I. Il Tempo prima e dopo Kant.

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DOTTORATO DI RICERCA IN
FILOSOFIA
CICLO XXVI
COORDINATORE Prof. Stefano Poggi
L'intuizione temporale nei commentari anglofoni alla prima
Critica kantiana
Settore Scientifico Disciplinare M-FIL/01
Dottorando
Dott. Francesco Venturi
Tutor
Prof.ssa Roberta Lanfredini
__________________________
__________________________
Coordinatore
Prof. Stefano Poggi
_______________________
Anni 2011/2014
Sommario
Introduzione. .............................................................................................................. 3
I. Il Tempo prima e dopo Kant. .............................................................................. 17
I.1. Introduzione. ........................................................................................................ 17
I.2. Il tempo prima di Kant: Leibniz e Newton. ......................................................... 18
I.3. Il Tempo al tempo di Kant. .................................................................................. 28
I.4. Il tempo dopo Kant. ............................................................................................. 40
I.5. Il tempo di Kant al nostro tempo. ........................................................................ 48
II. Il tempo come forma del senso interno. ............................................................ 55
II.1. Introduzione. ....................................................................................................... 55
II.2. Il tempo tra facoltà e capacità. ............................................................................ 57
II.3. Il tempo come senso interno nell'Estetica trascendentale. ................................. 62
II.4. Apprensione. ....................................................................................................... 67
II.5. Dall'autocoscienza all'appercezione. .................................................................. 70
II.6. Appercezione. ..................................................................................................... 78
II.7. Il ruolo dell'Immaginazione e lo Schematismo. ................................................. 87
II.8. Sintesi. ................................................................................................................ 97
III. Il tempo nel suo uso esterno. ........................................................................... 107
III. 1. Introduzione. .................................................................................................. 107
III. 2. Il passaggio dalla prima alla seconda edizione. ............................................. 108
III. 3. Tempo e discipline fisico-matematiche. ........................................................ 117
III. 4. Tempo e analogie: successione temporale e irreversibilità. ........................... 128
III. 5. Tempo e analogie: permanenza temporale. .................................................... 141
III. 6. Il tempo, i tempi. ............................................................................................ 155
Riferimenti Bibliografici. ....................................................................................... 163
1
2
Introduzione.
Il lavoro che segue ha come intento quello di studiare il modo in cui alcuni
moderni studiosi di Kant hanno analizzato l’intuizione temporale, così come viene
esposta soprattutto nella Critica della ragion pura. Le proprietà che caratterizzano
l’insieme degli autori selezionati sono sostanzialmente tre: in primo luogo, si ha una
restrizione – solo apparentemente – di tipo stilistico, in quanto verranno presi in
considerazione soprattutto coloro che hanno espresso le proprie idee attraverso un
commentario sulla Ragion pura; in secondo luogo, ci concentreremo sugli studiosi
che hanno pubblicato le loro opere dalla seconda metà del Novecento in poi; infine, i
pensatori presi in esame sono angloamericani e/o scrivono in inglese. Le tre
limitazioni sopraelencate permettono, di analizzare una tipologia di autore ben
definita: la presente ricerca si occuperà di chi non si è limitato a cogliere un aspetto o
uno spunto del pensiero di Kant, ma ha ripreso del tutto o in gran parte le sue teorie,
utilizzandole per fronteggiare problemi contemporanei. Tra coloro che si sono
formati in ambienti anglofoni e che si sono confrontati con le tesi kantiane – si pensi
alla tradizione analitica, al pragmatismo o ai filosofi della scienza, senza contare
coloro che sono difficilmente collocabili in un filone specifico – si è cercato di
operare una scelta che non solo porti vantaggi metodologici, ma che sia sostenuta da
forti motivazioni teoriche, accompagnate da importanti evidenze storiografiche.
Nelle pagine di questa introduzione, verrà esposto, a grandi linee, come e perché
Kant è stato ripreso da altre tradizioni filosofiche; si cercheranno di delineare, in
seguito, i motivi che hanno spinto a concentrarsi, tra tutte i possibili testi da studiare,
sui commentari; e, infine, perché, all’interno di questi specifici testi, si è scelto un
tema ben preciso, il tempo.
I motivi della “riscoperta” del testo kantiano in ambito anglofono viaggiano,
di solito, su un doppio binario: da un lato ci sono difficoltà nate in ambito scientifico,
che hanno portato a studiare modi alternativi, da parte dei filosofi, con cui rapportarsi
alle discipline fisico-matematiche; dall’altro si hanno problemi totalmente interni a
indirizzi di studio quali la filosofia della scienza o quella analitica. Michael
Friedman, per esempio, si rende ben conto di entrambi i lati del problema. Friedman
3
(1998: 121) ipotizza che il ritorno a Kant «derivi direttamente dai recenti attacchi
naturalistici rivolti all’autonomia della filosofia dovuti, in particolare, all’opera di
Quine». Ciò che più preoccupa delle teorie quineiane è il loro «naturalismo forte
(hard)» derivato dal «rifiuto dell’esistenza di un peculiare dominio di “verità
matematiche o concettuali oggettive” che si collochi completamente al di fuori
dell’ambito delle scienze empiriche naturali moderne»1. Ed è per questo che:
I filosofi contemporanei, insoddisfatti dalla tendenza prevalente a
“naturalizzare” le loro discipline, incorporando anche la filosofia tra le
scienze naturali, sono perciò tornati indietro, verso la filosofia di Kant,
il quale, per primo, ha perciò imposto la richiesta di un compito
distintivo, “trascendentale” che si ponga al di fuori del dominio delle
stesse scienze di primo livello.2
Come suggeriscono le parole di Friedman, a grandi linee, sembra che le cause
principali della ripresa, in tempi recenti, del pensiero critico siano state due: 1) una
netta divisione dei ruoli tra filosofia e scienza, la quale, da un lato, non precluda la
possibilità di una consequenzialità tra i due domini, ma che, dall’altro, non li ponga
su uno stesso livello; 2) il tipo di impostazione gnoseologica che Kant conferisce al
suo impianto: un idealismo trascendentale delle forme conoscitive, legato alla sua
rivoluzione copernicana, che si accompagna ad un realismo empirico. Un tipo di
impostazione quest’ultimo che, unito al punto precedente, permetterebbe – sebbene
non costringa – di partire dalla conoscenza quotidiana per arrivare a quella scientifica
in senso stretto, e che consentirebbe di differenziare sia lo status dei principi
conoscitivi, intesi in senso generale, sia quello dei concetti caratterizzanti le varie
discipline scientifiche.
Un impianto concettuale in cui gli schemi di riferimento siano ritenuti i nodi
di una griglia, attraverso la quale sia possibile passare dalla conoscenza di tutti i
giorni alla descrizione scientifica degli oggetti, è alla base dell’interesse di Wilfrid
Sellars per la filosofia critica. Verso la metà del secolo scorso, il filosofo analitico
1
2
Friedman (1998b: 117).
Friedman (1998b: 112).
4
riprende alcune idee dalla dottrina di Kant e le rielabora, o le sviluppa, in vari passi
delle sue opere. Ad essere recuperata è innanzitutto l’impostazione suddetta, tramite
la quale viene rimarcata, rispetto alle filosofie precedenti, l’originalità del pensiero di
Kant, il quale cercherebbe di sostituire le considerazioni metafisiche sul contenuto
degli oggetti attraverso considerazioni scientifiche3.
Le tesi dei due filosofi sono molto vicine anche per ciò che riguarda il modo
di considerare la sensibilità, tanto che Sellars (1963: 46) afferma candidamente che
«fortunatamente, [la tesi sulla sensibilità] può essere separata dalle altre
caratteristiche, meno attrattive, del sistema kantiano». All’importanza ad essa
riconosciuta si associa però la difficoltà nell’assegnare una condizione ben definita ai
suoi elementi: la sensibilità, infatti, «rende possibile la conoscenza ed è un elemento
essenziale della conoscenza, anche se di se stessa non si sa niente»4. Nonostante la
genericità dello status conferito alle forme a priori della sensibilità5, Kant aveva
tuttavia correttamente riconosciuto allo spazio e al tempo la caratteristica di essere
delle non-cose6.
Nel corso delle sue analisi, inoltre, Sellars sembra accorgersi che anche ai
suoi schemi di riferimento occorrano delle basi adeguate. Neanche in questo caso è
estraneo l’influsso di Kant, il quale viene indicato come colui che per primo ha
riconosciuto la necessità di una conoscenza mediata degli elementi gnoseologici
fondamentali del soggetto, la quale preveda, per prima cosa, la distinzione tra «il sé e
i suoi atti come oggetto trascendente (an sich) e il sé e i suoi atti come oggetto
immanente (fuer mich)»7. Il ragionamento prende spunto, e ruota attorno, a ciò che
dovrebbe essere il fulcro dell’attività conoscitiva di Kant:
l’irriducibilità dell’Io dentro lo schema di riferimento del discorso in
prima persona (e, difatti, anche del tu e dell’egli) è compatibile con la
tesi che una persona può essere descritta esaustivamente – in linea di
principio – in termini che non implicano riferimenti a quel soggetto
logico irriducibile. La descrizione, perciò, invece di usare lo schema di
3
Cfr. Sellars (1991: 100).
Sellars (1991: 46).
5
Sellars (1977a: 9 n 1).
6
Sellars (1977b: 113 n 50).
7
Sellars (1977a: 9).
4
5
riferimento a cui quei soggetti logici appartengono, lo citerà.8
Sembra farsi strada l’idea, in seguito molto battuta, che gli elementi gnoseologici del
soggetto possano essere conosciuti solo attraverso il loro modo di operare, che, cioè,
Kant sia un funzionalista: egli non ci fornisce una descrizione precisa e puntuale
delle sue nozioni, ma le presenta attraverso le cose che fanno o che ci permettono di
fare, vale a dire, tramite il loro funzionamento. In questo modo, tuttavia, se, da un
lato, si sposta tutta l’attenzione sul versante dell’epistemologia, dall’altro, viene
lasciato in penombra proprio ciò da cui era partito il ragionamento, ossia il
fondamento su cui dovrebbero appoggiarsi gli schemi di riferimento. Già da ora è
bene specificare che, nel presente lavoro, parlando soprattutto di autori anglofoni,
con il termine “epistemologia” si intende «indicare quell’area di intersezione fra due
discipline specialistiche (la filosofia della conoscenza, o gnoseologia, e la filosofia
della scienza) la quale si occupa in modo specifico della validità/verità delle nostre
pretese conoscitive, comuni e scientifiche»9.
Tra gli autori più recenti e di un certo peso che hanno inserito elementi
kantiani all’interno dei loro sistemi, non si può non citare John McDowell. Egli,
come Sellars, e in parte per controbattere il suo punto di vista10, importa dalla
filosofia critica soprattutto il dualismo tra schemi di riferimento mentali e mondo:
«Kant deve continuare a occupare un posto centrale nella nostra discussione del
modo in cui il pensiero ha a che fare con la realtà»11. La fonte di ispirazione per
McDowell (1994/1999: 49) è quindi, anche in questo caso, l’impostazione
dell’approccio gnoseologico: «si deve concepire la conoscenza empirica come
cooperazione di sensibilità e intelletto, come fa Kant». Tuttavia, nel far ciò, non è
possibile seguire pedissequamente il modello, dato che oggi alcuni presupposti
kantiani non vengono più ritenuti sostenibili: primo tra tutti, secondo McDowell
(1994/1999: 102) – e a differenza di molti altri filosofi anglofoni – la cornice
trascendentale che fa da contorno a tutta la concezione critica dell’esperienza. La
spiegazione che dà McDowell del perché Kant insista sugli aspetti trascendentali è
8
Sellars (1991: 101).
Parrini (2011: 493).
10
McDowell (1994/1999: 5 n 4).
11
McDowell (1994/1999: 3).
9
6
interessante e mette in luce una linea interpretativa che si sta facendo strada tra gli
odierni commentatori:
L’impianto trascendentale dà l’apparenza di spiegare come possa
esserci conoscenza delle caratteristiche necessarie dell’esperienza. E
Kant pensa che ammettere il soprasensibile sia un modo per proteggere
gli interessi della religione e della morale.12
Si punta, in pratica, ad una possibile continuità tra le opere morali e quelle teoretiche.
Purtroppo, come sarà ribadito in seguito, questo tema potrà solo essere accennato nel
corso dell’esposizione, poiché svierebbe troppo dai nostri scopi attuali.
Gli autori e i testi fin qui citati danno un senso di fermento e di vivida attività
intellettuale intorno alle teorie del filosofo critico. Eppure, il pensiero kantiano, dalla
metà del secolo scorso in poi, non è stato ristudiato affinché alcune sue singole parti
possano essere sfruttate all’interno di speculazioni personali di singoli pensatori.
Come si è detto all’inizio, l’esame sulla Ragion pura è stato portato avanti, inoltre,
tramite vari commentari. Partendo dalle problematiche sottolineate precedentemente
dalle parole di Friedman, chi si impegna nel produrre un commentario sulla prima
Critica sembra essere mosso dalla volontà di testare ampie porzioni del pensiero
teorico kantiano (se non, addirittura, la sua totalità), al fine di osservare quanti e quali
aspetti della filosofia in questione possano essere ancora utilizzabili. Certo, quasi
tutti tendono a concentrarsi solo su determinate parti dell’opera, ma sono spesso
quelle in cui, per loro, si manifesta il nocciolo del criticismo.
La produzione di questo tipo di testi ha alcuni vantaggi ben precisi: in primo
luogo, i commentari sulla prima Critica possono rappresentare quasi una sorta di
“genere letterario” o di filone all’interno della più vasta produzione anglofona. Ciò
permette quindi di non disperdersi tra filosofi della scienza, filosofi analitici e così
via, ma di concentrarsi su di una sorta di corrente di pensiero specifica, al cui interno
si animano dibattiti e si avanzano teorie provenienti anche dall’ambiente circostante.
Un’area di discussione filosofica forse ristretta, ma, allo stesso tempo, permeabile a
molte delle istanze e delle problematiche tipiche dei maggiori indirizzi di studio
12
McDowell (1994/1999: 103).
7
anglofoni: in pratica, grazie a questa metodologia d’indagine si ha una sintesi di ciò
che accade anche al di fuori, il tutto filtrato attraverso il terreno comune della
filosofia kantiana.
Nello specifico, tra i commentari che saranno presi in considerazione, si
tenterà, in primo luogo, di vagliare testi con orientamenti differenti, al fine di avere
più punti di vista e una più vasta obiettività di giudizio. Per esempio, c’è chi si è
interessato maggiormente alla componente trascendentale del soggetto conoscente,
cercando di separarla delle implicazioni scientifiche dell’epoca, ritenute da Kant
sicuramente valide, ma oggi considerate troppo compromettenti – operazione
compiuta, per esempio, da Henry E. Allison nel suo Kant's Transcendental Idealism
ispirato dalle tesi che Gerd Buchdahl espone in Kant and the Dynamics of Reason;
altri, invece, sottolineano proprio la continuità con le discipline scientifiche,
arrivando a modificare, di contro, il modo di intendere i principi a priori kantiani – e
il caso di Michael Friedman e del suo Kant and the Exact Sciences; alcuni osservano
le posizioni kantiane alla luce del commentario di Heidegger, Kant e il problema
della metafisica, traendo ispirazione da entrambi gli autori – si pensi a Charles M.
Sherover, Heidegger, Kant and Time; in più, c’è chi punta ad una lettura prettamente
funzionalistica della prima Critica – ad esempio, Graham Bird, The Revolutinonary
Kant; non mancheranno, infine, opere scritte, ormai diversi anni fa, come Kant and
The Claims of Knowledge di Paul Guyer.
Ma l’opera forse più storicamente importante, con la quale si può dire che
abbia preso l’avvio questo metodo d’indagine al di fuori dell’Europa continentale, è,
naturalmente, quella di Peter Frederick Strawson, The Bounds of Sense (1966).
Sebbene ci fossero già stati in precedenza dei commentari, come quelli di Norman
Kemp Smith (A Commentary to Kant’s “Critique of Pure Reason”) o di H. J. Paton
(Kant’s Metaphysic of Experience), e opere praticamente coeve, come Kant’s
Analytic di Jonathan Bennett, è con Strawson che sembra farsi largo la tendenza ad
utilizzare le pagine di Kant per rispondere a problemi contemporanei e tipici di un
certo tipo di filosofia – nel suo caso, quella analitica13. Come afferma esplicitamente
Anche O’Shea (2006: 521) sottolinea come sia da individuare in questo periodo il punto di svolta
nell’approccio a Kant da parte dei filosofi di tradizione analitica: «dagli anni Sessanta, una delle
maggiori fonti della crescente influenza delle prospettive dichiaratamente kantiane nell’epistemologia
e nella metafisica si è avuta con Strawson […]. Quando [le sue opere] venivano considerate insieme,
13
8
Friedman (1998: 113): «[n]essuno, all’interno della tradizione analitica, ha fatto di
più per risvegliare l’interesse sulla filosofia trascendentale kantiana di P. F.
Strawson». Il testo di Strawson, infatti, oltre a raffrontarsi con molte delle ipotesi
sopraelencate, sembra essere stato un modello, per coloro che si sono apprestati a
scrivere un commentario. Nei testi precedenti dello stesso tipo apparivano più forti
gli influssi di opere simili in lingua tedesca e anche l’impostazione sembrava
leggermente diversa rispetto a quelle più recenti. Per esempio – e ciò non è detto che
sia sempre un fatto positivo – in Strawson è maggiore l’attenzione per gli aspetti
prettamente epistemologici che si scontrano con le possibili implicazioni ontologiche
pur presenti in Kant. Questa tendenza sembrerà accentuarsi nei commentari
contemporanei. L’opera di Strawson è inoltre importante non solo per
l’impostazione, ma anche per i temi trattati, per lo stile e per la metodologia con cui
si approccia alla Ragion pura. Tuttavia, paradossalmente, il libro di Strawson ha
contribuito a sollevare il dibattito su Kant proprio perché, secondo molti, sotto alcuni
punti di vista, il filosofo analitico ha totalmente frainteso certi aspetti
dell’elaborazione intellettuale di Kant.
Proprio perché le impostazioni e le finalità sono molteplici, nell’esegesi di un
testo come la Ragion pura, si è pensato di concentrarsi su di una sorta di caso di
studio: l’intuizione temporale. La scelta è caduta sul tempo perché, esaminata più da
vicino, una tale nozione mostra come su di essa possano convergere molte
problematiche, ipotesi interessanti e addirittura contraddizioni dalle varie tradizioni e
linee interpretative delle differenti filosofie anglofone. Però, prima di entrare più nel
dettaglio, è bene tenere presenti due punti di partenza che hanno guidato l’analisi del
presente lavoro: da un lato, ritengo che sia stata quasi sempre sottostimata
l’importanza del tempo kantiano dalla maggior parte degli interpreti – e gli autori
anglofoni non fanno eccezione – tranne casi singoli, sebbene importanti; in secondo
luogo, ritengo che, nonostante ciò, far luce su una nozione come l’intuizione
temporale, la quale presenta ancora molti punti oscuri, potrebbe chiarire meglio
molte delle difficoltà in cui si sono imbattuti i commentatori anglofoni.
A livello introduttivo, si può dire che, nella Critica della Ragion pura, Kant
in particolare, a quelle di Bird (1962) e di Bennett (1966), i maggiori lavori sulla prima Critica si
presentavano adesso con quegli argomenti forti, per tesi sostanzialmente kantiane, che erano espressi e
valutati usando analisi e stili argomentativi della filosofia analitica contemporanea».
9
sviluppa le sua concezione del tempo lungo due direttive principali: stando alla
prima, lo si considera come forma del senso interno, mentre, stando alla seconda, si
parla del tempo nella sua funzione mediata, come forma dei fenomeni esterni. Kant
inizialmente espone, com'è noto, la sua nozione di intuizione temporale nell'Estetica
trascendentale e, pertanto, si sarebbe tentati di estendere quanto lì viene affermato
alle altre sezioni dell'opera. Tuttavia nell’Estetica si ha solo un'introduzione
preliminare che dovrà essere integrata con quanto viene affermato nel corso della
trattazione. In particolare, l'esposizione si protrae in paragrafi in cui sono ben
evidenti le differenze se si considera il tempo come forma del senso interno o in
rapporto ai fenomeni esterni: per esempio, per quel che riguarda il primo caso, sono
illuminanti certe sezioni dello Schematismo trascendentale; per quel che riguarda il
secondo, saranno presi in considerazione, soprattutto, i paragrafi relativi alle
Analogie dell'esperienza. Tutto ciò verrà esposto più dettagliatamente nei tre capitoli
di cui si compone il presente lavoro e che sono riassunti qui di seguito.
Il primo capitolo ha un indirizzo più generale, storico ed introduttivo.
Verranno analizzate le teorie storiografiche sviluppate dagli odierni commentatori di
Kant per spiegare il formarsi e lo svilupparsi della sua riflessione filosofica, con
particolare attenzione all’intuizione temporale. Si può già da ora anticipare che il
tutto sarà visto come un’elaborazione originale, la quale, tuttavia, si fonda su di un
tentativo di sintesi tra correnti di pensiero a lui precedenti, come il cartesianesimo, il
razionalismo e le teorie scientifiche di Newton. Dopo di che, verranno esposte certe
particolari
linee
interpretative
avanzate
da
alcuni
commentatori
tedeschi
ottocenteschi di Kant, dato che esse presentano evidenti affinità con quelle messe in
campo dagli autori anglofoni qui presi in considerazione. Sarà interessante notare
come, implicitamente o inconsapevolmente, molti temi e metodologie si ripresentino
allo stesso modo nelle odierne letture. Infine, si cercherà esporre più
approfonditamente gli aspetti che hanno spinto alcuni, tramite percorsi originali e in
base ad esigenze specifiche, a ritornare verso la prima Critica di Kant. Si accennerà,
a tal proposito, nella parte finale della sezione, ai noti problemi di incomunicabilità
tra la filosofia continentale e quella di tradizione analitica che hanno forti
ripercussioni sui modi di analizzare l’opera di Kant.
Nel secondo capitolo viene analizzato il tempo come forma del senso interno.
10
Ciò darà la possibilità di iniziare ad osservare, più nel dettaglio, come questa nozione
venga introdotta nella prima Critica. Per prima cosa, saranno presentate le
caratteristiche dell’intuizione temporale così come vengono esposte nell’Estetica
trascendentale. Dopo di che, si inizierà ad esaminare il tempo in quanto forma del
senso interno. Si è pensato che il modo migliore per presentare l‘intuizione temporale
in questa veste, fosse quello di indagare i suoi rapporti con nozioni importantissime
per l’impianto conoscitivo kantiano, ma spesso messe in secondo piano a causa della
loro “oscurità”. Il tempo, infatti, in quanto forma del senso interno, viene visto come
il collante che tiene unite molte delle funzioni e capacità kantiane. E, proprio a
seguito di una più minuziosa distinzione tra facoltà e capacità, si prenderà in
considerazione il rapporto tra la forma del senso interno e alcune attività del soggetto
conoscente, quali, ad esempio, l’Apprensione e l’Appercezione. Già da ora si può
affermare che le analisi di questo capitolo rappresentano una sorta di eccezione
rispetto alle altre parti del presente lavoro o a quanto detto poc’anzi: molti autori
anglofoni che si sono concentrati sull’intuizione temporale come forma del senso
interno hanno cercato, difatti, di evidenziarne le proprietà ontologiche. A questo tipo
di interpretazioni non saranno estranee chiavi di lettura singolari, alcune delle quali
affondano le loro radici nella particolare interpretazione che Heidegger ha offerto di
Kant.
Nel terzo capitolo si analizzerà il tempo nel suo uso esterno mediato, cioè nel
suo rapporto con i fenomeni, si entrerà forzatamente in contatto con le discipline
inerenti alla misurazione e alla spiegazione dei rapporti degli oggetti esterni. Ciò ci
porterà a confrontarsi con una delle tematiche più dibattute da parte dagli odierni
commentatori anglofoni di Kant, quella che prende le mosse dal rapporto tra filosofia
e scienza, in cui spesso si inserisce quello tra conoscenza comune e conoscenza
scientifica. La discussione quindi non si interesserà soltanto dell’esperienza di tutti i
giorni ma si andranno a toccare quelli che per Kant erano i presupposti delle
discipline fisico-matematiche, legate, inoltre, a nozioni quali lo spazio e le analogie
dell’esperienza. Ci concentreremo, in particolare, sulla prima e sulla seconda
analogia che, a dispetto della terza, sono state molto più dibattute all’interno dei vari
commentari e sulle quali si sono sviluppate tesi innovative ed interessanti. Le varie
posizioni e le diverse letture saranno introdotte, all’inizio del capitolo, da un’analisi
11
delle differenze tra la prima e la seconda edizione della Critica della ragion pura.
La ricerca affronterà e cercherà di analizzare molte tematiche, ma saranno
due le conclusioni a cui mira e che intende mettere in luce il presente lavoro.
Innanzitutto, lo studio sul tempo ci porterà a riconsiderare i problemi del rapporto tra
epistemologia e ontologia, così come vengono valutati in ambienti angloamericani,
in cui, cioè, si dà importanza, quasi esclusivamente, ad una prospettiva
epistemologica, riduttivistica e naturalistica. In un contesto simile, si cercherà quindi
di sostenere, in primo luogo, che non è possibile operare una distinzione netta tra
l'ontologia e l'epistemologia quando si ha a che fare con nozioni che operano ad un
livello così profondo, come l’intuizione temporale. Ciò mette in dubbio la famosa
concezione kantiana, stando alla quale l'ontologia corrisponde esclusivamente
all’analitica, cioè a quella griglia di principi e di nozioni a priori che formerebbero
l’intelaiatura gnoseologica del soggetto conoscente:
I princìpi di cui si è in possesso non sono altro che i princìpi
dell’esposizione dei fenomeni e il nome risonante di ontologia, che
pretende dare in una teoria sistematica conoscenze sintetiche a priori
delle cose in generale (ad esempio, il principio di causalità) deve cedere
il posto a quello modesto di una semplice analitica dell’intelletto puro.14
Detto altrimenti, non solo l’ontologia dipenderebbe dall’epistemologia, ma da un tipo
particolare di epistemologia. Il problema è che – e l’intuizione temporale ne è un
caso esemplare – non è così facile distinguere, dove finiscano le componenti ritenute,
in senso stretto, conoscitive e dove inizino quelle, per così dire, strutturali. Infatti, ad
esempio, come si tenterà di mettere in luce, sono proprio le caratteristiche
ontologiche del tempo che vanno a colmare, in fase conoscitiva, lacune prettamente
epistemologiche. Per gli autori presi in considerazione, nei i quali è nettamente
predominante la componente gnoseologica e sembrano eludere gli altri aspetti del
soggetto conoscente, è quindi possibile considerare alcune funzioni dell’intuizione
temporale – così come vengono espresse nell’Estetica o nello Schematismo –
eminentemente epistemologiche? E, inoltre, questi attributi dell’intuizione temporale
14
Kant (1781/2005: 271; A 247/B 303).
12
possono, perciò, essere ancora considerati come proprietà di cui si può avere
conoscenza solo attraverso l’analitica dell’intelletto puro? È dunque realmente
possibile tracciare una linea dicendo “qui cominciano le considerazioni ontologiche e
qui quelle epistemologiche”?
Il rapporto tra epistemologia ed ontologia che si viene delineando nei
commentari inglesi su Kant sembra che possa essere criticato nello stesso modo in
cui – mi sia permesso un parallelo ardito – Duhem criticava gli esperimenta crucis in
un paragrafo intitolato Un esperimento di fisica non può mai condannare un’ipotesi
isolata, ma soltanto un insieme teorico15:
il fisico non può mai sottoporre al controllo della esperienza un’ipotesi
isolata, ma soltanto tutto un insieme di ipotesi. Quando l’esperienza è in
disaccordo con le sue previsioni, essa insegna che almeno una delle
ipotesi costituenti l’insieme è inaccettabile e deve essere modificata, ma
non gli indica quale dovrà essere cambiata.16
Credo che l’idealismo kantiano si trovi in una situazione simile: quando l’impianto di
Kant arriva a fare i conti con la realtà, ammettendo che si sia riusciti a circoscrivere il
più possibile le funzioni di una nozione quale l’intuizione temporale, è difficile
capire se un eventuale problema, relativo al soggetto conoscente nel rendere conto
della realtà stessa, derivi da una proprietà intrinseca della struttura del tempo
(attributo che potrebbe essere definito “ontologico”) o dal modo in cui svolge i suoi
compiti epistemologici. Una situazione che si ripropone costantemente quando si
fanno asserzioni su entità epistemologiche così fondamentali. Il soggetto conoscente
cerca di riflettere su se stesso e sull’organizzazione stessa delle sue nozioni, ma
siamo ad un livello simile a quello in cui, per usare una metafora, l’occhio tenta di
vedere se stesso. In egual misura, durante il processo conoscitivo si cerca di rendere
conto del tempo essendo esso stesso la forma del senso interno e ritrovandosi, quindi,
praticamente immersi nella temporalità.
Tutte queste riflessioni sono legate ad un secondo aspetto importante che si
15
16
Duhem (1914/1978: 207).
Duhem (1914/1978: 211).
13
tenterà di mettere in mostra: sia che si guardi il tempo nella direzione della forma
interna (più legato, quindi, agli aspetti ontologici), sia che lo si osservi come
relazione tra i fenomeni (in una sua funzione eminentemente epistemologica), in
Kant una tale nozione non appare mai come ultima o fondativa, ma sembra sempre
svilupparsi o appoggiarsi su enti ancor più basilari. Detto altrimenti, l’intuizione
temporale sembrerebbe essere una nozione che presupponga qualcosa al di sotto di
essa, che non sia – per rubare il linguaggio dalla filosofia continentale – originaria
ma originata. Alcuni di quelli che potremmo chiamare gli “ontologici”, per esempio,
pongono a fondamento del tempo la Sintesi trascendentale, cioè la sorgente
dell’attività
gnoseologica
spontanea
del
soggetto
conoscente;
invece,
gli
“epistemologi” si soffermano spesso sul concetto di tempo oggettivo, ossia su di un
particolare concetto di tempo come prodotto dall’attività delle analogie
dell’esperienza. Ricapitolando, il tempo come senso interno ha forti connotati
ontologici
che
funzionano
come
una
base
per
determinate
operazioni
epistemologiche, ma che, a loro volta, poggiano su qualcos’altro; nel caso del tempo
come senso esterno mediato, invece, l’intuizione temporale partecipa con le analogie,
e soprattutto con il principio di causalità, alla formulazione di un concetto di tempo
oggettivo che sembra avere una portata esclusivamente epistemologica. Da entrambe
le posizioni, dunque, secondo angolazioni e prospettive diverse, è ipotizzabile che si
possa escludere che il tempo sia un’entità originaria la quale non presuppone niente
al di sotto di sé.
Oltre a ciò, lungo il corso dell’analisi, si presenteranno spesso temi ricorrenti.
Come accennato in precedenza, tra questi vi è, ad esempio, il rapporto tra i
commentatori anglofoni e un certo tipo di filosofia continentale. Da questo punto di
vista, la ripresa, lo studio e la rielaborazione del pensiero di Kant da parte di autori di
tradizioni così diverse e che, come vedremo, hanno intrecciato poche relazioni tra di
loro, può rappresentare un punto di incontro per tentare di sviluppare un nuovo
dialogo. Infatti, a fronte di varie difficoltà, il ritorno, senza intermediazioni, al testo
kantiano – ed ecco un motivo di importanza in più per studiarne i commentari – ha il
pregio di utilizzare un terreno comune, la filosofia critica appunto, che può essere
utilizzato come base di un confronto tra più indirizzi filosofici, grazie alla sua grande
influenza, importanza e fama. Se ci soffermassimo a riflettere su questi presupposti,
14
perde addirittura di senso la domanda: perché studiare (ancora) Kant?
Paradossalmente, sembra quasi che non siano gli autori contemporanei che devono
impegnarsi nel riscoprire Kant, ma che sia Kant stesso a riproporsi autonomamente.
Collegato a ciò vi è la volontà e, mi sia permesso, l’ambizione di
intensificare, anche in Italia, il dialogo con alcuni recenti autori anglofoni,
evidenziando temi a loro cari e che, anche qui da noi, sono stati spesso affrontati. Ad
esempio: l’impostazione gnoseologica dell’attività conoscitiva; il rapporto tra
epistemologia e discipline scientifiche che, come accennato, potrebbe allungarsi fino
al campo della morale; certi elementi che emergono spesso nel dibattito più
prettamente kantiano come la sua concezione dell’esperienza, i legami tra le varie
sezioni dell’opera o il modo in cui considerare i principi sintetici a priori.
E queste sono solo alcune delle molteplici implicazioni in cui ci si può
imbattere quando si inizia ad indagare una nozione complicata e fondamentale come
l’intuizione temporale kantiana. Una nozione che ci costringe a guardare all’interno
del percorso che si snoda in noi stessi in quanto soggetti conoscenti. Una situazione
simile a quella in cui si trova il viandante di Novalis che, abbandonati gli spazi
illuminati, chiari e diurni della via maestra, è costretto ad affrontare il buio,
rivolgendosi al proprio interno, un regno oscuro e notturno, che all’inizio può
spaventare ma dentro il quale, una volta esplorato con accortezza, «[p]iù divini/delle
stelle scintillanti/ci sembrano gli occhi infiniti/che in noi la notte dischiude»17.
17
Novalis ([2002]: 9).
15
16
I. Il Tempo prima e dopo Kant.
I.1. Introduzione.
Il modo in cui Kant concepisce il tempo è innovativo: un tempo che tra le due
grandi tradizioni – sostanzialista (in cui lo si considera un ente distinto e autonomo) e
riduttivista (in cui lo si considera una relazione tra oggetti) – si colloca a metà strada
e che, contemporaneamente, viene indicato quale nozione di riferimento per tutte le
altre. Tutto ciò è il risultato, da un lato, delle proprietà che Kant gli conferisce,
ispirate in parte dalle riflessioni filosofiche a lui precedenti, da l’altro, ad un lavoro
di ridefinizione e di “ripulitura” del concetto stesso a cui vanno aggiunti i vari atti di
bilanciamento delle funzioni temporali e dei suoi rapporti rispetto ad altre nozioni
chiave dell'impianto critico. Infatti, storicamente, il ruolo di nozione di riferimento
era stato destinato, di sovente, ad altri enti, tra i quali, per esempio, lo spazio.
Compito di questo capitolo sarà, in primo luogo, quello di mostrare il contesto
storico che ha spinto Kant verso la sua personale concezione. Successivamente
cercheremo di illustrare brevemente come egli sia stato, a sua volta, un punto di
partenza per elaborazioni successive. In particolare, ci concentreremo su quegli
autori e su quelle correnti che, in qualche modo, possono essere messi in parallelo
con un gruppo, forse ristretto ma molto attivo, di filosofi anglofoni.
È forse bene chiarire fin da subito che, per quanto riguarda questi ultimi
autori, ci concentreremo su una cerchia ristretta di nomi. Ogni ricerca di questo
genere ha il difetto di apparire incompleta o arbitraria, selettiva e non omogenea. I
vari autori che prenderemo in considerazione appartengono a indirizzi, periodi o
nazioni differenti, pertanto è lecito domandarsi se non possano apparire artificiosi i
vari confronti che seguiranno. Ritengo tuttavia che, per quel che riguarda i nostri
scopi, ossia l’analisi del tempo principalmente nella Critica della ragion pura da
parte dei pensatori anglofoni, alcuni autori abbiano contribuito più di altri ad
impostare la discussione su temi precisi, dando vita quasi ad una sorta di dibattito a
distanza, i cui contributi maggiori vengono appunto dai commentari sulla Ragion
Pura e da articoli ad essi collegati. Al senso di arbitrarietà generale hanno
17
contribuito, in parte, gli stessi autori che prenderemo in considerazione, i quali hanno
assunto, più o meno univocamente, un quadro di riferimento accuratamente
selezionato quale contesto storico da presentare come terreno in cui sono germogliate
le tesi kantiane, in particolar modo proprio per ciò che riguarda l’intuizione
temporale. Quindi ci concentreremo, nello specifico, su quegli aspetti storiografici
che più hanno ispirato le loro tesi, come le famose dispute tra leibiziani-wolffiani e
newtoniani, partecipando alle quali il giovane Kant ha iniziato la sua carriera
filosofica. Siamo consapevoli che sarebbe riduttivo considerare il pensiero di Kant
solamente come uno sforzo di sintesi tra quelle due direttive principali: molti altri
sono stati gli autori con cui egli si è confrontato (ad esempio, Hume, Cartesio...) e
che sono stati per lui fonte di ispirazione. Eppure, i commentatori che prenderemo in
esame mettono sul piatto buone argomentazioni stando alle quali proprio nel punto di
contatto tra la spinta newtoniana e leibniziana si sia formata l’innovativa concezione
kantiana del tempo.
I.2. Il tempo prima di Kant: Leibniz e Newton.
Ci sono diverse motivazioni e diversi gradi di consapevolezza nella ripresa,
da parte di autori anglofoni, dei temi messi sul tavolo da Kant. Certi pensatori, come
Michael Friedman o Graham Bird, hanno rielaborato alcuni elementi kantiani
affinché potessero essere ancora oggi riutilizzati, mostrandone, al contempo, lo
sviluppo e la continuità con opere di altri filosofi. Altri sembrano limitarsi alla
ricerca di un’idea per affrontare un periodo di cambiamento scientifico, simile a
quello che si è avuto nel Seicento o con la crisi della fisica tra XIX e XX secolo. Una
tendenza che in Kant trova il suo massimo sviluppo, e che spesso è ritenuta
meritevole di essere ripresa, è, per l’appunto, l’approccio attento e dialogante nei
confronti degli sviluppi scientifici della sua epoca; atteggiamento che, tuttavia, non si
appiattiva unicamente a favore di essi. D'altro canto, proprio l’analisi di una nozione
come il tempo, paradossalmente, si è dimostrata importante anche per coloro che
hanno voluto allentare i legami con le discipline fisico-matematiche, ribadendo una
sorta di primato o di precedenza della speculazione filosofica. Il modo di porsi di
Kant nei confronti delle materie scientifiche e il rapporto che instaura tra scienza e
18
filosofia risente del clima dell’epoca in cui si è formato, in parte dovuto, come
accennato, ad alcuni confronti tra concezioni opposte. Alcune delle più famose fanno
capo alle teorie di Leibniz e di Newton.
È difficile capire quanto e cosa del pensiero originale dei due autori sia
arrivato fino a Kant. Per esempio, egli potrebbe non aver avuto una conoscenza
diretta delle opere di Leibniz, ma i suoi studi si baserebbero su ciò che di esse
riportavano i testi di Wolff1. A proposito di Leibniz, difficoltà ulteriori sono date dal
fatto che, esattamente per quel che riguarda temi quali lo spazio e il tempo, la
posizione del filosofo razionalista sia cambiata nel corso degli anni: inizialmente le
sue considerazioni sullo spazio convergevano verso la nozione di spazio assoluto2
ma, cercando di prendere le distanze da quella sorta di ingenuo idealismo empirico di
alcuni suoi predecessori, ha elaborato una sua personale posizione del tutto originale.
È su questa concezione più caratteristica e matura dello spazio e del tempo che la
maggior parte dei commentatori ha posto l’accento, considerano due testi in
particolare: la Monadologia (1714) e il suo scambio epistolare con Samuel Clarke
(1715-16).
Stando alla metafisica delineata in tali opere, le reali componenti del mondo
sarebbero le monadi, sostanze semplici e indivisibili, «dove non esistono parti, non
v’è estensione, né figura, né divisibilità possibile»3. Anche il soggetto conoscente è
da considerarsi, a sua volta, una monade, la quale, proprio durante le operazioni
conoscitive, può avvalersi con sicurezza solo dell’attività razionale dato che la
percezione degli oggetti fornisce una conoscenza inattendibile e confusa. La
sensibilità è, infatti, una facoltà inaffidabile, se non illusoria, e solo la ragione dà
libero accesso al mondo reale. Siamo di fronte, pertanto, ad una conoscenza che
deriva da un certo modo di intendere l'ontologia e che punta verso delle entità
1
Kemp Smith (1918/1979: 605).
Vailati (1997: 112). Cfr. anche Hartz/Cover (1988) i quali individuano tre momenti nello sviluppo
del pensiero di Leibniz su spazio e tempo: un primo periodo (anni 1676-88) in cui tempo e spazio
sarebbero “fenomeni ben fondati”; un periodo di passaggio (1689-1709) in cui spazio e tempo
vengono considerati, alla stregua dei numeri, oggetti del pensiero, nettamente separati dall’altro livello
degli oggetti reali e concreti; infine il periodo del pensiero maturo (1711-16), a cui corrisponde lo
scambio con Clarke e che sembra essere quello a cui si fa maggiormente riferimento. È qui che si ha
una tripartizione ontologica della realtà in cui si ha il livello delle monadi (substantiae), quello dei
fenomeni o dei corpi (quasi-substantiae) e infine quello degli entia rationis a cui apparterrebbero
proprio lo spazio e il tempo.
3
Leibniz ([1986]: 33).
2
19
intellegibili poste a fondamento della realtà. In aggiunta a quanto appena detto,
Leibniz sostiene che le monadi siano “senza finestre”, che non abbiano cioè modo di
comunicare con il mondo esterno o tra di loro. Gli stati interni, dunque, possono
essere spiegati soltanto da un principio anch’esso interiore, che viene presentato
come una sorta di forza attiva. Ciò comporta però dei problemi di difficile soluzione:
per esempio, come spiegare, tra le tante, la corrispondenza tra una monade e l'altra?
Come chiarire la coerenza tra le esperienze di diversi soggetti che, per definizione,
non interagiscono tra loro? Oppure la sintonia tra ciò che percepisco ed il mondo
esterno? Per giustificare la coordinazione degli stati interni con quelli esterni, com’è
noto, Leibniz fa ricorso alla famosa tesi – sulla quale purtroppo non possiamo
dilungarci – de “l’armonia prestabilita”, asserita da Dio fin dalla creazione.
In un quadro simile, in cui l'esistenza si basa su entità prive di grandezza,
quindi né spaziali né temporali, tali dimensioni non possono essere pensate come
metafisicamente reali: la loro ragion d’essere deve ritrovarsi nella maniera stessa in
cui le monadi si rapportano tra di loro. Spazio e tempo, perciò, vengono considerati
come degli ideali a cui puntare4. Lo spazio può essere ritenuto un insieme di relazioni
che le monadi intrattengono l'una con l'altra: è, più precisamente, l'ordine delle cose
coesistenti. Il tempo, invece, deriverebbe inizialmente dall'ordine dei rapporti tra gli
stati di coscienza interni e consecutivi di una singola monade; la temporalità sarebbe
data, cioè, dalla disposizione delle cose successive, degli oggetti che si susseguono
l’un l’altro. Questa maniera di considerare spazio e tempo troverebbe ispirazione,
almeno in parte, in un nuovo modo di intendere la “continuità”: come si capirà
meglio nel corso dell’esposizione, lo spazio e il tempo, in quanto continui, non
possono essere considerati come se fossero composti da unità discrete; le divisioni al
loro interno, come punti o istanti, devono essere ritenute dei termini potenziali5.
Essendo una quantità continua, il tempo ha una struttura infinitesimale, al contrario
della durata e del moto, che vengono considerate, loro sì, discrete. Ciò ci aiuta a
determinare, per esempio, l’accelerazione e la velocità istantanea6.
4
Cassirer (1902/1986: 188) afferma che «Leibniz pensa i concetti di spazio e tempo come i concetti
logici e matematici. Gli uni e gli altri sono puri prodotti di quell’”intellectus ipse” che dai sensi viene
solo spinto a trarli fuori di sé».
5
Cfr. Vailati (1997: 113).
6
Cfr. Vailati (1997: 121). A questo proposito Leibniz ([1963]: 451) afferma che «Lo spazio e la
materia differiscono come il tempo e il movimento».
20
Posto quindi che il tempo sia continuo, Leibniz cerca di spiegare anche come
si possa accertare che l’istante a preceda l’istante b. La determinazione temporale
delle cose avviene stabilendo dei rapporti di successione tra gli oggetti stessi: visto
che sappiamo (grazie all’uso del Principio di Ragione Sufficiente) che A precede B e
stabilito che nell’istante a si è verificato A mentre nell’istante b si è verificato B,
possiamo affermare la successione tra i due momenti. Ma l'associazione di un
determinato oggetto con quel determinato punto temporale non è condizionata da
nessun altro fattore, ossia non dipende dalla struttura formale del tempo in sé.
Essendo insensato parlare di un ordine temporale al di fuori delle monadi, il tempo
sarebbe inconcepibile senza di esse. Detto con le parole dei Kant:
spazio e tempo divenivano possibili, il primo mediante la relazione delle
sostanze, il secondo in base alla reciproca connessione delle loro
determinazioni come ragioni e conseguenze. Così infatti dovrebbero stare le
cose se l'intelletto puro potesse riferirsi immediatamente agli oggetti e se
spazio e tempo costituissero determinazioni delle cose in se stesse.7
Al contrario di Leibniz, Newton non vede spazio e tempo come relazioni,
bensì come due entità distinte. Questa impostazione permette, a differenza di
Leibniz, di arginare meglio eventuali eccessi di tipo spinoziano che dipendono, a loro
volta, dall’identificazione ipotizzata da Cartesio della materia con l’estensione8. Per
Newton spazio e tempo sono dimensioni da intendersi come dei contenitori infiniti
all’interno dei quali interno si possono collocare gli oggetti. Ciò, da un lato,
comporta che si abbia un'unica estensione, una singola durata temporale ed una sola
distanza assoluta tra due punti; dall’altro, spazio e tempo sono indipendenti dagli
oggetti che si trovano al loro interno. Questi ultimi possono occupare posizioni
assolute, ereditando le proprietà dello spazio (come quelle geometriche) o del tempo,
venendo perciò considerati, a loro volta, spazio-temporali. Infine, non solo gli oggetti
sono in costante interazione gli uni con gli altri grazie, ad esempio, alla legge di
gravitazione universale ma, stando alla legge di inerzia, i corpi non potrebbero
cambiare i loro stati se su di essi non agissero forze esterne.
7
8
Kant (1781/2005: 284; A 267/B 323).
Cfr. Vailati (1997: 112).
21
Il tempo in Newton, dunque, è sia reale – esiste indipendentemente da una
mente che lo pensi (ad eccezione, forse, di quella di Dio) – sia assoluto – esiste
indipendentemente dagli oggetti al suo interno. In pratica, potremmo vedere il tempo
newtoniano come una monodimensione vuota su cui è possibile indicare la posizione
degli oggetti: come la linea di un asse cartesiano, con una sua struttura propria, in cui
è possibile far corrispondere ad ogni punto un determinato valore. Secondo questa
concezione un tempo “disabitato” è assolutamente coerente. Ma la caratteristica che
è bene sottolineare fin da ora, e che sarà motivo di scontro nei capitoli seguenti, è che
il tempo, nella visione newtoniana, scorre costantemente a dispetto degli oggetti al
suo interno:
Il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad
alcunché di esterno, scorre uniformemente, e con altro nome è chiamato
durata; quello relativo, apparente e volgare, è una misura (esatta o inesatta)
sensibile ed esterna della durata per mezzo del moto, che comunemente viene
impiegata al posto del vero tempo: tali sono l’ora, il giorno, il mese, l’anno.9
Fortunatamente, come già accennato in precedenza, possiamo avvalerci anche
di un confronto diretto tra le due posizioni, svoltosi fra il 1715 e il 1716 attraverso
uno scambio epistolare tra Leibniz e Clarke, studioso e sostenitore delle tesi
newtoniane10. Tra i molti argomenti di cui discutono i due pensatori, la nostra
attenzione si focalizzerà soprattutto sugli aspetti riguardanti il tempo, del quale si
inizia a parlare più nel dettaglio nel terzo scritto di Leibniz (la seconda replica a
Clarke). In primo luogo, nella lettera viene ricordata la definizione leibniziana di
tempo come «ordine delle successioni»11; fatto ciò, vengono sollevate le critiche alla
concezione di Newton. La prima obiezione, molto famosa, nasce dall’unione di
alcune premesse teologiche con due principi molto cari a Leibniz, quello di Ragione
9
Newton ([1965]: 101-2)
La parte più difficile nel riportare lo scambio epistolare, è riuscire a mantenere la discussione su un
piano prettamente filosofico. Infatti sono molto frequenti i riferimenti teologici che servono anche da
puntello alle teorie dell’uno e dell’altro pensatore. Nelle pagine seguenti tenteremo di limitare il più
possibile gli accenni all’ambito prettamente religioso sia perché non abbiamo gli strumenti per
analizzare a fondo tali aspetti, sia perché saranno argomenti quasi del tutto tralasciati nelle posizioni
che analizzeremo in seguito.
11
Leibniz ([1963]: 400).
10
22
Sufficiente e quello dell’Identità degli Indiscernibili: se il tempo fosse assoluto e
omogeneo non ci sarebbe una ragione per la quale Dio abbia fatto iniziare il mondo
proprio in quel momento e non in un altro:
Supposto che qualcuno domandi perché Dio non ha creato ogni cosa un anno
più presto, e che quella persona voglia inferire che Dio ha fatto qualcosa senza
che possa esservi una ragione per cui l’abbia fatta così e non altrimenti, gli si
potrebbe rispondere che la sua illazione sarebbe vera se il tempo fosse
qualcosa fuori delle cose temporali: infatti non vi potrebbe essere alcuna
ragione perché le cose fossero attribuite a tali momenti piuttosto che ad altri,
la loro successione restando la stessa. Ma proprio ciò dimostra che gli istanti,
fuori dalle cose, non sono niente, e che essi non consistono in altro che nel
loro ordine successivo.12
Clarke, in un primo momento, non sembra troppo turbato dall’ipotesi del
tempo come un qualcosa al di “fuori delle cose temporali”, dando l’impressione di
non aver capito a fondo i rilievi di Leibniz e continuando ad applicare alla teoria
dell’avversario i propri modelli. Quando Clarke, nella sua replica, afferma: «se il
tempo non fosse che un ordine di successioni nelle creature, ne seguirebbe che, se
Dio avesse creato il mondo alcuni milioni di anni prima, egli non l’avrebbe tuttavia
creato prima»13, sembra, per così dire, confondere la temporalità con la sua
misurazione. Leibniz non sta ipotizzando che il tempo sia una specie di flusso
all’interno del quale le cose vengono a trovarsi; sta invece sostenendo che sono
presenti un tempo ed una successione solo se siamo in presenza di cose e se queste
sono successive le une alle altre. Non è solo un problema epistemologico, al
contrario, siamo di fronte ad un problema ontologico: come fare a misurare
temporalmente gli eventi o le cose prima che ci siano gli oggetti stessi? Come
pensare ad un’entità “tempo” senza gli oggetti? Confusione amplificata da Clarke –
stando a ciò che dice sullo spazio – ammettendo la possibilità che possano far parte
del tempo assoluto zone con cui gli oggetti non potranno mai entrare in contatto e
che, talvolta, vengono chiamate “immaginarie”.
12
13
Leibniz ([1963]: 401).
Leibniz ([1963]: 406).
23
Vedendo che il problema viene in qualche modo eluso, Leibniz cerca di
riproporre nuovamente le sue critiche in passaggi molto più articolati. Nella sua
quarta lettera, egli, ripartendo da dove si era fermato Clarke, afferma che uno spazio
– e, per estensione, anche un tempo – senza oggetti al suo interno potrebbe essere
chiamato “immaginario”14, tuttavia “immaginario” non può avere lo stesso
significato assegnatogli dai newtoniani ma deve essere considerato solo come una
possibilità all’interno del pensiero di Dio. Nello stesso scritto Leibniz rincara la dose
con una nota in cui esclude categoricamente che siano presenti contemporaneamente
tutte le parti del tempo. Così facendo, egli nega l’eventualità che il tempo assoluto
possa essere un presupposto di partenza e che possa esistere nella realtà come tale15.
Clarke, a questo punto, sembra iniziare a capire l’importanza dell’obiezione
leibniziana visto che, nella replica successiva, cerca di fornire una risposta più
particolareggiata sulle nozioni di spazio e tempo, cominciando con alcune
definizioni: «Lo spazio è il luogo di tutte le cose e di tutte le idee, proprio come il
tempo è la durata di tutte le cose e di tutte le idee»16. In tal modo sembra riaffermare
che il raggio di azione del tempo non sia limitato solo agli oggetti, ma anche ai nostri
stati interni o alle cose pensate, soprattutto – ed è questo forse un presupposto
implicito – se sono pensate da Dio. Non dobbiamo dimenticare che Clarke, seguendo
alcuni spunti di Newton, al fine di evitare il materialismo, lega «l’esistenza di Dio
allo spazio e al tempo eguagliandoli all’immensità ed eternità divine»17. Infatti il
tempo non è al di fuori di Dio, ma è una conseguenza immediata dell’esistenza
divina: ad esempio, senza il tempo Dio non potrebbe essere eterno18. La conclusione
è il riconoscimento del tempo quale attributo o proprietà divina19.
Ma Clarke non rimane sulla difensiva. In precedenza aveva affermato che gli
istanti di tempo, a differenza degli oggetti, sono completamente simili tra loro,
nonostante possano essere considerati in maniera individuale, per esempio
indicandoli con nomi diversi20. Questa riflessione scaturisce dall’aver posto alla base
– e quasi come garanzia – dei rapporti temporali tra gli oggetti, una dimensione
14
Cfr. Leibniz ([1963]: 410).
Cfr. Leibniz ([1963]: 411 n 10).
16
Leibniz ([1963]: 425).
17
Vailati (1997:22).
18
Cfr. Leibniz ([1963]: 421).
19
Cfr. Vailati (1997: 35).
20
Cfr. Leibniz ([1963]: 420).
15
24
composta da elementi tutti uguali tra di loro che scorre uniformemente. Tutto ciò,
unito a quanto già detto, non è che il preludio per un attacco alla definizione di tempo
come ordine della successione. Secondo Clarke, sebbene l’ordine resti identico, se la
dimensione temporale fosse solamente un rapporto tra oggetti o pensieri, la quantità
di tempo tra due cose potrebbe essere considerata, in situazioni diverse, più grande o
più piccola. È possibile che Clarke intraveda un punto debole nel ritenere il tempo
l’ordine della successione e l’insieme degli intervalli tra gli eventi, un tallone
d’Achille che, ipoteticamente, potremmo rendere così: qualora il tempo fosse solo
una relazione tra gli oggetti e fosse del tutto dipendente da essi, se in una data
successione che fino ad oggi abbiamo considerato essere costituita da X elementi
scoprissimo che implica X+1 elementi, avremmo allora una dilatazione della
temporalità perché, letteralmente, nella successione ci sarebbe un oggetto in più e
quindi anche la relazione sarebbe ampliata. Una situazione che, se da un lato ricorda
alcuni vecchi paradossi stoici, dall’altro era tutt’altro che ipotetica dato che, in un
periodo come quello in cui vivevano i due corrispondenti, le nuove scoperte nel
campo del microscopico o dell’infinitamente piccolo erano all’ordine del giorno e si
puntava continuamente a importanti conferme sperimentali: per esempio, è noto che
Leibniz fosse profondamente colpito e meravigliato dalle scoperte biologiche fatte al
microscopio; i newtoniani, dal canto loro, erano strenui sostenitori della teoria
corpuscolare della luce, avversa a quella ondulatoria, e per anni hanno cercato
conferme alle loro ipotesi. In entrambi i casi si apriva la prospettiva che ci fossero
nuovi attori in scena all’interno di sequenze fino ad allora ritenute ben più semplici.
L’aumento di oggetti all’interno di un processo comportava quindi l’aumento della
durata del processo stesso e la dilatazione della successione lì riscontrata? O, ancora,
in casi analoghi la successione è considerata, rispetto al modo di intenderla
precedentemente, più veloce o più lenta? Clarke, infatti, in alcuni passi sembra
proprio riferirsi alla velocità dello scorrere del tempo: per lui, che una cosa possa
seguirne un’altra più o meno velocemente, non dovrebbe incidere sul fluire del
tempo in sé, dato che, in una successione, stabilito il punto iniziale e quello finale, la
velocità dello scorrere del tempo non dovrebbe mutare. Clarke conclude affermando
che il tempo non può essere considerato una relazione tra gli oggetti e ribadendo che
se «non vi fossero creature, l’ubiquità di Dio e la continuazione della sua esistenza
25
renderebbero lo spazio e il tempo identici a quelli attuali»21.
Alcune espressioni di Leibniz hanno fatto pensare che la replica fornita da
Clarke colpisse nel segno22. Tuttavia, un’analisi più puntuale mostra che tali repliche,
da un lato portano Leibniz a dover esporre le sue tesi con maggior cura, da l’altro
sembrano spingerlo verso un salto concettuale che arricchisce la sua formulazione
delle dottrine spazio-temporali. Nella sua ultima lettera, tra tutte quella
significativamente più lunga, Leibniz sembra prendere in considerazione la
possibilità che la scoperta di nuovi oggetti o nuovi rapporti tra oggetti, potrebbe, in
qualche modo, alterare la successione temporale. Nella risposta data da Leibniz, egli
suggerisce di considerare il tempo come un ens rationis, cioè un ideale regolativo, il
quale ha al suo interno, almeno in potenza, tutti i possibili istanti. Stando così le cose,
appare adesso possibile che la successione, almeno in linea di principio, debba
prevedere al suo interno tutti i possibili stati che un soggetto conoscente potrebbe
riscontrare. La scoperta di nuovi elementi nelle varie sequenze è dovuta,
presumibilmente, alle debolezze di noi soggetti conoscenti che non riusciamo a
vedere sin da subito la totalità delle relazioni coinvolte. Ma – si potrebbe replicare –
una delle obiezioni al tempo assoluto non andava proprio contro l’eventualità che
tutte le sue parti fossero date nello stesso momento? Per controbattere a tali
questioni, vanno ricordate le importanti differenze delle due posizioni legate ai
presupposti di partenza: un leibniziano, infatti, potrebbe ribadire che a livello
ontologico e a differenza dei newtoniani, non c’è un’entità che si possa chiamare
tempo, ma solo monadi; qualora si abbia a che fare con una dimensione temporale e
con le sue funzioni, ciò avviene solo a livello epistemologico. La totalità del tempo
va perciò considerata con una finalità regolativa in cui possono trovare posto tutti i
possibili momenti, e differenziando concettualmente la lunghezza della sequenza dal
numero di fasi che è possibile trovare al suo interno: «se il tempo è più grande, vi
sarà un numero maggiore di quegli stati successivi interposti; e se è più piccolo, ve
ne sarà uno minore, poiché nel tempo non c’è vuoto, né condensazione, né
21
Leibniz ([1963]: 427).
Qualcosa di simile a quello che illustra Vailati (1997: 136): «se gli eventi A e B sono dati in
quell’ordine temporale, con T quale insieme di istanti tra di loro, e c’è un lasso di tempo tra di essi,
allora il nuovo insieme di istanti U tra di loro include propriamente T e l’ordine della successione,
cioè la collezione di “luoghi” temporali, è differente dall’originale».
22
26
penetrazione»23.
Se rimaniamo su questo piano ideale, Leibniz ([1963]: 436) ammette perfino
la possibilità di eventuali confusioni, come quella di chiamare lo stessa porzione
temporale in maniera diversa, dato che, a quel livello, «esse si rassomigliano
perfettamente, come due unità astratte». Ma questa eventualità è esclusa se
consideriamo due unità temporali attuali, cioè i rapporti tra due oggetti che sono
constatabili proprio in questo momento. Che essi siano esattamente due istanti
qualitativamente distinti, è dovuto al fatto che occupano due posizioni diverse
all’interno di una successione. Sono precisazioni che servono, inoltre, a ribadire la
posizione di Leibniz sul rapporto tra la creazione del mondo e la temporalità: non ha
proprio senso chiedersi se il mondo potesse cominciare prima o dopo quando gli
oggetti e il modo di misurarli hanno un legame così stretto; a ciò va aggiunto che la
domanda perde di significato anche se si considera il tempo in maniera ideale24.
Nelle varie lettere di Leibniz c’è un altro tema che aleggia ma che non sembra
trovare una trattazione sistematica e che in parte si nutre dell’ambivalenza di un
tempo ideale e relazionale che deve però render conto di oggetti reali e preclusi l’uno
a l’altro: sebbene il tempo sia una nozione prevalentemente epistemologica, è
possibile assegnargli, per così dire, “di riflesso”, una qualche valenza ontologica? Va
ricordato che Leibniz aveva pensato agli istanti come a dei punti infinitesimali, come
una sorta, anche in questo caso, di termini ideali che si avviavano verso quantità
minime se non nulle: come può esistere, però, anche solo a livello epistemologico,
qualcosa le cui parti tendono verso zero? Per Leibniz non siamo di fronte ad una
semplice questione concettuale o di definizione terminologica, dato che tali questioni
vanno a toccare la tesi del continuo temporale. A tutto questo si aggiunge l’ipotesi
che si possa avere a che fare solo con l’istante presente, l’adesso: stretti tra un
passato che non c’è più ed un futuro che non c’è ancora, ci ritroveremmo in un
istante che, seguendo i modelli matematici, può essere ridotto ad un attimo senza
durata. Anche Clarke sembra intravedere il problema, ma lo liquida come una specie
gioco di parole, potendo la sua concezione aggrapparsi alla teoria degli istanti come
unità discrete della durata. Ma proprio la differenza tra durata e tempo ideale era uno
23
24
Leibniz ([1963]: 461).
Cfr. Leibniz ([1963]: 447-8).
27
degli argomenti che metteva maggiormente in difficoltà le tesi di Clarke, rendendo
complicato il paragonare tra i momenti e le porzioni discrete di tempo 25: come
abbiamo visto più volte, Dio doveva aver avuto una ragione (sufficiente) per porre
l’inizio del mondo proprio in quel punto e non in un altro, ed un tempo omogeneo e
indifferenziabile, come quello assoluto – fosse anche considerato puramente ideale –
non andava d’accordo con questa parte delle tesi leibniziane. Anche per questo
motivo – il rischio di andare contro, sebbene implicitamente, ad alcuni assunti
teologici26 – tali idee sembrano arrestarsi ad un certo punto.
Su questi e su altri temi, purtroppo, il confronto si concluse bruscamente con
la morte di Leibniz. Il carteggio fu pubblicato dallo stesso Clarke nel 1717, ebbe
numerose ristampe e fu alla base delle dispute successive tra leibniziani e
newtoniani, lasciando che la discussione, in qualche modo, proseguisse. L’autorità e i
successi della fisica newtoniana sembravano dare un vantaggio notevole alle tesi di
Clarke, eppure le critiche di Leibniz continuarono ad essere costantemente una spina
nel fianco per i seguaci del fisico inglese. Questo fu, almeno in parte, il terreno fertile
in cui si sviluppò il pensiero del giovane Kant.
I.3. Il Tempo al tempo di Kant.
Gli allievi di Leibniz e Newton hanno continuato a confrontarsi per molti anni
e in varie parti d’Europa. Per esempio, a metà del Diciottesimo secolo, nell’allora
Prussia, è possibile assistere a due importanti dibattiti che spaziano su più argomenti
e su più livelli di discussione (epistemologico, ontologico, idealistico…)27: il primo,
tra gli anni 1725 e 1746, ha impegnato sulla vis viva newtoniani e discepoli di
Christian Wolff, il quale aveva ripreso e, in alcuni casi, fortemente rielaborato le tesi
di Leibniz, nell'Accademia delle Scienze di S. Pietroburgo; il secondo, tra il 1740 e il
1759, fu un confronto fra fazioni analoghe ed ebbe luogo all'Accademia delle scienze
25
Cfr. Vailati (1997: 122-3).
Cfr. Vailati (1997: 122). Leibniz, in più, faceva osservare che ciò avrebbe potuto comportare la
conseguenza, teologicamente inaccettabile, che Dio avesse delle parti. Inoltre, non si capirebbe il
rapporto tra Dio nel tempo e tempo in Dio, cioè dove sia il confine tra soggetto e proprietà: «Si è ben
sentito dire che la proprietà è nel soggetto, ma non si è mai sentito dire che il soggetto è nella
proprietà. Egualmente, Dio esiste in ogni tempo: come allora il tempo è in Dio, e come può essere una
proprietà in Dio?» (Leibniz [1963]: 441).
27
Per esempio cfr. Friedman (1983: 233).
26
28
di Berlino, guidata, in quel periodo, dal newtoniano Maupertuis. Gli echi delle
dispute devono essere giunti alle orecchie di Kant grazie al suo maestro Martin
Knutzen28, un wolffiano moderatamente revisionista che fu anche uno dei primi, in
quelle zone, ad accettare le teorie di Newton. Non sorprende quindi che i primi
elaborati del giovane Kant siano proprio dei tentativi di risposta ai temi discussi in
quei dibattiti: intorno al primo confronto ruoteranno i Pensieri sulla vera stima delle
forze vive (1746)29, mentre le considerazioni in merito al secondo saranno affidate a
Monadologia physica (1756)30. Da Knutzen, inoltre, Kant avrebbe tratto ispirazione
per il tentativo di riconciliare la fisica dell’epoca con le tesi dei filosofi razionalisti31.
Kant si adopererà per circa vent'anni nella ricerca di un punto d'incontro tra le due
posizioni32, anni in cui considererà il mondo sensibile, in cui operano le leggi fisiche,
nient’altro che un riflesso di quello intellegibile di matrice leibniziana33.
Inizialmente, infatti, il modus operandi kantiano si è impostato su presupposti
razionalistici o meglio wolffiano-leibniziani34, assunti come punti di partenza,
cercando poi di “innestarvi” i risultati della fisica della sua epoca.
Lentamente però la situazione ha iniziato a cambiare e le tesi di Newton
hanno acquistato un’importanza sempre maggiore. Tendenza che giunge a piena
maturazione con Del primo fondamento della distinzione delle regioni dello spazio
(1768), testo che precede di poco il De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et
principiis (1770) – detto anche, soprattutto nel mondo angloamericano, Dissertazione
Inaugurale35 – opera quest’ultima con cui si fa canonicamente cominciare il periodo
critico. Da qui in poi Kant cercherà di includerle in una prospettiva del tutto originale
elementi di entrambe le dottrine filosofiche. Soprattutto nella prima Critica, infatti,
quasi a voler rimarcare la differenza con le sue vecchie posizioni, non solo le tesi di
Wolff e Leibniz non rappresentano più il punto di partenza ma vengono spesso
28
Schönfeld (2006: 35-6) fa notare, tuttavia, come i rapporti tra Kant il suo maestro non fossero
idilliaci a seguito, soprattutto, della stesura di Pensieri sulla vera stima delle forze vive (1746).
29
Schönfeld (2006: 33) è molto critico con questo testo che definisce «pieno di errori, difficile da
leggere e un fallimento accademico».
30
Per quel che riguarda questi dibattiti cfr. Friedman (1994a: 3-4).
31
Kemp Smith (1918/1979: 161).
32
Friedman (1994a: 4).
33
Friedman (1994a: 34).
34
C'è chi come Dicker (2004: 23) sottolinea che Kant, indottrinato dai testi per gli studenti tedeschi
scritti da C. Wolff, fosse per tutto il periodo precritico un «deciso» razionalista.
35
Kemp Smith (1918/1979: 140). Qui si specifica anche come Kant fosse probabilmente al corrente
proprio della diatriba originale tra Leibniz e Clarke.
29
fortemente attaccate:
Il sostenere, quindi, che l'intera nostra sensibilità altro non sia che una confusa
rappresentazione delle cose […] equivale a falsificare il concetto di sensibilità
e di fenomeno, rendendone pienamente vana e inutile l'intera dottrina. La
diversità di una rappresentazione chiara da una oscura è semplicemente logica,
e non concerne il contenuto. […] La filosofia di Leibniz e Wolff ha dunque
impresso a tutte le ricerche sulla natura e l'origine delle nostre conoscenze un
indirizzo del tutto erroneo, col ritenere puramente logica la differenza fra il
sensibile e l'intellettuale, quando è invece indubitabilmente trascendentale.36
Sintetizzando un po’ bruscamente, sembra quasi che Kant, ad un certo punto,
smetta di rispondere ai problemi della sua epoca partendo da un'ottica inizialmente
leibniziana, prendendo da Leibniz il buono che c'è da prendere e abbandonando il
resto. Data la sua formazione, non sarà infatti facile separarsi del tutto dalla filosofia
razionalista e, del resto, è indubbio che in testi come la prima Critica si ritrovino
elementi, spunti e idee leibniziane37. Addirittura, come vedremo meglio in seguito,
nella vastissima letteratura su Kant non mancheranno coloro che sottolineeranno
l’affinità e addirittura la consequenzialità tra le due filosofie. Ma passi importanti,
come quello riportato in precedenza, sembrano voler segnare una frattura quanto
meno nei confronti degli aspetti più compromettenti di quella tradizione. Il primo di
questi riguarda le entità ultime messe a fondamento della realtà, siano esse chiamate
monadi o noumeni, e i risvolti epistemologici che implicherebbe un confronto diretto
con esse. È vero, Kant preserva una certa attenzione per la componente formale,
tanto che «[d]opo la sua correzione, rimane qualcosa dello schema concettuale di
Leibniz, ma non l'impegno nei confronti di una realtà monadica»38.
Tuttavia, il maggior motivo di biasimo nei confronti delle teorie razionaliste
36
Kant (1781/2005: 114-5; A 43-4/B 60-1).
Secondo Bird (2006: 853-4), per esempio, gli aspetti leibniziani che possono essere accettati sono
una struttura puramente formale con cui schematizzare l'esperienza e i concetti di un oggetto in
generale o di un “noumeno” come correlati dell'esperienza sensibile (i quali però vengono mal
formulati da Leibniz).
38
Bird (2006: 546-7). Di contro Paton (1936/1976: V. I, 183) sostiene che forse non è irragionevole
pensare che, stando almeno ad un passo della prima edizione della Critica (A 359-60), Kant possa
ancora ragionare nei termini di una realtà ultima, monadica che tuttavia non può essere raggiunta dalla
conoscenza umana.
37
30
deriva forse dal fatto che, se si considerano le dimensioni spaziotemporali in maniera
relazionale, diventa difficile concepire come esse possano rappresentare una base
metafisica solida per le scienze. Un’organizzazione simile a quella razionalista
mostra tutta la sua debolezza proprio quando si rapporta a nozioni quali il tempo.
Come fa notare Herbert James Paton, ponendosi all’interno dell’ottica kantiana, se il
tempo fosse una caratteristica indipendente dalle forme del soggetto conoscente e
fosse una relazione che si stabilisce tra gli oggetti in sé, esso sarebbe una
generalizzazione in base a dati empirici. Ciò implicherebbe che, essendo le verità
matematiche legate al tempo e allo spazio, non potrebbero essere investite della
certezza apodittica di cui godono: se fossero solo generalizzazioni di esperienze
avute da qualcuno, si potrebbe sostenere che con dati empirici differenti avremmo
avuto generalizzazioni diverse39. Di contro Kant, soprattutto nella Prefazione alla sua
prima Critica, manifesta una profonda fiducia nella matematica e negli sviluppi della
fisica della sua epoca40, accettandone tesi fondamentali ed “estreme”, quali
l'attrazione come forza che agisce immediatamente e a distanza. Però, agli occhi di
Kant, ciò che le eleva a modello non sono tanto la capacità predittiva o la precisione
con cui ordinano i dati empirici, ma soprattutto la loro struttura: un’intelaiatura di
forme a priori che si impongono alla nostra esperienza della natura41. L'escamotage
di Kant, com’è noto, è quello di mettere in piedi una struttura simile affinché sia il
sostegno di un tipo di rapporti del tutto particolare: non quelli tra le cose-in-sé, ma
quelli tra gli oggetti intesi come fenomeni e il soggetto conoscente:
Per mezzo di semplici rapporti non è certamente possibile conoscere una cosa
in se stessa; bisogna dunque riconoscere che, poiché per il senso esterno non
ci vengono date che semplici rappresentazioni di rapporti, esso non può
contenere, nella sua rappresentazione, altro che il rapporto di un oggetto col
soggetto, e non qualcosa di interno che sia proprio dell'oggetto in sé. Lo stesso
39
Cfr. Paton (1936/1976: V. I, 133-4).
Stando a Schönfeld (2006: 33), ciò si evince soprattutto dalla nuova impostazione newtoniana sul
modo di intendere le forze: «si era sviluppato, in Europa, un consenso stando al quale c’era un solo
modo corretto di studiare le forze, quello di Newton, che, casualmente, differiva da quello proprio di
Kant. Il trionfo delle meccaniche celesti – uno dei motori dell’Illuminismo – sottolineava la forza dei
metodi rigorosi di Newton e metteva da parte le speculazioni concettuali».
41
A questo proposito cfr. Friedman (2001: 11; 37).
40
31
dicasi dell'intuizione interna (B 67)42.
Nonostante ciò, allo stesso tempo Kant riteneva che la fisica di Newton, così
com’era impostata, non fosse autosufficiente e fosse anch’essa priva di un
fondamento metafisico adeguato43. Sebbene Kant non partisse più da presupposti
razionalistici, non poteva, in effetti, ignorare le ben note obiezioni di Leibniz: se ci
attenessimo strettamente alla teoria newtoniana, diventerebbe impossibile stabilire la
differenza tra due stati di cose differenti qualora non mutassero i rapporti tra gli
oggetti al loro interno ma cambiassero soltanto rispetto ad un tempo e/o ad uno
spazio
assoluti.
I
due
stati
di
cose
rimarrebbero
indiscernibili
e,
contemporaneamente, la loro posizione assoluta non avrebbe più senso; un punto
debole alimentato dal fatto che spazio e tempo assoluti non possono essere percepiti
direttamente. Ciò non vuol dire soltanto che non siamo in grado di distinguere due
stati di cose differenti: «l'argomento di Leibniz non è una semplice applicazione del
verificazionismo. Il problema non è che l'assolutista supponga stati di cose non
osservabili; piuttosto che egli si impegni nel distinguere stati di cose che, anche in
virtù del suo determinato apparato teorico, non si possono distinguere»44.
Uno degli obiettivi che darà vita alla prima Critica sembra quindi chiaro:
fornire un’adeguata base metafisica alle discipline scientifiche della sua epoca; meno
chiaro è il modo di raggiungerlo. La situazione in cui si trova Kant, soprattutto
all’inizio del periodo critico, è simile a quella di un esploratore che, abbandonato
dalle sue guide, cerca di orientarsi; un viaggiatore che ha tratto degli utili
insegnamenti da chi l’ha portato fin lì e che è desideroso di concludere il suo
cammino di cui crede di conoscere già la meta finale. Perché l’impresa vada a buon
fine è necessario procedere a piccole tappe, portando a termine degli obiettivi
intermedi; la rotta che l’esploratore ha deciso di percorrere è però del tutto nuova e
va nella direzione opposta ai tragitti fino ad allora intrapresi.
La
Rivoluzione
Copernicana,
come
42
una
scossa
tellurica,
investe
In Guyer (1987: 352) si sostiene che questa mossa non dà i frutti sperati, visto che è la premessa
metafisica che le relazioni non siano reali che porta a concludere ciò che si deve dimostrare, cioè che
lo spazio e il tempo siano le nostre forme di rappresentazione in quanto non possono essere proprietà
delle cose in sé.
43
A questo proposito, per esempio Kemp Smith (1918/1979: 162) sottolinea come Kant nutrisse forti
perplessità per ciò che concerneva lo spazio assoluto.
44
Friedman (1983: 219).
32
principalmente la maniera di considerare l'epistemologia e il suo rapporto con
l'ontologia. In seguito vedremo meglio, e più nel dettaglio, che si fanno pressanti i
problemi su dove finisca l'epistemologia e dove inizi l'ontologia. E la nuova
concezione kantiana del il tempo starà lì a confermarlo: un mondo di entità
intellegibili (le cose-in-sé) che fanno da sfondo ai fenomeni, trova un corrispettivo in
un'entità intellegibile, il tempo come senso interno, che fa da sfondo alle varie
attività del soggetto conoscente. Tuttavia, una volta assunta la sua nuova
impostazione, Kant si spenderà molto nel cercare un equilibrio che possa essere
mantenuto tra le sue varie nozioni, prime fra tutte quelle della sensibilità: lo spazio e
il tempo. Per capire ancora meglio la portata della rivoluzione kantiana45 anche in
questo caso basta confrontarla con le dottrine anteriori alla sua, operazione compiuta
dallo stesso Kant (1781/2005: 100; A 23/B 37-8) il quale si domanda retoricamente:
Che cosa sono allora spazio e tempo? Forse entità reali? O sono
semplicemente determinazioni o rapporti delle cose, che appartengono
comunque alle cose in sé, anche se non sono intuite? O sono tali da
appartenere soltanto alla forma dell'intuizione e così alla costituzione
soggettiva del nostro animo, senza di che questi predicati non potrebbero
essere attribuiti a cosa alcuna?
Tradizionalmente, al primo gruppo si rifarebbe la prospettiva newtoniana; al
secondo, grosso modo (si sottolinea spesso che non è del tutto identica), la
prospettiva leibniziana; mentre il terzo indicherebbe la nuova linea di pensiero
inaugurata da Kant46.
Con il brano precedente è come se Kant anticipasse improvvisamente la sua
posizione per poi fare un passo indietro. Infatti, prima di un nuovo modo di intendere
il tempo, è necessario spiegare l’utilizzo di un vocabolario di fondo rinnovato, in cui
trovano posto nozioni quali “intuizione”, “sensazione” e “fenomeno”47. Uno
spostamento semantico che mira verso l'area della sensibilità alle cui forme Kant
45
C'è chi, come Paton (1936/1976: V. I, 563), ci ricorda che Kant arriva alla formulazione della
Rivoluzione Copernicana «attraverso una considerazione del tempo e dello spazio, non attraverso una
considerazione delle categorie».
46
Si veda, ad esempio, Paton (1936/1976: V. I, 107).
47
Bird (2006: 99-100).
33
assegna un'idealità incompatibile con la tradizione wolffiano-leibniziana: là
l'intuizione sensibile rappresentava la conoscenza confusa; qui, avvicinandola alle
dimensioni spazio-temporali e quindi alle discipline matematiche, rappresenta un
primo passo verso la scienza ben fondata per eccellenza48:
Leibniz ebbe a concepire lo spazio come un determinato ordine della
comunanza delle sostanze, e il tempo come la successione dinamica dei loro
stati. Ciò tuttavia che l'uno e l'altro sembrano avere in sé di peculiare e di
indipendente rispetto alle cose, fu da Leibniz attribuito alla confusione di
questi concetti, onde quella che è soltanto una forma di relazioni dinamiche fu
assunta come un'intuizione a sé stante, sussistente di per sé e anteriormente
alle cose. Tempo e spazio divennero in tal modo la forma intelligibile della
connessione delle cose in sé (sostanze e loro stati). Le cose vennero invece
intese come sostanze intellegibili (substantiae noumena). Ma Leibniz pretese
far valere questi concetti come fenomeni, poiché negava alla sensibilità una
modalità
peculiare
di
intuizione,
riponendo
nell'intelletto
ogni
rappresentazione degli oggetti, anche quella empirica, e conferendo ai sensi
soltanto il compito servile di confondere e alterare le rappresentazioni
dell'intelletto.49
Per Kant lo spazio e il tempo non possono essere ritenuti delle entità o,
ancora, degli ens rationis50, bensì possono essere considerati solo delle non-cose
(Unding). Uno status che permette, tra l’altro, di non considerare qualitativamente e
logicamente differenti il livello sensibile e quello intellegibile intendendoli, invece,
come due diversi piani trascendentali51. Non si hanno due zone separate, l'una chiara
e distinta, l'altra confusa; si hanno due aspetti, due fasi della conoscenza con
contenuti differenti, ognuno affidato ad una facoltà distinta:
In noi, intelletto e sensibilità sono in grado di determinare gli oggetti soltanto
48
Friedman (1994a: 31).
Kant (1781/2005: 290; (A 275-6/B 331-2).
50
Kant (1781/2005: 300; A 292/B 348). A questo proposito per esempio Paton (1936/1976: V. I, 171
e sgg) crede che Kant non offra una vera a propria controprova, ma che la sua posizione escluda
automaticamente le altre.
51
Paton (1936/1976: V. I, 133).
49
34
in quando vengono uniti. Tenendoli separati, si hanno intuizioni senza concetti
oppure concetti senza intuizioni: in un caso come nell'altro abbiamo
rappresentazioni che non possono essere riferite ad alcun oggetto
determinato.52
Il tempo, in particolare, non essendo più ritenuto un'entità a sé o una relazione
tra oggetti, diviene, in primo luogo, una facoltà epistemologica o una «condizione
epistemica», come dirà Allison (1983/2004: 11), il quale definisce le nozioni a priori
kantiane «necessarie per la rappresentazione di oggetti, cioè condizioni senza le quali
le nostre rappresentazioni non si riferirebbero agli oggetti, o, ugualmente, non
avrebbero una realtà oggettiva»; nel caso specifico siamo di fronte ad una forma a
priori della sensibilità del soggetto conoscente. Partendo da qui, Allison (1983/2004:
97) cerca di spiegare il taglio netto operato da Kant nei confronti delle teorie
precedenti riprendendo, parafrasando ed in parte estendendo il passo da noi
precedentemente riportato:
Kant si volge improvvisamente verso il problema della natura dello spazio e
del tempo. Sono introdotte quattro possibilità. Possono essere: a) entità reali
(sostanze); b) determinazioni di cose (accidenti); c) relazioni di cose che
“apparterebbero loro anche se non fossero intuite”; o d) “sono tali da
appartenere soltanto alla forma dell'intuizione e così alla costituzione
soggettiva del nostro animo, senza di che questi predicati non potrebbero
essere attribuiti a cosa alcuna”.
Alle tre possibilità elencate in precedenza, ne aggiunge una, la b). Sempre
Allison sostiene che di queste quattro possibilità, fin dalla Dissertazione Inaugurale,
Kant avesse affermato la seria sostenibilità, in opposizione alla sua nuova prospettiva
critica, solamente di due di esse: quella newtoniana appunto, che, sempre secondo
Allison, corrisponderebbe a b) – in quanto tempo e spazio sono accidenti di Dio – e
52
Kant (1781/2005: 279; A 258/B 314). E poco prima, con un'aggiunta in nota presente solo nella
seconda edizione, Kant (1781/2005: 278; B 313), specificava, dopo averla contrapposta a mundus
sensibilis, l'espressione mundus intelligibilis :«Non si deve usare, in luogo di questa espressione,
quella di “mondo intellettuale”, come si è soliti fare in tedesco; infatti, intellettuali e sensitive sono
solo le conoscenze. Ciò invece che può essere colto dall'uno o dall'altro modo di intuire, cioè
l'oggetto, dobbiamo chiamarlo […] intelligibile o sensibile».
35
quella leibniziana, la c). Rispetto al passo da cui è stata tratta la citazione, e
ribadendo la continuità tra Critica e Dissertazione per quel che riguarda il modo di
intendere lo spazio e il tempo, Bird ci fornisce un’altra lettura. Per prima cosa Bird
ristabilisce la tripartizione, per così dire, classica escludendo il punto b) introdotto da
Allison. Con quest’ultimo ritiene che il punto c) rappresenti la prospettiva
razionalista ma, a differenza di lui, Bird afferma che sia la possibilità a) quella che
rispecchia il punto di vista newtoniano, ossia che spazio e tempo siano stimati quali
entità reali53. Tuttavia una divisione così netta può essere forviante. Infatti Bird è
molto cauto e sottolinea come sia complicato assegnare ad una singola scuola di
pensiero i vari modi di considerare il tempo elencati nel brano: bisognerebbe, per
esempio, specificare cosa si intende per «esistenza reale» al fine di attribuire una tale
posizione a Newton; oppure si dovrebbe esaminare meglio il modo di intendere il
termine «relazione» poiché potrebbero entrare in gioco fattori riguardanti proprietà
intrinseche o razionali: non sembrerebbe infatti impossibile escludere, in linea di
principio, una posizione che analizzi le connessioni temporali tra gli oggetti come
relazioni e che, di pari passo, sostenga il tempo assoluto in generale; infine, si
potrebbe essere sostenitori del punto c) e non essere kantiani, accettando, per
esempio, il tempo come intuizione, ma rifiutando alcune sue funzioni riguardanti gli
stati interni del soggetto conoscente e/o parte dei suoi compiti in quanto facoltà
sensibile54. Riassumendo, non è detto che accettare una tesi escluda automaticamente
anche l'altra55.
L'attenzione minuta per i dettagli serve a Bird (2006: 114) per suddividere in
due gruppi i commentatori di Kant: i “rivoluzionari” e i “tradizionalisti”56. E proprio
il tempo è uno dei temi su cui, con maggior evidenza, si può effettuare questa
separazione. Per i primi, più che il modo di concepire il tempo, ad essere realmente
innovativa è la svolta epistemologica che Kant imprime rispetto alle prospettive
53
Bird (2006: 107).
Bird (2006: 107; 788 n 3).
55
Bird (2006: 137-8).
56
Questa suddivisione era già stata introdotta da Bird (2006: 8) definendo “tradizionalisti” quei
commentatori che consideravano Kant come un fenomenista alla Berkeley o dedito ad un impegno
epistemologico nei confronti della realtà degli oggetti trascendenti; chiama, invece, ”rivoluzionari”
coloro che si rifiutano di associare l'epistemologia normativa antiscettica di Kant con una visione
dualista dell'idealismo e che prendono seriamente la portata rivoluzionaria del pensiero kantiano. Tra i
primi rientrano, per esempio, James Von Cleve, Paul Guyer e Frederick Strawson; tra i secondi Arthur
Collin.
54
36
precedenti, incentrate fortemente sull’ontologia. Per i secondi, anche per quel che
riguarda il tempo, Kant, dal periodo precritico, non farebbe altro che riproporre in
maniera riveduta e corretta temi, per esempio, di razionalismo leibniziano, magari
anche per trarne conseguenze del tutto diverse57. Affidandoci al significato letterale
del termine ed ampliando un po’ la distinzione di Bird, potremmo chiamare
tradizionalisti anche coloro che vedono in Kant uno strenuo persecutore di teorie
genuinamente newtoniane, oppure chi lo considera un pensatore che abbia cercato
costantemente una sintesi tra i due indirizzi non distaccandosi però troppo da essi.
Tra i tradizionalisti, dunque, potrebbero rientrare tutti quei pensatori a cui
accennavamo in precedenza e che hanno continuato a ritenere la filosofia leibniziana
il punto di partenza per il pensiero critico. Tra di essi, alcuni hanno suggerito che
Kant, in realtà, volesse solo allontanarsi dal Leibniz, per così dire, tratteggiato da
Wolff e insegnato nelle scuole58. C’è pure chi si è spinto addirittura oltre, insistendo
sulla linearità tra la filosofia di Kant e quella di Leibniz: «si resta stupiti di fronte al
profondo nesso interno che qui risulta fra la dottrina di Leibniz e il sistema critico»59.
Parlando del tempo, in questo gruppo (almeno per le condizioni di partenza) sembra
rientrare a pieno titolo Paul Guyer (1987: 37) il quale evidenzia come Kant, «per
spiegare l'inadeguatezza della struttura formale del tempo per la conoscenza
empirica», mostri come il principio di successione sia prodotto direttamente dal
principio di ragione sufficiente fortemente contaminato da elementi newtoniani (si
afferma infatti che nessuna successione di stati avverrebbe senza l'azione di una
sostanza sull'altra)60. Andando oltre ciò che proponeva Leibniz, Kant sosterrebbe che
le posizioni temporali necessitino di regole aggiuntive per la loro determinazione.
57
Guyer (1987: 37). In questo caso Guyer basa la sua analisi sul fondo Duisburg e il suo intento è
quello, non solo di far vedere la differenze tra Kant e Leibniz derivate da una stessa premessa, ma
mostrare che un primo sviluppo di pensiero in questa direzione porterebbe 1) ad una struttura del
tempo «terribilmente astratta» e 2) non spiegherebbe perché questa struttura avrebbe bisogno di regole
aggiuntive per fissare i momenti temporali (Ibi : 38).
58
Per esempio, «Natorp rivendica un Leibniz già “kantiano”; anche perché la polemica antileibniziana
di Kant – precisa Natorp – è una polemica contro il leibnizianesimo di scuola, contro il Leibniz di
Wolff: là dove Kant ha approfondito il suo rapporto con il “vero” Leibniz (come avviene nella
discussione con Eberhard) la convergenza delle due prospettive va al di là di ogni possibile frattura»
(Ferrari 1988: 76). A questo proposito cfr. Cassirer (1902/1986: 193; 195-6).
59
Cassirer (1902/1986: 192).
60
Guyer (1987: 308). Per Guyer tali regole sono le Analogie dell'Esperienza, il cui apporto alla
discussione vedremo meglio in seguito. Per ora è sufficiente sottolineare che, attraverso tali regole,
sarà anche possibile applicare il principio di ragione sufficiente agli oggetti o eventi empirici: questo
perché, il principio non è ontologico bensì epistemologico.
37
Una nuova impostazione epistemologica che non sarebbe priva di conseguenza
ontologiche e che per Guyer condurrebbe ad un tempo fatto di istanti tutti uguali tra
di loro.
Tra i tradizionalisti che vedono in Kant un fautore della sintesi tra i due
indirizzi potrebbe essere inserito un autore come George Dicker, il quale vede una
netta cesura rispetto alla tradizione del razionalismo tedesco di matrice wolffiana ed
evidenzia lo sforzo di sintesi kantiano tra l’impostazione newtoniana e quella
leibniziana per dar vita ad un nuovo indirizzo filosofico dentro il quale il tempo sia
considerato ideale ma assoluto61. Tuttavia, sempre secondo Dicker, all’interno del
suo progetto, su alcuni temi particolari, Kant non riuscirebbe a staccarsi dalla
tradizione razionalista in cui si è formato62. Anche Charles M. Sherover (1971: 51)
propone una lettura simile, in cui si dà risalto alla continuità tra la filosofia critica e il
pensiero leibniziano ma, allo stesso tempo, si cerca di mostrare come alcuni spunti
tratti da Newton vengano «interiorizzati» in essa. In tal modo, Sherover fornisce una
definizione del tempo che può essere accostata a quella di Dicker, considerandolo
«“empiricamente reale” ma “trascendentalmente ideale”».
Friedman, dal canto suo, sottolinea la linearità dello sviluppo del pensiero
kantiano dai suoi predecessori, ma, se da un lato cerca di ridimensionare
l’importanza del versante razionalista, dall’altro pone l’accento sull'avvicinamento
costante e asintotico delle nozioni di Kant a quelle della philosophia naturalis63.
Molta importanza è data al peso che le scienze positive assumono nella nuova
concezione dello spazio e del tempo: tali nozioni si collegherebbero direttamente a
quelle derivabili dalle scienze matematiche. All’interno della svolta critica, questo
nesso risolverebbe tre problemi in cui si era imbattuto il giovane Kant: in primo
luogo, le discipline matematiche non correrebbero più il rischio di esprimere
proprietà spaziali e temporali relazionali che dipenderebbero, in ultima analisi, da
una realtà monadica di entità né spaziali né temporali. Per esempio, la continuità
dipenderebbe dalla continuità intuitiva del tempo stesso e non deriverebbe, per vie
traverse, dal rapporto tra più enti. Secondariamente, sempre riguardo al tempo, le sue
61
Dicker (2004: 28).
Dicker (2004: 23), in particolare, si sta riferendo alle influenze su modo di considerare il principio
di causalità.
63
Cfr. Friedman (1994a: 30).
62
38
proprietà non sarebbero più soggette a confutazione empirica, dato che non
proverrebbero più dalle leggi dell'interazione dinamica. Infine, si ha una ridefinizione
un po’ più chiara degli ambiti di competenza tra il mondo sensibile e quello
intellegibile. Si potrebbe far presente, come contraltare a questa impostazione
fortemente “filoscientifica” di Friedman, che, come abbiamo visto, anche Leibniz,
applica alla sua ontologia una parte dell'armamentario della logica e della
matematica dell'epoca64. Anzi, come fa notare Bird, per entrambi gli indirizzi
l’utilizzo delle discipline matematiche indicava il tentativo di oltrepassare un limite
comune, seguendo però percorsi diversi: sia con l’impostazione newtoniana sia con
quella leibniziana infatti, si pretendeva un accesso diretto alle cose-in-sé65. Tuttavia,
sembra che, secondo Friedman, l’impostazione kantiana rappresenti un’ancora di
salvezza per le tesi newtoniane, mentre la concezione leibniziana non può essere del
tutto redenta a causa di una specie di “peccato originale”. Proprio sul tempo – che
Friedman, dal canto suo, considera ideale ma non assoluto – il filosofo razionalista
non riuscirebbe a giungere ad un significato totalmente nuovo, improntato sul modo
di rapportarsi ai fenomeni (interni ed esterni) e non più alle cose-in-sé, a cui si arriva
solo grazie agli sviluppi di Kant. Sviluppi che supplivano alle carenze
dell’impostazione newtoniana e che la filosofia di Leibniz precludeva già con la sua
impostazione ontologica.
Soprattutto negli ultimi anni, come gli esempi degli autori precedenti hanno
cercato di illustrare, la divisione di Bird si è dimostrata forse un po' troppo manichea,
dato che si hanno autori “rivoluzionari” su alcuni temi e “tradizionalisti” su altri o
viceversa. Emergono chiaramente, invece, le intenzioni dei commentatori di Kant,
che già sulla continuità con Leibniz o Newton, innestano le loro future
interpretazioni. Il risalto dato a queste due direttive del pensiero kantiano, quella
leibniziana e quella newtoniana appunto, è infatti una chiave di lettura ricorrente nel
dibattito tra i pensatori anglofoni. Vedere in Kant uno strenuo prosecutore del
razionalismo o un fervente difensore delle scienze, darà coraggio e armi ora alla
causa dell’una ora alla causa dell’altra interpretazione, soprattutto della prima
Critica. Per quel che riguarda più da vicino il tempo, in generale, viene anch’esso
64
65
Bird (2006: 546).
Bird (2006: 216).
39
analizzato partendo da quelle due prospettive: se lo si considera una nozione che ha
subito fortemente l’influenza di Newton e delle scienze di quel periodo, viene
esaminato maggiormente nel suo uso esterno e nel suo valore epistemologico; se la
sua formulazione è ritenuta un’eredità delle tesi razionaliste, vengono messi in luce i
suoi aspetti ontologici e la sua funzione quale senso interno.
È interessante notare, o almeno accennare, ad una “coincidenza”: i primi
commentatori kantiani di lingua tedesca si erano trovati più o meno nella stessa
situazione dei loro futuri colleghi anglofoni. Tuttavia è altrettanto singolare
evidenziare come i commentatori anglofoni, escluse particolari eccezioni (si pensi,
per esempio, a Friedman e ad alcune sue posizioni, definite appunto
“neokantiane”66), non citino molto spesso i loro colleghi continentali. Nonostante
ciò, credo che una breve analisi di alcune indagini dei commentatori tedeschi
ottocenteschi di Kant, date appunto le suddette corrispondenze, possa tornar utile
anche per ciò che verrà esposto in seguito.
I.4. Il tempo dopo Kant.
L'importanza di Kant per i suoi diretti successori è stata enorme e palese.
Sembra difficile trovare un filosofo che non sia stato influenzato o non abbia subito il
fascino di alcune tesi kantiane. L’ascendente kantiano non ha irrigidito la crescita
delle teorie successive le quali, anzi, sono approdate a posizioni innovative che molto
si distaccavano dalle dottrine originarie e dalle tendenze del momento. Qui però,
dopo una breve introduzione, al fine di evitare un discorso che sarebbe a dir poco
enciclopedico, applicheremo tre tipi di limitazioni: da un lato ci concentreremo sulle
posizioni di coloro che hanno tentato di riproporre le nozioni kantiane nel loro
contesto, temporalmente e filosoficamente differente, spesso con qualche
aggiustamento; in secondo luogo, all’interno delle tesi di questi autori, ci
concentreremo sugli aspetti riguardanti principalmente il tempo; infine – e questo è
forse il punto più soggettivo – cercheremo di segnalare quelle posizioni che possono
avere un qualche interesse per il successivo dibattito tra i filosofi anglofoni, in
66
Soprattutto Friedman (2001) è stato considerato un testo che cerca di rivalutare il neokantismo e di
portarne avanti una nuova concezione. Si veda, ad esempio, Lange (2004).
40
particolar modo perché, più o meno implicitamente, anticipano alcuni dei loro studi.
Quello che in Germania è stato chiamato il “ritorno a Kant” è avvenuto in un
periodo fortemente dominato dall’empirismo e dal positivismo: questo tipo di
filosofie si erano molto sviluppate – cercando una data, all'incirca dopo la morte di
Hegel, nel 1831 – come reazione nei confronti degli eccessi metafisici
dell’idealismo. Le tesi kantiane sembravano proporre un buon compromesso a coloro
che volevano arginare i problemi dati da un empirismo ingenuo e a chi cercasse una
strada alternativa per rapportarsi ai recenti sviluppi scientifici67. Il 1865 viene spesso
usata come data indicativa per la “riscoperta” dell'impostazione kantiana in
Germania: è l’anno dell’uscita del libro Kant und die Epigonen di Otto Liebmann, la
prima di una serie di opere sul filosofo critico che, dalla seconda metà del
Diciannovesimo secolo in poi, vedono una vera e propria proliferazione. Basti citare
i testi più importanti: la monografia su Kant di Kuno Fisher del 1968, le opere
Versuch einer Entwickelunggeschichte der Kantischen Erkenntnistheorie (1875) di
Friedrich Paulsen, Kant's Kriticismus in der ersten und in der zweiten Auflage der
Kritik der reinen Vernunft (1878) di Benno Erdmann (il quale, tra il 1882 e il 1884
rende accessibile anche il Nachlaß di Kant) e, soprattutto, il primo volume del
Kommentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft (1881) di Hans Vaihinger, il quale ha
rappresentato una sorta di modello per tutta la filologia kantiana.
Ma l’indirizzo che per eccellenza si rifà al pensiero di Kant è, naturalmente, il
neokantismo, il quale si divide principalmente in due scuole: quella cosiddetta “di
Marburgo”, che ha avuto tra i suoi esponenti pensatori come Hermann Cohen, Paul
Natorp e Ernst Cassirer, e la “scuola di Baden” o “del Sud-Ovest della Germania”,
tra le cui fila hanno militato Wilhelm Windelband, Heinrich Rickert e nel cui solco si
è formato il giovane Martin Heidegger. È interessante la posizione di Heidegger, che
potremmo definire quasi “l’antagonista per eccellenza”: tra il 1923 e il 1927
insegnerà a Marburgo, per così dire, nella tana del lupo; nel 1929, come vedremo
meglio in seguito, parteciperà ad una famosa conferenza a Davos durante la quale
confronterà le sue posizioni con quelle di Cassirer. Tuttavia, nonostante gli spunti
offerti, le sue tesi non saranno tenute in gran considerazione dalla maggior parte dei
filosofi anglofoni o, tutt’al più, sarà usato come esempio in negativo di una
67
Cfr., per esempio, Lyne (2000: 206).
41
prospettiva diametralmente opposta alla loro.
Tornando alle differenze tra le due scuole, stando a quello che dice per
esempio Lyne (2000: 206), «entrambe, in modi differenti, richiamano l'attenzione
sulla netta distinzione di Kant tra la filosofia trascendentale e un approccio più
lockeano, genetico all'epistemologia». È la logica, liberata dalla psicologia empirica,
che si guadagna il centro della scena. Mentre però la scuola del Sud-Ovest si
concentra sull'analisi delle scienze storiche, cercando di allentare i legami – ritenuti
troppo stretti – tra il pensiero kantiano e le discipline scientifiche, la scuola di
Marburgo tentava invece una maggiore integrazione tra il pensiero critico e gli ultimi
sviluppi sia fisici sia matematici68. A questo proposito, è utile notare come la
filogenesi della scuola di Marburgo riproponga e riporti in luce, fin da subito, il
contrasto tra gli elementi razionalistici e quelli scientifici, ripartendo, da un certo
punto di vista, dalla situazione in cui si trovò Kant all’inizio della sua attività
speculativa. A tal proposito, è esemplare l'analisi di Hermann Cohen.
Cohen, da un lato, si sofferma sulla figura di Kant come momento
fondamentale di un processo che, in linea con la filosofia leibniziana, continua lo
sviluppo dell'idealismo il quale, passando per Cartesio, ha la sua origine in Platone69.
Dall’altro lato, Cohen non può non vedere come il metodo trascendentale sia anche
figlio dell'esame dei principi della scienza di Newton70. Il risultato sembra essere una
sorta di idealismo scientifico in cui l’opera di Kant rappresenta il punto più alto di
una strada che non è stata ancora del tutto percorsa. Ciò che ha impedito a questo
processo di arrivare al traguardo sembrerebbe imputabile, stando a Cohen, ad alcune
implicazioni dipendenti dalle istanze newtoniane accolte all’interno del sistema
critico, le quali hanno arrestato la spinta della filosofia kantiana. Ciò sarebbe
riscontrabile soprattutto nel modo di considerare l'intuizione pura, la quale «rivela la
dipendenza (negativa) di Kant dal newtonianesimo, essendo caratteristico del sistema
di Newton il ricorso al metodo sintetico degli antichi e quindi l'uso “sovrano”
68
Cfr. Lyne (2000: 206-7).
Ferrari (1988: 38). Uno sviluppo non solo filosofico, dato che arriverebbe a coinvolgere altre
personalità della cultura tedesca, come Von Boyen e Clausewitz (Ferrari 1998: 443-4).
70
Cfr. Ferrari (1988: 51-3). E altrove: «Siamo insomma di fronte al newtonianesimo di Kant: il
sistema dei principi rappresenta la determinazione dell'oggetto della fisica-matematica dei Principia di
Newton» (Ferrari 1988: 55).
69
42
dell'intuizione»71. Il senso denigratorio assegnato all'intuizione pura, il cui valore
sarebbe puramente metodico, rientra nel progetto di alcuni pensatori neokantiani che
vorrebbero assoggettarla ai principi dell'intelletto al fine di limitarla e di farla, per
così dire, assorbire dal pensiero puro. Dopotutto non c’era ragione perché le due
facoltà, in quanto entrambe pure, fossero così nettamente divise. Posto che si
consideri la facoltà principale l’intelletto, il muro tra di loro poteva essere abbattuto72
valutando la sensibilità in modo puramente funzionale nei confronti della facoltà dei
principi.
Ma la posizione di Cohen su questi temi non è condivisa da tutta la scuola di
Marburgo. Proprio sull'intuizione pura, o meglio, sul rapporto tra sensibilità ed
intelletto, le differenze sia con Natorp, sia, in seguito ed in maniera più accentuata,
con Cassirer, sono evidenti. Cohen e Natorp sostengono entrambi che lo spazio e il
tempo siano le condizioni relazionali attraverso cui ci si rapporta agli oggetti e
tramite le quali sia possibile fornire contenuti alle scienze. Tuttavia Natorp riconosce
«l'esigenza di trasporre spazio e tempo sul piano categoriale, ma conservandone una
posizione particolare: spazio e tempo non sono soltanto, come per Cohen, categorie
della matematica, bensì categorie dell'individuazione»73. In seguito Cassirer, in linea
con il pensiero di Natorp, svilupperà alcuni di questi elementi partendo dal
presupposto che tempo e spazio abbiano una natura relazionale e funzionale74.
Cassirer sottolinea – e qui sarà importante tenere presenti le analisi fatte nei paragrafi
precedenti – una sorta di filiazione di questi concetti dal pensiero di Leibniz:
spazio e tempo sono dunque la conferma […] della logica leibniziana come
logica delle relazioni: in essi si esprime la funzione produttiva del pensiero, la
sua originaria legalità relazionale che assolve il compito di oggettivare la
conoscenza al di fuori di ogni tradizionale schema predicativo.75
Lo studio effettuato da Cassirer sul tempo in Leibniz, in funzione dei suoi
rapporti con Kant, ci porta alla questione del suo legame con la sostanza, vista come
71
Ferrari (1988: 60-1).
Ferrari (1988: 60).
73
Ferrari (1988: 221).
74
Ferrari (1988: 221).
75
Ferrari (1988: 221).
72
43
il presupposto per avere una sequenza temporale logicamente oggettivata o, detto
altrimenti, come se la successione fosse fondata su una determinazione legale 76.
Tutto ciò rientrava nell'analisi della discussione, centrale per Leibniz, del concetto di
forza. Purtroppo qui non possiamo addentrarci ulteriormente in tali argomenti perché
ci allontaneremmo troppo dagli intenti del paragrafo. Tornando alla discussione
principale, è interessante notare come Cassirer, sia da giovane analizzando Leibniz
sia nella maturità sul pensiero di Kant, applichi una chiave interpretativa sviluppatasi
nell'ambiente di Marburgo stando alla quale i contenuti interni del soggetto sarebbero
ottenuti attraverso un’opera di produzione sintetica da parte del pensiero puro77. Ciò
era reso possibile grazie ad alcune caratteristiche del lavoro del pensiero stesso, come
la “continuità” – concetto già analizzato da Cohen il quale, a sua volta, riprendeva
molti spunti leibniziani: all'interno del pensiero si ha infatti una produzione continua
che porta da un elemento all’altro e che dà il senso di un passaggio ininterrotto.
Cassirer arriverà a sviluppare questa teoria svuotandola di ogni significato metafisico
e associandola ad un procedimento logico78.
Lo studio di Cassirer si muove anche su un piano più storiografico e cerca di
render conto di un atteggiamento nuovo nei confronti della realtà, così come emerge
nei dibattiti tra Sei e Settecento, mostrando una gran quantità di posizioni originali e
di nuove teorie riguardo alla dimensione temporale. Uno dei punti sui quali Cassirer
pone l’accento è proprio l’importanza della concezione del tempo in Leibniz vista
come momento di svolta rispetto al pensiero di Cartesio79. Quest’ultimo faceva
ruotare alcuni dei suoi concetti cardine attorno alla nozione di spazio. Una strategia
non nuova, basti pensare che Aristotele faceva leva sugli stessi presupposti derivando
la continuità del tempo proprio da quella spaziale: dato che lo spazio è continuo,
anche i moti che lo attraversano devono essere continui; ma per misurare i moti si
utilizza anche il tempo; quindi, fissata una corrispondenza tra i punti di una
traiettoria e il suo moto, si arrivava a stabilire la continuità temporale 80. Come nota
76
Cfr. Ferrari (1988: 226-7; 232).
Cfr. Ferrari (1988: 266).
78
Cfr. Ferrari (1988: 209-11).
79
«Descartes non riesce invece ad individuare la determinazione temporale come costitutiva della
dinamica: non concepisce il tempo indipendentemente dai movimenti dei corpi, non lo isola nella sua
purezza metodica e nella sua specificazione matematica come tempo infinitesimo diverso dal tempo
empirico» (Ferrari 1988: 174).
80
Gale (1968: 1). Il dibattito se sia il tempo a appoggiarsi sullo spazio o viceversa, è cresciuto molto
77
44
Cassirer (1902/1986: pp. 202), per Cartesio il tempo, «come concetto di genere si
staccava dalle cose solo in un secondo momento», di modo che, associando
«l’espressione sufficiente dell’essere» all’estensione, si cercava di «equiparare il
corpo naturale all’estensione come sostanza estesa»81. Inoltre lo spazio esterno aveva
un rapporto molto stretto con ciò che lo occupava, vale a dire la materia: così,
attraverso una serie di rimandi che partono dall’estensione, Cartesio arriverebbe a
mettere in relazione il concetto di sostanza con quello di spazio82. Anche qui un ruolo
fondamentale è giocato dalla sua concezione della continuità, il cui sviluppo sarebbe
rintracciabile nell’infinità geometrica dello spazio inteso come «aggregato rigido di
parti»83.
È interessante notare proprio il ruolo della geometria analitica84. Il modo di
considerare il rapporto tra la sostanza e lo spazio sarebbe proprio dettato dai risultati
matematici raggiunti da Cartesio – un’inclinazione che, in precedenza, era già stata
riscontrata sia in Newton sia in Leibniz. È possibile che ciò sia dovuto alla capacità
che la matematica ha di puntare direttamente agli aspetti essenziali del mondo
circostante: individuare i tratti salienti portati in luce dalla matematica, dunque,
equivarrebbe ad evidenziare le proprietà essenziali della realtà.
È questo il quadro di riferimento che fa da sfondo alle lettere inviate da
Burchard De Volder, sostenitore delle teorie cartesiane, a Leibniz, il quale, come
accennato, avrebbe tratto ispirazione, per alcune sue ipotesi, dal calcolo
infinitesimale85. De Volder «vede nell’estensione la vera realtà effettuale di cui la
in seguito agli sviluppi einsteiniani della fisica. Sebbene la spazializzazione del tempo sia stata la
tattica effettuata più di frequente, ci sono autori che hanno proposto anche punti di vista alternativi
(come la dinamizzazione dello spazio). Ad essere più precisi, sembra quasi che una volta scelta, tra le
due, la dimensione di riferimento l'altra possa esser derivata di conseguenza. Alcuni esempi possono
essere tratti da Čapek (1976).
81
Cassirer (1902/1986: p. 28). C’è chi, come Vailati (1997: 137), ritiene che solo la teoria newtoniana
sia riuscita a compiere la separazione netta tra spazio e materia, allontanandosi dal cartesianesimo,
mentre la posizione di Leibniz presupporrebbe anch’essa, in qualche modo, una materia esistente
necessariamente non riuscendosi a legare del tutto dalle teorie precedenti.
82
Cfr. Cassirer (1902/1986: p. 34).
83
Cassirer (1902/1986: 67).
84
Cassirer (1902/1986: p. 27): «La sostanza è dunque il presupposto generale dell’estensione ma
l’estensione non la esaurisce né la dà ancora nella sua funzione essenziale. Se nondimeno è
giustificato continuare a pensare sostanza e spazio in un rapporto particolare fra loro, questo può
significare solo che la geometria costituisce appunto la premessa necessaria per il problema della
sostanza, cioè per l’assunto di conoscere l’identità della legge in tutti i mutamenti della sostanza».
85
Per esempio, secondo Cassirer (1902/1986: 187-8), proprio le possibilità aperte dal calcolo
infinitesimale mostrano che la «natura propria del tempo è espressa nella fattispecie dal suo
conservare il carattere di variabile indipendente rispetto ad ogni grandezza con cui entra in rapporto.
45
continuità è una proprietà immediata. Il tempo e la sua continuità viceversa sono per
lui una semplice astrazione, un ens rationis nel significato scolastico negativo di
questo concetto»86. A Cartesio (e, di conseguenza, allo stesso De Volder), influenzato
in parte dalle teorie scolastiche, resta preclusa un’inedita concezione della continuità
dovuta soprattutto dal nuovo modo di concepire la conservazione della velocità87.
Inoltre, stando sempre a Cassirer (1902/1986: 67), il modo diverso di intendere la
continuità dipenderebbe, in parte, dagli sviluppi di Galilei e di Cavalieri, dove «i
costrutti spaziali» nascono «dal “flusso continuo” del tempo». Flusso continuo che,
all’interno del sistema leibniziano, non può naturalmente essere recepito come
un’entità in continuo scorrere, ma che deve essere ritenuto come l’ordine, il
passaggio consecutivo e costante da un oggetto all’altro. Cambiamenti che hanno
ripercussioni sul significato di sostanza, il quale, una volta «liberato dalle strettoie
dell’esserci spaziale e riferito al problema del tempo, […] frutta il concetto di
conservazione»88.
Lo studio delle flussioni e del calcolo infinitesimale, pertanto, permetteva a
Newton e soprattutto a Leibniz di osservare la sostanza da un nuovo punto di vista.
Come evidenzia efficacemente Cassirer (1902/1986: 203), «uno degli elementi
essenziali nella concezione leibniziana della sostanza» prende in considerazione
proprio il concetto di continuità, che «viene foggiato con esplicito riguardo al
problema del tempo». O, come dice altrove,
Cartesio non riesce a fondare il sistema della conoscenza della natura perché –
nella tendenza a ridurre e a restringere tutti i concetti fondamentali a rapporti
spaziali – perde di vista la base della dinamica moderna, il concetto di tempo.
Nessun altro concetto segna con altrettanta chiarezza i limiti originari del
sistema cartesiano della meccanica. Quanto è rimasto oscuro e lacunoso nei
singoli concetti e problemi, si può ricondurre in massima parte
In questa relativa indipendenza gli ordini, che inizialmente designavano sistemi di luoghi, pervengono
al nuovo significato logico della misura».
86
Cassirer (1902/1986: 202).
87
Cassirer (1902/1986: 66).
88
Cassirer (1902/1986: 67). È bene notare che, sebbene subito di seguito mi riferirò principalmente a
Leibniz, in queste pagine Cassirer rileva spesso anche il contrasto tra Cartesio e Newton,
sottolineando le novità di quest’ultimo rispetto alle posizioni definite spesso ancora aristoteliche del
filosofo francese.
46
all’imprecisione in cui è pensato il loro rapporto col concetto di tempo.89
Concetto, invece, posto al centro da Leibniz, il quale, come già accennato,
intenderebbe «la sostanza come legalità della successione temporale» determinando,
in tal modo, la natura come «conservazione del mutamento»90. La sostanza, associata
al tempo, «diviene il metodo dell’oggettivare logicamente la successione temporale:
solo come tale essa è in grado di esprimere mediatamente anche l’essere dello
spazio»91.
Ricapitolando, la scuola cartesiana, ispirandosi alle leggi della geometria che
esprimo oggetti dalle caratteristiche costanti, propone una concezione della sostanza
“rigida”, impostata e ferma, in cui il cambiamento non è previsto; Leibniz, invece,
pone la sostanza come fondamento delle leggi della variazione, del mutamento e
della successione, rendendola in ciò affine, e costituendo un parallelo, con alcune
proprietà particolari del pensiero puro92. Questo è un passaggio essenziale messo in
luce dagli esponenti neokantiani perché, come vedremo in seguito, non solo lo stesso
Kant sembrerà oscillare sulla possibilità di accostare il concetto di sostanza ora allo
spazio ora al tempo, ma proprio questa “indecisione” darà adito a due delle principali
chiavi di lettura del testo kantiano da parte dei commentatori anglofoni: la sostanza
va pensata in riferimento allo spazio o al tempo? E il fatto che due indirizzi di studio,
che poco hanno comunicato tra loro, arrivino ad evidenziare gli stessi problemi
riguardo l’esegesi del testo kantiano sta forse ad indicare una difficoltà oggettiva e
mai totalmente superata da parte del filosofo critico: una difficoltà che non è nata con
Kant ma a cui egli, soprattutto nella prima Critica, ha cercato di dare una risposta
appoggiandosi alla sua nozione di tempo a cui però non sembra aver fornito le armi
risolutive per porre termine, una volta per tutte, alla discussione.
89
Cassirer (1902/1986: 66).
Cassirer (1902/1986: 204).
91
Cassirer (1902/1986: 203).
92
Cfr. Cassirer (1902/1986: 203-4). Come vedremo meglio anche in seguito, l’ultimo passo di Leibniz
consiste nel legare la successione al principio di causalità e questo al principio di ragione sufficiente.
Nello specifico, l’ordine della successione oggettiva di un elemento dopo l’altro può risultare solo se
alla base del processo vi è un principio di causa-effetto. Un tema questo molto caro a Kant e che egli
svilupperà in seguito.
90
47
I.5. Il tempo di Kant al nostro tempo.
Cassirer è anche al centro di un episodio che alcuni autori indicano come lo
spartiacque storico nei rapporti tra le varie correnti filosofiche occidentali. L’evento
in questione è la famosissima conferenza di Davos, in Svizzera, nel 1929, in cui si
poté assistere ad un dibattito tra Cassirer, allora cinquantacinquenne ed esponente di
quello che ormai era considerato un indirizzo di studio istituzionalizzato della
filosofia tedesca, e Heidegger, di quindici anni più giovane, il quale era visto come il
rappresentante di un modo nuovo di fare filosofia. Ad assistere tra il pubblico,
inoltre, vi era un giovane Carnap, il quale poté addirittura parlare con Heidegger,
cosa che dovette colpirlo molto, in quanto, successivamente, mostrò un particolare
interesse per la sua filosofia93.
Tutta la vicenda è al centro, ad esempio, dell’analisi di Friedman. Egli è ben
consapevole che le cause della rottura dei rapporti e del dialogo tra filosofi analitici e
continentali non si limitano a quelle che emersero durante l’incontro94. Tuttavia, ai
suoi occhi, sembra quasi che la conferenza assuma un valore simbolico, l’ultima
occasione in cui tradizioni così diverse si sono potute confrontare tra di loro:
mentre negli anni precedenti l’incontro di Davos le differenti tendenze
filosofiche dalle quali poi emersero le tradizioni analitica e continentale erano
in grado di comunicare tra loro con profitto, sulla base di un comune
vocabolario filosofico, gli anni che seguirono all’incontro videro un crescente
isolamento – intellettuale, linguistico e geografico – e un’estraniazione delle
due tradizioni, dovuti in gran parte alla presa del potere da parte dei nazisti nel
1933 e all’emigrazione intellettuale che ne risultò, a seguito della quale
Heidegger rimase solo sul continente.95
Friedman assegna un peso importante a fattori extra-filosofici, quali la politica
tedesca negli anni 30 del secolo scorso. Ciononostante, si può affermare che questi
motivi vadano a rinforzare gli evidenti contrasti che erano già emersi tra filosofi
analitici e continentali, basta leggere le prole con cui Ryle accoglieva Essere e tempo:
93
Friedman (2000/2004: 5).
Cfr. Friedman (2000/2004: 7).
95
Friedman (2000/2004: X-XI).
94
48
«[q]uesto è un lavoro molto difficile e importante che segna un avanzamento
considerevole nell’applicazione del “Metodo Fenomenologico” – sebbene potrei
esprimere subito il sospetto che tale avanzamento sia un’avanzata verso il
disastro»96.
È tuttavia interessante osservare quale fosse per Friedman il terreno comune
su cui avevano dibattuto in precedenza le varie tendenze filosofiche: esso era
rappresentato da «un comune retaggio neokantiano»97. Un’area che permetteva il
confronto tra le più importanti correnti di pensiero dell’epoca:
L’empirismo logico, la fenomenologia husserliana, il neokantismo e la nuova
variante “ermeneutico-esistenziale”
della fenomenologia, proposta da
Heidegger, erano piuttosto impegnate un un’affascinante serie di scambi
filosofici e di lotte intorno ai mutamenti rivoluzionari che allora stavano
attraversando sia le Naturwissenschaften [scienze della natura] sia le
Geistewissenschaften [scienze dello spirito].98
Più nello specifico, durante il loro confronto Cassirer e Heidegger hanno dibattuto
«sul destino del neokantismo agli inizi del XX secolo; sulla corretta interpretazione
di Kant e, in particolare, sulla relazione tra facoltà logica dell’intelletto e facoltà
sensibile dell’immaginazione all’interno del pensiero kantiano»99, temi ben noti alle
scuole neokantiane. Tuttavia, qui non si è in presenza di un semplice confronto tra
due studiosi formatisi in indirizzi differenti. Infatti, l’intento di Heidegger, che
proprio in quell’anno dà alle stampe Kant e il problema della metafisica, appariva
molto più ambizioso: egli avrebbe tentato di «condurre finalmente a termine la
tradizione neokantina»100.
Ciò che, però, in quegli stessi anni sembra terminare è, come abbiamo visto,
il dialogo tra le correnti di pensiero occidentali, in particolare tra filosofi analitici e
continentale. Cosa ancor più strana se, come suggerisce Friedman (2000/2004: 189),
entrambe le scuole, analitica e continentale, si trovano a fronteggiare le conseguenze
96
Ryle (1929: 355).
Friedman (2000/2004: 6).
98
Friedman (2000/2004: 5).
99
Friedman (2000/2004: 7).
100
Friedman (2000/2004: 79).
97
49
della «distruzione dell’intricata architettura kantiana», la cui chiave di volta
consisteva proprio nella distinzione tra facoltà sensibile e intellettuale: una tale
distinzione presupponeva, al suo interno, che la struttura del pensiero fosse modellata
in base alla la logica formale, costituendo anche il presupposto dell’attività
intellettuale e culturale. Davanti a questa eventualità, dopo gli sforzi del
neokantismo, secondo Friedman (2000/2004: 190):
Possiamo restare legati, come Carnap, alla logica formale in quanto ideale di
validità universale e relegare noi stessi, di conseguenza, entro i confini delle
scienze esatte matematiche; oppure possiamo separarci, con Heidegger, dalla
logica e dal “pensiero esatto” in generale, con il risultato di rinunciare
all’ideale stesso della validità veramente universale.
Proprio con Carnap la «“filosofia scientifica” in quanto tale aveva lasciato il
mondo di lingua tedesca, e alla fine mise radici negli Stati Uniti. Qui si mescolò con
altre tendenze importanti interne al pensiero filosofico di lingua inglese (in
particolare della Gran Bretagna) per creare quella che ora chiamiamo tradizione
analitica»101. Sebbene, forse, il termine “tradizione analitica” sia forviante – ragione
per cui qui si è preferito usare l’indicazione linguistica, facendo riferimento alla
tradizione anglofona – i filosofi a cui sembra pensare Friedman costituiscono,
implicitamente, il retroterra culturale di coloro che si sono impegnati nella scrittura
di un commentario kantiano. Forse è proprio a causa di questi antenati comuni che,
implicitamente, le problematiche esposte dai neokantiani si sono ripresentate anche
tra i nuovi commentatori di Kant. Se Carnap viene considerato tra coloro che hanno
innestato i temi delle tradizioni continentali, da cui proveniva, in ambiente
anglofono, appare molto più netto il filo conduttore che va da alcuni commentatori
tedeschi di Kant a quelli anglofoni: dopo Carnap e, soprattutto, la sua polemica con
Quine102, i commentatori anglofoni, proprio per contestare alcune tesi quineiane,
sembrano voler ritornare all’origine di questo percorso, cercando di restaurare
101
Friedman (2000/2004: 190).
Com’è noto, il confronto tra i due autori prende le mosse dalla distinzione di Carnap tra i problemi
riguardanti la scelta di un’intelaiatura linguistica e quelli che si presentano all’interno dell’intelaiatura
scelta; il rifiuto dei due dogmi dell’empirismo ad opera di Quine (riguardanti l’analiticità e il
riduzionismo) si scontra totalmente con l’impostazione carnapiana. Cfr. Parrini (2002: 173 e sgg.).
102
50
l’architrave di un’impostazione che non solo permetta una distinzione tra un livello
epistemologico ed uno più prettamente empirico, ma che, così facendo, agevoli un
confronto tra i soggetti conoscenti.
Appare quindi meno casuale che il processo di riscoperta di Kant da parte dei
commentatori anglofoni segua, a grandi linee, le orme dei commentatori neokantiani,
e, soprattutto, dei membri della scuola di Marburgo. Quanto detto in precedenza, in
più, si unisce all’esigenza di coniugare gli sviluppi scientifici ad un quadro filosofico
che potesse rendere loro piena giustizia. A tal proposito, non sono infatti passati
inosservati i punti in comune tra Cohen e Peter Frederick Strawson, colui che sembra
aver riacceso l’interesse per Kant tra gli anglofoni. Strawson con The Bounds of
Sense, commentario sulla prima Critica kantiana, analizza i contenuti dell’opera con
“lenti analitiche”. Le similitudini con quanto già fatto dai neokantiani, e soprattutto
da Cohen – nonostante il testo appaia come un primo tentativo di avvicinare il
pensiero critico alle tematiche e al linguaggio di un tipo di filosofia del tutto diverso
– riguardano, ad esempio, l'atteggiamento positivo nei confronti delle discipline
scientifiche e il rifiuto di interpretazioni soggettivistiche o psicologiche della Ragion
Pura. Quest'ultimo punto, in particolare, ha nella lettura di Strawson tre conseguenze
molto importanti: la prima è la perdita del significato originario del dualismo tra
fenomeno e cosa in sé; in secondo luogo, si prospetta una rivalutazione del
significato di a priori (riconsiderazione a cui non sembrano estranee le tesi di
Reichenbach); e, infine, si pone un’attenzione maggiore sull'Analitica dei principi a
discapito di altre parti dell’opera103.
L’importanza assegnata al testo di Strawson non vuole dimenticare le opere
precedenti di autori (soprattutto inglesi) riguardanti in special modo la prima Critica
– basti pensare al commentario di Norman Kemp Smith. Tuttavia è dopo il libro di
Strawson, e soprattutto dopo il dibattito che ne è seguito, che nella seconda metà del
Ventesimo secolo c'è un notevole sviluppo di interesse per il pensiero di Kant da
parte degli autori angloamericani. Le numerose reazioni, iniziate su alcuni temi
particolari, hanno contribuito a sviluppare un vero e proprio dibattito a tutto campo,
quasi un genere letterario, che, gradualmente, si è esteso a tutto lo spettro delle
tematiche della filosofia critica. Il pensiero di Kant è stato usato come terreno di
103
Cfr. Edel (1997 : 62-4).
51
scontro, per esempio, tra autori prettamente analitici e autori che si rifacevano alla
filosofia della scienza, così come si è sviluppata quale corrente di pensiero
soprattutto in ambiti americani. Non solo: proprio negli anni Cinquanta questa sorta
di “ritorno a Kant anglofono” è stato visto sia come un colpo di coda nei confronti
delle tesi di Quine, sia come la riscoperta di un atteggiamento dialogante e proficuo
nei confronti degli sviluppi scientifici104.
Tuttavia, a dispetto dell’elevata quantità di lavori e dell'importanza del
concetto, il materiale disponibile sulla nozione “tempo” rimane, tutto sommato,
relativamente modesto. Sia perché esso è vittima di determinate strategie
interpretative, sia perché, proprio a livello esegetico, non riscuote il successo
ricevuto da altre nozioni. È possibile che ciò sia il risultato di più fattori: da un lato
c’è l’oscurità e l’indeterminatezza con cui, anche da parte di Kant, viene trattata
l’intuizione temporale – basti pensare che le parti in cui il tempo è la nozione chiave
sono quelle più rimaneggiate nella prima Critica; in secondo luogo, al posto
dell’intuizione temporale, viene spesso analizzato e portato come esempio – anche
per ciò che riguarda la sensibilità in generale – lo spazio: ciò potrebbe essere dovuto,
da un lato, alla maggiore chiarezza espositiva con cui viene presentata tale nozione
nelle opere di Kant, e, dall’altro, dalla linfa vitale che i dibattiti in merito
all’intuizione spaziale hanno ricevuto dalle rivoluzioni geometriche sviluppatesi già
dalla metà dell’Ottocento.
Quanto emerso finora dovrebbe rappresentare il quadro di riferimento in cui
si muoveranno le analisi dei commentatori anglofoni. Un quadro in cui si è tentato di
sottolineare, come affermato fin dall’inizio del capitolo, da una parte, i riferimenti
storici che rappresentano le premesse delle diverse cornici interpretative degli autori
che andremo a trattare, e, dall’altro, le linee guida su certe dispute su temi ricorrenti
che già in passato hanno coinvolto i commentatori di Kant e che si ripresenteranno,
in qualche modo, anche in Gran Bretagna o in America. Nei capitoli seguenti
cercheremo, più di ogni altra cosa, di rendere giustizia alla concezione kantiana del
tempo, facendo tesoro di quanto fin qui emerso. Al fine di rendere più agevole
104
Anche Bird (1998: 133), a questo proposito, sembra accettare che le «condizioni trascendentali
che, per Kant, rendono possibile l’esperienza umana non includono i principi fondamentali delle
scienze esatte; piuttosto, quelle condizioni trascendentali rendono possibili quei principi scientifici».
Alla base di questa distinzione c’è, com’è facile intuire, la volontà da parte di Bird di prendere le
distanze dall’impostazione di Quine.
52
l’esposizione, dedicheremo ognuno dei due capitoli successivi ad una delle due
funzioni che Kant assegna all’intuizione temporale: il tempo come senso interno e il
tempo come senso esterno mediato. Inizieremo dall’analisi del tempo come senso
interno.
53
54
II. Il tempo come forma del senso interno.
II.1. Introduzione.
In una delle sue famose osservazioni, il signor Palomar, vedendo la luce del
sole riflessa sul mare, pensa: «Non posso raggiungerla, è sempre lì davanti, non può
essere insieme dentro di me e qualcosa in cui nuoto, se la vedo ne resto fuori ed essa
resta fuori»1. Ecco, per quel che riguarda il tempo la situazione è l'esatto contrario: è
qualcosa dentro cui nuoto ma, nello stesso momento, è anche dentro di me. O
meglio, come spiega William Barrett: «L'uomo trascende il tempo ma attraverso le
strutture del tempo. […] Io trascendo la mia condizione finita ma questa
trascendenza è essa stessa una sintesi […] del tempo. L'uomo trascende il tempo ma
solo dentro il tempo»2.
Tra la sua funzione immediata e quella mediata, come le chiama Kant,
tuttavia qualcosa cambia. In questo capitolo ci occuperemo del tempo come senso
interno, dei suoi rapporti con altre facoltà o capacità che si occupano dell'unità della
conoscenza interna e delle letture che ne hanno dato i vari commentatori, cercando di
fornire un'analisi che non vada oltre il soggetto conoscente ma che resti al suo
interno. Uno dei nodi principali che intendo affrontare riguarda la difficoltà di
separare nettamene i confini del piano epistemologico da quello ontologico. La
complessità di un compito del genere si evince facilmente dall'andamento delle
interpretazioni di tali argomenti, le quali, in periodi differenti, sono state impostate
ora su un determinato tipo di lettura, ora sull'altro. Lo sviluppo complessivo delle
analisi, pertanto, non si presenta con un incedere, per così dire, progressivo, ma
appare come un processo che si muove per strappi, rimozioni e riprese.
Alcuni esempi: la lettura ontologica di Kant forse più nota è quella data da
Heidegger nel suo famoso Kant e il problema della metafisica. Tuttavia, lo stesso
tipo di lettura era stato, un decennio prima, il punto di partenza di uno dei più illustri
commentatori inglesi di Kant, Norman Kemp Smith:
1
2
Calvino (1983/2012: 14-15).
Sherover (1971: XII).
55
L'aspetto ontologico, creativo o dinamico – e potrei continuare – della
coscienza deve essere sempre tenuto presente se si vuole osservare
correttamente il punto di vista critico. L'analisi logica è davvero lo scopo della
parte centrale della Critica, la più importante, e da sola permette uno sviluppo
dettagliato ed esaustivo; tuttavia l'altra non è meno essenziale al fine di
apprezzare l'atteggiamento di Kant verso i problemi più squisitamente
metafisici della dialettica.3
Quando nella seconda metà del secolo, Sherover analizzerà il tempo kantiano
cercando di evidenziarne gli aspetti ontologici, ricordati i presupposti di partenza di
Kemp Smith, utilizzerà in misura preponderante il commentario di Heidegger 4. Ciò
in parte è dovuto all'estrema rilevanza data da Heidegger al tempo e alla sintesi a
priori, vista come uno dei cardini della Rivoluzione Copernicana, la quale permette
di andare oltre i dati materiali per arrivare alla conoscenza dell'ontologia immanente
degli oggetti conosciuti5. È su questo rapporto – l'essere degli oggetti in rapporto alle
nostre facoltà di conoscerli – che diviene in seguito possibile l'indagine dei
fondamenti a priori delle condizioni epistemologiche.
Agli antipodi dell'esempio precedente c'è la posizione di Allison. Egli parte
dal presupposto che l'idealismo kantiano rifiuti le ontologie del passato, ma non con
lo scopo di fondarne una nuova, bensì con l'intenzione di arrivare ad «un'alternativa
all'ontologia, secondo la quale spazio e tempo sono concepiti nei termini delle loro
funzioni epistemiche»6.
In questo altalenarsi da una posizione all'altra, gioca un ruolo fondamentale
una peculiarità del tempo: nonostante la centralità assegnatagli da Kant –
ricordiamoci che rappresenta la forma a priori di tutti i fenomeni in generale – esso è
una nozione profondamente poco chiara. O meglio, nel tempo sembrano fondersi
insieme evidenza e indeterminatezza. Non è un caso che Heidegger sembra proprio
riferirsi a tale nozione quando parla della «radice a noi sconosciuta» citata da Kant7.
3
Kemp Smith (1918/1979: XLV).
Cfr. Sherover (1971: 31-2).
5
Sherover (1971: 35).
6
Allison (2004: 98).
7
Heidegger (1929/2006: 41). Heidegger sembra qui riferirsi a questo passo di Kant (1781/2005: 625,
4
56
E Kemp Smith (1918/1979: xliii-xliv), parlando più in generale dei processi interni
della coscienza, nei quali il tempo ha un ruolo importantissimo, arriva ad usare
termini molto simili:
i processi sono conosciuti solo attraverso quello che essi condizionano e, in
base all'insegnamento di Kant, siamo completamente tagliati fuori dal tentare
di comprenderne anche la loro possibilità. Devono essere pensati come cose
che si verificano ma non possono essere conosciuti, cioè la loro natura non
può essere definita specificatamente. […] La mente (mind) può rivelare i suoi
contenuti nella luce della coscienza solo perché le sue radici si spingono nella
profondità di un suolo in cui la luce non penetra.
Data la complessità di posizioni che stiamo per affrontare, avremmo bisogno di un
filo che ci guidi nel labirinto di attributi di volta in volta assegnati al tempo. Questo
filo, in verità molto sottile, può essere rappresentato dal modo in cui sono collegate
tra loro le facoltà kantiane.
II.2. Il tempo tra facoltà e capacità.
L'architettura della prima Critica per molti è già un indice dell'importanza e
dei rapporti di forza interni all'opera. Nel corso della discussione l'attenzione sarà
posta su quelle facoltà e su quelle sezioni che più direttamente hanno a che fare con
il tempo come senso interno. Ciò vuol dire occuparsi principalmente del diverso
trattamento che il tempo riceve nell'Estetica e nell'Analitica trascendentale. La mia
analisi, tuttavia, parte da un presupposto che, se corretto, permette di spiegare la –
per così dire – “fluidità” delle relazioni tra le varie facoltà e di conseguenza la varietà
delle molteplici interpretazioni.
Prima però è bene sottolineare alcune cose. In primo luogo, come evidenzia
anche Kitcher (1999: 364), Kant è un funzionalista: spesso non si sofferma a definire
A 835/B 863): «Noi ci limiteremo qui, per completare la nostra opera, a progettare soltanto
l'architettonica dell'intera conoscenza ricavabile dalla ragion pura, prendendo le mosse dal punto in
cui la radice universale della nostra facoltà conoscitiva si suddivide in due ceppi, di cui uno è la
ragione. Per ragione intendo qui tutta la facoltà conoscitiva superiore, contrapponendo in tal modo il
razionale all'empirico».
57
le facoltà; esse, il più delle volte, sono descritte attraverso l'esposizione dei loro
processi. Ciò vale anche per le singole nozioni. In più, non è raro che queste
descrizioni siano sparse lungo il corso di tutta l'opera, magari enunciando alcuni
aspetti in un primo momento e completando l'elenco in seguito.
A queste difficoltà metodologiche si aggiungono quelle terminologiche. È
molto difficile mantenere una distinzione costante tra quelle che Paton (1936/1976:
V. I, 345) chiama “capacità” (Fähigkeit) e quelle che chiama “facoltà (power)”
(Vermögen). Inizialmente, secondo l'autore, nel primo gruppo rientrerebbero le
competenze passive del soggetto conoscente, mentre nel secondo quelle attive 8.
Tuttavia lo stesso Paton è subito costretto a ricalibrare il tiro, forse memore del
famoso passo della prima edizione della Critica: «[e]sistono dunque tre fonti
originarie (capacità o poteri dell'anima), che contengono le condizioni della
possibilità di ogni esperienza, e che non possono trarre origine da alcun'altra facoltà
dell'animo, cioè: senso, immaginazione e appercezione»9. Salta subito all'occhio che
il senso, e quindi la sensibilità, sia considerata una capacità attiva, contrariamente ad
altri luoghi della critica.
Crea ben più complicazioni lo stesso Paton (1936/1976: V. I, 397) quando
sfuma il confine tra capacità e facoltà sostenendo che si possa usare “appercezione”
per identificare l'intelletto (o il pensiero in generale), se si parla, in primo luogo,
dell'autocoscienza. Viene da chiedersi: allora l'intelletto, quando non è considerato
nell'accezione di appercezione, è una facoltà passiva? Non sembrerebbe essere
possibile10, dato che, parlando soprattutto della formazione dei concetti, viene spesso
contrapposto alla sensibilità, e le caratteristiche di quest'ultima, a loro volta,
farebbero pensare ad una facoltà eminentemente passiva: «[l]a capacità di ricevere
(recettività) rappresentazioni, mediante il modo in cui siamo affetti dagli oggetti, si
chiama sensibilità»11. È vero, alcuni autori hanno sottolineato le caratteristiche di
8
Paton (1936/1976: V. I, 345 n5).
Kant (1781/2005: 159, A 94).
10
Si pensi ai passi, tratti dalla prima e dalla seconda edizione: «abbiamo dato dell'intelletto definizioni
diverse: la spontaneità della conoscenza (di contro alla ricettività del senso)» (A 126); «la
congiunzione (conjunctio) di un molteplice in generale non può mai provenirci dai sensi, e neppure
esser racchiusa nella forma pura dell'intuizione sensibile. Essa è infatti un atto della spontaneità della
facoltà rappresentativa, la quale, per esser distinta dalla sensibilità, è detta intelletto» (Kant
1781/2005: 161, B 130).
11
Kant (1781/2005: 97, A 19/B 33).
9
58
creatività dell'intuizione pura: basti pensare al fatto che le forme a priori della
sensibilità impongono i loro caratteri ad ogni possibile oggetto di conoscenza e ciò
non può essere ritenuto frutto di proprietà meramente passive12. In più, si tende a
distinguere tra sensibilità stessa, intuizione e percezione13, termini in cui si evidenzia
il diverso grado di partecipazione al processo di acquisizione al materiale empirico
da parte del soggetto conoscente. Tuttavia la sensibilità è vista, fin dalla sua
definizione, come una facoltà passiva: «[l]a capacità di ricevere (recettività)
rappresentazioni, mediante il modo in cui siamo affetti dagli oggetti»14.
L'idea è pertanto quella di mantenere la distinzione lessicale tra “facoltà” e
“capacità” evidenziata da Paton, cercando di migliorarne i criteri: nel primo gruppo
rientrerebbero funzioni, quali la sensibilità, l'intelletto e la ragione, a cui Kant ha
dedicato una sezione nella sua opera. Nello stesso gruppo sarebbe inserita anche
l'immaginazione, sia perché ritenuta spesso, dagli autori che hanno preceduto Kant e
dai suoi coevi, una facoltà conoscitiva dell'animo umano, sia perché, almeno per tutta
la prima edizione, viene considerata una funzione molto importante, quasi sullo
stesso livello della sensibilità e dell'intelletto. Chiameremo invece “capacità”, per
esclusione, quelle funzioni che non assurgono al ruolo di facoltà canoniche e che
sembrano, in qualche modo, svolgere funzioni per conto o all'interno delle stesse
facoltà.
L'immagine delle facoltà e delle capacità kantiane che se ne ricava è,
pertanto, simile a quella della struttura geologica della Terra, in cui, a livello
superficiale, abbiamo le tre facoltà, per così dire, canoniche: sensibilità, intelletto e
ragione. Tra di esse, surrettiziamente, soprattutto nelle crepe tra sensibilità ed
intelletto, risale dalle profondità, come un fiume lavico, l'immaginazione, con una
violenza tale che a volte distacca, talvolta salda e, in rari casi, crea un nuovo
12
Sherover (1971: 53).
Com'è noto, l'intuizione è il modo della conoscenza che si riferisce immediatamente agli oggetti
(cfr. Kant 1781/2005: 97, A 19/B 33); mentre la percezione si ha quando il fenomeno «è legato alla
coscienza» (cfr. Kant (1781/2005: 653, A 120) oppure è definita «la relativa coscienza empirica (come
fenomeno)» (Kant (1781/2005: 180, B 160). È interessante notare come questo passaggio (e
soprattutto la nota al suo interno) sia alla base dell’interpretazione di Waxman (1991: 80): «una volta
che ci si approccia con la consapevolezza che nell’Estetica è stato lasciato libero un posto per
l’attribuzione di una spontaneità pre-concettuale e non-discorsiva allo spazio e al tempo, [quel passo]
comincia ad apparire per cosa, stando alla mia interpretazione è: la più chiara e la più inequivocabile
affermazione dell’origine, dovuta all’immaginazione, dello spazio e del tempo nella Critica della
Ragion pura».
14
Kant (1781/2005: 97, A 19/B 33).
13
59
territorio tra le altre facoltà. Ad un livello più profondo, come placche che slittano tra
una zolla e l'altra, troviamo tutte quelle capacità che Kant cita nella sua Critica, quali
l'appercezione o l'apprensione, e il cui compito sarebbe proprio quello di muoversi
tra l'una e l'altra placca superiore. Fuor di metafora: Kant sembra mantenere la
distinzione classica tra le facoltà, ma introduce capacità che servono da un lato a
collegare tra di loro le facoltà superiori e, dall'altro, a spiegare il funzionamento dei
punti oscuri dell'epistemologia kantiana.
La similitudine proposta aiuta anche a capire i rapporti di forza tra le facoltà
kantiane e le “incoerenze” tra di esse, temi che hanno trovato spazio in quasi tutte le
opere dei commentatori di Kant. Secondo alcuni, nell'Estetica trascendentale, che si
occupa della sensibilità, si analizzerebbero quelli che sono gli elementi passivi
dell'attività epistemologica, mentre nell'Analitica, in cui si parla anzitutto
dell'intelletto, quelli attivi, facendo emergere, di conseguenza, questi due aspetti del
tempo15. È facile infatti constatare le differenze nel modo di considerare tale nozione
nelle due parti dell'opera. Differenti sono state però le spiegazioni a proposito, spesso
dovute all'importanza che il commentatore assegna ad una facoltà specifica in vista
di suoi scopi specifici. Un punto di vista che ha avuto molto seguito in alcune scuole
neokantiane evidenziava il ruolo che l'intelletto avrebbe avuto sulla sensibilità, la
quale fornisce il materiale empirico non svolgendo altro che una funzione, per così
dire, di servizio. Ciò implicherebbe una diretta dipendenza del tempo dai principi
dell'intelletto, in particolare dalle analogie dell'esperienza.
Sul continente c'era chi invece abbracciava la teoria completamente opposta.
Famosa è infatti la posizione Heidegger16, il quale afferma che a fondamento di tutta
la conoscenza c'è la sensibilità o meglio, l'intuizione, e che sia l'intelletto a basarsi su
di essa:
l'intuizione finita (sensibilità) ha bisogno, come tale, di essere determinata
mediante l'intelletto. Ma l'intelletto, già in se stesso finito, è a sua volta
assegnato all'intuizione […]. [Kant] colloca il carattere fondamentale del
15
Sherover (1971: 53). Nell'Analitica, inoltre, sparirebbe quella sorta di parità tra spazio e tempo e
quest'ultimo mostrerebbe a pieno il suo ruolo di facoltà kantiana fondamentale.
16
Tra l'altro in aperta opposizione alla scuola di Marburgo e al suo tentativo «di concepire spazio e
tempo come “categorie” in senso logico e di risolvere nella logica l'estetica trascendentale», definito
«insostenibile» (Heidegger 1929/2006: 129).
60
conoscere nell'intuizione. Ma la necessaria appartenenza della sensibilità e
dell'intelletto all'unità essenziale della conoscenza finita non esclude, anzi
implica che vi sia una gerarchia nel fondarsi strutturale del pensiero
sull'intuizione, intesa come rappresentazione conduttrice.17
È già lì che si afferma la supremazia del tempo: «Heidegger ha interpretato l'Estetica
come se volesse dirci che l'intuizione, la possibilità della sensibilità, fosse
“riducibile” al tempo, la forma del senso interno»18.
Lo stesso Kant non è immune da colpe, dato che le varie posizioni sono
alimentate dai cambiamenti da lui effettuati tra le due edizioni dell'opera. Per
esempio, nella prima edizione della Critica, cercando di definire l'appercezione, si
afferma che si hanno
tre sorgenti soggettive di conoscenza pura su sui poggia la possibilità di
un'esperienza in generale e della conoscenza dei suoi oggetti: senso,
immaginazione e appercezione. […] Il senso rappresenta in modo empirico i
fenomeni nella percezione, l'immaginazione nella associazione (e nella
riproduzione),
l'appercezione
nella
coscienza
empirica
dell'identità
intercorrente fra queste rappresentazioni riproduttive e i fenomeni mediante
cui esse sono date, quindi nella ricognizione.19
Poco dopo Kant precisa ulteriormente tutto dichiarando che a fondamento della
percezione (e quindi, presumibilmente, del senso) c'è l'intuizione pura, mentre la
sintesi pura dell'immaginazione è la base a priori dell'associazione ed infine
l'appercezione lo è della conoscenza empirica. Ora, trascurando la questione dei
17
Heidegger (1929/2006: 40). È interessante, a livello introduttivo, notare la differenza che Dreyfus
(1991: 343-4, n 13) sottolinea tra l’impostazione kantiana e quella heideggeriana: «[c]osì come le
categorie di Kant ci parlano, in generale, delle caratteristiche di un oggetto, allo stesso modo gli
esistenziali di Heidegger ci parlano delle caratteristiche generali dell’Esserci. Dobbiamo, comunque,
essere cauti per evitare la tentazione di pensare gli esistenziali come la struttura generale dei soggetti,
analogo al modo in cui le categorie sono la struttura generale degli oggetti. Piuttosto, poiché l’esserci
è, essenzialmente un ente che si auto-interpreta, gli esistenziali ci danno la struttura generale
dell’esistenza. […] Perciò Heidegger chiama la sua indagine esistenziale di contro all’analitica
trascendentale. In accordo con l’analitica esistenziale di Heidegger, l’Esserci deve esistere
fattualmente – cioè, diversamente dall’ego trascendentale) è necessariamente implicato nel (e
dipendente dal) mondo che esso dischiude e non può mai gettare luce su che cosa il mondo è in sé».
18
Sherover (1971: 58).
19
Kant (1781/2005: 650-1, A 115).
61
rapporti gerarchici tra, per esempio, sintesi e intuizione pura – qui messe sullo stesso
piano, a fondamento delle sorgenti conoscitive, ma altrove considerata una più
fondamentale dell'altra – c'è, come vedremo meglio in seguito, il grosso problema
che nella seconda edizione tutto questo non viene riportato, mentre dell'appercezione
e dell'immaginazione si dà un'analisi molto diversa20.
A differenza delle scuole ottocentesche e novecentesche, oggi si sta sempre
più affermando la tendenza a non considerare in contrasto le due parti della Critica,
ma a ritenerle complementari. Secondo Allison (2004: 191-2), ad esempio, «la
necessità di rappresentare tutti i fenomeni in un singolo tempo e in un singolo spazio
non è una pretesa (demand) imposta alla sensibilità dall'intelletto ma è piuttosto una
richiesta di quest'ultimo alla prima». Date queste difficoltà, cercheremo pertanto di
seguire l'ordine di esposizione delle varie nozioni, partendo dalla principale, ossia dal
senso interno.
II.3. Il tempo come senso interno nell'Estetica trascendentale.
Kant stabilisce l'uguaglianza tra tempo e senso interno nella prima sezione –
escluse naturalmente le introduzioni – della Critica, l'Estetica trascendentale,
definita la «scienza di tutti i principi a priori della sensibilità»21. Tali principi sono le
forme a priori del soggetto conoscente entro cui gli oggetti esterni devono essere
sussunti per poter essere intuiti. Nel caso un oggetto non possa essere intuito
all'interno di esse non può diventare un oggetto di esperienza possibile, non può
essere conosciuto. Com'è noto le forme a priori della sensibilità sono lo spazio e il
tempo. Di quest'ultimo, in questa stessa sezione, viene anche affermata l'identità con
il senso interno:
Il tempo non è altro che la forma del senso interno, ossia dell'intuizione di noi
stessi e del nostro stato interno. Difatti il tempo non può essere a nessun titolo
una determinazione dei fenomeni esterni […] ma, al contrario, determina il
20
C'è chi si è spinto ben oltre in questo progetto. Per esempio Buchdahl (1992: 169) afferma che «la
nozione di apparenza di legalità (lawlikness) e di sistematicità della natura è definita da Kant solo
attraverso la 'ragione', l''intelletto' non assicura altro che la possibilità di giudizi contingenti
concernenti particolari materie di fatto».
21
Kant (1781/2005: 98, A 21/B 35).
62
rapporto delle rappresentazioni nel nostro stato interno. 22
Tuttavia questa è solo la seconda di tre conseguenze che Kant elenca dopo i cinque
punti dell'Esposizione metafisica del concetto di tempo in cui vengono stilate le varie
caratteristiche dell'intuizione temporale.
I primi tre punti e il quinto sono abbastanza lineari. Nel primo punto si
afferma che il tempo non è un concetto empirico perché «la simultaneità o la
successione non potrebbero neppure mai costituirsi come percezioni se non ci fosse a
priori, quale fondamento, la rappresentazione del tempo»23. La simultaneità si ha
quando qualcosa è rappresentato nello stesso tempo, la successione in tempi diversi.
Il secondo punto stabilisce che il tempo è a priori e a fondamento di tutte le
intuizioni. Il genere di “esperimento mentale” che propone Kant per dimostrare la
necessità del tempo rispetto alle rappresentazioni è quello di far vedere la possibilità
di svuotare il tempo di tutti i fenomeni e l'impossibilità di togliere il tempo stesso
come tale. I principi necessari, definiti “assiomi del tempo in generale”, vengono
presentati nel terzo punto: essi sono la monodimensionalità e il fatto che «tempi
diversi non sono simultanei ma successivi»24. Tali caratteristiche potranno essere
apprezzate a pieno solo grazie a quanto viene detto nei punti seguenti. Infine, il punto
5 ci dice che possiamo avere varie quantità determinate di tempo solo se a
fondamento di tutto c'è un unico tempo illimitato.
Il quarto punto è forse il più articolato, poiché vengo messi in luce alcuni
aspetti che non sono immediatamente collegabili tra loro. All'inizio Kant sembra
riprendere i primi due punti per poi svilupparli: «il tempo non è un concetto
discorsivo o, come si suol dire, universale, ma una forma pura dell'intuizione
sensibile»25. Quindi il tempo non è solo base per le intuizioni, ma è un'intuizione a
sua volta e per di più pura. Un'intuizione pura è un'intuizione «in cui nulla è
riscontrabile che appartenga alla sensazione»26 e in cui si dà «la semplice forma dei
fenomeni, ossia l'unica cosa che la sensibilità possa fornire a priori»27. Inoltre, come
22
Kant (1781/2005: 108, A 33/B 49-50).
Kant (1781/2005: 106, A 30/B 46).
24
Kant (1781/2005: 106, A 31/B 47).
25
Kant (1781/2005: 107, A 31/B 47).
26
Kant (1781/2005: 98, A 20/B 34).
27
Kant (1781/2005: 99, A 22/B 36).
23
63
passo successivo, viene affermato che «[t]empi diversi non sono che parti dello
stesso tempo». Quanto detto finora è sintetizzato nella dichiarazione: «la
rappresentazione che può essere data solo da un unico oggetto è un'intuizione».
Infine, con una mossa a metà strada tra una spiegazione e una conseguenza, Kant
chiarisce che la proposizione «tempi diversi non possono essere simultanei», essendo
«contenuta immediatamente nell'intuizione e nella rappresentazione del tempo»28 è
una proposizione sintetica e non può essere ricavata da un concetto, per quanto
generale.
Dai cinque punti Kant trae tre conseguenze. La prima, parallela a quanto detto
per lo spazio, getta le basi per l'equivalenza tra tempo e senso interno, affermando
che «il tempo altro non è che la condizione soggettiva per la quale tutte le intuizioni
possono aver luogo in noi. […] forma dell'intuizione interna [che] può essere
rappresentata anteriormente agli oggetti, quindi a priori»29. Nella seconda
conseguenza non solo viene stabilita l'uguaglianza sopra riportata, ma viene
introdotto un esempio che sarà molto importante per le discussioni successive:
è proprio perché questa intuizione interna non ha alcuna figura che noi
cerchiamo di porvi rimedio con analogie, rappresentando la successione
temporale con una linea che va all'infinito, nella quale il molteplice dà luogo a
una serie monodimensionale; e dalle caratteristiche di questa linea inferiamo
tutte le proprietà del tempo, tranne una sola, giacché le parti della linea sono
simultanee, mentre quelle del tempo sono successive.30
La terza conseguenza entra più nel dettaglio, ridefinendo i rapporti tra
rappresentazioni e senso interno. Ribadita la sua idealità trascendentale, si sottolinea
che il tempo è la condizione formale di tutti i fenomeni dato che le rappresentazioni
«appartengono in se stesse, quali determinazioni dell'animo, allo stato interno, e
siccome questo stato interno ubbidisce alla condizione formale dell'intuizione
interna, ossia del tempo, ne segue che quest'ultimo è la condizione a priori di ogni
fenomeno in generale: condizione immediata dei fenomeni interni (delle nostre
28
Kant (1781/2005: 107, A 31-2/B 47).
Kant (1781/2005: 108, A 33/B 49).
30
Kant (1781/2005: 108, A 33/B 50).
29
64
anime) e, di conseguenza, condizione mediata di quelli esterni»31.
A ciò va aggiunta un'ultima precisazione, una puntualizzazione che Kant fa
nella seconda edizione e che chiama Esposizione trascendentale del concetto di
tempo. In questo paragrafo viene affermato che il movimento (regolato dalle leggi
del moto) e il mutamento sono possibili solo grazie alla rappresentazione del tempo e
che se questo non fosse un'intuizione non potremmo, per esempio in un passaggio di
stato, mettere in relazione tra loro due predicati appartenenti ad uno stesso concetto.
Se per esempio io dico che la cera prima era solida e ora è liquida (magari perché si è
sciolta al sole) abbiamo due predicati contraddittori e il poterli riferire sempre alla
cera è reso possibile dall'intuizione temporale la quale ha, appunto, le caratteristiche
sopra elencate: «[s]olo nel tempo due determinazioni opposte contraddittorie possono
aver luogo in un medesimo oggetto, e precisamente l'una dopo l'altra»32. Molto di ciò
che è stato detto fin qui, come vedremo, sarà la base di vari punti che cercherò di
approfondire nel corso della ricerca. Per ora è importante ritornare al tempo come
senso interno.
C'è un modo, dopo quanto è stato detto, di esemplificare la funzione minima,
essenziale, dell'intuizione temporale che ha in mente Kant? Proverò a fornire un
esempio. Innanzitutto il tempo deve poter render conto della successione e/o della
sequenza: riducendo al nocciolo la sequenza più basilare a cui si possa pensare si
ottiene da una successione di due elementi o stati, A e B. Questa sequenza, in
secondo luogo, deve essere interna al soggetto conoscente: pensiamo quindi che A e
B siano due rappresentazioni e, seguendo l'esempio di Kant, spogliamo le
rappresentazioni di tutto ciò che possono aver ricevuto dall'esterno. Ciò va
dall'immagine della lancetta dei secondi che scorre costantemente ad intervalli
uniformi fino alle grandi astrazioni della fisica, come il tempo assoluto newtoniano.
Naturalmente siamo in una condizione molto artificiosa. “Ripulito” da tutto, il
nocciolo del tempo come senso interno sta in questa sorta di monodimensione su cui
è possibile che si succedano A e B: questi due stadi diversi sono già tempo. Un
soggetto conoscente i cui stati interni non siano pronti ad accogliere una sequenza
minima di questo tipo, in cui ci sia immobilità, in cui il suo stato sia, per così dire,
31
32
Kant (1781/2005: 109, A 34/B 50).
Kant (1781/2005: 108, B 49).
65
congelato, anche a dispetto di un mondo che muta, non avrebbe l'intuizione del
tempo. Dopodiché l'esperienza dà l'occasione affinché il senso interno sia, per così
dire, spezzato in due: da una parte la rappresentazione A, dall'altra B. Penso che sia
questa la funzione minima e fondamentale che Kant assegna al tempo, soprattutto in
quanto forma del senso interno.
Certo, se anche quanto ho esposto fosse corretto, rimarrebbero sempre molti
punti da chiarire. In primis: questa capacità di render conto di istanti successivi
avviene in base a fattori strettamente epistemologici oppure le caratteristiche del
senso interno possono o devono essere intese ontologicamente? I commentatori sono
divisi sui presupposti appartenenti all'uno o all'altro livello; tuttavia sembra esserci
abbastanza condivisione sul fatto che le conseguenze si presentino sia a livello
ontologico sia a livello epistemologico (per come abbiamo definito l’epistemologia
in precedenza). Sherover (1971: 54), per esempio, sebbene appoggi una prospettiva
ontologica, non può definire il tempo semplicemente un ente e non può ignorarne le
implicazioni epistemologiche: esso «è una funzione, la capacità del soggetto di avere
un'esperienza interna coerente; è un modo di collegare tra loro le esperienze; non ha
un contenuto proprio ma è il modo in cui ogni contenuto deve essere ricevuto».
Al contrario Allison (2004: 276-7) comincia la sua analisi considerando il
senso interno in funzione della conoscenza di sé, del legame particolare che
intrattiene con le analogie dell'esperienza (soprattutto sul tema dell'ordine temporale
oggettivo) ed evidenziando, in questo modo, l'importanza data agli aspetti
epistemologici. Anche la rappresentazione del tempo come una linea, in cui la
tematica della produzione da parte dell'immaginazione è sfiorato, si risolve
immediatamente nel problema di dover trovare dei candidati esterni per la
rappresentazione del tempo. Stando alle conclusioni a cui giunge Allison (2004: 277)
il senso interno si deve appellare costantemente allo spazio, sbilanciando a favore di
quest'ultimo i rapporti di forza all'interno della sensibilità. Infatti il tempo non ha un
proprio molteplice e non rientrerebbero nel senso interno come rappresentazioni del
sé33 neanche i sentimenti. Oggetto del senso interno sarebbero le rappresentazioni
empiriche intese come una mediazione di quelle offerte dal senso esterno. A ciò si
rifarà il contrasto tra senso interno e appercezione «come due modi di autocoscienza,
33
Allison (2004: 278).
66
dove l'ultimo produce il pensiero del sé ma non la sua conoscenza»34.
Ciò ci porta al modo in cui si prende coscienza di noi stessi. Su questo – e il
proseguimento della discussione tenderà a confermarlo – Kant sembra separare due
livelli: il più superficiale, quello che Allison sopra ha chiamato “pensiero di sé”, in
cui abbiamo a che fare con i nostri stati acquisiti empiricamente; il secondo, che
potremmo chiamare trascendentale, in cui operano nozioni quali l'intelletto e
l'appercezione le quali provvedono a dare unità agli stati provenienti dalla sensibilità.
Ad occuparsi del primo livello è proprio il senso interno, il quale rende conto,
appunto, degli stati empirici: «per suo mezzo, noi intuiamo noi stessi soltanto nel
modo in cui veniamo interamente affetti da noi stessi, cioè che, per quanto concerne
l'intuizione interna, noi conosciamo il nostro proprio soggetto soltanto come
fenomeno e non già in quanto è in se stesso»35. A creare confusione è quanto succede
in seguito: quali sono i limiti dell'azione dell'intelletto nel momento in cui conferisce
unità ai dati sensibili? La podestà che esso esercita vale solo sui dati empirici o anche
sulla sensibilità stessa? La sensibilità, in pratica, deve essere intesa come una facoltà
che sottostà all'intelletto? E in che misura? Oppure va considerata una facoltà
autonoma? Per capire se e quanta libertà abbia il tempo nei confronti delle altre
capacità e facoltà è forse bene iniziare ad esaminare quelle a lui più vicine.
II.4. Apprensione.
Se noi seguiamo la falsariga della Critica della Ragion pura, ci imbattiamo in
prima luogo nelle capacità che hanno a che fare con l'Estetica, e quindi con la
sensibilità. Tra queste troviamo l'apprensione, una capacità che, almeno inizialmente,
è ritenuta legata sostanzialmente e unicamente proprio alla sensibilità. Sherover
(1971: 72) definisce l'apprensione come «un'immediata consapevolezza di un oggetto
nella
percezione:
sono
immediatamente
consapevole
di
una
qualche
rappresentazione». Dopo averne sottolineata la forma, data dal senso interno,
Sherover (1971: 72) prosegue il suo ragionamento concentrandosi a fondo sul
rapporto tra l'intuizione sensibile e ciò che viene percepito, arrivando ad affermare
34
35
Allison (2004: 280).
Kant (1781/2005: 177, B 156).
67
che, affinché ci sia consapevolezza, la rappresentazione dell'oggetto non può essere
istantanea, ma deve estendersi per un certo “lasso di tempo”: «la mia consapevolezza
presenta già alla mente una rappresentazione che innanzitutto sia stata “passata e
tenuta assieme” in un ordine sequenziale – nell'ordine delle modificazioni
sequenziali della mia mente». L'unità è data dalla sintesi dell'apprensione,
presupposto di ogni atto percettivo in quanto permette che i dati empirici siano
considerati come rappresentazioni di un singolo molteplice.
Nella prima edizione, addirittura, le operazioni svolte dall'intelletto sarebbe
state rese possibili, esclusivamente, sulla base dalla sintesi dell'apprensione, intesa
come momento della
triplice sintesi, che ha luogo necessariamente in ogni conoscenza: la sintesi
dell'apprensione
delle
rappresentazioni,
quali
affezioni
dell'animo
nell'intuizione; la sintesi della riproduzione di esse nell'immaginazione; la
sintesi della loro ricognizione nel concetto. Queste sintesi conducono a tre
sorgenti soggettive della conoscenza, che rendono possibile l'intelletto stesso
e, attraverso l'intelletto, l'intera esperienza, in quanto prodotto empirico
dell'intelletto stesso.36
Tuttavia una definizione ultima e condivisa dell'apprensione, soprattutto della sua
sintesi, è resa complicata dal fatto che la maggior parte dei riferimenti su di essa sono
situati nella Deduzione trascendentale, la sezione che forse ha subito le
modificazioni più profonde tra prima e seconda edizione. Ciò che rimane uguale in
entrambe
le
edizioni37,
tuttavia,
è
il
carattere
successivo
e
soggettivo
dell'apprensione, il cui ordine equivale a quello in cui le rappresentazioni degli eventi
esterni si presentano nella coscienza.
Kant, nella seconda edizione, la descrive in questi termini: «altro non è che il
porre assieme il molteplice dell'intuizione empirica, e in essa non è riscontrabile una
rappresentazione della necessità dell'esistenza congiunta dei fenomeni che essa pone
36
Kant (1781/2005: 640-1, A 97-8).
Kant (1781/2005: 227, A 189/B 234): «L'apprensione del molteplice del fenomeno è sempre
successiva. Le rappresentazioni delle parti si susseguono».
37
68
assieme nello spazio e nel tempo»38. Specifico di questa edizione è il ricondurre
direttamente l'apprensione alla percezione, intendendola come la coscienza di ciò che
è presente in un'intuizione empirica (espressione che generalmente ne indica il
contenuto). Funzione principale dell'apprensione sarebbe la sua sintesi, intesa come
«riunione del molteplice di un'intuizione empirica, mediante la quale diviene
possibile la percezione, cioè la relativa coscienza empirica (come fenomeno)»39.
Collaborazione tra sintesi dell'apprensione e forme a priori della sensibilità che si
gioca su un piano prettamente a priori: «la stessa unità della sintesi del molteplice
[…] è parimenti data a priori quale condizione della sintesi dell'apprensione, con (e
non in) queste intuizioni»40. Questo perché l'unità che viene conferita ai dati empirici
non può essere tratta dai dati empirici stessi e deve rispecchiare l'unità dello spazio e
del tempo.
Sebbene si sia indicato un rapporto preferenziale tra sensibilità e apprensione,
soprattutto nella seconda edizione Kant sottomette esplicitamente la sintesi
dell'apprensione all'appercezione41, spianando la strada alla subordinazione della
sensibilità all'intelletto:
la sintesi dell'apprensione, che è empirica, dev'essere necessariamente
conforme alla sintesi dell'appercezione, che è intellettuale e contenuta
interamente a priori nella categoria. È una stessa ed unica spontaneità, che là
sotto il nome di immaginazione e qui sotto quello di intelletto introduce il
congiungimento nel molteplice dell'intuizione.42
Secondo Allison (2004: 198), il quale, su questi temi, fonda molto della sua analisi
sulla seconda edizione, l'apprensione di una sequenza temporale
presuppone la rappresentazione dell'unità sintetica del tempo, e perciò una
sintesi governata da una categoria. […] solo come risultato di tale
38
Kant (1781/2005: 216, B 219).
Kant (1781/2005: 180, B 160).
40
Kant (1781/2005: 180, B 161).
41
Kant (1781/2005: 181, B 163): «In tal modo si dimostra che la sintesi dell'apprensione, che è
empirica, dev'essere necessariamente conforme alla sintesi dell'appercezione, che è intellettuale e
contenuta interamente a priori nella categoria».
42
Kant (1781/2005: 181, B 162).
39
69
determinazione di tempo, la quale è presumibilmente accompagnata dalla
sintesi trascendentale dell'immaginazione, è possibile apprendere una
determinata sequenza di percezioni nel tempo.43
Il riferimento alle categorie, in particolar modo quella di causalità44, sottintende già
da ora la sua concezione secondo la quale la sensibilità, e nello specifico il tempo,
sono subordinati all'intelletto, in particolare alle analogie. In un quadro simile, la
difficoltà maggiore è riuscire a porre una netta separazione tra i compiti
dell'apprensione e quelli dell'appercezione. La differenza maggiore tra le due può
essere riassunta da questo periodo di Kemp Smith (1918/1979: xlix), il quale,
paragonando la conoscenza degli esseri umani a quella degli animali, afferma,
riguardo a questi ultimi:
la loro esperienza deve sfaldarsi (fall apart) negli eventi, i quali, forse,
potrebbero essere descritti come mentali ma non possono essere considerati
equivalenti ad un atto di consapevolezza. “Apprehensio bruta senza
coscienza”: tale è il punto di vista di Kant sulla mente animale. I loro stati
mentali, come quelli di tutte le altre esistenze naturali, sono eventi nel tempo,
esplicabili alla stessa maniera naturalistica del processo corporeo da cui sono
condizionati; non possono essere equiparati alla coscienza umana che ci
permette di riflettere su di essi e di determinare le condizioni del loro accadere
temporale.
II.5. Dall'autocoscienza all'appercezione.
Il passaggio dalla consapevolezza di ciò che sto percependo alla
consapevolezza che io sto percependo, sembra breve. Eppure, come illustra anche il
brano precedente, solo gli esseri umani ne sembrano capaci. Tradotto in termini
kantiani è il percorso tra l'apprensione e l'autocoscienza:
43
Allison (2004: 198).
Non mancano i passi kantiani che lo affermano esplicitamente: «Questa unità sintetica, quale
condizione a priori in base a cui congiungo il molteplice d'una intuizione in generale […] è la
categoria di causa […]. Dunque, l'apprensione in un tale evento, e con ciò l'evento stesso quanto alla
sua possibile percezione, è sottoposta al concetto di relazione fra effetti e causa» (Kant 1781/2005:
181, B 163).
44
70
Non è infatti possibile che l'animo riesca a pensare, per di più a priori,
l'identità di se stesso nella molteplicità delle proprie rappresentazioni, se non
ha innanzi agli occhi l'identità della propria operazione, che sottopone
qualunque sintesi dell'apprensione (che è empirica) a un'unità trascendentale,
rendendo in tal modo possibile la connessione delle rappresentazioni secondo
regole a priori.45
In questo brano si incontrano molti termini, molte tappe di un percorso, il cui punto
di partenza è il senso interno, mentre il traguardo sarà rappresentato dalla capacità,
l'appercezione, di avere coscienza di sé. E proprio quest'ultimo elemento l'oggetto di
questo paragrafo: la coscienza di sé o autocoscienza.
Il termine “autocoscienza” porta con sé varie problematiche, soprattutto di
tipo storico46, dovute alla stratificazione di più tesi confluite lentamente nel dibattito
filosofico di fine settecento. Come sottolinea Kitcher (1982: 45), il punto di partenza
di Kant sarebbe la teoria di Locke secondo la quale c'è «analogia tra la percezione
sensibile e una facoltà quale il “senso interno” attraverso cui si “percepiscono” i
contenuti delle nostre menti». Tuttavia questa posizione, in precedenza, era stata
facile preda di Hume, il quale, non solo aveva sostenuto che fosse impossibile
arrivare ad un sé profondo analizzando gli stati del senso interno, ma si era anche
professato scettico proprio sull'identità del sé. Stando alla sua posizione, era possibile
che i soggetti non fossero altro che un insieme di percezioni, diversi di momento in
momento, a cui mancasse un'unità comune di riferimento47. Kant sembra capire i
rischi della tesi humeana: una semplice unità al livello del senso interno può essere
un punto di partenza, ma è insufficiente quale unità del sé. Proprio per questo
cercherà di ribattere a questa tesi, come vedremo, attraverso l'accostamento tra
autocoscienza e appercezione48.
Una volta abbandonato il piano storico, si prospetta però un nuovo problema:
a quale livello della coscienza di sé può essere equiparata l'autocoscienza? Come
nota Bird (2006: 816, n12), infatti, «considerando l'autocoscienza come coscienza di
45
Kant (1781/2005: 646-7, A 108).
Si pensi, ad esempio, alla sua identificazione con il cogito cartesiano (cfr. Bird 2006: 366-69).
47
Cfr. Kitcher (1982: 44).
48
A questo proposito si vedano sia Bird (2006: 289) sia Kitcher (1982).
46
71
un “sé” nei termini kantiani, si è condannati all'ambiguità tra la coscienza di un sé
empirico e la coscienza trascendentale del sé, la quale non è concepita in rapporto ad
un oggetto, né dell'esperienza né oltre di essa».
Alcuni commentatori hanno inteso il riferimento ad una zona trascendentale,
al di là dell'esperienza fenomenica, come un invito a considerare il sé una specie di
entità noumenica, spingendoli a impostare una ricerca immanente della coscienza in
senso kantiano. Secondo Kemp Smith, per esempio, Kant non può ammettere
l'immediata conoscenza delle attività mentali e, allo stesso tempo, escludere la
conoscenza del noumeno49: nell'Estetica si avrebbe così «la conclusione che, come il
tempo è la forma del senso interno, tutto ciò che è appreso nel tempo e, di
conseguenza, tutti gli stati e le attività interne, possono essere conosciuti come
fenomeni. La mente […] è indirettamente conosciuta come lo è, in ogni altro modo,
l'esistenza noumenica»50. In particolare, alcuni passi della seconda edizione
farebbero pensare che tutto ciò che si possa conoscere del sé nel senso kantiano del
termine – cioè come unione dell'attività dell'intuizione e dell'intelletto – sia la parte
fenomenica che ha a che fare con il senso interno; al di fuori c'è l'opera del soggetto
conoscente, ma quest'azione può essere solo nominata, non conosciuta nel senso
pieno. Ciò porta Kemp Smith ad equiparare questa zona a quella delle cose in sé:
Kant collocherebbe un ego al di fuori del tempo e applicabile al sé trascendentale,
ponendo in tal modo uno iato tra la parte sconosciuta della coscienza e il senso
interno. Kemp Smith poggia la sua lettura su passi come il seguente, proveniente
dalla Confutazione dell'idealismo:
Certamente la rappresentazione: «io sono», che esprime la coscienza che può
accompagnare ogni pensiero, è ciò che racchiude in sé immediatamente
l'esistenza di un soggetto, non però tuttavia ancora una conoscenza di esso, e
tanto meno quindi una sua conoscenza empirica o esperienza. A tal fine
occorre infatti, oltre al pensiero dell'esistenza di alcunché, anche l'intuizione, e
in questo caso l'intuizione interna, in relazione alla quale, ossia al tempo, il
49
Kemp Smith (1918/1979: 296).
Kemp Smith (1918/1979: 297). In precedenza, sempre a questo proposito e sempre sul doppio
binario di mettere in parallelo il lato empirico con quello trascendentale (l'interno con l'esterno) Kemp
Smith (1918/1979: 295) aveva distinto attentamente ciò che si trova nello spazio, gli oggetti delle
rappresentazioni, da ciò che si trova nel tempo, le rappresentazioni, gli unici candidati ad essere stati
della mente.
50
72
soggetto deve essere determinato.51
Anche nell'Analitica c'è un brano che potrebbe far pensar ciò:
siccome per la conoscenza di noi stessi è indispensabile, oltre all'operazione
del pensare, che riconduce il molteplice di ogni intuizione possibile all'unità
dell'appercezione, anche una determinata specie di intuizione, per la quale
questo molteplice è dato, ne deriva che la mia propria esistenza non è per nulla
fenomeno (e tanto meno semplice parvenza), ma che la determinazione della
mia esistenza può aver luogo soltanto secondo la forma del senso interno, in
quel particolare modo in cui il molteplice che congiungo può esser dato
nell'intuizione interna.52
La conclusione a cui giunge Kemp Smith (1918/1979: 328) è che le modificazioni e
le aggiunte della seconda edizione prospettano come risultato la possibilità che, dopo
gli studi sulla filosofia morale53, «il sé, in quanto ente auto-cosciente, sia un'esistenza
genuinamente noumenica».
Nei passi precedenti si è anche accennato all'“Io sono”, che Kant identifica
con l'“Io Penso”. Quest'ultimo può essere inteso come un atto della spontaneità del
soggetto conoscente che accompagna le operazioni di cui è conscio. Naturalmente
ciò non vuol dire che sia un pensiero costante54: l'“Io penso”, potenzialmente, può
accompagnare ogni singolo momento dell'esperienza del soggetto conoscente. Kant
qui tende a riportare un'esperienza comune, stando alla quale noi compiamo decine e
decine di azioni senza rifletterci, in automatico, salvo poi “tornare in noi” e rendersi
conto di cosa stiamo facendo. Ecco, una volta che ci accorgiamo delle nostre
operazioni, stando a quanto esposto da Kant – come emerge in maniera più chiara
dalla seconda edizione – possiamo esprimere l'“Io Penso” attraverso un giudizio o
una proposizione empirica, sottolineando che all'intelletto spetta la parte formale e
51
Kant (1781/2005: 253, B 277).
Kant (1781/2005: 178, B 157-8).
53
Tra color che accostano il Kant epistemologo al Kant morale, c'è Kitcher (1999: 383 n26): «nella
sua teoria, l'azione morale richiede una coscienza implicita dell'attività di applicare le leggi morali
generate spontaneamente alle massime particolari. […] sia l'epistemologia kantiana sia l'etica kantiana
sosterrebbero la necessità di una coscienza implicita di alcune delle sorgenti di pensiero e di azione
che chi cerca l'autocoscienza spera di comprendere esplicitamente».
54
A questo proposito si veda Allison (2004: 164).
52
73
che, implicitamente, l'occasione del suo impiego sia data dal molteplice del senso
interno: «[l]a proposizione: “Io penso”, oppure: “Io esisto pensando”, è una
proposizione empirica. A suo fondamento sta un'intuizione empirica, perciò anche
l'oggetto pensato, come fenomeno»55. Ora, non si corre il rischio di non poter rendere
adeguatamente conto di ciò, attraverso un giudizio empirico, visto che siamo
pericolosamente vicini a quella zona – le attività dell'autocoscienza – in cui non si
può accedere con le condizioni epistemiche? Per Kemp Smith c'è un limite
epistemologico a cui ci si può arrestare: ritenere l'identità ciò che è immutabile allo
scorrere del tempo. Per far questo in modo rigoroso, ci si affida ad un procedimento
che prende le mosse dall'autocoscienza empirica: «la coscienza del tempo implica
l'autocoscienza empirica; l'autocoscienza empirica è condizionata dall'autocoscienza
trascendentale; e tale autocoscienza trascendentale è essa stessa, a sua volta,
condizionata dalla coscienza di oggetti»56. Ciò che viene generalmente etichettato
come “pensiero” riposa su un processo sintetico: la sintesi trascendentale del
molteplice; attività, questa sì, che sta al di fuori del dominio empirico57.
Sebbene ci siano ampie convergenze su quest'ultimo passaggio, come
vedremo meglio in seguito, i commentatori anglofoni più recenti escludono tuttavia
che si sia di fronte ad una realtà nuomenica. C'è chi esclude che l'intenzione di Kant
sia quella di andare al di là dei dati fenomenici. Al contrario, le sue intenzioni
sarebbero prettamente epistemologiche, volte soltanto ad affermare che quello a cui
possiamo puntare è unicamente una conoscenza di noi come soggetti fenomenici. Per
esempio, Allison cerca di mostrare la distanza del testo kantiano sia dalle letture
ontologiche sia dalle tesi psicologistiche, sostenendo che non si possa passare dal
piano epistemologico dell'appercezione, in cui siamo all'interno di una necessità
soggettiva, al piano di una necessità oggettiva, magari assegnandole lo status di
un'entità noumenica, quasi fosse una specie di anima58. Un riscontro di ciò si avrebbe
nei Paralogismi:
55
Kant (1781/2005: 349, B 428).
Kemp Smith (1918/1979: 253).
57
In seguito Kemp Smith (1918/1979: 476) sarà ancora più netto, dicendo che nell'esperienza «il
principio di causalità regola universalmente e completamente, unendo l'esperienza interna del senso,
del sentimento e del desiderio con le condizioni esterne, organiche e fisiche».
58
Cfr. Allison (2004: 339).
56
74
L'autocoscienza in generale è pertanto la rappresentazione di ciò che vale
come condizione di ogni unità, e che, in quanto tale, è incondizionato. Dell'io
pensante (anima), il quale si pensa come sostanza semplice, numericamente
identico in ogni tempo, correlato di ogni esistenza, da cui ogni altra esistenza
dev'essere inferita, si può pertanto dire che esso non ha conoscenza di se
stesso mediante le categorie, e mediante esse di tutti gli oggetti, nell'unità
assoluta dell'appercezione, e perciò mediante se stesso.59
Secondo Bird (2006: 381), sebbene brani come quelli precedenti, dato il
rifiuto di considerare l'esistenza come un fenomeno, possano indurre alla tentazione
di rapportarsi al piano delle cose in sé – e di considerare addirittura il senso interno
affine a quel piano – «Kant nega esplicitamente che l'unità trascendentale
dell'appercezione fornisca conoscenza o anche coscienza di me stesso come cosa in
sé». Fermo restando il rapporto tra appercezione trascendentale e autocoscienza
trascendentale, tutto ciò che si riferisce ad un fantomatico soggetto trascendentale
deve essere considerata una condizione «astratta e potenzialmente forviante»60 per la
nostra esperienza. Resta il problema di circoscrivere o di specificare la definizione di
“autocoscienza” di modo che non dia adito a dubbi. Bird (2006: 371-2) distingue due
modi di intendere l'autocoscienza in Kant che presuppongono entrambi l'unità della
persona: nel primo caso si afferma che essere autocoscienti presupponga una
coscienza unificata (termine a sua volta soggetto ad ambiguità); nel secondo si
associa al pensiero riflessivo e ad espressioni quali “sto pensando a ...”. Una sorta di
risposta minimalista da parte di Bird e improntata alla prudenza. Del resto ciò non
stupisce: data l'oscurità delle nozioni considerate non sorprende la prudenza da parte
di alcuni a non spingersi oltre nell'analisi. Ciò che sia Allison che Bird sembrano
però voler affermare con una buona dose di sicurezza è che i cambiamenti che
avvenuti nella seconda edizione non solo tendono ad escludere rapporti con le cose in
sé ma spingono infatti verso una lettura prettamente più epistemologica del testo
kantiano.
A livello ancor più generale, quello che sembra condiviso dalla maggior parte
dei commentatori è che l'autocoscienza sia anzitutto trascendentale e, in secondo
59
60
Kant (1781/2005: 690-1, A 401-2).
Bird (2006: 653).
75
luogo, sia considerata un atto mentale o un'attività: l'autocoscienza «producendo la
rappresentazione io penso […] non può essere accompagnata da nessun'altra. L'unità
di
questa
rappresentazione
la
chiamo
anche
unità
trascendentale
dell'autocoscienza»61. Inoltre, sebbene possa sembrare paradossale, questa attività
non si manifesta al soggetto conoscente in tutta la sua chiarezza: «l'autocoscienza
kantiana implica una necessaria coscienza delle attività mentali richieste per la
conoscenza ma [è] una coscienza che non permette al soggetto di vedere chiaramente
quelle attività per ciò che sono realmente»62. O, detto in maniera diversa:
«l'autocoscienza di Kant implica una coscienza necessaria delle attività mentali
richieste per la conoscenza e una coscienza che non permette al soggetto di vedere
chiaramente quelle attività per quel che sono»63. Ciononostante la sua necessità non è
in discussione: «[a] noi stessi infatti, in base alla nostra coscienza, non è possibile
giudicare se, in quanto anime, siamo permanenti o meno, perché al nostro identico
me-stesso attribuiamo soltanto ciò di cui siamo coscienti; e così dobbiamo
necessariamente giudicare che, per tutto il tempo in cui siamo coscienti, continuiamo
ad essere i medesimi»64.
Fin qui abbiamo tentato di offrire degli spunti sull'autocoscienza isolatamente
presa. Ma non è questa la tattica più seguita. Spesso i commentatori partono
dall'uguaglianza tra autocoscienza e appercezione: è, per esempio, il caso di Paton
(1936/1976: V. I, 398-9) il quale afferma candidamente di considerare l'appercezione
come sinonimo di autocoscienza. La sua analisi inizia definendo l'appercezione «un
atto di spontaneità» e arriva molto vicino alle conclusioni viste in precedenza dato
che questo atto, a sua volta, viene «identificato con l'idea “Io Penso” la quale deve
poter accompagnare tutte le mie idee; tuttavia essa è anche descritta come
l'autocoscienza che produce l'idea “Io Penso”»65. Ciò che sembra differenziare la
lettura di Paton da quelle illustrate prima è l'attenzione all'“Io penso” sia come atto,
61
Kant (1781/2005: 162, B 132).
Kitcher (1999: 346) probabilmente ispirato da questo passo kantiano: «Questa coscienza può
sovente essere molto debole, cosicché noi la colleghiamo nell'effetto – e non nell'atto stesso cioè
immediatamente – al prodursi della rappresentazione; ma, nonostante questa differenza, una coscienza
deve esser pur presente, anche se mancante della chiarezza piena» (Kant 1781/2005: 644, A 103-4).
63
Kitcher (1999: 346). Kant sarebbe influenzato in ciò dalla teoria delle petit perceptions di Leibniz
(Ivi: 349).
64
Kant (1781/2005: 669, A 364).
65
Paton (1936/1976: V. I, 501). Prospettiva molto simile a quella illustrata da Kemp Smith
(1918/1979: 211-2).
62
76
associato presumibilmente dell'intelletto, sia come prodotto finale di questo stesso
atto. In altri termini, l'“Io penso” viene mostrato sia come soggetto che come oggetto.
Partendo da tale distinzione, Paton discerne non solo i modi di approcciarsi all' “Io”,
ma il ruolo che, così facendo, viene assegnato al senso interno:
La logica studia l'“Io” come soggetto del pensiero; la psicologia lo studia
come un oggetto della percezione. Posso comunque essere conscio, attraverso
il senso interno, del cambiamento dei miei stati interni solo perché mi
rappresento me stesso attraverso l'appercezione pura come uno ed un solo
soggetto di questi stati differenti.66
Il soggetto conoscente visto, da una parte, come un ente costante che mantiene la sua
unicità, e, da l'altra, come lo stesso ente che affronta i continui cambiamenti di stato a
cui siamo sottoposti: simile ad un programma sempre uguale che elabora dati sempre
diversi. E per far fronte a dati sempre nuovi, abbiamo bisogno di qualcosa che
presupponga il cambiamento, qualcosa con cui essi si possano confrontare. Ecco
perché la rappresentazione del tempo come flusso continuo – immagine che, tuttavia,
porta a molti distinguo sul modo di considerare la successione temporale.
Molte cose dette fin qui sono state riassunte in maniera più semplice e chiara
da Kant stesso in Antropologia dal punto di vista pragmatico, dove si dà anche una
risposta negativa definitiva all'interpretazione del sé come entità noumenica:
Io, in quanto essere pensante, sono un unico e stesso soggetto con me in
quanto essere sensibile; ma in quanto oggetto dell'intuizione empirica interna,
cioè nella misura in cui sono internamente affetto dalle sensazioni nel tempo,
siano esse simultanee o successive, io mi conosco soltanto come appaio
fenomenicamente a me stesso, non come cosa in sé. Ciò dipende dalla
condizione del tempo che non è un concetto dell'intelletto (perciò non è
semplice spontaneità), cioè da una condizione nei confronti della quale la mia
facoltà rappresentativa è passiva (e fa parte della recettività).67
66
67
Paton (1936/1976: V. I, 399, n 2).
Kant (1798/2006: 562).
77
A render conto di questa doppia veste del soggetto conoscente ci pensa
l'appercezione la quale può essere considerata sia empirica sia trascendentale e funge
da punto di raccordo tra l'intelletto e la molteplicità dei fenomeni «essendo la
condizione ultima di ogni riconoscimento e il principio delle forme del pensiero»68.
II.6. Appercezione.
Il tema dell'appercezione sembra essere abbastanza presente nella letteratura
tedesca che è stata fonte d'ispirazione per Kant: per esempio, Leibniz la definisce
«una percezione esplicita, una rappresentazione di uno stato di cose oggettivo o uno
stimolo che è sufficientemente chiaro e distinto da prenderne coscienza»69. Lo stesso
interesse si può ritrovare nei primi commentatori anglofoni di Kant, interesse in parte
dovuto all'ispirazione ricevuta dagli studi tedeschi sul testo kantiano, come quelli di
Hans Vaihinger. Un modo di impostare la discussione è, infatti, quello, di evidenziare
la continuità con le affermazioni leibniziane. Non mancano i riferimenti che
potrebbero far pensare ciò70, rafforzati dal legame, visto in precedenza, che Kant ha
stabilito tra autocoscienza e appercezione71.
Tra i commentatori odierni, invece, l'argomento sembra essere tenuto più
sullo sfondo. Eppure un autore come Paton (1936/1976: V. I, 397), potrebbe criticare
non poco i giovani colleghi, sottolineando che «[q]uesto è il punto in cui noi
arriviamo davvero ad afferrare la più centrale, la più importante e anche, in qualche
modo, la più elusiva di tutta le dottrine kantiane». Basti pensare all'enfasi con cui
l'appercezione viene introdotta nella prima edizione:
in noi non può darsi conoscenza né connessione o unità delle conoscenze fra
loro, senza quell'unità della coscienza che precede ogni dato dell'intuizione e
in relazione alla quale soltanto diviene possibile ogni rappresentazione di
68
Paton (1936/1976: V. I, 379).
Guyer (1987:32). Di questo significato di appercezione in Leibniz, molto vicino all'autocoscienza,
se ne accorge anche Paton (1936/1976: V. I, 398). Dal canto suo, Kemp Smith attribuisce il lessico
usato a volte da Kant sull'appercezione al carattere spiritualistico che egli eredita da Leibniz.
70
Si veda, ad esempio Kant (1781/2005: 651, A 116).
71
«Non conta se questa rappresentazione [quella dell'Io] sia chiara (coscienza empirica) o oscura, e
neppure conta la realtà della medesima; ma la possibilità della forma logica di ogni conoscenza poggia
necessariamente sul rapporto a questa appercezione come ad una facoltà» (Kant 1781/2005: 652, A
117).
69
78
oggetti. A questa coscienza pura, originaria, immutabile, intendo dare il nome
di appercezione trascendentale.72
In maniera più sintetica, nell'Antropologia, l'appercezione è definita come «la
coscienza pura dell'azione in cui consiste il pensiero»73.
A differenza di altri, chi sembra rendersi ben conto dell'importanza di questa
capacità è Sherover, il quale definisce l'appercezione trascendentale, come
“coscienza di sé”, intesa come riflessione del soggetto conoscente sulle sue funzioni,
e non sui suoi stati empirici74. Per puntellare la sua definizione, Sherover cita alcuni
passi, tratti soprattutto della prima edizione, come il seguente:
è proprio questa unità trascendentale dell'appercezione quella che, di tutti i
possibili fenomeni che possano comunque raccogliersi in una esperienza, fa
una connessione secondo leggi. Infatti, questa unità della coscienza
risulterebbe impossibile se nella conoscenza del molteplice il nostro animo
non potesse aver coscienza della funzione con la quale esso lo congiunge
sinteticamente in una conoscenza.75
Sempre nella prima edizione – in un passo di cui Kant sottolinea l'importanza –
sembra che si voglia assicurare la continuità tra le varie facoltà, in quanto viene
affermato che abbiamo «un'unità sintetica del molteplice (della coscienza), che è
conosciuta a priori e che, come tale, fornisce il fondamento delle proposizioni
sintetiche a priori concernenti il pensiero puro, allo stesso modo che lo spazio e il
tempo forniscono il fondamento di quelle concernenti la forma della semplice
intuizione»76.
Nell'edizione del 1787, l'importanza dell'appercezione sembra addirittura
accresciuta: «l'unità sintetica dell'appercezione costituisce il punto supremo a cui
deve ricollegarsi ogni uso dell'intelletto, la stessa intera logica, e dopo di essa la
72
Kant (1781/2005: 646, A 107).
Kant ([2006]: 561).
74
Cfr. Sherover (1971: 76-7).
75
Kant (1781/2005: 646, A 108).
76
Kant (1781/2005: 652, A 117).
73
79
filosofia trascendentale; anzi, questa facoltà è l'intelletto stesso»77. L'ultima frase può
sembrare un'esagerazione ma in realtà può essere vista come un punto di arrivo, dato
che il principio supremo di tutto l'intelletto recita: «tutto il molteplice dell'intuizione
è sottoposto alle condizioni dell'unità sintetica originaria dell'appercezione»78. Tra le
due edizioni la funzione di fondo dell'appercezione, identificata come l'atto o l'azione
che sta alla base dell'unità di ogni singola esperienza che si può avere, sembra
mantenersi. Tuttavia cambiano i modi e i presupposti sul come essa lavora.
Il primo cambiamento che salta all'occhio è che il principio dell'appercezione,
nonostante la sua funzione sintetica, «è in verità esso stesso una proposizione
identica e come tale analitica»79, proprio perché «l'unità analitica dell'appercezione è
possibile solo sul presupposto di un'unità sintetica»80. Nella precedente edizione la
sintesi sembrava assicurata grazie al suo rapporto con il tempo81, mentre adesso tale
capacità sembra spingersi in un'altra direzione, puntando a stringere i suoi legami
con l'Io penso:
la rappresentazione io penso è un atto della spontaneità, ossia non può venir
ritenuta propria della sensibilità. Io la chiamo appercezione pura, per
distinguerla dalla empirica, o anche appercezione originaria, perché essa è
quella autocoscienza che, producendo la rappresentazione io penso – che deve
poter accompagnare tutte le altre, ed è una e identica in ogni coscienza – non
può essere accompagnata da nessun'altra.82
Kemp Smith sembra avere in mente questo passaggio quando analizza il
rapporto tra appercezione e senso interno. Egli specifica, in primo luogo, come il sé
trascendentale non abbia un contenuto e debba essere considerato una «mera forma
attraverso cui i contenuti, che da soli non potrebbero mai costituire il sé, sono
tuttavia appresi come oggetti facenti parte del sé»83. Dato che, come si è visto, l'unità
analitica dell'appercezione è possibile solo sul presupposto di un'unità sintetica, tale
77
Kant (1781/2005: 163, B 134).
Kant (1781/2005: 164-5, B 136).
79
Kant (1781/2005: 164, B 135).
80
Kant (1781/2005: 163, B 133).
81
Cfr. Kant (1781/2005: 646, A 107-8).
82
Kant (1781/2005: 162, B 132).
83
Kemp Smith (1918/1979: 251).
78
80
unità può essere intesa come l'identità “Io sono Io”, una volta stabilita la quale è
possibile accogliere gli oggetti all'interno del soggetto conoscente: «[s]olo dunque in
quanto posso congiungere in una coscienza un molteplice di rappresentazioni date,
mi
diviene
possibile rappresentarmi
l'identità
della
coscienza
in
queste
rappresentazioni»84. L'unità della coscienza implica inoltre che si abbia «la coscienza
di un singolo tempo cosmico e di un singolo spazio cosmico dentro i quali rientrino
tutti gli eventi e al cui interno essi formino un insieme di esistenze causalmente
interdipendenti. È per questo motivo che [Kant] chiama ciò l'unità oggettiva
dell'appercezione»85.
Dove sono finiti i passaggi, visti in precedenza, che portavano
dall'autocoscienza empirica all'autocoscienza trascendentale? Non c'è più una sorta di
moto ascensionale che dal senso interno passa al piano intellettuale? Sembrerebbe di
no. Ora ciò che viene compiuto dall'intelletto si presenta sul piano sensibile come
calato dall'alto. La funzione dell'appercezione pura o trascendentale si impone
all'unità del senso interno in quanto, come sottolineano alcuni autori, viene
considerata atemporale, cioè considerata al di sopra del raggio d'azione del senso
interno, dato che è inutile chiedersi quando un atto di appercezione pura ha avuto
luogo86.
La consequenzialità è stata vittima di quel processo per cui vien data una
centralità maggiore all'intelletto rispetto all'intuizione nella seconda edizione. Qui
Kant difende con veemenza la tesi dell'affezione del senso interno – «[n]on vedo in
qual modo si trovino tante difficoltà nell'ammettere che il senso interno venga affetto
da noi stessi» – specificando che non siamo di fronte all'azione del senso interno su
se stesso, bensì siamo in presenza di un atto dell'intelletto87. Ma se una facoltà si
impone all'altra, ciò significa che siamo all'interno di una gerarchia dentro la quale il
senso interno rende conto dei fenomeni e l'intelletto, grazie soprattutto
all'appercezione, rende conto del senso interno? Nella descrizione del sé in rapporto
all'appercezione trascendentale, Bird (2006: 366) sembra accennare ad una tale
84
Kant (1781/2005: 163, B 133).
Kemp Smith (1918/1979: 270). Altrove Kemp Smith (1918/1979: 286) definisce l'unità
dell'appercezione oggettiva come: 1) si può apprendere l'unità analitica solo attraverso la scoperta
dell'unità di ciò che è dato; 2) l'unità sintetica del molteplice può essere considerata il prodotto di un
processo tramite cui possiamo riferire le rappresentazioni agli oggetti.
86
Bird (2006: 716-7).
87
Cfr. Kant (1781/2005: 177, B 156-7).
85
81
possibilità quando afferma che si «delinea una struttura schematica che governa
l'intera nostra esperienza in cui la nostra concezione del sé è accettata come
fondamentale».
Tuttavia, l'appercezione pura ha come oggetto, in ultima analisi, non solo le
funzioni delle facoltà, ma anche dei dati temporali, dato che la nostra coscienza è
composta, in aggiunta, di conoscenze acquisite a posteriori. Infatti, quando si opera
coscientemente su di una rappresentazione, ciò non significa soltanto che la
coscienza si rende conto che sta operando ma anche che quella rappresentazione è
inserita all'interno dell'unità della coscienza. Il senso interno non viene ritenuto
soltanto un contenitore degli oggetti sottoposti a processo, ma la sua stessa unità
sembra essere considerata un punto di arrivo e di confronto rispetto all'attività
dell'appercezione. Un ragionamento credo sia implicito nel pensiero di Bird (2006:
716), il quale, basandosi proprio sulla seconda edizione, definisce l'appercezione
come «una funzione dell'intelletto esemplificata empiricamente e offerta al senso
interno, in atti presenti che partecipano a qualche caso attuale di un determinato
tipo».
Per chiarire meglio la questione, prendiamo ad esempio un altro punto
cruciale della Critica, la parte dedicata alle Analogie dell'Esperienza. Qui, non a caso
poco dopo la definizione dell'apprensione, si parla di appercezione pura affermando
che essa «si riferisce al senso interno (all'insieme di tutte le rappresentazioni), e a
priori alla forma del senso interno, cioè alla connessione della coscienza empirica del
molteplice nel tempo»88. L'appercezione trascendentale ha quindi come oggetto
l'unità della coscienza, di tutta la coscienza, di tutto ciò che entra a far parte del
soggetto conoscente, come le rappresentazioni. Inoltre, sembra che, per riflettere al
meglio gli ambiti di competenza e le differenze, Kant cerchi di mettere in risalto le
due nozioni ponendole di fronte l'una all'altra. Da questo contrasto tra qualcosa di
stabile che sia un porto sicuro per la marea in continuo movimento dei fenomeni,
nasce la tesi per cui l'unità del tempo dipenderebbe dall'unità dell'appercezione
trascendentale89, tesi supportata anche da periodi come il seguente:
88
Kant (1781/2005: 217, A 177/B 220).
Paton (1936/1976: V. I, 410-1). Com'è facile prevedere, in una distinzione simile per Paton
(1936/1976: V. I, 520) ha un ruolo fondamentale anche la seconda analogia, in quanto, offrendo le
relazioni temporali necessarie, agisce sul piano dell'unità sintetica originale dell'appercezione.
89
82
L'unità trascendentale dell'appercezione è quella in virtù della quale tutto il
molteplice dato in una intuizione è unificato in un concetto dell'oggetto. Essa
si chiama quindi oggettiva e dev'essere distinta dall'unità soggettiva della
coscienza, che è una determinazione del senso interno, mediante la quale quel
molteplice dell'intuizione è empiricamente dato per tale congiunzione.90
Ci troviamo di fronte alla netta separazione delle aree di competenza tra
l'appercezione
trascendentale,
che
permette
l'unità
dell'appercezione
e
la
formulazione dell'espressione “Io penso”, e l'appercezione empirica che è collegata
alla determinazione del senso interno. Tuttavia non siamo in presenza di due generi
diversi di appercezione, piuttosto di due funzioni diverse: è la stessa appercezione
ora rivolta verso l'unità del soggetto in generale, ora verso gli stati interni dello stesso
soggetto. Tale suddivisione, a cui si associa quella tra unità trascendentale
dell'appercezione come “originale” e unità empirica come “derivata”91, viene
utilizzata da Paton (1936/1976: V. I, 401) per distinguere le situazioni in cui c'è un
collegamento oggettivo tra il molteplice delle intuizioni, per esempio la cera lasciata
al sole che si scioglie, ed un mero collegamento soggettivo. In quest'ultimo genere di
collegamenti rientrano sia quelli casuali, come quando si passa sotto ad un lampione
e questo si spenge, sia le associazioni di vari dati empirici ad opera del soggetto
conoscente che hanno un valore puramente individuale, per esempio l'unione di un
particolare suono con un'immagine dovuta ad un preciso ricordo92. Così facendo
l'appercezione deve essere intesa in modo abbastanza ampio da poter rendere conto
sia dei contenuti che potranno essere considerati oggettivi sia di quei contenuti
meramente
soggettivi93:«[p]oiché
l'appercezione
empirica
è
un
modo
di
consapevolezza (coscienza empirica) distinto dal giudizio sui contenuti del senso
interno (che, come giudizio, è oggettivamente valido), si deve intendere l'unità
90
Kant (1781/2005: 166-7, B 139).
Paton (1936/1976: V. I, 520).
92
Certo, come fa Paton (1936/1976: V. I, 521), l'azione di associare una parola ad una precisa
immagine, per così dire ad un secondo livello o “vista da fuori”, è un fatto oggettivo, la cui
determinazione dipenderà sempre dall'unità trascendentale dell'appercezione.
93
Un problema simile era stato riportato da Paton (1936/1976: V. I, 403), quando mostra la difficoltà
nell'identificare l'atto del pensiero, e quindi la forma che esso assume, con la sua coscienza. Questo
perché la forma del pensiero è qui identificata con la forma di giudizio, ma il soggetto conoscente non
è esplicitamente consapevole che ogni atto possa essere identificato con la formula “S è P”.
91
83
soggettiva della coscienza al fine di includere un modo soggettivo di consapevolezza
nella coscienza, così come le unità non rappresentazionali»94. In tal modo la dottrina
dell'appercezione può essere considerata «uno schema o un modello formale per
l'analisi dell'intelletto e delle sue attività “logiche”»95. Se intendiamo questo discorso
in maniera forte, e alcuni passi di un autore come Allison potrebbero portarci a
credere ciò, sembra che si voglia sottrarre ogni valenza ontologica all'appercezione al
fine di conferirgli una valenza esclusivamente epistemologica. Si può pensare
all'unità dell'appercezione come un fine ideale a cui puntare, ma ciò avrebbe quasi e
soltanto una funzione metodologica come base del pensiero96.
Ma come giunge l'appercezione all'unità? In particolare, come si arriva
all'unità del senso interno? Va ricordato che l'appercezione si rivolge alle relazioni
del senso interno in quanto tutto ciò che può sottostare ad un concetto, tutto ciò che
entra a far parte delle rappresentazioni del soggetto conoscente, deve aver a che fare
con il tempo in quanto forma generale di tutti i fenomeni97. Dato che ci stiamo
riferendo al senso interno si deve chiamare in causa, presumibilmente, l'appercezione
empirica. A questa capacità Paton (1936/1976: V. I, 401) affida un compito specifico,
che rientra nel più vasto programma tendente all'unità dell'appercezione: affinché si
considerino le manifestazioni fenomeniche come proprie di un oggetto, è necessario
un lavoro di riconoscimento, reso possibile in parte dalla memoria98, in parte,
attraverso l'immaginazione tramite un processo di riproduzione con il quale andiamo
a riprodurre le rappresentazioni dei fenomeni con cui abbiamo avuto a che fare. La
proprietà di sintesi, il legante che tiene unite le rappresentazioni passate con quelle
riprodotte e, in alcuni casi, con quelle presenti, è la capacità sintetica
dell'appercezione empirica, che funziona come una sorta di colla tra i vari pezzi del
mosaico.
Tutte le tesi illustrate fin qui, tuttavia, sembrano tralasciare qualcosa. Ancora
sembra non si riesca a focalizzare il perché ci sia e ci debba essere questo rapporto
tra appercezione e senso interno. Per capire l'importanza che è necessario assegnare
94
Allison (2004: 184).
Allison (2004: 172).
96
Allison (2004: 340).
97
Cfr. Paton (1936/1976: V. II, 162).
98
Il ruolo della memoria, secondo alcuni, andrebbe in qualche modo ridimensionato: Bird (2006:
375), per esempio, nota che sono pochi i riferimenti testuali riguardanti questa capacità nella parte
riguardante l'appercezione.
95
84
all'unità temporale ritorniamo alla sequenza temporale minima illustrata in
precedenza, il semplice passaggio da A a B. La successione da l'uno all'altro indica
una qualche sorta di unità tra questi due stati? Magari si ha solo l'impressione che si
voglia giocare con le parole, ma la successione temporale implica una continuità tra
lo stato A e lo stato B e tale continuità, a sua volta, sembra implicare un'unità di
fondo. Per stabilire ciò, inizialmente si osservano le rappresentazioni: esse possono
provenire da fenomeni differenti che nulla hanno a che fare tra di loro. Eppure, una
volta considerate in quanto rappresentazioni e, pertanto, interne al soggetto
conoscente, esse, almeno implicitamente, rimandando ad un qualche genere di unità:
quella del soggetto conoscente, il “contenitore” all'interno del quale esse si trovano.
Le due rappresentazioni sono il tipico caso in cui il mondo esterno dà modo di
iniziare l'esperienza e di confrontarsi con le forme con cui il soggetto conoscente si
appropria di essa.
Ora, che tipo di unità viene, per così dire, portata alla luce dagli stati A e B?
Le due rappresentazioni si trovano nel senso interno; ma esso è capace di render
conto autonomamente della propria unità? Il ragionamento di Kant sembrerebbe
mirare a questo: egli ha stabilito che il tempo sia unico, che le sue parti siano parti di
un unico tempo e che esso corrisponda al senso interno; ma affinché la sua unità sia
garantita non solo non è sufficiente dire che i dati empirici siano raccolti in un solo
serbatoio, ma c'è bisogno che l'unità del contenitore sia in qualche modo garantita.
Altrimenti si incorerebbe nel tipo di critiche mosse da Hume a Locke a cui abbiamo
accennato in precedenza. Al fine di garantire questa unità è necessaria l'attività a
priori (e quindi valida universalmente e necessariamente) di una capacità quale
l'appercezione che sia in grado di stabilire l'unità della coscienza. E sembra che la
netta separazione tra appercezione e senso interno serva anche per garantire che ciò
che proviene da fuori non potrà mai, in alcun modo, variare l'azione della prima che
si compie sul secondo. Ed è per questo che, in quanto soggetti conoscenti, possiamo
permetterci di dire “Io penso” attraverso una proposizione empirica che accompagni i
miei stati. Questa formulazione è in qualche modo metafora e summa di tutto il
procedimento: il mondo esterno dà l'occasione dell'esperienza (la proposizione
empirica) ma la garanzia sul tipo di esperienza è data solo dalle forme a priori del
soggetto conoscente (il processo che porta ad accompagnare i miei stati con la
85
formula “Io penso”).
A livello epistemologico, soprattutto dopo la seconda edizione, per quel che
riguarda la conoscenza di sé e la comprensione di ciò che avviene alle
rappresentazioni dentro al senso interno, siano necessari entrambi i tipi di
appercezione. In generale si può dire che è l'esperienza tutta che ha bisogno delle
varie articolazioni dell'appercezione, sia essa considerata come proveniente dai
fenomeni, sia essa riferita all'autocoscienza; ma in entrambi i casi è preclusa la
conoscenza della natura ultima del sé99.
Il procedimento di Kant, se da un lato sembra aver dato una risposta a Hume,
dall'altro sembra sfuggire al suo controllo. La griglia che l'appercezione crea sul
senso interno si rivolge verso un lato solo, al massimo le sue sbarre coincidono con il
livello dell'appercezione stessa, ma, al di là di quella soglia essa non ha potere. Oltre
questo limite, le forze e i poteri che esercitano le capacità stesse ci sono inconoscibili
in senso kantiano. Tuttavia, alcune pagine di Kant lasciano pensare che alcuni poteri
profondi e propulsivi del soggetto conoscente siano collegate al tempo e giochino un
ruolo importante. Ricordiamoci che Kant è un funzionalista e che la descrizione di
queste abilità si può ricavare dal modo in cui esse agiscono all'interno del tempo.
Con il rischio di identificare l'unita dell'appercezione con il soggetto conoscente
stesso, il fascino di questi luoghi esercita comunque un'inevitabile attrazione: «nulla
v'è di più naturale e ammaliante della parvenza che ci fa scambiare l'unità nella
sintesi del pensiero per un'unità percepita nel soggetto di questi pensieri. Si potrebbe
darle il nome di surrezione della coscienza ipostatizzata (apperceptionis
substantiatae)»100. Ed è proprio in questo territorio che hanno cercato di spingersi le
analisi di alcuni commentari, impostando una lettura ontologica e immanente dei
testi di Kant. Questi autori hanno posto sotto la lente d'ingrandimento i rapporti tra il
senso interno, e quindi il tempo, con l'immaginazione e successivamente con la
sintesi. Le loro analisi nascono dal contrasto tra la consapevolezza del nostro sé
empirico e il mistero che circonda processi, che operano, per così dire, al di sotto di
questo livello, quali la sintesi trascendentale. Come afferma Kemp Smith
(1918/1979: 322):
99
Kemp Smith (1918/1979: 279).
Kant (1781/2005: 690-1, A 402).
100
86
Un fenomeno, per essere fenomeno, non solo presuppone la realtà di ciò che
appare, ma anche il processo mentale per mezzo del quale viene appreso. Ma
se la realtà è data solo nella sensibilità e tuttavia l'intera esperienza che
implica la sensibilità è soltanto fenomenica, non c'è nessun sé attraverso cui
l'esperienza possa essere condizionata; e non il fenomeno (Erscheinung), ma
solo l'illusione (Schein) viene lasciata.101
II.7. Il ruolo dell'Immaginazione e lo Schematismo.
Può sembrare contraddittorio, o per lo meno un elemento di debolezza, che il
fulcro delle letture ontologiche di Kant sia l'analisi dell'immaginazione: come, la
branca della filosofia che tenta di render conto di ciò che c'è, può cercare il suo
fondamento in una facoltà che quasi sempre è associata alla fantasia? Eppure in Kant
la sintesi si basa proprio sull'immaginazione pura ed è a sua volta l'immaginazione
che, attraverso la sintesi, rende possibile l'unificazione di senso e intelletto, colmando
la distanza tra tempo e categorie102. L'immaginazione infatti è la facoltà che fa da
tramite e che è responsabile della sintesi e il punto di giuntura, l'elemento unificatore
è reso possibile proprio dalla sintesi, considerata un atto dell'immaginazione pura103.
L'appartenenza della sintesi generale all'immaginazione e il suo ruolo
vengono confermate in entrambe le edizioni: «la sintesi in generale è il semplice
risultato dell'immaginazione, ossia di una funzione dell'anima, cieca e tuttavia
indispensabile, senza la quale non potremmo a nessun titolo avere una qualsiasi
conoscenza, ma della quale siamo consapevoli solo di rado»104. L'immaginazione
collega i contenuti del tempo in quanto senso interno alle categorie, contribuendo in
maniera essenziale all'unità dell'appercezione.
L'importanza del ruolo di passaggio di questa facoltà era molto più evidente
nella prima edizione dato che è proprio sulla sintesi immaginativa che si fondano le
altre105. E, per quel che riguarda i nostri scopi, il rapporto tra tempo e immaginazione
101
Kemp Smith (1918/1979: 323).
Cfr. Sherover (1971: 65-6).
103
Sherover (1971: 66).
104
Kant (1781/2005: 144, A 78/B 103).
105
Sherover (1971: 64).
102
87
è evidente quando quest'ultima mette assieme i contenuti passati con quelli presenti e
«fornisce la condizione necessaria per la consapevolezza di un oggetto “nel tempo” e
della relazione tra oggetti in “tempi differenti”»106. Sebbene non abbia una sezione a
lei dedicata, come l'intelletto o la sensibilità, l'immaginazione è considerata una
facoltà distinta che apporta il suo contributo nella percezione stessa:
Siamo dunque in possesso d'una immaginazione pura, come facoltà
fondamentale dell'anima umana, che sta a fondamento di ogni conoscenza a
priori; per suo mezzo, congiungiamo il molteplice dell'intuizione con la
condizione dell'unità necessaria dell'appercezione pura. Ambedue i termini
estremi, sensibilità e intelletto, debbono necessariamente congiungersi sulla
base di questa funzione trascendentale dell'immaginazione.107
E la funzione di collegamento non si esaurisce nei rapporti, generali, tra le facoltà,
ma è anzi riscontrabile nei processi conoscitivi ordinari. È l'immaginazione che ha il
compito, come abbiamo visto prima nel procedimento illustrato da Paton, di
riprodurre nel presente le apprensioni passate depositate nella memoria e ricollegarle
a ciò che sta accadendo. Un processo simile a quello delle memorie RAM dei
computer: le rappresentazioni dei fenomeni di cui si ha bisogno vengono “caricate”
durante la fase di concettualizzazione sulla memoria per essere poi elaborate. E
proprio come nei processi in cui sono coinvolte le RAM, non assistiamo soltanto ad
attività passive – di “sola lettura” – ma la distinzione tra soggetto e oggetto serve
anche a sottolineare le caratteristiche attive del processo di appercezione empirica.
Tutto ciò è, a pieno titolo, un processo temporale che permette di associare
diversi istanti in un unico lasso di tempo o di selezionare e confrontare le cose
passate con le presenti108. Questa operazione, effettuata durante la percezione
empirica, è una condizione necessaria dell'esperienza possibile:
La sintesi dell'apprensione è pertanto legata inscindibilmente con la sintesi
della riproduzione. E poiché la prima costituisce il fondamento trascendentale
della possibilità di ogni conoscenza in generale (non solo delle empiriche, ma
106
Sherover (1971: 74).
Kant (1781/2005: 656, A 124).
108
Sherover (1971: 74).
107
88
anche delle pure a priori), ne segue che la sintesi riproduttiva
dell'immaginazione appartiene alle operazioni trascendentali dell'animo; e,
riguardo a queste, chiameremo anche questa facoltà, facoltà trascendentale
dell'immaginazione.109
Non è un caso che qui venga citata l'apprensione perché il procedimento è analogo a
quello sottinteso nel famoso esempio di Kant sulla percezione di una casa110. In
quell'esempio
Kant
parla
esplicitamente
e
più
volte
di
successione
dell'apprensione111. Non è un caso che, poco prima dell'esempio, Kant affermasse:
«[i] fenomeni, come semplici rappresentazioni, sono oggetti della coscienza e non si
distinguono per
nulla
dall'apprensione, cioè dall'immissione nella sintesi
dell'immaginazione»112. Lasciando da parte le questioni sull'irreversibilità della
successione, lì si ha un caso di varie rappresentazioni, quelle di una casa appunto,
che si ricollegano tra di loro fino a formare l'oggetto. La rappresentazione totale
dell'oggetto me viene formata passo passo: prima vedo il tetto, poi il primo piano, poi
il pian terreno e così via. Ma per far sì che l'oggetto sia completo e definito, devo
mettere insieme e assemblare le varie rappresentazioni, sia quelle che ho in questo
momento, sia quelle che avevo pocanzi. Questo, come abbiamo visto, è il compito
dell'immaginazione, incarico che viene confermato anche nella seconda edizione. Lì
infatti, a proposito della connessione di due percezioni, si afferma:
la connessione, in verità, non è affatto un prodotto del semplice senso e
dell'intuizione, bensì il risultato di una capacità sintetica dell'immaginazione,
che determina il senso interno in ordine al rapporto temporale.
L'immaginazione è però in grado di connettere i due stati di cui si parla, in due
maniere diverse, sì che o l'uno o l'altro abbia a precedere nel tempo. [...] Io
sono dunque cosciente soltanto del fatto che la mia immaginazione colloca
uno stato prima dell'altro.113
109
Kant (1781/2005: 643, A 102).
Kant (1781/2005: 227-8, A 189-191/B234-236).
111
Kant (1781/2005: 228, A 191/B236): «ciò che si trova nell'apprensione successiva è assunto come
rappresentazione, ma il fenomeno che mi è dato, pur non essendo altro che un complesso di queste
rappresentazioni, è assunto come il loro oggetto, col quale deve accordarsi il mio concetto, che ricavo
dalle rappresentazioni dell'apprensione».
112
Kant (1781/2005: 227, A 189-90/B234-5).
113
Kant (1781/2005: 226, B 235).
110
89
Il ruolo di sintesi dell'immaginazione è stato fortemente sottolineato da coloro
che vogliono estendere l'importanza dell'immaginazione in quanto facoltà cognitiva:
L'immaginazione, come centro di sintesi cognitiva, è essa stessa il principio
della trascendenza che rende possibile l'esperienza. La sintesi immaginativa,
quindi, non è solo una facoltà o una capacità in più tra la sensibilità e il
pensiero ma, in un certo senso, è la loro unità strutturale che funziona
attivamente, è l'unità strutturale del processo cognitivo.114
Dopo aver ribadito, poco di seguito, che la sintesi immaginativa è un «processo
dinamico», Sherover afferma, sintetizzando, che «[l]'immaginazione trascendentale è
la trascendenza stessa». È per questo che egli aveva potuto affermare che
«l'immaginazione è perciò il principio della possibilità dell'esperienza stessa. Come
immaginazione pura è interessata ai fenomeni nell'intuizione pura (nel tempo), è
fondata necessariamente sul tempo»115.
Sebbene, come si è detto nei primi paragrafi, l'immaginazione non abbia una
parte della Critica a lei dedicata, all'interno della Deduzione trascendentale c'è un
paragrafo lo Schematismo trascendentale, in cui si parla principalmente del suo ruolo
di trait d'union tra sensibilità e intelletto. L'utilità della sezione è accentuata dal fatto
che, nel passaggio tra le due edizioni, non viene modificata. Più nello specifico, lo
Schematismo trascendentale è quella parte della Critica in cui si cerca di spiegare
come le categorie possano essere collegate al materiale empirico. È dunque facile
capire perché venga chiamato in gioco il tempo e la sua unità: da un lato, il tempo ha
a che fare direttamente con tutti i possibili fenomeni, dall'altro è anch'esso a priori. In
pratica il candidato ideale a fare da tramite.
Il tempo, quale condizione formale del molteplice del senso interno, perciò
della connessione di tutte le rappresentazioni, contiene un molteplice a priori
114
Sherover (1971: 136).
Sherover (1971: 99). C’è chi è stato ancora più estremo nella sua analisi. Waxman (1991: 14)
sostiene che «dobbiamo quindi supporre che tutte le relazioni spaziali e temporali esistono solo
all’interno e attraverso l’immaginazione e in nessun modo caratterizzano le sensazioni; non ci può
essere “flusso” di rappresentazioni nel senso interno e non può essere considerato un dato genuino
neanche una “macchia” di colore».
115
90
nell'intuizione pura. Ma una determinazione trascendentale di tempo è
omogenea alla categoria (che ne determina l'unità) in quanto è universale e
riposa su una regola a priori; per un altro verso, però, è omogenea al
fenomeno, in quanto il tempo è incluso in ogni rappresentazione empirica del
molteplice. Di conseguenza, un'applicazione della categoria ai fenomeni sarà
possibile per mezzo della determinazione trascendentale del tempo,
determinazione che, in quanto schema dei concetti dell'intelletto, fa da
mediatrice nella sussunzione dei fenomeni sotto la categoria.116
In precedenza, nell'Estetica, non si era accennato a questa funzione del tempo. Ciò
vuol dire che, nella prima parte dell'opera, non è stato detto tutto e l'elenco delle
caratteristiche e dei compiti lì assegnati al tempo non era esaurito:
L'estetica quindi espone il problema ma non lo risolve: il tempo non è soltanto
la forma pura dell'intuizione, è anche la forma dello schema come tale. Il
tempo è la forma di ogni schema, definisce la loro applicabilità per ogni
oggetto e ci permette di vedere ogni aspetto percepibile di ogni cosa che entra
nel nostro campo di esperienza.117
Per collegare i dati sensibili ai concetti puri, nello Schematismo viene introdotto un
livello intermedio, lo schema appunto, attraverso il quale sarà possibile sussumere i
fenomeni sotto le categorie. Lo schema, prodotto dell'immaginazione, non è altro che
la categoria usata all'interno del tempo:
gli schemi non sono altro che determinazioni a priori del tempo secondo
regole, le quali si riferiscono, secondo l'ordine delle categorie, alla serie del
tempo, al contenuto del tempo, all'ordine del tempo e, infine, all'insieme del
tempo nei riguardi di tutti gli oggetti possibili.118
Fedele alla definizione di sintesi dell'immaginazione – che verrà esaminata più da
vicino nel paragrafo successivo – considerata quale atto, anche lo schema, sebbene
116
Kant (1781/2005: 191, A 138-9/B 177-8).
Sherover (1971: 115).
118
Kant (1781/2005: 195, A 145/B 184-5).
117
91
sia associato ad un “modello”, non deve far pensare ad un oggetto. Sherover (1971:
105) lo definisce «una procedura schematica», «pre-empirica» attraverso cui poter
produrre un modello, una «forma temporale» entro cui si possano incontrare il
percepito e il concetto. Tali categorie schematizzate ci danno anche il modo in cui il
tempo viene strutturato, in cui si ha una determinazione trascendentale del tempo che
infatti viene definita «omogenea»119 alla categoria e al fenomeno: una volta fissato
un punto sia dal lato dei fenomeni sia da quello delle categorie è come se si
marchiasse il senso interno e quindi avessimo delle coordinate di riferimento per
computarlo.
La precedenza avuta dagli schemi rispetto alle categorie nell'esposizione, in
aggiunta ad alcuni brani che parlano dei limiti delle categorie avulse dal piano
sensibile120, induce Sherover (1971: 114), a sostenere che «la categoria schematizzata
è centrale mentre la categoria non schematizzata è essenzialmente derivata». Ciò
significa che sono le categorie a priori ad essere considerate come un prodotto
derivato dallo schema. Spunti questi che sono stati probabilmente sviluppati dal
pensiero di Martin (1955: 85):
Per Kant stesso non c'è prime una categoria pura e quindi qualcosa aggiunto
ad essa nello schema ma la determinazione temporale delle categorie è
qualcosa che ci viene dato originariamente e inseparabilmente, il quale viene
soltanto analizzato […] Per noi il risultato decisivo è che le categorie hanno
un qualche significato soltanto se hanno una modificazione temporale e, allo
stesso tempo, questa modificazione temporale delle categorie negli schemi
limita l'applicazione delle categorie a cosa può essere determinato
temporalmente.
Quanto detto finora, secondo Sherover (1971: 139) porta a concludere che
nello Schematismo Kant non ha più un interesse epistemologico – esaurito nella
Deduzione trascendentale – bensì si tratterebbe di una sorta di premessa alla sezione
119
Kant (1781/2005: 191, A 138-9/B 177-8).
Sherover cita per esempio: «le categorie prive di schemi sono esclusivamente funzioni
dell'intelletto per i concetti, ma non rappresentano oggetti di sorta. Un significato del genere deriva
loro dall'intervento della sensibilità, la quale realizza l'intelletto, nell'atto stesso in cui lo restringe»
(Kant 1781/2005: 191, A 147/B 187).
120
92
successiva, l'Analitica dei principi. L'affinità con questa parte della Critica sarebbe
data dagli argomenti trattati: il rapporto e l'applicazione delle regole ai singoli casi e
dunque, per estensione, la conclusione di tutto il processo conoscitivo nell'unità
dell'esperienza stessa – il fine della metafisica così come concepito da Kant 121.
Pertanto nello Schematismo, con la centralità data al tempo, all'immaginazione e alle
sue funzioni di passaggio, si coronerebbe quella visione ontologica prospettata dai
primi commentatori angloamericani di Kant – «in senso stretto è vero solo che tutti i
fenomeni sono nel tempo, così che, in senso stretto, solo il tempo è il carattere
decisivo dell'essere»122 – e riportata in voga da Heidegger:
la forma del tempo, prima di ogni percezione particolare, delimita l'orizzonte
dentro il quale si deve presentare ogni percezione. Entro un tale orizzonte,
come condizione ontologica affinché un qualunque fenomeno si manifesti, le
entità particolari diventano oggetti per noi. Funzionando come un
contrassegno ontologico per gli oggetti che si presentano, il tempo rende
possibile la stessa oggettività. […] Il successo dello Schematismo sta così nel
portare il concetto di tempo al centro dei fondamenti della possibilità di
esperienza.123
Uno dei punti chiave di chi, come Sherover, prende a modello l'analisi
heideggeriana è la necessità di una relazione tra l'immaginazione, vista come una
facoltà temporale, e l'atemporalità dell'intelletto puro. Il rapporto è completamente
ribaltato rispetto a quello esaminato in precedenza ed è l'attività dell'intelletto,
compresa l'appercezione, che si deve conformare ai dettami dell'immaginazione, la
quale, a sua volta, proprio in quanto facoltà temporale è collegata all'intuizione pura.
In altre parole, ci sarebbe «un'estrema dipendenza di tutta la struttura della
conoscenza dai limiti della natura temporale dell'intuizione pura» e ciò
121
Un altro legame ad un livello più generale riguarda la continuità tra la prima e la seconda Critica.
Kant, dopo la prima Critica, credendo di aver fornito una risposta al problema dell'oggettività della
conoscenza umana, avrebbe fatto lo stesso con la moralità, attraverso la Critica della ragion pratica.
Secondo Sherover (1971: 174), alla pubblicazione della prima Critica, la seconda era già praticamente
finita, ma è uscita solo tre anni dopo, aspettando che le spianassero la strada sia la Metafisica dei
costumi sia la seconda edizione della prima Critica. Quest'ultima infatti, allargherebbe i temi della
finitezza e della razionalità generali spinta dal problema della Moralità come derivato diretto della
razionalità e non si accontenterebbe di render conto della ragione in rapporto alla finitezza umana.
122
Martin (1955: 151).
123
Sherover (1971: 118).
93
implicherebbe anche che «la funzione dell'immaginazione [sia] di portare i concetti
atemporali in relazione con essa»124. O, detto altrimenti:
Empiricamente, l'immaginazione funziona in considerazione di oggetti
particolari; trascendentalmente il suo interesse è verso l'unità sintetica
necessaria del campo dei fenomeni come tale. L'immaginazione trascendentale
“colma” il “vuoto” tra la capacità di avere impressioni sensibili separate di
cose specifiche differenti in “tempi” specifici e la capacità di rendere tali
presentazioni, quando unificate, intelligibili in termini di concetti generali che
non
hanno
un
riferimento
temporale
essenziale
e
che
dall'appercezione pura, la capacità di pronunciare un “Io penso”.
emanano
125
Ma non è forse eccessivo identificare il tempo sia con l'intuizione pura sia
con l'immaginazione? E come mai viene stabilita questa equazione? Si è già
sottolineato come il tempo, in quanto senso interno, rappresenti la forma di ogni
possibile rappresentazione, di ogni possibile oggetto di esperienza, di tutti gli oggetti
intuibili: da qui è tratta la conclusione che sia la forma fondamentale dell'intuizione
stessa. Si passa quindi dalla forma, imposta dall'intuizione, che tutti i fenomeni
devono avere per essere oggetti di esperienza possibile, all'identificazione
dell'intuizione con la forma che lui stesso impone. Per quanto riguarda
l'immaginazione invece, abbiamo già visto che nel suo ruolo di passaggio tra
sensibilità e intelletto, riproduce le rappresentazioni dal passato, nel presente e per il
futuro, agendo lungo quelle che Heidegger chiamerà le tre estasi temporali,
manifestando, in questo modo, la padronanza del uso agire con queste dimensioni.
Da lì ad associare tale funzione con il tempo stesso il passo è breve. Quindi entrambe
le facoltà, avendo a che fare con il tempo, vengono ad esso associate. Se quanto detto
fin qui è corretto, viene da chiedersi: se il tempo è considerato l'elemento di fondo di
entrambe le facoltà, perché allora distinguerle? La conclusione a cui giungono alcune
di queste letture è infatti qualcosa di molto simile: come vedremo parlando della
sintesi, si cercherà di far derivare queste facoltà da un unico principio, un'unica fonte.
Tuttavia i problemi, come sempre, si annidano nei dettagli e qui cercheremo di
124
125
Sherover (1971: 97).
Sherover (1971: 99).
94
illustrare le prime difficoltà a cui vanno incontro questi tentativi interpretativi.
Innanzitutto è già difficile identificare tutta l'intuizione sensibile presa in
blocco con il tempo. Nonostante l'universalità del tempo, la sua identificazione con il
senso interno e mediatamente con quello esterno, l'intuizione spaziale ha delle
prerogative dimensionali (il numero delle dimensioni geometriche euclidee, la
possibilità di spostamento all'interno di esse...) che l'intuizione temporale
difficilmente può coprire e sostituire con una successione monodimensionale. Inoltre,
per quanto riguarda l'uguaglianza o, per lo meno, il parallelismo tra il tempo e la
sintesi immaginativa, possiamo dire che, sebbene collaborino allo stesso fine, ossia
l'unità dell'esperienza in generale, ne curano aspetti differenti: il tempo in quanto
senso interno è, come già detto più volte, una sorta di contenitore per tutte le
rappresentazioni;
la
sintesi
dell'immaginazione
sfrutta
la
mobilità
datale
dall'ampiezza e dalle dimensioni del contenitore per svolgere i suoi compiti di
collegamento. Come in un magazzino, il tempo è la scaffalatura su cui stanno gli
oggetti e quindi contiene le rappresentazioni empiriche; mentre la sintesi
dell'immaginazione è l'operatore che le sposta e le movimenta. Tuttavia le difficoltà
più rilevanti di questo tipo di letture non sono esegetiche ma testuali.
Il problema maggiore di questa ricostruzione è l'indebolimento del ruolo
dell'immaginazione avvenuto nella seconda edizione. Molti dei brani precedenti,
riguardanti soprattutto la sintesi dell'immaginazione presenti nella prima stesura della
Deduzione trascendentale vengono semplicemente esclusi. Lo Schematismo rimane
sostanzialmente uguale ma, in questo nuovo contesto, le sue funzioni sono
profondamente ridimensionate. Infatti, ed è questo il cambiamento più notevole,
l'immaginazione non è più una facoltà autonoma e viene definita come un effetto
dell'intelletto sulla sensibilità:
l'immaginazione è per questo riguardo una capacità di determinare a priori la
sensibilità; e la sintesi delle intuizioni che essa opera, in conformità alle
categorie, deve costituire la sintesi trascendentale dell'immaginazione; il che è
un effetto dell'intelletto sulla sensibilità ed è la prima applicazione (e, nel
contempo, il fondamento di ogni altra) dell'intelletto a oggetti dell'intuizione
95
possibile.126
Conseguenza non da poco anche per il tempo che si vede fortemente ridimensionato
a favore dei concetti, i quali non vengono più astratti dalla percezione temporale ma
vengono imposti ad essa127.
Si è forse esagerato, pertanto, nell'importanza data all'immaginazione? Come
spiegare altrimenti il passaggio da facoltà fondamentale a facoltà di contorno? Per
spiegare i cambiamenti avvenuti nell'edizione del 1787 si sono avute le reazioni più
disparate. Vale la pena riportare la spiegazione data da Heidegger (1929/2006: 141)
in cui la sua prosa si proietta ai limiti del lirismo:
se nella seconda edizione l'immaginazione trascendentale, quanto alla sua
funzione di facoltà fondamentale intermediaria, doveva essere accantonata,
occorreva anzitutto che la deduzione trascendentale subisse una rielaborazione
completa. L'immaginazione trascendentale è l'ignoto inquietante, che ha
fornito il motivo per la nuova redazione della deduzione trascendentale.
C'è invece chi, sembra quasi deluso che Kant non abbia apportato modifiche
più profonde, come Wolff (1963: 43), il quale considera lo Schematismo «inutile
(unnecessary) e la sua presenza oscura il collegamento tra la Deduzione e il Sistema
di tutti princìpi dell'intelletto puro». Dal canto suo Paton ribadisce che nella seconda
edizione non c'è niente che non fosse presente, almeno implicitamente, già nella
prima. E, più che una spiegazione, propone una giustificazione del comportamento di
Kant, dovuto in prevalenza alle critiche ricevute, che l'hanno portato ad adottare un
atteggiamento più prudente128. Ciò ha comportato l'abbandono delle tesi psicologiche
del suo tempo, troppo deboli nei confronti di possibili obiezioni, e la scelta di una
prospettiva più rigorosamente logica. In particolare, tutto questo ha causato
l'abbandono dell'immaginazione produttiva, vista quale facoltà fortemente soggettiva
e a rischio di psicologismo, come funzione trascendentale fondamentale e il tentativo
di mettere da parte le caratteristiche più compromettenti all'immaginazione
126
Kant (1781/2005: 174, B 152).
Sherover (1971: 176).
128
Paton (1936/1976: V. I, 500).
127
96
riproduttiva:
per ciò che l'immaginazione possiede di spontaneità, io la designo talvolta con
il nome di immaginazione produttiva, distinguendola così dalla riproduttiva, la
cui sintesi ubbidisce semplicemente a leggi empiriche, cioè a quelle
dell'associazione, la quale non è in grado di dare alcun contributo alla
spiegazione della possibilità della conoscenza a priori, e rientra, anziché nella
filosofia trascendentale, nella psicologia.129
All'immaginazione produttiva nella seconda edizione si accenna solamente,
distinguendola da quella riproduttiva che si basa solo su leggi empiriche. Ciò porta
anche a nuovi tentativi di incastro tra le due fonti di conoscenza e le tre facoltà
elencate in precedenza. Il tutto può risultare un po' forzato nonostante
all'immaginazione si accenni sempre, sebbene quasi en passant.
Se si osserva l'evoluzione della prima Critica, è plausibile pensare che
l'immaginazione fosse sì una facoltà, anche di una certa importanza, ma che fosse
“sacrificabile”, e quindi non paragonabile alla sensibilità o all'intelletto. Ciò che non
sembra perdere di importanza è la capacità legata inizialmente all'immaginazione, la
sintesi, tanto che risulta necessario trovarle un posto alle dirette dipendenze
dell'intelletto.
II.8. Sintesi.
La sintesi è stata finora una sorta di ombra che si è aggirata lungo tutta la
discussione. Se abbiamo deciso di affrontarla alla fine è proprio perché,
ironicamente, al pari della sua funzione, essa è collegata e fa da collante tra tutte le
nozioni fin qui incontrate: «tutto deve essere necessariamente conforme alle
condizioni dell'unità totale dell'autocoscienza, cioè deve subordinarsi alle funzioni
universali della sintesi in base a concetti, come l'unica in cui l'appercezione abbia la
possibilità di dimostrare a priori la propria piena e necessaria identità»130.
Una nozione così essenziale avrebbe bisogno di essere chiara e
129
130
Kant (1781/2005: 174-5, B 152).
Kant (1781/2005: 648-9, A 111-2).
97
comprensibile: com'è possibile definire la sintesi in quanto capacità? Kant distingue
in prima luogo tra una sintesi in generale e una sintesi pura:
Per sintesi, nel suo significato più generale, intendo l'operazione consistente
nel riunire diverse rappresentazioni e nel comprendere la loro molteplicità in
una conoscenza. Una tal sintesi è pura se il molteplice è dato in modo non
empirico, cioè a priori. [...] la sintesi di un molteplice (sia esso dato
empiricamente o a priori), comincia col produrre una conoscenza che
dapprima può certamente risultare ancora grezza e confusa e bisognosa quindi
dell'analisi. Comunque la sintesi è ciò che effettivamente raccoglie gli
elementi per la conoscenza, unificandoli in un certo contenuto.131
Poco dopo Kant chiarisce che la sintesi definita pura «ci dà ora il concetto puro
dell'intelletto. Ma per sintesi pura intendo quella che riposa sul fondamento dell'unità
sintetica a priori. […] Sotto questo concetto l'unità della sintesi del molteplice
diviene necessaria»132.
Nonostante le precisazioni, i commentatori hanno sottolineato la mancanza di
chiarezza nelle definizioni kantiane. Per esempio, non viene indicato secondo quali
canoni avviene la riunificazione dei dati empirici. Posto che per la sintesi pura a fare
da linee guida siano le categorie, per la sintesi in generale non ci vengono forniti
parametri. Problema già portato alla luce da Kitcher, secondo la quale Kant non è in
grado di definire la relazione di sintesi, di darne, diremmo noi, una formulazione
soddisfacente ed utilizzabile133. In un quadro storico in cui forti si fanno sentire i
problemi filosofici del periodo – come, ad esempio, la risposta da dare a Hume – la
formulazione fornita da Kant risulta talmente semplice da rischiare di indebolire
l'identificazione del soggetto che effettua la sintesi stessa134. Tuttavia, secondo
Kitcher, la sintesi, imponendo determinate caratteristiche ai dati empirici, ha un
valore fortemente epistemologico: da un lato, la sintesi trascendentale può essere
131
Kant (1781/2005: 144, A 77-8/B 103).
Kant (1781/2005: 144-5, A 78/B 104).
133
Kitcher (1982: 59).
134
Kitcher (1982: 53). Per cercare di evitare spiacevoli conseguenze, Kitcher (1982: 56) distingue tra
due significati in cui Kant utilizza il termine “sintesi”: “Sintesi” – maiuscolo – sta per «la relazione
puntuale di connessione di contenuto causale che si produce tra gli stati interni della mente di
qualcuno», mentre “sintesi” – minuscolo – sta per «una relazione generica di contenuto causalmente
interconnessa».
132
98
considerata
l'argomento
fondamentale
per
stabilire
la
parte
soggettiva
dell'appercezione, mentre dall'altro, proprio tramite l'appercezione, Kant cercherebbe
di imporre la sintesi come una relazione epistemologica necessaria tra gli stati135.
Anche secondo Allison la nozione di sintesi in Kant è abbastanza
problematica: egli ritiene che Kant utilizzi il termine “sintesi” in due modi: sia
intendendo l'atto stesso sia ciò che produce. È il primo significato che può portare a
dei problemi, dato che, come abbiamo visto, Kant esclude che si possa sempre essere
consapevoli del nostro agire. Per allontanare questa eventualità Allison propone di
considerare come atti coscienti della sintesi solo quelli che implicano l'intelletto e
non l'immaginazione136.
Sherover invece parte dal presupposto diametralmente opposto a quello di
Allison, prendendo in considerazione l'atto della sintesi pura dell'immaginazione:
essa «costituisce l'abilità umana di scoprire, dentro se stessi, la capacità di
trascendere i dati grezzi ricevuti»137. Capacità fondamentale, come accennato in
precedenza, anche per quel che riguarda il tempo affinché esso sia riconoscibile nella
successione delle impressioni, dato che, basandosi solo su di esse e occupando
ognuna un istante diverso dalle altre, non sarebbe possibile distinguere altrimenti il
tempo come successione. Se così non fosse, avremmo solo degli oggetti sparsi e ciò
non implica che essi siano successivi. Tuttavia
affinché da questo molteplice possa nascere l'unità dell'intuizione […] occorre
in primo luogo passare attraverso il molteplice, per poi raccoglierlo insieme;
operazione, questa, che io chiamo sintesi dell'apprensione, perché essa si
volge direttamente all'intuizione, la quale offre, sì, un molteplice, ma senza
essere in grado di costituirlo come tale senza l'intervento di una sintesi, cioè
come contenuto di un'unica rappresentazione.138
La sintesi permette tutte le rappresentazioni ed è a esse precedente. Ora, ed è
questo il punto centrale delle letture ontologiche, la sintesi precede e permette anche
la rappresentazione del tempo? Se sì, in che termini? I sostenitori di una prospettiva
135
Cfr. Kitcher (1982: 56-8).
Cfr. Allison (2004: 169-70).
137
Sherover (1971: 35).
138
Kant (1781/2005: 641, A 99).
136
99
ontologica rispondono affermativamente e ritengono che il supporto della sintesi alla
rappresentazione del tempo avvenga ad un livello profondo, quasi come fosse il
motore che permette la successione temporale stessa. Sebben la – per così dire –
“spinta” sia unica, essa si articola su due fronti: quello della sintesi dell'apprensione,
sempre successiva e che permetterebbe pertanto la sequenza temporale; e quello della
sintesi immaginativa che ci fornirebbe l'immagine vera e propria del tempo. Inoltre,
dal lato sensibile, come abbiamo visto, la sintesi dell'immaginazione è legata a quella
dell'apprensione, permettendo le connessioni degli istanti percettivi e delle
successioni dell'apprensione. D'altro canto, la sintesi immaginativa si rapporta, a
livello concettuale, anche con l'autocoscienza, dato che opera, riportandole alla luce e
rendendole utilizzabili, sulle rappresentazioni di oggetti passati impresse nella
memoria139.
La sintesi e la memoria hanno un ruolo fondamentale nel fornirci
un'immagine del tempo. Stando infatti a ciò che possiamo ricavare dall'Estetica, la
rappresentazione del tempo, non essendo presente nell'intuizione, necessita proprio
di una funzione che la renda presente. Come spiega Kant, non solo non è possibile
percepire il tempo, ma quando ci rapportiamo ad esso in realtà ci confrontiamo solo
con singole porzioni di tempo: «ogni misura determinata di tempo è intuita come una
parte di un singolo tempo che comprende tutto, il quale sia esso stesso rappresentato
come un'infinita grandezza data»140. Ed è grazie alla sintesi immaginativa che ci
possiamo rappresentare il tempo come una linea – le conseguenze di ciò verranno
esposte in maniera più approfondita nel prossimo capitolo. Stando così le cose,
l'intuizione pura non può essere vista in maniera statica ma deve essere considerata
dinamica, come una “formazione di tempo”:
L'intuizione pura, come tale, presuppone una coscienza temporale che rende
possibile afferrare immediatamente un qualunque oggetto con il campo visivo
in cui appare; questo “afferrare” immediato è la Sintesi dell'Apprensione e
costituisce la prima possibilità di qualsiasi consapevolezza. La precedente
dottrina
dell'Estetica
sosteneva
che
tutte
la
rappresentazioni
siano
necessariamente apprese sotto la forma del tempo. L'analitica già dall'inizio va
139
140
Sherover (1971: 75).
Allison (2004: 189).
100
oltre: la coscienza temporale è necessaria anche per la forma del tempo
stesso.141
L'elemento fondamentale per questo tipo di letture è proprio la “coscienza
temporale” di cui parla Sherover con la quale è plausibile credere che si stia
riferendo al soggetto conoscente al di fuori delle sue condizioni epistemiche.
L'analisi si sposta su un soggetto immanente, artefice delle operazioni conoscitive:
deve esserci, al di là del tempo, dell'appercezione e di tutte le altre facoltà e capacità
kantiane, un soggetto conoscente che le mette in moto. Ma, paradossalmente,
restando al di fuori di queste stesse capacità non è possibile conoscerlo in senso
kantiano. Tuttavia possiamo vedere i suoi effetti (ricordiamoci che Kant è un
funzionalista) e tra di essi i sostenitori di una lettura ontologica vedono quello che
potremmo chiamare la “produzione di tempo”. Che il soggetto conoscente possa
avere due rappresentazioni diverse A e B nel suo senso interno dipende anche dalla
capacità di sintesi del soggetto stesso. Questa, oscura e indefinita quanto si vuole,
deve però permette a livello più semplice possibile l'aggiunta di un elemento ad un
altro. Detto altrimenti, le capacità temporali del soggetto conoscente prenderebbero
avvio da questa capacità propulsiva di aggiungere una cosa all'altra; l'ontologia
sarebbe antecedente all'epistemologia.
Come cercano di mostrare questi passi, il tema della sintesi trascendentale è
un tema fondamentale soprattutto per coloro che offrono una lettura ontologica di
Kant. È tuttavia famoso il caso di Heidegger, per il quale la sintesi è una delle pietre
di paragone attorno a cui ruota tutta la sua analisi142. Che sia la capacità
fondamentale è data dal fatto che proprio grazie alla sintesi è possibile dimostrare
l'accordo tra intuizione e pensiero o, detto forse in maniera più corretta, tra sensibilità
e intelletto. Abbiamo tuttavia osservato che, soprattutto dopo la seconda edizione, le
141
Sherover (1971: 73) troverebbe sostegno in un passo di Kant (1781/2005: 193, A 142-3/B 182) del
quale egli cita solo la parte finale: «io produco il tempo stesso nell'apprensione dell'intuizione». Il
brano nella sua interezza può avere una lettura leggermente diversa: «Ne segue che il numero altro
non è che l'unità della sintesi del molteplice d'una intuizione omogenea in generale, per il fatto che io
produco il tempo stesso nell'apprensione dell'intuizione». Qualcuno potrebbe sottolineare che qui ci si
sta rivolgendo solo all'attività di enumerazione.
142
Heidegger (1929/2006: 42): «[l]a fondazione della metafisica è il progetto dell'intrinseca possibilità
della sintesi a priori». Heidegger (1929/2006: 43): «nel problema della sintesi a priori, intesa come
sintesi ontologica, l'indagine relativa all'essenza dei “predicati ontologici” deve prendere il posto
centrale». «In particolare Heidegger (1929/2006: 35) si riferisce alla sintesi veritativa, grazie alla
quale, unendo pensiero e intuizione, l'oggetto diviene vero nell'unità di un'intuizione pensante.
101
possibilità del senso interno o del tempo come entità ontologicamente indipendenti
sono fortemente ridimensionate.
Fin qui, infatti, abbiamo esaminato un senso forte di “rappresentazione del
tempo”. Questo concetto può essere letto anche in maniera molto più debole. In tal
caso, ciò che si richiede è solo un'immagine, un'esemplificazione del tempo. Ritorna
subito alla mente la rappresentazione del tempo come una linea. Possiamo arrivare a
questa immagine senza andare a smuovere le potenze profonde del soggetto
conoscente? È possibile, a tal fine, utilizzare quelle che sono le abilità
eminentemente epistemologiche del soggetto conoscente quali l'intelletto o
l'appercezione? Una domanda simile se l'è posta Allison. Secondo lui
la rappresentazione del tempo attraverso il disegno di una linea deve
conformarsi alle condizioni della sua unità sintetica. Non soltanto la
rappresentazione intuitiva di una linea come tale ma anche “l'interpretazione”
della sua sintesi successiva come immagine pura del tempo presuppone un
singolo soggetto conscio della sua identità attraverso il processo generativo. In
breve, anche se […] il tempo non è un'unità sintetica composta di parti
preesistenti, la sua rappresentazione determinata richiede un'unità sintetica
della coscienza che riconduce questa rappresentazione alle categorie. 143
Secondo Allison (2004: 189), è per questo che la sintesi deve essere sia a
priori sia trascendentale affinché «funzioni nella determinazione del tempo come
forma del senso interno». Tuttavia i molteplici riferimenti all'appercezione sembrano
far intendere che la sintesi possa agire solo all'interno e in collaborazione con le altre
facoltà epistemologiche del soggetto conoscente e non possa andare al di fuori di
esse. Accorgimenti che presumibilmente tengono conto sia delle modifiche avvenute
nella seconda edizione, sia della distinzione tra la sintesi intesa in senso generale e le
sue articolazioni particolari, concepite come manifestazioni diverse della stessa
sintesi e operanti all'interno delle facoltà o capacità specifiche, tra le quali l'intelletto.
Infatti, nella seconda edizione, come abbiamo già accennato, il ruolo della
sintesi trascendentale – così chiamata in quanto permette l'unità dei contenuti
fenomenici e l'applicabilità dei concetti alle cose –
143
Allison (2004: 191).
102
cambia appannaggio
dell'intelletto:«[l]a sintesi, o congiunzione del molteplice in essi [i concetti puri
dell'intelletto], si riferisce semplicemente all'unità dell'appercezione ed è perciò il
fondamento della possibilità della conoscenza a priori, in quanto si fonda
sull'intelletto; essa è dunque non solo trascendentale, ma anche puramente
intellettuale»144.
Come abbiamo già avuto modo di vedere, l'obbiettivo è spostato sul modo in
cui l'intelletto agisce sul senso interno. Un'estremizzazione di questo genere
ridimensiona drammaticamente il ruolo del senso interno e del tempo. A farne le
spesse è proprio l'immaginazione che, derubricata a funzione dell'intelletto, ha il
compito di fare da tramite tra di esso e la sensibilità. Ciò è reso possibile proprio
grazie alla sua sintesi che viene ridefinita “sintesi figurativa” (synthesis speciosa),
anch'essa considerata una competenza dell'intelletto:
Questa sintesi del molteplice dell'intuizione sensibile che risulta possibile e
necessaria a priori, può essere detta figurata (synthesis speciosa), per
distinguerla da quella pensata nella semplice categoria rispetto al molteplice di
un'intuizione in generale, che prende il nome di congiunzione intellettuale
(synthesis intellectualis); l'una e l'altra sono trascendentali, non solo perché
procedono a priori, ma anche perché fondano la possibilità di altra conoscenza
a priori.145
La sintesi intellettuale, a differenza di quella figurata, è sempre eseguita dall'intelletto
senza l'aiuto dell'immaginazione146. Ciò fa presumere che sintesi figurata, invece,
operi per mezzo di essa.
Nella seconda edizione Kant è quindi arrivato a sostenere la dipendenza del
senso interno dall'intelletto? Malgrado una centralità maggiore data ad alcune
funzioni, ci sono alcuni elementi che fanno pensare che, nella seconda edizione, la
sensibilità rimanga comunque una facoltà indipendente e il tempo, in quanto senso
interno, non dipenda in blocco dai principi intellettuali. In primo luogo, l'intelletto
rielabora i dati provenienti dalla sensibilità, ma su quei dati e sull'ordine soggettivo
144
Kant (1781/2005: 173, B 150).
Kant (1781/2005: 174, B 151).
146
Cfr. Kant (1781/2005: 174, B 152).
145
103
che si trovano ad avere, la podestà è tutto del tempo. Ciò che spesso, secondo me, si
perde di vista è che l'indagine di Kant è fortemente parziale e tende ad illuminare gli
aspetti che più gli stanno a cuore per i suoi interessi. Ma anche al netto
dell'avvicinamento delle basi dell'epistemologia alle discipline scientifiche effettuato
da Kant nell'edizione del 1787, è come il soggetto conoscente sia alle prese in
maniera prevalente con conoscenze che non definiremmo oggettive. C'è infatti
un'area su cui i principi dell'intelletto non agiscono (almeno non tutti insieme). È
questa l'area in cui agisce il senso interno, offrendo una dimensione in cui tutti i
fenomeni si presentano e in cui poi, solo in alcuni casi, vengono sottoposti alle
categorie. Ritorniamo all'eventualità in cui un lampione si spenge quando ci passo
sotto; siamo di fronte ad un caso di causa-effetto? Non credo. Siamo di fronte ad una
successione temporale? Sì. Non è detto che in tutti i casi in cui B segua A si sia in
presenza di una seconda analogia, tuttavia siamo sempre in presenza di una
successione temporale147.
Una posizione simile può essere ritrovata in Bird, il quale ha cercato di
limitare il ruolo della sintesi dell'intelletto, mostrando come essa possa funzionare
solo se la si ritiene una sorta di astrazione dell'esperienza reale. Sotto un certo punto
di vista, anzi, il senso interno è proprio ciò che ci fa comprendere l'azione
dell'intelletto: «se voglio isolare il contributo distintivo dell'intelletto e astrarre così,
dal modo in cui noi lo conosciamo attraverso il senso interno, allora io posso
rappresentarmi l'intelletto come una facoltà pura distinta dall'intuizione sensibile»148.
Tanto più che anche l'azione dell'intelletto sulla sensibilità è rappresentabile solo nel
senso interno.
Se è vero che uno degli obiettivi principali di Kant è l'unità della conoscenza,
unità cioè principalmente del lato sensibile con quello concettuale, si capisce come la
funzione di passaggio offerta dall'immaginazione tramite la sintesi del tempo si riveli
fondamentale. I distinguo emersi in queste pagine possono aiutare anche in merito ai
domini che una lettura ontologica o epistemologica si arrogano di avere. Come
147
È in questa ottica che si pone la distinzione tra le percezioni successive e la successione delle
percezioni: quest’ultimo tipo di successione è soggettiva e si basa solo sulla sequenzialità dei dati
empirici con cui entra in contatto il senso interno; invece, affinché si possa stabilire che due diverse
percezioni siano successive, si ha bisogno di qualcosa di “esterno” al semplice flusso empirico che
funzioni come metro di paragone, e questo compito sembra essere assolto dalla seconda analogia.
148
Bird (2006: 382).
104
abbiamo detto in precedenza, le letture epistemologiche hanno conseguenze
ontologiche e viceversa; e, come è emerso nel corso della discussione entrambe
hanno dei brani su cui supportarsi. Il nostro scopo non è infatti quello di propendere
per l'una o per l'altra; ritengo che sia molto più importante capire dove sia possibile
utilizzare gli spunti e gli strumenti d'indagine dell'una e dove quelli dell'altra.
A questo proposito, non sembra possibile accostare le discipline con cui si
indaga la natura, e la realtà esterna in generale, per indagare più a fondo il tempo
come senso interno. Ciò sembra escluso da Kant quando nega categoricamente la
possibilità di una psicologia empirica perché non sarebbe possibile considerarla una
disciplina scientifica. Ciò che è interessante è il motivo per cui esclude questa
possibilità:
deve restar lontana dal rango di una scienza della natura propriamente degna
di questo nome la dottrina empirica dell’anima, in primo luogo perché la
matematica non è applicabile ai fenomeni del senso interno e alle loro leggi: si
dovrebbe infatti prendere in considerazione la sola legge della continuità nel
trascorrere dei suoi mutamenti interiori, il che costituirebbe un’estensione
della conoscenza la quale, rispetto a quella che la matematica produce nella
dottrina dei corpi, equivarrebbe alla dottrina delle proprietà della linea retta
rispetto all’intera geometria.149
Eppure i rapporti tra tempo e discipline matematiche o scientifiche in generale sono
ricorrenti soprattutto nella seconda edizione della prima Critica. Tuttavia, per poterli
analizzare nel migliore dei modi dobbiamo abbandonare il tempo come forma del
senso interno e volgerci nel suo uso mediato, tra i fenomeni esterni.
149
Kant (1786/2003: 105; 471)
105
106
III. Il tempo nel suo uso esterno.
III. 1. Introduzione.
Quando si passa dal considerare il tempo come senso interno all’analizzare il
suo impiego tra i fenomeni esterni, non si sta compiendo una semplice osservazione
su di un avvicendamento di competenze: si è di fronte ad un passaggio che ha una
portata enorme. I livelli che sono stati sinora affrontati– epistemologico, ontologico,
storiografico… – vengono riconsiderati sotto quasi tutti i punti di vista. In un quadro
così variegato, c’è bisogno di alcune coordinate tramite cui orientarsi. L’idea è quella
di seguire, come linee guida, le principali problematiche che gli autori anglofoni
hanno sollevato o si sono trovati ad affrontare nelle loro analisi: in pratica, l’uso
dell’intuizione temporale come forma esterna mediata sarà esaminato attraverso i
nodi interpretativi che i commentatori angloamericani hanno dovuto dipanare. Sciolti
questi brogli, dovrebbe essere possibile venire a capo, non solo delle facoltà e dei
compiti genuini del tempo kantiano nel suo uso esterno, ma pure di alcune
caratteristiche dell’intuizione temporale in generale, anche alla luce dei contributi
originali e delle soluzioni offerte dagli autori che verranno presi in considerazione.
Rispetto ai capitoli precedenti, qui il compito è facilitato, almeno in parte,
dalla buona quantità di contributi. Il tempo come senso esterno mediato e, più in
generale, tutti quegli aspetti epistemologici che hanno avuto a che fare con le
discipline fisico-matematiche e con la misurazione, sono stati la materia di studio
preponderante dei commentatori angloamericani di Kant. In aggiunta, il rapporto tra
il pensiero kantiano e la scienza è stato spesso indicato come uno dei motivi
principali della ripresa della filosofia critica in ambienti anglofoni. C’è, infatti, chi ha
visto nella dottrina di Kant un argine in grado di ridimensionare, ad esempio, quelli
che sono stati gli sviluppi più estremi seguiti alle idee di Quine e Kuhn. Friedman
(2001: 117), nella sua riproposizione del modello kantiano, ammette di aver posto
particolare attenzione, da un lato, alla sfida posta all’olismo epistemologico
quineiano, nel quale veniva proposto un «empirismo naturalizzato in cui di a priori
non viene lasciato proprio niente»; dall’altro, si è concentrato sugli eccessi seguiti
107
alle teorie kuhniane che hanno condotto verso «un nuovo stile di relativismo storico e
concettuale basato sull’incommensurabilità e la non traducibilità dei paradigmi
rivoluzionari successivi».
Rispetto agli argomenti del capitolo precedente, c’è anche una maggiore
omologazione dei temi trattati: per esempio, parlando di tempo nel suo uso esterno,
non si può non accennare al suo rapporto con la seconda analogia o con il problema
dell’irreversibilità. Argomenti che vengono a galla soprattutto studiando la seconda
edizione della Ragion pura, del 1787. In quell’edizione c’è, infatti, una maggiore
attenzione per ciò che riguarda il modo di rapportarsi delle condizioni epistemiche
alle relazioni che intercorrono tra i fenomeni. Alcuni pensatori ritengono che sia un
segno evidente della volontà, da parte di Kant, di avvicinare maggiormente le
nozioni della filosofia critica verso le discipline scientifiche. Tendenza che si
riscontra anche osservando la bibliografia kantiana: sono di poco precedenti la
seconda edizione sia i Prolegomeni ad ogni futura metafisica che potrà presentarsi
come scienza sia i Principi metafisici della scienza della natura, opere in cui è
evidente la volontà di mettere in relazione le condizioni epistemiche con i principi
delle discipline scientifiche.
Si comprende, perciò, perché ci sia bisogno di alcune accortezze nello
spostamento da un’edizione all’altra. A questo proposito, seguendo lo stile fin qui
intrapreso, la prima controversia che intendo affrontare avrà un carattere più
introduttivo e storiografico: si cercherà di mostrare come venga esaminato e
considerato il passaggio dalla prima alla seconda pubblicazione da parte degli attuali
commentatori angloamericani di Kant. Il tutto circoscritto, naturalmente, ai temi fin
qui affrontati.
III. 2. Il passaggio dalla prima alla seconda edizione.
Il primo ad avvertirci che sono avvenuti dei cambiamenti nella Critica della
ragion pura tra l’edizione del 1781 e quella del 1787, è Kant stesso. Tuttavia sembra
che egli non voglia sottolineare troppo le differenze tra le due pubblicazioni. Anzi,
nella prefazione alla seconda edizione, Kant afferma che egli, per lo più, ha
effettuato quasi esclusivamente dei miglioramenti a livello espositivo, riguardanti
108
soprattutto la deduzione dei concetti dell’intelletto e le loro dimostrazioni. A ciò si
aggiungerebbero
delle
considerazioni
supplementari
dovute
ad
un’errata
comprensione della psicologia razionale e delle migliorie introdotte per venire a capo
di alcuni fraintendimenti sul concetto di tempo nell’Estetica1. In pratica, gli
interventi si concentrano sulle prime parti dell’opera: Analitica, soprattutto il
paragrafo della Deduzione, ed Estetica trascendentale.
Nel suo lavoro di revisione, Kant ammette comunque di compiuto
un’integrazione e avverte di ciò il lettore in una nota:
L’unica vera e propria aggiunta, concernente però solo il modo di dimostrare,
è soltanto quella che ho fatto a pagina 275 [la numerazione si riferisce alle
pagine originali della seconda edizione, nda] introducendo una nuova
confutazione dell’idealismo psicologico, assieme a una prova rigorosa (e, a
quanto credo, la sola possibile) della realtà oggettiva dell’intuizione esterna.2
L’aggiunta a cui si sta riferendo Kant è il famosissimo paragrafo della Confutazione
dell’idealismo. Non viene menzionato altro di originale che sia stato aggiunto.
L’atteggiamento e le considerazioni di Kant, per certi versi, lasciano
sbalorditi. Anche mettendo da parte il fatto che l’intero paragrafo della Confutazione
non riguarda solo “il modo di dimostrare”, e che quindi si tratta di un’integrazione
speculativa totalmente nuova, Kant non può realmente sostenere che, nella
pubblicazione del 1787, per quel che riguarda il resto delle parti suddette, egli ha
operato soltanto delle semplici sistemazioni terminologiche3. Si è tentati di affermare
che Kant stia consapevolmente mentendo.
A nessun commentatore, neanche a colui che basa maggiormente la sua
lettura sull’edizione del 1781, sono infatti sfuggite le importanti modifiche a cui sono
state sottoposte l’Estetica e l’Analitica trascendentale. Addirittura Heidegger, il
quale si concentra esclusivamente sulla prima pubblicazione, non può non accennare
ai cambiamenti avvenuti nell’edizione del 1787. Tra questi, la maggiore importanza
1
Kant (1781/2005: 57; B XXXVIII).
Kant (1781/2005: 57; B XXXIX).
3
Contrariamente a quanto sto cercando di mostrare, c’è chi come Bennett (1966: 202) sostiene che la
Confutazione dell’idealismo sia «giustamente» l’unica aggiunta contenutistica alla seconda edizione,
essendo la linea argomentativa di Kant solo «adombrata» nell’edizione del 1781, ma già presente.
2
109
data all’intelletto, che arriva a prendere il posto, nello svolgimento di alcuni compiti,
dell’immaginazione trascendentale, facoltà fondamentale per la lettura di Heidegger:
Nella seconda edizione della Critica della ragion pura, l’immaginazione
trascendentale, qual era venuta in luce nel fervido impulso della prima stesura,
è respinta nell’ombra e misconosciuta – a favore dell’intelletto.4
Heidegger, per questa nuova impostazione, fornisce una spiegazione che, a prima
vista, può sembrare eminentemente psicologica ma che presuppone, invece, una
motivazione teorica forte che ha portato Kant alla rielaborazione e, in alcune parti,
alla completa riscrittura di alcune sezioni della Ragion pura:
Nello svolgimento radicale della sua ricerca, Kant condusse la «possibilità»
della metafisica davanti a questo abisso [la fondazione della ragion pura]. Egli
vide l’ignoto e dovette indietreggiare. E ciò non solo per il timore incussogli
dall’immaginazione trascendentale, ma perché nel frattempo la ragion pura, in
quanto ragione, l’aveva tratto ancor più profondamente in propria balia.5
Con la sua scrittura efficace, Heidegger riesce a mettere a fuoco il problema della
fondatezza dei concetti introdotti dal filosofo critico, vale a dire la necessità di
trovare una base, una prova della validità delle sue nozioni a priori. È come se Kant
si rendese conto che mancasse qualcosa e che l’intero peso della sua struttura non
potesse essere retto dall’immaginazione trascendentale (come voleva proprio
Heidegger) o, più in generale, sul credito dato alle funzioni a priori già messe in
campo. Come abbiamo visto nel primo capitolo, già nella prima edizione alla fine
della deduzione dei concetti puri dell’intelletto, si fa riferimento proprio alle tre
facoltà o capacità come sorgenti della possibilità dell’esperienza: ricapitolando, esse
sono la sinopsi che si effettua tramite il senso, la sintesi mediante l’immaginazione e
4
Heidegger (1973/2005: 140). La linea interpretative di Heidegger è riassunta efficacemente da Vinci
(1988: 112): «con lo schematismo e la deduzione della prima edizione Kant arriva a cogliere la reale
natura dell’immaginazione trascendentale, ma, per i suoi debiti con la tradizione, non ne trae le
conseguenze, arrivando a mettere in discussione le concezioni acquisite circa la soggettività del
soggetto. In particolare Kant non si renderebbe pienamente conto, per l’eccessivo condizionamento
delle visioni consuete dell’immaginazione come facoltà inferiore empirica, della sua stessa scoperta
circa il carattere spontaneo di ogni ricettività pura».
5
Heidegger (1973/2005: 145).
110
l’unità della sintesi attraverso l’appercezione; in più «queste facoltà posseggono,
oltre all’uso empirico, altresì un uso trascendentale, che concerne solo la forma ed è
possibile a priori»6. Tuttavia, l’intero processo poteva apparire oltremodo
autoreferenziale e i principi dell’intelletto, da soli, sembravano, per così dire,
galleggiare nel vuoto.
Nella seconda edizione si cerca pertanto di fornire un fondamento ben più
robusto a tutto l’impianto critico della deduzione delle categorie. Ciò viene attuato
creando una convergenza tra i principi di Kant e quelli delle discipline fisicomatematiche: «la derivazione empirica […] è incompatibile con la reale esistenza
delle conoscenze scientifiche a priori che sono in nostro possesso, cioè con la
matematica pura e la fisica generale e risulta in tal modo contraddetta dai fatti»7. Il
senso della proposizione appare fin troppo chiaro e la sua importanza non può essere
sminuita: sia perché arriva dopo una riflessione sugli empiristi inglesi, Locke ed in
particolare Hume, sia perché si troverebbe conferma di quel nuovo atteggiamento di
avvicinamento verso le discipline scientifiche iniziato nella Prefazione alla seconda
edizione con la dichiarazione di fiducia, da parte di Kant, alle scienze della sua
epoca8. Addirittura, si può ritenere che quelle che sono state chiamate condizioni
epistemiche
possano
«essere
considerate
parte
di
quell’armamentario
presupposizionale con cui i creatori della scienza moderna, da Galileo a Newton, da
Torricelli a Stahl, avrebbero interrogato la natura non procedendo a casaccio, ma
“costringendola” a rispondere a domande concepite secondo il disegno della
ragione»9. Questa volontà, si ricollega a quanto già espresso nei Prolegomeni, opera
che, come accennato, tende a mettere in stretta relazione i principi a priori kantiani
con le discipline scientifiche del periodo e da cui vengono anche tratti dei brani
inseriti nella seconda edizione10. Eppure, anche la conclusione della deduzione dei
principi dell’intelletto è, a suo modo, sorprendente: dovrebbe essere il traguardo di
tutto un processo argomentativo, il coronamento o almeno la base della
6
Kant (1781/2005: 159; A 94).
Kant (1781/2005: 159-60; B 131).
8
«Sin dai tempi più remoti a cui può giungere la storia della ragione umana, la matematica, ad opera
del meraviglioso popolo greco, si è posta sulla via sicura della scienza» (Kant 1781/2005: 41; B X);
«la fisica è stata posta per la prima volta sulla via sicura della scienza, mentre per tanti secoli non
aveva fatto altro che procedere brancolando» Kant (1781/2005: 43; B XIV).
9
Parrini (1995: 111).
10
Cfr. Kant (1781/2005: 83; B 14) o Kant (1781/2005: 86; B 19).
7
111
giustificazione metafisica fornita da Kant; e invece si presenta così, quasi a sorpresa,
di volata, en passant.
Il modo di presentare gli interventi nella seconda edizione e gli intenti ad essi
legati, uniti al basso profilo tenuto da Kant (che rasenta l’insicurezza), sono stati tra i
motivi che hanno spinto nella ricerca di chiavi di lettura alternative. Nel far ciò, i
commentatori anglofoni spesso non sono stati benevoli con Kant e non hanno
risparmiato aspre critiche, come nel caso dell’Analitica trascendentale: «il
giustificato malcontento di Kant nei confronti di questo capitolo, irrimediabilmente
mal scritto, lo spinge a redigerlo per la seconda edizione. Ma l’ultima versione,
sebbene rimuova efficacemente alcune enfasi, è solo di poco più chiara del
precedente» scriverà Bennett (1966: 100). E Paton, addirittura, paragona l’analisi di
questa parte dell’opera alla traversata del deserto arabico11.
Che quella sezione, e soprattutto la Deduzione trascendentale, risulti
oltremodo ostica, lo avevano già evidenziato sia i commentatori tedeschi di Kant sia i
suoi primi commentatori inglesi. Per esempio, rifacendosi ad alcune tesi di
Vaihinger, Kemp Smith (1918/1979: 202) vede la Deduzione come il risultato di
alcuni manoscritti, radunati e assemblati tra loro, che corrispondevano a differenti
livelli di sviluppo del pensiero kantiano. Nello specifico, Kemp Smith (1918/1979:
363) ritiene che Kant offra cinque prove della deduzione della seconda analogia, le
quali non dovrebbero essere state scritte in successione ma «sono state associate in
seguito per realizzare questa sezione». Tale ipotesi è stata in seguito approfondita ed
elaborata da numerosi commentatori anglofoni, i quali l’hanno ribattezzata
“patchwork theory” (teoria del mosaico o, magari in senso più dispregiativo, teoria
dell’insieme di toppe)12. I modi di declinare questa teoria sono stati molteplici. C’è
chi ha cercato di svilupparla e di esaminarla più accuratamente, aggiungendoci
considerazioni che potremmo definire “psicologiche”, tramite le quali si sottolinea la
fretta nel portare a termine il progetto critico da parte di Kant. Egli completa la
scrittura della prima Critica ormai cinquantasettenne, dopo almeno una dozzina di
anni di elaborazione e di raccolta dei materiali, con l’intenzione di estendere il suo
progetto su altri temi e in altre opere: è perciò probabile che «lui abbia cucito insieme
11
Citato in Dicker (2004: 84).
Dicker (2004: 93). Anche Dicker sottolinea la confusione espositiva come una delle ragioni che
hanno spinto Kant a riscrivere questa parte della sua opera.
12
112
vari brani che aveva scritto in periodi molto differenti durante i suoi dodici anni di
riflessione, e che abbia redatto solo pochi passaggi del tutto nuovi»13.
Alla patchwork theory si rifà pure Guyer, il quale, però, esclude che sia
possibile rintracciare un filo cronologico nella composizione della Deduzione
Trascendentale, sottolineando, inoltre, come questa metodologia possa essere, in
qualche modo, controproducente:
Non è saggio cercare di discernere un ordine storico nella composizione delle
frasi che di fatto costituiscono i testi della deduzione trascendentale, come
fecero i difensori originari della “teoria del mosaico” Hans Vaihinger e Norman
Kemp Smith. […] Piuttosto ci si deve limitare alla tesi secondo la quale i testi
della Deduzione trascendentale, qualunque sia la storia della loro composizione,
esprimono davvero un mosaico di argomenti.14
C’è chi è stato molto meno tenero con Kant e, addirittura, più estremo nel
considerare le tesi inerenti a questa parte dell’opera, come il già citato Bennett. Egli,
riprendendo l’idea di fondo della teoria, ma portandola al limite, afferma che «la
Deduzione non è un insieme di toppe (patchwork) ma un pasticcio (botch).
Comunque, dato che essa contiene qualche buon elemento, non è un pasticcio
trascurabile»15. Il secondo tentativo, dunque, non è stato del tutto indigesto ed è
risultato almeno presentabile, visto che una delle cose che Bennett ha apprezzato di
più nella pubblicazione del 1787, è stata la maggiore linearità stilistica, soprattutto
per quanto riguarda l’argomento centrale, sviluppato in un nucleo di pagine
consecutive, al contrario dell’edizione del 1781 dove era, per così dire, sparso per
tutta la sezione16.
C’è anche chi si è opposto completamente all’idea di considerare l’Analitica
o la Deduzione trascendentale un collage di varie teorie formulate in tempi diversi,
siano esse considerate toppe o pasticci. Paton (1936/1970: 38), inizialmente,
distingue tra la posizione di Adickes, il quale riterrebbe che ci sia un nucleo
originario della Critica a cui sono state aggiunte via via altre parti, e quella di
13
Dicker (2004: 94).
Guyer (1987: p. 432, n1).
15
Bennett (1966: 100).
16
Bennett (1966: 103).
14
113
Vaihinger, il quale limita le sue considerazioni solo alla Deduzione trascendentale.
Ed è proprio su Vaihinger che si concentreranno le critiche di Paton: egli cerca di
mostrare come il tentativo di suddividere concettualmente e storicamente il paragrafo
kantiano non tenga conto, in primo luogo, delle parole dello stesso Kant; in secondo
luogo, Paton cerca di evidenziare le forzature a livello esegetico, prima tra tutte il
porre su uno stesso livello l’esposizione sistematica oggettiva e quella soggettiva 17. È
solo dopo aver stabilito tali presupposti che Vaihinger può dare avvio a tutta la sua
chiave di lettura. Una metodologia che Paton (1936/1970: 40) condanna molto
duramente: «l’intera discussione è un monumento di desolante ingenuità reso ancor
più patetico dalla conoscenza e dalla chiarezza dell’esposizione».
Le tesi fin qui riportate mostrano comunque che lo studio, per così dire,
filologico delle differenze tra le due edizioni della prima Critica, è uno dei pochi
aspetti su cui un buon numero di filosofi anglofoni si sia confrontato con le tesi dei
precedenti commentatori tedeschi. Ciò significa almeno due cose: in primo luogo, i
filosofi anglofoni conoscevano (almeno in parte) l’opera dei loro predecessori
continentali, se non altro attraverso il filtro dei primi commentatori inglesi; stando
così le cose – e arriviamo al secondo punto – hanno deliberatamente scelto di non
prendere in considerazione molti dei loro spunti e delle loro idee, rifacendosi
direttamente al testo kantiano. È lecito chiedersi: perché? Forse, la motivazione
principale è quella di aver ritenuto le analisi su Kant a loro precedenti, in una certa
misura, non adeguate al contesto attuale. La patchwork theory dimostra che alcune
idee dei commentatori continentali ottocenteschi sono ancora condivisibili e
utilizzabili; ciononostante sono cambiati gli obiettivi e le motivazioni della ripresa
del testo kantiano: i suoi connazionali puntavano ad affrontare la crisi di filosofie
quali l’hegelismo o il positivismo; molti autori anglofoni, invece, devono affrontare
le nuove sfide imposte da alcune tesi sviluppatesi in ambito angloamericano, come
quelle derivanti da Quine e Kuhn. Buona parte delle opere dei commentatori
tedeschi, probabilmente, non sono state considerate sufficientemente attrezzate o utili
per far fronte a queste nuove problematiche. Si potrà obiettare che Kant è ancor
meno recente. Ma il porre su uno stesso livello ciò che viene ritenuto analitico e ciò
che viene considerato sintetico in aggiunta all’estremo relativismo epistemologico
17
Paton (1936/1970: 39).
114
andavano a colpire teorie che erano sorte, o avevano trovato una delle loro massime
espressioni, proprio nella filosofia critica. Pertanto, si è cercato di porre un freno a
nuove minacce tornando all’origine di tutto.
Mettendo da parte le immagini più estreme – un Kant che, deluso dalla sua
esposizione, si ritrova intento a raffazzonare ritagli ed appunti per una seconda
edizione – il dibattito fin qui illustrato ha il merito di mettere in luce alcuni punti di
debolezza, più o meno condivisi dalla maggior parte dei commentatori, sulla parte
iniziale della Ragion pura: la confusione della prima edizione e la necessità di un
adeguamento stilistico unite alla tortuosità del ragionamento kantiano, che non parte
da tesi chiare per arrivare a conclusioni esplicite, ma che si dilunga, quasi si dilegua,
e poi, improvvisamente, giunge alle affermazioni definitive. Di pari passo, si
riconosce alla seconda edizione un po’ più di chiarezza e un accostamento verso
quelli che sono i temi scientifici dell’epoca di Kant.
A dire il vero, non si ha uno spostamento solo in quella direzione. C’è un
altro motivo di differenza tra la prima e la seconda edizione che qui, purtroppo, potrà
solo essere introdotto perché svierebbe troppo dagli scopi attuali della ricerca. Kant è
stato spinto a porre delle modifiche anche dalla volontà di preparare il terreno per le
opere successive a carattere etico e morale, soprattutto per la Critica della ragion
pratica, e dare così l’immagine del suo pensiero come blocco unitario. Un’ipotesi
interpretativa che si ritrova, per esempio, nel solito Heidegger, il quale segnalava
l’esigenza di legare in maniera più stretta gli aspetti epistemologici del pensiero
kantiano con quelli morali:
Mediante la fondazione della metafisica in generale, Kant giunse per la prima
volta a scrutare chiaramente il carattere dell’«universalità» della conoscenza
ontologico-metafisica. Allora soltanto, egli ebbe in mano «mezzi e strumenti»
per esplorare criticamente il dominio della «filosofia morale» e per sostituire
la generalità empirica indeterminata delle dottrine morali della filosofia
popolare con l’originarietà essenziale dell’analisi ontologica, la sola capace di
instaurare una «metafisica dei costumi» e di darle fondamento.18
18
Heidegger (1973/2005: 145). Tutto il percorso fatto da Kant nella seconda edizione tenderebbe a
separare ancor più nettamente la parte a priori del soggetto conoscente da quella empirica. Per far ciò,
andava ridimensionata sia l’immaginazione sia il suo ruolo. Puntando averso l’ambito morale, ci si
115
Questa linea interpretativa si sta facendo strada anche tra i commentatori
anglofoni. Soprattutto, ci sono interessanti convergenze sul modo di interpretare il
Kant morale e quello teoretico. Korsgaard (2009), per esempio, utilizzerà strumenti
teorici simili a quelli usati da Friedman (2001) per offrire una lettura “relativizzata”
dei principi morali kantiani.
Gli esperti di Kant avranno sicuramente notato che non si è ancora accennato
ad alcune considerevoli variazioni tra la prima e la seconda edizione, cambiamenti
che, per lo scopo attuale di questo lavoro, sono probabilmente quelli di maggior
peso. Nella seconda edizione, la modifica forse più lampante che riguarda
l’intuizione temporale è la rottura, rispetto alla pubblicazione del 1781, della
simmetria tra l’esposizione metafisica del concetto di spazio e quella del concetto di
tempo. Nella prima edizione entrambi i concetti venivano esposti in cinque punti,
mentre nell’edizione successiva, oltre alle varie riscritture e aggiunte, per lo spazio
ne bastano solo quattro. Stranamente, un cambiamento così evidente non ha suscitato
moltissimo clamore.
Il punto dell’esposizione del tempo che non ha un corrispettivo preciso con
quelli dello spazio è il terzo. Appurarlo è semplice: nei restanti capoversi le frasi
iniziali e gli argomenti trattati nelle esposizione dei concetti delle due forme a priori
della sensibilità sono abbastanza simili. Nella seconda edizione, pertanto viene
soppresso il passaggio in cui si afferma esplicitamente una corrispondenza tra
l’intuizione spaziale e la geometria19 (il terzo punto della prima edizione),
corrispondenza che ci aiutava anche a stabilire quali fossero le proprietà attribuibili
allo spazio così come lo intende Kant. Nella stampa del 1787 non viene negata
questa relazione, ma le affermazioni, a tal proposito, sono un po’ meno dirette20. Nel
caso del tempo, invece, nella prima edizione esso non sembra connesso, almeno non
allontana anche dai tratti che rendono finito il soggetto conoscente. Avviene quindi il distacco da
«quella sensibilità pura costituita dall’immaginazione trascendentale con la quale il soggetto umano
finito può determinarsi in quanto tale in quanto tale e a partire da se stesso, e non, […] come un
“caso” possibile di un essere razionale» (Vinci 1988: 115). Perdendo questo legame, si perde anche la
possibilità di un’analisi ontologica più approfondita.
19
Kant (1781/2005: 101; A 24): «Su tale necessità a priori [la rappresentazione dello spazio] si fonda
la necessità a priori di tutti i principi geometrici, nonché la possibilità della loro costruzione a priori».
20
Nella seconda edizione, in un paragrafo che risente profondamente dell’influenza dei Prolegomeni:
«La geometria è una scienza che determina le proprietà dello spazio sinteticamente, ma tuttavia a
priori» (Kant 1781/2005: 102; B 40).
116
in maniera così evidente, ad alcuna disciplina dell’allora “filosofia naturale”; nella
seconda, invece, si parla di un suo coinvolgimento con le dottrine matematiche e
fisiche, ma non viene mai istituito un collegamento evidente o diretto con una
qualche materia specifica. Che rapporto intercorre, quindi, tra l’intuizione temporale
di tipo kantiano e la filosofia naturale di fine Settecento? È possibile rintracciare una
qualche relazione privilegiata tra il tempo ed una singola dottrina fisico-matematica?
III. 3. Tempo e discipline fisico-matematiche.
È diventata quasi una prassi che, parlando del rapporto tra intuizione (o
sensibilità) e le discipline matematico-scientifiche, il tempo venga messo in secondo
piano e, quasi sempre, a titolo esemplificativo, sia scelto lo spazio. Esistono diversi
motivi per cui la quasi totalità dei commentatori di Kant – di tutte le epoche e di tutti
i paesi – ha adottato questa metodologia. La prima ragione è che nella Ragion pura si
riconosce esplicitamente la fondazione della geometria euclidea sull’intuizione
spaziale, facilitando, tra le altre cose, la comprensibilità dell’esposizione e degli
esempi. Consuetudine cominciata dallo sesso Kant, il quale sembra preferire
l’intuizione spaziale per fornire delle dimostrazioni alle sue teorie. In questo modo
viene quasi spontaneo usare lo spazio come testimone per tutta la sensibilità. Così
facendo, però, spesso si ritiene che quello che si afferma dell’intuizione spaziale
valga o possa valere anche per quella temporale. Atteggiamento riscontrabile, per
esempio, in Strawson (1966/1985: 47):
Nel caso dello spazio, l’argomento di gran lunga più importante si fonda sulla
concezione kantiana delle proposizioni della geometria o, come talvolta scrive
Kant, della «matematica dello spazio». Paralleli a questo argomento, troviamo
dei riferimenti a proposizioni piuttosto superficiali sul tempo. Kant era
convinto che queste proposizioni avessero una natura identica a quella degli
assiomi e dei teoremi geometrici; di conseguenza, riteneva che la loro
conoscenza richiedesse lo stesso tipo di spiegazione. In generale, le
osservazioni kantiane sullo spazio hanno un contenuto più profondo di quelle
che riguardano il tempo. Queste ultime non sono che deboli paralleli delle
prime, nei casi in cui questi paralleli siano possibili.
117
L’ultima frase del brano rappresenta un pensiero ampiamente condiviso dalla
comunità degli interpreti di Kant. Tuttavia, lascia anche trasparire il dubbio per una
metodologia non sempre condivisibile e percorribile. Basti pensare a ciò che il tempo
ha di peculiare rispetto allo spazio: essere forma del senso interno ed avere un
rapporto privilegiato con le categorie.
Inoltre, dalla metà dell’Ottocento in poi, con lo sviluppo delle geometrie non
euclidee, il peso dato all’intuizione spaziale si è rivelato essere un boomerang: molte
affermazioni kantiane sullo spazio e sulla geometria – la quale era ritenuta, da tanti,
essere stata posta, fin dai tempi dell’antica Grecia, su una strada sicura ed immutabile
– si sono rivelate o non più sostenibili o soggette a forti limitazioni. Da questo punto
di vista, la libertà dell’intuizione temporale rispetto ad altre nozioni troppo
storicamente connotate (o compromesse) si è dimostrata preziosa per una sua
eventuale riutilizzazione. Libertà che non significa, però, un distacco totale dalle
materie fisico-matematiche, dato che il progetto kantiano prevede un avvicinamento
e una consequenzialità tra esperienza comune e conoscenza scientifica. Il problema è
capire se, all’interno di tali dottrine, ci sia un ambito, una nozione o un concetto con
cui l’intuizione temporale kantiana abbia un rapporto privilegiato.
Istintivamente, si potrebbe rispondere che, se lo spazio è collegato alla
geometria, il tempo potrebbe essere messo in parallelo con l’aritmetica o con
l’algebra. Un rapporto tra intuizione temporale e numeri potrebbe essere ipotizzato
quasi come un riflesso condizionato. Tanto più che nella Ragion pura non sono pochi
i brani in cui, per esempio, si afferma una relazione tra intuizione, in senso generale,
e matematica. Nella seconda edizione non si deve neanche aspettare molto perché
Kant parli di aritmetica in riferimento all’intuizione. Portando ad esempio la somma
tra 7 e 5, Kant afferma che, prendendo in considerazione semplicemente l’unione tra
i due numeri, non si arriva al concetto di 12. Asserendo che 12 è un concetto, si
stabilisce implicitamente che i numeri rientrino all’interno della conoscenza
discorsiva, dunque la loro formulazione è di competenza dell’intelletto. L’intuizione,
da sola, non è sufficiente; ma è, tuttavia, indispensabile:
È necessario andare al di là di questi concetti, facendo appello all’intuizione
118
che corrisponde a uno dei due numeri […] ed aggiungere, l’una dopo l’altra, al
concetto del sette le unità del numero cinque quale è dato nell’intuizione. […]
per quanto giriamo e rigiriamo i nostri concetti, senza l’aiuto dell’intuizione
non potremmo mai trovare la somma con la semplice analisi di tali concetti.21
Ciò viene ribadito anche nei Principi metafisici in cui si afferma che la conoscenza
che si basa «soltanto sulla costruzione dei concetti, mediante la rappresentazione
dell’oggetto in un’intuizione a priori, si chiama matematica»22.
Volendo analizzare considerazioni simili, Guyer (1987: 173) parte da un
brano della prima Critica, che, all’incirca, tocca gli stessi argomenti: «il numero altro
non è che l’unità della sintesi del molteplice d’una intuizione omogenea in generale»
dovuto al soggetto che produce il tempo grazie all’apprensione dell’intuizione23.
Guyer conferma, per di più, che questo procedimento, preso isolatamente, può
portarci alla formulazione di quelle entità che chiamiamo numeri: «non è molto
chiaro come il numero sia un fenomeno essenzialmente temporale, anche se l’atto di
contare ha sempre luogo nel tempo»24. Questa distinzione di Guyer è molto
importante: il contare ha, in qualche modo, a che fare con il tempo, ma ciò non
implica automaticamente che i numeri siano delle entità temporali.
È proprio l’associazione tra l’attività di calcolo e i numeri ciò sembra
condurre a delle incomprensioni. Nella filosofia critica, il numero viene definito, tra
le altre cose, come «una rappresentazione abbracciante la successiva addizione di
uno a uno (omogenei)»25; inoltre, viene ricordato che «l’intuizione è alla base del
processo passo dopo passo del calcolo, il quale, nella sua interezza, non potrebbe
essere ottimamente osservabile “a colpo d’occhio”»26. Nelle somme aritmetiche, per
esempio, viene sottolineato come questo tipo di procedura risulti più evidente quando
21
Kant (1781/2005: 84; B 15-6).
Kant (1786/2003: 101; 469).
23
Kant (1781/2005:193; A 142-3/B 182).
24
Guyer (1987: 173). In altri punti della sua opera, Guyer è più incline a ritenere che Kant stia
davvero considerando l’ipotesi che i numeri possano essere entità temporali: parlando di problemi
legati alle grandezze estensive egli afferma che «l’unica soluzione di Kant per questo problema è la
sua dubbia teoria secondo la quale i numeri stessi siano essenzialmente temporali. Forse, il suo
bisogno di questa tesi per preservare l’argomento dello schematismo, unito all’ovvia impossibilità
della teoria, spiegano l’atteggiamento vacillante di Kant verso di essa» (Guyer 1987: 194).
25
Kant (1781/2005: 193; A 142/B 182).
26
Friedman (1994a: 84).
22
119
abbiamo a che fare con numeri molto elevati27. Pertanto, l’intuizione temporale, così
come viene pensata nella filosofia critica, supplisce ad una funzione che trova la sua
applicazione epistemologica più rigorosa proprio nella matematica pura: insito nel
pensiero stesso di tempo c’è l’idea di poter andare avanti aggiungendo istante ad
istante o, più in generale, unità ad unità. Grazie a questa forma a priori della
sensibilità, quindi, non avremmo la produzione diretta di entità, quali i numeri o gli
operatori matematici, bensì se ne utilizza una caratteristica fondamentale come
modello, ponendolo alla base di molte attività, tra le quali la successione della
numerazione. La sintesi temporale ha la capacità di protrarsi da un momento
all’altro, determina il «successivo passaggio da un istante all’altro, dove, con tutte le
parti del tempo e con la loro addizione, viene infine prodotta una determinata
quantità di tempo»28. È in questo modo che il tempo può essere «la condizione
formale di tutte le serie»29.
Di ciò si era reso ben conto Friedman. Anch’egli, come Guyer, sottolinea
l’importanza dell’intuizione temporale per quella branca delle scienze matematiche
che è il calcolo. Dopo l’Ottocento le caratteristiche basilari del calcolo sono spiegate
attraverso la nozione di convergenza e di limite, grazie anche all’uso dei
quantificatori universali30, elementi di cui, naturalmente, non poteva usufruire Kant.
D’altro canto, secondo Friedman (1994a: 74), la concezione moderna di convergenza
può trovare un parallelo in una nozione intuitiva di moto e, più precisamente, nella
traiettoria di un punto su una linea, tramite lo spostamento da una posizione iniziale
ad una finale: «la nozione di convergenza o di avvicinamento al limite è espressa
attraverso un processo temporale, grazie all’idea di un punto che si muove o che
diviene sempre più vicino ad un altro»31. Kant, non solo aveva ben presente
quest’ultima situazione, ma la sua nozione di intuizione temporale svolgeva un ruolo
insostituibile proprio in casi simili.
Nonostante queste proprietà e il tipo di legame individuato tra il tempo e la
27
Kant (1781/2005: 84; B 16): «La proposizione aritmetica è dunque sempre sintetica; il che si fa
tanto più evidente quanto più grandi sono i numeri presi in considerazione, risultando allora chiaro
che noi, per quanto giriamo e rigiriamo i nostri concetti, senza l’aiuto dell’intuizione non potremmo
mai trovare la somma con la semplice analisi di tali concetti».
28
Kant (1781/2005: 207; A 164/B 205).
29
Kant (1781/2005: 356; A 411/B 438).
30
Friedman (1994a: 73).
31
Friedman (1994a: 73).
120
numerazione (o il calcolo), fra di essi non si istituisce lo stesso rapporto che c’è tra
spazio e geometria. Innanzitutto, nella prima Critica, non è presente nessuna
affermazione riguardante un qualsiasi postulato aritmetico paragonabile a quelli
euclidei32. Secondo Friedman (1994a: 114), ciò è dovuto al fatto che l’aritmetica (o
anche l’algebra) «non presuppongono niente di specifico riguardo la natura e
l’esistenza degli oggetti delle nostre intuizioni». Detto altrimenti, l’aritmetica o
l’algebra non si rivolgono esclusivamente ad un tipo privilegiato di oggetti, come
quelli spazialmente estesi di cui si occupa la geometria. Inoltre, una base adeguata
per l’aritmetica dovrebbe predisporre delle funzioni che permettano la successione
secondo unità di misura distinte. Ma le unità temporali dipendono unicamente da una
scelta arbitraria33. Infine, ed è il punto più importante, va ricordato che per avere un
qualsivoglia numero, è necessario l’apporto dell’intelletto. Da quanto esposto finora,
sembra dunque fondamentale una collaborazione tra le due facoltà. Ma quando si
effettua, dunque, questa collaborazione?
Affinché entrambe le facoltà comunichino tra di loro, è importantissimo ciò
che avviene nella zona di passaggio tra le loro competenze, della quale si occupa
Kant nello Schematismo trascendentale. In quella sezione dell’opera, in particolare,
si descrive quel procedimento per cui la categoria si immerge nel senso interno,
processo tramite cui, cioè, si ha l’applicazione della categoria all’intuizione
temporale; ciò sembrerebbe permesso dalla sintesi del molteplice che accomuna
l’attività delle categorie e dell’intuizione temporale, sebbene in ambiti diversi. Nella
prima
edizione,
l’intero
processo
sembrava
reggersi
sull’immaginazione
trascendentale, ma dalla seconda edizione in poi essa viene considerata quasi una
capacità dell’intelletto. Rimane il fatto che uno schema è l’utilizzo di una categoria
all’interno del senso interno, una «determinazione trascendentale del tempo», a sua
volta «omogenea alla categoria»34. È come se la categoria fosse in procinto di agire,
il più vicino possibile al molteplice empirico. In quell’immersione, in quel momento
in cui le rappresentazioni non l’hanno ancora raggiunta e non si sono ancora
costituite come concetto empirico, lì abbiamo lo schema trascendentale.
32
Kant (1781/2005: 206; A 163/B 203): «le proposizioni evidenti di relazioni fra numeri sono di certo
sintetiche, ma non universali come quelle della geometria e per questo motivo non sono neppure esse
assiomi, ma possono piuttosto dirsi formule numeriche».
33
Friedman (1994a: 105).
34
Kant (1781/2005: 191; A 138-9/B 177-8).
121
Lo schema trascendentale può quindi essere visto non solo come un ente,
come un risultato finale, ma anche come una procedura di avvicinamento tra
categoria e tempo. È proprio da questa prospettiva che Friedman (1994a: 124-5)
guarda agli schemi: essi vengono intesi come dei processi che, racchiudendo al loro
interno vari passaggi, possono essere paragonati all’elaborazione dei concetti
matematici. Dentro queste procedure, il tempo ha un compito preciso. Per capire
quale sia, facciamo un esempio riferito alla suddetta genericità dell’intuizione
temporale: nel calcolo non ci si riferisce specificatamente ad un gruppo ristretto di
oggetti e le nozioni algebriche si applicano a delle “X” o a delle “Y” generiche; allo
stesso modo, l’intuizione temporale dovrebbe rendere conto di tutti gli oggetti in
generale, anche di quelli che si trovano esclusivamente nel senso interno. Friedman
(1994a: 115) sembra rendersi conto di questa versatilità dell’intuizione temporale
quando, iniziando a parlare di concetti, afferma che «c’è ancora un elemento
temporale nella costruzione del concetto stesso di grandezza (quantità)». L’elemento
temporale è, infatti, riscontrabile nello «schema puro della quantità (quantitas)»,
espressione complessa della filosofia critica su cui si basa la nozione di “numero”.
Tuttavia questo è solo un elemento, una caratteristica temporale che viene sfruttata
nella collaborazione delle facoltà affinché l’intelletto sia in grado di produrre un
concetto. Dunque, se, da un lato, ciò rivendica l’importanza di alcuni attributi
dell’intuizione temporale nel formulare il concetto di numero – la capacità di
aggiungere, in progressione, unità uguali ad unità uguali o la sua rilevanza come base
degli schemi concettuali – dall’altro viene allontanata la possibilità che il tempo
abbia un rapporto privilegiato con una delle nozioni fondamentali della matematica,
la quale, invece, sembra essere appannaggio dell’intelletto.
Riassumendo, sul versante delle scienze propriamente matematiche il tempo
ha una funzione in qualche modo circoscritta, che suppliva alle carenze che i sistemi
aritmetici o algebrici avrebbero colmato molti decenni dopo, grazie al progresso
degli strumenti della logica moderna, i quali arrivano a maturazione, grosso modo,
nella seconda metà dell’Ottocento; la stessa funzione viene utilizzata, sempre per
l’ambito matematico, nel contesto della conoscenza discorsiva, in cui entrano in
gioco i concetti. L’ampio ventaglio di situazioni in cui viene sfruttata questa
proprietà dell’intuizione temporale e le lacune a cui va incontro, fanno pensare che
122
tale caratteristica abbia un’importanza e una valenza che oggi potremmo chiamare
“logica”. Dopo tutto, questa funzione si accorda bene con la definizione che viene
fornita di tale disciplina nella prima Critica: «una scienza che espone adeguatamente
e dimostra rigorosamente null’altro che le regole formali di tutto il pensiero, sia esso
a priori oppure empirico»35. Inoltre, l’intuizione temporale era già impiegata per
svolgere particolari operazioni che oggi rientrerebbero nel dominio della logica:
«[s]olo nel tempo due determinazioni opposte contraddittorie possono aver luogo in
un medesimo oggetto, e precisamente l’una dopo l’altra»36.
Assegnare due predicati – anche se contraddittori – ad un medesimo soggetto,
era uno degli impieghi tipici del sillogismo aristotelico. Sebbene Kant riponesse
piena fiducia in quanto sostenuto da Aristotele, e il compito da lui svolto fosse
ritenuto completo e stabilito una volta per tutte37, una logica fondata sul sillogismo
non era in grado di fornire un supporto per la rappresentazione dell’iterazione
progressiva di unità omogenee: «è impossibile all’interno della sola logica
sillogistica rappresentare adeguatamente l’idea essenziale dell’estensione, infinita o
indefinita, delle serie numeriche»38. È per questo motivo che entra in gioco
l’intuizione temporale. Come sostiene Friedman (1994a: 121): «Kant ritiene che
l’idea dell’iterazione indefinita non possa essere acquisita nella sola logica generale.
Ciò che riteniamo ci permetta di rappresentare, o di pensare, tale iterazione indefinita
è quindi l’intuizione pura del tempo: la forma del senso interno su cui devono essere
fondate tutte le nostre rappresentazioni». Anche Bennett (1966: 110), attratto dalla
sintesi temporale, sottolinea come l’atto dell’unificare o del “mettere-insieme”, abbia
una rilevante portata logica. Friedman, però, stando a quanto riportato fin qui,
sembra dichiarare qualcosa di più: è come se Kant avvertisse l’esigenza di supplire
alle carenze del suo periodo e trovasse modo di farlo assegnando alla sua intuizione
temporale le caratteristiche atte a colmare tali lacune. Detto altrimenti, stando alla
lettura di Friedman, sembra quasi che Kant anticipasse un po’ i tempi e sentisse
chiaramente la mancanza e l’esigenza di un fattore che oggi chiameremmo logico.
35
Kant (1781/2005: 40; B VIII-IX).
Kant (1781/2005: 108; B 48-9).
37
Kant (1781/2005: 39; B VII): «da Aristotele in poi essa [la logica] non ha dovuto fare alcun passo
indietro […]. Importante è inoltre il fatto che sino ad oggi la logica non ha potuto fare un sol passo
innanzi, e quindi, secondo ogni apparenza, è da considerarsi conclusa e completa».
38
Friedman (1994a: 121).
36
123
Sembra, pertanto, che Friedman gli attribuisca un certo grado di consapevolezza nel
voler porre rimedio ai suoi problemi chiamando in causa l’intuizione temporale. È
molto difficile stabilire se Kant fosse pienamente consapevole delle implicazioni
insite nel compiere questo passo. Tuttavia, quanto detto finora aiuta a rimarcare
meglio i contorni del rapporto tra tempo e matematica, in cui sembra che sia escluso
un legame simile a quello della geometria con lo spazio. È perciò possibile
individuare un’altra disciplina con cui l’intuizione temporale potrebbe intessere
qualcosa di analogo?
Per tentare di dare una risposta a questa domanda, si deve abbandonare
temporaneamente la Ragion pura e rivolgerci ad un altro testo di Kant, i
Prolegomeni. All’interno di quest’opera, in una sezione dedicata alla possibilità della
matematica pura, si dichiara quanto segue:
La geometria pone a fondamento la intuizione pura dello spazio. L’aritmetica
anche riesce a costruire i suoi concetti di numero mediante una successiva
aggiunta delle unità di tempo, ma soprattutto la meccanica pura può formare i
suoi concetti di movimento solo per mezzo della rappresentazione del tempo.39
Il brano, oltre a ribadire il ruolo del tempo all’interno delle discipline matematiche,
fa un passo in più, indicando come una determinata disciplina scientifica, la
meccanica pura, abbia un rapporto in qualche modo diretto con l’intuizione
temporale. È possibile estendere quanto qui affermato anche alla Ragion pura?
Friedman ha cercato, anche in questo caso, di fornire una risposta affermativa:
secondo lui è infatti possibile venire a patti con ciò che Kant dichiara nei
Prolegomeni. In particolare, l’immagine dei moti che si hanno grazie alle leggi della
meccanica, servirebbe a preparare il campo per poter associare le analogie
dell’esperienza (anch’esse collegate sull’intuizione temporale) alle leggi del moto di
Newton.
La prima mossa consiste nel sottolineare cosa viene affermato nella della
Ragion pura sul tempo e sulla dottrina del moto: «il nostro concetto del tempo rende
ragione di tutte le conoscenze a priori che sono avanzate dalla teoria generale del
39
Kant (1783/2002: 67; § 10, 283).
124
moto»40. La dottrina del moto è una branca della fisica che può ritenersi
consequenziale alla meccanica pura. Dopo di che, Friedman (1994a: 105)
irrobustisce tali asserzioni con una dichiarazione simile presente nella Dissertazione
Inaugurale, giungendo a sostenere che «la scienza legata al tempo, per Kant, non è
l’aritmetica ma, piuttosto, la meccanica pura o la dottrina pura del moto», la quale
troverebbe nell’intuizione temporale un fondamento simile a quello che lo spazio
riserva alla geometria. Tanto più che Kant considererebbe la meccanica pura alla
stregua di una «terza scienza matematica»41, ponendola, dunque, su un piano diverso
rispetto alle normali discipline fisiche. A rafforzare ulteriormente il ragionamento ci
sarebbero ad alcuni passi, aggiunti nella seconda edizione, i quali sottolineano come
il moto sia in grado di fornirci un immagine del tempo:
e neppure possiamo rappresentarci il tempo se non tracciando una linea retta
(che vuol essere la rappresentazione esterna, figurata del tempo) e badando
soltanto a quell'operazione della sintesi del molteplice tramite la quale
determiniamo successivamente il senso interno e, pertanto, alla successione di
questa determinazione nel senso interno.42
È, quindi, l’idea del moto rettilineo, ed in particolare del moto inerziale, che,
secondo Friedman (1994a: 131), ci dà la possibilità di avere un’immagine
dell’intuizione temporale. Conoscendone appunto l’immagine, è inoltre possibile
avere la conferma che si può applicare anche al tempo la distinzione tra forma
dell’intuizione e intuizione formale: «la forma dell’intuizione dà soltanto il
molteplice, mentre l’intuizione formale dà l’unità della rappresentazione»43. Ciò ci
permette un ennesimo raffronto tra le due forme a priori della sensibilità: «[è] la
costruzione dei concetti geometrici, dunque, che mi permette, in primo luogo, di
considerare lo spazio come un oggetto, cioè come un’intuizione formale. Ed è in
questo senso che la meccanica pura sta al tempo come la geometria sta allo spazio»44.
Se, da un lato, le due dimensioni si avvicinano, dall’altro, gli aspetti che mettono in
40
Kant (1781/2005: 108; B 49).
Friedman (1994a: 129).
42
Kant (1781/2005: 176; B 154).
43
Kant (1781/2005: 180; B 161n).
44
Friedman (1994a: 134).
41
125
luce sono diversi. L’intuizione formale fornita dalla meccanica classica, infatti, fa in
modo che l’immagine del tempo sia dinamica, di contro a quella statica propria dello
spazio:
è l'idea del moto rettilineo di un punto matematico che ci permette per la
prima volta di rappresentare il tempo stesso come un oggetto intuibile e,
presumibilmente, ci permette per la prima volta di rappresentare il tempo
come una quantità, o un oggetto intuibile, come una grandezza. Io propongo di
interpretare quest'ultima idea come un riferimento al moto inerziale: lo stato
privilegiato del moto “naturale” libero da forze che è la base per la fisica
moderna.45
Fin qui la lettura di Friedman. Essa, tuttavia, presuppone alcuni passaggi che
non tutti gli autori sono – o sarebbero – disposti ad accettare. La prima obiezione
viene da coloro che non ritengono le condizioni epistemiche di Kant legate in
maniera troppo stretta ai principi scientifici di Newton. Tra questi vi sono autori
come Buchdahl e Allison, i quali propongono una lettura delle nozioni a priori
kantiane diversa rispetto a quella di Friedman. Nel corso delle sue opere, Friedman
espone una prospettiva stando alla quale i principi a priori kantiani hanno un valore
costitutivo e sono fortemente legati alle discipline scientifiche della loro epoca.
Buchdahl (1992) e Allison (1983/2004), invece, sostengono che tali principi sono
regolativi, che sono così duttili, cioè, da potersi riferire, di volta in volta, ai concetti
base di una determinata disciplina scientifica. Se, in seguito ad una cosiddetta
“rivoluzione scientifica”, i principi di riferimento di una dottrina vengono sostituiti,
le condizioni epistemiche kantiane possono essere sganciate dalle vecchie regole ed
accordarsi alle nuove46.
La lettura di Friedman incorre in un ulteriore problema: nella Ragion pura, il
nesso tra tempo e meccanica non sembra essere così forte e stretto come nei
Prolegomeni. Nella prima Critica si affermava che il tempo deve rendere ragione
della dottrina del moto: termine che ha una sfumatura un po’ diversa e meno
45
Friedman (1994a: 131).
Per un confronto diretto su questi temi, mi sia permesso rimandare agli articoli di Allison (1994) e
Friedman (1994b), entrambi in Parrini (1994).
46
126
impegnativa rispetto a ciò che viene detto nell’opera del 1786. Ciò indicherebbe un
obiettivo ed un carattere diverso che la prima Critica avrebbe rispetto ad altri testi,
coevi alla sua seconda pubblicazione, ma esplicitamente rivolti al rapporto tra
epistemologia e scienza. I contrari ad un legame troppo stretto tra nozioni kantiane e
leggi newtoniane insistono molto sulle diverse finalità delle due opere e
sull’indipendenza della filosofia critica dalle scienze del periodo. È comunque
difficile trovare un autore che non integri le proprie considerazioni sulla Ragion pura
con brani presi da altri lavori. Ritengo inoltre che sia pressoché inutile – se non
controproducente – chiedere di limitare tale metodologia. Anche perché le critiche
più insidiose per una lettura “alla Friedman” si rifanno a passaggi che,
apparentemente, non destano preoccupazione ma che, in realtà, potrebbero
nascondere delle contraddizioni implicite.
Posto che sia la meccanica pura a fornire un’immagine del tempo, c’è la
possibilità che quest’ultimo venga subordinato rispetto a nozioni come lo spazio o le
categorie le quali sono indispensabili per fornirci una tale immagine. Il rapporto tra
tempo e meccanica, lungi dall’essere fondativo, potrebbe essere accettato solo in
quanto deduttivo e descrittivo, utile per fornirci, in maniera euristica, un’immagine,
per farci un’idea su come intendere l’intuizione temporale. Nei casi più estremi,
questa impostazione prospetta un rapporto di dipendenza dell’intera sensibilità nei
confronti dell’intelletto, una tendenza che si era già fatta strada nelle scuole
neokantiane. Così facendo, il tempo perde quell’autonomia che sembrava avere, non
solo come senso interno, ma anche, per esempio, come base logica per la
formulazione di ogni serie.
Il problema maggiore con cui però si scontra l’impostazione di Friedman è lo
status che egli presuppone solo ed esclusivamente per il tempo. Ciò è dovuto ad un
doppio binario su cui egli, implicitamente, fa operare l’intuizione temporale: uno
epistemologico ed uno più profondo, il quale sembra puntare direttamente alla
struttura ontologica del tempo, mediata – poco o niente – dalle condizioni
epistemiche. Tuttavia, esplicitamente, l’analisi di Friedman appare completamente
volta a ritenere il tempo come una condizione epistemica, tralasciando e non dando il
giusto risalto a quelle che si potrebbero chiamare le sue condizioni ontologiche. Ma è
proprio grazie ad esse che il soggetto conoscente sarebbe in grado di porre rimedio a
127
certe sue carenze epistemologiche. L’intuizione temporale è a fondamento di tutte le
successioni proprio in quanto è intesa, essa stessa, come una serie: attraverso la sua
sintesi (la capacità di progredire unità dopo unità) si riesce a superare una debolezza
nell’impianto conoscitivo (la mancanza di un operatore logico atto alla produzione
delle serie).
Ma si può assegnare al tempo una tale ontologia? Abbiamo prove, soprattutto
nella prima Critica, che possano confermarci questa lettura? La questione è molto
complicata. Questo doppio livello temporale, se da un lato potrebbe fornire aiuti
importanti, dall’altro complica, non di poco, la situazione. Anche al netto del
funzionalismo di Kant, nell’impostazione critica è molto difficile capire dove finisca
la valenza epistemologica del tempo e dove comincino le sue caratteristiche
ontologiche. È possibile che le analisi dei commentatori anglofoni di Kant, i quali si
rifanno a lui proprio per far fronte ad un naturalismo estremo, riescano a delimitare
un confine netto tra questi due ambiti? E, più in generale, è possibile tracciare una
linea tra il modo in cui conosciamo un oggetto, un evento o un ente e cosa esso è
effettivamente quando si ha a che fare con nozioni così fondamentali come
l’intuizione temporale? Il confronto e l’analisi del rapporto tra il tempo e alcuni
principi dell’intelletto, le analogie dell’esperienza, legate all’intuizione temporale ma
con una componente epistemologica nettamente predominante, può fornire un aiuto
per capire se le suddette distinzioni siano o meno realizzabili. Il raffronto tra queste
nozioni a priori kantiane dovrebbe, come in un gioco di contrasti, rimarcare i limiti
tra l’uno e l’altro ambito.
III. 4. Tempo e analogie: successione temporale e irreversibilità.
Nella Critica della ragion pura sono pochi i legami così stretti come quello
istituito tra il tempo e le analogie dell’esperienza. Ma l’esposizione riguardante il
loro rapporto è, anche in questo caso, complessa e di non immediata comprensione.
È tuttavia possibile partire da alcuni punti fermi: per esempio, il compito delle
analogie è quello di stabilire determinati tipi di relazioni tra i fenomeni. Nella prima
edizione ciò emergeva chiaramente: lì il principio generale delle analogie affermava
che «tutti i fenomeni, quanto alla loro esistenza, sono sottoposti a priori a regole
128
determinanti il loro rapporto reciproco in un tempo»47. Quindi, grazie alle analogie, il
soggetto conoscente può rendere conto di un collegamento importantissimo che
intercorre tra gli oggetti fenomenici: quello temporale oggettivo. Nelle relazioni
temporali a livello sensibile, invece, si aveva a che fare solo con i rapporti soggettivi
basati sulle percezioni o sulle rappresentazioni, tramite i quali non era possibile
fondare giudizi obiettivi. Stando a Kant, i tipi di rapporti temporali oggettivi che
possono intercorrere tra le percezioni sono tre: permanenza, successione e
simultaneità. Questi vengono definiti «i tre modi del tempo», ossia le «tre regole di
tutti i rapporti temporali dei fenomeni, le quali dovranno precedere ogni esperienza,
rendendola prima di tutto possibile; in base a queste regole, l'esistenza di ogni
fenomeno potrà esser determinata rispetto all'unità di tempo»48. Cosa si intende qui
per “unità di tempo”? Van Cleve (1999: 108) la spiega così: «tutti gli eventi
appartengono ad un solo ordine temporale interconnesso, e ciò significa che due
eventi sono tali per cui o uno inizia prima dell'altro o essi sono simultanei». Quindi,
grazie alle analogie sarebbe possibile allestire una rete di rapporti che ci fornisca
l’immagine delle relazioni tra le diverse rappresentazioni dei diversi fenomeni: se
sappiamo che un fenomeno A precede un fenomeno B che, a sua volta, precede C, è
possibile avere un’unica sequenza temporale che va da A a C passando per B. A
livello macroscopico, è dunque ipoteticamente possibile interconnettere tra di loro
tutti i fenomeni di cui si ha esperienza al fine di ricreare una sequenza, per così dire,
storica. Questo è ciò che si intende quando si parla di tempo oggettivo prodotto dai
principi a priori dell’intelletto.
Andando contro l’ordine dato da Kant, il primo principio che prenderò in
considerazione sarà la seconda analogia, quella che si occupa della successione
temporale oggettiva, la legge di causalità. Inizio da questo principio per vari motivi:
da un lato, su di esso si sono concentrate maggiormente, per ovvie ragioni, le
attenzioni dei vari commentari kantiani; dall’altro, ciò non solo ha fornito molto
materiale su cui lavorare ma, in aggiunta, le tesi che sono state avanzate dai
commentatori anglofoni su questo argomento sono tra le più interessanti.
47
48
Kant (1781/2005: 216; A 176-7).
Kant (1781/2005: 217; A 177/B 219).
129
Nell’edizione del 1787, la seconda analogia, che nella prima versione
rispondeva al nome, ben più anonimo, di «Principio della produzione»49, è chiamata
«Principio della successione temporale secondo la legge di causalità»50 e viene così
definita: «[t]utti i mutamenti accadono secondo la legge della connessione di causa
ed effetto»51. Anche qui, come nel caso del tempo, abbiamo a che fare con una
nozione a priori che si occupa della successione; che differenza c’è tra i due tipi di
sequenze? Per capirlo, possiamo rifarci al celebre confronto di Kant tra la percezione
di una casa e quella di una nave in movimento: «l’apprensione del molteplice nel
fenomeno di una casa che mi sta innanzi è successiva. Ciò che mi si domanda è ora
se il molteplice di questa casa sia successivo anche in sé: nessuno credo risponderà di
sì»52. Io posso iniziare ad avere una successione di percezioni inerenti ad un edificio
sia che inizi a guardarlo dal retro, sia che cominci dal davanti, dal tetto o dal
giardino... In pratica, non esiste una sequenza predeterminata di percezioni, ma esse
dipendono dal modo in cui sto esperendo la casa e dalle condizioni in cui mi trovo in
quanto soggetto conoscente.
Si ha tutt’altra situazione, invece, quando siamo in presenza di una
successione oggettiva, come nel caso di un’imbarcazione che segue la corrente:
La mia percezione della sua posizione più giù, è successiva alla percezione
della sua posizione più su, lungo il corso del fiume, e non si dà possibilità
alcuna che nell’apprensione di questo fenomeno la nave possa venir percepita
prima giù e poi su. In questo caso l’ordine della successione delle percezioni
nell’apprensione è determinato e l’apprensione è vincolata ad esso.53
Ciò che differenzia le due sequenze è appunto una regola, la quale rende
«necessario l’ordine delle percezioni susseguentesi (nell’apprensione di questo
fenomeno)»54. La regola in questione è, naturalmente, la seconda analogia. Il
49
Kant (1781/2005: 225; A 189).
Kant (1781/2005: 225; B 232).
51
Kant (1781/2005: 225; B 232). Nella prima edizione, invece, si poteva leggere: «[t]utto ciò che
accade (incomincia ad essere) suppone qualcosa, a cui segue in base a una regola» (Kant 1781/2005:
225; A 189).
52
Kant (1781/2005: 227; A 190/B 235).
53
Kant (1781/2005: 228-9; A 192/B 237).
54
Kant (1781/2005: 229; A 193/B 238).
50
130
principio di successione impedisce quindi quella “indifferenza di ordine” propria dei
casi in cui la serie delle percezioni dipende dalle condizioni del soggetto conoscente
(come nell’esempio della casa). Per avere un ordine che sia considerato irreversibile
e per avere dunque una successione a sua volta irreversibile, si deve applicare il
principio causale; stabilito ciò, si può dunque andare alla ricerca della legge empirica
particolare che sta dietro all’evento.
L’indifferenza di ordine, o meglio, la sua impossibilità nel caso di successioni
oggettive, è uno dei temi principali di Bounds of Sense, l’opera di Strawson sulla
Critica della ragion pura. Una delle tesi più conosciute del libro è quella del non
sequitur. Il fine ultimo di questa teoria sarebbe quello di imputare a Kant alcuni
errori riguardanti il rapporto tra epistemologia ed ontologia. Strawson parte proprio
distinguendo un livello soggettivo, che corrisponderebbe a quello fornito
dall’intuizione, ed uno oggettivo, fornito dalle analogie dell’esperienza, tra le quali
un ruolo fondamentale è giocato dal principio di causalità. Questi due piani si
confrontano, in particolare, quando ci troviamo di fronte a percezioni il cui ordine
viene ritenuto irreversibile:
se ciò che percepiamo è un mutamento oggettivo, un evento, un caso in cui
uno stato di cose oggettivo cede il posto a un altro, allora le nostre percezioni
successive di questi stati oggettivamente successivi sono prive del carattere di
indifferenza di ordine. Le nostre percezioni successive non avrebbero potuto
presentarsi nell’ordine opposto a quello in cui si sono effettivamente
presentate. Esprimendoci con maggiore sicurezza, il loro ordine è, in questo
caso, un ordine necessario.55
Quindi, conclude Strawson (1966/1985: 121), «[i]l possesso o la mancanza di
indifferenza di ordine da parte delle nostre percezioni costituisce, sembra dire Kant,
il criterio della successione o coesistenza oggettive»56.
In aggiunta, poco dopo, viene descritto dettagliatamente il procedimento
attraverso il quale una serie di percezioni sottostà ad una regola:
55
Strawson (1966/1985: 120).
La coesistenza riguarderebbe la terza analogia. In questo caso intendo però concentrarmi
esclusivamente sul principio di causalità.
56
131
la possibile applicazione empirica (e quindi la possibile comprensione reale)
dei concetti di mutamento oggettivo e di coesistenza oggettiva si fonda su un
uso implicito delle nozioni di ordine necessario o di indifferenza di ordine
delle percezioni. A loro volta, queste ultime nozioni non potrebbero avere
alcuna applicazione, se non applicassimo dei principi causali pertinenti agli
oggetti delle percezioni a cui applichiamo implicitamente queste nozioni.57
Strawson sta qui considerando sia la seconda analogia (“mutamento oggettivo”) sia
la terza (“coesistenza oggettiva”). Diversi autori angloamericani ritengono che le
considerazioni sul principio di simultaneità siano ridondanti: o è possibile estendere
anche ad esso le valutazioni fatte sul principio di causa – effetto, o il suo compito
viene descritto come una sintesi di quello svolto della prima e della seconda
analogia58. Molto spesso, infatti, ciò che viene detto per i primi due principi, viene
fatto valere per il terzo. Motivazioni simili portano a concentrarsi esclusivamente
sulle prime due analogie.
Ritornando al brano precedente, la prima frase sembra riferirsi ai casi
particolari (“possibile applicazione empirica”) in cui si utilizza la legge di causalità:
la cera che si scioglie al sole, la nave che scende lungo la corrente, il ghiaccio che si
liquefà con il caldo... Il principio di causalità, infatti, dovrebbe valere sia per la
conoscenza quotidiana, sia per le leggi empiriche – fisiche o chimiche –
corrispondenti. La seconda parte del periodo, invece, vuole proprio evidenziare che
dietro qualsiasi successione considerata causale, si cela la seconda analogia, anche se
il soggetto conoscente non ne è pienamente consapevole. Entra in gioco, quindi, la
sua apriorità e quella delle categorie in generale: dalle parole di Strawson sembra
quasi che i principi a priori agiscano automaticamente indipendentemente dalla
volontà dei soggetti.
Sebbene non appaia in tutta la sua evidenza, tra le maglie di questa
ricostruzione si riesce ad intravedere uno dei problemi più famosi nell’impostazione
epistemologica kantiana: è possibile stabilire quando, effettivamente, un evento cade
sotto un principio a priori? È possibile che, in un primo momento, un dato evento
57
58
Strawson (1966/1985: 123).
Di questo problema si è occupato, tra gli altri, Allison (1983/2004: 268 e sgg).
132
non sia collegato ad una qualche categoria ma lo sia in seguito? Oppure, almeno
implicitamente, la presenza dei principi a priori deve sempre, per così dire, aleggiare
sullo sfondo? Il processo grazie al quale, inizialmente, una sequenza di percezioni
non sia sussunta sotto un determinato principio a priori ma lo sia solo in seguito, è
alla base della nota distinzione, formulata da Kant nei Prolegomeni, tra giudizio di
percezione e giudizio di esperienza:
I giudizi empirici, in quanto hanno una validità obbiettiva, sono giudizi di
esperienza; ma quelli che sono validi soltanto soggettivamente, io li chiamo
semplici giudizi di percezione. Gli ultimi non hanno bisogno di alcun concetto
puro dell’intelletto, ma soltanto del nesso logico delle percezioni in un
soggetto
pensante.
Laddove
i
primi
richiedono
sempre,
oltre
le
rappresentazioni dell’intuizione sensitiva, ancora dei peculiari concetti
originariamente generati dall’intelletto, i quali appunto fan sì che il giudizio di
esperienza sia oggettivamente valido.59
E non sembra essere un caso che la distinzione tra i due tipi di giudizi sia introdotta
parlando proprio del principio di causalità:
Un giudizio di percezione non può mai valere come esperienza senza la legge
per cui, percepito un evento, questo vien sempre riferito a qualcosa che
precede, e a cui esso segue secondo una regola universale; ovvero se mi
esprimo così: tutto ciò che l’esperienza mi insegna che accade, deve avere una
causa.60
In presenza di una sequenza, la differenza tra giudizi di percezione e di esperienza è
dovuta, in aggiunta, alla diversità dei due piani su cui agiscono l’intuizione
temporale – semplice successione da un oggetto o da uno stato all’altro – e la
seconda analogia – successione dovuta ad una causa (evento).
La distinzione tra questi due tipi di giudizi rientra nella già di per sé articolata
concezione kantiana dell'esperienza. Tutti i maggiori commentatori hanno notato che
59
60
Kant (1786/2003: 105; 298).
Kant (1786/2003: 101; 296).
133
nella prima Critica “esperienza” ha almeno due significati, anche se ci sono diverse
sfumature sul senso da attribuire ora all'uno ora all'altro delle due espressioni61. Per
esempio, Dicker (2004: 89) si accorge che Kant non usa il termine in modo univoco:
«[c]osì ‘esperienza’ potrebbe significare conoscenza empirica o potrebbe significare
solo consapevolezza (consciousness)». Il termine “coscienza” di Dicker dovrebbe
corrispondere alla “conoscenza di oggetti”, sebbene le due locuzioni sembrano avere
sfumature semantiche leggermente diverse. Ben più classica e canonica è
l’interpretazione di Beck (1978: 40) il quale, con particolare semplicità, formula
questa distinzione: «“esperienza” può voler dire “il materiale grezzo delle
impressioni sensibili”, oppure “conoscenza di oggetti”», lasciando trapelare,
appunto, la diversa maniera di considerare, da un lato, i dati e, dall’altro,
l’organizzazione o la struttura sotto la quale tali dati vengono sussunti.
Strawson, dal canto suo, si concentra principalmente su altri aspetti di Kant,
ed è su questi che l’analisi mostra tutta la sua originalità. Stando alla lettura
strawsoniana, Kant non si limiterebbe ad affermare che l’applicazione del principio
causale sia il presupposto per un ordine irreversibile delle percezioni a livello
empirico. Secondo Strawson, la conoscenza empirica dell’ordine immutabile di ciò
che viene percepito indicherebbe, in aggiunta, l’immutabilità dei rapporti tra gli
oggetti che stanno dietro le percezioni stesse, vale a dire le cose in sé, consentendo,
pertanto, di andare dal versante epistemologico riguardante i fenomeni a quello
ontologico riguardante i noumeni:
se l’ordine delle percezioni è concepito come un ordine necessario, allora lo
stesso cambiamento o mutamento da A a B viene concepito come necessario,
cioè come soggetto a una regola o legge della determinazione causale. In altre
parole, si ritiene che il mutamento o cambiamento sia preceduto da una
condizione tale che un evento di quel tipo segua invariabilmente e
necessariamente da una condizione di quel tipo.62
La maggior parte dei commentatori si rifà a questo brano di Kant (1781/2005: 73; B 1): «Non c’è
dubbio che ogni nostra conoscenza incomincia con l’esperienza; da che mai la nostra capacità di
conoscere sarebbe altrimenti messa in moto se no da parte di oggetti che colpiscono i nostri sensi [...]
in vista di quella conoscenza degli oggetti che si chiama esperienza? Quanto al tempo, pertanto,
nessuna conoscenza precede in noi l'esperienza e tutte incominciano con essa».
62
Strawson (1966/1985: 124).
61
134
Stando al testo di Strawson, A e B sono due stati di cose, presumibilmente ciò di cui
si ha percezione, e quindi due cose in sé.
Tutto ciò porterebbe Strawson alla sua famosa conclusione, resa celebre
anche dalla perentorietà delle sua asserzione: «l’argomentazione [kantiana] procede
attraverso un non sequitur di grossolanità paralizzanti»63. Lo snodo delle
“grossolanità” marcia su due livelli: uno che si potrebbe definire metodologico, ed
uno più prettamente concettuale. Quello metodologico riguarda il procedimento
appena descritto: secondo Strawson, non si può passare dall’irreversibilità delle
percezioni all’irreversibilità degli stati di cose, soprattutto in una prospettiva
dicotomica come quella kantiana.
In secondo luogo, il non sequitur riguarderebbe difficoltà logiche più
profonde, legate naturalmente alle precedenti: si avrebbe uno spostamento da una
necessità concepita concettualmente, stabilita su un certo livello (empirico), verso
una necessità ontologica, dipendente dalla precedente, che riguarda l'ordine degli
stati di cose (“necessità causale”):
la necessità invocata nella conclusione dell'argomentazione non è affatto una
necessità concettuale; si tratta, piuttosto, della necessità causale di un
mutamento che accade, dato uno stato di cose antecedente. Si tratta, in effetti,
di una contorsione molto strana, in cui una necessità concettuale che si fonda
su un mutamento viene fatta coincidere con la necessità causale del
mutamento stesso.64
L’interpretazione di Strawson, come già detto, è stata un traino per ritornare a
studiare nuovamente Kant in ambienti angloamericani. Ma lo è stata soprattutto
come lettura da controbattere e sconfessare. Per tanti autori, infatti, la “contorsione
molto strana” è stata quella operata da Strawson sul testo di Kant. Secondo Allison,
ad esempio, le ipotesi strawsoniane riposerebbero su una sorta di realismo
trascendentale che non è minimamente imputabile al pensiero critico: Strawson
tratterebbe Kant come se quest’ultimo fosse «interessato a fondare una conclusione
che riguardi le relazioni causali di cose – e di eventi – ontologicamente distinte sulle
63
64
Strawson (1966/1985: 124).
Strawson (1966/1985: 123).
135
caratteristiche delle nostre percezioni (la loro irreversibilità)»65, ignorando del tutto
la componente trascendentale dell’impostazione critica. Allison sta cercando di
riportare la discussione sulle intenzioni originarie di Kant: il punto di partenza della
sua filosofia è proprio un realismo che possiamo chiamare empirico, il quale ha come
intento principale quello di porre dei limiti ad una certa metafisica legata ad un tipo
specifico di ontologia. A questo realismo empirico si unisce un idealismo
trascendentale riguardante le forme del soggetto conoscente. È ciò viene dichiarato in
maniera plateale sin dall'Estetica trascendentale, in cui viene esplicitamente negata,
ad esempio, la possibilità di un accesso, attraverso l'idealità trascendentale del tempo,
ad una realtà che non sia empirica:
Le nostre considerazioni insegnano dunque la realtà empirica del tempo, ossia
la sua validità oggettiva rispetto a tutti gli oggetti che possano comunque
essere dati ai nostri sensi. E siccome la nostra intuizione è sempre sensibile,
non potrà mai esserci dato nell'esperienza un oggetto che non cada sotto la
condizione del tempo. Per contro contestiamo al tempo ogni pretesa di realtà
assoluta, cioè ogni pretesa di inerire in modo assoluto alle cose come loro
condizione o qualità a prescindere dalla forma della nostra intuizione
sensibile. Le proprietà inerenti alle cose stesse non possono in alcun modo
esserci date per mezzo dei sensi.66
La validità oggettiva a cui fa riferimento il testo, non va intesa, come nel caso
delle analogie, come validità delle relazioni temporali oggettive a livello concettuale,
ma è la validità che si attribuisce a tutto ciò che accede all’interno dell’intuizione
temporale. Con un sapore quasi fenomenologico, si ribadisce che tutti gli oggetti che
vengono a trovarsi nel senso interno possono, eventualmente, essere accolti
all’interno della nostra esperienza, intesa come insieme organizzato. Una volta che il
soggetto conoscente ha acquisito delle rappresentazioni, si può dubitare, casomai,
che esse siano in una successione oggettiva, ma non si può dubitare che esse siano,
oggettivamente, materiale per una possibile esperienza. A questo livello l’attività
temporale è, per così dire, indiscutibile.
65
66
Allison (1983/2004:255).
Kant (1781/2005: 110; A 35-6/B 52).
136
Anche i problemi inerenti all’irreversibilità, da cui era partito il ragionamento
di Strawson, erano del tutto presenti a Kant. Ci sono passaggi nella prima Critica che
illustrano come non si possa passare da un’irreversibilità delle percezioni a quella
degli oggetti sui quali le percezioni si fondano67. Ad esempio, Kant sembra rendersi
pienamente conto della differenza riguardo al concetto di oggetto che hanno gli
idealisti rispetto a quella propria dei realisti trascendentali. Una tale differenza viene
illustrata alla luce della sua distinzione tra fenomeno e cosa in sé:
Se i fenomeni fossero cose in sé, nessuno sarebbe mai in grado di stabilire,
sulla scorta della successione delle rappresentazioni del loro molteplice, in
qual modo tale molteplice sia connesso nell’oggetto. Ma in realtà noi non
abbiamo a che fare se non con le nostre rappresentazioni; ed è assolutamente
al di là della nostra sfera conoscitiva determinare in qual modo le cose
possono stare in sé stesse.68
Nella vasta platea delle obiezioni sollevate contro Strawson, Guyer compie
un passo in più con una replica precisa e puntuale che cerca di colpire la sua
ricostruzione dell’impiego
della seconda
analogia.
Strawson formulerebbe
implicitamente tre premesse: in primo luogo, egli presuppone «la sequenza di
rappresentazioni»; di seguito, stabilisce «che ogni rappresentazione stia nella stessa
relazione temporale con il suo oggetto»; infine, ne deduce che «gli stati di cose
oggettivi siano davvero ordinati come lo sono le loro rappresentazioni»69. Ma Guyer
fa notare che «l'argomento di Kant per la causalità tra gli stati di oggetti inizia
precisamente dal rifiuto delle due premesse di tale deduzione»70. È infatti difficile
capire, senza che si sia stabilito l'ordine della successione oggettiva, quale sia l'ordine
delle percezioni di tale successione:
67
Guyer sottolinea come l'ordine oggettivo e l'indifferenza di ordine siano proprio ciò che stiamo
cercando e che non può essere ammesso come punto di partenza: «non essendo direttamente
deducibile dalla sequenza Ar-allora-Br la sequenza A-allora-B, la sequenza stessa Ar-allora-Br deve
essere deducibile dalla sequenza A-allora-B. E, sicuramente, poiché la medesima sequenza A-allora-B
non è direttamente data, ciò può essere dedotto solo da una legge la quale detti che, nelle date
circostanze, B deve venire dopo A. Ecco una legge che davvero faccia collegare A a B e non solo Ar a
A e Br a B; e ecco il vero senso in cui “dovrò dunque inferire la successione soggettiva
dell'apprensione dalla successione oggettiva dei fenomeni” (A 193/B 238)». Guyer (1987: 257).
68
Kant (1781/2005: 227; A 190/B 235).
69
Guyer (1987: 256).
70
Guyer (1987: 256).
137
le leggi causali che governano i meccanismi della percezione non potrebbero
essere confermate indipendentemente da determinate conoscenze riguardo
l'ordine di stati di cose oggettivi – così quei tipi di leggi non potrebbero essere
acquisiti indipendentemente dalle leggi con cui potevano essere derivate le
sequenze degli stati oggettivi delle cose stesse.71
In definitiva, tutti gli autori sin qui citati stanno rinfacciando a Strawson,
banalmente, di non aver capito Kant: quest’ultimo era ben consapevole che non si
possa passare da stati epistemologici necessari a stati ontologici necessari che
riguardano le cose in sé. Ciò che viene contestato, quindi, non è tanto il non sequitur,
bensì che in Kant ci sia effettivamente un non sequitur.
Nelle discussioni precedentemente illustrate, sono state sfiorate molte
tematiche importanti che potrebbero fornire diversi suggerimenti per le
considerazioni di cui ci si intende occupare qui. Purtroppo, né Strawson né i suoi
commentatori vi si soffermano a lungo. In primo luogo, ci si potrebbe concentrare,
da una prospettiva un po’ più laterale, sui due tipi di successione che entrano in gioco
nel rapporto tra seconda analogia e tempo: si è visto che, da una parte, abbiamo la
successione oggettiva data dal principio dell’intelletto, mentre, dall’altra, quella
soggettiva di cui si occupa principalmente l’intuizione temporale. Parlando di ciò,
Strawson afferma:
solo la possibile distinzione tra l'ordine temporale soggettivo delle percezioni
e i rapporti temporali degli oggetti, di cui le percezioni sono percezioni, può
dare un contenuto alla nozione generale dell'esperienza di una realtà oggettiva
e rendere, quindi, comprensibile la possibilità della stessa esperienza.
Evidentemente, una – o la – nozione-chiave di questo problema è quella degli
oggetti che, benché non siano effettivamente percepiti, sono sempre oggetti di
percezione possibile e coesistono – o esistono nello stesso tempo – con oggetti
di percezione effettiva.72
71
72
Guyer (1987: 257).
Strawson (1966/1985: 127).
138
Strawson, in questo passo, considera come esperienza genuina solo ciò che viene
regolamentato da principi e categorie. Su una concezione simile di esperienza –
strettamente legata alla griglia concettuale kantiana e dunque, a fortiori, alle
discipline scientifiche – e su un presunto rapporto di dipendenza della sensibilità
dall’intelletto, dove tutto ciò che ci proviene dai sensi appare destinato ad essere
sussunto sotto una categoria, alcuni commentatori anglofoni sembrano ricalcare le
orme di certe scuole neokantiane.
Invece, come mostra l’esempio della casa, non solo il soggetto conoscente ha
a che fare di continuo con sequenze non oggettive e reversibili, ma esse,
presumibilmente, sono la stragrande maggioranza. La poca attenzione dedicata alle
sequenze soggettive può essere giustificata dal fatto che la Ragion pura si concentri
principalmente sulle serie che sottostanno al principio di causalità, su cui si basano,
in ultima istanza, le discipline scientifiche: sono quest’ultime ad aver bisogno di una
giustificazione metafisica che tenga presente le ben note obiezioni di Hume. Le
sequenze soggettive, dal canto loro, non sembrano porre grossi problemi e per questo
vengono trattate meno accuratamente. Che poi dalle sequenze soggettive si possa
passare, in seguito, a quelle oggettive, come prospettato nei Prolegomeni, non
significa infatti che debbano tutte, prima o poi, essere sussunte sotto una categoria o
che la sensibilità non abbia una sua specifica area di competenza. Alle serie
reversibili si affiancano, ma non si sostituiscono, quelle irreversibili in cui interviene
il principio di causalità. Anche la rilevanza data all’intelletto non può essere tradotta
in un suo coinvolgimento immediato e costante a livello della sensibilità: i principi a
priori del primo, infatti, non hanno a che fare direttamente con il procedimento
intuitivo. Inoltre, il tempo non può essere scavalcato in certe sue funzioni logiche
indispensabili, come quella di fungere da base per la progressione o la successione in
generale. La sensibilità e l’intelletto, pertanto, devono operare in sincronia su due
piani epistemologici differenti, quello sensibile e quello concettuale. Ricapitolando,
all’intuizione temporale possiamo assegnare la capacità di sviluppare le successioni
in generale, lavorando al livello della sensibilità, tra le percezioni; mentre la seconda
analogia si occupa, nello specifico, delle successioni oggettive e concettuali, le quali
appartengono al livello dell'esperienza, intesa come insieme organizzato di
rappresentazioni.
139
Il rapporto tra epistemologia ed ontologia in Kant, è, ugualmente, un punto
ricorrente in Strawson, ma non sembra che abbia appassionato o alimentato molte
repliche da parte dei commentatori anglofoni. Tutta l’impostazione di Kant si basa su
una struttura epistemologica che dia accesso ad un particolare tipo di ontologia e
quindi di metafisica. Come evidenziato in precedenza, l’epistemologia kantiana si
basa su una sorta di realismo empirico: l’ontologia rispecchia quindi una realtà
empirica e fenomenica che si accorda con le forme a priori del soggetto conoscente.
Ma, così facendo, si evoca la possibilità che ci sia, a fianco di essa, un’altra
ontologia, immanente e relativa alle cose in sé. Per questa non è possibile stabilire
un’epistemologia adeguata attraverso la quale accedervi. Credere il contrario
equivarrebbe a commettere lo stesso errore di Strawson, il quale cerca di sottolineare
il dualismo soggettivo/oggettivo come risultato, tra le altre cose, di un errato rapporto
tra epistemologia ed ontologia, inserendo tali dicotomie all’interno di una
ricostruzione che non è attribuibile a Kant.
Fin tanto che con le sue condizioni epistemiche il soggetto conoscente si
rivolge al mondo esterno, queste distinzioni sembrano reggere; tuttavia, è all’interno
del soggetto conoscente stesso che il confine tra un’ontologia fenomenica o empirica
ed una immanente non sembra così netto. Ed è qui che nascono molti dei problemi
relativi al tempo: l’intuizione temporale ha una sua valenza epistemologica forte che
si affianca ad un’altrettanto robusta portata ontologica, dovuta, principalmente, al suo
essere forma immediata del senso interno e forma mediata di quello esterno.
Tuttavia, i vari commentatori angloamericani, concentrandosi principalmente sulla
seconda analogia, perdono di vista il tempo come chiave di lettura per il rapporto tra
epistemologia ed ontologia. Dunque, a quale ontologia si riferisce il tempo? Per
come è pensata l’intuizione temporale sembra quasi che la si possa collocare in una
posizione molto prossima ad un’ontologia immanente. Ma che possa spingersi fin
dentro quelle zone sembra escluso dal modo in cui sono pensate funzioni quali
l’appercezione e l’apprensione che abbiamo esaminato nel secondo capitolo.
Stupisce, comunque, che questi vari livelli siano costantemente sotto gli occhi di tutti
ma che, una volta di più, vengano ignorati, mettendo in secondo piano sia
l’intuizione temporale sia i suoi importanti risvolti ontologici.
140
Tutto questo è forse ancora più evidente se si passa ad osservare il rapporto
tra il tempo e la prima analogia, dato che alcuni autori evidenziano una costante
convergenza tra la struttura dell’intuizione temporale come forma del senso interno e
le caratteristiche della realtà fenomenica che si cerca di sussumere sotto il concetto di
sostanza. Analizzando questo rapporto potremo, per di più, soffermarci proprio sulla
struttura del tempo: da quanto affermato fin qui, sembrerebbe che il tempo,
ontologicamente ed epistemologicamente, possa essere pensato come una sequenza,
una linea che si protrae verso un’unica direzione. Le cose stanno effettivamente così?
Alla struttura temporale non può essere assegnata nessun’altra forma? Ci sono alcuni
brani nella prima Critica che, effettivamente, rimettono in discussione quanto, fino
ad ora, sembrava essere un punto fermo.
III. 5. Tempo e analogie: permanenza temporale.
La prima analogia è il “Principio della permanenza della sostanza”:
Tutti i fenomeni sono nel tempo, nel quale soltanto, come sostrato (forma
permanente dell'intuizione interna), può venir rappresenta tanto la simultaneità
come la successione. Il tempo, quindi, in cui dev'essere pensato ogni
cambiamento dei fenomeni, rimane e non muta; esso è, infatti, ciò in cui la
successione e la simultaneità possono esser rappresentate soltanto come sue
determinazioni.73
Il brano introduce in maniera repentina molti elementi – per esempio, il tempo come
substrato – che possono essere compresi a pieno solo dopo alcune precisazioni.
Innanzitutto, il principio va incontro ad un’esigenza specifica ed ineludibile.
Prendiamo un arcinoto esempio di Kant: togliamo dal buio e mettiamo al sole un
panetto giallastro; dopo un po’ di tempo, al suo posto troviamo solo una chiazza
73
Kant (1781/2005: 220; B 224-5). Nella prima edizione questo carattere è molto attenuato se non
addirittura assente. Il principio, infatti, viene introdotto così: «Principio della permanenza. /Tutti i
fenomeni contengono il permanente (sostanza), come l’oggetto stesso, e il mutevole, come sua
semplice determinazione, ossia come un modo in cui l’oggetto esiste». E successivamente, all’inizio
del paragrafo: «Tutti i fenomeni sono nel tempo. Questo può determinare duplicemente il rapporto dei
fenomeni nell’esistenza, in quanto sono successivi o simultanei. In riferimento al primo caso, il tempo
è considerato una serie temporale, al secondo, invece, un àmbito temporale» (Kant 1781/2005: 21920; A 182).
141
oleosa; probabilmente non si penserà ad una sostituzione di un oggetto con un altro,
ma ad uno stesso oggetto – la cera – in due stati differenti. Affinché il soggetto
conoscente pensi ad un cambiamento di stato (ad un evento), si deve presupporre,
almeno implicitamente, che ci sia qualcosa che permetta, da un lato, una variazione
di aspetto così consistente, mentre, dall’altro, che ci si trovi, sempre e comunque, di
fronte allo stesso oggetto (la cera). Ciò è reso possibile dal concetto di sostanza o,
meglio, dalla sua persistenza: stando alla prima analogia, si stabilisce che a
fondamento di un qualsiasi oggetto vi sia una certa sostanza (nel caso in cui ci siano
più attori in gioco si stabilisce una sostanza per ogni ente); la sostanza viene intesa
come un substratum immanente su cui si appoggiano e sul quale fanno leva le varie
proprietà degli oggetti; essa, inoltre, deve permanere durante tutta la durata del
processo in cui si ha il cambio di stato.
Avendo ogni processo una durata, immancabilmente la sostanza ha anche – e
in questo caso soprattutto – una valenza temporale. Tale caratteristica è
fondamentale, per esempio, al fine di verificare se sussistano altri rapporti temporali
oggettivi (vale a dire la successione e la simultaneità) tra le percezioni dei fenomeni.
Ipoteticamente, quindi, solo dopo che la prima analogia ha svolto il suo compito è
possibile, per le altre, svolgere il loro.
Ora, un simile insieme di caratteristiche ha fatto pensare che possa esserci
una corrispondenza tra le proprietà degli oggetti messe in luce dalla prima analogia e
quelle del tempo, inteso come forma del senso interno: come la permanenza della
sostanza permette la variazione di stato degli oggetti esterni percepiti, così la forma
del senso interno del soggetto conoscente permette di poter ricevere dentro di sé la
totalità delle percezioni e delle rappresentazioni che si susseguono continuamente.
Ad un occhio attento e ad un lettore memore delle discussioni precedenti, non
passeranno inosservate le implicazioni ontologiche dell’intuizione temporale a
dispetto della predominante valenza epistemologica della permanenza della sostanza.
Per di più, il raggio d’azione in cui operano la prima analogia e l’intuizione
temporale sono molto diversi: il principio mira ad un’oggettività epistemologica e,
soprattutto, concettuale; invece, la funzione oggettiva del tempo, come abbiamo visto
poc’anzi, si adopera affinché ogni fenomeno che entra al suo interno possa,
potenzialmente, essere parte di un’esperienza possibile. C’è una qualche
142
corrispondenza tra le due attività, ma le differenze sono importanti.
Tuttavia, le affinità evidenziate hanno incoraggiato alcuni autori a spingere la
loro ricerca verso una convergenza molto stretta tra le due nozioni. Nel far ciò, sono
stati aiutati anche da alcuni riferimenti testuali presenti nella prima Critica. Tra quelli
che si possono ritrovare in entrambe le edizioni, ci sono alcune frasi appartenenti allo
Schematismo trascendentale:
Ciò che scorre non è il tempo, ma è l'esistenza di ciò che muta a scorrere nel
tempo; perciò, al tempo, che è in se stesso immobile e permanente, fa
riscontro nel fenomeno ciò che è immutabile dell'esistenza, ossia la sostanza, e
solo in riferimento ad essa può essere determinata la successione e la
simultaneità dei fenomeni nel tempo.74
Le diversità di utilizzo e le differenti facoltà di riferimento, fanno in modo
che lo schema della sostanza venga definito in maniera autonoma rispetto al concetto
puro corrispondente: affinché esso possa essere determinato, è necessaria «la
permanenza del reale nel tempo, ossia la rappresentazione del reale quale sostrato
della determinazione empirica del tempo in generale; sostrato quindi che rimane, nel
variare di tutto il resto»75. Se lo schema rappresenta un primo passo nel cercare di
mostrare i rapporti oggettivi di tempo, è facile capire il riferimento al reale e alla
realtà: si hanno due entità, l’intuizione temporale e la realtà, considerati come un
substrato permanente ai due poli opposti dell’attività conoscitiva – il lato del
soggetto conoscente e quello del mondo fenomenico. Certo, bisogna specificare il
tipo di realtà che Kant ha in mente: come precisato nel paragrafo precedente, Kant è
un realista empirico. Stando a ciò, il materiale su cui può operare l’attività
conoscitiva è il risultato dall’incontro tra i fenomeni e le nostre condizioni
epistemiche: ciò che può entrare in contatto con tali condizioni – e qui giocano un
ruolo fondamentale lo spazio e il tempo – si può chiamare realtà empirica.
Considerazioni che servono come trampolino di lancio per le tesi di coloro che
sostengono che il tempo sia permanente e non scorra.
In questo gruppo di pensatori, vi è, ad esempio, Allison. Per avvalorare la sua
74
75
Kant (1781/2005: 194; A 144/B 183).
Kant (1781/2005: 194; A 144/B 183).
143
posizione, Allison utilizza dei passaggi, mirati e spesso presi isolatamente, inseriti da
Kant nella seconda edizione, ad esempio, la definizione della prima analogia
introdotta nella seconda edizione76. Eppure, diversamente dalla maggior parte di
coloro che fanno leva su quelle aggiunte, egli tenta di allentare i legami tra la prima
analogia e le discipline scientifiche. Una tale vicinanza era già stata notata, a suo
tempo, da Kemp Smith (1918/1979: 358), in quale afferma:
Nella prima edizione, il principio è definito in modo che esprimesse il duplice
schema della categoria di sostanza e attributo. Nella seconda edizione è
riformulato in una forma molto meno soddisfacente, come il principio
scientifico della conservazione (cioè dell’indistruttibilità) della materia.
Allison, dal canto suo, sembra interessato solamente alla permanenza
temporale ma non alla sua corrispondenza con il principio di conservazione della
massa. Il suo peculiare punto di vista di emerge chiaramente quando egli si confronta
con l’analisi di Edward Caird. Quest’ultimo sosteneva che, nonostante il flusso
continuo dei fenomeni dovesse avere una base tutto sommato stabile, ciò non
implicava che il tempo fosse permanente. Con una sorta di paradossale gioco di
parole, Caird sembra sostenere che non sia duraturo il tempo stesso, ma ad essere
permanente è la condizione in cui esso si trova, vale a dire lo scorrere costantemente:
Si potrebbe obiettare affermando che l'espressione “il tempo stesso non
cambia” equivale a dire che il trascorrere stesso non trascorre. Fin qui la
durata del tempo e la permanenza del cambiamento potrebbero anche voler
dire soltanto che i momenti del tempo non cessano di trascorrere e il
cambiamento
non
cessa
di
cambiare.
Perciò
un
flusso
perpetuo
“rappresenterebbe” sufficientemente tutta la permanenza che è nel tempo.77
76
Kant (1781/2005: 220; B 224-5).
Il passo riportato è in Allison, (1983/2004: 238). Lo stesso passo è citato da Kemp Smith
(1918/1979: 359) e. Wolff (1963: 251). Il primo sostiene che quella di Caird non sia un’obiezione
conclusiva, mentre Wolff sottolinea come la permanenza del tempo, o meglio il fatto che sia
immutabile è proprio ciò che permette di identificarlo con il substrato. Pertanto se sia o non sia
immutabile è fondamentale. Nel corso della sua analisi Wolff (1963: 254) tornerà, parlando nello
specifico della coesistenza, sul tempo che cambia e che non cambia.
77
144
Secondo Allison, le considerazioni di Caird – soprattutto quella di un tempo come
“flusso temporale permanente” – sono vere ma irrilevanti, dato che:
Il punto essenziale è che il flusso costante si trova in un singolo tempo.
L'affermazione che il tempo sia immutabile equivale all'affermazione che esso
mantenga la sua identità come un unico e uno stesso tempo (schema di
riferimento temporale) attraverso tutto il cambiamento. Il massimo di cui
possa essere accusato Kant qui è una mancanza di chiarezza sebbene sia
difficile immaginare cos'altro potrebbe aver voluto dire.78
Tutto ruota attorno a cosa viene considerato un “singolo tempo”: Allison,
presumibilmente, ha in mente il tempo oggettivo, cioè l’insieme delle relazioni
temporali tra i fenomeni che si ha dopo l’intervento delle analogie. Ma il tempo
permanente può essere visto anche da un’altra prospettiva.
Tra coloro che sostengono la fissità temporale, l’esponente forse più illustre e
notevole è, anche in questo caso, Heidegger. Anch’egli sostiene che il tempo sia
permanente, ma vi giunge attraverso un percorso del tutto personale. Inizialmente,
egli fa riferimento ad alcuni brani che si trovano nella Deduzione trascendentale e,
nello specifico, ad alcune parti in cui si parla dell’Io penso, il quale «costituisce il
correlato di tutte le nostre rappresentazioni» e viene definito «stabile e
permanente»79. Aiutandosi con varie affermazioni di Kant80, alcune delle quali citate
in precedenza, Heidegger accosta la proprietà della permanenza temporale alla
dimensione o, sarebbe meglio dire, all’estasi del presente. Sarebbe quest’ultima a
denotare il tempo stesso, la sua essenza come «veduta pura del presente in generale»,
la quale, a sua volta, si fonda sull'Io permanente come «tempo originario»81. Sembra
così precludersi definitivamente la strada alla successione temporale: «se il tempo,
come autoaffezione pura, fa sorgere il puro succedersi della serie di ‘adesso’, questo
suo derivato, percepito per sé solo nell'abituale “computo del tempo”, non può
78
Allison (1983/2004: 238).
Kant (1781/2005: 655, A 123).
80
Heidegger (1929/2006: 165).
81
Heidegger (1929/2006: 166). Per “veduta pura” si intende un'operazione compiuta
dell'immaginazione trascendentale attraverso la quale tale facoltà procura un'immagine. Cercando si
semplificare, potremmo dire che questa immagine funge da orizzonte, è la premessa per ogni
esperienza e, nel caso specifico dell'intuizione temporale, la premessa per ogni oggetto percepibile.
79
145
assolutamente soddisfare all'esigenza di una piena determinazione della sua
essenza»82.
Heidegger ha comunque il coraggio di non passare sotto silenzio i contrasti
emersi con altre parti dell’opera, in cui si parla apertamente di un tempo che scorre,
sforzandosi di venirne a patti. Egli stesso, addirittura, scrive di un tempo come
sequenza, come progressione di unità: «Il tempo “scorre costantemente” come
successione pura della serie di 'adesso'»83; «nell'orizzonte entro il quale noi “teniamo
conto del tempo”, quest'ultimo dev'essere assunto come pura serie di ‘adesso’»84;
anche l'immagine del tempo era stata riconosciuta come una sequenza continua di
“adesso”85. Come mettere insieme le due cose? Inizialmente la risposta di Heidegger
assomiglia molto ad un gioco di parole, simile a quella elaborata da Caird e ripotata
in precedenza: «Il tempo, come pura successione di “adesso”, è adesso in ogni
tempo. È adesso in ogni “adesso”»86. Sembra che Heidegger si riferisca a ciò che,
nello scorrere di ogni istante, rimane uguale, chiamando in causa la condizione di
attualità insita in ogni attimo, l’estasi del presente propria di ogni momento. Il tempo
è così partecipe di tutti gli adesso che scorrono, «come successione di “adesso”, è un
“adesso”, è sempre anche un altro “adesso”. Come veduta del permanere, esso offre
parimenti l'immagine della variazione pura nel permanere»87. È osservando il tutto da
un punto di vista diverso, Heidegger arriva infine a declinare in maniera alternativa
la permanenza temporale: «grazie al suddetto carattere essenziale – esser adesso in
ogni “adesso” – [il tempo] offre, invece, la veduta pura di ciò che può definirsi il
permanente in generale»88.
Se anche uno dei più intransigenti – almeno su questi temi – commentatori di
Kant non ha potuto soprassedere le parti della prima Critica in cui si afferma che il
tempo scorre, si può capire con quanta evidenza tali riferimenti testuali si presentino
a quei pensatori anglofoni che hanno finalità diametralmente opposte a quelle di
Heidegger. Essi sono mossi principalmente dal voler collegare l’intuizione temporale
all’immagine che ne danno le discipline scientifiche, soprattutto la fisica newtoniana.
82
Heidegger (1929/2006: 166-7).
Heidegger (1929/2006: 150).
84
Heidegger (1929/2006: 152.)
85
Si veda, ad esempio, Heidegger (1929/2006: 50; 93).
86
Heidegger (1929/2006: 96).
87
Heidegger (1929/2006: 96).
88
Heidegger (1929/2006: 96).
83
146
Non sorprende quindi che tra di loro ci sia Friedman. Quest’ultimo non entra nel
merito o meno della permanenza dell'intuizione temporale, tuttavia Friedman utilizza
spesso l’esempio della linea che si sviluppa costantemente come immagine del
tempo: una tale similitudine accentua inevitabilmente gli aspetti di successione e
scorrimento, presupponendo implicitamente una costituzione, per così dire, fluida o
scorrevole dell’intuizione temporale. Ciò emerge, come abbiamo già avuto modo di
vedere, sin dall’Estetica, in cui il tempo, non solo veniva paragonato ad una linea che
si estende all’infinito, ma gli venivano attribuite tutte le caratteristiche proprie della
linea, tranne la simultaneità delle parti poiché le unità temporali sono da considerarsi
successive89. I paragoni tra le rette e il tempo sono molti e sono presenti anche
nell'Analitica degli elementi: «noi non possiamo rappresentarci il tempo – che pure
non è per nulla un oggetto dell'intuizione esterna – altrimenti che per mezzo
dell'immagine di una linea nel mentre la tracciamo»90. E, sempre nella Deduzione
trascendentale dei concetti puri dell'intelletto, come abbiamo visto in precedenza, si
afferma che è stando attenti alla sintesi del molteplice che diventa possibile
rappresentare il tempo come una linea retta91. Oppure, nelle Anticipazioni della
percezione, parlando di “punti” e di “istanti”, viene detto:
A quantità di questo genere si può dare anche il nome di fluenti, in quanto la
sintesi (dell'immaginazione produttiva) nella produzione di esse è un processo
nel tempo, tale che la sua continuità è designata in particolare con il termine
«fluire» (scorrere).92
Nell'Osservazione generale sul sistema dei principi si possono trovare degli accenni
all’uso delle leggi della meccanica pura, secondo la procedura descritta in
precedenza. In particolare, è mediante le leggi fisico-matematiche, le quali
governano i moti degli oggetti esterni, che si riesce ad avere un’immagine del tempo:
«per concepire gli stessi mutamenti interni, siamo costretti a raffigurarci il tempo
quale forma del senso interno, mediante una linea, e il mutamento interno mediante il
89
Kant (1781/2005: 108, A 33/B 50).
Kant (1781/2005: 177; B 156).
91
Kant (1781/2005: 176; B 154).
92
Kant (1781/2005: 212; A 170/B 211-212).
90
147
tracciamento di questa linea (movimento)»93.
Friedman, all’interno di un quadro simile, ha inoltre il merito di approfondire
la differenza di ruoli tra lo spazio e il tempo: «Lo spazio e il tempo, come mere
forme d'intuizione, costituiscono una sequenza monodimensionale di spazi euclidei
tridimensionali: una struttura dello spazio-tempo quadridimensionale comprendente
una disposizione monodimensionale di “piani di simultaneità” tridimensionali»94.
Attraverso queste parole si ha la sensazione di una staticità propria dello spazio
opposta al tempo e alla sua monodimensionalità dinamica, vista come successiva o
“sequenziale”. Quella di Friedman non è una semplice aggiunta, ma serve come
importante distinguo dopo che lo stesso Kant ha inserito nella seconda edizione un
passaggio in cui sembra legare la permanenza allo spazio (forse spinto da un sussulto
di cartesianesimo, dovuto alle ragioni esposte nel primo capitolo). Ma, così facendo,
anche lo spazio si candida al medesimo ruolo di substratum, come si evince
dall’Osservazione generale sul sistema dei principi:
Per fornire al concetto di sostanza qualcosa di permanente nell'intuizione, che
gli corrisponda (e testimoniare in tal modo la realtà oggettiva di questo
concetto), è richiesta un'intuizione dello spazio (della materia), giacché solo lo
spazio è permanentemente determinato, mentre il tempo, e con esso tutto ciò
che si trova nel senso interno, scorre costantemente.95
Un tema che aveva attirato anche l’attenzione di Guyer. Quest’ultimo, infatti,
cerca di stabilire chi, tra il tempo e lo spazio, possa essere il candidato più idoneo a
svolgere il ruolo di substrato. Guyer è inoltre tra i pochi commentatori anglofoni che
analizza un po’ più in profondità il problema della poca chiarezza – se non proprio
della contraddittorietà – dei testi kantiani. Tuttavia la questione viene approcciata
quasi esclusivamente a livello espositivo e il commento alle citazioni, a favore o
contro la permanenza dell’intuizione temporale, non sembra sollevare alcuna
questione teoretica. I temi qui discussi vengono introdotti proprio nella parte in cui è
presa in esame la prima analogia. Guyer (1987: 280) accetta i presupposti kantiani
93
Kant (1781/2005: 262-3; B 292).
Friedman (1994a:199 n. 50).
95
Kant (1781/2005: 262; B 291).
94
148
secondo i quali «il tempo stesso “rimane e non muta”» ma, a causa della sua ben nota
impercettibilità, «la sua permanenza deve essere rappresentata da qualcosa di
permanente nella percezione che sia il suo “substratum”»96 e che sia utile
nell’intuizione degli oggetti esterni. Affinché l’operazione giunga a buon fine, Guyer
sembra ipotizzare una collaborazione tra le due forme a priori della sensibilità. Nella
Ragion pura, infatti, si sostiene che «per percepire un certo oggetto “è richiesta
un'intuizione nello spazio (della materia)” perché “solo lo spazio è permanentemente
determinato, mentre il tempo, e con esso tutto ciò che si trova nel senso interno,
scorre costantemente”»97. Guyer sembra accorgersi che qualcosa non quadra nella
raccolta di citazioni kantiane che propone al lettore. Ed infatti poco dopo dichiara:
«[q]uesta affermazione è completamente oscura (utterly opaque). [...] come abbiamo
visto, la prima analogia rappresenta preminentemente un argomento che si apre
niente meno che con la premessa che il tempo sia permanente anche se non
percepibile»98.
Ciononostante, poco dopo queste osservazioni, Guyer lascia cadere
l’argomento e non approfondisce oltre. Eppure, in precedenza, egli si era reso ben
conto dell’importanza dei termini “permanente” e dell’avverbio corrispondente
“permanentemente” (in tedesco beharrlich/beharrlicher). Guyer (1987: 280) vi si era
infatti soffermato durante l’esame di un passo di grande rilevanza, quello che Kant
stesso aveva definito, come riportato all’inizio del capitolo, l’unica vera integrazione
e ampliamento rispetto alla seconda edizione99. La sua analisi, in particolare, si
concentra principalmente sul sostantivo sopraindicato:
La parola usata da Kant è beharrlich. Potrebbe essere preferibile tradurla con
“duraturo” (enduring), dato che l'implicazione fondamentale della prima
analogia – stando alla quale la conoscenza empirica dell'alterazione richiede
almeno l'ideale regolativo di qualcosa genuinamente permanente (permanent)
96
Guyer (1987: 283).
Guyer (1987: 286). I passi della prima Critica sono presi da Kant (1781/2005: 262; B 291).
98
Guyer (1987: 286).
99
I passi originali in tedesco sono:«meil der Raum allein beharrlich beftimmt, die Zeit aber, mithin
alles, mas im inneren Sinne ift, beftänbig fließt» (Kant 1781/1968, Vol. III, 200; B
291);«Orfcheinungen find in der Zeit, in melcher als Substrat (als beharrlicher Form der inneren
Unfchauung) das Bugleichfein fomohl als die Folge allein borgeftellt merden tann»( Kant 1781/1968,
Vol. III, 162; B 224).
97
149
piuttosto che sostanze soltanto relativamente durature (enduring) – qui non è
realmente richiesta. Ma poiché, come abbiamo visto, la permanenza
(permanence) ideale della sostanza è, di fatto, una conseguenza legittima
dell'argomento di Kant tratto dalle condizioni per la conferma empirica del
cambiamento, non ci sarà niente di male nel mantenere qui quella traduzione
di beharrlich che Kemp Smith, in ogni caso, ha reso canonica.100
I due termini inglesi, “permanent“ – che potremmo rendere in italiano con
“permanente” – e “enduring“ – che invece tradurremo con “duraturo” o “durevole” –
nell'uso di Guyer propongono sfumature semantiche diverse101: usando la prima
espressione si ha l'idea di qualcosa di fermo e di immobile, che è stato e rimarrà tale;
con “duraturo”, invece, sembra si accentuino le caratteristiche che ci portano a
considerare il tempo come qualcosa che protrae se stesso per una durata non
quantificabile, senza sapere se continuerà o meno a farlo, se l'abbia fatto sin dalla usa
origine, o se questa sua produttività continua renda addirittura impossibile risalire ad
un punto di partenza.
Ricapitolando, Guyer ha sotto gli occhi dei passi molto noti che esprimono,
da un lato, un tempo permanente/duraturo e, dall'altro, un tempo che scorre; egli si
rende conto che la nozione di “permanente” (beharrlich) va chiarita meglio e
necessita di alcune precisazioni; sempre Guyer analizza dei brani che sono stati la
spia, per Kant, di insicurezze profonde, le quali si sono perpetuate e si sono
ripresentate fin dopo la pubblicazione della seconda edizione (come intendere
altrimenti una nota nell’introduzione scritta quando il corpo principale dell’opera era
già stato editato?); eppure tutto ciò non lo spinge ad un’analisi serrata e diretta della
nozione “tempo”. Nonostante l’attenzione e le precisazioni, in Guyer sembra farsi di
nuovo largo il tipico atteggiamento di tanti filosofi anglofoni: il tempo in Kant non
viene elevato a tema centrale, degno di un’analisi individuale e particolareggiata, ma
100
Guyer (1987: 452, n 1).
È importante distinguere tra i due termini perché, nel dibattito analitico contemporaneo,
“permanet” non è molto usato, mentre “enduring” fa capo ad una distinta corrente di pensiero sul
modo di intendere la persistenza attraverso il tempo e il cambiamento detta tridimensionalismo o
endurantismo. Stando a questa prospettiva, gli oggetti tridimensionali interi persistono e sono
interamente presenti in ogni istante di tempo. Ad essa si oppone il quadri-dimensionalismo o
pedurantismo, stando al quale gli oggetti sono quadridimensionali, hanno cioè una parte temporale che
si distingue in ogni istante della loro esistenza. Ringrazio Claudio Calosi per i preziosi suggerimenti e
delucidazioni su questo punto.
101
150
viene esaminato in seconda battuta, a seguito di discussioni riguardanti soprattutto lo
spazio o le analogie.
Forse il pericolo maggiore nell’approccio a questi testi e a queste
problematiche è proprio un tale atteggiamento “alla Guyer”. Per cercare di invertire
questa tendenza, si potrebbe iniziare tentando di capire se il tempo scorra o meno,
rispondendo, almeno, alla domanda sulla prima analogia da cui si era partiti. Ciò che
viene detto qui di seguito è un tentativo di venire a patti con quanto affermato da
Kant, ma è un tentativo a maglie molto larghe che non possono tenere insieme tutti i
brani, i passaggi o le varie ricostruzioni, i quali, posti uno accanto all’altro, portano,
quantomeno, ad alcune contraddizioni implicite.
Il numero dei passi elencati (a cui è possibile aggiungere quelli in cui si parla
del trascorrere del tempo riferito al concetto più generale di “serie”) sembrerebbe
rafforzarne il punto di vista di coloro che sostengono lo scorrimento temporale. A ciò
si aggiungono alcune caratteristiche ritenute “morfologiche” dell’intuizione
temporale, come l’essere considerata una serie, che pongono rimedio a debolezze
epistemologiche. Inoltre, come abbiamo già accennato, alcune proposizioni
sembrano essere state formulate e aggiunte appositamente nella seconda edizione al
solo ed unico scopo di accentuare la corrispondenza tra la prima analogia e la legge
di conservazione della massa. Si è pertanto portati a credere che Kant sottolinei la
permanenza temporale unicamente in quelle sezioni della Critica che hanno a che
fare con il principio o con lo schema della sostanza, in modo che si abbia un parallelo
tra i due poli della conoscenza: un soggetto la cui forma del senso interno,
l’intuizione temporale, è fissa e immutabile, a cui fanno da contraltare delle sostanze
a fondamento dei fenomeni (intesi a livello epistemologico) a loro volta permanenti e
stabili.
Eppure, i sostenitori in toto della permanenza temporale, potrebbero
sottolineare che ciò che viene detto in certi passaggi dell’Analitica e dello
Schematismo viene affermato fin dalla prima edizione, quando la volontà di legare le
condizioni epistemiche alle discipline scientifiche era meno forte. In più, potrebbero
far notare che la quantità dei brani o dei riferimenti, soprattutto per un autore come
Kant, non significa molto. I passaggi in cui si accenna allo scorrimento temporale
sono, in qualche modo, collegati ad altre nozioni (spazio e seconda analogia) le quali
151
si prestano bene, in maniera chiara ed immediata, alle esemplificazioni; il volgersi
all’interno, invece, significa addentrarsi in un percorso accidentato e la parsimonia
mostrata da Kant nel riferirsi a questi aspetti dell’attività temporale potrebbe indicare
una sua cautela al fine di non creare ulteriori ed inutili fraintendimenti.
A queste considerazioni preminentemente esegetiche, si può tentare di
rispondere spostandoci su di un piano più teorico. Kant sta parlando di sostanze, sia
che vangano considerati gli schemi, sia che vengano considerati i concetti. Abbiamo
anche evidenziato come un concetto che si possa definire veramente tale, punta alla
formulazione di una definizione che indichi in maniera precisa e pregnante la sua
intensione – si è tentati di dire, in maniera fissa e permanente. Si può ricordare che i
riferimenti alla permanenza sono preminenti finché ci si riferisce al tempo come
senso interno, in rapporto al soggetto conoscente o all’Io. Dunque, apparentemente
trascinato dal suo discorso, Kant sembra sostenere che una volta stabilito un
substrato fisso ed immutabile per ogni ente, allora anche il soggetto conoscente
stesso ha bisogno di un fondamento simile. Ma quale ente può essere considerato
sostanza del soggetto conoscente? Non si può certo andare verso le regioni delle cose
in sé, inaccessibili per le condizioni epistemiche che si possiedono. In quanto
soggetto conoscente, è proprio alle sue condizioni a priori che sembra si debba
guardare. In particolare, tra di esse, sarebbe preferibile puntare verso quella che sta
alla base delle altre: al tempo in quanto forma del senso interno. E qui, ancora una
volta, Kant appare trascinato dal meccanismo che lui stesso ha messo in moto.
Sembra quasi che egli sia spinto ad affermare che la forma a priori fondamentale del
soggetto conoscente, il tempo, sia permanete perché le sostanze degli enti fenomenici
sono permanenti. Se ciò, da un lato, sembra elevare il tempo a ente fondamentale e,
quindi, a sostanza del soggetto conoscente, dall’altro sembra condurre Kant ad un
errore, questa volta davvero una sorta di non sequitur: dal fatto che la sostanza di un
ente, per quanto l’ente sia fondamentale ed importante, sia da considerarsi
permanente, non è detto che a livello ontologico l’ente stesso sia permanente. Per
quanto io possa aver definito correttamente la sostanza o il concetto di “fiume” esso
non smetterà di scorrere. Detto altrimenti, le caratteristiche del livello concettuale,
anche se riguardano nozioni a priori, non possono essere assegnate meccanicamente
all’ontologia delle nozioni stesse, soprattutto per un ente quale il tempo kantiano che
152
riflette un modo di essere tutto particolare.
Nel paragrafo precedente, infatti, si era distinto tra intuizione temporale e
tempo in generale, quest’ultimo inteso come concetto oggettivo prodotto dalle
analogie. Due entità che devono essere considerate in maniera diversa e non vanno
confuse. In primo luogo c’è la forma a priori della sensibilità, di cui Kant ci fornisce
un concetto il quale appartiene però a quello che si potrebbe chiamare il livello
analitico (definitorio). Oltre a questo, si ha anche il tempo oggettivo, un prodotto dei
principi a priori dell’intelletto, da intendersi come la storia, il risultato delle varie
relazioni che intercorrono tra i fenomeni. Certo, se si pensa che il compito
dell’intelletto è proprio quello di formulare concetti, la situazione si complica.
Tuttavia, in questo caso, si può far leva sul fatto che l’intelletto si occupi di concetti e
giudizi sintetici facendo rientrare il tempo oggettivo in quell’ultimo insieme.
Il contrasto tra due diverse enti che si occupano di settori affini aveva
condotto ad indagare il tempo kantiano sotto vari aspetti, portando ad affermare che
una definizione come quella di condizione epistemica non fosse del tutto esaustiva
per l’intuizione temporale. Quanto ulteriormente esposto fin qui, rafforza, una volta
di più, la convinzione che il tempo manifesti delle condizioni ontologiche che non
solo sono difficilmente trascurabili dato che, in alcuni casi, reggono il peso della
controparte epistemologica, ma che, in aggiunta, esprimono delle caratteristiche
apparentemente opposte a quelle espresse dal tempo come prodotto delle analogie.
Un possibile riferimento a questa possibilità si ha nelle stesse parole di Kant
(1781/2005: 221; A 183/B 226):
Il mutamento, infatti, non concerne il tempo in se stesso, ma solo i fenomeni
nel tempo […]. Qualora si volesse attribuire al tempo come tale una
successione, bisognerebbe escogitare un altro tempo ancora, in cui questa
successione trovasse la sua possibilità. Solo in virtù del permanente,
l’esistenza, nelle varie parti della serie temporale, acquista una quantità che
prende il nome di durata. Nella semplice successione, infatti, l’esistenza è
sempre in via di dissoluzione e di ricostruzione e non ha mai la benché
minima quantità.
Il tempo è una nozione così complicata che Kant avverte quasi l’esigenza di
153
sdoppiarlo. Ciò è dovuto, presumibilmente, proprio al problema di quale ontologia
associargli. La risposta apparentemente scontata è che l’intuizione temporale abbia,
come corrispettivo, un’ontologia, per così dire, empirica o fenomenica. In questo
caso, la struttura del tempo incarnerebbe perfettamente la modalità conoscitiva
dell’intuizione che è, per definizione, sfuggevole e che punta a ciò che si ha lì
davanti, in quel momento, per poi lasciare subito il passo ad un’altra impressione.
L’intuizione è, difatti, per sua natura inserita in una sequenza, in un flusso che scorre
costantemente. Il pensiero di un tempo che si sviluppa come linea, come prospettato
nell’Estetica, ne rende bene l’idea, al contrario di un tempo permanente, inteso come
un contenitore immobile.
Quando però il tempo si rivolge a se stesso e al soggetto, sembra che ci si
diriga verso un’altra ontologia, quella delle cose in sé, la “radice sconosciuta” che
Kant ci ha detto essere intoccabile e da cui è fuggito; verso la quale, tuttavia,
fatalmente il soggetto conoscente si rivolge sempre. Servirebbero due tempi, ma
Kant sa che non può istituirli e tutte le caratteristiche ricadono sulla stessa nozione.
Così facendo, il tempo ha un ventaglio di possibili impieghi e di livelli di azione
notevolmente maggiore rispetto a quello di qualsiasi altra nozione a priori. Non si
può chiedere alla seconda analogia di operare a livello sensibile o allo spazio di
operare direttamente al livello degli schemi trascendentali. Mentre al tempo sì.
Nonostante ciò, alcune incongruenze rimangono e Kant le sta coprendo, mi sia
permesso di dire, con un coperta un po’ troppo corta. Ma forse, quanto riportato in
precedenza, è la lettura dell’intuizione temporale meno traumatica che si possa
offrire, anche in base ai riscontri testuali, alle tematiche e ai punti di contrasto emersi
tra i principali commentatori di Kant.
A questo punto è lecito chiedersi se la discussione fin qui avanzata può
suggerire nuovi temi e nuovi spunti per rispondere alla domanda centrale da cui si
era partiti: l’analisi del tempo in Kant può gettare nuova luce sul tentativo di porre un
argine alle conseguenze di interpretazioni troppo estreme sviluppatesi delle tesi di
Quine – o di un Kuhn? Probabilmente la risposta è affermativa, ma non credo che sia
una risposta che potrebbe piacere o che piacerà a filosofi la cui tradizione è stata
principalmente analitica. Le considerazioni sul tempo in Kant spingono a credere che
non sia così facile distinguere, all’interno di un sistema teorico, dove finisca
154
l’ontologia e dove cominci l’epistemologia. L’errore, però, sarebbe quello di
sottostimare o di escludere del tutto un qualche tipo di ontologia: senza un’analisi
profonda e una distinzione netta tra i due piani, com’è possibile, per esempio,
separare in maniera sicura un livello analitico da un livello sintetico? Uno degli
intenti e degli impegni che Kant si era addossato, consisteva proprio in ciò, ma, come
spero la trattazione fin qui condotta abbia sottolineato, non è forse riuscito a portarlo
completamente a termine.
III. 6. Il tempo, i tempi.
Il lavoro svolto sin qui dovrebbe aver messo in luce i propositi che hanno
spinto ad indagare il tempo in Kant. L’intuizione temporale si è rivelata, infatti, un
ottimo caso di studio attraverso il quale osservare lo stretto rapporto tra un tipo di
epistemologia e di ontologia particolari. Nell’impostazione kantiana, infatti, può
essere considerato un componente della realtà esterna solo ciò che può sottostare alle
condizioni epistemiche del soggetto conoscente. Ciò, non solo implica, in un certo
qual modo, che l’epistemologia e l’ontologia viaggino di pari passo, ma una tale
impostazione rappresenta proprio il nucleo della rivoluzione copernicana che Kant
opera rispetto alle dottrine filosofiche precedenti. Una svolta che «non implichi né la
priorità dello scopo gnoseologico rispetto allo scopo metafisico, né tanto meno l’idea
[…] che Kant sia rimasto impigliato in una confusione fallace fra epistemologia e
ontologia. La rivoluzione kantiana, infatti, si basa sulla distinzione (non sulla
confusione) tra l’essere in sé delle cose e la conoscenza che ne abbiamo; ciò che essa
fa ruotare intorno al soggetto conoscente sono gli oggetti in quanto oggetti
conosciuti, non in quanto cose in sé»102. In particolare, la distinzione kantiana regge
molto bene finché ci si riferisce alla realtà esterna. In parte, ciò sembra dovuto non
solo alla bontà e alla validità delle condizioni epistemiche, ma anche al collegamento
che viene instaurato tra di esse e i presupposti delle discipline scientifiche e delle
metodologie di misurazione degli oggetti esterni. Tuttavia, come hanno sottolineato
in precedenza le parole dello stesso Kant, non è possibile utilizzare la matematica, e
quindi le discipline scientifiche che si basano su di essa, per indagare i fenomeni
interni. Addirittura, sembrano difficilmente applicabili ai fenomeni esclusivamente
102
Parrini (2011: 495).
155
interni anche le sole condizioni epistemiche: eccetto rari casi e situazioni particolari,
tra i pensieri o i ricordi l’intuizione spaziale o la seconda analogia possono davvero
assumere lo stesso valore che hanno per gli oggetti esterni? Quando il soggetto
conoscente tenta di analizzare i propri stati interni, o le proprie condizioni
epistemiche, con gli stessi strumenti che vengono utilizzati per i fenomeni, non solo
si riscontrano minor precisione e puntualità ma diviene difficile stabilire con
esattezza cosa possa essere considerato un fenomeno, indebolendo, di conseguenza,
anche la distinzione stessa tra i livelli stabiliti con la rivoluzione copernicana. Infatti,
sembra quasi automatico che, se si attenua quell’intelaiatura che permette ai
fenomeni di diventare materiale empirico, viene a cadere anche la distinzione netta
tra ontologia ed epistemologia.
Dopo tutto, qui non viene fatto altro che ribadire, in una forma diversa, quella
che fu una delle critiche di Schopenhauer a Kant: «[l]a verità è, che sulla via della
rappresentazione non si può uscire mai dalla rappresentazione: essa è un tutto chiuso
e non ha nei suoi propri mezzi alcun filo, che conduca all’essenza della cosa in sé, da
essa toto genere diversa. Se noi fossimo solo esseri rappresentanti, allora la via per la
cosa in sé ci sarebbe interamente chiusa. Solo l’altro lato del nostro proprio essere ci
può dare una schiusa all’altro lato dell’essere in sé delle cose»103. Anche in questo
caso sembra chiaro il richiamo alla componente ontologica del soggetto conoscente.
Ciò che si è cercato di fare in più, durante il presente lavoro, è stato mettere in luce
come il tramite con cui poter analizzare entrambi i lati del processo conoscitivo
potesse essere l’intuizione temporale. Ma, affinché si arrivasse a ciò, era necessario
fare chiarezza sul modo di considerare il tempo e le sue funzioni.
Una volta affrontati i maggiori nodi concettuali emersi dall’analisi dei
commentari anglofoni, si possono aprire vari scenari. Si può semplicemente, per
esempio, riaffermare un primato – almeno al livello interno del soggetto conoscente
– dell’ontologia sull’epistemologia. Coloro che decidono di intraprendere questa
strada, potrebbero ribadire, metaforicamente, la precedenza dell’hardware rispetto al
software utilizzato per rapportarci con la realtà esterna: è infatti plausibile imbattersi
in un hardware privo di software, ma non è così semplice immaginare il contrario, a
meno che non si abbia una concezione molto aleatoria di ciò che si intende per
103
Schopenhauer (1844/2000: 532).
156
“software”. Oppure, contrariamente a Kant, possiamo ritenere che una psicologia
empirica sia del tutto plausibile: dopo tutto, lo sviluppo delle neuroscienze, della
psichiatria, della fisiologia e della biologia sta lì a confermare che è possibile,
almeno fino ad un certo livello, indagare scientificamente i fenomeni interni. La
domanda diventa allora: è possibile istituire un rapporto tra i presupposti di queste
discipline scientifiche ed un’intelaiatura di tipo kantiano? Si dovrebbe differenziare,
cioè, all’interno del soggetto, ciò che vi è di empirico da quello che appartiene al
versante “trascendentale”, in modo che ci sia una distinzione di livello tra
l’esaminante e l’esaminato.
Infine si può tentare di fare quello che hanno fatto gli odierni commentatori di
Kant: vedere quanto e cosa è ancora utilizzabile del pensiero di Kant, anche a costo
di modificare il modo di intendere le sue condizioni a priori. Il primo passo sarebbe
quello di circoscriverne nuovamente le funzioni e le proprietà. Proprio quello che si è
tentato di fare con il presente lavoro riguardo all’intuizione temporale, che si trova,
in quanto forma del senso interno e forma mediata dei fenomeni esterni, ad essere tra
le prime condizioni epistemiche a venir chiamata in causa.
Un modo in cui si può tentare di render conto di un diverso e possibile assetto
del tempo è quello di metterlo a confronto con problemi caratteristici del periodo
attuale. Se, come abbiamo visto, tra gli scopi di coloro che hanno ripreso le tesi
kantiane c’è quello di intessere un nuovo tipo di dialogo tra discipline scientifiche e
filosofia – un dialogo un cui le due materie siano considerate su due piani diversi,
con diversi compiti e finalità – proprio su una nozione come quella di tempo il
dibattito può essere fruttifero dato che, negli ultimi anni, tale concetto è stata
sottoposto ad un’attenta analisi sia da parte degli scienziati sia da parte dei filosofi.
È interessante notare come alcuni indirizzi di studio chiamino in causa
concetti e funzionalità affini a quelli emersi nel corso della presente ricerca. Il
riferimento è, in particolare, alle conclusioni a cui si è arrivati nel paragrafo
precedente, riguardanti l’ontologia del tempo e se esso sia da considerarsi o meno
un’entità originaria. Ci sono correnti di pensiero, soprattutto tra i fisici teorici, che
mettono sempre più in discussione il tempo come entità individuale distinta:
Sono convinto che ci sfugga qualcosa di fondamentale, che tutti stiamo
157
supponendo qualcosa di sbagliato. Se è vero, abbiamo bisogno di isolare la
supposizione errata e di rimpiazzarla con un'idea nuova. Quale potrebbe essere
il presupposto sbagliato? Secondo me ha a che fare con i fondamenti della
meccanica quantistica e con la natura del tempo. […] Ma ho il forte sospetto
che la chiave sia il tempo. Sono sempre più convinto che la teoria quantistica e
la relatività generale siano entrambe profondamente sbagliate per quanto
riguarda la natura del tempo.104
Un modo alternativo di rapportarsi al concetto di tempo, che sembra
accomunare vari indirizzi di studio, prevede, al suo interno, tra gli altri, due passaggi
molto interessanti e che appaiono riconducibili a quanto detto finora: stando al
primo, si devono considerare spazio e tempo come un’unica entità, lo spazio-tempo;
quest’entità – e si arriva così al secondo punto – viene ritenuta il “prodotto” di
presupposti ancor più fondamentali. Ciò sembrerebbe valere anche per alcuni
studiosi impegnati nella ricerca delle stringhe come entità ultime della realtà: stando
alle loro ipotesi, «sebbene non si possieda alcuna comprensione del nucleo
fondamentale della teoria […] la sua essenza è che lo spazio-tempo [sia] un concetto
“emergente”, anziché qualcosa di fondamentale»105. In altri indirizzi di ricerca si è
tentato di circoscrivere ancor più dettagliatamente quali sono i presupposti da cui, per
così dire, emergerebbero spazio e tempo. Per i nostri scopi, è interessante notare
come, per esempio, nella gravità quantistica a loop ciò che rappresenta la base per
una corretta analisi della realtà è formato da concetti che molto hanno in comune con
le funzioni incontrate parlando del tempo come senso esterno mediato: «[g]li
approcci che per il momento risultano migliori combinano queste tre idee essenziali:
che lo spazio sia emergente, che la descrizione più fondamentale si discreta e che
104
Smolin (2006/ 2007: 254-5). Anche studiosi di indirizzi completamente diversi rispetto a quello di
Smolin nutrono le stesse perplessità. Per esempio, Greene (2004/2006: 415): «Un'altra possibilità è
che lo spazio e il tempo ordinari non cessino brutalmente di avere significato sotto una certa scala, ma
che si trasformino gradualmente in altri concetti più fondamentali. […] A scala ultramicroscopica,
dunque, il tempo e lo spazio a noi familiari si trasformano gradualmente in un'entità per cui i familiari
concetti di durata o lunghezza diventano non applicabili o privi di senso. […] forse si può continuare a
suddividere lo spaziotempo oltre la scala di Planck, ma l'operazione a quel punto diventa insensata.
Molti fisici che si occupano di stringhe, me compreso, hanno la precisa sensazione che questa seconda
ipotesi sia vera, ma per procedere nelle nostre ricerche dobbiamo ancora capire quali siano queste
nuove entità a cui lo spazio e il tempo si convertono».
105
Krauss (2005/2007: 269).
158
essa implichi in un modo fondamentale la causalità»106. È interessante notare come,
agli ovvi riferimenti a spazio e causa, associabili all’intuizione spaziale e alla
seconda analogia, il riferimento alla “descrizione discreta” potrebbe essere associato
alla proprietà logica di procedere unità dopo unità: in pratica, non si ha un
continuum, ma la base ultima della realtà sarebbe costituita da elementi che si
possono accostare l’uno all’altro; situazione simile a quella che caratterizza ciò che è
stato chiamato “l’attività logica” dell’intuizione temporale. Oltre a tutto questo, in
una situazione simile, le varie funzioni e capacità dell’intuizione temporale vengono,
per così dire, scorporate e ridistribuite su altre funzioni e concetti. Quella principale,
la successione, sarebbe assunta dalla causa: non si avrebbe un’entità “tempo” che
scorre costantemente, ma avremmo molteplici catene causali, collegate le une alle
altre, le quali ci forniscono un’idea di successione temporale grazie agli elementi
costituenti l’evento posti uno di seguito all’altro; questo scorrere o succedersi
continuo viene chiamato tempo.
In filosofia, le teorie sulla natura causale del tempo si erano presentate già
molti anni fa, soprattutto a seguito delle interpretazioni della teoria della relatività.
Per esempio, già Earman (1972: 74) definiva così un certo modo di intendere quel
tipo di teorie:
La teoria causale del tempo è un tipo speciale di teoria relazionale del tempo.
Una teoria relazionale sostiene che non è necessario postulare l’esistenza
assoluta degli istanti di tempo per considerare gli istanti come parte di un ente,
anch’esso assoluto, il quale sia ritenuto una sorta di contenitore di eventi, la
cui esistenza è indipendente dall’esistenza dagli eventi che contiene; piuttosto,
si afferma che il tempo non sia nient’altro che oltre e sopra – che sia costituito
da o riducibile a – rispetto alla struttura delle relazioni temporali tra gli eventi.
Il genere causale di questa teoria afferma che le relazioni temporali possono
essere ben definite in termini di “relazioni fisiche”, relazioni che, qualsiasi
altra cosa siano, non sono “specificatamente temporali”.
Tuttavia, come sostiene Malament (1977: 293), già in quel periodo, un filosofo come
Friedman «non vedeva alcuna ragione del perché si sarebbe dovuta adottare una
106
Smolin (2006/2007: 240).
159
teoria causale del tempo».
Però, stando al lavoro svolto fin qui, la novità consisterebbe nel sottolineare
come, a spingere verso teorie di questo tipo, non sia solo una certa volontà di andare
incontro alle più recenti ipotesi scientifiche, ma anche un modo nuovo di considerare
la temporalità all’interno del soggetto conoscente. Una temporalità che, al livello di
ciò che Kant chiamava senso interno, viene slegata dal concetto di misurazione e
associata alla produzione di una successione discreta frutto della spontaneità propria
del soggetto: c’è quindi la possibilità di vedere la temporalità come protrarsi avanti,
di unità dopo unità, del soggetto conoscente stesso. È importante che le unità siano
tra di loro distinguibili. Come si è tentato di spiegare in precedenza parlando del
tempo come forma del senso interno, due unità distinte rappresentano già ciò che si
può chiamare una successione temporale: essendo l’una diversa dall’altra, possono
essere considerate una sorta di coppia binaria, la quale, appunto, non necessità di una
misurazione più complessa del computo di due elementi. Ciò non esclude, ma anzi
costituisce una base affinché, in seguito, una temporalità così concepita possa avere
uno status tanto generale da poter dialogare anche con le ipotesi scientifiche
precedentemente esposte. Tuttavia, prendendo spunto dalle quelle teoria fisiche
precedenti, qui si avrebbe una temporalità che non presuppone nessun ente “tempo”
ontologicamente indipendente: diviso nelle sue proprietà e rese indipendenti
quest’ultime, il tempo diventa un fenomeno emergente, ovvero, un complesso di più
funzioni le quali, per comodità o metodologicamente, vengono chiamate “tempo”.
Seguendo questo filo conduttore, un nuovo rapporto tra epistemologia e ontologia, e
una nuova concezione del tempo non sono altro che i presupposti per tentare una
riformulazione – l’ennesima – dell’idealismo trascendentale e del realismo empirico
kantiani.
In un quadro simile, la radice oscura a cui si stava avvicinando Kant sembra
diventare un vuoto, un abisso: si chiede all’impianto critico fare a meno della forma
stessa del senso interno del soggetto conoscente e di una nozione cardine di tutto il
suo impianto gnoseologico. È possibile avanzare una richiesta simile a Kant, che
aveva già voltato lo sguardo forse a causa delle limitate possibilità di indagine
dell’epoca – la psicologia aveva ancora da arrivare e le rivoluzioni scientifiche erano
di là dall’arrivare – forse perché più interessato a sviluppare e portare avanti principi
160
che potessero avere un collegamento con discipline già ben avviate? Eppure, i
cambiamenti avvenuti nella seconda edizione, sembrano compiuti quasi più per
insicurezza che per paura. Rileggendo oggi le pagine di Kant si ha la costante
sensazione che egli abbia visto o pensato più di quanto abbia messo sulla carta.
Ciononostante, basta quello che ha messo per iscritto affinché, a più di duecento anni
dalla sua morte, si sia ancora qui, a prendere ispirazione da lui.
161
162
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