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Il termine Cantata apparve al principio del Seicento, con la raccolta Cantade et arie di
Alessandro Grandi (di cui si conosce solo la stampa del 1620), ed indicava una forma
variabile nella quale spesso si ponevano a contrasto recitativo, arioso ed aria; oppure altre
volte si designava semplicemente un’aria strofica con variazioni. «La cantata trasferiva
nella cornice splendida e a un tempo intima, “reservata”, delle sale dei palazzi nobiliari il
fascino della vocalità operistica, dando vita senza scene né costumi a una sorta di
palcoscenico ideale in cui delle maschere pastorali confessano i loro turbamenti amorosi».
Tra il 1644 ed il 1655 Papa Innocente X diede ordine di non rappresentare opere in Roma.
Tale divieto costituì il fertile terreno sul quale fiorì una messe di musica strumentale e dal
quale ricevette impulso lo sviluppo delle forme vocali “private”. Nei salotti aristocratici
romani settimanalmente si organizzavano le “conversazioni”, momenti durante i quali si
discuteva di un argomento, si organizzavano giochi e si faceva musica. Il genere che
meglio poteva essere impiegato e meglio si dimostrò flessibile, per la sua possibilità di
mescolare vari elementi come la recitazione, la rappresentazione degli affetti o richiamare
alla memoria fatti storici accaduti, era la Cantata. Essa acquisì larga diffusione nella Roma
papalina, anche grazie alla presenza e munificenza di grandi famiglie nobiliari, e può
essere considerata come un fatto prettamente elitario che, mantenendosi sostanzialmente
in una sfera “privata”, riuscì a non incorrere in rimbrotti papali o ammonimenti di sorta.
La Cantata appare dunque come la prediletta forma “reservata” del circuito nobiliare,
chiuso in sé al punto che le opere commissionate da nobili vedono gli stessi nobili quali gli
autori dei testi, «nobili mecenati e animatori culturali che si curarono di conservare le
partiture manoscritte rilegate in preziosi volumi sontuosamente ornati». Addirittura
venne di moda fra gli aristocratici regalare volumi di cantate, voga che finì pertanto con
l’incrementarne la produzione. Va inoltre ricordato che a Roma esistevano botteghe di
copisti che producevano rilegature molte eleganti che erano assai gradite dalle famiglie
nobili, le quali vi imprimevano il proprio blasone. Celebri sono rimaste, ad esempio, la
bottega di Andreoli o di Giovanni Antelli (quest’ultimo copista della nobiltà dagli anni
settanta ai novanta del Seicento, stipendiato dai Chigi e dai Borghese, che eseguì copie di
cantate di Stradella e che probabilmente conosceva personalmente il compositore).
Fra i personaggi “sponsor” culturali non ci si può esimere dal citare alcuni nomi, a
cominciare dalla ex-regina di Svezia Cristina. Spirito indipendente, colta, ella era giunta a
Roma dalla Francia nel 1658; vi rimase contribuendo attivamente ad una vivace attività
culturale. Dal 1663 affittò palazzo Riario (oggi palazzo Corsini) e ricevette anche un
“contributo” dal Papa quale sostegno alle sue attività. Fu lei a fondare, nel 1674,
l’Accademia Reale e sempre lei ebbe contatti con i grandi musicisti dell’epoca ed intrattenne
rapporti di mecenatismo con vari poeti e musicisti dell’epoca, fra i quali appunto lo
Stradella e quel Sebastiano Baldini che era considerato un grande letterato, librettista, ed
era il segretario di vari cardinali. Legato a Cristina di Svezia fu anche un altro compositore
celebre: Bernardo Pasquini.
Nato nel 1637 Pasquini arrivò a Roma nel 1650 e qui acquisì fama come organista di varie
chiese romane, nonché come cembalista, non disdegnando la composizione sia
strumentale che vocale. Fu compositore e direttore dei concerti di Cristina di Svezia, e
lavorò per la famiglia Borghese e per altri illustri personaggi, come il principe Colonna, i
cardinali Benedetto Pamphilj e Pietro Ottoboni. Per le “conversazioni” romane nelle corti
principesche e cardinalizie Pasquini compose le sue cantate da camera e, nel 1679, dedicò
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alla regina Cristina l’opera Dov’è amore è pietà . Più di tutti vale il giudizio che Francesco
Gasparini di lui diede nel suo trattato “L’Armonico prattico al cimbalo” del 1706: «Chi avrà
ottenuto la sorte di praticare, o studiare sotto la scuola del famosissimo signor Bernardo Pasquini, o
chi almeno avrà inteso o veduto suonare avrà potuto conoscere la più vera, bella e nobile maniera di
suonare, e di accompagnare, e con questo modo così pieno avrà sentita dal suo cimbalo una
perfezione di armonia meravigliosa».
Altro salotto importante era quello di Lorenzo Onofrio Colonna e della sua consorte Maria
Mancini – una nipote del cardinale Mazzarino, celebre all’epoca per il suo “spirito” arguto,
ma anche per avere avuto un legame sentimentale con Luigi XIV – ospitato in quel
meraviglioso e ricco luogo d’arte che era ed è palazzo Colonna. E poi ancora ricordiamo il
cardinale Pamphilj, il cardinale Pietro Ottoboni, membro dell’Arcadia, per il quale
Antonio Caldara lavorò, ed il principe Francesco Maria Ruspoli (anch’egli Arcade), del
quale Caldara fu Maestro di cappella.
In questo ambiente Alessandro Stradella arrivò a quattordici anni, dopo la morte del padre
- il cavaliere Marc'antonio Stradella di Piacenza, il quale tra il 1642-43 era stato nominato
vice-marchese e governatore di Vignola. Avendo consegnato il castello alle truppe del
Papa fu dimesso. A Roma la madre divenne “Donna della Duchessa” a Palazzo Lante e i
due fratelli dei paggi. Verso il 1663 entrò a servizio della colta ex regina Cristina di Svezia
(al pari di Bernardo Pasquini). Assai noto è il fatto che la sua vita fu costellata di “incidenti
di percorso” dovuti alla sua irrequietezza di comportamento e che terminò la sua esistenza
per morte violenta, pugnalato da due sicari a Genova nel 1682, ma quello che interessa
maggiormente è il contributo dato in campo musicale. Nel genere della Cantata contribuì a
dar quella forma di alternanza fra recitativo ed aria, che, con Alessandro Scarlatti, diviene
la forma “standard” ed anche va sottolineato che fu lui stesso in molti casi a scrivere il
testo, infondendovi parte della propria vita, del suo vissuto (e spesso affidando la
narrazione alla voce di Basso). La vita è sfaccettata, con tanti chiari e scuri, e se vogliamo
dar corpo sonoro a questa intenzione si richiede un’espressione adeguata, a volte
portando all’estremo la pronunzia della parola, l’esasperazione del sentimento con l’uso di
cromatismi e dissonanze.
Antonio Caldara, nato a Venezia, si stabilì in vari luoghi, ma i principali furono Roma,
dove visse dal 1708 al 1716 e poi Vienna dove abitò e lavorò sino alla sua dipartita. La
nobiltà del tema mitologico e del tema storico era alla base dell’opera seria barocca e come
Stradella aveva preso a base delle sue due cantate il personaggio del filosofo Seneca, tutore
e precettore di Nerone e da questi costretto al suicidio («Dentro bagno fumante/Stava dannato
a torto,/Versando a stille il sangue,/Il filosofo esangue e quasi morto,/Quando contro
Nerone,/Giudice ingiusto e regnator spietato,/Sciolse perfine il moribondo fiato»), anche Caldara
sceglie personaggi storici: «Mora Tarquinio mora/e trionfante imperi la libertà quirina/infranti a
Roma i leggi vegga la nuova aurora,/mora Tarquinio mora,/mora mora!» e Dario «La grandezza di
Dario/Il mesto eccesso,/l’animo prode invitto e generoso,/non si muove alle glorie /e alle prodezze
non invidia il valore/d’Alessandro il possente, il vincitore». Lo spunto storico dà adito alla
creazione di un susseguirsi di “affetti” che delineano le cantate come piccole forme semi
teatrali.
© Elena Ceranini
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