002. Le mutevoli prospettive della pesca I. L`auto procedeva allegra

002. Le mutevoli prospettive della pesca
I.
L’auto procedeva allegra. La velocità, nel nome del Padre e
del Figlio, poteva dirsi conveniente ad uno Spirito di circonvallazione
che non s’era mai santificato troppo in quel casolare strappato via ai
campi. Un borgo che prosperava vispo sugli ultimi quattromila devoti
autoctoni e s’un numero imprecisato d’azzardi domiciliari. Strapiantati
in tarda estate come baschi di salata riccia in una presa di lattuga. 1
Pio! Pio! Un pollaio a cespugli. Tutti più o meno incapaci di moderarsi
nelle questioni dell’amore effimero, sotto i fienili, dietro i sedili, in
mezzo alle aie… Uguale. E tutti perseguitati per questo da vigorose
circonvenzioni equestri, a dozzinate. Ma tutti, sotto quei cappotti neri
e le sottane al vento, tutti, sotto certi becchi finti o i tacchi alti, tutti,
sotto i tanti denti a spillo e i seni tondi e sodi, proprio tutti assai
prudentemente pieni di vita. Da andarci a votare la domenica
pomeriggio per riconoscenza. Pio! Pio! Anche due volte… Uguale.
1
Il pollame colto di Brazzaga, certi tacchini lucidi che hanno studiato alto in città, parla una
lingua piuttosto pittoresca una volta rincasata. Alla tipica poligamia delle nostre parti, essi
aggiungono infatti un caratteristico verso dal raffinato timbro cosmopolita. Gloglo! Gloglo!
E poligloglottano imbizzarriti come comari sotto spirito. Perché i termini d’ascendenza
anglosassone che contano qualcosa, come bàrs, uischionderòs, càtvegnauncàncars, ecc…
sono ormai patrimonio collettivo dell’intero pollaio, sant’Antonio incluso. Per non parlare
poi di quelli tradizionali greci e latini, come bàrs, uischionderòs, càtvegnauncàncars, ecc…
entrati a far parte del nostro lessico usuale sin dai tempi di Vercingetorige il gallo. Anche i
tipi da batteria sanno ormai come declinare un subdolo invito alla coque. Quello che invece
ci dà parecchio fastidio al fondo del nostro eclettico tubo digerente, mentre loro si
pavoneggiano e noi razzoliamo in circoli, è piuttosto la versione a dir poco cervellotica che
propongono della comune lingua madre. Oltre a qualche francesismo illuminato post Luigi
XVI e un po’ di wünderbar appreso sulle riviste di meccanica copulare, che possiamo
anche impegnarci a tollerare per il bene comune, come coi fondi perduti di Aristotele, il
volo delle quaglie al tramonto e i sogni di Nonna Papera, essi ritengono d’interpretare a
modo proprio l’originario pigolio da stalla, profumandolo con aromi zingari e traducendolo
in un idioma da dizionario chiocciaro. Gloglo! Gloglo! Senza rendersi conto alla fine che
solo un brazzaghese può comprenderlo, per quanto gli rimanga sempre un poco di traverso
sul medesimo tubo, e questo non è bello. Un brazzaghese seminato in Luna calante, come la
salata. Nella sua presa, ma anch in s’la màsa va bene. Basta che sia nostrana. In fondo non
importa dove ti mettono. Quello che conta davvero nella vita è strapiantare le eccedenze.
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Un’allegria dagli sfarzosi cerchi in lega, abbastanza prossima
in solerzia ai trecentomila chilometri al secondo, per chi è pratico del
mestiere. Sempre se non s’intuivano posteriori ragionare a chiappe
strette in disparte, di fisica anatomica, d’astrofisica intercostale, di
metafisica a quanti parcellizzati… Uguale. Allora si poteva anche
rallentare fino agli ottantacinque per farsi un’idea più consona del
contenuto. Minimo sei e mezzo. Come avvenne quella volta, perché
Diomede aveva intravisto un’incantevole Harley parcheggiata davanti
alla latteria ed intendeva tirarla a lucido con un paio d’occhiate
guardinghe. Quelle lì, se non altro, ancora più veloci della luce.
Mentre sollevava il piede dall’acceleratore, gli parve tuttavia
d’indovinare con la coda dell’occhio buono il beffardo trapasso d’un
semaforo dal verde al giallo. Infame, come se non avesse avuto altro
da fare quel giorno! La moto era piuttosto graziosa fisicamente, con
tutte le curve girate al posto giusto. Ma non valeva certo una sosta
forzata, soprattutto se di ruvida natura semaforica. Così accarezzò di
nuovo il pedale leopardato quel tanto che bastava per oltrepassare
indenne l’incrocio, evitando di patire i prepotenti soprusi del rosso.
Non aveva mai sopportato le prepotenze, lui, e ancora meno i
freni inibitori. Quando poi i concetti s’accapigliavano nel medesimo
pensiero leopardato, gli veniva un mal di testa a chiappe strette.
Perché non ci stava più altro lì dentro, quando il leopardo si metteva
a scarrozzare imbizzarrito come un elefantino blu della Lancia. O
quando mulinava le zampe a ripetizione, destre, poi sinistre, come le
signorine dell’Informagiovani, lasciando appena intravedere tutte le
disgrazie che ne sarebbero probabilmente uscite, un giorno. Mentre
l’elefantino, neanche a sellarlo, rimaneva sempre blu. E poi i ragazzi
lo attendevano giù al circolo della pesca per rifinire gli ultimi dettagli
della gara prevista per l’indomani. Dove non poteva mancare, lui che
deteneva ad un tempo il ruolo del favorito unico, del padrone di casa
illuminato e liberale, dell’inquilino illuminante e liberato... Uguale.
Un’occasionale sovrapposizione di ruoli che non celava alcun
interesse occulto. Del tutto provvisoria. Certo farsi dare del popolano
liberty spopolava sulla massa, dove l’appoggio del pollaio è sempre
stato indispensabile per conquistarsi un ruolo libertario. Per stare in
alto sulla scaléra e farla in testa agli altri più che riceverla, o solo per
scagliare di diritto un «Chicchiricchi!» mattiniero da far venire i riccioli
biondi a tutto l’elettorato avicolo. Pio! Piiiiiiio! Solo che Diomede non
manifestava in apparenza irrequietudini amministrative. Cercava più
che altro di realizzare un ideale d’uomo vero che forse qualche altro
buon commercialista doveva avergli suggerito in piena libertà, una
domenica pomeriggio. Può essere, tra i tanti riccioli in omaggio…
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Era invece un artista, lui. E volendo farsi maestro nel proprio
campo, dopo la maestra delle elementari s’era fatto officiante della
cerimonia. A un certo punto infatti la gara era diventata un autentico
rito a cui assisteva in religioso silenzio tutto il circondario e oltre, fino
in Cina. Col suo apostolo in canna tesa e mulinello, Diomede, il suo
anatroccolo da immolare nei turbinanti dopocena all’amo, Diomede,
e una sorta di rinascita redentrice evocata dalla rottura del guscio
originale a colazione. Giusto un po’ di sale per i bisognosi. E vista la
quantità di polli che ci sono da qui fino in Cina, è probabile che le
occasioni da amministrare fioccassero giù fitte come a Natale. Da
andarci a suggerire ideali agli imbecilli la domenica pomeriggio con
lungimiranza. E se non afferravano perché erano davvero imbecilli,
ma avevano l’agriturismo con laghetto, anche due volte al giorno.
L’evento si marcava in rosso sugli almanacchi del Po, da sé.
Si segnalava dritto in Questura, si appuntava sui frigoriferi blu della
Lancia. S’incideva sui banchi a scuola, in birreria, in chiesa, dove gli
avevano aggiunto una stazione della Via Crucis. A scuola, in birreria,
in chiesa. Breve, ma pur sempre indice d’una sobria popolarità.
Perché quella volta del corpo a corpo col pescecane più
rabbioso dei sette mari... tutto da solo sulla barchetta a remi, in balia
delle ponghe di mare… 2 E non aveva mollato mai, il cagnaccio.
Nemmeno quando le orribili pitone dei Sargassi 3 gli avevano munto
le budella… O quell’altra volta sul veliero, quando si era votato anima
e corpo alla caccia d’un maledetto siluro bianco… an lògar d’un
mètar… 4 che gli aveva tolto via il sonno arretrato, tanto era cattivo. E
zoppo anche. Una storia orribile, da non raccontarsi mai prima
d’infilarsi a letto la sera, altrimenti la trota s’agitava e buonanotte. 5
2
«Femmina da granaio che ama anche i litorali e le spiagge semideserte. Non disdegna le
isole atlantiche e nemmeno certi relitti alla deriva.» Trad. chiocciara dell’appunto mosso
dal sig. Bertazzoni, il quale aggiunse un intraducibile «Wilmer, li fò ‘l fömm!».
3
«Femmina da cortile particolarmente facile all’ira, specie se un maschio ancora ottimista
se la vuole infrigorare, tutto blu, alle spalle.» Trad. chiocciara dell’appunto mosso dal sig.
Bertazzoni, il quale aggiunse un intraducibile «Veh, Anacleto, at zarè mia in dieta, neh?».
4
N.d.C. La trad. chiocciara proposta dal maestro sarebbe «un ramarro che assomiglia tanto
a una balena bianca». Io però di ramarri simili non ne ho mai visti. Forse perché i ramarri si
confondono al contesto e confondono le idee anche a chi li guarda. Comunque i ramarri non
sono bianchi. Si sono fatti ramarri apposta per confondersi nella salata, mica in settimana
bianca. Magari qualche esemplare particolarmente fortunato ci va pure in montagna, ma è
solo per indossare i doposci che gli hanno regalato a Natale. Niente di che. E poi una
balena… Mi sembra invece più educato tradurre «un ramarro appena un po’ sovrappeso,
apparecchiato per la villeggiatura». Per maggiori dettagli Cfr. H. Melville, Moby Dick o La
Balena, 1851. Anche se poi era un capodoglio confuso in settimana bianca. E zoppo anche.
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«Femmina da quanto vuoi, quel che vuoi, dove vuoi.» Trad. chiocciara dell’appunto
mosso dal sig. Bertazzoni, il quale aggiunse un intraducibile «Avérgan, Palmiro...».
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Tutte ottime garanzie per una navigazione tranquilla nelle sue
mani. E lo scheletro zoppo che campeggiava immenso nell’ingresso
dell’agriturismo con laghetto, e che offriva un’ombra di conforto nelle
torride giornate estive, come in chiesa, lo ribadiva a quanti avessero
goduto dell’invidiabile sorte d’introdurvi entrambi i piedi in sequenza
scandita. E di riuscire anche a toglierceli dopo un paio d’ore scarse,
uno, due, come in chiesa, con scarpe, calzini e calzoni ben allacciati.
Secondo una direttrice grossomodo uscente, integrata intanto che
c’era da una visione sul mondo con inclinazione a dondolo, da farsi
tollerare oscillando fino ai quarantacinque gradi per parte. O almeno
fino al mattino dopo, infilati tra inebrianti lenzuola di seta. Coperte di
flanella invece se c’era umidità in golena, e se non è arte questa…
Già assaporava il leggero sobbalzo allo stomaco che si prova
affrontando un dosso a una certa velocità. Uuuh! Specialmente negli
incroci urbani più selvatici, dove la schiena dell’asino raglia via ch’è
una gioia. Quando un’orata mai vista, dell’efferata lunghezza d’oltre
cinquantacinque centimetri e il peso apparente di quindici o sedici
chili, ma chi può dirlo, dipendeva molto da cosa aveva mangiato a
cena la sera prima, s’andò a spiaccicare sul parabrezza della Giulia.
Chiunque in una situazione analoga si sarebbe spaventato a morte e
avrebbe frenato con tutta la forza avanzatagli in corpo. Alzando un
putiferio di gomma bruciata e catrame che se lo sarebbero ricordati
per anni in latteria, nei cappuccini, nei tramezzini. E anche dai vicini.
Non Diomede. Egli scrutava piuttosto l’occhio vitreo dell’orata.
L’amica squamosa cercava chiaramente di trasmettergli col pensiero
alcuni messaggi di saluto comprensibili soltanto a lui. Forse al signor
Spock… Meglio il tenente Ura con quel costumino rosso attillato...
Grazie ai rapporti esclusivi che aveva saputo guadagnarsi attraverso
le innumerevoli imprese marinare vissute con quasi tutte le creature
naviganti. Al varo, già navigate, appena appena navigabili... Uguale.
Si era certamente spazientita, la paperina, del timore di finire
impalmata tra le reti di qualche assurdo principiante. Non era vita
quella… Ecco che pertanto aveva deciso di concedersi al migliore.
Colui il quale, forse, non era proprio da solo quando avevano
pescato il pescecane dalle parti di Chioggia e tutto il resto della folla
lo spingeva in fondo al molo. Forse l’oggetto pescato quel giorno non
era nemmeno un cucciolo di pescecane. Più probabile un pescegatto
sovrappeso apparecchiato per la settimana bianca. E forse ancora lo
scheletro appeso al muro avrebbe addirittura rivelato un’eccezionale
consistenza gessosa, se distrattamente graffiato di nascosto con una
roncola da taschino. Del tipo medio, saranno sei o sette euro da
Malavasi. Ma la cui mirabolante fama era comunque nota in tutti gli
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oceani del globo terrestre. E avrebbe raggiunto a razzo anche quelli
della Luna, qualora il caro satellite si fosse messo al passo con i
tempi correnti, smettendola una buona volta di soccombere prono a
questa inconcepibile mania della ritenzione idrica. Solo il modo
sarebbe risultato discutibile. 6 Ma il fine, quello, giustificabile senza
pensarci due volte nel mezzo. Come quando la signorina Aldobrandi
telefonava per farlo giocare all’idraulico. Mai contenta quella, e forse
anche un po’ trota. Ma chi può dirlo, dipendeva molto da cosa aveva
mangiato a cena la sera prima. E allora via, più veloce della luce!
Per nulla sorpreso, non si chiese come mai un’orata di tali
dimensioni si trovasse in quel momento spiattellata a non più di
trentacinque centimetri dalla sua faccia. Tutta garbata. Né in quale
modo avesse potuto giungere fino a quell’incrocio di strade basse un
poco asinine e forse anche un po’ troie. In un borgo che prosperava
sempre vispo, ma che se ne stava pure a centottanta chilometri dal
mare, come un bagnino di fiume, come una trota da discesa libera,
come un paio di doposci usati e dimenticati al semaforo d’un incrocio
di pianura distante centottanta chilometri dal mare. Bianchi e un po’
sovrappeso. Come un basco di salata riccia in una presa di zucchine,
…qualche ramarro indeciso qua e là… Come piovendo dall’alto.
Egli notò al contrario un cartoncino colorato con l’effigie di
sant’Antonio abate spuntarle dalla bocca. Avrà avuto una zia molto
religiosa, persuasa che per il buon esito d’ogni impresa timorata, e
anche per proteggersi dai moscardini in calore, fosse necessario
portarsi in giro proprio quell’amuleto lì e non un altro. Giorno e notte
addosso come un assorbente con le ali, un disco dei Metallica...
Certo nulla a che spartire con il magico cornetto d’ebano di Tutmosis
IV, il Magnifico Alato, che gli aveva dato la sua di zie e che tuttora
ciondolava imperscrutabile dallo specchietto retrovisore. Un po’ a
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Cfr. N. Machiavelli, Belfagor Arcidiavolo. Il demonio che prese moglie, novella scritta
tra il 1518 e il 1527, probabilmente ispirata a un testo di J. Le Févre, per non dire copiata.
Del resto, come sanno tutti i più noti dj che intrattengono i pollai di questo mondo, il tasto
fine amplifica i mezzi toni, e quando uno vorrebbe viaggiare di finezza ma si ritrova per le
mani solo mezzi troioni, non può che adattarsi all’underground. E con questo non intendo
affatto giustificare il dottor Machiavelli. Dico solo che due righe nei Ringraziamenti poteva
anche aggiungerle. Quanto alla novella, è la storia d’un povero diavolo inviato da Plutone
sulla Terra per ammogliarsi e verificare di persona se, come dicono tutti gli uomini di
mondo, la vita matrimoniale sia davvero così insopportabile, peggio che stare all’inferno. Il
buon diavolo sposa dunque una fanciulla, che ben presto si rivela visionaria quanto basta da
incantarsi tutte le notti come un’oca a fissare la Luna, sognando chissà che poi. Non glielo
aveva spiegato mamma chioccia come vanno a finire certe cose? E infatti si prende la
cellulite. Per guarire dalla bassa marea, l’ochetta non trova allora di meglio che indebitare
L’arcidiavolo (1966, film di E. Scola) fino al collo. Questi, inseguito ovunque dai creditori
è costretto infine a tornarsene su Plutone con la sua cosmonave e tanto di coda tra le gambe.
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destra, un po’ a sinistra. Quello sì lo aveva salvato a ripetizione
quando tornava a casa ubriaco alle due di notte e voleva competere
alla pari con Ingemar Stenmark e Alberto Tomba, suoi grandi amici
d’infanzia, sulla riga spezzettata di mezzeria… Poi lui aveva avuto la
tendinite mentre gli altri le medaglie e allora…
Un particolare infine lo rapì. Osservò infatti sconcertato due
simpatiche calzette rosa, arrotolate con precisione maniacale e
posizionate nel punto esatto dove avrebbero dovuto trovarsi le pinne
ventrali del pesce. Come può una madre costringere uno splendido
esemplare maschio di tali dimensioni, ad andare ancora in giro coi
calzini di lana per non prendere freddo? si chiese, e per di più rosa?
«Certa gente non ha rispetto per la dignità maschile… cazzo!»
Pensò ad alta voce mentre muoveva nervosamente l’alluce sinistro e
rinveniva l’immancabile nausea che un calzino di lana in piena estate
gli procurava, appiccicandosi simultaneamente, rosa, al piede e alla
scarpa. «Non si rendono conto che siamo cresciuti… cazzo? e che
possiamo fare a meno delle loro petulanti attenzioni mattutine?»
Nello stesso istante in cui ripercorreva le molestie della madre,
cazzo…. l’auto ormai dimenticata investì e uccise Aurelio Beltrami.
Aveva poco più di due mezzi figli da qualche parte, e da appena dieci
minuti, diciamo anche quindici, aveva smesso di fare l’amore.
II.
«La scongiuro dottor don Curato, mi dia l’estrema assoluzione.
Son disperata, sconvolta, scapigliata… Sto troppo male. Trapasso…
Guardi come s’è arrossato il carpazio. Fin quasi bordeaux. Guardi…
guardi meglio sotto i bordi! Mi sento un essere improrogabile...»
E deglutiva a fatica, la fanciulla, ma due ottime polpe in fondo,
niente da ridire. Da stare lì a meditarsele per ore, anche due volte al
giorno. Mentre al dottore, che si guardava bene dal farsi curante se
non di sfuggita, era toccato in sorte un poderoso breviario.
«Non avrei dovuto ricaderci ancora… e invece ci sono blisgata
dentro come un uovo di palombo. Ma all’amor… sa come si dice…
non si domanda. Che cosa poi non so mica. Ma il mio cuore è troppo
scandinavo per questo soffritto così pieno. Lo giuro! Come un uovo.»
«Benedetta ragazza,» disse allora il priore sospirando. Lui che
nemmeno era più curato da un bel pezzo, ma concedeva ai paesani
che l’avevano conosciuto in quel modo, di continuare ad offenderlo.
Fa niente… Come se Curato fosse proprio il suo nome di battesimo.
Senza rendersi conto, immondi fittavoli da badile, di sminuirne così le
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sterminate qualità spirituali. E senza intendere peraltro che se uno è
già abate priore, dannati saltafossi d’ottobre, deve essere rispettato
fin nell’attributo. Quello che si porta sulle spalle prima di tutto, le sue
e di nessun altro. Riconoscimento che gli viene dalle più nobili sfere
celesti, che a loro volta girano e rigirano più o meno veloci della luce,
non è dato saperlo ai comuni mortali. Ma girano, c’è da starne certi.
«Ci vuole più rispetto…» minacciava allora dal pulpito preconciliare
della chiesa, in quei lugubri sermoni messi a fermentare col luppolo
sul disappunto che saliva tetro da un canestro sempre vuoto, anche
dopo ore e ore di manovre a sette canne, «…o il castigo vi colpirà
implacabile ovunque sarete presi, bestie che non siete altro di bestie!
Qualunque attenuante cercherete di partorire balbettando, schifosi…
cal che al ciapi... e bestie! Cum maxima et tremendissima poena! E
vergognatevi delle vostre insipide vite di pesca… aaah! cacvégna…
di peccatori luridi e meschini… fiöl d’un can, l’è scapà… E bestie!» 7
«Benedetta ragazza,» ripeté aggrottando severamente le folte
sopracciglia grigie, «ne abbiamo già discusso a lungo ieri e ieri l’altro,
e il giorno prima ancora. Il matrimonio è sacro e inviolabile. Tu non
puoi intrometterti fra due persone liberamente congiuntesi davanti al
Signore Altissimo, sia gloria e lode sicut in coelo et... et… et-chùm! 8
Il regolamento interno parla chiaro. Nero di china su bianco avorio. Al
massimo un seppia molto, molto scuro. Niente sfumature dubbie cui
attaccarsi coi denti, niente piselli verdi nel sugo. Niente moscardini
zigani d’intorno, non c’è verso alcuno. Nemmeno nel caso in cui non
si amassero più o non si fossero mai amati nella vita. O se lui
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N.d.C. Il maestro offre in questo passo una tipica rappresentazione di poligloglamia
interculturale. Un registro abbastanza colto ed elevato, sul genere Wild Turkey (Meleagris
gallopavo, Linnaeus 1758), viene sovrapposto in successione ad un secondo registro di
classe meno abbiente, tipo pollo da cortile, (Gallus gallus domesticus, Linnaeus 1758). Il
lettore arriva così a percepire la forte immagine d’un predicatore infervorato che saltella
mulinando indici come zampogne assassine sotto maniche bianche e viola, e che si suppone
dedito alla castità nei fine settimana, in alternanza allo stereotipo del pescator furioso, uomo
che s’alza presto il sabato mattina per andare a troie, con la scusa delle trote albine, e che
riesce a portarsi a casa dalla pescheria di copertura solo uova di palombo. Quelle che non
stanno in piedi neanche a pestarle e blisgano come ramarri sovrappeso giù dalla seggiovia.
Il lettore, oltre che per l’occhio vitreo, rimane impressionato dal marcato accento normanno
dei due loschi figuri. Questi infatti, una volta sovrapposti, incredibilmente coincidono.
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Trattasi di starnuto d’ascendenza capitolina, di complessa lettura, non lo nego. Un tipo più
anglosassone avrebbe preferito senza dubbio un monarchico «et-choom!» con tanto di
limone, un filo di latte intero, due biscotti scozzesi... Io, piuttosto di soccombere alla
dittatura chiocciara che m’avrebbe imposto un grottesco «ecciùm!» seguito da un altrettanto
imbarazzante «ma sbòrat Bartasùn!» ho scelto d’aderire allo spirito originario di quella
Repubblica seguita un tempo alla cacciata di Tarquinio, l’ultimo gallo che poteva ancora
permettersi di fare il superbo. Da allora solo collegi di capponi e fecondazione in vitro.
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amasse solo te da trent’anni, cosa alquanto curiosa visto che a
malapena superi i diciotto.» Del resto chi poteva dirlo con certezza.
Dipendeva molto da cos’aveva mangiato a cena la sera prima.
Orgoglioso dell’elegante consecutio, di sicuro non apprezzata
a dovere da un’ovaiola semplice come quella, continuò stizzito per
tagliar corto. In tavola lo attendevano fumanti i cappelletti cucinati da
sua sorella, comprensibilmente Curata di nome e d’aspetto:
«E poi sempre con questa ossessione copulativa... Avrebbe
fatto meglio nostro Signore, sia gloria e lode in saecula saeculorum
et… et… et-cetera, a farci tutti grammaticalmente neutri. Lisci come
una sfera liscia, senza quei degradanti pruriti pomeridiani.»
Lui aveva provveduto ad affrancarsi dal grattacapo, ultimando
l’opera del Grammatico col garbato appoggio del sistema giudiziario
olandese, sia sempre gloria e lode. Assai solerte quest’ultimo, dopo
averlo sorpreso in autobus con una gallinella in età ancora poco
raccomandabile per deporre uova, nel condannarlo a quindici anni di
riflessioni. Oppure in comoda alternativa, alla castrazione chimica
istantanea. Aveva provato il priore a dirsi alquanto stupito. A tirare in
ballo l’esuberante cena della sera prima, la relatività del tempo
atmosferico, le mutevoli prospettive della pesca. Niente. Faranno
pure un emmenthal dolce che fa schifo ai polli da filiera, ma su certe
cose mica vanno tanto a funghi con la panna, gli olandesi. L’arciprete
s’era orientato sulla comodità. Per purificarsi dalle proprie colpe
scellerate e per non dover subire l’onta dello scandalo che sarebbe
di certo esploso in paese, qualora non fosse rientrato a casa nei
tempi dovuti. Ovvero andata e ritorno da Lourdes in pullman di linea,
più breve soggiorno tonico. E ora si pavoneggiava dietro quella
fiducia stoica semplicemente ereditata dal miracolo chimico.
La ragazza lo osservava sconvolta singhiozzando con sincero
rammarico. Anche perché era ancora traumatizzata per le urla di una
sposa rincasata forse troppo in anticipo, che aveva assai mal digerito
quell’ossessione copulativa interrottasi brusca sotto i propri occhi.
L’avevo detto io che forse era presto... Esercizio che ritenne infatti
fatalmente profanatorio di quanto poteva essere rimasto ancora d’un
talamo a suo tempo benedetto dal talento puro e dal progresso che
avanzava. Bisogna imparare a percepire i tempi giusti per fare le
cose, seguire il ritmo e mantenerlo vivo finché si può. Vai tu a capire
invece cosa s’era mangiata a cena la sera prima!
«Dottor don Curato, sono prostinata, distrutta, smagliata…
smerigliata infino. Ho la maniglia tutta a pezzetti… Guardi come sono
rigonfia qui e anche qui dietro… Trasbordo. Guardi, guardi pure! Non
c’è inganno… Le giuro che non succederà mai più. Mai più! Ma la
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prego dottore, m’aiuti ad allevare questo petto di dolore carcerario.
Quest’angoscia aragosta, lo giuro! è così… struccante… Mi dissolva,
lo giuro! mi riassuma in cielo al san Pier e Paolo… e prometto che
sarò la sua serva, come un uovo. Faccio anche i piatti… Lo giuro!»
Alcuni allo scopo di purificarsi dal voto, la domenica sera si
flagellano a sangue la schiena, pronti a ricominciare comunque la
settimana seguente per l’ennesima ricaduta di stile. Anche due volte
a seduta. Altri si convertono senza motivo e all’improvviso partono in
missione. Qualcuno a riunire la banda del paese, ottoni, legni, archi,
due riccioli in omaggio. Qualcun altro invece se ne va in vacanza nei
paesi aridi del Terzo mondo con la sua tromba in mano, a soccorrere
i poveri locali con qualche quintale di latte in polvere scaduto.
Oh, when the saints…
Si narra anche d’un numero imprecisato d’enormi tir stracolmi
di doposci a pelo lungo, da dimenticarsi agli incroci con semaforo.
Pelo di castoro più che altro. Per quanto non ci metterei troppo la
mano sul fuoco. Primo perché è da idioti e secondo perché non si sa
mai come vanno certe cose. Non è colpa di nessuno. Li compri che
sono visoni e nel tempo del viaggio da là a qua si riproducono sei o
sette volte come ramarri. Solo che l’aria di qui gli fa male, peggio che
alla canapa indiana, e quando arrivi ti ritrovi solo una camionata
d’assurde nutrie baiadere. Non ti rimane altro che buttarle al fiume.
…go marching in…
Lucia non era il tipo per provvedimenti così estremi. Ma nei
successivi dieci minuti, diciamo anche quindici, perché i tempi sono
fondamentali in certe cose ad eccessivo rischio di precocità, divenne
effettivamente la serva di Dio. Interrogatasi sulle possibili opzioni che
Lui avrebbe prediletto, intraprese una campagna classica con tanto
di santini distribuiti di persona al mercato. Il soldato di Cristo discese
i gradini della chiesa e avanzò spavalda verso la piazza, ostentando
quel medesimo sorriso che aveva osservato sbocciare inatteso sul
viso ancora giovane della madre, ogni volta che il marito rientrava a
casa in anticipo dopo una settimana d’impegni occulti a Milano. Per
lei quello era rimasto l’esempio più virtuoso dell’amore cristiano.
Cominciò allora a distribuire i cartoncini colorati e tutto l’affetto
che sgorgava copioso dalla sua anima bella a chiunque incontrasse.
E si dimenticò per una volta d’evitare i non graditi, quelli più poveri di
lei e persino di scrivere il numero dei cellulari sul retro, non si sa mai.
Era sinceramente dispiaciuta ed assolutamente affranta.
Tuttavia, arrivata al banco del pesce, per uno di quei fortuiti
casi che nascondono ben altre giustificazioni cui appellarsi in realtà,
riconobbe l’auto nuova di Manuel. E un’arcana sensazione a dir poco
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tropicale, assopitasi fin dall’ingresso in casa della chioccia congiunta,
proruppe d’un tratto fluida in tutta la sua incandescente vitalità.
Come presa da un raptus incontenibile, cacciò tutti i santini
rimasti nella bocca spalancata di un’enorme orata agonizzante sul
bancone, tra le anguille e i cubetti di ghiaccio. Quindi saltellò giuliva
fino all’appartamento di Manuel Pinotti, bidello semplice e sottile
critico di costume, suo unico ed eterno amore. 9
III.
Marcella Adelina Maramonti, congiuntasi in Beltrami all’ombra
d’una settimana bianca da ramarri zigani, s’era conquistata a digiuni,
e penitenze un ruolo decisamente liberty tra gli arredi dell’oratorio di
don Curato. Dire, fare, baciare, lettera e il testamento della nonna è
pronto. Uno di quei nomi e cognomi, il suo, che era meglio notarsi tra
doppie virgolette sul foglio dei turni, se non si voleva svernare in
Purgatorio più del tempo già prescritto da ben altre sfere sgargianti,
giganti… giranti forse. 10 Una roba grossa e girevole insomma, un po’
come lei. E se per cortesia non sarebbe stato proprio da dirsi così
grossa, visto che non era affatto una balena, non era nemmeno un
capodoglio zoppo e si trattava pur sempre d’una signora coi baffi,
diciamo allora un poco sovrappeso. Come il barattolo vuoto delle
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Desidero ricordare qui un’opera basilare per la mia formazione, che il collega Manuel
scrisse in un lontano 1994 di mezza estate, e che conserva tuttora una straordinaria carica
evocativa: M. Pinotti, Masbòratrobertobaggio, Duedicoppe, Brazzaga Po Vecchio 1994.
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N.d.C. Mi par d’intravedere, in su la penna che qui scorre amica, l’esplicita allusione ad
un celebre verso dell’Anacleto di frate Guglielmo Lancialarpione (1564-1616), popolare
componimento lirico che tratta di una fresca passerina finta timida, detta anche la mucca
anatroccola o la brasa morta, la quale pigolava melodiosa e malinconica, agitandosi tutta
nel suo bel costumino rosso leopardato, all’unico scopo d’attirare a sé i maschi più dinamici
e volenterosi della valle, o almeno quelli solitari, e deporre così qualche Fabergé insieme da
rivendersi poi un domani al mercatino rionale. Cosa deve fare una per campare… Soggetto
alquanto scabroso per l’epoca, che avrebbe procurato non pochi fraintendimenti del tipo
fiammingo all’autore eventualmente colto in flagrante sull’autobus. Questi infatti, non
apparso mai in pubblico di persona se non dietro paraventi, secondo i più recenti studi era
in realtà un prestanome, uno pseudonimo che nascondeva un collettivo letterario animato da
eminenti personalità del periodo. Gli esperti concordano sull’identità da attribuirsi a gran
parte degli affiliati, che non potevano certo mettersi a fare pollaio nei palazzi di governo. In
particolare si fanno i nomi di Edward de Vere, XXVII conte di Oxford, di William Stanley,
VI conte di Derby, di Francis Bacon, del redivivo Christopher Marlowe, di Ben Jonson, di
Thomas Middleton, di sir Walter Raleigh, forse in tacita collaborazione con lo stesso
Bacon, di Mary Sidney contessa di Pembroke e addirittura della sovrana vergine, la regina
Elisabetta I. Quella rossa, perché quella grossa si faceva chiamare invece Vittoria, e come
impone l’etichetta a bollicine sulla mia bottiglia, è tutta un’altra Storia.
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offerte, i panettoni del ’71 parcheggiati sullo scaffale alto e riciclati nei
campeggi estivi, la stufa a kerosene senza uno straccio di tubo. Lo
straccio e il tubo della stufa che Diomede usava per fare il pirata
Sandokan giocatore di baseball. Anche il sabato a dottrina.
Mompracem vivrà…
Potrei aggiungere che il barattolo era mezzo pieno di monete
vintage da cinquecento lire, che i panettoni erano rimasti davvero in
pochi sulla mensola, e una volta sbriciolati potevano tranquillamente
farsi dare del torrone. Che il tubo della stufa era stato rimpiazzato da
una gomma di due metri collegata all’esterno con un bell’imbuto
giallo pieno di certificati. O cose simili. Ma a che servirebbe? Non
credo che esporre in questo modo i fatti possa renderli migliori o
peggiori di come già si offrivano al gusto inalienabile di ciascuno.
Mi preme piuttosto sollevare alcune questioni.
Può un barattolo delle offerte legittimamente eletto presentarsi
in pubblico tutto pieno, invece che vuoto perché le offerte sono state
usate secondo quanto promettevano appunto d’offrirsi in campagna
elettorale? Può un panettone del ’71, gran bell’annata per i canditi di
cedro quella, mimetizzarsi tra i soprammobili d’alta quota, a tal punto
da indurre gli affamati campeggiatori estivi ad aspettarsi dal prete
qualcosa di più recente per dessert? E infine, se nella brezza onorata
della festa s’indovinano sentori di giovinette a portata d’amo, può un
più o meno giovane pescatore di paperelle esimersi dallo scrupolo
categorico d’impersonare Sandokan pirata giocatore di baseball,
tutto paonazzo, direi addirittura bordeaux sotto i bordi, qualunque sia
la natura della mazza che gli tocchi poi d’impugnare a ripetizione?
…e il canto di un bimbo si alzerà…
L’Adelina era in ogni caso il pilastro portante di tutte le attività
che si svolgevano in quell’umido palazzone quattrocentesco, senza
alcuna possibilità di rovesci equatoriali neanche a pagarli. Perché lì
di umido c’era solo il palazzo. Quanto al resto, era da presumersi più
simile agli umori intimi d’uno stoccafisso scozzese ben stagionato
che altro, e non c’era proprio più niente da fare.
L’anno precedente aveva allestito una vendita d’azzardo di
torte sagomate al dettaglio, riportata fin sulla pagina delle cronache
locali dal «Corriere delle Prealpi e del Destra Secchia». L’articolo si
stagliava ora in una cornice ex-voto, proprio di fianco all’altare della
Madonna dei miracoli. Chiunque transitasse da quelle parti, dopo
regolare domanda inoltrata in triplice copia alla Madonna, sia gloria e
lode, ecc… per ciascuna delle tre, non poteva fare a meno di notare
il riquadro illuminato. Quindi abbozzando un rapido segno della croce
con la mano sinistra, se ne andava via ruminando un ancor più
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rapido «va’chetroia» a denti stretti. Suggerito più che altro dai tipici
ardori di quei giorni lì, covati di persona o fatti venire per osmosi
anche a quanti non ne avevano mai vantato il diritto. Ma nemmeno
poteva evitare che una sana invidia ne guastasse per coerenza la
regolarità dell’incedere armonico delle zampe, destra, poi sinistra...
Ancora destra. A motivo dei loschi rapporti senza dubbio intrattenuti
da quella faraona egizia con nostro Signore l’Altissimo e con sua
Madre appena sotto, sia gloria e lode nei secoli, ecc... E barcollando
ormai fuori controllo, finiva per sdraiarsi lunga sui ceri. Che rabbia!
Che botta! Che troia! Amen.
La specialità che tutti quanti le riconoscevano senza riserve
era invece la pesca di beneficenza. Adelina occupava l’intero inverno
nella meticolosa ricerca d’oggetti opportuni da rivendere alla pesca di
primavera. Dapprima rivoltando l’anima della soffitta, quella sua e
quella della suocera. Poi scendendo cauta negli armadi delle camere
da letto, per convincersi infine sollevata che era meglio insistere sul
rustico. Cilindro anarchico da cui estraeva cavandoli per le orecchie i
suoi reperti ittici, che con un paio di ritocchi indovinati, un po’ d’acqua
fresca spruzzata qua e là, la Provvidenza ortolana sapeva rendere
come nuovi. Pronti per farsi strapiantare con amore al modico prezzo
di tre caffè d’orzo ben tostato.
Certi giorni di sole la si poteva scorgere abbarbicata al tetto
della casa, mentre cercava invano di raggiungere il pallone fatto
sparire da Gianluigi solo qualche anno prima. Quindici Quaresime, a
contarle in fila, come nuovo. I più fortunati hanno goduto della Grazia
divina emanante da ogni poro del suo corpo quando una volta cadde
giù da quel tetto. E invece di rompersi una gamba come ogni assidua
osservante avrebbe dovuto saper fare, s’andò ad infilare spudorata
nel cospicuo mucchio di concime organico appena giunto da Reggio
Emilia, dove si diceva allevassero certe vacche biologiche…
«La pesca è il peccato di famiglia», ripeteva sghignazzando
sguaiatamente a chiunque le facesse notare come mentre lei andava
«alla pesca», suo marito andava invece «a pesca…», alludendo a
chissà che con quel «…lla» tolto da lì quasi per caso. Perché lei non
capiva cos’altro potesse significare l’andar «a pesca», se non alzarsi
la mattina alle quattro, uscire con le canne e gli stivaloni cerati,
guidare con prudenza sino al fiume, cercarsi un posticino tranquillo e
propizio e lanciare l’amo fin verso mezzogiorno. Giusto in tempo per
riportare a casa il pescato benedetto e farselo impanare dalla brava
mogliettina di ritorno dalla sua santa pesca.
Quella mattina Aurelio si era per l’appunto alzato alle quattro.
Aveva imbracciato le canne come fossero archibugi, e agguantando
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gli stivaloni cerati era schizzato via col fuoristrada mancando il gatto
solo per una piuma d’oca giuliva. Naturalmente dopo aver sbavato
un «ciao amore», umido quanto distratto, sotto i baffi della moglie.
Aveva guidato con estrema prudenza in direzione del fiume. A
tre chilometri da casa si era infilato in una stradina scavata sotto
l’argine, il suo posticino tranquillo e propizio. Quella riparata da tanti
cespugli stipati come baschi di salata riccia abbandonati a se stessi.
Lì aveva dormito fino alle nove. Poi era tornato a casa, aveva
parcheggiato l’auto in garage, esplorando tutte le stanze per essere
sicuro che la moglie fosse davvero uscita. Infine aveva dischiuso la
porta sul retro, da dove furtiva si era a sua volta introdotta una figura
leggiadra, che ad un occhio attento ed esperto, il mio per esempio,
poteva anche richiamare le sembianze della piccola Lucia, la figlia di
Sganzerla il robivecchi. Nessuno comunque avrebbe potuto giurarlo
con assoluta certezza in tribunale, perché dipendeva pur sempre da
cosa s’era mangiata per cena la sera prima.
La mattina era piuttosto fiacca, quando nell’oratorio entrò uno
straniero. Un uomo elegante e distinto, piuttosto alto, con la cravatta
dal largo nodo blu e un cappello del tutto blu, leggermente sgualcito.
Sembrava uscito da un film neosurrealista cecoslovacco in bianco e
blu, o forse aveva deciso d’entrarci e perdercisi proprio allora. In ogni
caso non faceva alcuno sforzo per celare il nervosismo, un poco
bianco ma più che altro blu, che tale disdicevole complicazione
sembrava procurargli ad ogni sguardo adagiato d’intorno con orrore.
E poi i ceki e gli slovacchi, si tormentava l’uomo, tutta brava gente da
maiuscola facoltativa, si saranno presi gli uni il bianco e gli altri il blu?
O avranno invece deciso di fare un po’ per uno da buoni vicini di
campeggio, come si fa nei soporiferi zero a zero di fine stagione?
«Provi la fortuna, mio caro signore!» lo accolse con un sorriso
Adelina, notando come stesse per uscire di nuovo.
«Mi scusi signora, cercavo solo uno stracazzacc… un telefono
agibile insomma. Anche a gettoni d’oro va bene. Ho perso la mia
cellula radio… noi che siamo stati al fronte la chiamiamo così… Eh?
Sono un giornalista sa, cara signora? Ah, non si direbbe? E invece
mi hanno inviato qui apposta per iscrivere un articoletto maiuscolo
alla gara di pesca. Eh, che mi dice adesso? Sì va beh, infilerò anche
dei corsivi sparsi tra virgolette per sottolineare certi ignoranti patemi
d’anatra. Sì, sono anche un artista dell’anima culinaria. Perché vede
quel che conta oggidì sono i quindici minuti di vantaggio sul gruppo
degli inseguitori. Loro pedalano ancora mentre io scrivo la Storia. E
ne ho a bistecche di talento in tasca per fare storie. Purtroppo non
riesco a trovare il posto giusto, sì che mi ci son già strapazzato a suo
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tempo. Certi dessert che ancora non li ho smaltiti. Ho pure la cartina,
vede? Ma non c’è scritto niente di giostre, quintane, caroselli…»
«Ma benedetto il mio ragazzo,» esclamò sbalordita Adelina
scimmiottando un’intercalare di don Curato, «la gara è solo domani!
Su da bravo gentiluomo, venga a tirare quattro colpetti alla nostra
pesca di beneficenza. È per una giusta causa sa?»
Lo straniero si guardò intorno avvilito. Com’era trascurato quel
palazzo! Avrebbero potuto trasformarlo in uno splendido salone per i
ricevimenti, farne un centro estetico alla moda, un agriturismo del
cazzo, che lì non si sbaglia mai. O anche una concessionaria di auto
d’epoca barocche, con quei corrimano accartocciati, quei lampadari
inanellati. Una casa di riposo per ricchi piagnoni… E invece guarda
che muri scrostati, cazzo… Una muffa così spessa che avrebbe
intimorito Gesù Cristo in terra ferma. Questo borgo di bifolchi non si
meritava un altro articolo sul giornale! Ora voleva solo simulare
interesse e squagliarsela al più presto possibile, come un siluro d’un
metro, un ramarro nell’orto, come un uovo di palombo adagiato s’un
piano scosceso. Così decise d’estrarre un paio di biglietti alla pesca
di Adelina. Uno bianco e uno blu, per non destare sospetti ed essere
finalmente libero di tornare al più presto alla civiltà telefonizzata.
«Ossignùr… dottor giornalista, le garantisco che stamattina
erano un paio!» farfugliò lei sfoggiando un’insospettabile vergogna
purpurea dagli affilati calcagni fino in fondo alle orecchie. In dodici
anni d’onorata gestione della pesca, quella era la prima volta che le
capitava di subire un’umiliazione simile.
Aggredì il nobile straniero, sempre più seccato per l’ulteriore
contrattempo, scaraventandolo con decisione sul divano sconvolto
che arredava la camera. Mentre il sagrestano addetto alle gazzose li
scrutava con occhio in apparenza spento, ciò nondimeno bramoso
d’eventualità scandalistiche e profondamente indagatore. Se poi ci
scappava anche qualche rivolo di compiacenza carnale acuta, tanto
meglio. Lui avrebbe analizzato meticoloso pure l’altra guancia.
«Faccio un salto a casa, è proprio qui dietro. Prendo l’altra
scarpa e sono da lei in un battiequattrocchio!»
Mentre correva mortificata pensò al marito. A come le facesse
piacere sentirlo vicino nella comune occupazione della pesca.
«Grazie Signore perché ci hai fatto dono di parole speciali con
possibili significati differenti. Come la pesca. Così il mio Aurelio ed io
possiamo sentirci vicini pur nella dolorosa lontananza fisica.»
Mai avrebbe immaginato che la parola speciale non era certo
da intendersi con «pesca», o quantomeno che non c’era da fermarsi
lì. Avrebbe fatto meglio ad approfondire quell’equivoco «Suo marito
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va di nuovo ad impanare il pesce?», invece di rispondere sempre a
tutti che era lei, insomma, e soltanto lei ad impanarlo. Forse allora le
sarebbe stato più chiaro come il sospetto in questione fosse piuttosto
da far convergere sull’innocuo «pesce». Vocabolo dalla reputazione
in genere cristallina, per via dell’occhio vitreo adagiato tra le anguille
e i cubetti di ghiaccio. Ma che una volta afferrato secondo una delle
proprie caratteristiche accezioni di natura genital-popolare, avrebbe
anche potuto illustrarle, finalmente, la semplice ragione della sua
ormai più che quinquennale estraneità alla faccenda ittica.
IV.
«…la chioccia furibonda si scagliava vermiglia e ispida s’un
marito appena appena impaperato, laddove la pulzella seminuda,
tenero, avventato scricciolo infradiciato di vergogna, si sottraeva a
tanta violenza gettandosi a capofitto nel portone spalancato.
Intorno mozzarelle e carrozze. Volavano spicchi d’uova sode,
uova alla coque, uova bianche e blu di sospetta provenienza egizia…
Una scarpa sparigliata… Che frittata… Io, prontamente accorso a
spregio dell’ingente pericolo, intuendo all’istante da navigato uomo di
mondo la situazione, con ferma nobiltà d’animo le ho offerto la mia
giacca blu per coprirsi le spalle… così bianche, fragili, implumi… Una
preziosa giacca cecoslovacca che non ne fanno più di uguali. Filato
di qualità superiore, cuciture robuste. Poi con sommo ardimento l’ho
scortata al riparo, verso la chiesa barocca, i suoi amorevoli riccioli e il
perdono. Un’aria capricciosa raggelava i baveri dei più alti papaveri.
Qualche sottana accesa riprendeva ignara a vagheggiare prospettive
rotanti per la sera, visioni di fughe complesse, arrendevoli scorci sul
velluto oltremare. Marito e moglie sparivano allora rincorrendosi per
le vie del paese, divorati dalla folla laboriosa del mercato in perenne
fermento. Verso un roseo tramonto che per quanto arduo e lontano,
si prometteva tuttavia foriero di belle speranze e rinnovata serenità.
La provincia bollente continua inesauribile a farci dono delle
sue grazie. Le belle avventure piccanti d’una volta, così sanguigne e
gagliarde, che noi fantasmi di città abbiamo smarrito per sempre
negli anonimi sexy shops di quartiere, perdurano qui invece tuttora
gaie e ruspanti, e conservano immacolata una straordinaria poesia.
Io purtroppo ho vissuto solo il tenue riflesso di questo evento
prodigioso, la sua eco sbiadita. Sebbene sia riuscito ad assaporarne
con letizia l’umore di sfuggita, nel battere appassionato del mio cuore
fuori tempo, al di sopra del tempo, improvviso, impetuoso, effimero.
22
Come un uovo di palombo. Confesso infine che finché avrò vita ne
serberò per sempre il caldo nostalgico ricordo.»
Armando Bottardi, titolare del banco ambulante di calze, finì di
leggere l’articolo Provincia bollente, sillabandone eccitato la firma:
«Gia-cin-to-Strag-gi», l’illustre giornalista del «Corriere delle Prealpi e
del Destra Secchia», già autore dell’articolo che l’anno prima aveva
celebrato il paese e le sue torte. Un boato d’approvazione si levò
allora dal fondo del bar Tellini. 11
Poi, sorseggiando adagio un Campari allungato a lambrusco,
egli intrattenne con mestiere i compagni bucanieri, narrando di come
il giorno prima si fosse visto piombare uno squalo tigre dritto sul
banco, e avesse colto al volo l’occasione per sfottere qualche grosso
imbecille a spasso per il mercato. E se per cortesia non sarebbero
stati proprio da dirsi così grossi gli imbecilli, bensì appena un poco
sovrappeso, la verità è invece che i soggetti coinvolti loro malgrado
nella vicenda erano davvero grossi come imbecilli. Uno in particolare
vantava tanto d’agriturismo alla moda con laghetto in dotazione.
Armando raccontava spesso d’essersi iscritto al primo anno di
Ingegneria a Padova, dove era stato iniziato alla cultura della beffa
goliardica. Un ufficio antico quanto l’uomo e la donna degli altri. Poi a
Natale era scomparso il babbo… In verità era un attento estimatore
della trilogia di Porky’s, 12 e appena poteva, cercava d’architettare
qualche burla della medesima scuola da trasformare poi in mito
alcolico per gli amici del bar. L’istruzione non può che recare benefici
ai profani di buona volontà, pensava. Quelli che aspirano a qualcosa
di meglio d’un ignorante limoncello a fine pasto. Gli assetati
ovviamente conoscevano questa particolare attitudine ad ingigantire
le cose, ad aggiungere un po’ di simpatia sotto i baffi. Ma gli andava
bene anche così. Anzi, soprattutto così, perché era un vero
spettacolo vederlo ancheggiare mentre mimava con tutto il
mastodontico corpo le sue mirabolanti imprese.
11
Il signor Cesare Tellini ci tiene a far sapere che ha provveduto a querelare il dottor S.
Benni, il quale dopo essersi fatto un caffè nel suo locale pensò bene di scrivere Bar Sport,
Mondadori 1976, Feltrinelli 1997, e non contento di ripetersi dopo qualche tempo con Il
bar sotto il mare, Feltrinelli 1987. A parte il fatto, sostiene il Tellini, che Bar Sport sarà sua
sorella, perché lui di nomi ne ha cambiati parecchi, scelte da intellettuali di razza, come Bar
Bablù, Bar Racuda, Bar Richello, e pensava adesso Bar Bapapà o forse Bar Boni che è
meglio. Ma… sotto il mare… per qualche sputo di catarro qua e là… Andiamo! E poi,
chiamare in causa sua moglie Luisa all’unico scopo di canzonarla per via del grosso culo…
insomma del culatello appena un po’ sovrappeso che si ritrova… è stato davvero ignobile!
12
Porky’s - Questi pazzi pazzi porcelloni, 1981, e Porky’s II : il giorno dopo, 1983, film
diretti da B. Clark; Porky’s III : la rivincita, 1985, diretto da J. Komack.
23
Sapevano con certezza che malgrado quanto doveva essersi
divorato per cena, lo squalo tigre non poteva essere stato più grande
d’un pescegatto coi pantaloni corti. Quanto alle calze, probabilmente
non erano proprio rosa. Ma essendo il suo banco stracolmo di calze
d’ogni colore, concordarono che il rosa poteva anche essere quello
che meglio s’intonava ad uno squalo leopardato con ragionevole
decadenza in pescegatto minorenne. Sempre di felini si trattava.
«Mah! come ha fatto… Quello dei formaggi sostiene d’aver
visto un tizio tutto sbigolato avvicinarsi al banco del pesce fresco. Ma
vestito bene, neh? Stivaloni cerati, gilet con le tasche, camicia di
flanella a quadri… un frac. Boccheggiava a mozziconi l’architetto...
Gnignì! Gnagnà! Forse era un architetto di città. Giovanardi non fa
una piega. Del resto ha abitato in centro a Mantova da piccolo e non
si spaventa più di niente. Lo saluta invece… pare che passasse tutti i
mercoledì a mezzogiorno… mai visto. Gli mostra l’esemplare enorme
apparecchiato apposta per lui sul frigo. Enorme… un po’ sovrappeso
via, …tutta salute per il bilancio di fine mese. L’uomo è nervoso,
parecchio, paga in fretta e scappa via dimenticando lì il malloppone.
Subito arriva una femmina da brodo completamente fuori di sé
che sbava e scalcia sputacchiando in ogni dove. E l’abbiamo sentita
tutti la cicogna sbattere le alette flaccide, neh? coi suoi anatemi
strampalati e puttanate varie. L’avrei aggiustata io quella lì… fin sotto
i bordi… Comunque agguanta il pesce squalo per la coda e gridando
come una pazza lo scaglia con tutte le proprie forze in direzione
dell’uomo di prima, il musicista mancino lì, …il geometra di Codogno.
Ma il lancio è da schiappa rara, e la bestia parcheggia appena dentro
al mio banco di calze...»
Morselli, continuando imperterrito a sfogliare il suo giornale,
un po’ seccato per l’attenzione del tutto monopolizzata dal Bottardi,
bastardo lui, sua sorella trota, sua madre e sua nonna in fila per due
come le pecore dell’Intervallo, arrivò in fondo all’ultima pagina. Poi,
illuminato, ritornò di scatto alla cronaca locale:
«Ehi giovanissimi… ieri il Dio ha tirato sotto uno di Brazzaga,
su all’incrocio… quello del semaforo… Ecco perché non s’è visto in
cava… l’avevo detto io! C’è scritto che per la violenza dell’urto si
sono piallate via tutte le schiene degli asini in entrambe le direzioni…
boh! e che un vecchio ciclostile barocco… no aspetta... un motociclo
in stile antico, una baracca fuori moda per fortuna, pare si sia infilata
nel cappuccino del cavalier Calciolari. Ha dovuto cambiarlo…
Comunque sarà il terzo elemento in due settimane. Sandokan
punta decisamente al record di Sganzerla dell’Ottantadue!»
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«…Oh!» fece il Bottardi, «non mi viene in mente di buttarlo
oltre il muro con tutti i suoi magri auspici? Sai la faccia di quelli che si
sono visti arrivare dal cielo uno squalo tigre coi calzini rosa? C’era
proprio da farci un film. O magari scriverci su un articolo…
Qualcuno vuole un altro sant’Antonio abate per schermare
pollaio e stalla dalle oscure influenze maligne? Va bene anche per il
camioncino dei vitelli, neh?»
Solo Diomede avrebbe tuttavia indovinato la risposta esatta:
«Sant’Antòni dal gugìn, cal szügàva cui cicìn,
i cicìn i’é scapà, sant’Antòni al s’é lugà.
Sérca, sérca fin a sìra, la Giuàna e la Cesìra,
quant’i sùna li campàni… tœti fóra da li sutàni.
L’era al Tòni pr’i cicìn cal sunàva al campanìn,
ma li ciòsi ad la baléra i l’à méss in s’la scaléra.
Sant’Antòni banadétt, sant’Antòni puarétt.» 13
13
«Marcantonio del Bar Bino osservava un bel pulcino, il pulcino è corso via, Marcantonio
da sua zia. Cerca, cerca fino a sera, da Giovanna e zia Severa, quando un vento di campane
fa frullare le sottane. Era il Tonio malandrino che strizzava l’occhiolino, ma sua moglie
bersagliera l’ha inchiodato alla testiera. Marcantonio Squassaletto, Marcantonio poveretto.»
Trad. chiocciara dell’appunto mosso dal sig. Bertazzoni, il quale aggiunse un intraducibile
«Veh, Berlìnguer… Oooooh!». In mano stringeva un basco di salata riccia. Un ramarro
albino ci scrutava esausto. Un occhio di qua, uno di là. Gli consigliai una settimana bianca.
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