il dono di Pietro

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MARIANO FRESTA
«La circolazione di uomini, attività, beni nei ‘canti di questua’».
Ovvero: il dono di Pietro.
1.- L’inizio della mia attività di ricercatore nel campo demologico fu del tutto fortuito.
Nell’estate del 1974, l’allora sindaco di Montepulciano mi chiese di trovargli degli esperti per
organizzare un convegno sul Bruscello, una forma di spettacolo popolare che negli ultimi trent’anni
si era trasferita dalle aie contadine a Piazza Grande, davanti al pubblico dei turisti.
La formazione universitaria mi aveva indirizzato verso gli studi linguistico-filologici; e
d’altronde l’esito dell’unico esame di tradizioni popolari non era stato molto brillante perché,
abituato alle lezioni della docente titolare, mi trovai un po’ in difficoltà con il rigore di Sebastiano
Lo Nigro, che era di commissione. Non avevo, dunque, competenze per aiutare il sindaco; ma
durante le riunioni del sindacato della scuola avevo conosciuto, come professore di Storia delle
Tradizioni popolari a Siena, Pietro Clemente; a lui quindi mi rivolsi per l’organizzazione del
convegno. Il quale è ancora ricordato da chi vi partecipò per la vivacità e la puntualità delle
discussioni su tematiche che avrebbero segnato i successivi studi e riflessioni non solo sul teatro
popolare tradizionale, ma anche sulla museografia etnografica e sul folklore in generale1.
Per il convegno occorreva preparare qualche relazione sulle forme di spettacolo popolare
della zona (sud della provincia senese e, in particolare, la Val di Chiana). Pietro mi affidò l’incarico
di raccogliere notizie, sia a livello di bibliografia, sia per mezzo di interviste. Le mie inchieste si
concretarono in un breve intervento al dibattito.
Dopo il convegno, Pietro mi chiamò a svolgere per i suoi studenti delle esercitazioni sulle
tecniche e i modi della ricerca sul campo. Fu così che cominciò la nostra collaborazione, piuttosto
intensa nei primi anni, saltuaria e non più legata all’attività accademica dal 1984 fino ad oggi.
Sull’onda del convegno, continuammo la ricerca sul teatro popolare tradizionale che ci impegnò
per circa sei anni; oltre che del Bruscello, ci occupammo della Vecchia e della Maggiolata. Le
prime due forme (una epica, l’altra comica) erano già scomparse quando cominciammo la ricerca,
appartenevano ormai alla memoria degli informatori; quindi, in un primo tempo, giacché si trattava
di reperti e non c’era nessuna possibilità di assistere a qualche loro rappresentazione, ci limitammo
a prendere atto dei concetti e delle categorie interpretative presenti negli studi di Frazer e Paolo
Toschi. La terza forma, la Maggiolata, ancora in auge a Castiglione d’Orcia (Si) e in altre località
toscane, offriva molteplici temi di riflessione, presentandosi come un fenomeno complesso, difficile
da “razionalizzare” ma capace di suscitare interessanti suggestioni. Ci si accorse subito che gli studi
del D’Ancona, del Toschi e di altri, avendo tralasciato alcuni aspetti del fenomeno, erano
insufficienti a dare risposte esaurienti e convincenti.
Il convegno s’intitolava «Forme dello spettacolo della tradizione popolare toscana e cultura moderna» (Montepulciano, novembre
1974), i cui atti si trovano in Teatro popolare e cultura moderna, Vallecchi, Firenze 1978. Tra i partecipanti al Convegno mi piace
qui ricordare A.M. Cirese, S. Lo Nigro, Luigi Lombardi Satriani, S. Liberovici, P.G. Solinas, G. Venturelli, A. Milillo, F. Pasqualino,
J. Vibaek e, ovviamente, Pietro Clemente.
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Cominciammo a seguire, ogni 30 di aprile, la Maggiolata non solo a Castiglione d’Orcia (SI),
ma anche in tutta la Maremma grossetana e livornese, dove in quegli anni ebbe luogo un forte
revival della festa.
Io mi interessavo alla Maggiolata di Castiglion d’Orcia, da cui ero restato fortemente
affascinato, tanto da seguirla per molti anni come studioso e, come appassionato ammiratore, ancora
oggi. Anche Pietro fu attratto dalla Maggiolata e in quegli anni scrisse diverse pagine piene di
simpatia per essa, impegnandosi tuttavia a studiarla approfonditamente e a riflettere su alcuni temi
ignorati dagli studi precedenti 2.
E così, mentre io mi fissavo sul mito e sul rito, Pietro veleggiava verso una spiegazione non
positivistica e non romantica del fenomeno. Per me, infatti, la Maggiolata rimaneva una gioiosa
cerimonia festiva, per lui essa era già uno “spettacolo itinerante con questua” come, dopo qualche
tempo, l’avrebbe definita. Per lui, infatti, la “questua” e il dono, a essa connesso, rappresentavano
un problema da risolvere, perché elementi “diversi” rispetto agli altri aspetti ritualistici e festivi;
voleva, infine, cercare il nesso che legava la cerimonia primaverile (o altre feste similari) ai doni
(uova, farina, vino e poi denari) che le famiglie ospitanti offrivano al gruppo dei questuanti.
Dopo diversi anni di ricerche e di riflessioni, giunse il tempo di mettere nero su bianco. Così
nel volume Vecchie segate ed alberi di maggio. Percorsi nel teatro popolare toscano
(Montepulciano 1983), che raccoglie buona parte dei risultati del lavoro svolto da docenti,
collaboratori e studenti, trovarono ospitalità due saggi, uno, molto corposo, di Clemente sulla
“circolazione di uomini, attività e beni nei canti di questua”, e il mio sulla Maggiolata di Castiglione
d’Orcia. In questo contributo, su consiglio di Pietro, per la prima volta mi cimentavo a
rappresentare in forma grafica la tradizione e il suo svolgimento, invece di limitarmi alla solita
esposizione verbale scritta: si trattava di rendere immediatamente comprensibile e con maggiore
rigore logico, (usando mappe di itinerari, istogrammi e tabelle), le modalità e le fasi importanti della
Maggiolata, cui, sempre su suggerimento di Clemente, era stato cambiato nome, diventando canto
itinerante con questua, con l’intento di definirla meglio.
2. – Era appunto la questua che attirava l’attenzione di Pietro e soprattutto quella parte di
essa, definita come “dono” dagli etnografi, che vede protagonista la famiglia ospitante che agli
auguri dei maggiaioli risponde dando loro cibo da consumare o sul posto o in un pranzo successivo
(recentemente il denaro ha sostituito i beni alimentari). In effetti, questa controprestazione pone dei
problemi, perché se i maggiaioli offrono solo canti propiziatori, che apparentemente non costano
nulla3, dall’altra parte gli ospitanti si privano di qualcosa (cibo o denaro) per donarlo agli esecutori
dei canti. Come bisogna considerare questo dono? Come ricompensa per il “lavoro” svolto, come
scambio economico, oppure come scambio cerimoniale?
Nel volume citato, Clemente affronta queste problematiche nel saggio La circolazione di
uomini, attività e beni nei “canti di questua”. Riflessioni teoriche-metodologiche. Per cercare di
capire meglio il funzionamento delle feste e delle cerimonie rituali in cui c’è la presenza della
CLEMENTE-FRESTA, Forme dello spettacolo popolare in provincia di Siena, in «Biblioteca teatrale» n. 17, 1976; CLEMENTE,
Problemi della ricerca sulla cultura popolare: una esperienza nel senese, in AA.VV., Tradizioni popolari e ricerca etnomusicale,
ARCI-FLOG, Guaraldi, Firenze 1976; ID., Maggiolata e Segalavecchia: note metodologiche su due “cerimonie” tradizionali, in «La
festa tra semiologia e antropologia», Nuova Guaraldi, Firenze 1981; ID, E’ ritornato maggio con canti, rose e fiori, «La Voce del
Campo», Siena 28 aprile e 5 maggio 1994.
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In effetti il gruppo che agisce la Maggiolata “spende” dalle 12 alle 16 ore di tempo per percorrere tutto l’itinerario della cerimonia e
si addossa la fatica del camminare, del cantare e suonare, del mangiare e del bere.
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questua e del dono, Clemente passa velocemente in rassegna molti fenomeni simili alla Maggiolata
e ricorre al confronto con il saggio, di impianto strutturalistico, su La chasse au putois: essai
d’analyse structurale d’une fête di Marianne Mesnil4; ma il confronto si risolve con il riconoscere
che lo strutturalismo non sempre è uno strumento euristico efficace e che va usato con estrema
cautela. Meglio, quindi, rifarsi agli studi di Van Gennep e di Mauss.
Egli esamina la questione da diversi punti di vista: quello giuridico, quello economico,
quello cerimoniale. Ci sono da capire e risolvere alcuni aspetti “strani” della festa, che riguardano lo
scambio fra maggiaioli e famiglie ospitanti: lo scambio, infatti, appare ineguale (da una parte i
canti, dall’altra, beni alimentari o denaro) ed anche asimmetrico (da una parte un piccolo gruppo di
persone, dall’altra l’intera comunità o buona parte di essa).
Sia l’analisi giuridica che quella economica danno del dono definizioni qualche volta vicine
al significato che assume la “donazione” nei canti di questua, e molte altre volte assai lontane. Nei
riti cerimoniali, infatti, il dono «può avere conseguenze accidentali di tipo giuridico» in quanto tra i
soggetti (questuanti e donatori) si instaurano rapporti che «somigliano a rapporti giuridici
impliciti»5. D’altro canto, anche l’analisi economica, secondo la quale la donazione di beni
alimentari potrebbe essere intesa come «compenso di una prestazione» è poco convincente, perché
segnala soltanto «un fenomeno di circolazione, di trans-azione, di mobilitazione di energie e
risorse»6.
Non resta dunque che rinviare tutto «a una categoria di scambio cerimoniale che sembra far
parte della grande tematica del dono»7. Per arrivare ad una conclusione, tuttavia, occorre cambiare
prospettiva e mettere sullo stesso piano sia i doni alimentari, sia la prestazione canora del gruppo
questuante. In breve dobbiamo considerare come dono le strofe augurali dei maggiaioli e la loro
visita alle famiglie ospitanti. Nel sistema della cerimonialità, cioè «nelle circostanze speciali
calendariali», anche le visite di casa in casa e le prestazioni espressive, che presuppongono un
lavoro e una fatica, possono essere equiparate ai beni alimentari per la cui acquisizione sono serviti
ugualmente lavoro e fatica. L’operazione forse non è convincente del tutto ma rende possibile dare
un significato al “dono” e capire “perché” si fa.
Credo che questa ipotesi avanzata da Pietro Clemente troverebbe maggior forza di
convinzione se si ragionasse diversamente sul dono costituito da beni alimentari. Il cibo, infatti, ha
in certe occasioni un significato propiziatorio; nel banchetto nuziale delle comunità contadine, per
esempio, l’abbondanza del cibo non può essere spiegata semplicemente con il fatto che durante la
festa ci si rifà della fame quasi mai soddisfatta; nell’occasione delle nozze, di un passaggio quindi
da uno status a un altro, le numerose portate del pranzo costituiscono l’augurio che la famiglia dei
novelli sposi possa godere per tutta la vita di cibo abbondante. Nel caso della maggiolata e di feste
similari, che sono sempre riti di passaggio (da una stagione all’altra), dunque, il cibo assume una
valenza identica a quella del canto propiziatorio: come questo invoca la natura e la invita a essere
prodiga di frutti e di raccolti, così i beni alimentari offerti devono auspicare che, per l’anno
successivo, tutta la comunità abbia abbondanza di cibo o almeno di che vivere.
In Toscana, ma anche altrove, i gruppi che girano di casa in casa in determinate occasioni
calendariali e che offrono prestazioni espressive e ricevono beni alimentari, sono soliti lanciare, con
strofette apposite, maledizioni contro chi non offre loro nulla e rifiuta la visita rituale. Le invettive,
Il saggio si trova in Trois essais sur la fête. Du folklore à l’ethnosemiologie, «Cahiers d’étude de sociologie culturelle», n. 3, 1974,
Université de Bruxelles Ed.
5
Clemente P., p.151.
6
Ibidem, p. 153.
4
7
Ivi.
4
però, nonostante una certa violenza verbale hanno anche un tono ironico che ne allevia la cattiveria.
Inoltre, esse sono solo auspicate e la loro eventuale realizzazione è demandata a vaghe entità
estranee al gruppo: è il fulmine, infatti, che deve incendiare il pagliaio, sono i predatori e le malattie
che devono insidiare gli animali ( e t’entrasse la volpe nel pollaio – e ti morisse le bestie vaccine,
ecc.), è una malattia indefinita (“un accidenti”) che deve colpire la famiglia inospitale.
Nei paesi situati sui lati orientali dell’Etna, precedentemente alla seconda guerra mondiale, il
primo gennaio di ogni anno, gruppi di ragazzi giravano per le strade per la questua rituale. La
richiesta di doni era accompagnata dal seguente distico: e si non cci dati ‘a strina – v’ ammazzamu
‘a megghiu iaddina (“se non ci date la strenna – vi ammazziamo la gallina migliore”).
La testimonianza toscana e soprattutto quella siciliana, che attribuisce allo stesso gruppo la
volontà di eseguire la pena minacciata nel distico, ci confermano che nelle cerimonie rituali il dono
(sia quello offerto, sia quello restituito) non è libero e spontaneo ma obbligatorio. Ci si può sempre
esimere dal dare, ma rischiando che buona stagione e abbondanti raccolti non si avverino; e ci si
può sempre esimere dal restituire, ma mettendo a repentaglio i propri beni, perché se non sono i
ragazzi ad uccidere la gallina migliore, c’è sempre la possibilità che fulmini, volpi e malattie
puniscano chi si è sottratto ad un obbligo rituale. Il che dà ragione a Mauss secondo il quale il dono,
per quanto spontaneo, non è libero perché ha in sé l’aspettativa della sua restituzione. Riportandoci
al caso nostro: i maggiaioli spontaneamente (nessuno li obbliga, infatti) si recano presso le famiglie,
cantando versi augurali ma si aspettano che le famiglie offrano uova, farina, vino, frutta, ecc.
L’aspettativa, infine, deve essere soddisfatta; e così canti augurali e beni alimentari assumono lo
stesso valore, rispettando il meccanismo del dono che si articola nei tre momenti fondamentali,
individuati da Mauss, basati sul principio della reciprocità: Dare – Ricevere (il dono deve essere
accettato) – Ricambiare.
3.- Grazie ai suggerimenti di Pietro ho potuto esporre lo svolgimento della Maggiolata di
Castiglione d’Orcia non più in una forma etnografica, che spesso coglie gli aspetti importanti senza
spiegarne il significato e il perché della loro presenza, ma in una stesura in cui il rigore scientifico
fosse predominante sulla letterarietà dell’esposizione. In fase di preparazione del volume, di cui mi
era stata affidata la cura, ho letto poi il saggio di Pietro sulla circolazione di uomini e beni, che mi
ha fatto capire perché mi aveva suggerito di usare strumenti conoscitivi a me fino a quel momento
estranei. Si trattava, in effetti, di trasportare lo studio di un fenomeno folklorico dal piano del
pittoresco e della curiosità storica a quello della scientificità antropologica, di dimostrare, cioè che,
dietro la banalità del pane e prosciutto donato ai maggiaioli, si nascondono rapporti e legami
profondi su cui si fonda da molti millenni la coesione delle società umane.
Pietro, quindi, senza darlo a vedere, esercitava su di me la funzione del “maestro” e della
guida. E credo che questo tipo di magistero egli abbia usato con tutti quelli che con lui abbiamo
lavorato, a prescindere dall’età e dalla qualifica con cui ci siamo presentati: insegnanti di scuola
media, studenti, ricercatori liberi, collaboratori di diverse esperienze.
Oltre, però, ad insegnarmi come si fa ricerca e come si devono studiare i risultati della
ricerca, Clemente mi ha inculcato l’idea che nel lavoro scientifico, insieme con il rigore
metodologico delle analisi, è importante usare anche la massima cautela. Quando ha visionato i miei
scritti, mi ha sempre suggerito di usare titoli del genere: “Brevi note … Cenni di … Primi tentativi”.
Sono espressioni che si trovano in tutti i suoi saggi e in tutti i suoi lavori anche quelli meno
impegnativi. E se i risultati delle indagini davano esiti sicuri, non ne ha mai proclamata
l’assolutezza: le sue conclusioni sono state sempre “provvisorie” pur se era chiaro che altre
5
conclusioni non potevano esserci. Così si legge anche nel saggio sulla circolazione nei “canti rituali
con questua”: «In assenza di una soluzione soddisfacente di analisi formale o di interpretazione …
ci limiteremo a proporre alcune focalizzazioni … lasciando da parte premature conclusioni»8 …
Attraverso l’analisi e la decifrazione del significato del dono nei canti di questua, Pietro,
dunque, mi ha insegnato a vedere di là da quello che i nostri occhi vedono, a studiare gli oggetti
folklorici con ottica e mentalità antropologica, ad essere rigorosi e nello stesso tempo prudenti e
privi di qualsiasi arroganza intellettuale.
Questo insegnamento è stato per me un dono, libero e spontaneo che Pietro mi ha fatto …
non so se sono riuscito a ricambiarlo.
15 GIUGNO 2012
8
In Vecchie segate … cit., p.149.
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