002. Le mutevoli prospettive della pesca I. L’auto procedeva allegra. La velocità, nel nome del Padre e del Figlio, poteva dirsi conveniente ad uno Spirito di circonvallazione che non s’era mai santificato troppo in quel casolare strappato via ai campi. Un borgo che prosperava vispo sugli ultimi quattromila devoti autoctoni e s’un numero imprecisato d’azzardi domiciliari. Strapiantati in tarda estate come baschi di salata riccia in una presa di lattuga. 1 Pio! Pio! Un pollaio a cespugli. Tutti più o meno incapaci di moderarsi nelle questioni dell’amore effimero, sotto i fienili, dietro i sedili, in mezzo alle aie… Uguale. E tutti perseguitati per questo da vigorose circonvenzioni equestri, a dozzinate. Ma tutti, sotto quei cappotti neri e le sottane al vento, tutti, sotto certi becchi finti o i tacchi alti, tutti, sotto i tanti denti a spillo e i seni tondi e sodi, proprio tutti assai prudentemente pieni di vita. Da andarci a votare la domenica pomeriggio per riconoscenza. Pio! Pio! Anche due volte… Uguale. 1 Il pollame colto di Brazzaga, certi tacchini lucidi che hanno studiato alto in città, parla una lingua piuttosto pittoresca una volta rincasata. Alla tipica poligamia delle nostre parti, essi aggiungono infatti un caratteristico verso dal raffinato timbro cosmopolita. Gloglo! Gloglo! E poligloglottano imbizzarriti come comari sotto spirito. Perché i termini d’ascendenza anglosassone che contano qualcosa, come bàrs, uischionderòs, càtvegnauncàncars, ecc… sono ormai patrimonio collettivo dell’intero pollaio, sant’Antonio incluso. Per non parlare poi di quelli tradizionali greci e latini, come bàrs, uischionderòs, càtvegnauncàncars, ecc… entrati a far parte del nostro lessico usuale sin dai tempi di Vercingetorige il gallo. Anche i tipi da batteria sanno ormai come declinare un subdolo invito alla coque. Quello che invece ci dà parecchio fastidio al fondo del nostro eclettico tubo digerente, mentre loro si pavoneggiano e noi razzoliamo in circoli, è piuttosto la versione a dir poco cervellotica che propongono della comune lingua madre. Oltre a qualche francesismo illuminato post Luigi XVI e un po’ di wünderbar appreso sulle riviste di meccanica copulare, che possiamo anche impegnarci a tollerare per il bene comune, come coi fondi perduti di Aristotele, il volo delle quaglie al tramonto e i sogni di Nonna Papera, essi ritengono d’interpretare a modo proprio l’originario pigolio da stalla, profumandolo con aromi zingari e traducendolo in un idioma da dizionario chiocciaro. Gloglo! Gloglo! Senza rendersi conto alla fine che solo un brazzaghese può comprenderlo, per quanto gli rimanga sempre un poco di traverso sul medesimo tubo, e questo non è bello. Un brazzaghese seminato in Luna calante, come la salata. Nella sua presa, ma anch in s’la màsa va bene. Basta che sia nostrana. In fondo non importa dove ti mettono. Quello che conta davvero nella vita è strapiantare le eccedenze. 8 Un’allegria dagli sfarzosi cerchi in lega, abbastanza prossima in solerzia ai trecentomila chilometri al secondo, per chi è pratico del mestiere. Sempre se non s’intuivano posteriori ragionare a chiappe strette in disparte, di fisica anatomica, d’astrofisica intercostale, di metafisica a quanti parcellizzati… Uguale. Allora si poteva anche rallentare fino agli ottantacinque per farsi un’idea più consona del contenuto. Minimo sei e mezzo. Come avvenne quella volta, perché Diomede aveva intravisto un’incantevole Harley parcheggiata davanti alla latteria ed intendeva tirarla a lucido con un paio d’occhiate guardinghe. Quelle lì, se non altro, ancora più veloci della luce. Mentre sollevava il piede dall’acceleratore, gli parve tuttavia d’indovinare con la coda dell’occhio buono il beffardo trapasso d’un semaforo dal verde al giallo. Infame, come se non avesse avuto altro da fare quel giorno! La moto era piuttosto graziosa fisicamente, con tutte le curve girate al posto giusto. Ma non valeva certo una sosta forzata, soprattutto se di ruvida natura semaforica. Così accarezzò di nuovo il pedale leopardato quel tanto che bastava per oltrepassare indenne l’incrocio, evitando di patire i prepotenti soprusi del rosso. Non aveva mai sopportato le prepotenze, lui, e ancora meno i freni inibitori. Quando poi i concetti s’accapigliavano nel medesimo pensiero leopardato, gli veniva un mal di testa a chiappe strette. Perché non ci stava più altro lì dentro, quando il leopardo si metteva a scarrozzare imbizzarrito come un elefantino blu della Lancia. O quando mulinava le zampe a ripetizione, destre, poi sinistre, come le signorine dell’Informagiovani, lasciando appena intravedere tutte le disgrazie che ne sarebbero probabilmente uscite, un giorno. Mentre l’elefantino, neanche a sellarlo, rimaneva sempre blu. E poi i ragazzi lo attendevano giù al circolo della pesca per rifinire gli ultimi dettagli della gara prevista per l’indomani. Dove non poteva mancare, lui che deteneva ad un tempo il ruolo del favorito unico, del padrone di casa illuminato e liberale, dell’inquilino illuminante e liberato... Uguale. Un’occasionale sovrapposizione di ruoli che non celava alcun interesse occulto. Del tutto provvisoria. Certo farsi dare del popolano liberty spopolava sulla massa, dove l’appoggio del pollaio è sempre stato indispensabile per conquistarsi un ruolo libertario. Per stare in alto sulla scaléra e farla in testa agli altri più che riceverla, o solo per scagliare di diritto un «Chicchiricchi!» mattiniero da far venire i riccioli biondi a tutto l’elettorato avicolo. Pio! Piiiiiiio! Solo che Diomede non manifestava in apparenza irrequietudini amministrative. Cercava più che altro di realizzare un ideale d’uomo vero che forse qualche altro buon commercialista doveva avergli suggerito in piena libertà, una domenica pomeriggio. Può essere, tra i tanti riccioli in omaggio… 9 Era invece un artista, lui. E volendo farsi maestro nel proprio campo, dopo la maestra delle elementari s’era fatto officiante della cerimonia. A un certo punto infatti la gara era diventata un autentico rito a cui assisteva in religioso silenzio tutto il circondario e oltre, fino in Cina. Col suo apostolo in canna tesa e mulinello, Diomede, il suo anatroccolo da immolare nei turbinanti dopocena all’amo, Diomede, e una sorta di rinascita redentrice evocata dalla rottura del guscio originale a colazione. Giusto un po’ di sale per i bisognosi. E vista la quantità di polli che ci sono da qui fino in Cina, è probabile che le occasioni da amministrare fioccassero giù fitte come a Natale. Da andarci a suggerire ideali agli imbecilli la domenica pomeriggio con lungimiranza. E se non afferravano perché erano davvero imbecilli, ma avevano l’agriturismo con laghetto, anche due volte al giorno. L’evento si marcava in rosso sugli almanacchi del Po, da sé. Si segnalava dritto in Questura, si appuntava sui frigoriferi blu della Lancia. S’incideva sui banchi a scuola, in birreria, in chiesa, dove gli avevano aggiunto una stazione della Via Crucis. A scuola, in birreria, in chiesa. Breve, ma pur sempre indice d’una sobria popolarità. Perché quella volta del corpo a corpo col pescecane più rabbioso dei sette mari... tutto da solo sulla barchetta a remi, in balia delle ponghe di mare… 2 E non aveva mollato mai, il cagnaccio. Nemmeno quando le orribili pitone dei Sargassi 3 gli avevano munto le budella… O quell’altra volta sul veliero, quando si era votato anima e corpo alla caccia d’un maledetto siluro bianco… an lògar d’un mètar… 4 che gli aveva tolto via il sonno arretrato, tanto era cattivo. E zoppo anche. Una storia orribile, da non raccontarsi mai prima d’infilarsi a letto la sera, altrimenti la trota s’agitava e buonanotte. 5 2 «Femmina da granaio che ama anche i litorali e le spiagge semideserte. Non disdegna le isole atlantiche e nemmeno certi relitti alla deriva.» Trad. chiocciara dell’appunto mosso dal sig. Bertazzoni, il quale aggiunse un intraducibile «Wilmer, li fò ‘l fömm!». 3 «Femmina da cortile particolarmente facile all’ira, specie se un maschio ancora ottimista se la vuole infrigorare, tutto blu, alle spalle.» Trad. chiocciara dell’appunto mosso dal sig. Bertazzoni, il quale aggiunse un intraducibile «Veh, Anacleto, at zarè mia in dieta, neh?». 4 N.d.C. La trad. chiocciara proposta dal maestro sarebbe «un ramarro che assomiglia tanto a una balena bianca». Io però di ramarri simili non ne ho mai visti. Forse perché i ramarri si confondono al contesto e confondono le idee anche a chi li guarda. Comunque i ramarri non sono bianchi. Si sono fatti ramarri apposta per confondersi nella salata, mica in settimana bianca. Magari qualche esemplare particolarmente fortunato ci va pure in montagna, ma è solo per indossare i doposci che gli hanno regalato a Natale. Niente di che. E poi una balena… Mi sembra invece più educato tradurre «un ramarro appena un po’ sovrappeso, apparecchiato per la villeggiatura». Per maggiori dettagli Cfr. H. Melville, Moby Dick o La Balena, 1851. Anche se poi era un capodoglio confuso in settimana bianca. E zoppo anche. 5 «Femmina da quanto vuoi, quel che vuoi, dove vuoi.» Trad. chiocciara dell’appunto mosso dal sig. Bertazzoni, il quale aggiunse un intraducibile «Avérgan, Palmiro...». 10 Tutte ottime garanzie per una navigazione tranquilla nelle sue mani. E lo scheletro zoppo che campeggiava immenso nell’ingresso dell’agriturismo con laghetto, e che offriva un’ombra di conforto nelle torride giornate estive, come in chiesa, lo ribadiva a quanti avessero goduto dell’invidiabile sorte d’introdurvi entrambi i piedi in sequenza scandita. E di riuscire anche a toglierceli dopo un paio d’ore scarse, uno, due, come in chiesa, con scarpe, calzini e calzoni ben allacciati. Secondo una direttrice grossomodo uscente, integrata intanto che c’era da una visione sul mondo con inclinazione a dondolo, da farsi tollerare oscillando fino ai quarantacinque gradi per parte. O almeno fino al mattino dopo, infilati tra inebrianti lenzuola di seta. Coperte di flanella invece se c’era umidità in golena, e se non è arte questa… Già assaporava il leggero sobbalzo allo stomaco che si prova affrontando un dosso a una certa velocità. Uuuh! Specialmente negli incroci urbani più selvatici, dove la schiena dell’asino raglia via ch’è una gioia. Quando un’orata mai vista, dell’efferata lunghezza d’oltre cinquantacinque centimetri e il peso apparente di quindici o sedici chili, ma chi può dirlo, dipendeva molto da cosa aveva mangiato a cena la sera prima, s’andò a spiaccicare sul parabrezza della Giulia. Chiunque in una situazione analoga si sarebbe spaventato a morte e avrebbe frenato con tutta la forza avanzatagli in corpo. Alzando un putiferio di gomma bruciata e catrame che se lo sarebbero ricordati per anni in latteria, nei cappuccini, nei tramezzini. E anche dai vicini. Non Diomede. Egli scrutava piuttosto l’occhio vitreo dell’orata. L’amica squamosa cercava chiaramente di trasmettergli col pensiero alcuni messaggi di saluto comprensibili soltanto a lui. Forse al signor Spock… Meglio il tenente Ura con quel costumino rosso attillato... Grazie ai rapporti esclusivi che aveva saputo guadagnarsi attraverso le innumerevoli imprese marinare vissute con quasi tutte le creature naviganti. Al varo, già navigate, appena appena navigabili... Uguale. Si era certamente spazientita, la paperina, del timore di finire impalmata tra le reti di qualche assurdo principiante. Non era vita quella… Ecco che pertanto aveva deciso di concedersi al migliore. Colui il quale, forse, non era proprio da solo quando avevano pescato il pescecane dalle parti di Chioggia e tutto il resto della folla lo spingeva in fondo al molo. Forse l’oggetto pescato quel giorno non era nemmeno un cucciolo di pescecane. Più probabile un pescegatto sovrappeso apparecchiato per la settimana bianca. E forse ancora lo scheletro appeso al muro avrebbe addirittura rivelato un’eccezionale consistenza gessosa, se distrattamente graffiato di nascosto con una roncola da taschino. Del tipo medio, saranno sei o sette euro da Malavasi. Ma la cui mirabolante fama era comunque nota in tutti gli 11 oceani del globo terrestre. E avrebbe raggiunto a razzo anche quelli della Luna, qualora il caro satellite si fosse messo al passo con i tempi correnti, smettendola una buona volta di soccombere prono a questa inconcepibile mania della ritenzione idrica. Solo il modo sarebbe risultato discutibile. 6 Ma il fine, quello, giustificabile senza pensarci due volte nel mezzo. Come quando la signorina Aldobrandi telefonava per farlo giocare all’idraulico. Mai contenta quella, e forse anche un po’ trota. Ma chi può dirlo, dipendeva molto da cosa aveva mangiato a cena la sera prima. E allora via, più veloce della luce! Per nulla sorpreso, non si chiese come mai un’orata di tali dimensioni si trovasse in quel momento spiattellata a non più di trentacinque centimetri dalla sua faccia. Tutta garbata. Né in quale modo avesse potuto giungere fino a quell’incrocio di strade basse un poco asinine e forse anche un po’ troie. In un borgo che prosperava sempre vispo, ma che se ne stava pure a centottanta chilometri dal mare, come un bagnino di fiume, come una trota da discesa libera, come un paio di doposci usati e dimenticati al semaforo d’un incrocio di pianura distante centottanta chilometri dal mare. Bianchi e un po’ sovrappeso. Come un basco di salata riccia in una presa di zucchine, …qualche ramarro indeciso qua e là… Come piovendo dall’alto. Egli notò al contrario un cartoncino colorato con l’effigie di sant’Antonio abate spuntarle dalla bocca. Avrà avuto una zia molto religiosa, persuasa che per il buon esito d’ogni impresa timorata, e anche per proteggersi dai moscardini in calore, fosse necessario portarsi in giro proprio quell’amuleto lì e non un altro. Giorno e notte addosso come un assorbente con le ali, un disco dei Metallica... Certo nulla a che spartire con il magico cornetto d’ebano di Tutmosis IV, il Magnifico Alato, che gli aveva dato la sua di zie e che tuttora ciondolava imperscrutabile dallo specchietto retrovisore. Un po’ a 6 Cfr. N. Machiavelli, Belfagor Arcidiavolo. Il demonio che prese moglie, novella scritta tra il 1518 e il 1527, probabilmente ispirata a un testo di J. Le Févre, per non dire copiata. Del resto, come sanno tutti i più noti dj che intrattengono i pollai di questo mondo, il tasto fine amplifica i mezzi toni, e quando uno vorrebbe viaggiare di finezza ma si ritrova per le mani solo mezzi troioni, non può che adattarsi all’underground. E con questo non intendo affatto giustificare il dottor Machiavelli. Dico solo che due righe nei Ringraziamenti poteva anche aggiungerle. Quanto alla novella, è la storia d’un povero diavolo inviato da Plutone sulla Terra per ammogliarsi e verificare di persona se, come dicono tutti gli uomini di mondo, la vita matrimoniale sia davvero così insopportabile, peggio che stare all’inferno. Il buon diavolo sposa dunque una fanciulla, che ben presto si rivela visionaria quanto basta da incantarsi tutte le notti come un’oca a fissare la Luna, sognando chissà che poi. Non glielo aveva spiegato mamma chioccia come vanno a finire certe cose? E infatti si prende la cellulite. Per guarire dalla bassa marea, l’ochetta non trova allora di meglio che indebitare L’arcidiavolo (1966, film di E. Scola) fino al collo. Questi, inseguito ovunque dai creditori è costretto infine a tornarsene su Plutone con la sua cosmonave e tanto di coda tra le gambe. 12 destra, un po’ a sinistra. Quello sì lo aveva salvato a ripetizione quando tornava a casa ubriaco alle due di notte e voleva competere alla pari con Ingemar Stenmark e Alberto Tomba, suoi grandi amici d’infanzia, sulla riga spezzettata di mezzeria… Poi lui aveva avuto la tendinite mentre gli altri le medaglie e allora… Un particolare infine lo rapì. Osservò infatti sconcertato due simpatiche calzette rosa, arrotolate con precisione maniacale e posizionate nel punto esatto dove avrebbero dovuto trovarsi le pinne ventrali del pesce. Come può una madre costringere uno splendido esemplare maschio di tali dimensioni, ad andare ancora in giro coi calzini di lana per non prendere freddo? si chiese, e per di più rosa? «Certa gente non ha rispetto per la dignità maschile… cazzo!» Pensò ad alta voce mentre muoveva nervosamente l’alluce sinistro e rinveniva l’immancabile nausea che un calzino di lana in piena estate gli procurava, appiccicandosi simultaneamente, rosa, al piede e alla scarpa. «Non si rendono conto che siamo cresciuti… cazzo? e che possiamo fare a meno delle loro petulanti attenzioni mattutine?» Nello stesso istante in cui ripercorreva le molestie della madre, cazzo…. l’auto ormai dimenticata investì e uccise Aurelio Beltrami. Aveva poco più di due mezzi figli da qualche parte, e da appena dieci minuti, diciamo anche quindici, aveva smesso di fare l’amore. II. «La scongiuro dottor don Curato, mi dia l’estrema assoluzione. Son disperata, sconvolta, scapigliata… Sto troppo male. Trapasso… Guardi come s’è arrossato il carpazio. Fin quasi bordeaux. Guardi… guardi meglio sotto i bordi! Mi sento un essere improrogabile...» E deglutiva a fatica, la fanciulla, ma due ottime polpe in fondo, niente da ridire. Da stare lì a meditarsele per ore, anche due volte al giorno. Mentre al dottore, che si guardava bene dal farsi curante se non di sfuggita, era toccato in sorte un poderoso breviario. «Non avrei dovuto ricaderci ancora… e invece ci sono blisgata dentro come un uovo di palombo. Ma all’amor… sa come si dice… non si domanda. Che cosa poi non so mica. Ma il mio cuore è troppo scandinavo per questo soffritto così pieno. Lo giuro! Come un uovo.» «Benedetta ragazza,» disse allora il priore sospirando. Lui che nemmeno era più curato da un bel pezzo, ma concedeva ai paesani che l’avevano conosciuto in quel modo, di continuare ad offenderlo. Fa niente… Come se Curato fosse proprio il suo nome di battesimo. Senza rendersi conto, immondi fittavoli da badile, di sminuirne così le 13 sterminate qualità spirituali. E senza intendere peraltro che se uno è già abate priore, dannati saltafossi d’ottobre, deve essere rispettato fin nell’attributo. Quello che si porta sulle spalle prima di tutto, le sue e di nessun altro. Riconoscimento che gli viene dalle più nobili sfere celesti, che a loro volta girano e rigirano più o meno veloci della luce, non è dato saperlo ai comuni mortali. Ma girano, c’è da starne certi. «Ci vuole più rispetto…» minacciava allora dal pulpito preconciliare della chiesa, in quei lugubri sermoni messi a fermentare col luppolo sul disappunto che saliva tetro da un canestro sempre vuoto, anche dopo ore e ore di manovre a sette canne, «…o il castigo vi colpirà implacabile ovunque sarete presi, bestie che non siete altro di bestie! Qualunque attenuante cercherete di partorire balbettando, schifosi… cal che al ciapi... e bestie! Cum maxima et tremendissima poena! E vergognatevi delle vostre insipide vite di pesca… aaah! cacvégna… di peccatori luridi e meschini… fiöl d’un can, l’è scapà… E bestie!» 7 «Benedetta ragazza,» ripeté aggrottando severamente le folte sopracciglia grigie, «ne abbiamo già discusso a lungo ieri e ieri l’altro, e il giorno prima ancora. Il matrimonio è sacro e inviolabile. Tu non puoi intrometterti fra due persone liberamente congiuntesi davanti al Signore Altissimo, sia gloria e lode sicut in coelo et... et… et-chùm! 8 Il regolamento interno parla chiaro. Nero di china su bianco avorio. Al massimo un seppia molto, molto scuro. Niente sfumature dubbie cui attaccarsi coi denti, niente piselli verdi nel sugo. Niente moscardini zigani d’intorno, non c’è verso alcuno. Nemmeno nel caso in cui non si amassero più o non si fossero mai amati nella vita. O se lui 7 N.d.C. Il maestro offre in questo passo una tipica rappresentazione di poligloglamia interculturale. Un registro abbastanza colto ed elevato, sul genere Wild Turkey (Meleagris gallopavo, Linnaeus 1758), viene sovrapposto in successione ad un secondo registro di classe meno abbiente, tipo pollo da cortile, (Gallus gallus domesticus, Linnaeus 1758). Il lettore arriva così a percepire la forte immagine d’un predicatore infervorato che saltella mulinando indici come zampogne assassine sotto maniche bianche e viola, e che si suppone dedito alla castità nei fine settimana, in alternanza allo stereotipo del pescator furioso, uomo che s’alza presto il sabato mattina per andare a troie, con la scusa delle trote albine, e che riesce a portarsi a casa dalla pescheria di copertura solo uova di palombo. Quelle che non stanno in piedi neanche a pestarle e blisgano come ramarri sovrappeso giù dalla seggiovia. Il lettore, oltre che per l’occhio vitreo, rimane impressionato dal marcato accento normanno dei due loschi figuri. Questi infatti, una volta sovrapposti, incredibilmente coincidono. 8 Trattasi di starnuto d’ascendenza capitolina, di complessa lettura, non lo nego. Un tipo più anglosassone avrebbe preferito senza dubbio un monarchico «et-choom!» con tanto di limone, un filo di latte intero, due biscotti scozzesi... Io, piuttosto di soccombere alla dittatura chiocciara che m’avrebbe imposto un grottesco «ecciùm!» seguito da un altrettanto imbarazzante «ma sbòrat Bartasùn!» ho scelto d’aderire allo spirito originario di quella Repubblica seguita un tempo alla cacciata di Tarquinio, l’ultimo gallo che poteva ancora permettersi di fare il superbo. Da allora solo collegi di capponi e fecondazione in vitro. 14 amasse solo te da trent’anni, cosa alquanto curiosa visto che a malapena superi i diciotto.» Del resto chi poteva dirlo con certezza. Dipendeva molto da cos’aveva mangiato a cena la sera prima. Orgoglioso dell’elegante consecutio, di sicuro non apprezzata a dovere da un’ovaiola semplice come quella, continuò stizzito per tagliar corto. In tavola lo attendevano fumanti i cappelletti cucinati da sua sorella, comprensibilmente Curata di nome e d’aspetto: «E poi sempre con questa ossessione copulativa... Avrebbe fatto meglio nostro Signore, sia gloria e lode in saecula saeculorum et… et… et-cetera, a farci tutti grammaticalmente neutri. Lisci come una sfera liscia, senza quei degradanti pruriti pomeridiani.» Lui aveva provveduto ad affrancarsi dal grattacapo, ultimando l’opera del Grammatico col garbato appoggio del sistema giudiziario olandese, sia sempre gloria e lode. Assai solerte quest’ultimo, dopo averlo sorpreso in autobus con una gallinella in età ancora poco raccomandabile per deporre uova, nel condannarlo a quindici anni di riflessioni. Oppure in comoda alternativa, alla castrazione chimica istantanea. Aveva provato il priore a dirsi alquanto stupito. A tirare in ballo l’esuberante cena della sera prima, la relatività del tempo atmosferico, le mutevoli prospettive della pesca. Niente. Faranno pure un emmenthal dolce che fa schifo ai polli da filiera, ma su certe cose mica vanno tanto a funghi con la panna, gli olandesi. L’arciprete s’era orientato sulla comodità. Per purificarsi dalle proprie colpe scellerate e per non dover subire l’onta dello scandalo che sarebbe di certo esploso in paese, qualora non fosse rientrato a casa nei tempi dovuti. Ovvero andata e ritorno da Lourdes in pullman di linea, più breve soggiorno tonico. E ora si pavoneggiava dietro quella fiducia stoica semplicemente ereditata dal miracolo chimico. La ragazza lo osservava sconvolta singhiozzando con sincero rammarico. Anche perché era ancora traumatizzata per le urla di una sposa rincasata forse troppo in anticipo, che aveva assai mal digerito quell’ossessione copulativa interrottasi brusca sotto i propri occhi. L’avevo detto io che forse era presto... Esercizio che ritenne infatti fatalmente profanatorio di quanto poteva essere rimasto ancora d’un talamo a suo tempo benedetto dal talento puro e dal progresso che avanzava. Bisogna imparare a percepire i tempi giusti per fare le cose, seguire il ritmo e mantenerlo vivo finché si può. Vai tu a capire invece cosa s’era mangiata a cena la sera prima! «Dottor don Curato, sono prostinata, distrutta, smagliata… smerigliata infino. Ho la maniglia tutta a pezzetti… Guardi come sono rigonfia qui e anche qui dietro… Trasbordo. Guardi, guardi pure! Non c’è inganno… Le giuro che non succederà mai più. Mai più! Ma la 15 prego dottore, m’aiuti ad allevare questo petto di dolore carcerario. Quest’angoscia aragosta, lo giuro! è così… struccante… Mi dissolva, lo giuro! mi riassuma in cielo al san Pier e Paolo… e prometto che sarò la sua serva, come un uovo. Faccio anche i piatti… Lo giuro!» Alcuni allo scopo di purificarsi dal voto, la domenica sera si flagellano a sangue la schiena, pronti a ricominciare comunque la settimana seguente per l’ennesima ricaduta di stile. Anche due volte a seduta. Altri si convertono senza motivo e all’improvviso partono in missione. Qualcuno a riunire la banda del paese, ottoni, legni, archi, due riccioli in omaggio. Qualcun altro invece se ne va in vacanza nei paesi aridi del Terzo mondo con la sua tromba in mano, a soccorrere i poveri locali con qualche quintale di latte in polvere scaduto. Oh, when the saints… Si narra anche d’un numero imprecisato d’enormi tir stracolmi di doposci a pelo lungo, da dimenticarsi agli incroci con semaforo. Pelo di castoro più che altro. Per quanto non ci metterei troppo la mano sul fuoco. Primo perché è da idioti e secondo perché non si sa mai come vanno certe cose. Non è colpa di nessuno. Li compri che sono visoni e nel tempo del viaggio da là a qua si riproducono sei o sette volte come ramarri. Solo che l’aria di qui gli fa male, peggio che alla canapa indiana, e quando arrivi ti ritrovi solo una camionata d’assurde nutrie baiadere. Non ti rimane altro che buttarle al fiume. …go marching in… Lucia non era il tipo per provvedimenti così estremi. Ma nei successivi dieci minuti, diciamo anche quindici, perché i tempi sono fondamentali in certe cose ad eccessivo rischio di precocità, divenne effettivamente la serva di Dio. Interrogatasi sulle possibili opzioni che Lui avrebbe prediletto, intraprese una campagna classica con tanto di santini distribuiti di persona al mercato. Il soldato di Cristo discese i gradini della chiesa e avanzò spavalda verso la piazza, ostentando quel medesimo sorriso che aveva osservato sbocciare inatteso sul viso ancora giovane della madre, ogni volta che il marito rientrava a casa in anticipo dopo una settimana d’impegni occulti a Milano. Per lei quello era rimasto l’esempio più virtuoso dell’amore cristiano. Cominciò allora a distribuire i cartoncini colorati e tutto l’affetto che sgorgava copioso dalla sua anima bella a chiunque incontrasse. E si dimenticò per una volta d’evitare i non graditi, quelli più poveri di lei e persino di scrivere il numero dei cellulari sul retro, non si sa mai. Era sinceramente dispiaciuta ed assolutamente affranta. Tuttavia, arrivata al banco del pesce, per uno di quei fortuiti casi che nascondono ben altre giustificazioni cui appellarsi in realtà, riconobbe l’auto nuova di Manuel. E un’arcana sensazione a dir poco 16 tropicale, assopitasi fin dall’ingresso in casa della chioccia congiunta, proruppe d’un tratto fluida in tutta la sua incandescente vitalità. Come presa da un raptus incontenibile, cacciò tutti i santini rimasti nella bocca spalancata di un’enorme orata agonizzante sul bancone, tra le anguille e i cubetti di ghiaccio. Quindi saltellò giuliva fino all’appartamento di Manuel Pinotti, bidello semplice e sottile critico di costume, suo unico ed eterno amore. 9 III. Marcella Adelina Maramonti, congiuntasi in Beltrami all’ombra d’una settimana bianca da ramarri zigani, s’era conquistata a digiuni, e penitenze un ruolo decisamente liberty tra gli arredi dell’oratorio di don Curato. Dire, fare, baciare, lettera e il testamento della nonna è pronto. Uno di quei nomi e cognomi, il suo, che era meglio notarsi tra doppie virgolette sul foglio dei turni, se non si voleva svernare in Purgatorio più del tempo già prescritto da ben altre sfere sgargianti, giganti… giranti forse. 10 Una roba grossa e girevole insomma, un po’ come lei. E se per cortesia non sarebbe stato proprio da dirsi così grossa, visto che non era affatto una balena, non era nemmeno un capodoglio zoppo e si trattava pur sempre d’una signora coi baffi, diciamo allora un poco sovrappeso. Come il barattolo vuoto delle 9 Desidero ricordare qui un’opera basilare per la mia formazione, che il collega Manuel scrisse in un lontano 1994 di mezza estate, e che conserva tuttora una straordinaria carica evocativa: M. Pinotti, Masbòratrobertobaggio, Duedicoppe, Brazzaga Po Vecchio 1994. 10 N.d.C. Mi par d’intravedere, in su la penna che qui scorre amica, l’esplicita allusione ad un celebre verso dell’Anacleto di frate Guglielmo Lancialarpione (1564-1616), popolare componimento lirico che tratta di una fresca passerina finta timida, detta anche la mucca anatroccola o la brasa morta, la quale pigolava melodiosa e malinconica, agitandosi tutta nel suo bel costumino rosso leopardato, all’unico scopo d’attirare a sé i maschi più dinamici e volenterosi della valle, o almeno quelli solitari, e deporre così qualche Fabergé insieme da rivendersi poi un domani al mercatino rionale. Cosa deve fare una per campare… Soggetto alquanto scabroso per l’epoca, che avrebbe procurato non pochi fraintendimenti del tipo fiammingo all’autore eventualmente colto in flagrante sull’autobus. Questi infatti, non apparso mai in pubblico di persona se non dietro paraventi, secondo i più recenti studi era in realtà un prestanome, uno pseudonimo che nascondeva un collettivo letterario animato da eminenti personalità del periodo. Gli esperti concordano sull’identità da attribuirsi a gran parte degli affiliati, che non potevano certo mettersi a fare pollaio nei palazzi di governo. In particolare si fanno i nomi di Edward de Vere, XXVII conte di Oxford, di William Stanley, VI conte di Derby, di Francis Bacon, del redivivo Christopher Marlowe, di Ben Jonson, di Thomas Middleton, di sir Walter Raleigh, forse in tacita collaborazione con lo stesso Bacon, di Mary Sidney contessa di Pembroke e addirittura della sovrana vergine, la regina Elisabetta I. Quella rossa, perché quella grossa si faceva chiamare invece Vittoria, e come impone l’etichetta a bollicine sulla mia bottiglia, è tutta un’altra Storia. 17 offerte, i panettoni del ’71 parcheggiati sullo scaffale alto e riciclati nei campeggi estivi, la stufa a kerosene senza uno straccio di tubo. Lo straccio e il tubo della stufa che Diomede usava per fare il pirata Sandokan giocatore di baseball. Anche il sabato a dottrina. Mompracem vivrà… Potrei aggiungere che il barattolo era mezzo pieno di monete vintage da cinquecento lire, che i panettoni erano rimasti davvero in pochi sulla mensola, e una volta sbriciolati potevano tranquillamente farsi dare del torrone. Che il tubo della stufa era stato rimpiazzato da una gomma di due metri collegata all’esterno con un bell’imbuto giallo pieno di certificati. O cose simili. Ma a che servirebbe? Non credo che esporre in questo modo i fatti possa renderli migliori o peggiori di come già si offrivano al gusto inalienabile di ciascuno. Mi preme piuttosto sollevare alcune questioni. Può un barattolo delle offerte legittimamente eletto presentarsi in pubblico tutto pieno, invece che vuoto perché le offerte sono state usate secondo quanto promettevano appunto d’offrirsi in campagna elettorale? Può un panettone del ’71, gran bell’annata per i canditi di cedro quella, mimetizzarsi tra i soprammobili d’alta quota, a tal punto da indurre gli affamati campeggiatori estivi ad aspettarsi dal prete qualcosa di più recente per dessert? E infine, se nella brezza onorata della festa s’indovinano sentori di giovinette a portata d’amo, può un più o meno giovane pescatore di paperelle esimersi dallo scrupolo categorico d’impersonare Sandokan pirata giocatore di baseball, tutto paonazzo, direi addirittura bordeaux sotto i bordi, qualunque sia la natura della mazza che gli tocchi poi d’impugnare a ripetizione? …e il canto di un bimbo si alzerà… L’Adelina era in ogni caso il pilastro portante di tutte le attività che si svolgevano in quell’umido palazzone quattrocentesco, senza alcuna possibilità di rovesci equatoriali neanche a pagarli. Perché lì di umido c’era solo il palazzo. Quanto al resto, era da presumersi più simile agli umori intimi d’uno stoccafisso scozzese ben stagionato che altro, e non c’era proprio più niente da fare. L’anno precedente aveva allestito una vendita d’azzardo di torte sagomate al dettaglio, riportata fin sulla pagina delle cronache locali dal «Corriere delle Prealpi e del Destra Secchia». L’articolo si stagliava ora in una cornice ex-voto, proprio di fianco all’altare della Madonna dei miracoli. Chiunque transitasse da quelle parti, dopo regolare domanda inoltrata in triplice copia alla Madonna, sia gloria e lode, ecc… per ciascuna delle tre, non poteva fare a meno di notare il riquadro illuminato. Quindi abbozzando un rapido segno della croce con la mano sinistra, se ne andava via ruminando un ancor più 18 rapido «va’chetroia» a denti stretti. Suggerito più che altro dai tipici ardori di quei giorni lì, covati di persona o fatti venire per osmosi anche a quanti non ne avevano mai vantato il diritto. Ma nemmeno poteva evitare che una sana invidia ne guastasse per coerenza la regolarità dell’incedere armonico delle zampe, destra, poi sinistra... Ancora destra. A motivo dei loschi rapporti senza dubbio intrattenuti da quella faraona egizia con nostro Signore l’Altissimo e con sua Madre appena sotto, sia gloria e lode nei secoli, ecc... E barcollando ormai fuori controllo, finiva per sdraiarsi lunga sui ceri. Che rabbia! Che botta! Che troia! Amen. La specialità che tutti quanti le riconoscevano senza riserve era invece la pesca di beneficenza. Adelina occupava l’intero inverno nella meticolosa ricerca d’oggetti opportuni da rivendere alla pesca di primavera. Dapprima rivoltando l’anima della soffitta, quella sua e quella della suocera. Poi scendendo cauta negli armadi delle camere da letto, per convincersi infine sollevata che era meglio insistere sul rustico. Cilindro anarchico da cui estraeva cavandoli per le orecchie i suoi reperti ittici, che con un paio di ritocchi indovinati, un po’ d’acqua fresca spruzzata qua e là, la Provvidenza ortolana sapeva rendere come nuovi. Pronti per farsi strapiantare con amore al modico prezzo di tre caffè d’orzo ben tostato. Certi giorni di sole la si poteva scorgere abbarbicata al tetto della casa, mentre cercava invano di raggiungere il pallone fatto sparire da Gianluigi solo qualche anno prima. Quindici Quaresime, a contarle in fila, come nuovo. I più fortunati hanno goduto della Grazia divina emanante da ogni poro del suo corpo quando una volta cadde giù da quel tetto. E invece di rompersi una gamba come ogni assidua osservante avrebbe dovuto saper fare, s’andò ad infilare spudorata nel cospicuo mucchio di concime organico appena giunto da Reggio Emilia, dove si diceva allevassero certe vacche biologiche… «La pesca è il peccato di famiglia», ripeteva sghignazzando sguaiatamente a chiunque le facesse notare come mentre lei andava «alla pesca», suo marito andava invece «a pesca…», alludendo a chissà che con quel «…lla» tolto da lì quasi per caso. Perché lei non capiva cos’altro potesse significare l’andar «a pesca», se non alzarsi la mattina alle quattro, uscire con le canne e gli stivaloni cerati, guidare con prudenza sino al fiume, cercarsi un posticino tranquillo e propizio e lanciare l’amo fin verso mezzogiorno. Giusto in tempo per riportare a casa il pescato benedetto e farselo impanare dalla brava mogliettina di ritorno dalla sua santa pesca. Quella mattina Aurelio si era per l’appunto alzato alle quattro. Aveva imbracciato le canne come fossero archibugi, e agguantando 19 gli stivaloni cerati era schizzato via col fuoristrada mancando il gatto solo per una piuma d’oca giuliva. Naturalmente dopo aver sbavato un «ciao amore», umido quanto distratto, sotto i baffi della moglie. Aveva guidato con estrema prudenza in direzione del fiume. A tre chilometri da casa si era infilato in una stradina scavata sotto l’argine, il suo posticino tranquillo e propizio. Quella riparata da tanti cespugli stipati come baschi di salata riccia abbandonati a se stessi. Lì aveva dormito fino alle nove. Poi era tornato a casa, aveva parcheggiato l’auto in garage, esplorando tutte le stanze per essere sicuro che la moglie fosse davvero uscita. Infine aveva dischiuso la porta sul retro, da dove furtiva si era a sua volta introdotta una figura leggiadra, che ad un occhio attento ed esperto, il mio per esempio, poteva anche richiamare le sembianze della piccola Lucia, la figlia di Sganzerla il robivecchi. Nessuno comunque avrebbe potuto giurarlo con assoluta certezza in tribunale, perché dipendeva pur sempre da cosa s’era mangiata per cena la sera prima. La mattina era piuttosto fiacca, quando nell’oratorio entrò uno straniero. Un uomo elegante e distinto, piuttosto alto, con la cravatta dal largo nodo blu e un cappello del tutto blu, leggermente sgualcito. Sembrava uscito da un film neosurrealista cecoslovacco in bianco e blu, o forse aveva deciso d’entrarci e perdercisi proprio allora. In ogni caso non faceva alcuno sforzo per celare il nervosismo, un poco bianco ma più che altro blu, che tale disdicevole complicazione sembrava procurargli ad ogni sguardo adagiato d’intorno con orrore. E poi i ceki e gli slovacchi, si tormentava l’uomo, tutta brava gente da maiuscola facoltativa, si saranno presi gli uni il bianco e gli altri il blu? O avranno invece deciso di fare un po’ per uno da buoni vicini di campeggio, come si fa nei soporiferi zero a zero di fine stagione? «Provi la fortuna, mio caro signore!» lo accolse con un sorriso Adelina, notando come stesse per uscire di nuovo. «Mi scusi signora, cercavo solo uno stracazzacc… un telefono agibile insomma. Anche a gettoni d’oro va bene. Ho perso la mia cellula radio… noi che siamo stati al fronte la chiamiamo così… Eh? Sono un giornalista sa, cara signora? Ah, non si direbbe? E invece mi hanno inviato qui apposta per iscrivere un articoletto maiuscolo alla gara di pesca. Eh, che mi dice adesso? Sì va beh, infilerò anche dei corsivi sparsi tra virgolette per sottolineare certi ignoranti patemi d’anatra. Sì, sono anche un artista dell’anima culinaria. Perché vede quel che conta oggidì sono i quindici minuti di vantaggio sul gruppo degli inseguitori. Loro pedalano ancora mentre io scrivo la Storia. E ne ho a bistecche di talento in tasca per fare storie. Purtroppo non riesco a trovare il posto giusto, sì che mi ci son già strapazzato a suo 20 tempo. Certi dessert che ancora non li ho smaltiti. Ho pure la cartina, vede? Ma non c’è scritto niente di giostre, quintane, caroselli…» «Ma benedetto il mio ragazzo,» esclamò sbalordita Adelina scimmiottando un’intercalare di don Curato, «la gara è solo domani! Su da bravo gentiluomo, venga a tirare quattro colpetti alla nostra pesca di beneficenza. È per una giusta causa sa?» Lo straniero si guardò intorno avvilito. Com’era trascurato quel palazzo! Avrebbero potuto trasformarlo in uno splendido salone per i ricevimenti, farne un centro estetico alla moda, un agriturismo del cazzo, che lì non si sbaglia mai. O anche una concessionaria di auto d’epoca barocche, con quei corrimano accartocciati, quei lampadari inanellati. Una casa di riposo per ricchi piagnoni… E invece guarda che muri scrostati, cazzo… Una muffa così spessa che avrebbe intimorito Gesù Cristo in terra ferma. Questo borgo di bifolchi non si meritava un altro articolo sul giornale! Ora voleva solo simulare interesse e squagliarsela al più presto possibile, come un siluro d’un metro, un ramarro nell’orto, come un uovo di palombo adagiato s’un piano scosceso. Così decise d’estrarre un paio di biglietti alla pesca di Adelina. Uno bianco e uno blu, per non destare sospetti ed essere finalmente libero di tornare al più presto alla civiltà telefonizzata. «Ossignùr… dottor giornalista, le garantisco che stamattina erano un paio!» farfugliò lei sfoggiando un’insospettabile vergogna purpurea dagli affilati calcagni fino in fondo alle orecchie. In dodici anni d’onorata gestione della pesca, quella era la prima volta che le capitava di subire un’umiliazione simile. Aggredì il nobile straniero, sempre più seccato per l’ulteriore contrattempo, scaraventandolo con decisione sul divano sconvolto che arredava la camera. Mentre il sagrestano addetto alle gazzose li scrutava con occhio in apparenza spento, ciò nondimeno bramoso d’eventualità scandalistiche e profondamente indagatore. Se poi ci scappava anche qualche rivolo di compiacenza carnale acuta, tanto meglio. Lui avrebbe analizzato meticoloso pure l’altra guancia. «Faccio un salto a casa, è proprio qui dietro. Prendo l’altra scarpa e sono da lei in un battiequattrocchio!» Mentre correva mortificata pensò al marito. A come le facesse piacere sentirlo vicino nella comune occupazione della pesca. «Grazie Signore perché ci hai fatto dono di parole speciali con possibili significati differenti. Come la pesca. Così il mio Aurelio ed io possiamo sentirci vicini pur nella dolorosa lontananza fisica.» Mai avrebbe immaginato che la parola speciale non era certo da intendersi con «pesca», o quantomeno che non c’era da fermarsi lì. Avrebbe fatto meglio ad approfondire quell’equivoco «Suo marito 21 va di nuovo ad impanare il pesce?», invece di rispondere sempre a tutti che era lei, insomma, e soltanto lei ad impanarlo. Forse allora le sarebbe stato più chiaro come il sospetto in questione fosse piuttosto da far convergere sull’innocuo «pesce». Vocabolo dalla reputazione in genere cristallina, per via dell’occhio vitreo adagiato tra le anguille e i cubetti di ghiaccio. Ma che una volta afferrato secondo una delle proprie caratteristiche accezioni di natura genital-popolare, avrebbe anche potuto illustrarle, finalmente, la semplice ragione della sua ormai più che quinquennale estraneità alla faccenda ittica. IV. «…la chioccia furibonda si scagliava vermiglia e ispida s’un marito appena appena impaperato, laddove la pulzella seminuda, tenero, avventato scricciolo infradiciato di vergogna, si sottraeva a tanta violenza gettandosi a capofitto nel portone spalancato. Intorno mozzarelle e carrozze. Volavano spicchi d’uova sode, uova alla coque, uova bianche e blu di sospetta provenienza egizia… Una scarpa sparigliata… Che frittata… Io, prontamente accorso a spregio dell’ingente pericolo, intuendo all’istante da navigato uomo di mondo la situazione, con ferma nobiltà d’animo le ho offerto la mia giacca blu per coprirsi le spalle… così bianche, fragili, implumi… Una preziosa giacca cecoslovacca che non ne fanno più di uguali. Filato di qualità superiore, cuciture robuste. Poi con sommo ardimento l’ho scortata al riparo, verso la chiesa barocca, i suoi amorevoli riccioli e il perdono. Un’aria capricciosa raggelava i baveri dei più alti papaveri. Qualche sottana accesa riprendeva ignara a vagheggiare prospettive rotanti per la sera, visioni di fughe complesse, arrendevoli scorci sul velluto oltremare. Marito e moglie sparivano allora rincorrendosi per le vie del paese, divorati dalla folla laboriosa del mercato in perenne fermento. Verso un roseo tramonto che per quanto arduo e lontano, si prometteva tuttavia foriero di belle speranze e rinnovata serenità. La provincia bollente continua inesauribile a farci dono delle sue grazie. Le belle avventure piccanti d’una volta, così sanguigne e gagliarde, che noi fantasmi di città abbiamo smarrito per sempre negli anonimi sexy shops di quartiere, perdurano qui invece tuttora gaie e ruspanti, e conservano immacolata una straordinaria poesia. Io purtroppo ho vissuto solo il tenue riflesso di questo evento prodigioso, la sua eco sbiadita. Sebbene sia riuscito ad assaporarne con letizia l’umore di sfuggita, nel battere appassionato del mio cuore fuori tempo, al di sopra del tempo, improvviso, impetuoso, effimero. 22 Come un uovo di palombo. Confesso infine che finché avrò vita ne serberò per sempre il caldo nostalgico ricordo.» Armando Bottardi, titolare del banco ambulante di calze, finì di leggere l’articolo Provincia bollente, sillabandone eccitato la firma: «Gia-cin-to-Strag-gi», l’illustre giornalista del «Corriere delle Prealpi e del Destra Secchia», già autore dell’articolo che l’anno prima aveva celebrato il paese e le sue torte. Un boato d’approvazione si levò allora dal fondo del bar Tellini. 11 Poi, sorseggiando adagio un Campari allungato a lambrusco, egli intrattenne con mestiere i compagni bucanieri, narrando di come il giorno prima si fosse visto piombare uno squalo tigre dritto sul banco, e avesse colto al volo l’occasione per sfottere qualche grosso imbecille a spasso per il mercato. E se per cortesia non sarebbero stati proprio da dirsi così grossi gli imbecilli, bensì appena un poco sovrappeso, la verità è invece che i soggetti coinvolti loro malgrado nella vicenda erano davvero grossi come imbecilli. Uno in particolare vantava tanto d’agriturismo alla moda con laghetto in dotazione. Armando raccontava spesso d’essersi iscritto al primo anno di Ingegneria a Padova, dove era stato iniziato alla cultura della beffa goliardica. Un ufficio antico quanto l’uomo e la donna degli altri. Poi a Natale era scomparso il babbo… In verità era un attento estimatore della trilogia di Porky’s, 12 e appena poteva, cercava d’architettare qualche burla della medesima scuola da trasformare poi in mito alcolico per gli amici del bar. L’istruzione non può che recare benefici ai profani di buona volontà, pensava. Quelli che aspirano a qualcosa di meglio d’un ignorante limoncello a fine pasto. Gli assetati ovviamente conoscevano questa particolare attitudine ad ingigantire le cose, ad aggiungere un po’ di simpatia sotto i baffi. Ma gli andava bene anche così. Anzi, soprattutto così, perché era un vero spettacolo vederlo ancheggiare mentre mimava con tutto il mastodontico corpo le sue mirabolanti imprese. 11 Il signor Cesare Tellini ci tiene a far sapere che ha provveduto a querelare il dottor S. Benni, il quale dopo essersi fatto un caffè nel suo locale pensò bene di scrivere Bar Sport, Mondadori 1976, Feltrinelli 1997, e non contento di ripetersi dopo qualche tempo con Il bar sotto il mare, Feltrinelli 1987. A parte il fatto, sostiene il Tellini, che Bar Sport sarà sua sorella, perché lui di nomi ne ha cambiati parecchi, scelte da intellettuali di razza, come Bar Bablù, Bar Racuda, Bar Richello, e pensava adesso Bar Bapapà o forse Bar Boni che è meglio. Ma… sotto il mare… per qualche sputo di catarro qua e là… Andiamo! E poi, chiamare in causa sua moglie Luisa all’unico scopo di canzonarla per via del grosso culo… insomma del culatello appena un po’ sovrappeso che si ritrova… è stato davvero ignobile! 12 Porky’s - Questi pazzi pazzi porcelloni, 1981, e Porky’s II : il giorno dopo, 1983, film diretti da B. Clark; Porky’s III : la rivincita, 1985, diretto da J. Komack. 23 Sapevano con certezza che malgrado quanto doveva essersi divorato per cena, lo squalo tigre non poteva essere stato più grande d’un pescegatto coi pantaloni corti. Quanto alle calze, probabilmente non erano proprio rosa. Ma essendo il suo banco stracolmo di calze d’ogni colore, concordarono che il rosa poteva anche essere quello che meglio s’intonava ad uno squalo leopardato con ragionevole decadenza in pescegatto minorenne. Sempre di felini si trattava. «Mah! come ha fatto… Quello dei formaggi sostiene d’aver visto un tizio tutto sbigolato avvicinarsi al banco del pesce fresco. Ma vestito bene, neh? Stivaloni cerati, gilet con le tasche, camicia di flanella a quadri… un frac. Boccheggiava a mozziconi l’architetto... Gnignì! Gnagnà! Forse era un architetto di città. Giovanardi non fa una piega. Del resto ha abitato in centro a Mantova da piccolo e non si spaventa più di niente. Lo saluta invece… pare che passasse tutti i mercoledì a mezzogiorno… mai visto. Gli mostra l’esemplare enorme apparecchiato apposta per lui sul frigo. Enorme… un po’ sovrappeso via, …tutta salute per il bilancio di fine mese. L’uomo è nervoso, parecchio, paga in fretta e scappa via dimenticando lì il malloppone. Subito arriva una femmina da brodo completamente fuori di sé che sbava e scalcia sputacchiando in ogni dove. E l’abbiamo sentita tutti la cicogna sbattere le alette flaccide, neh? coi suoi anatemi strampalati e puttanate varie. L’avrei aggiustata io quella lì… fin sotto i bordi… Comunque agguanta il pesce squalo per la coda e gridando come una pazza lo scaglia con tutte le proprie forze in direzione dell’uomo di prima, il musicista mancino lì, …il geometra di Codogno. Ma il lancio è da schiappa rara, e la bestia parcheggia appena dentro al mio banco di calze...» Morselli, continuando imperterrito a sfogliare il suo giornale, un po’ seccato per l’attenzione del tutto monopolizzata dal Bottardi, bastardo lui, sua sorella trota, sua madre e sua nonna in fila per due come le pecore dell’Intervallo, arrivò in fondo all’ultima pagina. Poi, illuminato, ritornò di scatto alla cronaca locale: «Ehi giovanissimi… ieri il Dio ha tirato sotto uno di Brazzaga, su all’incrocio… quello del semaforo… Ecco perché non s’è visto in cava… l’avevo detto io! C’è scritto che per la violenza dell’urto si sono piallate via tutte le schiene degli asini in entrambe le direzioni… boh! e che un vecchio ciclostile barocco… no aspetta... un motociclo in stile antico, una baracca fuori moda per fortuna, pare si sia infilata nel cappuccino del cavalier Calciolari. Ha dovuto cambiarlo… Comunque sarà il terzo elemento in due settimane. Sandokan punta decisamente al record di Sganzerla dell’Ottantadue!» 24 «…Oh!» fece il Bottardi, «non mi viene in mente di buttarlo oltre il muro con tutti i suoi magri auspici? Sai la faccia di quelli che si sono visti arrivare dal cielo uno squalo tigre coi calzini rosa? C’era proprio da farci un film. O magari scriverci su un articolo… Qualcuno vuole un altro sant’Antonio abate per schermare pollaio e stalla dalle oscure influenze maligne? Va bene anche per il camioncino dei vitelli, neh?» Solo Diomede avrebbe tuttavia indovinato la risposta esatta: «Sant’Antòni dal gugìn, cal szügàva cui cicìn, i cicìn i’é scapà, sant’Antòni al s’é lugà. Sérca, sérca fin a sìra, la Giuàna e la Cesìra, quant’i sùna li campàni… tœti fóra da li sutàni. L’era al Tòni pr’i cicìn cal sunàva al campanìn, ma li ciòsi ad la baléra i l’à méss in s’la scaléra. Sant’Antòni banadétt, sant’Antòni puarétt.» 13 13 «Marcantonio del Bar Bino osservava un bel pulcino, il pulcino è corso via, Marcantonio da sua zia. Cerca, cerca fino a sera, da Giovanna e zia Severa, quando un vento di campane fa frullare le sottane. Era il Tonio malandrino che strizzava l’occhiolino, ma sua moglie bersagliera l’ha inchiodato alla testiera. Marcantonio Squassaletto, Marcantonio poveretto.» Trad. chiocciara dell’appunto mosso dal sig. Bertazzoni, il quale aggiunse un intraducibile «Veh, Berlìnguer… Oooooh!». In mano stringeva un basco di salata riccia. Un ramarro albino ci scrutava esausto. Un occhio di qua, uno di là. Gli consigliai una settimana bianca. 25