Una crisi in bilico sulle disuguaglianze - Il Sole 24 ORE

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2 giugno 2009
Una crisi in bilico sulle disuguaglianze
di Fabrizio Galimberti
Secoli di storia economica ci hanno insegnato che lo sviluppo dell'economia non procede mai in modo continuo e
regolare, ma a scatti e spasmi. Sì, ma ci possono essere crisi e crisi, si potrebbe obiettare. La crisi di cui ci stiamo
occupando è particolarmente violenta, ha spazzato il mondo come un'epidemia - non avremmo potuto fare qualcosa
per evitarla o almeno renderla meno virulenta? Col senno di poi, sì.
La crisi ha avuto fondamentalmente due cause: il troppo debito accumulato dagli Stati Uniti, e i pericolosi balocchi
che, secondo un copione sempre ripetuto in secoli di innovazione finanziaria, erano stati maneggiati ignorando le
"istruzioni per l'uso" (che peraltro non esistevano) fino a che non erano scoppiati in faccia a banche e investitori
incauti. Sì, ma perché gli Usa si erano indebitati troppo? Una possibile interpretazione delle cause e degli effetti
potrebbe essere questa. Con la caduta del Muro di Berlino e la caduta di altri statalismi in Cina, India e altri paesi,
ha preso avvio dall'inizio degli anni Novanta quel processo che chiamiamo globalizzazione.
La globalizzazione ha messo a disposizione dei lavoratori di tutto il mondo beni e servizi a basso prezzo, facendo
leva sul basso costo del lavoro di quei paesi emergenti. Ma allo stesso tempo quest'ingresso di miliardi di lavoratori
nell'economia di mercato ha avuto lo stesso effetto che avrebbe nei mercati del rame la scoperta di immensi nuovi
giacimenti del metallo rosso. Il prezzo del rame scenderebbe, e così scende anche il prezzo del lavoro (salari e
stipendi) dato che nei paesi occidentali i lavoratori si trovano, direttamente o indirettamente, a competere con i
nuovi arrivati che offrono il proprio lavoro per un "pugno di riso".
Questo non vuol dire, naturalmente, che salari e stipendi occidentali si siano adeguati a quelli cinesi, ma che si è
creata una pressione al ribasso sul costo del lavoro nei paesi "emersi". Salari e stipendi sono rimasti fermi o sono
cresciuti poco. Nell'altalena della distribuzione del reddito, meno redditi da lavoro vuol dire più profitti. Le imprese finanziarie e non finanziarie - si sono avvantaggiate dalla globalizzazione perché da una parte hanno visto rallentare
il loro costo del lavoro, dall'altra hanno riorganizzato le loro "catene di offerta" andando a cercare in giro per il
mondo i prodotti e i semilavorati là dove costavano meno, dall'altra ancora hanno sfruttato i prodigi della telematica
risparmiando anche sui servizi: hanno spostato in paesi a basso costo tanti servizi informatici, di contabilità, di
trattamento di rimborsi assicurativi, e financo di lettura di cartelle radiologiche, per citarne solo alcuni.
Questi cambiamenti nella distribuzione dei redditi minacciavano conseguenze su quella che gli economisti
chiamano la "domanda effettiva", cioè a dire la domanda di beni e servizi che si sviluppa nell'economia. Dato che i
redditi da lavoro vengono spesi quasi tutti, mentre i redditi da profitti hanno un contenuto di "domanda effettiva" più
basso, una redistribuzione dei redditi avversa al lavoro rischia di ridurre la domanda effettiva. Perché questo non
succeda bisogna che i lavoratori non riducano la loro spesa, e questa "esigenza" crea spazio per nuovi strumenti di
debito che permettano alle famiglie di continuare a spendere come prima, indebitandosi. Questi nuovi strumenti
hanno quindi permesso alle famiglie americane di innalzare il loro livello di debito ai massimi storici (si veda il
grafico), hanno permesso di aumentare la domanda di case con i famosi mutui subprime, e a sua volta questa
maggiore domanda di case ha innalzato i prezzi delle abitazioni, permettendo alle famiglie di usare le case come un
bancomat: un sistema finanziario (troppo) sofisticato permetteva di rifinanziare i mutui con enorme facilità e di dare
prestiti addizionali avendo a garanzia l'accresciuto valore delle case (e confidando incautamente che i prezzi delle
case non sarebbero mai scesi).
Una caratteristica del periodo che ha preceduto la crisi, specie in America, è stata proprio l'accrescersi della
disuguaglianza dei redditi. Da una parte, come detto, c'è stata una pressione al ribasso sui redditi da lavoro (dovuta
non solo alla globalizzazione ma anche alle nuove tecnologie, che svantaggiavano i lavoratori con meno istruzione),
e dall'altra c'è stato questo aumento dei profitti che veniva a premiare la parte più ricca della popolazione, e
segnatamente, come lamentava profeticamente James Tobin già nel 1984, nell'industria finanziaria. La piramide dei
redditi, insomma, ha visto allo stesso tempo più ricchi e più poveri.
Tutto questo non deve certamente essere letto come un atto di accusa alla globalizzazione. Se invece di guardare
alle disuguaglianze all'interno di ogni paese considerassimo tutto il mondo come un solo paese, vedremmo che la
disuguaglianza nei redditi della popolazione mondiale non è cresciuta, anzi si è ridotta: e questo grazie alla forte
crescita dei paesi emergenti, che ha portato centinaia di milioni di persone fuori dalla povertà. Un aumento della
disuguaglianza all'interno di ogni paese non è incompatibile con una diminuzione della disuguaglianza a livello
15-07-2009 10:48
Una crisi in bilico sulle disuguaglianze - Il Sole 24 ORE
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globale. Ma ciò non toglie che quel che influenza la fiducia è la disuguaglianza vista all'interno del paese, e quel che
rende questa crisi così dura è che la sfiducia si alimenta anche del senso di ingiustizia associato ai "più ricchi, più
poveri".
L'articolo è un estratto dal capitolo «Si poteva evitare» del libro «Sos economia»
Il LIBRO
Fabrizio Galimberti,
Sos economia. Ovvero la crisi spiegata ai comuni mortali, editori Laterza, pagg. 162, € 14,00.
Da giovedì prossimo in libreria
2 giugno 2009
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