Biodiritto e problematiche di fine vita

Biodiritto e problematiche di fine vita
18 giugno 2005
Prof. Ferrando Mantovani
Cercherò di essere il più breve possibile. E’ inutile dire ai medici che il paziente in fin di vita crea
dei problemi (dei problemi medici, di assistenza, problemi umani, problemi etici, problemi
generici). Mi fermerò a quelli che sono i quattro problemi fondamentali di carattere giuridico. Il
primo è se il medico ha più o meno il dovere di informare il paziente in caso di prognosi letale,
tanto più a breve scadenza. Secondo problema: se il paziente a conoscenza della diagnosi letale
possa rifiutare la cura. Terzo problema: se addirittura possa pretendere che il medico pratichi
l’eutanasia attiva. Quarto problema: il cosiddetto accanimento terapeutico.
Prima di tentare di dare una risposta a questi quesiti, credo che sia importante una premessa
fondamentale. Cioè, per rispondere a questi quesiti, ma soprattutto – e richiamo la vostra attenzione
su questo punto – per decidere sui problemi bioetici in generale, la risposta varia, o addirittura è
contrapposta a seconda della concezione dell’uomo da cui si muove. Tutte le volte che voi dovrete
risolvere, nella vostra coscienza, un problema di bioetica, voi dovete chiedervi “a quale concezione
dell’uomo io debbo rispondere?” Già Carlo Casini aveva ben introdotto la distinzione che io facevo
già quaranta o cinquanta anni fa in materia di sperimentazioni, trapianti ecc. tra la concezione
utilitaristica e la concezione personalistica. Che cosa si intende per “concezione utilitaristica”?
L’uomo, l’essere umano è uomo-cosa, è uomo- massa ed è uomo- mezzo. Questa concezione
utilitaristica postula la massima disponibilità dell’essere umano. Tutti i misfatti commessi nella
storia contro l’essere umano sono sempre stati compiuti in nome dell’utilitarismo. E noi possiamo
avere tre tipi di utilitarismo: l’utilitarismo collettivistico-pubblicistico, che ha dato luogo ai più
grandi misfatti della storia, dalla rupe di Sparta fino alle tragedie poste in essere da una pseudomedicina nazista al servizio della più tragica connotazione totalitaria del secolo scorso. Ma abbiamo
anche una forma più blanda, cioè l’utilitarismo maggioritario di tipo anglosassone, ossia della
maggior felicità per il maggior numero di persone. L’Inghilterra sta sprofondando in un mare di
amoralità, proprio in base a questa concezione utilitaristica maggioritaria, che ha portato ad
effettuare, ad esempio, le sperimentazioni sugli esseri predisposti, le cavie umane, i condannati a
morte, i moribondi, i malati di mente, i vecchi, i bambini, gli studenti di medicina, i soggetti non
paganti, i soggetti appartenenti a culture retrograde o di bassa cultura. Poi abbiamo la cultura
utilitaristica di tipo egocentrico- individualista, che è quella che rappresenta in gran parte o si
credeva che rappresentasse la cultura dominante egemone di questo Paese. Che cosa predica questo
utilitarismo della “mia maggior felicità senza vocazione alla solidarietà, all’apertura agli altri”?
Predica che in nome del consenso della libera scelta del soggetto tut to diventa lecito; si
liberalizzano senza limiti l’aborto, l’eutanasia, il suicidio, la sperimentazione, la fecondazione
assistita senza limite, l’embrio-omicidio, l’embrio-sperimentazione, l’embrio-commercio ecc..
Ben diverso è il discorso per quanto riguarda la concezione personalistica. L’uomo è uomo- valore, è
uomo-persona ed è uomo- fine. Qual è il corollario? L’indisponibilità dell’essere umano. E quattro
sono i principi che operano in materia, che dovrebbero essere l’ago della bussola per voi medici. Il
primo è il principio della salvaguardia della vita e della salute del paziente. Il secondo è il principio
della salvaguardia della dignità della persona umana. I terzo è il principio di uguaglianza e pari
dignità di tutti i soggetti. Il quarto è il principio del consenso. Tenete presente che la concezione
personalistica è il punto di incontro possibile tra culture monoteistiche e, in modo particolare, la
cultura cattolica e la cultura autenticamente laica. Perché non bisogna mai dimenticare che
l’autentico pensiero laico – e non quello laico che circola correntemente – è una cultura ispirata al
principio kantiano che l’uomo è un fine e che l’uomo è un valore. Ed è proprio su questo punto che
è possibile incontrare il mondo laico. Tenete presente che nella campagna refendaria non vi è stato
uno scontro tra cattolici e laici, ma vi è stato uno scontro profondo – anche se non sempre avvertito
– tra la cultura della vita e la cultura della morte. Cultura della vita che è difesa sia dai cattolici sia
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dagli autentici laici; contro invece il laicismo dominante, che ha finito per essere la caricatura della
laicità. Perché è finito per diventare, se mi consentite l’espressione, la “cultura dei genitali” e la
“cultura della morte”. Questo è il laicismo che in qualche misura caratterizza questa povera civiltà
occidentale, che è sempre più vecchia, sempre più stanca, sempre più triste, sempre più depressa e
sempre più ingrugnita – anche per merito di questa cultura.
Primo problema: se in caso di prognosi grave, letale (tanto più se certa) prevalga il diritto del
paziente ad essere informato ed il dovere del medico ad informare, stante il consolidato principio
del consenso informato, sancito da due norme costituzionali o a tacere, per umana pietà e, magari,
per non pregiudicare le residue possibilità di reazione del soggetto. E’ certamente vero che il
consenso, per essere valido, deve essere consapevole. Per essere consapevole, deve essere
informato. Però questo consenso consapevole vale nella stessa misura anche per i soggetti con una
prognosi tragica? Io credo che la soluzione più equilibrata sia questa. E, cioè, della prevalenza del
diritto del malato di essere pienamente informato se manifesta una volontà ferma, razionalmente
motivata, quindi inequivoca circa il bisogno di conoscere la verità, avendo il malato il diritto di
programmare la propria vita, ma anche di programmare la propria morte, di assolvere ai propri
doveri religiosi, di sistemare una situazione economica, di disporre per testamento, di finire un
manuale di diritto penale, ecc.. Questo obbligo, invece, di informare, si attenua, a mio avviso,
laddove manchi questa inequivoca volontà di conoscere. Anche perché i medici sanno – e io durante
i miei soggiorni e le visite ospedaliere come paziente ho potute constatare – che una gran parte di
soggetti, di qualunque livello culturale, non desiderano conoscere. O desiderano essere informati
solo parzialmente. Per cui il medico evidentemente ha il dovere di informarli, ma non ha il dovere
di imporre loro un’informazione oltre i limiti in cui è richiesta. Sicché il medico in questi casi è
tenuto non ad illudere, non alla menzogna – che può essere la via più comoda per il medico – a non
celare la gravità del male, ma nemmeno a terrorizzare il paziente o, quantomeno, a non togliere un
barlume di speranza per non sottoporre il paziente ad una sofferenza psicologica non strettamente
necessaria o, comunque, per non pregiudicare le sue ultime possibilità di reazione. Tutto questo,
evidentemente, sul freddo piano giuridico, oltre il quale si aprono gli spazi extragiuridici, medici e
familiari della cultura dell’accompagnamento del soggetto alla morte (solidarietà, vicinanza,
compartecipazione e rispetto per la vita che sta spegnendosi).
Veniamo al secondo problema giuridico: se il malato terminale a conoscenza della sua situazione
chiede al medico di non sottoporsi a terapie o di interrompere la terapia in atto. Siamo di fronte alla
cosiddetta eutanasia passiva consensuale. E’ un’espressione evidentemente fuorviante e impropria,
che con l’eutanasia passiva consensuale non c’entra. Ma si tratta del diritto al rifiuto delle cure, che
non è altro che il correlato del principio del consenso dell’autodeterminazione. E qua si apre
brevemente un discorso sul consenso informato, che da un punto di vista filosofico ed ideologico
attesta il passaggio fondamentale dalla concezione paternalistica dei doveri del medico, per
definizione “benefattore” e “onnidecidente”, alla cultura personalistica dei diritti del paziente alla
vita, alla salute ed all’autodeterminazione, cioè alla partecipazione di tutto ciò che riguarda le
decisioni che concernono il suo corpo. Sul piano pratico ed operativo, il consenso informato
dovrebbe anche svolgere una funzione umanizzante e rasserenante del buon rapporto fiduciario
medico/paziente, in quanto il consenso informato è un momento di quel rapporto biologico che
dovrebbe anche ridurre le possibilità di contenzioso con il paziente e con i familiari. A meno che il
medico non abbia sfortuna di trovare il solito paziente querelomeno o l’avvocato molto
intraprendente o il soggetto-paziente che ha il senso degli affari. Ma questo evidentemente rientra in
un altro ordine di considerazioni. Sul piano giuridico, il consenso è il fondamento primario dei
poteri-doveri del medico. E’ un dato che, col consenso del soggetto, non tutto ciò che fa il medico è
lecito. Tutt’altro. E’ anche vero che senza il consenso reale o presunto del paziente, l’intervento è
illecito. Qual è il corollario? E’ che, se il soggetto ha il diritto di consentire, ha anche il diritto di
rifiutare le terapie, di non curarsi, di lasciarsi morire. E qua dovrei porre chiaramente una
distinzione tra quello che è stato detto benissimo prima sul piano filosofico, deontologico ecc., e sul
piano strettamente giuridico. Dire che il soggetto può rifiutare le cure, può rifiutare di curarsi, può
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trascurarsi o lasciarsi morire non vuol dire assolutamente riconoscere il diritto al suicidio. Si vuole
soltanto dire che sul piano giuridico non è possibile imporre coattivamente la salute e la terapia al
soggetto. Perché, altrimenti, si scivola su una china pericolosa, che è l’obbligo di curarsi, che
sconfina in una visione totalitaria dell’essere umano, perché coinvolge l’intera esistenza (il vestito,
il mangiare, la cano ttiera di lana d’inverno, il fumo, il sesso), coinvolge tutta la disponibilità
dell’essere umano. Con questo, sia chiaro, non si vuole programmare un diritto al suicidio. Come
vedremo, gli stessi sostenitori del diritto al suicidio lo invocano soltanto e limitatamente
all’eutanasia, perché altrimenti si arriva a qualcosa di assurdo: poiché tante persone avrebbero le
loro buone o cattive ragioni per non vivere, evidentemente che cosa può capitare? Che qualunque
medico può essere invocato perché finisca per uccidere il sano, il malato, il vecchio, il giovane, ecc.
La distinzione è diversa dal punto di vista giuridico, cioè noi abbiamo la disponibilità del proprio
corpo manu propria. Cioè, in quel caso lì, se il soggetto si suicida, dalla Rivoluzione Francese in
poi non è più un fatto punibile. Però resta un disvalore giuridico, perché tutte le attività che
favoriscono o agevolano il suicidio sono giustamente e anche severamente punite. Altra cosa è
invece la disponibilità per mano altrui, per mano del medico, la quale evidentemente a tutt’oggi è
vietata, come meglio vedremo. Dall’altra parte, lo stesso Articolo 32 della Costituzione dice che i
trattamenti sanitari obbligatori sono soltanto quelli espressamente previsti dalla legge. E
l’interpretazione corrente è nel senso che il trattamento obbligatorio legislativo si ha quando vi è
una coincidenza tra l’interesse della salute del soggetto e l’interesse della salute della collettività,
come si verifica per quanto riguarda tutte le vaccinazioni contro le malattie infettive. Premesso
questo, l’interruzione della terapia da parte del medico su richiesta chiara, inequivoca del
paziente… Perché non basta che il paziente dica “voglio morire, lasciatemi morire…”; voi dovete
essere dei buoni psicologi per capire effettivamente dove c’è una volontà. Ma dove c’è questa
volontà, evidentemente il medico deve fermarsi. Se il potere-dovere del medico si fonda sul
consenso del paziente, quando questo consenso viene meno, viene meno il potere-dovere del
medico. In questo caso il soggetto (il medico) non pone in essere nessuna omissione e la morte del
soggetto non è a lui imputabile giuridicamente come omicidio omissivo. Tutto questo sul piano di
principio. Ma sul piano pratico, le cose vanno in gran parte in modo diverso, perché questo rifiuto
delle cure ha un carattere decisamente eccezionale, non solo in forza degli istinti di conservazione
che porta la quasi totalità dei pazienti a pretendere dal medico il massimo sforzo. Se occorre, fino al
miracolo. Ma anche perché l’atto di volontà del rifiuto, per essere valido, deve avere dei requisiti
precisi, che difficilmente si riscontrano nei malati terminali. Cioè, deve essere un atto di volontà
personale; non può essere del rappresentante legale dei minori o dei malati di mente. Questi
possono soltanto agire nell’interesse della salute del paziente e non contro la salute e la vita. Ma
neanche evidentemente dei familiari. Innanzitutto perché i familiari come tali non hanno nessuna
rappresentanza legale. In secondo luogo, perché chi sono i familiari o i congiunti? Quando si crea
un conflitto tra la moglie che vuole liberarsi del marito e, che so, l’amante che preferisce che quello
sopravviva, voi capite qual è il problema. Ma soprattutto perché non è affatto detto che i congiunti
siano i migliori rappresentanti del malato. Pensate all’ipotesi della vecchietta straricca che si ostina
a non morire e ad agli eredi che evidentemente non vedono l’ora che si verifichi l’evento “fausto”.
Inoltre, il consenso deve essere non presumibile: non si può desumere sulla base della tormentosità
e incurabilità del male, della morte imminente, ecc. Deve essere attuale, o comunque, persistente,
non bastando una qualunque volontà espressa in un periodo precedente, data la mutabilità dei pareri.
A questo punto, evidentemente, si pone il problema del testamento di vita. Che poi è testamento di
morte. Siamo di fronte a quelle bugie, slealtà semantiche di cui tuta la bioetica è farcita. E’ un
testamento biologico, cioè è una dichiarazione di rinuncia alla terapia in caso di evenienze
patologiche con perdite di coscienza. Ebbene, il testamento biologico è genericamente ammesso
dalla Convenzione di Oviedo, che dice che laddove il soggetto ha espresso dei desideri prima di
entrare in stato di incoscienza, questi vanno tenuti in considerazione. Evidentemente però, per
quanto riguarda la portata e i requisiti di questo consenso, rimette alle legislazioni nazionali. Sul
punto noi abbiamo tre indirizzi. Abbiamo l’indirizzo della vincolatività assoluta del testamento per
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il medico, costituendo esso l’espressione del principio di autodeterminazione, di autonomia,
comunque sia espresso e a chiunque sia espresso. Poi vi è, invece, la tesi della difficoltà di
ricostruzione dell’effettiva volontà del soggetto, per la non infondata diffidenza, sotto il profilo
pratico e applicativo, della volontà espressa dal soggetto, per la sua non-attualità del rifiuto e la
dubbia persistenza dello stesso, esistendo una differenza fondamentale tra una scelta espressa in uno
stato di lucidità mentale all’interno di una situazione esperienziale concreta dopo un approfondito
colloquio con se stessi, con il medico ed eventualmente con i familiari. E’ invece una volontà
burocraticamente affidata ad un documento, in un lontano momento di benessere e con una
valutazione astratta, distaccata dalle reali angosce di una vita che sfugge. Inoltre, vi è la difficoltà
della ricostruzione dell’effettiva volontà del soggetto, per l’ardua adattabilità del testamento alle
precise condizioni concrete del paziente, per le inaccettabili implicazioni della vincolatività assoluta
per il medico, che comporterebbe, ad esempio, il dovere (del medico) di lasciar morire, in base ad
un generico testamento fatto prima, il paziente affetto da una malattia in sé mortale ma curabile. La
soluzione più equilibrata è quella della vincolatività relativa, cioè subordinata prima di tutto alla
discrezione del medico: il medico può tener conto o non tener conto dell’indicazione che proviene
dalle dichiarazioni anticipate di fine vita. Il Comitato Nazionale di Bioetica puntualizza anche
alcuni requisiti fondamentali, cioè: la volontà formalmente espressa e documentata, inequivoca e
specifica circa le situazioni patologiche oggetto del rifiuto – ad esempio, trattamenti soltanto
posticipativi della morte, o i tipi di terapia rifiutati, come ad esempio le sole emotrasfusioni da parte
dei Testimoni di Geova e non altre terapie alternative – e, inoltre, la non sopravvenuta revoca anche
informale dell’atto testamentario da parte del paziente, anche se in stato di ridotta incoscienza. In
assenza di queste condizioni vale il principio di precauzione, cioè “in dubbio pro vita”.
Veniamo al terzo problema: l’eutanasia attiva in senso stretto, consistente nel provocare la morte
del paziente con comportamenti attivi. L’eutanasia attiva va distinta dall’eutanasia pura, che
consiste non nell’aiutare a morire, ma nell’aiutare a meglio morire, che è cosa profondamente
diversa. Perché l’eutanasia pura non ha mai posto dei problemi giuridici di liceità, in quanto è
sempre stato considerato lecito, o addirittura doveroso, non soltanto l’intervento medico che
guarisce il soggetto o posticipa il più possibile la morte del soggetto, ma anche l’intervento volto ad
alleviare le sofferenze del paziente. Voi sapete meglio di me che oggi esiste una medicina palliativa
che ha fatto dei grandissimi progressi in materia. Per cui, il dovere del medico è anche quello di
aiutare a meglio morire. Abbiamo poi l’eutanasia attiva non consensuale, che è la peggiore e che è
quella che va fortemente sanzionata, perché viola tre beni fondamentali: primo, il bene della vita;
secondo, la libertà del soggetto; terzo, viola anche il principio della pari dignità dei soggetti. I
soggetti hanno anche il diritto alla propria morte, di vivere la propria irripetibile esperienza della
propria morte, sia una morte conciliativa con Dio, sia una morte liberatoria, sia una morte
angosciante. Però il soggetto ha il diritto di vivere l’esperienza della propria morte. E nessuno può
privarlo di questo diritto. Veniamo all’eutanasia attiva consensuale, che è quella che crea
evidentemente i maggiori problemi. Vi sono degli argomenti pro e degli argomenti contro. Gli
argomenti pro – può darsi che io li abbia visti dal mio punto di vista e li abbia molto ridotti – però
mi pare che siano fondamentalmente due: la pietà per il soggetto che soffre e, in modo più radicale,
il diritto alla libertà sul proprio copro. Il diritto al suicidio per mano propria, ma addirittura il diritto
al suicidio assistito – un’altra, direi, di quelle bugie semantiche, perché evidentemente è un
omicidio commesso da un altro. Quali sono gli argomenti contrari? Io ne trovo molti. Sul piano di
principio: l’irrinunciabilità dell’intangibilità della vita come valore in sé. Per il credente, la sacertà
perché la vita è un dono e il soggetto ha soltanto l’usufrutto di questo bene della vita. Gli uomini
laici integrali ed autentici, come Roberto Bobbio, parlavano di un dritto alla salute ed alla vita e,
come tale, indisponibile. La vita è un valore dal suo primo palpito al suo momento terminale, che
non tollera delle segmentazioni. Se l’umanità perde il rispetto anche per una sola particella della
vita umana (ad esempio quella del concepito), perde il rispetto per l’intera vita. I mali che derivano
all’umanità dall’abbandono del principio dell’intangibilità della vita sono incommensurabilmente
superiori a quei piccoli e illusori benefici che possono derivare dall’aborto illimitato, dalla pena di
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morte e dall’eutanasia. Perché è lo stesso divieto assoluto alla eliminazione della vita che viene
messo in discussione. E’ il tabù dell’intangibilità della vita che viene profondamente leso.
Argomento di ordine pratico: è il pericolo dell’incontenibilità dell’eutanasia, perché sulla base del
movente pietoso, l’ambito dell’eutanasia si è andato via via dilatando: eutanasia pura, poi eutanasia
passiva, poi eutanasia attiva del soggetto moribondo, poi eutanasia del soggetto non moribondo, ma
sofferente. E direi che gli esempi storici li abbiamo anche recenti. E’ l’esperienza olandese: con
l’entrata in vigore della legge olandese, il Ministro della Sanità, quindi una fonte ufficiale, diceva
che vi sono stati centinaia di casi di eutanasia effettuata su soggetti senza il loro consenso, cioè su
soggetti incoscienti, su soggetti malati di mente, su soggetti curabili non terminali, su soggetti
affetti da sofferenze esistenziali o per solitudine da vecchiaia. Poi vi è la relatività umana della
diagnosi dell’incurabilità del male e della prognosi della morte imminente. Vi è un altro argomento:
la possibile sopravvenienza di nuovi trattamenti medico-chirurgici e della medicina del dolo re, che
possono trasformare in curabile o sopportabile una malattia prima incurabile o insopportabile, in
una volontà di vita l’estrema disperazione. Poi vi è la difficoltà di accertare la definitività e la
tormentosità della volontà e la temporaneità della volontà di guarire; la validità del consenso
prestato da soggetti sofferenti e terminali. E poi la fatale burocratizzazione dell’eutanasia in una
sbrigativa posizione di un visto, laddove le pratiche eutanasiche si moltiplicassero in consistenti
misure. Ma vi sono anche argomenti di opportunità e di profondo intorpidimento dell’identità
morale e professionale del medico nel suo potere-dovere di curare, ma anche di uccidere, e il fatale
aumento di sfiducia nella classe medica e nelle strutture ospedaliere con la presa di coscienza da
parte del soggetto malato che il medico ha anche il potere di infliggere il colpo di grazia. E il
coraggio della verità porta a ravvisare una coincidenza, forse non casuale, dell’ideologia e della
filosofia eutanasica con l’ideologia materialistica dell’uomo-piacere, che è imposto e reclamizzato,
pubblicizzato dalla cultura dominante. L’uomo-piacere, sempre giovane e scattante, longilineo,
profumato, stirato, restaurato dalla chirurgia estetica. L’uomo-piacere evidentemente che non lascia
posto all’uomo-dolore, la cui immagine va rimossa e obliterata anche attraverso l’eutanasia.
“Liberiamoci” è la grande bugia di un mondo che ha perduto la pietà per la morte e che invoca la
morte per pietà. La vera risposta ai problemi del fin di vita e innanzitutto alla riscoperta del mistero
e della certezza della morte, va ritrovata anche nella cultura all’accompagnamento alla mo rte. Più
solidarietà, più vicinanza, più compagnia, più condivisione della sofferenza che fanno venir meno la
richiesta eutanasica pressoché inesistente. Perché tutti i medici a cui ho parlato, compreso gli
oncologi i quali sono in prima linea, dicono che in genere non esiste una richiesta di eutanasia; e, se
esiste, è perché questi pazienti sono stati abbandonati totalmente. E’ la disperazione della solitudine.
Allora, io direi che l’eutanasia, più che un’esigenza scaturita dal basso, è la caratterizzazione
biologica di quelle persone che stanno bene. Questa è forse la spiegazione.
Terzo problema: eutanasia attiva in senso stretto. Fermo il principio dell’illiceità giuridica
dell’eutanasia, attiva e passiva, fatta l’eccezione dell’ipotesi del rifiuto delle cure, occorre
distinguere l’eutanasia non pietosa e di comodo dall’eutanasia cosiddetta pietosa consensuale.
Anche se è abbastanza arduo distinguere tra l’autentico movente altruistico della pietà per il malato
sofferente e un sottostante movente egoistico, opportunistico di tornaconto personale, mimetizzato
da pietà. Anche perché appare in qualche misura, a mio avviso, anacronistica questa improvvisa
esplosione di pietà collettiva, in un momento in cui l’umanità sta molte volte perdendo il senso della
solidarietà, che è più sensibile alla propria libertà che al dovere del servizio, che delega a
spersonalizzati servizi sociali quella solidarietà che è incapace di gestire in proprio. Comunque,
l’eutanasia non pietosa, ma di comodo va punita come omicidio comune. L’eutanasia pietosa
consensuale: oggi non vi è dubbio che è punita molto gravemente, perché o è punita come omicidio
(con pene non inferiori a 21 anni, o addirittura con l’ergastolo) o è punita come omicidio del
consenziente (con una pena che può andare da 6 a 15 anni). Per cui, il giudice, quando si trova
davanti a questi casi, o va contro la propria coscienza applicando pene abbastanza consistenti,
oppure trova degli espedienti, tira fuori delle circostanze attenuanti che non esistono, tira fuori la
capacità di intendere e di volere in quel momento, ecc.. L’eutanasia autenticamente pietosa dovrà
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essere punita meno gravemente sempre ché sia un delitto di autentica pietà per la vita che sta per
andare, che sussista la tormentosità e l’insopportabilità delle sofferenze per la constatata impotenza
delle terapie del dolore e con l’uso di mezzi non idonei per una morte indolore serena e rapida.
Il problema poi della morte cerebrale totale e dello stato vegetativo. Il problema, come voi sapete, si
è posto in modo particolare con l’avvento delle blande rianimazioni. E poi, secondo me, i casi sono
due. O non è ancora intervenuta la morte encefalica totale e irreversibile, come richiede la legge: il
soggetto non è morto e, quindi, non si può spegnere l’interruttore della rianimazione; in questo caso
evidentemente non c’è nessun accanimento terapeutico, perché la legge impone la continuazione del
trattamento. Oppure, invece, la morte encefalica è intervenuta ed è stata accertata coi parametri
indicati dalla legge. In questo caso, evidentemente, c’è il dovere di destinare il cadavere alla sua
naturale destinazione, alla polvere, ecc.. Anche in questo caso non c’è nessun accanimento
terapeutico. E’ il problema recente che si è posto per quanto riguarda i soggetti decorticati, cioè in
stato vegetativo permanente (ma è meglio dire persistente, perché è un’altra di quelle bugie
lessicali), e, quindi, la legittima interruzione della nutrizione e dell’idratazione, come viene
richiesto, magari nominando il rappresentante legale, come ha proposto un’illuminata commissione,
formata da un illuminato Ministro della Sanità. Questi diceva che in questo caso si nomina un
curatore, un rappresentante legale che è colui che stabilisce se cessare o meno la nutrizione e
l’idratazione. Mi pare che questo non sia sostenibile, innanzitutto perché il soggetto in stato
vegetativo non ha raggiunto la morte encefalica, quindi non è un soggetto legalmente morto, anzi la
morte encefalica può avvenire dopo molto tempo: 20 anni nel caso americano, 13 anni nel caso di
Milano. Nel secondo caso non è dimostrabile la totale incapacità in qualche momento da parte di
questo soggetto di una coscienza di sé e dell’ambiente, non è dimostrabile la totale assenza di
capacità di sensazioni. Quindi ad essi va riconosciuto il trattamento ordinario dell’alimentazione e
dell’idratazione, che non è accanimento terapeutico, perché non è un trattamento terapeutico. E’
soltanto lo standard minimo dell’assistenza. Se noi priviamo il soggetto dell’alimentazione e
dell’idratazione e se, per ipotesi, il soggetto è capace di sensazioni, il soggetto muore per fame e per
sete. E’ vero che qualcuno illuminato ha proposto di continuare ad applicare gli antidolorifici, ma
non mi pare che sia un problema da risolvere in questi termini. Veniamo alla nomina del
rappresentante legale, legittimato a chiedere l’interruzione della nutrizione e dell’idratazione. Zini
evoca la Convenzione di Oviedo, l’articolo 6. Io l’ho letto e per quel che sono riuscito a capire mi
pare che la Convenzione di Oviedo non dica assolutamente questo. Parla di rappresentante legale,
ma rispetto al minore e rispetto all’incapace di intendere e di volere, il quale evidentemente ai sensi
dell’articolo 30 della Costituzione e del Codice Civile ha il potere-dovere di educare, istruire e
mantenere il minore o l’infermo di mente. Il mantenere evidentemente implica innanzitutto il
mantenimento della vita e della salute. Siamo di fronte ad un caso talmente diverso da quello che
riguarda invece lo stato vegetativo persistente. Tenete presente che la Corte di Cassazione, con la
recente sentenza del 2005, ha negato, nel caso della donna di Milano, che il padre tutore della figlia
in quelle condizioni non ha potere di rappresentanza per quanto riguarda la decisione dei beni
personalissimi, come la vita e la salute. La verità è che oggi, più che esasperare il problema
dell’accanimento terapeutico, noi dovremmo accentuare l’attenzione sull’accanimento contro la
vita. Perché oggi siamo di fronte ad un accanimento estremamente esteso contro la vita in tutte le
sue manifestazioni, che mi chiedo se non sia un segno di decadenza, forse irreversibile, di questa
società occidentale, in quanto ci sono tut te le componenti di crisi delle grandi civiltà. Poi lo Spirito
Santo, nella sua sapienza, può spingere il proprio vento in direzioni che noi non riusciamo a
comprendere. E’ certo che questa società occidentale qualche problema di crisi lo pone. Grazie.
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