RAPPORTI INEDITI TRA FENOMENOLOGIA E TEOLOGIA IN FRANCIA La proposta di Emmanuel Falque Nei saggi che si occupano di studiare gli autori della fenomenologia francese compare spesso un confronto con il libro di D. Janicaud Le tournant théologique de la phénoménologie française1. È curioso notare come il testo concluda con un’espressione lapidaria che potrebbe essere sottoscritta dagli autori con cui Janicaud entra in polemica: «Phénoménologie et théologie font deux»2. Marion stesso, più volte contestato da Janicaud per i passaggi metafisici e teologici di cui abbonderebbe la sua fenomenologia, sostiene che «la filosofia rimane nei propri limiti» e, parlando di sé, dice: «Da filosofo, io non posso avventurarmi nel terreno proprio della teologia»3. Anche Ricoeur, tra gli ultimi suoi scritti, riconosce a sé stesso una sorta di «ascetismo dell’argomentazione» secondo il quale, pur dichiarandosi entro i confini della fede biblica, ciò non avrebbe mai impegnato la posizione del suo lettore4. M. Henry rifiuta con decisione ogni legame con la teologia: «Je ne connais rien à la théologie»5. Eppure è piuttosto evidente che tanto Marion quanto Ricoeur e Henry si avventurano in ambiti di riflessione tipici della teologia. Se dunque non possiamo considerare risolutiva del problema la riflessione di Janicaud, è necessario riconoscere che essa pone l’accento su un reale problema che alimenta la fenomenologia francese: il rapporto con la teologia, segnato da un lato da un’evidente attrazione tra le due aree epistemologiche, dall’altro da un prudenza talvolta eccessiva nel definire come di pertinenza della filosofia alcuni asserti sulla rivelazione, sulla Scrittura o sui sacramenti, tradizionalmente rivendicati dalla teologia come propri. Tra interesse e prudenza, il rapporto tra teologia e fenomenologia nella produzione francese appare almeno promettente per entrambe, e non mancano gli studi che ne fondano la reciproca pertinenza. È in questo contesto che l’opera di Falque risulta di un certo interesse6. Egli si dimostra sensibile al cambiamento di rapporto che in Francia è avvenuto grazie alla fenomenologia: Sotto l’impatto e l’influenza della filosofia e, soprattutto in Francia, della fenomenologia, il rapporto tra filosofia e teologia è profondamente cambiato. Ciò che ieri veniva detto in termini di scontro, o perlomeno di rigida separazione tra discipline, oggi si enuncia in termini di ricomposizione, di “connettitura” e di “conversione”, non in una totale identificazione dei campi, ma secondo una mutua e reciproca fecondità della filosofia e della teologia7. Entro questo mutato panorama, Falque si propone con una “sana spregiudicatezza”: il rapporto tra teologia e fenomenologia non può essere istituito a partire da barriere convenzionali. Fedeli all’appello husserliano di un ritorno alle cose stesse, non si costruisce in astratto una epistemologia, ma le relazioni tra le due aree vanno definite in atto e a partire dalla loro effettività: ogni barriera costruita a priori non onora la fedeltà della fenomenologia all’accaduto. Falque rimprovera in particolare a Marion e a Henry un confine troppo rigido tra la teologia e la fenomenologia, in nome di una salvaguardia formale di una certa purezza filosofica, ma «la maschera cela soltanto chi si crede mascherato. E nel carnevale della filosofia è meglio presentarsi senza pudore che celare quello che, ad ogni buon conto, è fatto per essere messo allo scoperto»8. D. JANICAUD, Le tournant théologique de la phenomenologie française, L’èclat, Combas 1990. Cfr. l’ultimo paragrafo del testo. 3 J.-L. MARION, prefazione a N. REALI, Fino all’abbandono, l’eucaristia nella fenomenologia di Jean-Luc Marion, Città Nuova, Roma 2001, 7. 4 Cfr. P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, ed. du Seuil, Paris 1990 (trad.it. di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, 100-101). 5 Espressione citata da D. JANICAUD in La phénoménologie dans tous ses états, Gallimard, Paris 2009, 28. 6 E. Falque nasce nel 1963 a Parigi. Consegue il dottorato in filosofia presso l’Università di Parigi-Sorbona e la licenza in teologia presso il Centro Sèvres. Attualmente è il decano della facoltò di Filosofia dell’Institut Catholique di Parigi. 7 E. FALQUE, L’incontro con il mistero di Dio in occidente. Filosofia e teologia, nuove frontiere, in «La nuova Europa. Rivista internazione di cultura» 6(2010), 19-32, qui 21. Cfr. anche IB. Mètaphysique et théologie: de la bienveillance à la perfomance, in «Transversalité» 2(2009), 125-128. 8 E. FALQUE, L’incontro con il mistero di Dio in occidente, 30. 1 2 1 Il pregiudizio del teologo non può che essere favorevole nei confronti di un autore che propone il rapporto tra la teologia e la filosofia come vitale per entrambe, oltre ogni preconcetta separazione. L’analisi più rigorosa di alcuni nodi del pensiero di Falque ci permetterà di apprezzare meglio il rigore di ciò che qui è stato anticipato solo in maniera intuitiva e di formulare alcune circostanziate critiche. 1. Teologia e fenomenologia: oltre Janicaud «Non abbiamo altra esperienza di Dio che quella dell’uomo»9: sul fondamento di questo adagio, che più volte compare nella riflessione di Falque, è possibile giustificare la reciproca pertinenza di teologia e fenomenologia. Nessuna rivelazione può accadere senza implicare il soggetto e quindi la filosofia (da intendersi come il momento critico di ogni esperienza antropologicamente pregnante) è di diritto implicata in una riflessione teologica fondamentale. La fenomenologia nasce e si sviluppa (almeno in area francese) come tentativo di impostare una nuova interrogazione filosofica prima: la posta in gioco è che esiste un vissuto del vero che precede ogni verbalizzazione, e tale vissuto non può prescindere da un atto di correlazione tra la coscienza e ciò che la trascende. La rivelazione, nel carattere di destinalità che la contraddistingue, convoca l’uomo e la sua coscienza. Un’indagine rigorosa di ciò che accade quando la coscienza viene convocata (la fenomenologia) non può che apparire pertinente all’esercizio critico della ragione di fronte alla rivelazione accaduta (la teologia). La teologia si legittima perché qualcosa è accaduto e la fenomenologia tematizza “cosa accade quando accade qualcosa”. L’implicazione dell’uomo nella rivelazione e il suo connaturale interesse antropologico legittimano così la correlazione tra teologia e fenomenologia. Tuttavia né la fenomenologia né la teologia si interessano in astratto della rivelazione: essa ha assunto una figura storica concreta nell’evento di Gesù Cristo. La teologia custodisce lo stupore di fronte ad una concreta esistenza umana in cui è accaduta la verità di Dio. La fenomenologia, di fronte a Cristo, non è invitata a occuparsi di altro che di ciò che più le sta a cuore: l’accadere dell’esistenza. La qualità dell’esistenza cristologica conducono il teologo e il fenomenologo ad una comune affermazione, che magistralmente Falque riassume in queste parole: «Nulla accade nell’uomo che non sia accaduto in Dio»10. Mediante i due adagio esaminati, Falque tematizza l’interesse reciproco di teologia e fenomenologia, ma in quale modo articolarne lo specifico? Ciò che distingue la filosofia e la teologia non è prima di tutto il contenuto (è infatti possibile trattare anche, ma non in modo esclusivo, filosoficamente dell’eucaristia o della risurrezione), ma la differenza dei punti di partenza (in basso/in alto) e dei modi di procedere (euristico/didattico)11. Se le discipline possono non differire nell’oggetto del loro studio (la fenomenologia, in forza dell’evenemenzialità propria dell’evento cristologico, studia tematiche tradizionalmente di pertinenza teologica, ma «la teologia ritiene effettivo ciò che la filosofia considera solamente come possibile»12), la filosofia, a differenza della teologia, avrebbe un innesco dal basso. La fenomenologia non produce alcun evento, ma è in grado di esplicitare il carattere evenemenziale di ogni donazione di senso. Il fenomenologo giunge al fenomeno di Gesù Cristo nell’indagare la fenomenalità che esso implica, attestandosi come compimento. L’indagine fenomenologica è ricca di riflessioni sulla carne, l’angoscia e gli stati emotivi, il nascere e il venire al mondo, il fenomeno erotico. La rivelazione cristologica, per il fatto che non abbiamo altra esperienza di Dio che quella dell’uomo e che nulla accade nell’uomo che non sia accaduto in Dio, non avviene a margine rispetto all’antropologia fondamentale che la fenomenologia indaga. Il Cristo accade come evento corporeo, vive l’angoscia, nell’ultima cena parla di una consegna del corpo con un linguaggio dalla 9 E. FALQUE, Métamorphose de la finitude. Essai philosophique sur la naissance et la résurrection, Cerf, Paris 2004, 37. 10 Ibid., 144. Cfr. anche E. FALQUE, Saint Bonaventure et l’entrée de Dieu en théologie, Paris, Vrin 2000, 75-78. 11 E. FALQUE, Tuilage et conversion de la philosophie par la théologie, in E. FALQUE – A. ZIELINSKI (ed.), Philosophie et théologie en dialogue, L’Harmattan, Paris 2005, 45-56, qui 46. 12 Ibid., 49. 2 semantica erotica, parla della risurrezione come una nuova nascita; nella qualità del suo vivere umano, emergono una portata protologica ed escatologica uniche. Se il teologo muove dall’evento di Gesù Cristo e ad esso ritorna per comprenderlo, la strada del filosofo è per certi aspetti più tortuosa, in quanto non è detto che giunga da dove è partita. La riflessione filosofica ha un carattere euristico, poiché approda a conclusioni che possono anche essere radicalmente differenti rispetto alle premesse. Diversamente la teologia ha un’intonazione più didattica, in quanto per metodo intende raggiungere ciò che la autorizza, ossia l’evento cristologico. Ma «ciò che fa la forza dell’una, la teologia come discorso a partire da Dio, non impedisce l’altra, la filosofia come discorso sul fenomeno Dio che si mostra all’uomo»13. Il rapporto tra filosofia e teologia deve approdare, a giudizio di Falque, ad una trasfigurazione della prima in virtù di ciò che studia la seconda: occorre ripensare al detto scolastico secondo il quale la filosofia sarebbe ancilla theologiae. Se la teologia possa apportare qualcosa alla filosofia o viceversa non si stabilisce a monte rispetto all’esercizio effettivo dell’indagine fenomenologica e alla riflessione cristocentrica. Quando la filosofia tematizza l’esperienza della carne, dell’eros, dell’angoscia, del rapporto con il mondo, di fronte alla risurrezione di Cristo è nelle condizioni di tematizzare un’esperienza corporea, erotica, contestuale ed emotiva inedita. Il filosofo non parte dalla risurrezione: vi si imbatte, ma essa non può essere rimossa in quanto evento in grado di trasformare l’umano. D’altra parte la trasformazione dell’umano non accade fuori da esso: «È sul cammino dell’uomo che il discepolo precisamente vi incontra l’uomo-Dio»14. Il brano dei discepoli di Emmaus viene spesso usato da Falque come icona: dal di dentro dell’angoscia, della morte e dell’intersoggettività i due accedono ad una nuova nascita dell’umano grazie al Cristo che si fa compagno della loro ordinarietà. Perché Dio si è fatto uomo e si è fatto vedere anche come uomo compresa la sua risurrezione, è attraverso l’uomo che noi sempre accediamo a lui (e dunque attraverso la filosofia), per essere poi trasformato e matamorfizzato in Dio (cioè dentro l’ambito della teologia)15. Quello che preme sottolineare, e che rappresenta un punto di forza della riflessione, è che l’epistemologia proposta da Falque non è costruita a priori: alla luce dell’evento Cristo e della direzione presa dalla riflessione fenomenologia è possibile sostenere tra le due aree una reciproca pertinenza. La fenomenologia indaga i vissuti di coscienza alla ricerca della verità dell’uomo e la teologia studia un vissuto di coscienza (di Cristo) riconoscendolo come la verità dell’uomo. Solo una pregiudiziale chiusura creerebbe una barriera invalicabile tra le due discipline16, e solo una eccessiva prudenza induce il fenomenologo a continuare a dichiararsi “al di qua” del confine con la teologia: «Non è più il tempo della repulsione o dei tipi di inclusione, piuttosto della fecondità reciproca e di una radicale trasformazione dell’una attraverso l’altra»17. La reciproca appartenenza è reclamata da ciò che hanno di più specifico. Filosofo prima di tutto, noi interroghiamo la via euristica, più che dialettica, e il laborioso passaggio attraverso l’uomo piuttosto che l’immediata rivelazione di Dio. Tuttavia, teologo anche, scopriamo che non ci troviamo soli, con l’uomo e nella filosofia, precisamente là dove Dio ha già percorso il cammino per ritrovarci e anche per accompagnarci18. La proposta si chiarirà ulteriormente nell’approfondimento di alcuni temi tipici della riflessione di Falque. 2. Incursioni fenomenologiche nei Padri e nel Medioevo 13 Ibid., 49. Ibid., 50. 15 Ibid., 51. 16 Cfr. E. FALQUE, Filosofia e teologia in san Bonaventura. Un confronto con Étienne Gilson, in «Filosofia e teologia» 2(2009), 377-391. 17 E. FALQUE, Tuilage et conversion de la philosophie par la théologie, 55. 18 E. FALQUE, Les Noces de l’Agneau. Essai philosophique sur le corps et l’eucharistie, Cerf, Paris 2011, 35. 14 3 Gli interessi di Falque per la teologia medievale segnano fin dagli inizi la sua riflessione: a partire dalla tesi dottorale dedicata a san Bonaventura19, la sua bibliografia è ricca di articoli su Tommaso, Duns Scoto, Bernardo di Chiaravalle, Giovanni Scoto Eriugena. L’attenzione ai grandi della tradizione cristiana occidentale si spinge anche alla letteratura patristica, con studi che spaziano da Tertulliano a Agostino. Particolarmente significativo in quest’ambito, per completezza e ampiezza della materia trattata è Dieu, la chair, et l’autre, D’Irénée à Duns Scot20. Nel tentativo di comprendere meglio le opzioni metodologiche di Falque, ci proponiamo di seguito una breve incursione in uno dei suoi studi di teologia medievale dedicato a Duns Scoto 21. Nel saggio l’autore si propone di riprendere la riflessione del Dottore Sottile sullo sfondo delle problematiche della filosofia contemporanea. Il pensiero scotista infatti interpella diversi filoni del pensiero di impronta fenomenologica: il rapporto tra l’ente e l’essere, la singolarità, la contingenza, il fenomeno dell’amore. Il saggio di Falque tenta, in una prima parte, di inquadrare le tematiche presentate entro il pensiero di Duns Scoto, mentre nella seconda parte il tono si fa più propositivo. La tradizione filosofica è debitrice a Scoto per l’elaborazione dell’idea di una univocità dell’essere, tesi che Falque riassume in tre passaggi. Occorre anzitutto notare che l’oggetto proprio del pensiero è l’ente: nulla si affaccia all’intelletto umano che non sia inteso come ente. L’enunciato comporta due conseguenze: da un lato all’intelletto non è disponibile la cosa in sé, ma la sua trascrizione concettuale (l’ente appunto) e dall’altro riconosciamo una grande versatilità del concetto stesso di ente, che si adatta tanto ad una pietra quanto a Dio. L’ente di per sé non si dice in maniera analogica per Dio e la creatura, ma univoca: Dio è ente quanto lo è la pietra. Solo il principio di individuazione permette di distinguere questo ente da un altro ente. L’ente diviene ʽquestoʼ ente determinandosi nella singolarità mediante il dispositivo che nella tradizione scotista ha preso il nome di “ecceità”. Falque fa notare la differenza dei dispositivi concettuali “essenza-atto d’essere” e “ente-ecceità”. La prima coppia di matrice tomista segue un percorso per cui l’infinito si effettua in atto in un ente determinando una specifica essenza e ponendola in essere. La coppia scotista non prevede di per sé un ricorso all’infinito: l’univocità dell’ente e il suo effettuarsi semplicemente nella condizione immanente non richiedono, almeno in un primo momento, una giustificazione della propria sussistenza. Al limite è possibile procedere ad una Ordinatio che parta dalla singolarità: «Per la prima volta nella storia della filosofia […] il finito non si lascia pensare in opposizione o come delimitato rispetto all’infinito»22, ma semplicemente rappresenta un punto di partenza inderogabile e con una sua autonomia. Falque chiama a supporto della propria tesi l’autorità di H. Arendt, la quale afferma che in Scoto la contingenza è un modo d’essere positivo, come la necessità è un altro modo d’essere. Il principio di contingenza è così decisivo che possiamo parlare di verità contingenti persino nella rivelazione: l’incarnazione, la creazione, la santificazione dell’uomo, il mistero del peccato redento sono tutte verità che sono accessibili all’uomo a partire dalla propria contingenza, come invece la generazione eterna del Figlio e la Trinità delle Persone Divine possono essere definite verità eterne. La contingenza è ulteriormente valorizzata perchè, come è noto, Scoto sostiene che l’incarnazione non è avvenuta a motivo del peccato: la finitudine è uno stato positivo che Dio abita per amore, indipendentemente dal peccato. La contingenza non è né l’opposto dell’infinito e nemmeno il frutto del male: è una realtà che gode di una sua evidenza autonoma. La riflessione di Scoto ha un percorso che parte dall’univocità dell’ente, ma che non si determina senza un ricorso all’immediato, alla finitudine: in essa si dicono delle perfezioni dell’ente che il concetto univoco non sopporta. Se l’ente ha una sua universalità, è solo mediante la sua determinazione tramite la propria ecceità che conquista le caratteristiche che lo rendono ʽquestoʼ 19 E. FALQUE, Saint Bonaventure et l'entrée de Dieu en théologie, Ed. Vrin, Paris 2001. E. FALQUE, Dieu, la chair, et l’autre, D’Irénée à Duns Scot, Paris, PUF, 2008 21 E. FALQUE, L’autre singulier: l’haeccéité d’autrui et l’horizon de la finitude, in AA. VV., Duns Scoto à Paris 13022002, Brepols, Turnhout 2004, 623-662. 22 Ibid., 634. 20 4 ente. E tali caratteristiche costituiscono delle perfezioni non disponibili all’ente in genere. Le perfezioni di Dio non consistono nel suo essere “un ente” come gli altri, ma nel suo determinarsi esponendosi alla finitudine e manifestandosi come “questo ente che è Dio”. Senza la determinazione nel contingente nessun ente ha una sua perfezione: in questo senso Scoto sovverte completamente l’ordine platonico, affermando che nella creazione Dio non solo pone gli enti, ma anche le loro idee, per nulla preesistenti agli enti stessi. Non esiste ente al di fuori dell’ecceità, la quale è indelebilmente legata alla contingenza: «Dall’univocità dell’ente si giunge all’ecceità del singolare»23. La singolarità non è mai superabile: Falque rafforza ulteriormente l’idea attraverso un confronto tra Scoto e Guglielmo da Ockam, il quale parla di una conoscenza immediata dei singolari. A giudizio di Falque, Scoto conserva, a livello gnoseologico, una certa “fortunata opacità” 24 della singolarità degli enti, accessibile a Dio e alle intelligenze angeliche. Se la finitudine non è mai superabile, per conoscere la singolarità di ʽaltroʼ, non posso mai superare la ʽmiaʼ. L’intelligenza umana conosce immediatamente l’universale, dovuto all’univocità dell’ente, e in modo mediato sempre parziale il singolare. La modalità con cui l’uomo si rivolge agli altri enti dunque non può essere immediatamente una questione di carattere gnoseologico, ma di ordine pratico: l’altro è adeguato più dalla carità che dalla conoscenza. Dio, dicendo il proprio nome e creando l’universo, pone in essere la singolarità attraverso un atto d’amore: «Io ricevo dunque teologicamente la mia ecceità da Dio che è l’Ecceità stessa, di modo che io desidero per l’altro che anche lui riceva da Dio la propria ecceità». Per questa ragione possiamo parlare di un “rigore dell’amore” in Scoto. Nella ricostruzione offerta emergono diversi temi che sono cari alla tradizione fenomenologica. Come avremo modo di mostrare a breve, il tema della finitudine è strategico per Falque stesso, ma non possiamo dimenticare i precedenti, particolarmente Heidegger e Ricoeur. Allo stesso modo la tematica dell’altro e della sua tendenziale impenetrabilità induce ad un confronto con le riflessioni analoghe di Lévinas. L’importanza dell’atto d’amore intreccia la riflessione dell’ultimo Marion e di H. Arendt. La proposta di Falque non ritiene tali legami come accidentali e il metodo utilizzato intende andare ad indagare i testi patristici e medievali non semplicemente in modo evocativo o comparativo: la posta in gioco è che lo studio rigoroso dei testi tradizionali richiama tematiche care alla riflessione fenomenologica. La convergenza è dovuta al fatto che la fenomenologia intende recuperare la forma mentis che la patristica e la prima tradizione medievale conserva. Falque, commentando il lavoro di Marion su Agostino, mette in luce come la fenomenologia, intendendo andare alle forme originarie della coscienza superando la tradizione onto-metafisica, possa offrire la possibilità di una lettura più appropriata25, coerente e corretta della tradizione, non già in forza di una assonanza di temi, ma in virtù di una sintonia metodologica. Tanto la fenomenologia quanto il lavoro riflessivo dei primi padri e della tradizione scolastica muovono dallo stupore di rendere ragione della cosa stessa, di ciò che accade: «La carne come cardine o asse della salvezza (cardo salutis) risiede in qualche modo dalla prima teologia dei Padri alla fenomenologia più contemporanea, anche qualora i modi per dirla necessitino delle divergenze su alcune questioni»26. Illuminare l’idea del volto di Lévinas attraverso la riflessione sull’alterità in Scoto, date le opzioni metodologiche appena enunciate, non è fazioso o posticcio, ma utile e illuminante: tanto Scoto quanto Lévinas condividono il medesimo intento di rendere ragione di ciò che ha i contorni dell’evidenza di un evento che si palesa alla coscienza interrogante. La fenomenologia levinassiana ne risulta arricchita attraverso una solida ricostruzione dello status quaestionis e la riflessione scotista conosce una sua attualità. Lo stesso si può dire della pertinenza della nozione di fenomeno erotico in Marion e il pensiero della carità in Scoto: il confronto non appare come una 23 Ibid., 639. Ibid., 659. 25 Cfr. E. FALQUE, Le Haut Lieu du soi: une disputatio théologique et phénoménologique, in «Revue de Métaphysique et de Morale» 3(2009), 363-390, qui 368-369. 26 E. FALQUE, Une analytique de l’incarnation: le De Carne Christi de Tertullien, in N. Depraz – J.-F. Marquet (ed.), La gnose, une question philosophique. Pour une phénoménologie de l’invisible, Cerf, Paris 2000, 51-85, qui 53. 24 5 giustapposizione, perché ambedue gli approcci constatano l’evidenza di un compimento della struttura antropologica della libertà che l’amore sembra realizzare. Il procedere di Falque è coerente con le premesse metodologiche circa il rapporto tra teologia e fenomenologia, i passaggi sono sovente magistrali e acuti e il recupero grazie alla fenomenologia della forma mentis che permetterebbe una nuova intelligenza dei testi cristiani delle origini sono motivi che inducono ad una certa attenzione a questo filone della sua riflessione. 3. La positività della finitudine Nelle analisi che seguiranno il riferimento bibliografico è legato alla trilogia che Falque ha pubblicato tra il 1999 e il 2011 attorno ad una indagine fenomenologica sulla pasqua di Gesù 27, a nostro avviso decisamente interessante e con un carattere di completezza rispetto ai precedenti interventi. L’opera ha impegnato Falque per più di un decennio, ed è piuttosto evidente una maturazione interna dei temi. Il punto di partenza consiste in una costatazione: la storia del pensiero conosce una oscillazione tra l’evidenza della finitudine umana e la sua rimozione. A partire dalla tragedia greca fino all’essereper-la-morte heideggeriano, l’occidente ha ritenuto l’essere finito dell’uomo come una condizione esistenziale irremovibile. Tuttavia già nell’antichità e successivamente nella tradizione cristiana si sono affacciati tentativi di disinnescare l’idea dell’essere umano come indelebilmente legato alla sua finitudine. In particolare la scuola epicurea, mediante il celebre aforisma “quando ci sono io non c’è la morte e quando c’è la morte non ci sono io”, avrebbe operato uno smarcamento dell’esistenza dalla sua fine. Falque sottolinea come non basta l’affermazione (logicamente coerente) per eliminare l’evidenza del morire da una analisi esistenziale rigorosa. Più insidioso è il tentativo di alcune correnti di pensiero con matrice cristiana (in particolare il pietismo moderno o il manicheismo antico) le quali hanno individuato un discutibile legame tra il male e la finitudine: l’uomo vivrebbe nella attuale condizione di contingenza a causa della sua peccaminosità, ma lo stato di natura pre-lapsario sarebbe stato completamente libero da ogni compromissione con la finitudine. Se andiamo ai racconti delle origini, ci accorgiamo come un tale ideale di perfezione che rimuova completamente la contingenza è in realtà la tentazione che il serpente mette di fronte alla donna: «Il desiderio di perfezione abita proprio una delle maschere con cui il serpente si camuffa, e con lui il peccato: “Voi sarete come Dio” (Gn3,5)»28. Ciò che è originario nella visione biblica è il senso del limite e della finitezza e ciò che innesca il peccato è l’illusorio desiderio di sorpassarla. Il limite e il morire non entrano nel mondo dopo il peccato, bensì il peccato distorce il limite relativizzandolo e sostituendolo con un impossibile ideale di perfezione. L’idea di una natura corrotta dal peccato avrebbe senso solo se per corruzione intendiamo l’amplificazione dell’angoscia e il risentimento che il peccato avrebbe apportato, ma non certamente in una natura in-finita che conoscerebbe la finitezza dopo la colpa. La perfezione oltre le finitudine deve dunque essere considerato come il vero stratagemma del maligno secondo il quale una natura primordiale perfetta riposerebbe in un ideale di perfezione che è esso stesso l’origine del peccato, ma che non gode di alcuna evidenza. Anche un’incursione nel Nuovo Testamento giustifica una positività della finitudine. Dall’idea paolina della predestinazione degli uomini in Cristo prende corpo un’analisi della vita ordinaria di Gesù come luogo in cui conoscere l’immagine originaria dell’uomo. Di fronte alle lacrime di Gesù per la morte di Lazzaro o davanti alla sua immagine di agonizzante nel Getsèmani e di morente sulla croce constatiamo che l’evidenza non è la natura incorruttibile dell’uomo “purtroppo” alterata dalla morte, ma che quest’ultima e il limite appartengono all’evidenza fenomenologica originaria dell’uomo. L’idea che pure ha abitato il cristianesimo di una natura corrotta in cui hanno fatto 27 E. FALQUE, Le passeur de Gethsémani. Angoisse souffrance et mort. Lecture existentielle et phénoménologique, Cerf, Paris 1999 (d’ora in avanti PG); Métamorphose de la finitude. Essai philosophique sur la naissance et la résurrection, Cerf, Paris 2004 (d’ora in avanti MF); Les Noces de l’Agneau. Essai philosophique sur le corps et l’eucharistie, Cerf, Paris 2011 (d’ora in avanti NA). 28 PG 29. 6 capolino la morte e la finitezza pare priva di ogni evidenza fenomenologica. Piuttosto è più semplice riconoscere che la finitezza ha essa stessa un carattere evidente e inscritto nell’originario dell’uomo: Se conviene in teologia – e ancor di più in filosofia, più esperta su queste questioni – il ritrovare una evidenza triviale di un carattere naturale della morte, occorre anche tirarne le ultime conseguenze metafisiche: la determinazione di un’immagine di Dio nell’uomo attraverso la finitezza di Adamo. […] In questo modo la finitezza del Verbo, condivisa al culmine nella sua incarnazione ma da sempre prefigurata nell’atto della creazione “a sua immagine” (Gn 1,27), non si oppone tuttavia né al fine né alla finitezza. Essa al contrario la supera e dispone di questa triviale dualità per non indicare altro se non l’orizzonte limitato e contingente di una esistenza “a misura d’uomo”29. Rimuovendo ogni “sovrastruttura tradizionale”, la finitudine si impone come primitivo vissuto di coscienza dell’uomo, e quindi dell’uomo Gesù Cristo. Teologia e fenomenologia convergono così sullo studio della finitudine, da un lato come insuperabile evidenza, e dall’altro come condizione dell’uomo appartenente al disegno della creazione. Entrambi i punti di vista concordano nell’accordare alla finitudine il ruolo di coordinata antropologica fondamentale, che come tale non può immediatamente ricevere una connotazione positiva o negativa: semplicemente si impone come “cosa stessa”. A giudizio di Falque, anche la tradizione fenomenologica è caduta nel difetto di una colorazione della finitudine come qualcosa di negativo. Heidegger parla della finitudine dell’uomo come segnata dall’esistenziale dell’essere-per-la-morte. Ad esso è collegato lo stato emotivo dell’angoscia, in grado di riscattare l’uomo dalla condizione di deiezione per individualizzarlo come colui che deve decidere di sé. Falque non approva questo legame tra lo stadio di finitezza in cui irromperebbe l’angoscia come riscatto da una situazione di deiezione e di sonno della coscienza30: la condizione di deiezione come “di diritto” appartenente alla finitudine la ipotecherebbe come qualcosa di immediatamente negativo; ma la negatività in questione non gode di alcuna evidenza fenomenologica. Sottoponendo a indagine fenomenologica il vissuto di coscienza di Gesù Cristo, l’angoscia non emerge come riscatto da una situazione precedente di deiezione; allo stesso modo, da un punto di vista antropologico, è legittimo pensare all’angoscia come assunzione in grado maggiore delle condizioni di finitudine, senza dovere necessariamente supporre che la consapevolezza precedente a tale stadio sia da ritenere come negativa. Allo stesso modo Falque prende le distanze da P. Ricoeur, per quanto in modo indiretto. I testi della trilogia in esame abbondano di riferimenti a Ricoeur e l’idea della finitudine come condizione esistenziale insuperabile del soggetto ha evidentemente in Finitudine e Colpa e in Sé come un altro due fonti di ispirazione. Tuttavia Falque non concorda con l’idea di un innesto dell’ermeneutica nella fenomenologia, che sono invece da ritenere due aree di pensiero nettamente distinte. La fenomenologia deve operare a un livello di esplicitazione della formalità delle strutture di coscienza: il carattere tipicamente eidetico dell’impostazione la rende incompatibile con il tono narrativo dell’ermeneutica, che opererebbe ad un livello epistemologico nettamente differente. Inoltre Falque contesta a Ricoeur l’abbinamento di finitudine e colpa: è vero che nel testo ricoeuriano i due ordini sono distinti, ma non manca l’idea della finitudine come “condizione trascendentale” della colpa. Falque persegue una più radicale distinzione delle due realtà31. 29 PG 35-36. Cfr. PG 57-58. 31 Nei testi a nostra conoscenza dell’autore non abbiamo una trattazione sistematica della questione: il confronto con Ricoeur è presente, ma quasi mai critico. Ci sentiamo supportati nelle osservazioni esposte da alcune conferenze tenute da Falque. La prima si è tenuta il 15 dicembre 2011 presso l’Università Gregoriana dal titolo “Genesi di un trittico”. Lo stile dell’incontro ha avuto un carattere dialogico: alla presenza di E. Falque diversi autori hanno esposto alcune loro intuizioni e letture dei testi di Falque, lasciando poi a Falque stesso la possibilità di rispondere. Sul tema in questione, Alain Saudan (Institut Catholique, Paris) ha presentato alcune impressioni circa un possibile confronto “a distanza” tra Ricoeur e Falque, e questi ha offerto alcune sue osservazioni nella linea di quelle qui offerte. La seconda conferenza si è tenuta presso l’Università la Sapienza di Roma il 19 aprile 2012 dal titolo La Parole, la Lettre et le Verbe: Falque ha esposto le sue riletture di alcuni temi di Lévinas e di anche alcuni spunti su Ricoeur. Ha fatto riferimento a una sua 30 7 Il pensiero circa la finitudine conosce una sua evoluzione: fin qui potrebbe essere legittima l’obbiezione di una aspirazione ad un mitico stato di natura. La coscienza che vive nella finitudine conosce l’esperienza della colpa, della malattia, del fallimento, e solo una preconcetta rimozione giustificherebbe l’istruzione della questione dello stato della finitudine a monte rispetto a tali realtà. Nel terzo testo del trittico che Falque propone, emerge l’interessante dinamica dell’abisso32. La fenomenologia deve riconoscere nella cosa stessa della coscienza finita un insieme di realtà che segnano la coscienza stessa in modo atematico: esiste un abisso dell’essere umano, in cui risiedono passioni, pulsioni, paure e ansie che, pur costituendoci, non sono sempre accessibili in modalità riflessa. In altre parole: nell’uomo esiste una parte di Caos che si sottrae ad ogni forma di normalizzazione, pur non potendo essere elusa. L’evidenza antropologica dell’aspetto caotico nel soggetto è confortata in parallelo da una analisi dell’esistenza di Gesù che, nella passione, si incontra e si confronta con l’angoscia, la ricerca di un senso, il dolore, la malvagità, elementi tutti che appartengono all’elemento caotico della persona, non riducibile all’intenzionalità della carne ma nemmeno indifferenti al costituirsi dell’uomo: «La formula hoc est corpus meum certo, ma anche e soprattutto l’irriducibile passione del suo corpo così paradossalmente “dato da mangiare”, prende precisamente in carico questo mondo e l’insieme della nostra umanità, fino al suo abisso […]»33. La dimensione caotica del soggetto incorpora e supera l’esperienza dell’angoscia heideggeriana, a giudizio di Falque erroneamente orientata in modo immediato ad una costruzione di senso: la prima esperienza dell’abisso è di una radicale passività. Allo stesso modo nella fenomenologia di Marion è in atto una riduzione di ogni fenomeno alla figura del fenomeno saturo come ciò che eccede la coscienza: in realtà l’esperienza del caos è tale che «il limite del fenomeno non riguarda perlopiù la sua incapacità a costituire attraverso la coscienza, ma soprattutto consiste nel riconoscere al contrario di esistere entro un limite che il Caos eccede senza essere mai ricevuto e nemmeno coscientizzato»34. All’idea di fenomeno saturo, Falque oppone quella di fenomeno limitato, in cui riconoscere un peso specifico all’esperienza del limite. All’umanità appartengono una vasta gamma di esperienze (quali il dolore, la pulsionalità, il marasma delle sensazioni talvolta contraddittorie, la forza del desiderio, la simbolizzazione della memoria, l’esperienza onirica, gli stadi emotivi, l’attrazione o la repulsione, ecc…) che non sono subito peccato, e forse non lo saranno mai, ma ci costituiscono e rappresentano un’evidenza coscienziale che colloca e qualifica l’aspetto intenzionale. Non esiste coscienza umana senza una dimensione di animalità che le è costitutiva35. Nelle pagine in cui l’autore tratta la questione della finitudine, ravvisiamo una istruzione completa e interessante del problema. Notiamo la fedeltà al dettame principale della fenomenologia, ossia l’andare alle cose stesse: in ogni riflessione sul tema emerge lo sforzo per raggiungere una pulizia concettuale che valichi le sovrastrutture costruite da diverse tradizioni di pensiero. Andando al vissuto di coscienza della finitudine, emerge un sorprendente luogo di incontro tra la teologia e la fenomenologia: la coscienza di Cristo, secondo l’attestazione dei vangeli, non è altra cosa rispetto alla coscienza antropologica in genere, non si colloca lateralmente ma la compie operandone una trasfigurazione dal di dentro: la sua alterità emerge qualitativamente dalla sua ordinarietà. Poiché la rivelazione appoggia su un vissuto di coscienza, l’analisi fenomenologica della coscienza nella sua qualità di finitezza è tanto decisiva per la fenomenologia quanto per la teologia. Notiamo anche uno sforzo piuttosto interessante nell’inscrivere non solo i contenuti della coscienza, ma anche le sue forze. La fenomenologia, fino dal suo husserliano innesco, è sempre stata accusata precedente conferenza sull’argomento presso l’Università Lateranense, ma di cui non siamo a conoscenza della pubblicazione degli atti. 32 Cfr. NA 39-72. 33 NA 51. 34 NA, 57. 35 Cfr. NA 125-176, in cui l’autore approfondisce la storia dell’animalità nella cultura occidentale in dialogo con le tesi di Derrida. 8 di un eccessivo formalismo: il caos è «una parte oscura nell’uomo, fatto di passioni e di pulsioni, che il miraggio del significare in fenomenologia avrebbe il torto di rimuovere»36. Parte delle accuse risultano giustificate da un pregiudizio eidetico che ha accompagnato diverse esecuzioni del progetto fenomenologico, le quali hanno finito per ridurre l’uomo a pura coscienza intenzionale rimuovendo ogni forma di passività, che in particolare la modalità francese di praticare la fenomenologia ha avuto il merito di recuperare. Tutto ciò che è dato, lo è in ordine ad una coscienza costituente, la quale tuttavia non può eludere il problema di ciò che si impone alla coscienza in forma talvolta assolutamente atematica. Lo spunto che Falque offre ci sembra interessante nella direzione di una fenomenologia in grado di tematizzare tutto il complesso dei vissuti di coscienza. 4. Fenomenologia “dell’oltre carne” Ogni tentativo di analisi fenomenologica del corpo non può prescindere dalla qualità dell’interrogazione inaugurata da Husserl mediante la distinzione tra Körper e Leib, dove il primo sarebbe il corpo fisico e il secondo il vissuto di coscienza correlato. A giudizio di Falque, Michel Henry è l’erede più autorevole della tradizione fenomenologica: distinguendo il corpo dalla carne, «Michel Henry raggiunge una potenza descrittiva per esprimere la carne impressionale che probabilmente non ha eguali tra i fenomenologi»37. Come è noto, la carne per Henry è un’esperienza che sfugge ad ogni visibilità: è il puro sentire-sé della vita. Nell’esperienza della carne l’uomo non sente realmente qualcosa di altro da sé: la matrice carnale di ogni esperienza impone un rigido confine egologico insuperabile, tanto da far parlare per Henry di una sorta di “monadologia”38. Falque evidenzia il rischio di Henry, cioè una tale radicalizzazione delle formalità da dimenticare che l’uomo è anche un corpo: «Tutto avviene come se la carne, cioè il provare la nostra stessa vita, divenisse così invadente da finire per dimenticare che essa possiede un corpo e quanto meno si percepisce materialmente e visibilmente in e attraverso un corpo»39. La cristologia di Henry funge da cartina di tornasole di una fenomenologia del corpo insufficiente: quando l’esperienza corporea è limitata ad un formale auto-sentirsi, non si può che rimuovere l’esperienza del corpo trafitto e sofferente della passione, ed è per questa ragione che Henry non parla mai dell’esperienza pasquale del corpo di Cristo. La carne di Gesù risorto non è separabile dal corpo esposto del venerdì santo. Falque dunque ritiene che ogni fenomenologia della carne non può rimuovere l’evidenza corporea che la legittima e la fonda: «Ogni godere e ogni soffrire passa anche e anzitutto per il corpo, senza ridursi unicamente al vissuto della carne originaria o al suo semplice pathos»40. Per queste ragioni uno dei temi portanti nelle opere di Falque è una riabilitazione del corpo; l’operazione non è priva di un certo travaglio e conosce una sua evoluzione entro le opere dell’autore, ma aventi come filo conduttore l’attenzione alla finitezza umana. L’essere corpo comporta una sua assunzione seria che non si può troppo velocemente includere in una fenomenologia della pura carne: «Il Cristo ha dovuto non soltanto portare la croce, ma più ancora portare la carne, nel senso più universalmente condiviso del peso del corpo e del fango della terra»41. Anche per quanto concerne l’esperienza del corpo, occorre scendere nell’abisso dell’umanità. Esiste tutta una serie di esperienze esclusivamente corporee che determinano la coscienza: camminare, mangiare, ammalarsi sono tutte realtà in cui la carne (da intendersi come vissuto di coscienza della corporeità) si trova affetta da una materialità in cui essa stessa si ritrova senza disporne. Una rigorosa analisi fenomenologica della carne vissuta nella coscienza non può rimuovere il corpo, che talvolta bussa alla porta come abisso, come un ʽdi piùʼ che le riduzioni fenomenologiche 36 NA, 45. E. FALQUE, Si dà carne senza corpo? Discussione con Michel Henry, in «Filosofia e teologia» 3(2010), 527-558, qui 537. 38 Cfr. X. TILLIETTE, Une nouvelle monadologie: la philosophie de Michel Henry, in «Gregorianum» 4(1980), 633-651. 39 E. FALQUE, Si dà carne senza corpo?, 528. 40 Ibid., 552. 41 Ibid., 558. 37 9 tradizionali hanno rimosso e dimenticato. Se Marion parla della corporeità come fenomeno saturo, Falque oppone la categoria di fenomeno limitato come la più adeguata a rendere l’esperienza quotidiana media del corpo: prima di sperimentare l’essere-carne come eccesso di senso, il soggetto si confronta con un essere-corpo che pone una ipoteca sul senso mediante il suo peso di caoticità e passibilità. Non è un caso che Gesù nell’ultima cena non parli di carne, ma consegni un corpo: «Appetiti, passioni, pulsioni e tutto ciò che costituisce la nostra vita istintiva con tutte le sue funzioni organiche sono come assunte nel pane eucaristico, fino ad accogliere anche l’abisso e il fondo caotico della nostra umanità»42. 5. Metamorfosi della finitudine Dai testi evangelici risulta piuttosto evidente che, di fronte alla risurrezione, i discepoli si lasciarono travolgere da un fenomeno che si palesava loro. Proprio in questo spazio prende corpo la possibilità della fenomenologia di interrogarsi sulla risurrezione: la risurrezione si costituisce nella coscienza dei discepoli mediante un percorso umano. Anche per la risurrezione, nei racconti evangelici, vale il principio che il punto di partenza per comprendere il divino è la coscienza soggettiva. Ma quale esperienza euristica rende intelligibile la risurrezione, che di per sé si impone come ciò di meno umano che esista? Falque ritiene interessante a tal proposito il racconto evangelico del colloquio tra Gesù e Nicodemo, in cui emerge il tema del nascere. Nicodemo non riesce a comprendere l’invito ad una rinascita se non mediante l’istituzione di una analogia con il nascere ordinario. Noi non siamo contemporanei del nostro nascere: una certa oscurità avvolge ogni nascita. Possiamo venire a sapere del nostro nascere solo mediante altri: la madre, che nella sua carne ha patito il nostro nascere, può renderci presenti al nostro venire al mondo di cui non disponiamo che in forma testimoniale. Io sono in virtù di un atto di cui non dispongo e di cui non so nulla. Nel colloquio tra Gesù e Nicodemo sembra che l’esperienza del nascere possa avere qualcosa da dire sull’esperienza del rinascere e del risuscitare. Nessuno è contemporaneo della risurrezione: noi ne veniamo a sapere entro una catena testimoniale. La risurrezione di Gesù non è un atto che lo riguarda in modo esclusivo: i discepoli hanno compreso che in quella rinascita era disponibile per loro la possibilità di risuscitare. La risurrezione ʽnostraʼ richiede dunque un analogo della nascita, indisponibile ma effettiva quando un altro l’ha realizzata e ce la racconta. Falque propone un suggestivo confronto tra Nicodemo e il buon ladrone che, se esegeticamente non è privo di problemi, rende sinteticamente il discorso: La differenza tra Nicodemo e il buon ladrone riproduce, circa la rinascita, l’abisso che passa tra la possibilità e l’effettività: quando il primo interroga sulle condizioni trascendentali della risurrezione – “Come può succedere questo?”(Gv 3,9, Nicodemo) –, l’altro implora la sua effettività, qualunque siano le sue condizioni: “Gesù, ricordati di me quando tornerai come re!” (Lc 23,42, buon ladrone). Il futuro è già effettivo per il secondo (“tu verrai”) e resta impraticabile nell’ipotesi presente nel primo (“come è possibile?”). La questione qui, come abbiamo sottolineato, non è quella dell’obiettività della mia rinascita o della mia risurrezione: prima di tutto perché non mi appartiene, ma soprattutto perché io non costituisco il mondo come fenomeno in maniera logica a partire dai suoi enti, ma dai miei vissuti di coscienza43. La risurrezione cambia tutto44: come la nascita è quell’evento che accade senza di noi ma che ci determina, anche la risurrezione può essere intesa come l’accadere di una totale metamorfosi della finitudine. Noi non viviamo ancora nella pienezza della risurrezione, tuttavia ne siamo a conoscenza. Nulla si costituisce a monte rispetto alla nostra coscienza: nella misura in cui la risurrezione trasfigura quest’ultima è legittimo parlare di una metamorfosi del tutto. Il senso del mondo, del tempo e dell’uomo si costituisce entro un atto correlativo tra la coscienza e ciò che la trascende. A partire dalla prospettiva enunciata è possibile ragionare su una metamorfosi, che non 42 NA 70. MF 215. 44 Cfr. MF 113. 43 10 modifica la finitezza degli elementi, ma la colloca entro orizzonti correlazionali in grado di operare un effettivo cambiamento. Il mondo, dopo la risurrezione, è divenuto altro. Anzitutto la risurrezione di Cristo avviene nel mondo finito, sbaragliando ogni dualismo: questo mondo contingente e finito è l’unico luogo in cui Dio agisce, e in questo modo «si stabilisce una analogia che definitivamente rompe con tutte le letture dualizzanti improprie del cristianesimo»45. Il mondo non viene sdoppiato, «non ci sono due mondi, ma due maniere differenti di vivere lo stesso mondo»46. Non esiste un mondo in uno stato di natura puro, ma esiste solo il mondo in quanto vissuto; poiché la risurrezione inaugura un nuovo modo di guardare il mondo, la finitudine conosce una sua completa trasfigurazione: «Il mondo è divenuto altro per il fatto che io sono divenuto altro»47. Se varia la coscienza intenzionale, il mondo non può più essere lo stesso. Quando l’uomo riconosce nella risurrezione di Cristo la protologia e l’escatologia originarie del mondo, quest’ultimo è già cambiato. Lo sguardo fenomenologico non può ignorare una variazione così significativa della coscienza intenzionale che adegua il mondo in modo completamente trasfigurato. La metamorfosi che la risurrezione opera non è un atto istantaneo: commentando 1Cor 15,28 Falque ricorda che non tutto è già sottomesso al Figlio. Viviamo il tempo in cui la trasformazione del mondo mediante l’accesso alla vita risorta da parte degli uomini si sta compiendo. Il tempo, dopo la risurrezione, è divenuto altro. Infatti ciò che costituisce il tempo […] non è la sua misura oggettiva (il tempo dell’orologio), ma la sua verità soggettiva (il tempo vissuto), ed è dunque dentro il nostro rapporto al tempo che si opera la trasformazione del tempo – nello stesso modo in cui è dentro il nostro rapporto soggettivo al mondo che il mondo “diviene altro”48. L’analogia con l’esperienza della nascita risulta essere ancora una volta istruttiva: il nascere è un atto temporale che non si colloca semplicemente alla pari di ogni altro istante. La nascita sfugge alla logica dell’istante perché inaugura ogni tempo. Nella vita accadono tanti istanti che assumono le qualità del nascere: il matrimonio per una persona si dimette dall’essere un istante tra gli altri (pur non essendo fuori dal tempo) per assurgere a momento qualificante il tempo. La coscienza del tempo non è dunque una pura memoria quantitativa di istanti, ma stabilisce qualitativamente i tempi, e la matrice dei tempi qualificanti l’esistenza è l’esperienza del nascere. Esistono alcuni istanti che trasfigurano il tempo e, come la nascita, inaugurano tempi nuovi. La risurrezione di Cristo, evento nel tempo, inaugura un orizzonte di eternità che consente una reale metamorfosi del tempo. 6. Il fenomeno erotico e l’eucaristia La trasfigurazione pensata da Falque ha un carattere “gnostico”: il soggetto si trasforma grazie alla conoscenza di Cristo. L’autore gioca con l’etimologia di “conoscere”, che deriverebbe da “nascere con”: la metamorfosi della finitudine avviene grazie alla conoscenza di Cristo, che inaugura la possibilità di una nuova nascita. Ma come conoscere Cristo senza per questo cadere in un intellettualismo? Esiste una gnosi legittimata dal cristianesimo che non si risolva in un insignificante intellettualismo? Falque intuisce in questo luogo dell’interrogazione lo spazio proprio per il sacramento cristiano, e in particolare l’eucaristia, e ad essa ha dedicato l’ultimo testo della sua trilogia sulla Pasqua di Gesù. La logica del sacramento cristiano invera nella sua pienezza l’ipotesi secondo la quale non abbiamo altro accesso a Dio se non a partire dall’uomo: il sacramento è costituito da dinamiche tipicamente antropologiche che consentono un accesso alla verità di Dio; in esso infatti veniamo a sapere che il livello antropologico non è marginale alla verità di Dio, le è anzi costitutivo. Nell’eucaristia si intrecciano numerosi livelli esperienziali: anzitutto essa accade in un pasto; le 45 MF 163. MF 169. 47 MF 178. 48 MF 185-186. 46 11 parole dell’istituzione parlano di un corpo; infine la semantica del dono del corpo richiama da vicino il linguaggio dell’eros. Corporeità, eros e pasto sono il codice antropologico di riferimento entro il quale accade l’eucaristia. La riflessione teologica si è soffermata a lungo sulle parole di Cristo “questo è il mio corpo” come fondamento della dottrina della presenza reale. Una tale riflessione è competenza esclusiva della teologia, ma l’indagine fenomenologica può aiutare a illuminare aspetti rimasti inevasi dalla riflessione teologica. Il fenomenologo infatti non può che trasformare l’espressione “Questo è il mio corpo” nella domanda “Ma che corpo è questo?”. Le distinzioni fenomenologiche tra carne (Leib) e corpo (Körper) e le precisazioni di Falque sull’esperienza dell’opacità del corpo come abisso sono preziose per consentire un’ermeneutica più completa dell’esperienza eucaristica, senza esaurirla al contenuto dogmatico della presenza reale ed illuminandone la pregnanza antropologica. Le parole della cena sintetizzano il senso dell’esistenza corporea di Cristo: la categoria che esprime la figura di presenzialità che il suo corpo ha donato per tutti coloro che lo hanno incontrato è quella del dono. Ma assieme la notte della cena preparerà al venerdì santo, mettendo in luce l’intenzionalità oblativa che non renderà insensato il cadavere del giorno dopo. Certo: Gesù non consegna un cadavere nell’ultima cena, ma anche l’esperienza di un corpo esposto alla morte appartiene alla coscienza carnale del Cristo. Inoltre, nella passione, Gesù sperimenterà corporalmente l’esperienza dell’angoscia e dell’abisso (il sudore di sangue scrive nel corpo l’agonia di Gesù). Ebbene, «la formula hoc est corpus meum certo, ma anche e soprattutto l’irriducibile passione del suo corpo così paradossalmente “dato da mangiare”, prende precisamente in carico questo mondo e l’insieme della nostra umanità, fino al suo abisso […]»49. Circa il secondo codice antropologico dell’eucaristia, ossia l’eros, Falque muove le sue riflessioni a partire da una intuizione mutuata da Radcliffe50: il corpo, protagonista della cena di Gesù e della passione, non viene semplicemente evocato, ma si usa il linguaggio del dono. La semantica del dono del corpo appartiene in modo inequivocabile ed indelebile all’area della sessualità. È dunque legittimo parlare dell’eucaristia come di un fenomeno erotico: la passività con cui Gesù affronta gli eventi drammatici della sua pasqua viene posta dall’eucaristia sotto la luce del dono di sé. La fatalità o la figura del giusto sofferente non sono ermeneutiche legittime degli eventi del venerdì santo: solo l’amore risulta essere la categoria interpretativa autorizzata dall’ultima cena. Il carattere incondizionato del dono è reso comprensibile dall’esperienza umana dell’amare, ma assieme quest’ultima conosce una radicale metamorfosi qualitativa: l’atto d’amore di Dio fedelmente offerto anche nel momento del rifiuto riqualifica il significato del verbo “amare”. Infine l’eucaristia si compie in un pasto. Ricevendo il suo corpo come dono d’amore, anche la nostra esperienza corporea, fatta di animalità e libertà, viene trasfigurata e viene aperta la possibilità di fare del nostro corpo, finito e non privo di animalità, un possibile dono d’amore. Mangiare di Cristo non deve essere pensato secondo una semantica dalla “fusione” (ricevo Gesù nel mio cuore) perché l’eucaristia, proprio in quanto atto d’amore, supporta la differenza, che non viene mai soppressa: l’alterità e la limitatezza non sono limiti per l’amore di Dio. L’eucaristia non funziona in automatico: Paolo ricorda che essa richiede un prezioso lavoro di discernimento per non mangiare e bere la propria condanna (1Cor 11,28). Il dispositivo dell’eucaristia, di natura agapica e analogicamente erotica, non esclude l’uomo, ma lo convoca. Compiendo il gesto del mangiare «noi comunichiamo alla sua vita fatta di carne e di sangue»51, e questo ha un potere trasfigurante per la nostra esistenza. La transustanziazione riguarda certo la trasformazione del pane e del vino in corpo e sangue di Cristo, ma a giudizio di Falque la transustanziazione si compie quando il mangiare di 49 NA 51. «Vorrei parlare dell’ultima cena e della sessualità. Può sembrare un’abbinata bizzarra ma, se si riflette un istante, le parole centrali dell’ultima cena sono: “Questo è il mio corpo, offerto per voi” (Lc 22,19). L’eucaristia, come il sesso, è centrata sul dono del corpo. Avete mai notato che nella Prima lettera ai Corinti il discorso ruota attorno a due argomenti, la sessualità e l’eucaristia? Questo perché Paolo sa che abbiamo bisogno di comprendere l’una alla luce dell’altra. Noi comprendiamo l’eucaristia alla luce della sessualità, e la sessualità alla luce dell’eucaristia». T. RADCLIFFE, Amare nella libertà. Sessualità e castità, Qiqajon, Magnano 2007, 9. 51 NA 320. 50 12 Cristo trasfigura il corpo del credente in corpo di Cristo. Se ha un senso didattico la distinzione della dottrina della transustanziazione da una riflessione sulla fruttuosità dell’eucaristia, il codice del cibo impone di legare i due termini in gioco: quel corpo e sangue che si danno nel pane e nel vino non sono solo una presenza da adorare, ma una realtà che incorpora il soggetto per trasformarlo. La transustanziazione si compie in una potenza trasformante e assimilante dell’umanità: Svuotato in qualche modo e letteralmente della sua sostanza nel pane e nel vino, Dio ci dona paradossalmente della sua sostanza mangiando il suo corpo e bevendo il suo sangue, trattandosi precisamente della sua “forza” e della sua “potenza” affinché possiamo “dimorare sempre in lui e lui in noi” (Gv 6,56)52. L’eucaristia consoce un intreccio complesso di esperienze che non conviene dissolvere in semplificanti ermeneutiche. Falque propone la suggestiva categoria di “nozze dell’Agnello” per riassumere gli elementi in gioco: fenomeno erotico e corporeità (nozze), animalità e abisso (Agnello immolato) compongono il sacramento trasfigurante dell’eucaristia. La metamorfosi della finitudine di Cristo mediante la sua risurrezione può operare la metamorfosi della nostra finitudine mediante l’eucaristia, la quale, trasformando il pane in corpo e il vino in sangue, culmina il proprio processo trasfigurante nell’incorporazione dell’uomo in Cristo e nella costituzione del corpo di Cristo che è la Chiesa: l nostro corpo in trasfigurazione è «rigettato nel corpo ampliato del Figlio e della Chiesa»53. 7. Sfide e provocazioni Dal punto di vista epistemologico dobbiamo riconoscere all’autore un indiscusso merito, ossia quello di superare un certo modello di “filosofia della soglia” che ha segnato l’interesse teologico della fenomenologia. Dopo la proposta fenomenologica heideggeriana, la teologia non ha mancato di una sua spudoratezza che Brito documenta in questo modo: Nelle pubblicazioni che sono venute alla luce dopo Essere e Tempo, Heidegger insiste più sulla prospettiva «ontologica» che su quella antropologica del suo pensiero. In questo modo si attira l’attenzione dei teologi cattolici; poiché, per tradizione, questi ultimi si interessano a tutti i tentativi di rinnovare la questione dell’essere. Non sarà possibile, si domandano, porre in una maniera più originaria la questione ontologica grazie ad Heidegger, pervenendo così ad una nuova fondazione della metafisica?54 Così teologi quali Lotz, Müller, Welte, Hemmerle, oppure lo stesso Bultmann, si sono rivolti a Heidegger con una disinvoltura che a tratti pare eccessiva. La tradizione fenomenologica, forse alla ricerca di un consenso nell’agorà filosofica. si è dimostrata molto più prudente. A partire da Lévinas e passando per Ricoeur e Marion, quando ci si rivolge a temi che potrebbe avere una certa competenza teologica, ci si scherma con la categoria della possibilità. Falque invece metodologicamente rimuove questa prudenza: il fenomenologo, a patto che non venga meno nella metodologia rigorosa, può muoversi entro la teologia senza temere uno statuto di clandestinità55. L’ipotesi epistemologica di fondo può essere espressa in questi termini: È possibile assumere dei temi teologici in un atto filosofico che non sia riduttore ma che sarà abbastanza elastico per seguire gli inviti di ciò che è meditato, al fine di incrementare i dati che interpellano la 52 NA 335. NA 373. 54 E. BRITO, La Réception de la pensée de Heidegger dans la théologie catholique, in «Nouvelle Revue théologique» 3(1997), 352-372, qui 352-353. 55 «Bisogna fare un passo in più. Non soltanto fare teologia in margine o “a lato” perché si è un filosofo, e neppure prendere direttamente il testo delle Scritture come semplice supporto filosofico al di fuori di ogni tradizione, e neanche cancellare tutte le frontiere tra teologia e filosofia, per poi tornare a una specie di “catena scritturale”; ma piuttosto far vedere quanto e come una pratica congiunta della filosofia e della teologia provengano da un’unità della persona stessa, in un giusto rapporto con le “facoltà” (nel senso individuale e istituzionale del termine), è condizione di una reale fecondità delle due discipline». E. FALQUE, L’incontro con il mistero di Dio in occidente, 22. 53 13 ragione, illuminano i suoi sforzi e ispirano i suoi progressi, anche se da se stessa non vi aveva mai pensato.56 La fenomenologia non può rivendicare alcuna appartenenza a sé della fede e dei suoi contenuti, ma non esistono ragioni che impediscano al fenomenologo di studiare con i suoi strumenti l’evento della rivelazione. La scommessa è che la forma veritativa della fede non è al di fuori del regime universale dell’evidenza, su cui legittimamente indaga la filosofia. Proprio nella sua imprescindibile destinalità la rivelazione convoca l’uomo e, in sede critica, legittima un’indagine critica sull’uomo stesso. Husserl ripropone come oggetto di indagine la questione dell’evidenza, relegata nella modernità a mero problema di procedure logiche57, riproponendo la questione della filosofia prima dal punto di vista dei dispositivi di costituzione dell’evidenza stessa. La rivelazione non può prescindere da essi e, proprio perché l’uomo le appartiene, si pone il problema della sua evidenza. In questo modo la sfida che la teologia pone al pensiero critico è che l’istituzione della forma originaria dell’evidenza coincide con la giustificazione della fede come la forma del sapere che corrisponde al senso della verità. La teologia che rivendica questa pretesa riconosce per ciò stesso la competenza della filosofia a giudicare circa le modalità della sua legittimazione58. Il contributo di Falque è importante nella direzione di una corretta impostazione del rapporto tra teologia e fenomenologia, che imposta con rara lucidità e con una “sana spregiudicatezza”. Le due formule sintetiche «Non abbiamo altra esperienza di Dio che quella dell’uomo» e «Nulla accade nell’uomo che non sia accaduto in Dio» possono essere considerate emblema e sintesi del suo modo di impostare la questione, dove, a nostro giudizio, il secondo rappresenta il suo spunto più originale: l’evento cristologico, nella sua squisita umanità, autorizza un sapere critico sull’uomo come pertinente alla propria legittimazione critica. La lettura delle opere di Falque, per quanto affascinante, non manca di suscitare, circa l’argomento in esame, alcuni interrogativi. Se la revisione dei confini tra teologia e fenomenologia è da inscrivere a merito alla riflessione falquiana, a volte nelle sue pagine si ha l’impressione di una rimozione dei confini: si passa con disinvoltura talvolta eccessiva dalla nozione di angoscia di Heidegger all’episodio evangelico Getsemani, dal testo giovanneo di Nicodemo all’analisi esistenziale di Heidegger piuttosto che alla nozione di carne di Henry. Le pagine evocate possono e devono essere confrontate, ma nel rispetto dei generi letterari e dei contesti. Heidegger non intende commentare il testo della passione, e quest’ultimo non è un testo filosofico. Si può ricavare la stessa impressione di una certa commistione nei testi in cui Falque si confronta con i Padri o con il Medioevo: a nostro giudizio non è del tutto scongiurato il rischio di un uso talvolta strumentale e non sempre rigorosamente contestualizzato delle riflessioni patristiche e scolastiche. Se rimaniamo al testo su Scoto che abbiamo analizzato in precedenza, notiamo almeno due indizi che ci segnalano il rischio. Più volte i testi vengono citati non dall’originale, ma da riprese “di seconda mano” fatte dall’opera di H. Arendt senza ulteriori precisazioni circa il corpus scotista. Abbiamo ad esempio l’espressione “Amo: volo ut sis” attribuita a Scoto da H. Arendt, probabilmente in modo non del tutto esatto59. Lo stesso si può dire su un altro testo riportato nel medesimo articolo e citato dalla Harendt, senza però una precisa localizzazione nella produzione del Dottore Sottile60. In secondo luogo la semantica utilizzata non è sempre rigorosamente distinta. Quando si parla dell’ecceità, si passa con una eccessiva disinvoltura dalla fatticità alla finitudine, passando per la contingenza: l’accostamento dell’ecceità scotista alla semantica falquiana della 56 P. GILBERT, Corps et eucaristie, in «Gregorianum» 4(2011), 833-838, qui 834. «È la prima volta che l’evidenza (questo morto idolo logico) viene trasformata in problema, viene sottratta alla predilezione per l’evidenza scientifica […]». E. HUSSERL, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, Husserliana VI (trad. it. di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologa trascendentale, Net, Milano 2002, 255). 58 A. BERTULETTI, La teologia tra la fondazione ermeneutica e la fondazione metafisica, in «Teologia» 3 (1988), 232249, qui 248. 59 Cfr. E. FALQUE, L’autre singulier: l’haeccéité d’autrui et l’horizon de la finitude, 649. 60 Cfr. Ibid., 636. 57 14 fatticità all’idea di contingenza heideggeriana richiederebbe una precisione maggiore. Anche “graficamente” si resta talvolta un po’ confusi dal notare che in una riga si passa da una citazione patristica a una di Husserl per terminare la frase con termini marioniani: E. Turpe a tal proposito sostiene che «il lettore resterà, qui e altrove, con l’impressione che le intuizioni, giuste nel loro ordine, sono regolarmente esagerate e decontestualizzate dalle loro condizioni di significazione, al punto da perdere il loro equilibrio»61. Un’ultima riserva può essere espressa circa le coppie di termini con cui Falque esprime il rapporto tra teologia e filosofia. Le prime due nozioni impiegate sono “procedimento dall’alto / procedimento dal basso”: nell’insieme della riflessione se ne comprende l’efficacia, ma il vocabolario impiegato si presta a diverse ambiguità. Di per sé anche la teologia non ha altro punto di partenza che “dal basso” dell’umanità di Cristo, riconoscendo in essa un aspetto kenotico della divinità. Marcare troppo il confine con le idee di un innesco dall’alto e di uno dal basso rischia di andare nella direzione di un duplex ordo, anche se di fatto scongiurato dall’insieme della riflessione. Più felice è la seconda coppia “metodo didattico / metodo euristico”. La fenomenologia infatti non può produrre alcun evento, ma è in grado di mettere in luce come l’evenemenzialità appartenga alla forma universale dell’evidenza. La teologia invece è autorizzata da un evento accaduto in cui riconosce che ogni verità si è compiuta. Il fenomenologo muove così dalla forma dell’evenemenzialità, riconosce in essa le strutture implicate della coscienza e riconosce nell’evento cristologico la verità che da sempre implica la coscienza; d’altra parte il teologo è autorizzato nella sua riflessione da un compimento accolto come disponibile, e si volge al cammino formale della fenomenologia per rendere ragione che quell’evento appartiene all’universale dell’evidenza, e che anzi ne compie la forma implicandola. La nozione di finitudine è particolarmente importante nella riflessione di Falque. Anche sotto questo aspetto ci sembra che sia un contributo interessante. Tra le critiche classiche che sono state mosse alla fenomenologia (fin dalla sua fondazione, e in tempi recenti soprattutto al ramo francese) c’è quella di aver preso una piega formalistica. Nella pur brillante riflessione di Marion, ad esempio, si ha l’impressione di un certo appiattimento di tutti i fenomeni sulla lunghezza del fenomeno saturo. Falque, insistendo sull’idea di finitudine, propone la categoria di fenomeno limitato62. La proposta dell’immanenza come orizzonte “normale” dell’esistenza, l’indagine della corporeità nella sua integrazione tra corpo e carne e l’esplorazione degli aspetti di abissalità della vita restituiscono alla fenomenologia un potere euristico che gli eccessi eidetici hanno trascurato: Il caos è «una parte oscura nell’uomo, fatto di passioni e di pulsioni, che il miraggio del significare in fenomenologia avrebbe il torto di rimuovere»63. Riconoscendo il valore della riflessione, poniamo due interrogativi che aprirebbero a ulteriori precisazioni. Falque è molto attento a segnalare le sfumature che la riflessione fenomenologica ha trascurato: nella distinzione tra Leib e Körper individua la necessità di indagare su un’area intermedia che le due polarità non mettono a fuoco; quando riflette sugli stati emotivi e sull’angoscia emerge il tema dell’inafferrabilità di quest’ultima; nella distinzione di fenomeni saturi e fenomeni ordinari inserisce la sua proposta del fenomeno limitato. In Les Noces de l’Agneau la figura sintetica in cui collocare queste aree intermedie è quella dell’abisso, considerato sempre come qualcosa che gode di una opacità e che richiede una sorta di statuto speciale nella riflessione, tanto da far parlare di un “oltre” la fenomenologia, che dovrebbe limitarsi a prendere atto di una irriducibilità del caos. A quale condizione però si può parlare di un oltre? Occorrerebbe definire un E. TOURPE – E. FALQUE, La chair et l’être. Échanges autour d’un livre récent, in «Revue Philosophique de Louvain» 2(2006), 387-403, qui 388. 62 «Circa le prime questioni della Summa thaeologiae rivisitate sotto la lente della finitezza, il fenomeno umano non ci appare immediatamente come “saturo”. […] L’uomo è e resta essenzialmente (il) fenomeno limitato, almeno in quanto Dio stesso sposa e desidera il limite entro il quale egli l’ha creato». E. FALQUE, Limite théologique et finitude phénoménologique chez Thomas d’Aquin, in «Revue des sciences philosophiques et théologiques» 3(2008), 527-556, qui 553. 63 NA 45. 61 15 “canone antropologico” in base al quale l’abisso risulterebbe un “oltre”. Ma compete alla fenomenologia l’elaborazione di canoni, o non dovrebbe piuttosto attenersi all’accadere dell’evidenza? L’abissalità che Falque documenta è certamente una “eresia fenomenologica” di fatto, poiché è un aspetto non riflesso dalla tradizione. Ma non lo deve essere di diritto, altrimenti sarebbe minacciato il metodo stesso della fenomenologia, che rifiuta ogni trascendentalismo. Non si tratta di andare oltre la fenomenologia o di ammettere l’esistenza di aree che sfuggono alla riduzione fenomenologica: si tratta di ampliare quest’ultima perché divenga effettivamente in grado di rintracciare la formalità della coscienza nel suo complesso. Anche gli abissi antropologici non sono al di fuori di un regime narrativo che li costituisce in eventi per la coscienza, e sono “abissi” esattamente in relazione a quest’ultima e al suo sforzo di integrarli in orizzonti di senso. L’animalità e l’abissalità si configurano perlopiù come minacce per la struttura della coscienza che non può rivolgervisi al di fuori dell’istituzione di una figura di senso. La fenomenologia, che muove dall’intuizione husserliana di una correlazione tra coscienza e trascendenza in ogni atto intenzionale, non può limitarsi a prendere atto di un fallimento di fronte alle esperienze liminari che costituiscono l’abisso, ma deve impegnarsi in un allargamento della fenomenalità da essa studiata. Un secondo interrogativo che la riflessione di Falque pone è circa il credito accordato alla libertà. In ogni pagina egli cerca di distinguere la finitudine dall’esperienza della colpa. Se l’opzione ha un senso, si insinua un sospetto: che peso ha la libertà, che può anche fallire, nella considerazione attorno alla finitudine? La distinzione tra i due ordini è legittima, ma la separazione induce ad un sospetto: che Falque offra una analisi della finitudine a monte rispetto all’esercizio effettivo della libertà? Se tra colpa e finitudine non esiste un rapporto di causa, occorre riconoscere che la finitudine non si da senza una libertà che si determina in essa, e che può anche fallire. Nelle pagine di Falque, pur senza toni particolarmente marcati (come ad esempio nelle opere di Henry), sembra nascondersi un sottile paradosso di una soteriologia senza amartiologia: la risurrezione di Cristo trasfigurerebbe una finitudine, ma la morte e la risurrezione di Cristo si confrontano di fatto con il peso della colpa che viene redenta. L’assunzione da parte di Cristo del peso della libertà che fallisce non relega la finitudine ad essere conseguenza del peccato, ma restituisce alla libertà il suo effettivo ruolo nell’originario, fino alle sue devastanti conseguenze. Falque, pur reinventando nuovi equilibri, non si sottrae fino in fondo al difetto che a nostro avviso segna la fenomenologia francese nel suo rimarcare l’aspetto passivo del soggetto: la figura della libertà che viene proposta è ancora limitata ad un consenso. Finitudine e morte segnano l’uomo, anche l’uomo Gesù e al soggetto è assegnato il ruolo di colui che può ricevere o meno la possibilità di una metamorfosi. Le figure di nascita e rinascita, utilizzate da Falque, sono molto eloquenti: sono due eventi passivi, in cui io mi ricevo e sono chiamato ad acconsentirvi, ma il rischio è quello di dimenticare che tra le due nascite accade qualcosa, e non solo il mio consenso. La libertà ha dei tratti drammatici: Gesù non è semplicemente colui che acconsente alla morte. Egli non muore solamente, ma muore in croce per una serie di circostanze in cui la sua libertà ha conosciuto un travaglio. Nella trilogia falquiana il dramma della libertà non sembra avere sempre un peso adeguato: l’angoscia della finitezza non è semplicemente la difficoltà a riconoscere e assumere la propria passività, ma si tratta anche di decidere le qualità dell’accettazione, che non si prestano facili riduzioni. Solo se alla libertà è riconosciuto un primato entro l’originario della coscienza, l’evenemenzialità del suo decidersi è restituita nella sua drammatica e quest’ultima non è marginale alla questione della verità. In Falque vediamo il rischio della sottodeterminazione della libertà soggettiva che caratterizza lo stile fenomenologico francese : il tendenziale pensiero di una finitudine che lascia pensare ad una ricerca di uno “stato di natura” previo all’esercizio effettivo della libertà stessa64. «Non si và qui, come in altre volte presso certi teologi presi dall’entusiasmo generale per la “vitalità” nietzscheiana, verso un naturalismo che, sovrapponendo nello stile del paradosso le sfere della finitezza e dell’eternità, di fatto adombra l’analogia entis nella professione di una identità?». E. TOURPE, Recensione di Le Passeur de Gethsémani in «Revue Philosophique de Louvain» 2(1999), 382-384, qui 384. 64 16 A conclusione di questo filone di osservazioni critiche occorre notare che Falque ha annunciato l’uscita prossima di un nuovo libro sul tema del peccato65. Gli spunti qui offerti devono dunque essere pensati come semplici interrogativi che raccogliamo dal complesso della sua riflessione e che attendono ancora una risposta da un pensiero fecondo e ancora ricco di promesse. Da ultimo non possiamo non meravigliarci di fronte al peso che Falque accorda ad una riflessione sui sacramenti. Per la verità non è il primo autore francese nell’area fenomenologica che affronta il tema: se Marion ha inaugurato la serie, la riflessione sui sacramenti in ambito fenomenologico conosce le firme di Henry, Lacoste e Chretien. L’attenzione fenomenologica ai sacramenti è un’area promettente e che richiede ancora di essere esplorata. L’intuizione però è certamente significativa: il sacramento cristiano è custode di una forma di evenemenzialità che interroga le vie di accesso alla verità stessa. Le modalità con cui la fenomenologia si occupa dei sacramenti dispiegano un grande potenziale anche per la teologia: la sacramentaria dell’ultimo secolo ha conosciuto i contributi decisivi del movimento liturgico, che ha invitato a riscoprire le dinamiche antropologiche appartenenti alla logica del sacramento stesso, ma rimosse dalla riflessione teologica66. Tuttavia, nonostante autori come Casel, Guardini, Vagaggini, Marsili, e in tempi più recenti Chauvet o Jüngel, abbiamo proposto temi quali l’agire, gli affetti, l’urto del reale, il tempo, lo spazio, la teologia dei sacramenti fatica ad utilizzare modelli teorici adeguati a manovrare temi così ampi. La fenomenologia invece riconosce nella semantica evocata un’area di suo interesse, e può aiutare la teologia nell’elaborazione di strutture di pensiero adeguate a ospitare la complessità dell’evento sacramentale. La proposta di Falque in tale direzione spicca per ampiezza argomentativa e per il ruolo decisivo accordato alla tematica sacramentaria. Il sacramento viene riscoperto con rigore nelle sue costitutive dimensioni antropologiche, scongiurando l’impostazione di una “sacramentaria propter angelos”: il Figlio incarnato, l’uomo Cristo Gesù, unica rivelazione di Dio, pone come accesso perenne all’evento ʽche egli stesso èʼ un atto che chiama in gioco ogni dimensione dell’umano, anche e soprattutto le forze antepredicative. Le pagine in cui l’autore si intrattiene a offrire delle riletture su temi classici della sacramentaria (la presenza reale, la transustanziazione, il sacramentum tantum) sono magistrali e molto acute. È da notare anche la competenza con cui Falque riflette sulle tematiche tipiche del Movimento Liturgico, rara in altri tentativi analoghi di pensiero. La riflessione dell’autore ci sembra restituire con rigore e con passione argomentativa la complessità in gioco quando si parla di sacramenti cristiani: il sacramento è custode dell’unica forma con cui si può dare la verità, ossia un atto correlazionale che convochi la totalità corporea e coscienziale dell’uomo prospettando alla libertà il suo compimento. Se è vero che Falque dimostra una certa perizia liturgica e che il capitolo che dedica al tema è decisamente interessante, notiamo anche che viene dopo le sue riflessioni sulla presenza reale e sulla transustanziazione. Potrebbe essere letto come un retaggio di un credito tradizionale accordato ai contenuti del sacramento e meno alle forme. La liturgia viene definita come luogo di autentificazione della parola67, ma essa ha una intelligenza propria, non riconducibile immediatamente all’ordine della parola. Il dispiegamento del potenziale di forze che il sacramento custodisce potrebbe illuminare meglio la riflessione fenomenologica e farsi illuminare da quest’ultima. La riflessione di Falque è più simile a un cantiere molto promettente e aperto che a un edificio concluso, e gli spunti e le domande di queste riflessioni non hanno altra ambizione che essere invito a prendere parte a questo lavoro promettente, invitati dall’autore stesso: 65 NA 34. Cfr. A. GRILLO, Introduzione alla teologia liturgica, Messaggero, Padova 2011. 67 NA 222. 66 17 Senza entrare in una sterile polemica di scuola, siamo sicuri che la maniera francese di praticare la filosofia, e in particolare la fenomenologia, guadagnerà un suo seguito in teologia. Essa sola genererà una nuova pratica dei testi evangelici che non si attenga semplicemente alla loro sola ermeneutica, ma inaugurerà un’esperienza descrittiva e fenomenologica, che attende oggi se non proprio le sue basi almeno un suo più completo svolgimento68. 68 MF 29. 18