LAURA VANELLI, Grammatiche dell`italiano e linguistica moderna

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LAURA VANELLI, Grammatiche dell’italiano e linguistica moderna, Unipress Padova 2010
RECENSIONE a cura di D. Notarbartolo
Guardi i manuali e ti chiedi: niente di nuovo sotto il sole? Pare di no, eppure quanti cambiamenti nella
linguistica! Qualunque grammatica universitaria risulterà inattesa e incomprensibile a uno studente
delle superiori, tanto i mondi sono diversi.
L’anno di svolta dal quale l’autrice prende le mosse è il 1988: in quell’anno furono pubblicate sia la
Grammatica italiana di Serianni e Castelvecchi, il frutto più maturo e autorevole rispetto alla tradizione
della grammatica descrittiva, sia il primo volume dell’innovativa Grande grammatica italiana di
consultazione di Renzi-Salvi-Cardinaletti, primo tentativo - di grande respiro - di leggere l’italiano alla
luce della grammatica generativa. A partire da allora ci sono stati ottimi studi e una fioritura di
pubblicazioni, ma la grammatica scolastica è rimasta insensibile alle nuove teorie, appoggiandosi ancora
a definizioni poco sostenibili, che spesso sono fuorvianti o si prestano a controesempi. Proprio la
linguistica moderna fornirebbe gli strumenti per una descrizione più adeguata e aderente agli oggetti.
Da qui l’autrice parte per una ricognizione di molti aspetti critici delle definizioni in uso..
Nella prima parte (morfosintassi) troviamo smontati alcuni assiomi tradizionali. La frase principale non è
“autonoma”, ma piuttosto è reggente: le reggenti non autonome si spiegano bene all’interno della
grammatica valenziale, dove un argomento può essere espresso in forma di frase completiva. Il
pronome non sostituisce il nome ma un intero sintagma nominale, anche se questa indispensabile
categoria descrittiva non viene utilizzata. Il nome, che “indica” qualunque cosa e non persona-animaleo-cosa, può essere riconosciuto solo dalla sua funzione nella frase. la ricca esemplificazione chiarisce
tutti i passaggi.
In generale gli aspetti formali (morfologici) non sono sufficienti a descrivere le parti del discorso, se non
intervengono criteri combinatori-distribuzionali (sintattici), mentre i criteri semantici (“indica”) non
generano chiarezza. Nessuno di noi insegnanti sbaglia a distinguere un aggettivo da un pronome
possessivo, e lo fa ricorrendo non alla definizione ma alla presenza o assenza di un nome che fa da testa
del sintagma. L’autrice osserva che nei fatti l’adulto utilizza proprio i criteri distribuzionali e combinatori,
ma non se ne serve per spiegare agli allievi, perché il riferimento alla sintassi per trattare le parti del
discorso non fa parte del bagaglio teorico dell’insegnante (p. 69).
Come dico spesso facendo formazione agli insegnanti, facendo grammatica in classe noi “pensiamo in
italiano ma parliamo in turco”. Mi sento particolarmente vicina a queste posizioni della Vanelli:
nell’insegnamento si urta continuamente nelle contraddizioni di definizioni non solo non adeguate, ma
soprattutto astratte, cioè non procedenti dall’osservazione dei fenomeni. È il motivo per cui studenti
con DSA non riescono ad avvicinarsi al funzionamento della lingua, e studenti senza DSA fanno il doppio
della fatica.
Nella seconda parte del testo vengono affrontati punti specifici dell’organizzazione logico-semantica
della frase, fra cui la diversa posizione gerarchica dei cosiddetti complementi (complementi del nome,
dell’aggettivo, del verbo, della frase): per la loro descrizione bisogna fare appello sia al lessico sia alla
posizione nella frase. Questo è un modo per riorganizzare la ipertrofica materia dell’analisi logica in un
più rigoroso sistema. Ampia parte è dedicata alla distinzione fra soggetto, agente e tema, che tanta
confusione genera negli studenti (il soggetto che “compie l’azione” in realtà è anche agente, ma l’agente
può non essere soggetto e il soggetto può non essere agente, lo stesso per il rapporto fra soggetto e
tema). Può esserci convergenza lineare dei moduli semantico, sintattico e comunicativo nella frase
concreta quando soggetto, agente e tema coincidono, senza però che essi si identifichino fra loro (99102).
Mi pare infine molto importante la seguente osservazione (pp. 77 e 124-125): non vi è rapporto
biunivoco fra forma e funzione, sia nel livello morfosintattico che in quello frasale. Questa idea è la base
per riconoscere l’identità di funzione di avverbi, complementi e subordinate (es. l’avverbio di modo
ecc.). Tuttavia il rapporto fra forma e funzione è a mio parere un punto particolarmente difficile dal
punto di vista logico, perché genera inclusioni differenti nelle varie categorie. Ogni classe di parole
infatti svolge funzioni privilegiate, ma non le esaurisce, perché uguali funzioni possono essere svolte da
altri. In GrammaticaNuova questo principio viene utilizzato per spiegare ogni volta che cosa “fa” ogni
classe e “chi altro” può farla, e questo chiarisce la differenza fra verbo e predicato, fra nome e soggetto
e fra aggettivo e attributo.
Allo stesso modo è complesso comprendere il rapporto fra soggetto, agente e tema perché richiede la
percezione del reciproco intreccio dei diversi livelli semantico, sintattico e comunicativo nella frase
(sono i capitoli 4-5-6 di GrammaticaNuova). Questa distinzione è invece molto importante ai fini della
scrittura, dove i diversi livelli devono essere condotti intenzionalmente: grammatica e testualità si
avvicinano fra loro.
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