporale147. Una posizione simile può essere ritrovata in Bird, il quale ha cercato di limitare il ruolo della sintesi dell'intelletto, mostrando come essa possa funzionare solo se la si ritiene una sorta di astrazione dell'esperienza reale. Sotto un certo punto di vista, anzi, il senso interno è proprio ciò che ci fa comprendere l'azione dell'intelletto: «se voglio isolare il contributo distintivo dell'intelletto e astrarre così, dal modo in cui noi lo conosciamo attraverso il senso interno, allora io posso rappresentarmi l'intelletto come una facoltà pura distinta dall'intuizione sensibile»148. Tanto più che anche l'azione dell'intelletto sulla sensibilità è rappresentabile solo nel senso interno. Se è vero che uno degli obiettivi principali di Kant è l'unità della conoscenza, unità cioè principalmente del lato sensibile con quello concettuale, si capisce come la funzione di passaggio offerta dall'immaginazione tramite la sintesi del tempo si riveli fondamentale. I distinguo emersi in queste pagine possono aiutare anche in merito ai domini che una lettura ontologica o epistemologica si arrogano di avere. Come 147 È in questa ottica che si pone la distinzione tra le percezioni successive e la successione delle percezioni: quest’ultimo tipo di successione è soggettiva e si basa solo sulla sequenzialità dei dati empirici con cui entra in contatto il senso interno; invece, affinché si possa stabilire che due diverse percezioni siano successive, si ha bisogno di qualcosa di “esterno” al semplice flusso empirico che funzioni come metro di paragone, e questo compito sembra essere assolto dalla seconda analogia. 148 Bird (2006: 382). 104 abbiamo detto in precedenza, le letture epistemologiche hanno conseguenze ontologiche e viceversa; e, come è emerso nel corso della discussione entrambe hanno dei brani su cui supportarsi. Il nostro scopo non è infatti quello di propendere per l'una o per l'altra; ritengo che sia molto più importante capire dove sia possibile utilizzare gli spunti e gli strumenti d'indagine dell'una e dove quelli dell'altra. A questo proposito, non sembra possibile accostare le discipline con cui si indaga la natura, e la realtà esterna in generale, per indagare più a fondo il tempo come senso interno. Ciò sembra escluso da Kant quando nega categoricamente la possibilità di una psicologia empirica perché non sarebbe possibile considerarla una disciplina scientifica. Ciò che è interessante è il motivo per cui esclude questa possibilità: deve restar lontana dal rango di una scienza della natura propriamente degna di questo nome la dottrina empirica dell’anima, in primo luogo perché la matematica non è applicabile ai fenomeni del senso interno e alle loro leggi: si dovrebbe infatti prendere in considerazione la sola legge della continuità nel trascorrere dei suoi mutamenti interiori, il che costituirebbe un’estensione della conoscenza la quale, rispetto a quella che la matematica produce nella dottrina dei corpi, equivarrebbe alla dottrina delle proprietà della linea retta rispetto all’intera geometria.149 Eppure i rapporti tra tempo e discipline matematiche o scientifiche in generale sono ricorrenti soprattutto nella seconda edizione della prima Critica. Tuttavia, per poterli analizzare nel migliore dei modi dobbiamo abbandonare il tempo come forma del senso interno e volgerci nel suo uso mediato, tra i fenomeni esterni. 149 Kant (1786/2003: 105; 471) 105 106 III. Il tempo nel suo uso esterno. III. 1. Introduzione. Quando si passa dal considerare il tempo come senso interno all’analizzare il suo impiego tra i fenomeni esterni, non si sta compiendo una semplice osservazione su di un avvicendamento di competenze: si è di fronte ad un passaggio che ha una portata enorme. I livelli che sono stati sinora affrontati– epistemologico, ontologico, storiografico… – vengono riconsiderati sotto quasi tutti i punti di vista. In un quadro così variegato, c’è bisogno di alcune coordinate tramite cui orientarsi. L’idea è quella di seguire, come linee guida, le principali problematiche che gli autori anglofoni hanno sollevato o si sono trovati ad affrontare nelle loro analisi: in pratica, l’uso dell’intuizione temporale come forma esterna mediata sarà esaminato attraverso i nodi interpretativi che i commentatori angloamericani hanno dovuto dipanare. Sciolti questi brogli, dovrebbe essere possibile venire a capo, non solo delle facoltà e dei compiti genuini del tempo kantiano nel suo uso esterno, ma pure di alcune caratteristiche dell’intuizione temporale in generale, anche alla luce dei contributi originali e delle soluzioni offerte dagli autori che verranno presi in considerazione. Rispetto ai capitoli precedenti, qui il compito è facilitato, almeno in parte, dalla buona quantità di contributi. Il tempo come senso esterno mediato e, più in generale, tutti quegli aspetti epistemologici che hanno avuto a che fare con le discipline fisico-matematiche e con la misurazione, sono stati la materia di studio preponderante dei commentatori angloamericani di Kant. In aggiunta, il rapporto tra il pensiero kantiano e la scienza è stato spesso indicato come uno dei motivi principali della ripresa della filosofia critica in ambienti anglofoni. C’è, infatti, chi ha visto nella dottrina di Kant un argine in grado di ridimensionare, ad esempio, quelli che sono stati gli sviluppi più estremi seguiti alle idee di Quine e Kuhn. Friedman (2001: 117), nella sua riproposizione del modello kantiano, ammette di aver posto particolare attenzione, da un lato, alla sfida posta all’olismo epistemologico quineiano, nel quale veniva proposto un «empirismo naturalizzato in cui di a priori non viene lasciato proprio niente»; dall’altro, si è concentrato sugli eccessi seguiti 107 alle teorie kuhniane che hanno condotto verso «un nuovo stile di relativismo storico e concettuale basato sull’incommensurabilità e la non traducibilità dei paradigmi rivoluzionari successivi». Rispetto agli argomenti del capitolo precedente, c’è anche una maggiore omologazione dei temi trattati: per esempio, parlando di tempo nel suo uso esterno, non si può non accennare al suo rapporto con la seconda analogia o con il problema dell’irreversibilità. Argomenti che vengono a galla soprattutto studiando la seconda edizione della Ragion pura, del 1787. In quell’edizione c’è, infatti, una maggiore attenzione per ciò che riguarda il modo di rapportarsi delle condizioni epistemiche alle relazioni che intercorrono tra i fenomeni. Alcuni pensatori ritengono che sia un segno evidente della volontà, da parte di Kant, di avvicinare maggiormente le nozioni della filosofia critica verso le discipline scientifiche. Tendenza che si riscontra anche osservando la bibliografia kantiana: sono di poco precedenti la seconda edizione sia i Prolegomeni ad ogni futura metafisica che potrà presentarsi come scienza sia i Principi metafisici della scienza della natura, opere in cui è evidente la volontà di mettere in relazione le condizioni epistemiche con i principi delle discipline scientifiche. Si comprende, perciò, perché ci sia bisogno di alcune accortezze nello spostamento da un’edizione all’altra. A questo proposito, seguendo lo stile fin qui intrapreso, la prima controversia che intendo affrontare avrà un carattere più introduttivo e storiografico: si cercherà di mostrare come venga esaminato e considerato il passaggio dalla prima alla seconda pubblicazione da parte degli attuali commentatori angloamericani di Kant. Il tutto circoscritto, naturalmente, ai temi fin qui affrontati. III. 2. Il passaggio dalla prima alla seconda edizione. Il primo ad avvertirci che sono avvenuti dei cambiamenti nella Critica della ragion pura tra l’edizione del 1781 e quella del 1787, è Kant stesso. Tuttavia sembra che egli non voglia sottolineare troppo le differenze tra le due pubblicazioni. Anzi, nella prefazione alla seconda edizione, Kant afferma che egli, per lo più, ha effettuato quasi esclusivamente dei miglioramenti a livello espositivo, riguardanti 108 soprattutto la deduzione dei concetti dell’intelletto e le loro dimostrazioni. A ciò si aggiungerebbero delle considerazioni supplementari dovute ad un’errata comprensione della psicologia razionale e delle migliorie introdotte per venire a capo di alcuni fraintendimenti sul concetto di tempo nell’Estetica1. In pratica, gli interventi si concentrano sulle prime parti dell’opera: Analitica, soprattutto il paragrafo della Deduzione, ed Estetica trascendentale. Nel suo lavoro di revisione, Kant ammette comunque di compiuto un’integrazione e avverte di ciò il lettore in una nota: L’unica vera e propria aggiunta, concernente però solo il modo di dimostrare, è soltanto quella che ho fatto a pagina 275 [la numerazione si riferisce alle pagine originali della seconda edizione, nda] introducendo una nuova confutazione dell’idealismo psicologico, assieme a una prova rigorosa (e, a quanto credo, la sola possibile) della realtà oggettiva dell’intuizione esterna.2 L’aggiunta a cui si sta riferendo Kant è il famosissimo paragrafo della Confutazione dell’idealismo. Non viene menzionato altro di originale che sia stato aggiunto. L’atteggiamento e le considerazioni di Kant, per certi versi, lasciano sbalorditi. Anche mettendo da parte il fatto che l’intero paragrafo della Confutazione non riguarda solo “il modo di dimostrare”, e che quindi si tratta di un’integrazione speculativa totalmente nuova, Kant non può realmente sostenere che, nella pubblicazione del 1787, per quel che riguarda il resto delle parti suddette, egli ha operato soltanto delle semplici sistemazioni terminologiche3. Si è tentati di affermare che Kant stia consapevolmente mentendo. A nessun commentatore, neanche a colui che basa maggiormente la sua lettura sull’edizione del 1781, sono infatti sfuggite le importanti modifiche a cui sono state sottoposte l’Estetica e l’Analitica trascendentale. Addirittura Heidegger, il quale si concentra esclusivamente sulla prima pubblicazione, non può non accennare ai cambiamenti avvenuti nell’edizione del 1787. Tra questi, la maggiore importanza 1 Kant (1781/2005: 57; B XXXVIII). Kant (1781/2005: 57; B XXXIX). 3 Contrariamente a quanto sto cercando di mostrare, c’è chi come Bennett (1966: 202) sostiene che la Confutazione dell’idealismo sia «giustamente» l’unica aggiunta contenutistica alla seconda edizione, essendo la linea argomentativa di Kant solo «adombrata» nell’edizione del 1781, ma già presente. 2 109 data all’intelletto, che arriva a prendere il posto, nello svolgimento di alcuni compiti, dell’immaginazione trascendentale, facoltà fondamentale per la lettura di Heidegger: Nella seconda edizione della Critica della ragion pura, l’immaginazione trascendentale, qual era venuta in luce nel fervido impulso della prima stesura, è respinta nell’ombra e misconosciuta – a favore dell’intelletto.4 Heidegger, per questa nuova impostazione, fornisce una spiegazione che, a prima vista, può sembrare eminentemente psicologica ma che presuppone, invece, una motivazione teorica forte che ha portato Kant alla rielaborazione e, in alcune parti, alla completa riscrittura di alcune sezioni della Ragion pura: Nello svolgimento radicale della sua ricerca, Kant condusse la «possibilità» della metafisica davanti a questo abisso [la fondazione della ragion pura]. Egli vide l’ignoto e dovette indietreggiare. E ciò non solo per il timore incussogli dall’immaginazione trascendentale, ma perché nel frattempo la ragion pura, in quanto ragione, l’aveva tratto ancor più profondamente in propria balia.5 Con la sua scrittura efficace, Heidegger riesce a mettere a fuoco il problema della fondatezza dei concetti introdotti dal filosofo critico, vale a dire la necessità di trovare una base, una prova della validità delle sue nozioni a priori. È come se Kant si rendese conto che mancasse qualcosa e che l’intero peso della sua struttura non potesse essere retto dall’immaginazione trascendentale (come voleva proprio Heidegger) o, più in generale, sul credito dato alle funzioni a priori già messe in campo. Come abbiamo visto nel primo capitolo, già nella prima edizione alla fine della deduzione dei concetti puri dell’intelletto, si fa riferimento proprio alle tre facoltà o capacità come sorgenti della possibilità dell’esperienza: ricapitolando, esse sono la sinopsi che si effettua tramite il senso, la sintesi mediante l’immaginazione e 4 Heidegger (1973/2005: 140). La linea interpretative di Heidegger è riassunta efficacemente da Vinci (1988: 112): «con lo schematismo e la deduzione della prima edizione Kant arriva a cogliere la reale natura dell’immaginazione trascendentale, ma, per i suoi debiti con la tradizione, non ne trae le conseguenze, arrivando a mettere in discussione le concezioni acquisite circa la soggettività del soggetto. In particolare Kant non si renderebbe pienamente conto, per l’eccessivo condizionamento delle visioni consuete dell’immaginazione come facoltà inferiore empirica, della sua stessa scoperta circa il carattere spontaneo di ogni ricettività pura». 5 Heidegger (1973/2005: 145). 110 l’unità della sintesi attraverso l’appercezione; in più «queste facoltà posseggono, oltre all’uso empirico, altresì un uso trascendentale, che concerne solo la forma ed è possibile a priori»6. Tuttavia, l’intero processo poteva apparire oltremodo autoreferenziale e i principi dell’intelletto, da soli, sembravano, per così dire, galleggiare nel vuoto. Nella seconda edizione si cerca pertanto di fornire un fondamento ben più robusto a tutto l’impianto critico della deduzione delle categorie. Ciò viene attuato creando una convergenza tra i principi di Kant e quelli delle discipline fisicomatematiche: «la derivazione empirica […] è incompatibile con la reale esistenza delle conoscenze scientifiche a priori che sono in nostro possesso, cioè con la matematica pura e la fisica generale e risulta in tal modo contraddetta dai fatti»7. Il senso della proposizione appare fin troppo chiaro e la sua importanza non può essere sminuita: sia perché arriva dopo una riflessione sugli empiristi inglesi, Locke ed in particolare Hume, sia perché si troverebbe conferma di quel nuovo atteggiamento di avvicinamento verso le discipline scientifiche iniziato nella Prefazione alla seconda edizione con la dichiarazione di fiducia, da parte di Kant, alle scienze della sua epoca8. Addirittura, si può ritenere che quelle che sono state chiamate condizioni epistemiche possano «essere considerate parte di quell’armamentario presupposizionale con cui i creatori della scienza moderna, da Galileo a Newton, da Torricelli a Stahl, avrebbero interrogato la natura non procedendo a casaccio, ma “costringendola” a rispondere a domande concepite secondo il disegno della ragione»9. Questa volontà, si ricollega a quanto già espresso nei Prolegomeni, opera che, come accennato, tende a mettere in stretta relazione i principi a priori kantiani con le discipline scientifiche del periodo e da cui vengono anche tratti dei brani inseriti nella seconda edizione10. Eppure, anche la conclusione della deduzione dei principi dell’intelletto è, a suo modo, sorprendente: dovrebbe essere il traguardo di tutto un processo argomentativo, il coronamento o almeno la base della 6 Kant (1781/2005: 159; A 94). Kant (1781/2005: 159-60; B 131). 8 «Sin dai tempi più remoti a cui può giungere la storia della ragione umana, la matematica, ad opera del meraviglioso popolo greco, si è posta sulla via sicura della scienza» (Kant 1781/2005: 41; B X); «la fisica è stata posta per la prima volta sulla via sicura della scienza, mentre per tanti secoli non aveva fatto altro che procedere brancolando» Kant (1781/2005: 43; B XIV). 9 Parrini (1995: 111). 10 Cfr. Kant (1781/2005: 83; B 14) o Kant (1781/2005: 86; B 19). 7 111 giustificazione metafisica fornita da Kant; e invece si presenta così, quasi a sorpresa, di volata, en passant. Il modo di presentare gli interventi nella seconda edizione e gli intenti ad essi legati, uniti al basso profilo tenuto da Kant (che rasenta l’insicurezza), sono stati tra i motivi che hanno spinto nella ricerca di chiavi di lettura alternative. Nel far ciò, i commentatori anglofoni spesso non sono stati benevoli con Kant e non hanno risparmiato aspre critiche, come nel caso dell’Analitica trascendentale: «il giustificato malcontento di Kant nei confronti di questo capitolo, irrimediabilmente mal scritto, lo spinge a redigerlo per la seconda edizione. Ma l’ultima versione, sebbene rimuova efficacemente alcune enfasi, è solo di poco più chiara del precedente» scriverà Bennett (1966: 100). E Paton, addirittura, paragona l’analisi di questa parte dell’opera alla traversata del deserto arabico11. Che quella sezione, e soprattutto la Deduzione trascendentale, risulti oltremodo ostica, lo avevano già evidenziato sia i commentatori tedeschi di Kant sia i suoi primi commentatori inglesi. Per esempio, rifacendosi ad alcune tesi di Vaihinger, Kemp Smith (1918/1979: 202) vede la Deduzione come il risultato di alcuni manoscritti, radunati e assemblati tra loro, che corrispondevano a differenti livelli di sviluppo del pensiero kantiano. Nello specifico, Kemp Smith (1918/1979: 363) ritiene che Kant offra cinque prove della deduzione della seconda analogia, le quali non dovrebbero essere state scritte in successione ma «sono state associate in seguito per realizzare questa sezione». Tale ipotesi è stata in seguito approfondita ed elaborata da numerosi commentatori anglofoni, i quali l’hanno ribattezzata “patchwork theory” (teoria del mosaico o, magari in senso più dispregiativo, teoria dell’insieme di toppe)12. I modi di declinare questa teoria sono stati molteplici. C’è chi ha cercato di svilupparla e di esaminarla più accuratamente, aggiungendoci considerazioni che potremmo definire “psicologiche”, tramite le quali si sottolinea la fretta nel portare a termine il progetto critico da parte di Kant. Egli completa la scrittura della prima Critica ormai cinquantasettenne, dopo almeno una dozzina di anni di elaborazione e di raccolta dei materiali, con l’intenzione di estendere il suo progetto su altri temi e in altre opere: è perciò probabile che «lui abbia cucito insieme 11 Citato in Dicker (2004: 84). Dicker (2004: 93). Anche Dicker sottolinea la confusione espositiva come una delle ragioni che hanno spinto Kant a riscrivere questa parte della sua opera. 12 112 vari brani che aveva scritto in periodi molto differenti durante i suoi dodici anni di riflessione, e che abbia redatto solo pochi passaggi del tutto nuovi»13. Alla patchwork theory si rifà pure Guyer, il quale, però, esclude che sia possibile rintracciare un filo cronologico nella composizione della Deduzione Trascendentale, sottolineando, inoltre, come questa metodologia possa essere, in qualche modo, controproducente: Non è saggio cercare di discernere un ordine storico nella composizione delle frasi che di fatto costituiscono i testi della deduzione trascendentale, come fecero i difensori originari della “teoria del mosaico” Hans Vaihinger e Norman Kemp Smith. […] Piuttosto ci si deve limitare alla tesi secondo la quale i testi della Deduzione trascendentale, qualunque sia la storia della loro composizione, esprimono davvero un mosaico di argomenti.14 C’è chi è stato molto meno tenero con Kant e, addirittura, più estremo nel considerare le tesi inerenti a questa parte dell’opera, come il già citato Bennett. Egli, riprendendo l’idea di fondo della teoria, ma portandola al limite, afferma che «la Deduzione non è un insieme di toppe (patchwork) ma un pasticcio (botch). Comunque, dato che essa contiene qualche buon elemento, non è un pasticcio trascurabile»15. Il secondo tentativo, dunque, non è stato del tutto indigesto ed è risultato almeno presentabile, visto che una delle cose che Bennett ha apprezzato di più nella pubblicazione del 1787, è stata la maggiore linearità stilistica, soprattutto per quanto riguarda l’argomento centrale, sviluppato in un nucleo di pagine consecutive, al contrario dell’edizione del 1781 dove era, per così dire, sparso per tutta la sezione16. C’è anche chi si è opposto completamente all’idea di considerare l’Analitica o la Deduzione trascendentale un collage di varie teorie formulate in tempi diversi, siano esse considerate toppe o pasticci. Paton (1936/1970: 38), inizialmente, distingue tra la posizione di Adickes, il quale riterrebbe che ci sia un nucleo originario della Critica a cui sono state aggiunte via via altre parti, e quella di 13 Dicker (2004: 94). Guyer (1987: p. 432, n1). 15 Bennett (1966: 100). 16 Bennett (1966: 103). 14 113 Vaihinger, il quale limita le sue considerazioni solo alla Deduzione trascendentale. Ed è proprio su Vaihinger che si concentreranno le critiche di Paton: egli cerca di mostrare come il tentativo di suddividere concettualmente e storicamente il paragrafo kantiano non tenga conto, in primo luogo, delle parole dello stesso Kant; in secondo luogo, Paton cerca di evidenziare le forzature a livello esegetico, prima tra tutte il porre su uno stesso livello l’esposizione sistematica oggettiva e quella soggettiva 17. È solo dopo aver stabilito tali presupposti che Vaihinger può dare avvio a tutta la sua chiave di lettura. Una metodologia che Paton (1936/1970: 40) condanna molto duramente: «l’intera discussione è un monumento di desolante ingenuità reso ancor più patetico dalla conoscenza e dalla chiarezza dell’esposizione». Le tesi fin qui riportate mostrano comunque che lo studio, per così dire, filologico delle differenze tra le due edizioni della prima Critica, è uno dei pochi aspetti su cui un buon numero di filosofi anglofoni si sia confrontato con le tesi dei precedenti commentatori tedeschi. Ciò significa almeno due cose: in primo luogo, i filosofi anglofoni conoscevano (almeno in parte) l’opera dei loro predecessori continentali, se non altro attraverso il filtro dei primi commentatori inglesi; stando così le cose – e arriviamo al secondo punto – hanno deliberatamente scelto di non prendere in considerazione molti dei loro spunti e delle loro idee, rifacendosi direttamente al testo kantiano. È lecito chiedersi: perché? Forse, la motivazione principale è quella di aver ritenuto le analisi su Kant a loro precedenti, in una certa misura, non adeguate al contesto attuale. La patchwork theory dimostra che alcune idee dei commentatori continentali ottocenteschi sono ancora condivisibili e utilizzabili; ciononostante sono cambiati gli obiettivi e le motivazioni della ripresa del testo kantiano: i suoi connazionali puntavano ad affrontare la crisi di filosofie quali l’hegelismo o il positivismo; molti autori anglofoni, invece, devono affrontare le nuove sfide imposte da alcune tesi sviluppatesi in ambito angloamericano, come quelle derivanti da Quine e Kuhn. Buona parte delle opere dei commentatori tedeschi, probabilmente, non sono state considerate sufficientemente attrezzate o utili per far fronte a queste nuove problematiche. Si potrà obiettare che Kant è ancor meno recente. Ma il porre su uno stesso livello ciò che viene ritenuto analitico e ciò che viene considerato sintetico in aggiunta all’estremo relativismo epistemologico 17 Paton (1936/1970: 39). 114 andavano a colpire teorie che erano sorte, o avevano trovato una delle loro massime espressioni, proprio nella filosofia critica. Pertanto, si è cercato di porre un freno a nuove minacce tornando all’origine di tutto. Mettendo da parte le immagini più estreme – un Kant che, deluso dalla sua esposizione, si ritrova intento a raffazzonare ritagli ed appunti per una seconda edizione – il dibattito fin qui illustrato ha il merito di mettere in luce alcuni punti di debolezza, più o meno condivisi dalla maggior parte dei commentatori, sulla parte iniziale della Ragion pura: la confusione della prima edizione e la necessità di un adeguamento stilistico unite alla tortuosità del ragionamento kantiano, che non parte da tesi chiare per arrivare a conclusioni esplicite, ma che si dilunga, quasi si dilegua, e poi, improvvisamente, giunge alle affermazioni definitive. Di pari passo, si riconosce alla seconda edizione un po’ più di chiarezza e un accostamento verso quelli che sono i temi scientifici dell’epoca di Kant. A dire il vero, non si ha uno spostamento solo in quella direzione. C’è un altro motivo di differenza tra la prima e la seconda edizione che qui, purtroppo, potrà solo essere introdotto perché svierebbe troppo dagli scopi attuali della ricerca. Kant è stato spinto a porre delle modifiche anche dalla volontà di preparare il terreno per le opere successive a carattere etico e morale, soprattutto per la Critica della ragion pratica, e dare così l’immagine del suo pensiero come blocco unitario. Un’ipotesi interpretativa che si ritrova, per esempio, nel solito Heidegger, il quale segnalava l’esigenza di legare in maniera più stretta gli aspetti epistemologici del pensiero kantiano con quelli morali: Mediante la fondazione della metafisica in generale, Kant giunse per la prima volta a scrutare chiaramente il carattere dell’«universalità» della conoscenza ontologico-metafisica. Allora soltanto, egli ebbe in mano «mezzi e strumenti» per esplorare criticamente il dominio della «filosofia morale» e per sostituire la generalità empirica indeterminata delle dottrine morali della filosofia popolare con l’originarietà essenziale dell’analisi ontologica, la sola capace di instaurare una «metafisica dei costumi» e di darle fondamento.18 18 Heidegger (1973/2005: 145). Tutto il percorso fatto da Kant nella seconda edizione tenderebbe a separare ancor più nettamente la parte a priori del soggetto conoscente da quella empirica. Per far ciò, andava ridimensionata sia l’immaginazione sia il suo ruolo. Puntando averso l’ambito morale, ci si 115 Questa linea interpretativa si sta facendo strada anche tra i commentatori anglofoni. Soprattutto, ci sono interessanti convergenze sul modo di interpretare il Kant morale e quello teoretico. Korsgaard (2009), per esempio, utilizzerà strumenti teorici simili a quelli usati da Friedman (2001) per offrire una lettura “relativizzata” dei principi morali kantiani. Gli esperti di Kant avranno sicuramente notato che non si è ancora accennato ad alcune considerevoli variazioni tra la prima e la seconda edizione, cambiamenti che, per lo scopo attuale di questo lavoro, sono probabilmente quelli di maggior peso. Nella seconda edizione, la modifica forse più lampante che riguarda l’intuizione temporale è la rottura, rispetto alla pubblicazione del 1781, della simmetria tra l’esposizione metafisica del concetto di spazio e quella del concetto di tempo. Nella prima edizione entrambi i concetti venivano esposti in cinque punti, mentre nell’edizione successiva, oltre alle varie riscritture e aggiunte, per lo spazio ne bastano solo quattro. Stranamente, un cambiamento così evidente non ha suscitato moltissimo clamore. Il punto dell’esposizione del tempo che non ha un corrispettivo preciso con quelli dello spazio è il terzo. Appurarlo è semplice: nei restanti capoversi le frasi iniziali e gli argomenti trattati nelle esposizione dei concetti delle due forme a priori della sensibilità sono abbastanza simili. Nella seconda edizione, pertanto viene soppresso il passaggio in cui si afferma esplicitamente una corrispondenza tra l’intuizione spaziale e la geometria19 (il terzo punto della prima edizione), corrispondenza che ci aiutava anche a stabilire quali fossero le proprietà attribuibili allo spazio così come lo intende Kant. Nella stampa del 1787 non viene negata questa relazione, ma le affermazioni, a tal proposito, sono un po’ meno dirette20. Nel caso del tempo, invece, nella prima edizione esso non sembra connesso, almeno non allontana anche dai tratti che rendono finito il soggetto conoscente. Avviene quindi il distacco da «quella sensibilità pura costituita dall’immaginazione trascendentale con la quale il soggetto umano finito può determinarsi in quanto tale in quanto tale e a partire da se stesso, e non, […] come un “caso” possibile di un essere razionale» (Vinci 1988: 115). Perdendo questo legame, si perde anche la possibilità di un’analisi ontologica più approfondita. 19 Kant (1781/2005: 101; A 24): «Su tale necessità a priori [la rappresentazione dello spazio] si fonda la necessità a priori di tutti i principi geometrici, nonché la possibilità della loro costruzione a priori». 20 Nella seconda edizione, in un paragrafo che risente profondamente dell’influenza dei Prolegomeni: «La geometria è una scienza che determina le proprietà dello spazio sinteticamente, ma tuttavia a priori» (Kant 1781/2005: 102; B 40). 116 in maniera così evidente, ad alcuna disciplina dell’allora “filosofia naturale”; nella seconda, invece, si parla di un suo coinvolgimento con le dottrine matematiche e fisiche, ma non viene mai istituito un collegamento evidente o diretto con una qualche materia specifica. Che rapporto intercorre, quindi, tra l’intuizione temporale di tipo kantiano e la filosofia naturale di fine Settecento? È possibile rintracciare una qualche relazione privilegiata tra il tempo ed una singola dottrina fisico-matematica? III. 3. Tempo e discipline fisico-matematiche. È diventata quasi una prassi che, parlando del rapporto tra intuizione (o sensibilità) e le discipline matematico-scientifiche, il tempo venga messo in secondo piano e, quasi sempre, a titolo esemplificativo, sia scelto lo spazio. Esistono diversi motivi per cui la quasi totalità dei commentatori di Kant – di tutte le epoche e di tutti i paesi – ha adottato questa metodologia. La prima ragione è che nella Ragion pura si riconosce esplicitamente la fondazione della geometria euclidea sull’intuizione spaziale, facilitando, tra le altre cose, la comprensibilità dell’esposizione e degli esempi. Consuetudine cominciata dallo sesso Kant, il quale sembra preferire l’intuizione spaziale per fornire delle dimostrazioni alle sue teorie. In questo modo viene quasi spontaneo usare lo spazio come testimone per tutta la sensibilità. Così facendo, però, spesso si ritiene che quello che si afferma dell’intuizione spaziale valga o possa valere anche per quella temporale. Atteggiamento riscontrabile, per esempio, in Strawson (1966/1985: 47): Nel caso dello spazio, l’argomento di gran lunga più importante si fonda sulla concezione kantiana delle proposizioni della geometria o, come talvolta scrive Kant, della «matematica dello spazio». Paralleli a questo argomento, troviamo dei riferimenti a proposizioni piuttosto superficiali sul tempo. Kant era convinto che queste proposizioni avessero una natura identica a quella degli assiomi e dei teoremi geometrici; di conseguenza, riteneva che la loro conoscenza richiedesse lo stesso tipo di spiegazione. In generale, le osservazioni kantiane sullo spazio hanno un contenuto più profondo di quelle che riguardano il tempo. Queste ultime non sono che deboli paralleli delle prime, nei casi in cui questi paralleli siano possibili. 117 L’ultima frase del brano rappresenta un pensiero ampiamente condiviso dalla comunità degli interpreti di Kant. Tuttavia, lascia anche trasparire il dubbio per una metodologia non sempre condivisibile e percorribile. Basti pensare a ciò che il tempo ha di peculiare rispetto allo spazio: essere forma del senso interno ed avere un rapporto privilegiato con le categorie. Inoltre, dalla metà dell’Ottocento in poi, con lo sviluppo delle geometrie non euclidee, il peso dato all’intuizione spaziale si è rivelato essere un boomerang: molte affermazioni kantiane sullo spazio e sulla geometria – la quale era ritenuta, da tanti, essere stata posta, fin dai tempi dell’antica Grecia, su una strada sicura ed immutabile – si sono rivelate o non più sostenibili o soggette a forti limitazioni. Da questo punto di vista, la libertà dell’intuizione temporale rispetto ad altre nozioni troppo storicamente connotate (o compromesse) si è dimostrata preziosa per una sua eventuale riutilizzazione. Libertà che non significa, però, un distacco totale dalle materie fisico-matematiche, dato che il progetto kantiano prevede un avvicinamento e una consequenzialità tra esperienza comune e conoscenza scientifica. Il problema è capire se, all’interno di tali dottrine, ci sia un ambito, una nozione o un concetto con cui l’intuizione temporale kantiana abbia un rapporto privilegiato. Istintivamente, si potrebbe rispondere che, se lo spazio è collegato alla geometria, il tempo potrebbe essere messo in parallelo con l’aritmetica o con l’algebra. Un rapporto tra intuizione temporale e numeri potrebbe essere ipotizzato quasi come un riflesso condizionato. Tanto più che nella Ragion pura non sono pochi i brani in cui, per esempio, si afferma una relazione tra intuizione, in senso generale, e matematica. Nella seconda edizione non si deve neanche aspettare molto perché Kant parli di aritmetica in riferimento all’intuizione. Portando ad esempio la somma tra 7 e 5, Kant afferma che, prendendo in considerazione semplicemente l’unione tra i due numeri, non si arriva al concetto di 12. Asserendo che 12 è un concetto, si stabilisce implicitamente che i numeri rientrino all’interno della conoscenza discorsiva, dunque la loro formulazione è di competenza dell’intelletto. L’intuizione, da sola, non è sufficiente; ma è, tuttavia, indispensabile: È necessario andare al di là di questi concetti, facendo appello all’intuizione 118 che corrisponde a uno dei due numeri […] ed aggiungere, l’una dopo l’altra, al concetto del sette le unità del numero cinque quale è dato nell’intuizione. […] per quanto giriamo e rigiriamo i nostri concetti, senza l’aiuto dell’intuizione non potremmo mai trovare la somma con la semplice analisi di tali concetti.21 Ciò viene ribadito anche nei Principi metafisici in cui si afferma che la conoscenza che si basa «soltanto sulla costruzione dei concetti, mediante la rappresentazione dell’oggetto in un’intuizione a priori, si chiama matematica»22. Volendo analizzare considerazioni simili, Guyer (1987: 173) parte da un brano della prima Critica, che, all’incirca, tocca gli stessi argomenti: «il numero altro non è che l’unità della sintesi del molteplice d’una intuizione omogenea in generale» dovuto al soggetto che produce il tempo grazie all’apprensione dell’intuizione23. Guyer conferma, per di più, che questo procedimento, preso isolatamente, può portarci alla formulazione di quelle entità che chiamiamo numeri: «non è molto chiaro come il numero sia un fenomeno essenzialmente temporale, anche se l’atto di contare ha sempre luogo nel tempo»24. Questa distinzione di Guyer è molto importante: il contare ha, in qualche modo, a che fare con il tempo, ma ciò non implica automaticamente che i numeri siano delle entità temporali. È proprio l’associazione tra l’attività di calcolo e i numeri ciò sembra condurre a delle incomprensioni. Nella filosofia critica, il numero viene definito, tra le altre cose, come «una rappresentazione abbracciante la successiva addizione di uno a uno (omogenei)»25; inoltre, viene ricordato che «l’intuizione è alla base del processo passo dopo passo del calcolo, il quale, nella sua interezza, non potrebbe essere ottimamente osservabile “a colpo d’occhio”»26. Nelle somme aritmetiche, per esempio, viene sottolineato come questo tipo di procedura risulti più evidente quando 21 Kant (1781/2005: 84; B 15-6). Kant (1786/2003: 101; 469). 23 Kant (1781/2005:193; A 142-3/B 182). 24 Guyer (1987: 173). In altri punti della sua opera, Guyer è più incline a ritenere che Kant stia davvero considerando l’ipotesi che i numeri possano essere entità temporali: parlando di problemi legati alle grandezze estensive egli afferma che «l’unica soluzione di Kant per questo problema è la sua dubbia teoria secondo la quale i numeri stessi siano essenzialmente temporali. Forse, il suo bisogno di questa tesi per preservare l’argomento dello schematismo, unito all’ovvia impossibilità della teoria, spiegano l’atteggiamento vacillante di Kant verso di essa» (Guyer 1987: 194). 25 Kant (1781/2005: 193; A 142/B 182). 26 Friedman (1994a: 84). 22 119 abbiamo a che fare con numeri molto elevati27. Pertanto, l’intuizione temporale, così come viene pensata nella filosofia critica, supplisce ad una funzione che trova la sua applicazione epistemologica più rigorosa proprio nella matematica pura: insito nel pensiero stesso di tempo c’è l’idea di poter andare avanti aggiungendo istante ad istante o, più in generale, unità ad unità. Grazie a questa forma a priori della sensibilità, quindi, non avremmo la produzione diretta di entità, quali i numeri o gli operatori matematici, bensì se ne utilizza una caratteristica fondamentale come modello, ponendolo alla base di molte attività, tra le quali la successione della numerazione. La sintesi temporale ha la capacità di protrarsi da un momento all’altro, determina il «successivo passaggio da un istante all’altro, dove, con tutte le parti del tempo e con la loro addizione, viene infine prodotta una determinata quantità di tempo»28. È in questo modo che il tempo può essere «la condizione formale di tutte le serie»29. Di ciò si era reso ben conto Friedman. Anch’egli, come Guyer, sottolinea l’importanza dell’intuizione temporale per quella branca delle scienze matematiche che è il calcolo. Dopo l’Ottocento le caratteristiche basilari del calcolo sono spiegate attraverso la nozione di convergenza e di limite, grazie anche all’uso dei quantificatori universali30, elementi di cui, naturalmente, non poteva usufruire Kant. D’altro canto, secondo Friedman (1994a: 74), la concezione moderna di convergenza può trovare un parallelo in una nozione intuitiva di moto e, più precisamente, nella traiettoria di un punto su una linea, tramite lo spostamento da una posizione iniziale ad una finale: «la nozione di convergenza o di avvicinamento al limite è espressa attraverso un processo temporale, grazie all’idea di un punto che si muove o che diviene sempre più vicino ad un altro»31. Kant, non solo aveva ben presente quest’ultima situazione, ma la sua nozione di intuizione temporale svolgeva un ruolo insostituibile proprio in casi simili. Nonostante queste proprietà e il tipo di legame individuato tra il tempo e la 27 Kant (1781/2005: 84; B 16): «La proposizione aritmetica è dunque sempre sintetica; il che si fa tanto più evidente quanto più grandi sono i numeri presi in considerazione, risultando allora chiaro che noi, per quanto giriamo e rigiriamo i nostri concetti, senza l’aiuto dell’intuizione non potremmo mai trovare la somma con la semplice analisi di tali concetti». 28 Kant (1781/2005: 207; A 164/B 205). 29 Kant (1781/2005: 356; A 411/B 438). 30 Friedman (1994a: 73). 31 Friedman (1994a: 73). 120 numerazione (o il calcolo), fra di essi non si istituisce lo stesso rapporto che c’è tra spazio e geometria. Innanzitutto, nella prima Critica, non è presente nessuna affermazione riguardante un qualsiasi postulato aritmetico paragonabile a quelli euclidei32. Secondo Friedman (1994a: 114), ciò è dovuto al fatto che l’aritmetica (o anche l’algebra) «non presuppongono niente di specifico riguardo la natura e l’esistenza degli oggetti delle nostre intuizioni». Detto altrimenti, l’aritmetica o l’algebra non si rivolgono esclusivamente ad un tipo privilegiato di oggetti, come quelli spazialmente estesi di cui si occupa la geometria. Inoltre, una base adeguata per l’aritmetica dovrebbe predisporre delle funzioni che permettano la successione secondo unità di misura distinte. Ma le unità temporali dipendono unicamente da una scelta arbitraria33. Infine, ed è il punto più importante, va ricordato che per avere un qualsivoglia numero, è necessario l’apporto dell’intelletto. Da quanto esposto finora, sembra dunque fondamentale una collaborazione tra le due facoltà. Ma quando si effettua, dunque, questa collaborazione? Affinché entrambe le facoltà comunichino tra di loro, è importantissimo ciò che avviene nella zona di passaggio tra le loro competenze, della quale si occupa Kant nello Schematismo trascendentale. In quella sezione dell’opera, in particolare, si descrive quel procedimento per cui la categoria si immerge nel senso interno, processo tramite cui, cioè, si ha l’applicazione della categoria all’intuizione temporale; ciò sembrerebbe permesso dalla sintesi del molteplice che accomuna l’attività delle categorie e dell’intuizione temporale, sebbene in ambiti diversi. Nella prima edizione, l’intero processo sembrava reggersi sull’immaginazione trascendentale, ma dalla seconda edizione in poi essa viene considerata quasi una capacità dell’intelletto. Rimane il fatto che uno schema è l’utilizzo di una categoria all’interno del senso interno, una «determinazione trascendentale del tempo», a sua volta «omogenea alla categoria»34. È come se la categoria fosse in procinto di agire, il più vicino possibile al molteplice empirico. In quell’immersione, in quel momento in cui le rappresentazioni non l’hanno ancora raggiunta e non si sono ancora costituite come concetto empirico, lì abbiamo lo schema trascendentale. 32 Kant (1781/2005: 206; A 163/B 203): «le proposizioni evidenti di relazioni fra numeri sono di certo sintetiche, ma non universali come quelle della geometria e per questo motivo non sono neppure esse assiomi, ma possono piuttosto dirsi formule numeriche». 33 Friedman (1994a: 105). 34 Kant (1781/2005: 191; A 138-9/B 177-8). 121 Lo schema trascendentale può quindi essere visto non solo come un ente, come un risultato finale, ma anche come una procedura di avvicinamento tra categoria e tempo. È proprio da questa prospettiva che Friedman (1994a: 124-5) guarda agli schemi: essi vengono intesi come dei processi che, racchiudendo al loro interno vari passaggi, possono essere paragonati all’elaborazione dei concetti matematici. Dentro queste procedure, il tempo ha un compito preciso. Per capire quale sia, facciamo un esempio riferito alla suddetta genericità dell’intuizione temporale: nel calcolo non ci si riferisce specificatamente ad un gruppo ristretto di oggetti e le nozioni algebriche si applicano a delle “X” o a delle “Y” generiche; allo stesso modo, l’intuizione temporale dovrebbe rendere conto di tutti gli oggetti in generale, anche di quelli che si trovano esclusivamente nel senso interno. Friedman (1994a: 115) sembra rendersi conto di questa versatilità dell’intuizione temporale quando, iniziando a parlare di concetti, afferma che «c’è ancora un elemento temporale nella costruzione del concetto stesso di grandezza (quantità)». L’elemento temporale è, infatti, riscontrabile nello «schema puro della quantità (quantitas)», espressione complessa della filosofia critica su cui si basa la nozione di “numero”. Tuttavia questo è solo un elemento, una caratteristica temporale che viene sfruttata nella collaborazione delle facoltà affinché l’intelletto sia in grado di produrre un concetto. Dunque, se, da un lato, ciò rivendica l’importanza di alcuni attributi dell’intuizione temporale nel formulare il concetto di numero – la capacità di aggiungere, in progressione, unità uguali ad unità uguali o la sua rilevanza come base degli schemi concettuali – dall’altro viene allontanata la possibilità che il tempo abbia un rapporto privilegiato con una delle nozioni fondamentali della matematica, la quale, invece, sembra essere appannaggio dell’intelletto. Riassumendo, sul versante delle scienze propriamente matematiche il tempo ha una funzione in qualche modo circoscritta, che suppliva alle carenze che i sistemi aritmetici o algebrici avrebbero colmato molti decenni dopo, grazie al progresso degli strumenti della logica moderna, i quali arrivano a maturazione, grosso modo, nella seconda metà dell’Ottocento; la stessa funzione viene utilizzata, sempre per l’ambito matematico, nel contesto della conoscenza discorsiva, in cui entrano in gioco i concetti. L’ampio ventaglio di situazioni in cui viene sfruttata questa proprietà dell’intuizione temporale e le lacune a cui va incontro, fanno pensare che 122 tale caratteristica abbia un’importanza e una valenza che oggi potremmo chiamare “logica”. Dopo tutto, questa funzione si accorda bene con la definizione che viene fornita di tale disciplina nella prima Critica: «una scienza che espone adeguatamente e dimostra rigorosamente null’altro che le regole formali di tutto il pensiero, sia esso a priori oppure empirico»35. Inoltre, l’intuizione temporale era già impiegata per svolgere particolari operazioni che oggi rientrerebbero nel dominio della logica: «[s]olo nel tempo due determinazioni opposte contraddittorie possono aver luogo in un medesimo oggetto, e precisamente l’una dopo l’altra»36. Assegnare due predicati – anche se contraddittori – ad un medesimo soggetto, era uno degli impieghi tipici del sillogismo aristotelico. Sebbene Kant riponesse piena fiducia in quanto sostenuto da Aristotele, e il compito da lui svolto fosse ritenuto completo e stabilito una volta per tutte37, una logica fondata sul sillogismo non era in grado di fornire un supporto per la rappresentazione dell’iterazione progressiva di unità omogenee: «è impossibile all’interno della sola logica sillogistica rappresentare adeguatamente l’idea essenziale dell’estensione, infinita o indefinita, delle serie numeriche»38. È per questo motivo che entra in gioco l’intuizione temporale. Come sostiene Friedman (1994a: 121): «Kant ritiene che l’idea dell’iterazione indefinita non possa essere acquisita nella sola logica generale. Ciò che riteniamo ci permetta di rappresentare, o di pensare, tale iterazione indefinita è quindi l’intuizione pura del tempo: la forma del senso interno su cui devono essere fondate tutte le nostre rappresentazioni». Anche Bennett (1966: 110), attratto dalla sintesi temporale, sottolinea come l’atto dell’unificare o del “mettere-insieme”, abbia una rilevante portata logica. Friedman, però, stando a quanto riportato fin qui, sembra dichiarare qualcosa di più: è come se Kant avvertisse l’esigenza di supplire alle carenze del suo periodo e trovasse modo di farlo assegnando alla sua intuizione temporale le caratteristiche atte a colmare tali lacune. Detto altrimenti, stando alla lettura di Friedman, sembra quasi che Kant anticipasse un po’ i tempi e sentisse chiaramente la mancanza e l’esigenza di un fattore che oggi chiameremmo logico. 35 Kant (1781/2005: 40; B VIII-IX). Kant (1781/2005: 108; B 48-9). 37 Kant (1781/2005: 39; B VII): «da Aristotele in poi essa [la logica] non ha dovuto fare alcun passo indietro […]. Importante è inoltre il fatto che sino ad oggi la logica non ha potuto fare un sol passo innanzi, e quindi, secondo ogni apparenza, è da considerarsi conclusa e completa». 38 Friedman (1994a: 121). 36 123 Sembra, pertanto, che Friedman gli attribuisca un certo grado di consapevolezza nel voler porre rimedio ai suoi problemi chiamando in causa l’intuizione temporale. È molto difficile stabilire se Kant fosse pienamente consapevole delle implicazioni insite nel compiere questo passo. Tuttavia, quanto detto finora aiuta a rimarcare meglio i contorni del rapporto tra tempo e matematica, in cui sembra che sia escluso un legame simile a quello della geometria con lo spazio. È perciò possibile individuare un’altra disciplina con cui l’intuizione temporale potrebbe intessere qualcosa di analogo? Per tentare di dare una risposta a questa domanda, si deve abbandonare temporaneamente la Ragion pura e rivolgerci ad un altro testo di Kant, i Prolegomeni. All’interno di quest’opera, in una sezione dedicata alla possibilità della matematica pura, si dichiara quanto segue: La geometria pone a fondamento la intuizione pura dello spazio. L’aritmetica anche riesce a costruire i suoi concetti di numero mediante una successiva aggiunta delle unità di tempo, ma soprattutto la meccanica pura può formare i suoi concetti di movimento solo per mezzo della rappresentazione del tempo.39 Il brano, oltre a ribadire il ruolo del tempo all’interno delle discipline matematiche, fa un passo in più, indicando come una determinata disciplina scientifica, la meccanica pura, abbia un rapporto in qualche modo diretto con l’intuizione temporale. È possibile estendere quanto qui affermato anche alla Ragion pura? Friedman ha cercato, anche in questo caso, di fornire una risposta affermativa: secondo lui è infatti possibile venire a patti con ciò che Kant dichiara nei Prolegomeni. In particolare, l’immagine dei moti che si hanno grazie alle leggi della meccanica, servirebbe a preparare il campo per poter associare le analogie dell’esperienza (anch’esse collegate sull’intuizione temporale) alle leggi del moto di Newton. La prima mossa consiste nel sottolineare cosa viene affermato nella della Ragion pura sul tempo e sulla dottrina del moto: «il nostro concetto del tempo rende ragione di tutte le conoscenze a priori che sono avanzate dalla teoria generale del 39 Kant (1783/2002: 67; § 10, 283). 124 moto»40. La dottrina del moto è una branca della fisica che può ritenersi consequenziale alla meccanica pura. Dopo di che, Friedman (1994a: 105) irrobustisce tali asserzioni con una dichiarazione simile presente nella Dissertazione Inaugurale, giungendo a sostenere che «la scienza legata al tempo, per Kant, non è l’aritmetica ma, piuttosto, la meccanica pura o la dottrina pura del moto», la quale troverebbe nell’intuizione temporale un fondamento simile a quello che lo spazio riserva alla geometria. Tanto più che Kant considererebbe la meccanica pura alla stregua di una «terza scienza matematica»41, ponendola, dunque, su un piano diverso rispetto alle normali discipline fisiche. A rafforzare ulteriormente il ragionamento ci sarebbero ad alcuni passi, aggiunti nella seconda edizione, i quali sottolineano come il moto sia in grado di fornirci un immagine del tempo: e neppure possiamo rappresentarci il tempo se non tracciando una linea retta (che vuol essere la rappresentazione esterna, figurata del tempo) e badando soltanto a quell'operazione della sintesi del molteplice tramite la quale determiniamo successivamente il senso interno e, pertanto, alla successione di questa determinazione nel senso interno.42 È, quindi, l’idea del moto rettilineo, ed in particolare del moto inerziale, che, secondo Friedman (1994a: 131), ci dà la possibilità di avere un’immagine dell’intuizione temporale. Conoscendone appunto l’immagine, è inoltre possibile avere la conferma che si può applicare anche al tempo la distinzione tra forma dell’intuizione e intuizione formale: «la forma dell’intuizione dà soltanto il molteplice, mentre l’intuizione formale dà l’unità della rappresentazione»43. Ciò ci permette un ennesimo raffronto tra le due forme a priori della sensibilità: «[è] la costruzione dei concetti geometrici, dunque, che mi permette, in primo luogo, di considerare lo spazio come un oggetto, cioè come un’intuizione formale. Ed è in questo senso che la meccanica pura sta al tempo come la geometria sta allo spazio»44. Se, da un lato, le due dimensioni si avvicinano, dall’altro, gli aspetti che mettono in 40 Kant (1781/2005: 108; B 49). Friedman (1994a: 129). 42 Kant (1781/2005: 176; B 154). 43 Kant (1781/2005: 180; B 161n). 44 Friedman (1994a: 134). 41 125 luce sono diversi. L’intuizione formale fornita dalla meccanica classica, infatti, fa in modo che l’immagine del tempo sia dinamica, di contro a quella statica propria dello spazio: è l'idea del moto rettilineo di un punto matematico che ci permette per la prima volta di rappresentare il tempo stesso come un oggetto intuibile e, presumibilmente, ci permette per la prima volta di rappresentare il tempo come una quantità, o un oggetto intuibile, come una grandezza. Io propongo di interpretare quest'ultima idea come un riferimento al moto inerziale: lo stato privilegiato del moto “naturale” libero da forze che è la base per la fisica moderna.45 Fin qui la lettura di Friedman. Essa, tuttavia, presuppone alcuni passaggi che non tutti gli autori sono – o sarebbero – disposti ad accettare. La prima obiezione viene da coloro che non ritengono le condizioni epistemiche di Kant legate in maniera troppo stretta ai principi scientifici di Newton. Tra questi vi sono autori come Buchdahl e Allison, i quali propongono una lettura delle nozioni a priori kantiane diversa rispetto a quella di Friedman. Nel corso delle sue opere, Friedman espone una prospettiva stando alla quale i principi a priori kantiani hanno un valore costitutivo e sono fortemente legati alle discipline scientifiche della loro epoca. Buchdahl (1992) e Allison (1983/2004), invece, sostengono che tali principi sono regolativi, che sono così duttili, cioè, da potersi riferire, di volta in volta, ai concetti base di una determinata disciplina scientifica. Se, in seguito ad una cosiddetta “rivoluzione scientifica”, i principi di riferimento di una dottrina vengono sostituiti, le condizioni epistemiche kantiane possono essere sganciate dalle vecchie regole ed accordarsi alle nuove46. La lettura di Friedman incorre in un ulteriore problema: nella Ragion pura, il nesso tra tempo e meccanica non sembra essere così forte e stretto come nei Prolegomeni. Nella prima Critica si affermava che il tempo deve rendere ragione della dottrina del moto: termine che ha una sfumatura un po’ diversa e meno 45 Friedman (1994a: 131). Per un confronto diretto su questi temi, mi sia permesso rimandare agli articoli di Allison (1994) e Friedman (1994b), entrambi in Parrini (1994). 46 126 impegnativa rispetto a ciò che viene detto nell’opera del 1786. Ciò indicherebbe un obiettivo ed un carattere diverso che la prima Critica avrebbe rispetto ad altri testi, coevi alla sua seconda pubblicazione, ma esplicitamente rivolti al rapporto tra epistemologia e scienza. I contrari ad un legame troppo stretto tra nozioni kantiane e leggi newtoniane insistono molto sulle diverse finalità delle due opere e sull’indipendenza della filosofia critica dalle scienze del periodo. È comunque difficile trovare un autore che non integri le proprie considerazioni sulla Ragion pura con brani presi da altri lavori. Ritengo inoltre che sia pressoché inutile – se non controproducente – chiedere di limitare tale metodologia. Anche perché le critiche più insidiose per una lettura “alla Friedman” si rifanno a passaggi che, apparentemente, non destano preoccupazione ma che, in realtà, potrebbero nascondere delle contraddizioni implicite. Posto che sia la meccanica pura a fornire un’immagine del tempo, c’è la possibilità che quest’ultimo venga subordinato rispetto a nozioni come lo spazio o le categorie le quali sono indispensabili per fornirci una tale immagine. Il rapporto tra tempo e meccanica, lungi dall’essere fondativo, potrebbe essere accettato solo in quanto deduttivo e descrittivo, utile per fornirci, in maniera euristica, un’immagine, per farci un’idea su come intendere l’intuizione temporale. Nei casi più estremi, questa impostazione prospetta un rapporto di dipendenza dell’intera sensibilità nei confronti dell’intelletto, una tendenza che si era già fatta strada nelle scuole neokantiane. Così facendo, il tempo perde quell’autonomia che sembrava avere, non solo come senso interno, ma anche, per esempio, come base logica per la formulazione di ogni serie. Il problema maggiore con cui però si scontra l’impostazione di Friedman è lo status che egli presuppone solo ed esclusivamente per il tempo. Ciò è dovuto ad un doppio binario su cui egli, implicitamente, fa operare l’intuizione temporale: uno epistemologico ed uno più profondo, il quale sembra puntare direttamente alla struttura ontologica del tempo, mediata – poco o niente – dalle condizioni epistemiche. Tuttavia, esplicitamente, l’analisi di Friedman appare completamente volta a ritenere il tempo come una condizione epistemica, tralasciando e non dando il giusto risalto a quelle che si potrebbero chiamare le sue condizioni ontologiche. Ma è proprio grazie ad esse che il soggetto conoscente sarebbe in grado di porre rimedio a 127 certe sue carenze epistemologiche. L’intuizione temporale è a fondamento di tutte le successioni proprio in quanto è intesa, essa stessa, come una serie: attraverso la sua sintesi (la capacità di progredire unità dopo unità) si riesce a superare una debolezza nell’impianto conoscitivo (la mancanza di un operatore logico atto alla produzione delle serie). Ma si può assegnare al tempo una tale ontologia? Abbiamo prove, soprattutto nella prima Critica, che possano confermarci questa lettura? La questione è molto complicata. Questo doppio livello temporale, se da un lato potrebbe fornire aiuti importanti, dall’altro complica, non di poco, la situazione. Anche al netto del funzionalismo di Kant, nell’impostazione critica è molto difficile capire dove finisca la valenza epistemologica del tempo e dove comincino le sue caratteristiche ontologiche. È possibile che le analisi dei commentatori anglofoni di Kant, i quali si rifanno a lui proprio per far fronte ad un naturalismo estremo, riescano a delimitare un confine netto tra questi due ambiti? E, più in generale, è possibile tracciare una linea tra il modo in cui conosciamo un oggetto, un evento o un ente e cosa esso è effettivamente quando si ha a che fare con nozioni così fondamentali come l’intuizione temporale? Il confronto e l’analisi del rapporto tra il tempo e alcuni principi dell’intelletto, le analogie dell’esperienza, legate all’intuizione temporale ma con una componente epistemologica nettamente predominante, può fornire un aiuto per capire se le suddette distinzioni siano o meno realizzabili. Il raffronto tra queste nozioni a priori kantiane dovrebbe, come in un gioco di contrasti, rimarcare i limiti tra l’uno e l’altro ambito. III. 4. Tempo e analogie: successione temporale e irreversibilità. Nella Critica della ragion pura sono pochi i legami così stretti come quello istituito tra il tempo e le analogie dell’esperienza. Ma l’esposizione riguardante il loro rapporto è, anche in questo caso, complessa e di non immediata comprensione. È tuttavia possibile partire da alcuni punti fermi: per esempio, il compito delle analogie è quello di stabilire determinati tipi di relazioni tra i fenomeni. Nella prima edizione ciò emergeva chiaramente: lì il principio generale delle analogie affermava che «tutti i fenomeni, quanto alla loro esistenza, sono sottoposti a priori a regole 128 determinanti il loro rapporto reciproco in un tempo»47. Quindi, grazie alle analogie, il soggetto conoscente può rendere conto di un collegamento importantissimo che intercorre tra gli oggetti fenomenici: quello temporale oggettivo. Nelle relazioni temporali a livello sensibile, invece, si aveva a che fare solo con i rapporti soggettivi basati sulle percezioni o sulle rappresentazioni, tramite i quali non era possibile fondare giudizi obiettivi. Stando a Kant, i tipi di rapporti temporali oggettivi che possono intercorrere tra le percezioni sono tre: permanenza, successione e simultaneità. Questi vengono definiti «i tre modi del tempo», ossia le «tre regole di tutti i rapporti temporali dei fenomeni, le quali dovranno precedere ogni esperienza, rendendola prima di tutto possibile; in base a queste regole, l'esistenza di ogni fenomeno potrà esser determinata rispetto all'unità di tempo»48. Cosa si intende qui per “unità di tempo”? Van Cleve (1999: 108) la spiega così: «tutti gli eventi appartengono ad un solo ordine temporale interconnesso, e ciò significa che due eventi sono tali per cui o uno inizia prima dell'altro o essi sono simultanei». Quindi, grazie alle analogie sarebbe possibile allestire una rete di rapporti che ci fornisca l’immagine delle relazioni tra le diverse rappresentazioni dei diversi fenomeni: se sappiamo che un fenomeno A precede un fenomeno B che, a sua volta, precede C, è possibile avere un’unica sequenza temporale che va da A a C passando per B. A livello macroscopico, è dunque ipoteticamente possibile interconnettere tra di loro tutti i fenomeni di cui si ha esperienza al fine di ricreare una sequenza, per così dire, storica. Questo è ciò che si intende quando si parla di tempo oggettivo prodotto dai principi a priori dell’intelletto. Andando contro l’ordine dato da Kant, il primo principio che prenderò in considerazione sarà la seconda analogia, quella che si occupa della successione temporale oggettiva, la legge di causalità. Inizio da questo principio per vari motivi: da un lato, su di esso si sono concentrate maggiormente, per ovvie ragioni, le attenzioni dei vari commentari kantiani; dall’altro, ciò non solo ha fornito molto materiale su cui lavorare ma, in aggiunta, le tesi che sono state avanzate dai commentatori anglofoni su questo argomento sono tra le più interessanti. 47 48 Kant (1781/2005: 216; A 176-7). Kant (1781/2005: 217; A 177/B 219). 129 Nell’edizione del 1787, la seconda analogia, che nella prima versione rispondeva al nome, ben più anonimo, di «Principio della produzione»49, è chiamata «Principio della successione temporale secondo la legge di causalità»50 e viene così definita: «[t]utti i mutamenti accadono secondo la legge della connessione di causa ed effetto»51. Anche qui, come nel caso del tempo, abbiamo a che fare con una nozione a priori che si occupa della successione; che differenza c’è tra i due tipi di sequenze? Per capirlo, possiamo rifarci al celebre confronto di Kant tra la percezione di una casa e quella di una nave in movimento: «l’apprensione del molteplice nel fenomeno di una casa che mi sta innanzi è successiva. Ciò che mi si domanda è ora se il molteplice di questa casa sia successivo anche in sé: nessuno credo risponderà di sì»52. Io posso iniziare ad avere una successione di percezioni inerenti ad un edificio sia che inizi a guardarlo dal retro, sia che cominci dal davanti, dal tetto o dal giardino... In pratica, non esiste una sequenza predeterminata di percezioni, ma esse dipendono dal modo in cui sto esperendo la casa e dalle condizioni in cui mi trovo in quanto soggetto conoscente. Si ha tutt’altra situazione, invece, quando siamo in presenza di una successione oggettiva, come nel caso di un’imbarcazione che segue la corrente: La mia percezione della sua posizione più giù, è successiva alla percezione della sua posizione più su, lungo il corso del fiume, e non si dà possibilità alcuna che nell’apprensione di questo fenomeno la nave possa venir percepita prima giù e poi su. In questo caso l’ordine della successione delle percezioni nell’apprensione è determinato e l’apprensione è vincolata ad esso.53 Ciò che differenzia le due sequenze è appunto una regola, la quale rende «necessario l’ordine delle percezioni susseguentesi (nell’apprensione di questo fenomeno)»54. La regola in questione è, naturalmente, la seconda analogia. Il 49 Kant (1781/2005: 225; A 189). Kant (1781/2005: 225; B 232). 51 Kant (1781/2005: 225; B 232). Nella prima edizione, invece, si poteva leggere: «[t]utto ciò che accade (incomincia ad essere) suppone qualcosa, a cui segue in base a una regola» (Kant 1781/2005: 225; A 189). 52 Kant (1781/2005: 227; A 190/B 235). 53 Kant (1781/2005: 228-9; A 192/B 237). 54 Kant (1781/2005: 229; A 193/B 238). 50 130 principio di successione impedisce quindi quella “indifferenza di ordine” propria dei casi in cui la serie delle percezioni dipende dalle condizioni del soggetto conoscente (come nell’esempio della casa). Per avere un ordine che sia considerato irreversibile e per avere dunque una successione a sua volta irreversibile, si deve applicare il principio causale; stabilito ciò, si può dunque andare alla ricerca della legge empirica particolare che sta dietro all’evento. L’indifferenza di ordine, o meglio, la sua impossibilità nel caso di successioni oggettive, è uno dei temi principali di Bounds of Sense, l’opera di Strawson sulla Critica della ragion pura. Una delle tesi più conosciute del libro è quella del non sequitur. Il fine ultimo di questa teoria sarebbe quello di imputare a Kant alcuni errori riguardanti il rapporto tra epistemologia ed ontologia. Strawson parte proprio distinguendo un livello soggettivo, che corrisponderebbe a quello fornito dall’intuizione, ed uno oggettivo, fornito dalle analogie dell’esperienza, tra le quali un ruolo fondamentale è giocato dal principio di causalità. Questi due piani si confrontano, in particolare, quando ci troviamo di fronte a percezioni il cui ordine viene ritenuto irreversibile: se ciò che percepiamo è un mutamento oggettivo, un evento, un caso in cui uno stato di cose oggettivo cede il posto a un altro, allora le nostre percezioni successive di questi stati oggettivamente successivi sono prive del carattere di indifferenza di ordine. Le nostre percezioni successive non avrebbero potuto presentarsi nell’ordine opposto a quello in cui si sono effettivamente presentate. Esprimendoci con maggiore sicurezza, il loro ordine è, in questo caso, un ordine necessario.55 Quindi, conclude Strawson (1966/1985: 121), «[i]l possesso o la mancanza di indifferenza di ordine da parte delle nostre percezioni costituisce, sembra dire Kant, il criterio della successione o coesistenza oggettive»56. In aggiunta, poco dopo, viene descritto dettagliatamente il procedimento attraverso il quale una serie di percezioni sottostà ad una regola: 55 Strawson (1966/1985: 120). La coesistenza riguarderebbe la terza analogia. In questo caso intendo però concentrarmi esclusivamente sul principio di causalità. 56 131 la possibile applicazione empirica (e quindi la possibile comprensione reale) dei concetti di mutamento oggettivo e di coesistenza oggettiva si fonda su un uso implicito delle nozioni di ordine necessario o di indifferenza di ordine delle percezioni. A loro volta, queste ultime nozioni non potrebbero avere alcuna applicazione, se non applicassimo dei principi causali pertinenti agli oggetti delle percezioni a cui applichiamo implicitamente queste nozioni.57 Strawson sta qui considerando sia la seconda analogia (“mutamento oggettivo”) sia la terza (“coesistenza oggettiva”). Diversi autori angloamericani ritengono che le considerazioni sul principio di simultaneità siano ridondanti: o è possibile estendere anche ad esso le valutazioni fatte sul principio di causa – effetto, o il suo compito viene descritto come una sintesi di quello svolto della prima e della seconda analogia58. Molto spesso, infatti, ciò che viene detto per i primi due principi, viene fatto valere per il terzo. Motivazioni simili portano a concentrarsi esclusivamente sulle prime due analogie. Ritornando al brano precedente, la prima frase sembra riferirsi ai casi particolari (“possibile applicazione empirica”) in cui si utilizza la legge di causalità: la cera che si scioglie al sole, la nave che scende lungo la corrente, il ghiaccio che si liquefà con il caldo... Il principio di causalità, infatti, dovrebbe valere sia per la conoscenza quotidiana, sia per le leggi empiriche – fisiche o chimiche – corrispondenti. La seconda parte del periodo, invece, vuole proprio evidenziare che dietro qualsiasi successione considerata causale, si cela la seconda analogia, anche se il soggetto conoscente non ne è pienamente consapevole. Entra in gioco, quindi, la sua apriorità e quella delle categorie in generale: dalle parole di Strawson sembra quasi che i principi a priori agiscano automaticamente indipendentemente dalla volontà dei soggetti. Sebbene non appaia in tutta la sua evidenza, tra le maglie di questa ricostruzione si riesce ad intravedere uno dei problemi più famosi nell’impostazione epistemologica kantiana: è possibile stabilire quando, effettivamente, un evento cade sotto un principio a priori? È possibile che, in un primo momento, un dato evento 57 58 Strawson (1966/1985: 123). Di questo problema si è occupato, tra gli altri, Allison (1983/2004: 268 e sgg). 132 non sia collegato ad una qualche categoria ma lo sia in seguito? Oppure, almeno implicitamente, la presenza dei principi a priori deve sempre, per così dire, aleggiare sullo sfondo? Il processo grazie al quale, inizialmente, una sequenza di percezioni non sia sussunta sotto un determinato principio a priori ma lo sia solo in seguito, è alla base della nota distinzione, formulata da Kant nei Prolegomeni, tra giudizio di percezione e giudizio di esperienza: I giudizi empirici, in quanto hanno una validità obbiettiva, sono giudizi di esperienza; ma quelli che sono validi soltanto soggettivamente, io li chiamo semplici giudizi di percezione. Gli ultimi non hanno bisogno di alcun concetto puro dell’intelletto, ma soltanto del nesso logico delle percezioni in un soggetto pensante. Laddove i primi richiedono sempre, oltre le rappresentazioni dell’intuizione sensitiva, ancora dei peculiari concetti originariamente generati dall’intelletto, i quali appunto fan sì che il giudizio di esperienza sia oggettivamente valido.59 E non sembra essere un caso che la distinzione tra i due tipi di giudizi sia introdotta parlando proprio del principio di causalità: Un giudizio di percezione non può mai valere come esperienza senza la legge per cui, percepito un evento, questo vien sempre riferito a qualcosa che precede, e a cui esso segue secondo una regola universale; ovvero se mi esprimo così: tutto ciò che l’esperienza mi insegna che accade, deve avere una causa.60 In presenza di una sequenza, la differenza tra giudizi di percezione e di esperienza è dovuta, in aggiunta, alla diversità dei due piani su cui agiscono l’intuizione temporale – semplice successione da un oggetto o da uno stato all’altro – e la seconda analogia – successione dovuta ad una causa (evento). La distinzione tra questi due tipi di giudizi rientra nella già di per sé articolata concezione kantiana dell'esperienza. Tutti i maggiori commentatori hanno notato che 59 60 Kant (1786/2003: 105; 298). Kant (1786/2003: 101; 296). 133 nella prima Critica “esperienza” ha almeno due significati, anche se ci sono diverse sfumature sul senso da attribuire ora all'uno ora all'altro delle due espressioni61. Per esempio, Dicker (2004: 89) si accorge che Kant non usa il termine in modo univoco: «[c]osì ‘esperienza’ potrebbe significare conoscenza empirica o potrebbe significare solo consapevolezza (consciousness)». Il termine “coscienza” di Dicker dovrebbe corrispondere alla “conoscenza di oggetti”, sebbene le due locuzioni sembrano avere sfumature semantiche leggermente diverse. Ben più classica e canonica è l’interpretazione di Beck (1978: 40) il quale, con particolare semplicità, formula questa distinzione: «“esperienza” può voler dire “il materiale grezzo delle impressioni sensibili”, oppure “conoscenza di oggetti”», lasciando trapelare, appunto, la diversa maniera di considerare, da un lato, i dati e, dall’altro, l’organizzazione o la struttura sotto la quale tali dati vengono sussunti. Strawson, dal canto suo, si concentra principalmente su altri aspetti di Kant, ed è su questi che l’analisi mostra tutta la sua originalità. Stando alla lettura strawsoniana, Kant non si limiterebbe ad affermare che l’applicazione del principio causale sia il presupposto per un ordine irreversibile delle percezioni a livello empirico. Secondo Strawson, la conoscenza empirica dell’ordine immutabile di ciò che viene percepito indicherebbe, in aggiunta, l’immutabilità dei rapporti tra gli oggetti che stanno dietro le percezioni stesse, vale a dire le cose in sé, consentendo, pertanto, di andare dal versante epistemologico riguardante i fenomeni a quello ontologico riguardante i noumeni: se l’ordine delle percezioni è concepito come un ordine necessario, allora lo stesso cambiamento o mutamento da A a B viene concepito come necessario, cioè come soggetto a una regola o legge della determinazione causale. In altre parole, si ritiene che il mutamento o cambiamento sia preceduto da una condizione tale che un evento di quel tipo segua invariabilmente e necessariamente da una condizione di quel tipo.62 La maggior parte dei commentatori si rifà a questo brano di Kant (1781/2005: 73; B 1): «Non c’è dubbio che ogni nostra conoscenza incomincia con l’esperienza; da che mai la nostra capacità di conoscere sarebbe altrimenti messa in moto se no da parte di oggetti che colpiscono i nostri sensi [...] in vista di quella conoscenza degli oggetti che si chiama esperienza? Quanto al tempo, pertanto, nessuna conoscenza precede in noi l'esperienza e tutte incominciano con essa». 62 Strawson (1966/1985: 124). 61 134 Stando al testo di Strawson, A e B sono due stati di cose, presumibilmente ciò di cui si ha percezione, e quindi due cose in sé. Tutto ciò porterebbe Strawson alla sua famosa conclusione, resa celebre anche dalla perentorietà delle sua asserzione: «l’argomentazione [kantiana] procede attraverso un non sequitur di grossolanità paralizzanti»63. Lo snodo delle “grossolanità” marcia su due livelli: uno che si potrebbe definire metodologico, ed uno più prettamente concettuale. Quello metodologico riguarda il procedimento appena descritto: secondo Strawson, non si può passare dall’irreversibilità delle percezioni all’irreversibilità degli stati di cose, soprattutto in una prospettiva dicotomica come quella kantiana. In secondo luogo, il non sequitur riguarderebbe difficoltà logiche più profonde, legate naturalmente alle precedenti: si avrebbe uno spostamento da una necessità concepita concettualmente, stabilita su un certo livello (empirico), verso una necessità ontologica, dipendente dalla precedente, che riguarda l'ordine degli stati di cose (“necessità causale”): la necessità invocata nella conclusione dell'argomentazione non è affatto una necessità concettuale; si tratta, piuttosto, della necessità causale di un mutamento che accade, dato uno stato di cose antecedente. Si tratta, in effetti, di una contorsione molto strana, in cui una necessità concettuale che si fonda su un mutamento viene fatta coincidere con la necessità causale del mutamento stesso.64 L’interpretazione di Strawson, come già detto, è stata un traino per ritornare a studiare nuovamente Kant in ambienti angloamericani. Ma lo è stata soprattutto come lettura da controbattere e sconfessare. Per tanti autori, infatti, la “contorsione molto strana” è stata quella operata da Strawson sul testo di Kant. Secondo Allison, ad esempio, le ipotesi strawsoniane riposerebbero su una sorta di realismo trascendentale che non è minimamente imputabile al pensiero critico: Strawson tratterebbe Kant come se quest’ultimo fosse «interessato a fondare una conclusione che riguardi le relazioni causali di cose – e di eventi – ontologicamente distinte sulle 63 64 Strawson (1966/1985: 124). Strawson (1966/1985: 123). 135 caratteristiche delle nostre percezioni (la loro irreversibilità)»65, ignorando del tutto la componente trascendentale dell’impostazione critica. Allison sta cercando di riportare la discussione sulle intenzioni originarie di Kant: il punto di partenza della sua filosofia è proprio un realismo che possiamo chiamare empirico, il quale ha come intento principale quello di porre dei limiti ad una certa metafisica legata ad un tipo specifico di ontologia. A questo realismo empirico si unisce un idealismo trascendentale riguardante le forme del soggetto conoscente. È ciò viene dichiarato in maniera plateale sin dall'Estetica trascendentale, in cui viene esplicitamente negata, ad esempio, la possibilità di un accesso, attraverso l'idealità trascendentale del tempo, ad una realtà che non sia empirica: Le nostre considerazioni insegnano dunque la realtà empirica del tempo, ossia la sua validità oggettiva rispetto a tutti gli oggetti che possano comunque essere dati ai nostri sensi. E siccome la nostra intuizione è sempre sensibile, non potrà mai esserci dato nell'esperienza un oggetto che non cada sotto la condizione del tempo. Per contro contestiamo al tempo ogni pretesa di realtà assoluta, cioè ogni pretesa di inerire in modo assoluto alle cose come loro condizione o qualità a prescindere dalla forma della nostra intuizione sensibile. Le proprietà inerenti alle cose stesse non possono in alcun modo esserci date per mezzo dei sensi.66 La validità oggettiva a cui fa riferimento il testo, non va intesa, come nel caso delle analogie, come validità delle relazioni temporali oggettive a livello concettuale, ma è la validità che si attribuisce a tutto ciò che accede all’interno dell’intuizione temporale. Con un sapore quasi fenomenologico, si ribadisce che tutti gli oggetti che vengono a trovarsi nel senso interno possono, eventualmente, essere accolti all’interno della nostra esperienza, intesa come insieme organizzato. Una volta che il soggetto conoscente ha acquisito delle rappresentazioni, si può dubitare, casomai, che esse siano in una successione oggettiva, ma non si può dubitare che esse siano, oggettivamente, materiale per una possibile esperienza. A questo livello l’attività temporale è, per così dire, indiscutibile. 65 66 Allison (1983/2004:255). Kant (1781/2005: 110; A 35-6/B 52). 136 Anche i problemi inerenti all’irreversibilità, da cui era partito il ragionamento di Strawson, erano del tutto presenti a Kant. Ci sono passaggi nella prima Critica che illustrano come non si possa passare da un’irreversibilità delle percezioni a quella degli oggetti sui quali le percezioni si fondano67. Ad esempio, Kant sembra rendersi pienamente conto della differenza riguardo al concetto di oggetto che hanno gli idealisti rispetto a quella propria dei realisti trascendentali. Una tale differenza viene illustrata alla luce della sua distinzione tra fenomeno e cosa in sé: Se i fenomeni fossero cose in sé, nessuno sarebbe mai in grado di stabilire, sulla scorta della successione delle rappresentazioni del loro molteplice, in qual modo tale molteplice sia connesso nell’oggetto. Ma in realtà noi non abbiamo a che fare se non con le nostre rappresentazioni; ed è assolutamente al di là della nostra sfera conoscitiva determinare in qual modo le cose possono stare in sé stesse.68 Nella vasta platea delle obiezioni sollevate contro Strawson, Guyer compie un passo in più con una replica precisa e puntuale che cerca di colpire la sua ricostruzione dell’impiego della seconda analogia. Strawson formulerebbe implicitamente tre premesse: in primo luogo, egli presuppone «la sequenza di rappresentazioni»; di seguito, stabilisce «che ogni rappresentazione stia nella stessa relazione temporale con il suo oggetto»; infine, ne deduce che «gli stati di cose oggettivi siano davvero ordinati come lo sono le loro rappresentazioni»69. Ma Guyer fa notare che «l'argomento di Kant per la causalità tra gli stati di oggetti inizia precisamente dal rifiuto delle due premesse di tale deduzione»70. È infatti difficile capire, senza che si sia stabilito l'ordine della successione oggettiva, quale sia l'ordine delle percezioni di tale successione: 67 Guyer sottolinea come l'ordine oggettivo e l'indifferenza di ordine siano proprio ciò che stiamo cercando e che non può essere ammesso come punto di partenza: «non essendo direttamente deducibile dalla sequenza Ar-allora-Br la sequenza A-allora-B, la sequenza stessa Ar-allora-Br deve essere deducibile dalla sequenza A-allora-B. E, sicuramente, poiché la medesima sequenza A-allora-B non è direttamente data, ciò può essere dedotto solo da una legge la quale detti che, nelle date circostanze, B deve venire dopo A. Ecco una legge che davvero faccia collegare A a B e non solo Ar a A e Br a B; e ecco il vero senso in cui “dovrò dunque inferire la successione soggettiva dell'apprensione dalla successione oggettiva dei fenomeni” (A 193/B 238)». Guyer (1987: 257). 68 Kant (1781/2005: 227; A 190/B 235). 69 Guyer (1987: 256). 70 Guyer (1987: 256). 137 le leggi causali che governano i meccanismi della percezione non potrebbero essere confermate indipendentemente da determinate conoscenze riguardo l'ordine di stati di cose oggettivi – così quei tipi di leggi non potrebbero essere acquisiti indipendentemente dalle leggi con cui potevano essere derivate le sequenze degli stati oggettivi delle cose stesse.71 In definitiva, tutti gli autori sin qui citati stanno rinfacciando a Strawson, banalmente, di non aver capito Kant: quest’ultimo era ben consapevole che non si possa passare da stati epistemologici necessari a stati ontologici necessari che riguardano le cose in sé. Ciò che viene contestato, quindi, non è tanto il non sequitur, bensì che in Kant ci sia effettivamente un non sequitur. Nelle discussioni precedentemente illustrate, sono state sfiorate molte tematiche importanti che potrebbero fornire diversi suggerimenti per le considerazioni di cui ci si intende occupare qui. Purtroppo, né Strawson né i suoi commentatori vi si soffermano a lungo. In primo luogo, ci si potrebbe concentrare, da una prospettiva un po’ più laterale, sui due tipi di successione che entrano in gioco nel rapporto tra seconda analogia e tempo: si è visto che, da una parte, abbiamo la successione oggettiva data dal principio dell’intelletto, mentre, dall’altra, quella soggettiva di cui si occupa principalmente l’intuizione temporale. Parlando di ciò, Strawson afferma: solo la possibile distinzione tra l'ordine temporale soggettivo delle percezioni e i rapporti temporali degli oggetti, di cui le percezioni sono percezioni, può dare un contenuto alla nozione generale dell'esperienza di una realtà oggettiva e rendere, quindi, comprensibile la possibilità della stessa esperienza. Evidentemente, una – o la – nozione-chiave di questo problema è quella degli oggetti che, benché non siano effettivamente percepiti, sono sempre oggetti di percezione possibile e coesistono – o esistono nello stesso tempo – con oggetti di percezione effettiva.72 71 72 Guyer (1987: 257). Strawson (1966/1985: 127). 138 Strawson, in questo passo, considera come esperienza genuina solo ciò che viene regolamentato da principi e categorie. Su una concezione simile di esperienza – strettamente legata alla griglia concettuale kantiana e dunque, a fortiori, alle discipline scientifiche – e su un presunto rapporto di dipendenza della sensibilità dall’intelletto, dove tutto ciò che ci proviene dai sensi appare destinato ad essere sussunto sotto una categoria, alcuni commentatori anglofoni sembrano ricalcare le orme di certe scuole neokantiane. Invece, come mostra l’esempio della casa, non solo il soggetto conoscente ha a che fare di continuo con sequenze non oggettive e reversibili, ma esse, presumibilmente, sono la stragrande maggioranza. La poca attenzione dedicata alle sequenze soggettive può essere giustificata dal fatto che la Ragion pura si concentri principalmente sulle serie che sottostanno al principio di causalità, su cui si basano, in ultima istanza, le discipline scientifiche: sono quest’ultime ad aver bisogno di una giustificazione metafisica che tenga presente le ben note obiezioni di Hume. Le sequenze soggettive, dal canto loro, non sembrano porre grossi problemi e per questo vengono trattate meno accuratamente. Che poi dalle sequenze soggettive si possa passare, in seguito, a quelle oggettive, come prospettato nei Prolegomeni, non significa infatti che debbano tutte, prima o poi, essere sussunte sotto una categoria o che la sensibilità non abbia una sua specifica area di competenza. Alle serie reversibili si affiancano, ma non si sostituiscono, quelle irreversibili in cui interviene il principio di causalità. Anche la rilevanza data all’intelletto non può essere tradotta in un suo coinvolgimento immediato e costante a livello della sensibilità: i principi a priori del primo, infatti, non hanno a che fare direttamente con il procedimento intuitivo. Inoltre, il tempo non può essere scavalcato in certe sue funzioni logiche indispensabili, come quella di fungere da base per la progressione o la successione in generale. La sensibilità e l’intelletto, pertanto, devono operare in sincronia su due piani epistemologici differenti, quello sensibile e quello concettuale. Ricapitolando, all’intuizione temporale possiamo assegnare la capacità di sviluppare le successioni in generale, lavorando al livello della sensibilità, tra le percezioni; mentre la seconda analogia si occupa, nello specifico, delle successioni oggettive e concettuali, le quali appartengono al livello dell'esperienza, intesa come insieme organizzato di rappresentazioni. 139 Il rapporto tra epistemologia ed ontologia in Kant, è, ugualmente, un punto ricorrente in Strawson, ma non sembra che abbia appassionato o alimentato molte repliche da parte dei commentatori anglofoni. Tutta l’impostazione di Kant si basa su una struttura epistemologica che dia accesso ad un particolare tipo di ontologia e quindi di metafisica. Come evidenziato in precedenza, l’epistemologia kantiana si basa su una sorta di realismo empirico: l’ontologia rispecchia quindi una realtà empirica e fenomenica che si accorda con le forme a priori del soggetto conoscente. Ma, così facendo, si evoca la possibilità che ci sia, a fianco di essa, un’altra ontologia, immanente e relativa alle cose in sé. Per questa non è possibile stabilire un’epistemologia adeguata attraverso la quale accedervi. Credere il contrario equivarrebbe a commettere lo stesso errore di Strawson, il quale cerca di sottolineare il dualismo soggettivo/oggettivo come risultato, tra le altre cose, di un errato rapporto tra epistemologia ed ontologia, inserendo tali dicotomie all’interno di una ricostruzione che non è attribuibile a Kant. Fin tanto che con le sue condizioni epistemiche il soggetto conoscente si rivolge al mondo esterno, queste distinzioni sembrano reggere; tuttavia, è all’interno del soggetto conoscente stesso che il confine tra un’ontologia fenomenica o empirica ed una immanente non sembra così netto. Ed è qui che nascono molti dei problemi relativi al tempo: l’intuizione temporale ha una sua valenza epistemologica forte che si affianca ad un’altrettanto robusta portata ontologica, dovuta, principalmente, al suo essere forma immediata del senso interno e forma mediata di quello esterno. Tuttavia, i vari commentatori angloamericani, concentrandosi principalmente sulla seconda analogia, perdono di vista il tempo come chiave di lettura per il rapporto tra epistemologia ed ontologia. Dunque, a quale ontologia si riferisce il tempo? Per come è pensata l’intuizione temporale sembra quasi che la si possa collocare in una posizione molto prossima ad un’ontologia immanente. Ma che possa spingersi fin dentro quelle zone sembra escluso dal modo in cui sono pensate funzioni quali l’appercezione e l’apprensione che abbiamo esaminato nel secondo capitolo. Stupisce, comunque, che questi vari livelli siano costantemente sotto gli occhi di tutti ma che, una volta di più, vengano ignorati, mettendo in secondo piano sia l’intuizione temporale sia i suoi importanti risvolti ontologici. 140 Tutto questo è forse ancora più evidente se si passa ad osservare il rapporto tra il tempo e la prima analogia, dato che alcuni autori evidenziano una costante convergenza tra la struttura dell’intuizione temporale come forma del senso interno e le caratteristiche della realtà fenomenica che si cerca di sussumere sotto il concetto di sostanza. Analizzando questo rapporto potremo, per di più, soffermarci proprio sulla struttura del tempo: da quanto affermato fin qui, sembrerebbe che il tempo, ontologicamente ed epistemologicamente, possa essere pensato come una sequenza, una linea che si protrae verso un’unica direzione. Le cose stanno effettivamente così? Alla struttura temporale non può essere assegnata nessun’altra forma? Ci sono alcuni brani nella prima Critica che, effettivamente, rimettono in discussione quanto, fino ad ora, sembrava essere un punto fermo. III. 5. Tempo e analogie: permanenza temporale. La prima analogia è il “Principio della permanenza della sostanza”: Tutti i fenomeni sono nel tempo, nel quale soltanto, come sostrato (forma permanente dell'intuizione interna), può venir rappresenta tanto la simultaneità come la successione. Il tempo, quindi, in cui dev'essere pensato ogni cambiamento dei fenomeni, rimane e non muta; esso è, infatti, ciò in cui la successione e la simultaneità possono esser rappresentate soltanto come sue determinazioni.73 Il brano introduce in maniera repentina molti elementi – per esempio, il tempo come substrato – che possono essere compresi a pieno solo dopo alcune precisazioni. Innanzitutto, il principio va incontro ad un’esigenza specifica ed ineludibile. Prendiamo un arcinoto esempio di Kant: togliamo dal buio e mettiamo al sole un panetto giallastro; dopo un po’ di tempo, al suo posto troviamo solo una chiazza 73 Kant (1781/2005: 220; B 224-5). Nella prima edizione questo carattere è molto attenuato se non addirittura assente. Il principio, infatti, viene introdotto così: «Principio della permanenza. /Tutti i fenomeni contengono il permanente (sostanza), come l’oggetto stesso, e il mutevole, come sua semplice determinazione, ossia come un modo in cui l’oggetto esiste». E successivamente, all’inizio del paragrafo: «Tutti i fenomeni sono nel tempo. Questo può determinare duplicemente il rapporto dei fenomeni nell’esistenza, in quanto sono successivi o simultanei. In riferimento al primo caso, il tempo è considerato una serie temporale, al secondo, invece, un àmbito temporale» (Kant 1781/2005: 21920; A 182). 141 oleosa; probabilmente non si penserà ad una sostituzione di un oggetto con un altro, ma ad uno stesso oggetto – la cera – in due stati differenti. Affinché il soggetto conoscente pensi ad un cambiamento di stato (ad un evento), si deve presupporre, almeno implicitamente, che ci sia qualcosa che permetta, da un lato, una variazione di aspetto così consistente, mentre, dall’altro, che ci si trovi, sempre e comunque, di fronte allo stesso oggetto (la cera). Ciò è reso possibile dal concetto di sostanza o, meglio, dalla sua persistenza: stando alla prima analogia, si stabilisce che a fondamento di un qualsiasi oggetto vi sia una certa sostanza (nel caso in cui ci siano più attori in gioco si stabilisce una sostanza per ogni ente); la sostanza viene intesa come un substratum immanente su cui si appoggiano e sul quale fanno leva le varie proprietà degli oggetti; essa, inoltre, deve permanere durante tutta la durata del processo in cui si ha il cambio di stato. Avendo ogni processo una durata, immancabilmente la sostanza ha anche – e in questo caso soprattutto – una valenza temporale. Tale caratteristica è fondamentale, per esempio, al fine di verificare se sussistano altri rapporti temporali oggettivi (vale a dire la successione e la simultaneità) tra le percezioni dei fenomeni. Ipoteticamente, quindi, solo dopo che la prima analogia ha svolto il suo compito è possibile, per le altre, svolgere il loro. Ora, un simile insieme di caratteristiche ha fatto pensare che possa esserci una corrispondenza tra le proprietà degli oggetti messe in luce dalla prima analogia e quelle del tempo, inteso come forma del senso interno: come la permanenza della sostanza permette la variazione di stato degli oggetti esterni percepiti, così la forma del senso interno del soggetto conoscente permette di poter ricevere dentro di sé la totalità delle percezioni e delle rappresentazioni che si susseguono continuamente. Ad un occhio attento e ad un lettore memore delle discussioni precedenti, non passeranno inosservate le implicazioni ontologiche dell’intuizione temporale a dispetto della predominante valenza epistemologica della permanenza della sostanza. Per di più, il raggio d’azione in cui operano la prima analogia e l’intuizione temporale sono molto diversi: il principio mira ad un’oggettività epistemologica e, soprattutto, concettuale; invece, la funzione oggettiva del tempo, come abbiamo visto poc’anzi, si adopera affinché ogni fenomeno che entra al suo interno possa, potenzialmente, essere parte di un’esperienza possibile. C’è una qualche 142 corrispondenza tra le due attività, ma le differenze sono importanti. Tuttavia, le affinità evidenziate hanno incoraggiato alcuni autori a spingere la loro ricerca verso una convergenza molto stretta tra le due nozioni. Nel far ciò, sono stati aiutati anche da alcuni riferimenti testuali presenti nella prima Critica. Tra quelli che si possono ritrovare in entrambe le edizioni, ci sono alcune frasi appartenenti allo Schematismo trascendentale: Ciò che scorre non è il tempo, ma è l'esistenza di ciò che muta a scorrere nel tempo; perciò, al tempo, che è in se stesso immobile e permanente, fa riscontro nel fenomeno ciò che è immutabile dell'esistenza, ossia la sostanza, e solo in riferimento ad essa può essere determinata la successione e la simultaneità dei fenomeni nel tempo.74 Le diversità di utilizzo e le differenti facoltà di riferimento, fanno in modo che lo schema della sostanza venga definito in maniera autonoma rispetto al concetto puro corrispondente: affinché esso possa essere determinato, è necessaria «la permanenza del reale nel tempo, ossia la rappresentazione del reale quale sostrato della determinazione empirica del tempo in generale; sostrato quindi che rimane, nel variare di tutto il resto»75. Se lo schema rappresenta un primo passo nel cercare di mostrare i rapporti oggettivi di tempo, è facile capire il riferimento al reale e alla realtà: si hanno due entità, l’intuizione temporale e la realtà, considerati come un substrato permanente ai due poli opposti dell’attività conoscitiva – il lato del soggetto conoscente e quello del mondo fenomenico. Certo, bisogna specificare il tipo di realtà che Kant ha in mente: come precisato nel paragrafo precedente, Kant è un realista empirico. Stando a ciò, il materiale su cui può operare l’attività conoscitiva è il risultato dall’incontro tra i fenomeni e le nostre condizioni epistemiche: ciò che può entrare in contatto con tali condizioni – e qui giocano un ruolo fondamentale lo spazio e il tempo – si può chiamare realtà empirica. Considerazioni che servono come trampolino di lancio per le tesi di coloro che sostengono che il tempo sia permanente e non scorra. In questo gruppo di pensatori, vi è, ad esempio, Allison. Per avvalorare la sua 74 75 Kant (1781/2005: 194; A 144/B 183). Kant (1781/2005: 194; A 144/B 183). 143 posizione, Allison utilizza dei passaggi, mirati e spesso presi isolatamente, inseriti da Kant nella seconda edizione, ad esempio, la definizione della prima analogia introdotta nella seconda edizione76. Eppure, diversamente dalla maggior parte di coloro che fanno leva su quelle aggiunte, egli tenta di allentare i legami tra la prima analogia e le discipline scientifiche. Una tale vicinanza era già stata notata, a suo tempo, da Kemp Smith (1918/1979: 358), in quale afferma: Nella prima edizione, il principio è definito in modo che esprimesse il duplice schema della categoria di sostanza e attributo. Nella seconda edizione è riformulato in una forma molto meno soddisfacente, come il principio scientifico della conservazione (cioè dell’indistruttibilità) della materia. Allison, dal canto suo, sembra interessato solamente alla permanenza temporale ma non alla sua corrispondenza con il principio di conservazione della massa. Il suo peculiare punto di vista di emerge chiaramente quando egli si confronta con l’analisi di Edward Caird. Quest’ultimo sosteneva che, nonostante il flusso continuo dei fenomeni dovesse avere una base tutto sommato stabile, ciò non implicava che il tempo fosse permanente. Con una sorta di paradossale gioco di parole, Caird sembra sostenere che non sia duraturo il tempo stesso, ma ad essere permanente è la condizione in cui esso si trova, vale a dire lo scorrere costantemente: Si potrebbe obiettare affermando che l'espressione “il tempo stesso non cambia” equivale a dire che il trascorrere stesso non trascorre. Fin qui la durata del tempo e la permanenza del cambiamento potrebbero anche voler dire soltanto che i momenti del tempo non cessano di trascorrere e il cambiamento non cessa di cambiare. Perciò un flusso perpetuo “rappresenterebbe” sufficientemente tutta la permanenza che è nel tempo.77 76 Kant (1781/2005: 220; B 224-5). Il passo riportato è in Allison, (1983/2004: 238). Lo stesso passo è citato da Kemp Smith (1918/1979: 359) e. Wolff (1963: 251). Il primo sostiene che quella di Caird non sia un’obiezione conclusiva, mentre Wolff sottolinea come la permanenza del tempo, o meglio il fatto che sia immutabile è proprio ciò che permette di identificarlo con il substrato. Pertanto se sia o non sia immutabile è fondamentale. Nel corso della sua analisi Wolff (1963: 254) tornerà, parlando nello specifico della coesistenza, sul tempo che cambia e che non cambia. 77 144 Secondo Allison, le considerazioni di Caird – soprattutto quella di un tempo come “flusso temporale permanente” – sono vere ma irrilevanti, dato che: Il punto essenziale è che il flusso costante si trova in un singolo tempo. L'affermazione che il tempo sia immutabile equivale all'affermazione che esso mantenga la sua identità come un unico e uno stesso tempo (schema di riferimento temporale) attraverso tutto il cambiamento. Il massimo di cui possa essere accusato Kant qui è una mancanza di chiarezza sebbene sia difficile immaginare cos'altro potrebbe aver voluto dire.78 Tutto ruota attorno a cosa viene considerato un “singolo tempo”: Allison, presumibilmente, ha in mente il tempo oggettivo, cioè l’insieme delle relazioni temporali tra i fenomeni che si ha dopo l’intervento delle analogie. Ma il tempo permanente può essere visto anche da un’altra prospettiva. Tra coloro che sostengono la fissità temporale, l’esponente forse più illustre e notevole è, anche in questo caso, Heidegger. Anch’egli sostiene che il tempo sia permanente, ma vi giunge attraverso un percorso del tutto personale. Inizialmente, egli fa riferimento ad alcuni brani che si trovano nella Deduzione trascendentale e, nello specifico, ad alcune parti in cui si parla dell’Io penso, il quale «costituisce il correlato di tutte le nostre rappresentazioni» e viene definito «stabile e permanente»79. Aiutandosi con varie affermazioni di Kant80, alcune delle quali citate in precedenza, Heidegger accosta la proprietà della permanenza temporale alla dimensione o, sarebbe meglio dire, all’estasi del presente. Sarebbe quest’ultima a denotare il tempo stesso, la sua essenza come «veduta pura del presente in generale», la quale, a sua volta, si fonda sull'Io permanente come «tempo originario»81. Sembra così precludersi definitivamente la strada alla successione temporale: «se il tempo, come autoaffezione pura, fa sorgere il puro succedersi della serie di ‘adesso’, questo suo derivato, percepito per sé solo nell'abituale “computo del tempo”, non può 78 Allison (1983/2004: 238). Kant (1781/2005: 655, A 123). 80 Heidegger (1929/2006: 165). 81 Heidegger (1929/2006: 166). Per “veduta pura” si intende un'operazione compiuta dell'immaginazione trascendentale attraverso la quale tale facoltà procura un'immagine. Cercando si semplificare, potremmo dire che questa immagine funge da orizzonte, è la premessa per ogni esperienza e, nel caso specifico dell'intuizione temporale, la premessa per ogni oggetto percepibile. 79 145 assolutamente soddisfare all'esigenza di una piena determinazione della sua essenza»82. Heidegger ha comunque il coraggio di non passare sotto silenzio i contrasti emersi con altre parti dell’opera, in cui si parla apertamente di un tempo che scorre, sforzandosi di venirne a patti. Egli stesso, addirittura, scrive di un tempo come sequenza, come progressione di unità: «Il tempo “scorre costantemente” come successione pura della serie di 'adesso'»83; «nell'orizzonte entro il quale noi “teniamo conto del tempo”, quest'ultimo dev'essere assunto come pura serie di ‘adesso’»84; anche l'immagine del tempo era stata riconosciuta come una sequenza continua di “adesso”85. Come mettere insieme le due cose? Inizialmente la risposta di Heidegger assomiglia molto ad un gioco di parole, simile a quella elaborata da Caird e ripotata in precedenza: «Il tempo, come pura successione di “adesso”, è adesso in ogni tempo. È adesso in ogni “adesso”»86. Sembra che Heidegger si riferisca a ciò che, nello scorrere di ogni istante, rimane uguale, chiamando in causa la condizione di attualità insita in ogni attimo, l’estasi del presente propria di ogni momento. Il tempo è così partecipe di tutti gli adesso che scorrono, «come successione di “adesso”, è un “adesso”, è sempre anche un altro “adesso”. Come veduta del permanere, esso offre parimenti l'immagine della variazione pura nel permanere»87. È osservando il tutto da un punto di vista diverso, Heidegger arriva infine a declinare in maniera alternativa la permanenza temporale: «grazie al suddetto carattere essenziale – esser adesso in ogni “adesso” – [il tempo] offre, invece, la veduta pura di ciò che può definirsi il permanente in generale»88. Se anche uno dei più intransigenti – almeno su questi temi – commentatori di Kant non ha potuto soprassedere le parti della prima Critica in cui si afferma che il tempo scorre, si può capire con quanta evidenza tali riferimenti testuali si presentino a quei pensatori anglofoni che hanno finalità diametralmente opposte a quelle di Heidegger. Essi sono mossi principalmente dal voler collegare l’intuizione temporale all’immagine che ne danno le discipline scientifiche, soprattutto la fisica newtoniana. 82 Heidegger (1929/2006: 166-7). Heidegger (1929/2006: 150). 84 Heidegger (1929/2006: 152.) 85 Si veda, ad esempio, Heidegger (1929/2006: 50; 93). 86 Heidegger (1929/2006: 96). 87 Heidegger (1929/2006: 96). 88 Heidegger (1929/2006: 96). 83 146 Non sorprende quindi che tra di loro ci sia Friedman. Quest’ultimo non entra nel merito o meno della permanenza dell'intuizione temporale, tuttavia Friedman utilizza spesso l’esempio della linea che si sviluppa costantemente come immagine del tempo: una tale similitudine accentua inevitabilmente gli aspetti di successione e scorrimento, presupponendo implicitamente una costituzione, per così dire, fluida o scorrevole dell’intuizione temporale. Ciò emerge, come abbiamo già avuto modo di vedere, sin dall’Estetica, in cui il tempo, non solo veniva paragonato ad una linea che si estende all’infinito, ma gli venivano attribuite tutte le caratteristiche proprie della linea, tranne la simultaneità delle parti poiché le unità temporali sono da considerarsi successive89. I paragoni tra le rette e il tempo sono molti e sono presenti anche nell'Analitica degli elementi: «noi non possiamo rappresentarci il tempo – che pure non è per nulla un oggetto dell'intuizione esterna – altrimenti che per mezzo dell'immagine di una linea nel mentre la tracciamo»90. E, sempre nella Deduzione trascendentale dei concetti puri dell'intelletto, come abbiamo visto in precedenza, si afferma che è stando attenti alla sintesi del molteplice che diventa possibile rappresentare il tempo come una linea retta91. Oppure, nelle Anticipazioni della percezione, parlando di “punti” e di “istanti”, viene detto: A quantità di questo genere si può dare anche il nome di fluenti, in quanto la sintesi (dell'immaginazione produttiva) nella produzione di esse è un processo nel tempo, tale che la sua continuità è designata in particolare con il termine «fluire» (scorrere).92 Nell'Osservazione generale sul sistema dei principi si possono trovare degli accenni all’uso delle leggi della meccanica pura, secondo la procedura descritta in precedenza. In particolare, è mediante le leggi fisico-matematiche, le quali governano i moti degli oggetti esterni, che si riesce ad avere un’immagine del tempo: «per concepire gli stessi mutamenti interni, siamo costretti a raffigurarci il tempo quale forma del senso interno, mediante una linea, e il mutamento interno mediante il 89 Kant (1781/2005: 108, A 33/B 50). Kant (1781/2005: 177; B 156). 91 Kant (1781/2005: 176; B 154). 92 Kant (1781/2005: 212; A 170/B 211-212). 90 147 tracciamento di questa linea (movimento)»93. Friedman, all’interno di un quadro simile, ha inoltre il merito di approfondire la differenza di ruoli tra lo spazio e il tempo: «Lo spazio e il tempo, come mere forme d'intuizione, costituiscono una sequenza monodimensionale di spazi euclidei tridimensionali: una struttura dello spazio-tempo quadridimensionale comprendente una disposizione monodimensionale di “piani di simultaneità” tridimensionali»94. Attraverso queste parole si ha la sensazione di una staticità propria dello spazio opposta al tempo e alla sua monodimensionalità dinamica, vista come successiva o “sequenziale”. Quella di Friedman non è una semplice aggiunta, ma serve come importante distinguo dopo che lo stesso Kant ha inserito nella seconda edizione un passaggio in cui sembra legare la permanenza allo spazio (forse spinto da un sussulto di cartesianesimo, dovuto alle ragioni esposte nel primo capitolo). Ma, così facendo, anche lo spazio si candida al medesimo ruolo di substratum, come si evince dall’Osservazione generale sul sistema dei principi: Per fornire al concetto di sostanza qualcosa di permanente nell'intuizione, che gli corrisponda (e testimoniare in tal modo la realtà oggettiva di questo concetto), è richiesta un'intuizione dello spazio (della materia), giacché solo lo spazio è permanentemente determinato, mentre il tempo, e con esso tutto ciò che si trova nel senso interno, scorre costantemente.95 Un tema che aveva attirato anche l’attenzione di Guyer. Quest’ultimo, infatti, cerca di stabilire chi, tra il tempo e lo spazio, possa essere il candidato più idoneo a svolgere il ruolo di substrato. Guyer è inoltre tra i pochi commentatori anglofoni che analizza un po’ più in profondità il problema della poca chiarezza – se non proprio della contraddittorietà – dei testi kantiani. Tuttavia la questione viene approcciata quasi esclusivamente a livello espositivo e il commento alle citazioni, a favore o contro la permanenza dell’intuizione temporale, non sembra sollevare alcuna questione teoretica. I temi qui discussi vengono introdotti proprio nella parte in cui è presa in esame la prima analogia. Guyer (1987: 280) accetta i presupposti kantiani 93 Kant (1781/2005: 262-3; B 292). Friedman (1994a:199 n. 50). 95 Kant (1781/2005: 262; B 291). 94 148 secondo i quali «il tempo stesso “rimane e non muta”» ma, a causa della sua ben nota impercettibilità, «la sua permanenza deve essere rappresentata da qualcosa di permanente nella percezione che sia il suo “substratum”»96 e che sia utile nell’intuizione degli oggetti esterni. Affinché l’operazione giunga a buon fine, Guyer sembra ipotizzare una collaborazione tra le due forme a priori della sensibilità. Nella Ragion pura, infatti, si sostiene che «per percepire un certo oggetto “è richiesta un'intuizione nello spazio (della materia)” perché “solo lo spazio è permanentemente determinato, mentre il tempo, e con esso tutto ciò che si trova nel senso interno, scorre costantemente”»97. Guyer sembra accorgersi che qualcosa non quadra nella raccolta di citazioni kantiane che propone al lettore. Ed infatti poco dopo dichiara: «[q]uesta affermazione è completamente oscura (utterly opaque). [...] come abbiamo visto, la prima analogia rappresenta preminentemente un argomento che si apre niente meno che con la premessa che il tempo sia permanente anche se non percepibile»98. Ciononostante, poco dopo queste osservazioni, Guyer lascia cadere l’argomento e non approfondisce oltre. Eppure, in precedenza, egli si era reso ben conto dell’importanza dei termini “permanente” e dell’avverbio corrispondente “permanentemente” (in tedesco beharrlich/beharrlicher). Guyer (1987: 280) vi si era infatti soffermato durante l’esame di un passo di grande rilevanza, quello che Kant stesso aveva definito, come riportato all’inizio del capitolo, l’unica vera integrazione e ampliamento rispetto alla seconda edizione99. La sua analisi, in particolare, si concentra principalmente sul sostantivo sopraindicato: La parola usata da Kant è beharrlich. Potrebbe essere preferibile tradurla con “duraturo” (enduring), dato che l'implicazione fondamentale della prima analogia – stando alla quale la conoscenza empirica dell'alterazione richiede almeno l'ideale regolativo di qualcosa genuinamente permanente (permanent) 96 Guyer (1987: 283). Guyer (1987: 286). I passi della prima Critica sono presi da Kant (1781/2005: 262; B 291). 98 Guyer (1987: 286). 99 I passi originali in tedesco sono:«meil der Raum allein beharrlich beftimmt, die Zeit aber, mithin alles, mas im inneren Sinne ift, beftänbig fließt» (Kant 1781/1968, Vol. III, 200; B 291);«Orfcheinungen find in der Zeit, in melcher als Substrat (als beharrlicher Form der inneren Unfchauung) das Bugleichfein fomohl als die Folge allein borgeftellt merden tann»( Kant 1781/1968, Vol. III, 162; B 224). 97 149 piuttosto che sostanze soltanto relativamente durature (enduring) – qui non è realmente richiesta. Ma poiché, come abbiamo visto, la permanenza (permanence) ideale della sostanza è, di fatto, una conseguenza legittima dell'argomento di Kant tratto dalle condizioni per la conferma empirica del cambiamento, non ci sarà niente di male nel mantenere qui quella traduzione di beharrlich che Kemp Smith, in ogni caso, ha reso canonica.100 I due termini inglesi, “permanent“ – che potremmo rendere in italiano con “permanente” – e “enduring“ – che invece tradurremo con “duraturo” o “durevole” – nell'uso di Guyer propongono sfumature semantiche diverse101: usando la prima espressione si ha l'idea di qualcosa di fermo e di immobile, che è stato e rimarrà tale; con “duraturo”, invece, sembra si accentuino le caratteristiche che ci portano a considerare il tempo come qualcosa che protrae se stesso per una durata non quantificabile, senza sapere se continuerà o meno a farlo, se l'abbia fatto sin dalla usa origine, o se questa sua produttività continua renda addirittura impossibile risalire ad un punto di partenza. Ricapitolando, Guyer ha sotto gli occhi dei passi molto noti che esprimono, da un lato, un tempo permanente/duraturo e, dall'altro, un tempo che scorre; egli si rende conto che la nozione di “permanente” (beharrlich) va chiarita meglio e necessita di alcune precisazioni; sempre Guyer analizza dei brani che sono stati la spia, per Kant, di insicurezze profonde, le quali si sono perpetuate e si sono ripresentate fin dopo la pubblicazione della seconda edizione (come intendere altrimenti una nota nell’introduzione scritta quando il corpo principale dell’opera era già stato editato?); eppure tutto ciò non lo spinge ad un’analisi serrata e diretta della nozione “tempo”. Nonostante l’attenzione e le precisazioni, in Guyer sembra farsi di nuovo largo il tipico atteggiamento di tanti filosofi anglofoni: il tempo in Kant non viene elevato a tema centrale, degno di un’analisi individuale e particolareggiata, ma 100 Guyer (1987: 452, n 1). È importante distinguere tra i due termini perché, nel dibattito analitico contemporaneo, “permanet” non è molto usato, mentre “enduring” fa capo ad una distinta corrente di pensiero sul modo di intendere la persistenza attraverso il tempo e il cambiamento detta tridimensionalismo o endurantismo. Stando a questa prospettiva, gli oggetti tridimensionali interi persistono e sono interamente presenti in ogni istante di tempo. Ad essa si oppone il quadri-dimensionalismo o pedurantismo, stando al quale gli oggetti sono quadridimensionali, hanno cioè una parte temporale che si distingue in ogni istante della loro esistenza. Ringrazio Claudio Calosi per i preziosi suggerimenti e delucidazioni su questo punto. 101 150 viene esaminato in seconda battuta, a seguito di discussioni riguardanti soprattutto lo spazio o le analogie. Forse il pericolo maggiore nell’approccio a questi testi e a queste problematiche è proprio un tale atteggiamento “alla Guyer”. Per cercare di invertire questa tendenza, si potrebbe iniziare tentando di capire se il tempo scorra o meno, rispondendo, almeno, alla domanda sulla prima analogia da cui si era partiti. Ciò che viene detto qui di seguito è un tentativo di venire a patti con quanto affermato da Kant, ma è un tentativo a maglie molto larghe che non possono tenere insieme tutti i brani, i passaggi o le varie ricostruzioni, i quali, posti uno accanto all’altro, portano, quantomeno, ad alcune contraddizioni implicite. Il numero dei passi elencati (a cui è possibile aggiungere quelli in cui si parla del trascorrere del tempo riferito al concetto più generale di “serie”) sembrerebbe rafforzarne il punto di vista di coloro che sostengono lo scorrimento temporale. A ciò si aggiungono alcune caratteristiche ritenute “morfologiche” dell’intuizione temporale, come l’essere considerata una serie, che pongono rimedio a debolezze epistemologiche. Inoltre, come abbiamo già accennato, alcune proposizioni sembrano essere state formulate e aggiunte appositamente nella seconda edizione al solo ed unico scopo di accentuare la corrispondenza tra la prima analogia e la legge di conservazione della massa. Si è pertanto portati a credere che Kant sottolinei la permanenza temporale unicamente in quelle sezioni della Critica che hanno a che fare con il principio o con lo schema della sostanza, in modo che si abbia un parallelo tra i due poli della conoscenza: un soggetto la cui forma del senso interno, l’intuizione temporale, è fissa e immutabile, a cui fanno da contraltare delle sostanze a fondamento dei fenomeni (intesi a livello epistemologico) a loro volta permanenti e stabili. Eppure, i sostenitori in toto della permanenza temporale, potrebbero sottolineare che ciò che viene detto in certi passaggi dell’Analitica e dello Schematismo viene affermato fin dalla prima edizione, quando la volontà di legare le condizioni epistemiche alle discipline scientifiche era meno forte. In più, potrebbero far notare che la quantità dei brani o dei riferimenti, soprattutto per un autore come Kant, non significa molto. I passaggi in cui si accenna allo scorrimento temporale sono, in qualche modo, collegati ad altre nozioni (spazio e seconda analogia) le quali 151 si prestano bene, in maniera chiara ed immediata, alle esemplificazioni; il volgersi all’interno, invece, significa addentrarsi in un percorso accidentato e la parsimonia mostrata da Kant nel riferirsi a questi aspetti dell’attività temporale potrebbe indicare una sua cautela al fine di non creare ulteriori ed inutili fraintendimenti. A queste considerazioni preminentemente esegetiche, si può tentare di rispondere spostandoci su di un piano più teorico. Kant sta parlando di sostanze, sia che vangano considerati gli schemi, sia che vengano considerati i concetti. Abbiamo anche evidenziato come un concetto che si possa definire veramente tale, punta alla formulazione di una definizione che indichi in maniera precisa e pregnante la sua intensione – si è tentati di dire, in maniera fissa e permanente. Si può ricordare che i riferimenti alla permanenza sono preminenti finché ci si riferisce al tempo come senso interno, in rapporto al soggetto conoscente o all’Io. Dunque, apparentemente trascinato dal suo discorso, Kant sembra sostenere che una volta stabilito un substrato fisso ed immutabile per ogni ente, allora anche il soggetto conoscente stesso ha bisogno di un fondamento simile. Ma quale ente può essere considerato sostanza del soggetto conoscente? Non si può certo andare verso le regioni delle cose in sé, inaccessibili per le condizioni epistemiche che si possiedono. In quanto soggetto conoscente, è proprio alle sue condizioni a priori che sembra si debba guardare. In particolare, tra di esse, sarebbe preferibile puntare verso quella che sta alla base delle altre: al tempo in quanto forma del senso interno. E qui, ancora una volta, Kant appare trascinato dal meccanismo che lui stesso ha messo in moto. Sembra quasi che egli sia spinto ad affermare che la forma a priori fondamentale del soggetto conoscente, il tempo, sia permanete perché le sostanze degli enti fenomenici sono permanenti. Se ciò, da un lato, sembra elevare il tempo a ente fondamentale e, quindi, a sostanza del soggetto conoscente, dall’altro sembra condurre Kant ad un errore, questa volta davvero una sorta di non sequitur: dal fatto che la sostanza di un ente, per quanto l’ente sia fondamentale ed importante, sia da considerarsi permanente, non è detto che a livello ontologico l’ente stesso sia permanente. Per quanto io possa aver definito correttamente la sostanza o il concetto di “fiume” esso non smetterà di scorrere. Detto altrimenti, le caratteristiche del livello concettuale, anche se riguardano nozioni a priori, non possono essere assegnate meccanicamente all’ontologia delle nozioni stesse, soprattutto per un ente quale il tempo kantiano che 152 riflette un modo di essere tutto particolare. Nel paragrafo precedente, infatti, si era distinto tra intuizione temporale e tempo in generale, quest’ultimo inteso come concetto oggettivo prodotto dalle analogie. Due entità che devono essere considerate in maniera diversa e non vanno confuse. In primo luogo c’è la forma a priori della sensibilità, di cui Kant ci fornisce un concetto il quale appartiene però a quello che si potrebbe chiamare il livello analitico (definitorio). Oltre a questo, si ha anche il tempo oggettivo, un prodotto dei principi a priori dell’intelletto, da intendersi come la storia, il risultato delle varie relazioni che intercorrono tra i fenomeni. Certo, se si pensa che il compito dell’intelletto è proprio quello di formulare concetti, la situazione si complica. Tuttavia, in questo caso, si può far leva sul fatto che l’intelletto si occupi di concetti e giudizi sintetici facendo rientrare il tempo oggettivo in quell’ultimo insieme. Il contrasto tra due diverse enti che si occupano di settori affini aveva condotto ad indagare il tempo kantiano sotto vari aspetti, portando ad affermare che una definizione come quella di condizione epistemica non fosse del tutto esaustiva per l’intuizione temporale. Quanto ulteriormente esposto fin qui, rafforza, una volta di più, la convinzione che il tempo manifesti delle condizioni ontologiche che non solo sono difficilmente trascurabili dato che, in alcuni casi, reggono il peso della controparte epistemologica, ma che, in aggiunta, esprimono delle caratteristiche apparentemente opposte a quelle espresse dal tempo come prodotto delle analogie. Un possibile riferimento a questa possibilità si ha nelle stesse parole di Kant (1781/2005: 221; A 183/B 226): Il mutamento, infatti, non concerne il tempo in se stesso, ma solo i fenomeni nel tempo […]. Qualora si volesse attribuire al tempo come tale una successione, bisognerebbe escogitare un altro tempo ancora, in cui questa successione trovasse la sua possibilità. Solo in virtù del permanente, l’esistenza, nelle varie parti della serie temporale, acquista una quantità che prende il nome di durata. Nella semplice successione, infatti, l’esistenza è sempre in via di dissoluzione e di ricostruzione e non ha mai la benché minima quantità. Il tempo è una nozione così complicata che Kant avverte quasi l’esigenza di 153 sdoppiarlo. Ciò è dovuto, presumibilmente, proprio al problema di quale ontologia associargli. La risposta apparentemente scontata è che l’intuizione temporale abbia, come corrispettivo, un’ontologia, per così dire, empirica o fenomenica. In questo caso, la struttura del tempo incarnerebbe perfettamente la modalità conoscitiva dell’intuizione che è, per definizione, sfuggevole e che punta a ciò che si ha lì davanti, in quel momento, per poi lasciare subito il passo ad un’altra impressione. L’intuizione è, difatti, per sua natura inserita in una sequenza, in un flusso che scorre costantemente. Il pensiero di un tempo che si sviluppa come linea, come prospettato nell’Estetica, ne rende bene l’idea, al contrario di un tempo permanente, inteso come un contenitore immobile. Quando però il tempo si rivolge a se stesso e al soggetto, sembra che ci si diriga verso un’altra ontologia, quella delle cose in sé, la “radice sconosciuta” che Kant ci ha detto essere intoccabile e da cui è fuggito; verso la quale, tuttavia, fatalmente il soggetto conoscente si rivolge sempre. Servirebbero due tempi, ma Kant sa che non può istituirli e tutte le caratteristiche ricadono sulla stessa nozione. Così facendo, il tempo ha un ventaglio di possibili impieghi e di livelli di azione notevolmente maggiore rispetto a quello di qualsiasi altra nozione a priori. Non si può chiedere alla seconda analogia di operare a livello sensibile o allo spazio di operare direttamente al livello degli schemi trascendentali. Mentre al tempo sì. Nonostante ciò, alcune incongruenze rimangono e Kant le sta coprendo, mi sia permesso di dire, con un coperta un po’ troppo corta. Ma forse, quanto riportato in precedenza, è la lettura dell’intuizione temporale meno traumatica che si possa offrire, anche in base ai riscontri testuali, alle tematiche e ai punti di contrasto emersi tra i principali commentatori di Kant. A questo punto è lecito chiedersi se la discussione fin qui avanzata può suggerire nuovi temi e nuovi spunti per rispondere alla domanda centrale da cui si era partiti: l’analisi del tempo in Kant può gettare nuova luce sul tentativo di porre un argine alle conseguenze di interpretazioni troppo estreme sviluppatesi delle tesi di Quine – o di un Kuhn? Probabilmente la risposta è affermativa, ma non credo che sia una risposta che potrebbe piacere o che piacerà a filosofi la cui tradizione è stata principalmente analitica. Le considerazioni sul tempo in Kant spingono a credere che non sia così facile distinguere, all’interno di un sistema teorico, dove finisca 154 l’ontologia e dove cominci l’epistemologia. L’errore, però, sarebbe quello di sottostimare o di escludere del tutto un qualche tipo di ontologia: senza un’analisi profonda e una distinzione netta tra i due piani, com’è possibile, per esempio, separare in maniera sicura un livello analitico da un livello sintetico? Uno degli intenti e degli impegni che Kant si era addossato, consisteva proprio in ciò, ma, come spero la trattazione fin qui condotta abbia sottolineato, non è forse riuscito a portarlo completamente a termine. III. 6. Il tempo, i tempi. Il lavoro svolto sin qui dovrebbe aver messo in luce i propositi che hanno spinto ad indagare il tempo in Kant. L’intuizione temporale si è rivelata, infatti, un ottimo caso di studio attraverso il quale osservare lo stretto rapporto tra un tipo di epistemologia e di ontologia particolari. Nell’impostazione kantiana, infatti, può essere considerato un componente della realtà esterna solo ciò che può sottostare alle condizioni epistemiche del soggetto conoscente. Ciò, non solo implica, in un certo qual modo, che l’epistemologia e l’ontologia viaggino di pari passo, ma una tale impostazione rappresenta proprio il nucleo della rivoluzione copernicana che Kant opera rispetto alle dottrine filosofiche precedenti. Una svolta che «non implichi né la priorità dello scopo gnoseologico rispetto allo scopo metafisico, né tanto meno l’idea […] che Kant sia rimasto impigliato in una confusione fallace fra epistemologia e ontologia. La rivoluzione kantiana, infatti, si basa sulla distinzione (non sulla confusione) tra l’essere in sé delle cose e la conoscenza che ne abbiamo; ciò che essa fa ruotare intorno al soggetto conoscente sono gli oggetti in quanto oggetti conosciuti, non in quanto cose in sé»102. In particolare, la distinzione kantiana regge molto bene finché ci si riferisce alla realtà esterna. In parte, ciò sembra dovuto non solo alla bontà e alla validità delle condizioni epistemiche, ma anche al collegamento che viene instaurato tra di esse e i presupposti delle discipline scientifiche e delle metodologie di misurazione degli oggetti esterni. Tuttavia, come hanno sottolineato in precedenza le parole dello stesso Kant, non è possibile utilizzare la matematica, e quindi le discipline scientifiche che si basano su di essa, per indagare i fenomeni interni. Addirittura, sembrano difficilmente applicabili ai fenomeni esclusivamente 102 Parrini (2011: 495). 155 interni anche le sole condizioni epistemiche: eccetto rari casi e situazioni particolari, tra i pensieri o i ricordi l’intuizione spaziale o la seconda analogia possono davvero assumere lo stesso valore che hanno per gli oggetti esterni? Quando il soggetto conoscente tenta di analizzare i propri stati interni, o le proprie condizioni epistemiche, con gli stessi strumenti che vengono utilizzati per i fenomeni, non solo si riscontrano minor precisione e puntualità ma diviene difficile stabilire con esattezza cosa possa essere considerato un fenomeno, indebolendo, di conseguenza, anche la distinzione stessa tra i livelli stabiliti con la rivoluzione copernicana. Infatti, sembra quasi automatico che, se si attenua quell’intelaiatura che permette ai fenomeni di diventare materiale empirico, viene a cadere anche la distinzione netta tra ontologia ed epistemologia. Dopo tutto, qui non viene fatto altro che ribadire, in una forma diversa, quella che fu una delle critiche di Schopenhauer a Kant: «[l]a verità è, che sulla via della rappresentazione non si può uscire mai dalla rappresentazione: essa è un tutto chiuso e non ha nei suoi propri mezzi alcun filo, che conduca all’essenza della cosa in sé, da essa toto genere diversa. Se noi fossimo solo esseri rappresentanti, allora la via per la cosa in sé ci sarebbe interamente chiusa. Solo l’altro lato del nostro proprio essere ci può dare una schiusa all’altro lato dell’essere in sé delle cose»103. Anche in questo caso sembra chiaro il richiamo alla componente ontologica del soggetto conoscente. Ciò che si è cercato di fare in più, durante il presente lavoro, è stato mettere in luce come il tramite con cui poter analizzare entrambi i lati del processo conoscitivo potesse essere l’intuizione temporale. Ma, affinché si arrivasse a ciò, era necessario fare chiarezza sul modo di considerare il tempo e le sue funzioni. Una volta affrontati i maggiori nodi concettuali emersi dall’analisi dei commentari anglofoni, si possono aprire vari scenari. Si può semplicemente, per esempio, riaffermare un primato – almeno al livello interno del soggetto conoscente – dell’ontologia sull’epistemologia. Coloro che decidono di intraprendere questa strada, potrebbero ribadire, metaforicamente, la precedenza dell’hardware rispetto al software utilizzato per rapportarci con la realtà esterna: è infatti plausibile imbattersi in un hardware privo di software, ma non è così semplice immaginare il contrario, a meno che non si abbia una concezione molto aleatoria di ciò che si intende per 103 Schopenhauer (1844/2000: 532). 156 “software”. Oppure, contrariamente a Kant, possiamo ritenere che una psicologia empirica sia del tutto plausibile: dopo tutto, lo sviluppo delle neuroscienze, della psichiatria, della fisiologia e della biologia sta lì a confermare che è possibile, almeno fino ad un certo livello, indagare scientificamente i fenomeni interni. La domanda diventa allora: è possibile istituire un rapporto tra i presupposti di queste discipline scientifiche ed un’intelaiatura di tipo kantiano? Si dovrebbe differenziare, cioè, all’interno del soggetto, ciò che vi è di empirico da quello che appartiene al versante “trascendentale”, in modo che ci sia una distinzione di livello tra l’esaminante e l’esaminato. Infine si può tentare di fare quello che hanno fatto gli odierni commentatori di Kant: vedere quanto e cosa è ancora utilizzabile del pensiero di Kant, anche a costo di modificare il modo di intendere le sue condizioni a priori. Il primo passo sarebbe quello di circoscriverne nuovamente le funzioni e le proprietà. Proprio quello che si è tentato di fare con il presente lavoro riguardo all’intuizione temporale, che si trova, in quanto forma del senso interno e forma mediata dei fenomeni esterni, ad essere tra le prime condizioni epistemiche a venir chiamata in causa. Un modo in cui si può tentare di render conto di un diverso e possibile assetto del tempo è quello di metterlo a confronto con problemi caratteristici del periodo attuale. Se, come abbiamo visto, tra gli scopi di coloro che hanno ripreso le tesi kantiane c’è quello di intessere un nuovo tipo di dialogo tra discipline scientifiche e filosofia – un dialogo un cui le due materie siano considerate su due piani diversi, con diversi compiti e finalità – proprio su una nozione come quella di tempo il dibattito può essere fruttifero dato che, negli ultimi anni, tale concetto è stata sottoposto ad un’attenta analisi sia da parte degli scienziati sia da parte dei filosofi. È interessante notare come alcuni indirizzi di studio chiamino in causa concetti e funzionalità affini a quelli emersi nel corso della presente ricerca. Il riferimento è, in particolare, alle conclusioni a cui si è arrivati nel paragrafo precedente, riguardanti l’ontologia del tempo e se esso sia da considerarsi o meno un’entità originaria. Ci sono correnti di pensiero, soprattutto tra i fisici teorici, che mettono sempre più in discussione il tempo come entità individuale distinta: Sono convinto che ci sfugga qualcosa di fondamentale, che tutti stiamo 157 supponendo qualcosa di sbagliato. Se è vero, abbiamo bisogno di isolare la supposizione errata e di rimpiazzarla con un'idea nuova. Quale potrebbe essere il presupposto sbagliato? Secondo me ha a che fare con i fondamenti della meccanica quantistica e con la natura del tempo. […] Ma ho il forte sospetto che la chiave sia il tempo. Sono sempre più convinto che la teoria quantistica e la relatività generale siano entrambe profondamente sbagliate per quanto riguarda la natura del tempo.104 Un modo alternativo di rapportarsi al concetto di tempo, che sembra accomunare vari indirizzi di studio, prevede, al suo interno, tra gli altri, due passaggi molto interessanti e che appaiono riconducibili a quanto detto finora: stando al primo, si devono considerare spazio e tempo come un’unica entità, lo spazio-tempo; quest’entità – e si arriva così al secondo punto – viene ritenuta il “prodotto” di presupposti ancor più fondamentali. Ciò sembrerebbe valere anche per alcuni studiosi impegnati nella ricerca delle stringhe come entità ultime della realtà: stando alle loro ipotesi, «sebbene non si possieda alcuna comprensione del nucleo fondamentale della teoria […] la sua essenza è che lo spazio-tempo [sia] un concetto “emergente”, anziché qualcosa di fondamentale»105. In altri indirizzi di ricerca si è tentato di circoscrivere ancor più dettagliatamente quali sono i presupposti da cui, per così dire, emergerebbero spazio e tempo. Per i nostri scopi, è interessante notare come, per esempio, nella gravità quantistica a loop ciò che rappresenta la base per una corretta analisi della realtà è formato da concetti che molto hanno in comune con le funzioni incontrate parlando del tempo come senso esterno mediato: «[g]li approcci che per il momento risultano migliori combinano queste tre idee essenziali: che lo spazio sia emergente, che la descrizione più fondamentale si discreta e che 104 Smolin (2006/ 2007: 254-5). Anche studiosi di indirizzi completamente diversi rispetto a quello di Smolin nutrono le stesse perplessità. Per esempio, Greene (2004/2006: 415): «Un'altra possibilità è che lo spazio e il tempo ordinari non cessino brutalmente di avere significato sotto una certa scala, ma che si trasformino gradualmente in altri concetti più fondamentali. […] A scala ultramicroscopica, dunque, il tempo e lo spazio a noi familiari si trasformano gradualmente in un'entità per cui i familiari concetti di durata o lunghezza diventano non applicabili o privi di senso. […] forse si può continuare a suddividere lo spaziotempo oltre la scala di Planck, ma l'operazione a quel punto diventa insensata. Molti fisici che si occupano di stringhe, me compreso, hanno la precisa sensazione che questa seconda ipotesi sia vera, ma per procedere nelle nostre ricerche dobbiamo ancora capire quali siano queste nuove entità a cui lo spazio e il tempo si convertono». 105 Krauss (2005/2007: 269). 158 essa implichi in un modo fondamentale la causalità»106. È interessante notare come, agli ovvi riferimenti a spazio e causa, associabili all’intuizione spaziale e alla seconda analogia, il riferimento alla “descrizione discreta” potrebbe essere associato alla proprietà logica di procedere unità dopo unità: in pratica, non si ha un continuum, ma la base ultima della realtà sarebbe costituita da elementi che si possono accostare l’uno all’altro; situazione simile a quella che caratterizza ciò che è stato chiamato “l’attività logica” dell’intuizione temporale. Oltre a tutto questo, in una situazione simile, le varie funzioni e capacità dell’intuizione temporale vengono, per così dire, scorporate e ridistribuite su altre funzioni e concetti. Quella principale, la successione, sarebbe assunta dalla causa: non si avrebbe un’entità “tempo” che scorre costantemente, ma avremmo molteplici catene causali, collegate le une alle altre, le quali ci forniscono un’idea di successione temporale grazie agli elementi costituenti l’evento posti uno di seguito all’altro; questo scorrere o succedersi continuo viene chiamato tempo. In filosofia, le teorie sulla natura causale del tempo si erano presentate già molti anni fa, soprattutto a seguito delle interpretazioni della teoria della relatività. Per esempio, già Earman (1972: 74) definiva così un certo modo di intendere quel tipo di teorie: La teoria causale del tempo è un tipo speciale di teoria relazionale del tempo. Una teoria relazionale sostiene che non è necessario postulare l’esistenza assoluta degli istanti di tempo per considerare gli istanti come parte di un ente, anch’esso assoluto, il quale sia ritenuto una sorta di contenitore di eventi, la cui esistenza è indipendente dall’esistenza dagli eventi che contiene; piuttosto, si afferma che il tempo non sia nient’altro che oltre e sopra – che sia costituito da o riducibile a – rispetto alla struttura delle relazioni temporali tra gli eventi. Il genere causale di questa teoria afferma che le relazioni temporali possono essere ben definite in termini di “relazioni fisiche”, relazioni che, qualsiasi altra cosa siano, non sono “specificatamente temporali”. Tuttavia, come sostiene Malament (1977: 293), già in quel periodo, un filosofo come Friedman «non vedeva alcuna ragione del perché si sarebbe dovuta adottare una 106 Smolin (2006/2007: 240). 159 teoria causale del tempo». Però, stando al lavoro svolto fin qui, la novità consisterebbe nel sottolineare come, a spingere verso teorie di questo tipo, non sia solo una certa volontà di andare incontro alle più recenti ipotesi scientifiche, ma anche un modo nuovo di considerare la temporalità all’interno del soggetto conoscente. Una temporalità che, al livello di ciò che Kant chiamava senso interno, viene slegata dal concetto di misurazione e associata alla produzione di una successione discreta frutto della spontaneità propria del soggetto: c’è quindi la possibilità di vedere la temporalità come protrarsi avanti, di unità dopo unità, del soggetto conoscente stesso. È importante che le unità siano tra di loro distinguibili. Come si è tentato di spiegare in precedenza parlando del tempo come forma del senso interno, due unità distinte rappresentano già ciò che si può chiamare una successione temporale: essendo l’una diversa dall’altra, possono essere considerate una sorta di coppia binaria, la quale, appunto, non necessità di una misurazione più complessa del computo di due elementi. Ciò non esclude, ma anzi costituisce una base affinché, in seguito, una temporalità così concepita possa avere uno status tanto generale da poter dialogare anche con le ipotesi scientifiche precedentemente esposte. Tuttavia, prendendo spunto dalle quelle teoria fisiche precedenti, qui si avrebbe una temporalità che non presuppone nessun ente “tempo” ontologicamente indipendente: diviso nelle sue proprietà e rese indipendenti quest’ultime, il tempo diventa un fenomeno emergente, ovvero, un complesso di più funzioni le quali, per comodità o metodologicamente, vengono chiamate “tempo”. Seguendo questo filo conduttore, un nuovo rapporto tra epistemologia e ontologia, e una nuova concezione del tempo non sono altro che i presupposti per tentare una riformulazione – l’ennesima – dell’idealismo trascendentale e del realismo empirico kantiani. In un quadro simile, la radice oscura a cui si stava avvicinando Kant sembra diventare un vuoto, un abisso: si chiede all’impianto critico fare a meno della forma stessa del senso interno del soggetto conoscente e di una nozione cardine di tutto il suo impianto gnoseologico. È possibile avanzare una richiesta simile a Kant, che aveva già voltato lo sguardo forse a causa delle limitate possibilità di indagine dell’epoca – la psicologia aveva ancora da arrivare e le rivoluzioni scientifiche erano di là dall’arrivare – forse perché più interessato a sviluppare e portare avanti principi 160 che potessero avere un collegamento con discipline già ben avviate? Eppure, i cambiamenti avvenuti nella seconda edizione, sembrano compiuti quasi più per insicurezza che per paura. Rileggendo oggi le pagine di Kant si ha la costante sensazione che egli abbia visto o pensato più di quanto abbia messo sulla carta. Ciononostante, basta quello che ha messo per iscritto affinché, a più di duecento anni dalla sua morte, si sia ancora qui, a prendere ispirazione da lui. 161 162 Riferimenti Bibliografici. Allison H. E. (1994), «Causality and causal laws in Kant», in Kant and the contemporary epistemology, a cura di P. Parrini, Kluwer Accademy Publishers, Dordrecht, pp. 291 – 307. Allison H. E. (1983/2004), Kant's Trascendental Idealism. An Interpretation and Defense, Yale University Press, New Haven-London 1983; 2a ed. riveduta e ampliata, 2004. Beck, L. W. (1978), Essays on Kant and Hume, Yale University Press, New Haven. Bennett J. (1966), Kant’s Analytic, Cambridge University Press, Cambridge. Bird G. (1962), Kant’s Theory of Knowledge. 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