breve storia dell`ateismo

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Ernesto Riva
BREVE STORIA DELL’ATEISMO
Torino 2007
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INDICE
1. Introduzione generale. Gli atei nell’antichità
p. 5
2. Gli atei nell’età moderna e nell’Illuminismo:
Meslier, d’Holbach, Sade
p. 11
3. Gli atei dell’Ottocento (1^ parte):
Schopenhauer Nietzsche Stirner Bakunin
p. 17
4. Gli atei dell’Ottocento (2^ parte) :
Feuerbach Marx Engels Lenin Le Dantec
p. 23
5. Gli atei nel Novecento: Freud Sartre
Merleau-Ponty Camus Lévi-Strauss
Foucault, Onfray
p. 30
6. Gli atei nel Novecento in Italia: Rensi,
Flores d’Arcais, Odifreddi, Eco, Giorello
p. 40
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INTRODUZIONE GENERALE
GLI ATEI NELL’ANTICHITA’
Non si sfugge al fatto che ogni credenza, come ogni miscredenza,sono entrambi fenomeni
prettamente umani. Ciò significa che è solo per l'uomo che Dio è un problema, un mistero,
una certezza; è solo l'uomo che si pone il problema di Dio, che tenta di risolverlo e che dà le
più diverse soluzioni. Così, il problema di Dio è inevitabile e è anche e soprattutto
"esistenziale" ed umano. Atei e credenti sono d'accordo nel ritenere il problema di Dio un
problema fondamentale. Gli uni possono dire: "Il problema di Dio è un problema umano
che riguarda il rapporto degli uomini tra loro, un problema totale che ciascuno risolve
con la sua intera esistenza e la cui singola soluzione rispecchia l'atteggiamento adottato
da ciascuno nei confronti degli altri uomini e di se stesso"(l)
Gli altri scrivono: "Inest homini inclinatio secondum naturam rationis, quae est sibi
propria, sicut homo habet naturalem inclinationem ad hoc quod veritatem cognoscat de
Deo et ad hoc quod in societate vivat" (2); ma tutti sono d'accordo (almeno in generale)
nel ritenere Dio un problema di cui vale la pena di discutere, sia per negarlo
successivamente, sia per affermarlo. Il problema di Dio è inevitabile perché tutti gli
uomini, prima o poi, direttamente e indirettamente, devono confrontarsi con esso. Anche
coloro i quali dicono che, per essi, Dio non è mai stato un problema o perché secondo loro
il problema non sussiste essendo uno pseudo-problema, perciò privo di qualsiasi
significato; o perché essi non hanno mai avuto dubbi in proposito ecc. - devono
necessariamente esserselo posto, anche indirettamente, e risolto conseguentemente, sia
pure in modo negativo, ma, in ogni caso, il problema gli si è parato dinanzi. Infatti, negare
che sussista il problema è già aver dato una risposta allo stesso,affermando implicitamente
che lo si è risolto con la sua negazione. Il problema di Dio è anche inevitabile perché esso è
strettamente legato alla risposta che ogni singolo uomo dà alla sua vita, e al significato
dell'esistenza in generale. Coloro che si professano credenti pensano che, alla fine, il
problema fondamentale sia proprio quello del significato dell'esistenza e che esso implichi
necessariamente l'affermazione di Dio: d'altra parte, i cosiddetti miscredenti non pensano
di ritenere fondamentale la nostra presenza a questo mondo, ma, in entrambi i casi, si è
data una risposta al problema del senso della vita. Se il problema di Dio è, appunto, un
problema, che si pone alla mente umana - come il problema dei valori, come ogni
problema scientifico, letterario, ecc. resterà per ciò stesso presente finché vi sarà mente
umana, finché l'uomo sarà presente su questo mondo, e perciò posso arrischiare la affermazione che il problema di Dio, oltre ad essere inevitabile, è anche ineliminabile. Non sono
d'accordo, in altre parole, con quelli che sostengono che il problema di Dio potrà sparire
dalla circolazione in un tempo più o meno lungo,ammesse certe condizioni, poiché ritengo
- ripeto - che la mente umana non potrà mai evitare di porselo in quanto problema e
susseguente soluzione come non potrà evitare di porsi tutti gli altri problemi, finché vi
sarà.
In generale, rispondere che la vita non ha un senso che la trascenda, vuol dire affermare la
sola esistenza dell'uomo, senza alcuna divinità che intervenga, e vuol dire quindi essere, se
non atei, miscredenti. Al contrario, ritenere la vita, se così può dirsi, dipendente da un
essere assoluto e trascendente, significa generalmente essere credenti, professare una fede
religiosa. Dio è una risposta al problema dell'esistenza e, viceversa, il nostro
comportamento nell'esistenza è una risposta al problema di Dio.
Il problema di Dio, s'è detto all'inizio, è un problema esistenziale. Infatti in esso si pongono
tre condizioni: l'interrogante, cioè l'uomo; l'interrogato, in questo caso Dio; e la risposta al
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problema, che è la risposta dell'uomo alla presenza o alla assenza di una divinità. Però, in
concreto, chi fa le veci del giudice e della parte in causa è sempre e solo.. l'uomo, perché
Dio non interviene a rispondere (a meno di non ammettere la Rivelazione, ma questo è un
altro discorso) e non vi sono dei segni che possano suggerire la soluzione del problema: è
sempre e solo l'uomo che ricerca, interpreta, cerca di dare una soluzione. Inoltre, sia per il
credente come per il miscredente, la cosa più importante sembra essere la coerenza
nell'impegno assunto.
Per l'ateo ciò vorrà dire trarre tutte le conseguenze dalla constatazione dell'assenza di
qualunque Dio; per il credente sarà importante la viva testimonianza della sua fede:
rendere partecipi gli "atei" del suo credo, "illuminarli,informarli su certi fatti che essi
ignorano,e su altri che essi interpretano male"(3). Bisogna però fare una precisazione: che
infatti il problema di Dio condizioni l'intera vita umana è valido solo nel caso del credente,
per il quale, ovviamente, l'esistenza e la presenza provvidenziale della divinità è essenziale
nei riguardi della sua vita intera. Per il credente è importantissimo determinare la natura
del Dio in cui crede, cercare di spiegare la sua presenza al di là delle possibili
contraddizioni,trovare delle formule e dei riti atti a propiziarsene i favori od a revocare, per
quanto possibile, i suoi decreti, impostare le sue scelte in modo che siano aderenti al credo
religioso a cui appartiene,e cose simili. Insomma il credente isola il problema di Dio
ponendolo come il fondamentale, al contrario del miscredente, per il quale tale problema è
uno fra i tanti. Per il miscredente e per l'ateo, tutto quel che s'è detto prima non sussiste
una volta assunto che non e'è Dio, tutti i problemi sopracitati sono resi inutili, superflui,assurdi, perché è ovviamente un non senso regolare le proprie scelte in base a chi si
crede non esista o non si interessi a noi. Quindi il problema di Dio è si presente alla mente
umana, ma la sua presenza o sia estende durante tutta una vita qual è il caso del credente,
o riaffiora di tanto in tanto, in particolari occasioni,senza che però con questo il
miscredente sia necessariamente indotto a rovesciare la sua certezza contraria od a porre
in revisione ulteriore i suoi valori. Con ciò, può sembrare che la miscredenza sia
semplificatrice(4), ma questo è vero fino ad un certo punto. Se la miscredenza e l'ateismo
sono, in un certo senso, l'assenza di alcuni problemi, non per questo sono assenza di
problematica. Infatti l'argomentazione potrebbe essere a sua volta capovolta e rivolgere la
stessa "accusa" al credente, il quale ha problemi diversi dall'ateo. Il punto è solo questo:
ognuna delle due "parti in causa" ha problemi che ritiene più importanti ed a cui dà a
preminenza. Occorre semplicemente prenderne atto e decidere per l'una o l'altra
alternativa.
Nelle pagine seguenti mi occuperò dell'ateismo, analizzerò le interpretazioni attuali che ne
vengono date e quindi farò un excursus storico del fenomeno a partire dalle sue origini
probabilmente greche fino a giungere all'età contemporanea, dove sembra che l'ateismo
abbia trovato il suo culmine ma anche la fine delle sua parabola ascendente, e quindi la sua
"morte". L'analisi del fenomeno ateistico non è affatto semplice, ma non dobbiamo, d'altra
parte, farei spaventare dalla sua complessità se vogliamo vedere un po' chiaro in esso.
Questo è appunto il mio scopo principale: a elucidare un poco la posizione avuta
dall'ateismo in questi più di duemila anni di storia del pensiero, distinguendolo
nettamente da altre manifestazioni similari ma distinte, come il fenomeno generale della
miscredenza (che richiederebbe uno studio a sé), o affermazioni di scetticismo, di
indifferenza e simili.
L'assunto principale di quest'opera è che si può chiamare ateo colui il quale, come diceva
Hobbes, “directe negaverit Deum esse”(5) e quindi non si considerano "atee" posizioni
come lo scetticismo, il panteismo,il deismo, il monismo, ecc. In altre parole, mi occuperò
solamente degli atei dichiarati e non di coloro che hanno posto dei dubbi sull'esistenza di
Dio o hanno concepito Dio in un modo diverso da quello della dogmatica cristiana. Come si
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vedrà, il numero degli atei sarà molto più piccolo di quanto si pensi, appunto perché mi
dedicherò espressamente ad una analisi dell'ateismo e non di pensatori scettici o agnostici
o deisti. Delimitando così il tema, mi auguro di essere stato abbastanza esauriente e
preciso, in modo che non sorgano questioni che si basano su una cattiva interpretazione
del mio assunto fondamentale. Comunque riconosco volentieri che non è affatto facile dare
una definizione esaustiva di un fenomeno così complesso com'è quello dell'ateismo. Si può
dire, intanto, che esso è una risposta al problema di Dio, come la è lo scetticismo, il
panteismo, il razionalismo,ecc., e la fede. Ogni credenza ha le sue caratteristiche, le sue
particolarità, e non possiamo elevare una sulle altre affermando la sua superiorità e
validità. In fondo, se si può parlare di "ateismo" è perché una ta1e posizione è diversa da
qualsiasi altra ed ha determinate caratteristiche che la distinguono dalla rimanenti: in caso
contrario, che significherebbe un tale termine ?
Prima di addentrarci nell'esame dei singoli pensatori atei è bene dare uno sguardo generale
allo sviluppo dell'ateismo e alle sue caratteristiche generali dall'antichità ad oggi iniziando
a dare un breve cenno delle concezioni orientali per poi non accennarne più poiché il
nostro studio si riferisce soprattutto all'ateismo occidentale e non a quello orientale o
musulmano.
Si deve dire, innanzi tutto, che è sbagliato sia imputare di le concezioni orientali di
"ateismo" perché hanno un concetto di Dio diverso dal nostro, sia ritenere che in Oriente
non vi sia alcuna forma di ateismo. In Oriente abbiamo soprattutto il buddismo che viene
considerata come la religione "atea" per eccellenza, ma non c'è solo essa. Accanto alle
scuole teistiche che proclamavano un Dio creatore e reggitore del mondo, c'erano le scuole
che concepivano il mondo come un processo di autocreazione ab aeterno senza alcun
intervento di divinità. Queste ultime scuole sono alcune buddhistiche, quelle Jainiche e
Mimansa , le quali criticano il concetto di Dio . Sembra comunque che la confutazione
dell'esistenza di Dio architettata sia dai Jaina che dai Buddhisti non sia altro che una
confutazione delle prove logiche che i Naiyayika avevano proposto. Dio, dicono entrambi le
scuole, non può essere dimostrato mediante nessuna inferenza; in questo si trovarono
d'accordo con il più fervido assertore dell'esistenza di Dio, Ramanuja . Venendo al
Buddhismo, si può dire che esso è sì una religione "atea" in quanto non contempla un
essere creatore, ma non per questo essa ha mai negato la cosiddetta Realtà Ultima. Il
Buddha ha solo rifiutato per essa un nome qualsiasi, una qualsiasi personificazione, il che
per lui, come per la più schietta tradizione indiana, voleva dire cadere
nell'antropomorfismo. Il cosiddetto "ateismo" buddhista non è una caratteristica
essenziale del Buddhismo, perché vi sono molte scuole che non possono affatto dirsi atee .
Nell’Islam vi fu solo una setta, a quanto pare, che negò dichiaratamente la divinità, e fu
quella dei Mu att ila. Non si può quindi dire che c'è un ateismo musu1mano, ma vi sono
solo dei musu1mani atei. L'ateismo musulmano non è rifiuto di Dio, ma è ateismo con Dio.
Se l'idea di Dio è stata raramente criticata, al contrario è stata molte volte criticata l'idea
della profezia.
Giungiamo quindi all'ateismo occidentale, che sembra fare la parte del leone in questa
"storia" dell'ateismo. I primi atei del pensiero occidentale li troviamo fra i Greci. Teodoro,
Diagora, Evemero,ecc. sono veri e propri negatori della divinità, non semplici agnostici
(come forse fu Protagora). Non per nulla Teodoro esortava tutti a rubare, a compiere
sacrilegi poiché credeva che non vi fosse alcun Dio che lo potesse punire per quello che
avrebbe fatto.
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Gli atei nel pensiero antico greco e romano
Nella storia della filosofia occidentale i primi veri e propri atei di cui si fa menzione sono
Diagora di Melo, Teodoro di Cirene e Evemero di Messana, per parlare solo dei più famosi
(tralasciando quindi Bione di Boristene, Sti1pone di Megara, ecc.). Purtroppo le notizie che
abbiamo a loro riguardo sono molto poche e su queste poche dobbiamo basarci. Bastano,
comunque, a darci un'idea, sia pure sommaria, del loro ateismo dichiarato.
Diagora di Melo fu un sofista e un poeta vissuto nel V sec. a.C. La tradizione vuole che si
facesse beffe degli dèi, deridendone i misteri, perciò fu detto "l'Ateo", e gli ateniesi lo
condannarono a morte; essendo egli riuscito a fuggire, gli posero una taglia sul capo e ne
distrussero gli scritti. Diagora morì a Corinto. Questo è in sintesi quel che sappiamo della
sua vita. Qualcosa di più preciso ci dice Cicerone nel De natura deorum : “Si dice che
Diagora sia stato spinto all'ateismo dal vedere che gli Dei permettevano che fosse felice un
uomo colpevole, a quanto pare, di averg1i rubato un poema”. Ed ancora: “Trovandosi una
volta a Samotracia Diagora, quello ch'è chiamato l'Ateo,uno dei suoi amici gli mostrò più
quadri votivi di gente ch'era scampata alla violenza delle tempeste. 'Tu che non credi alla
Provvidenza,guarda quanta gratitudine di gente che si è salvata per le preghiere innalzate
agli Dei!'. 'Sta bene fu la risposta; - ma quelli che hanno fatto naufragio e sono periti in
mare,dove li hanno dipinti?'. Trovandosi egli stesso in mezzo ad una forte burrasca, i suoi
compagni di viaggio, atterriti,gli dissero che giustamente incombeva su di loro una
disgrazia, poiché lo avevano ricevuto nella nave. Ed egli mostrando loro altre navi esposte,
dai medesimi venti, agli stessi pericoli,disse: 'Credete forse che anche quelle portino seco
Diagora?" ".
Da Diagora veniamo a Teodoro di Cirene, vissuto tra la seconda metà del IV e l’inizio del
III sec. a.C. La fonte principa1e su di lui è Diogene Laerzio. Teodoro ascoltò le lezioni di
Zenone Cizico, seguì anche gli insegnamenti di Brisone e di Pirrone lo scettico. Fondò una
propria scuola chiamata Teodorea. Fu cacciato da Atene in seguito ai suoi insegnamenti e
riparò presso Lisimaco. Avrebbe corso pericolo di essere portato in giudizio davanti
a11’Aeropago se non lo avesse protetto Demetrio Fa1areo. Altri invece dicono che fu
condannato a bere la cicuta. Teodoro ebbe anche una famosa disputa con Ipazia, donna
filosofa e matematica, che sembra sia riuscito a confutarlo. Teodoro scrisse un libro
intitolato Sugli dèi che Diogene Laerzio giudica "non disprezzabile". Teodoro distrusse in
esso ogni opinione sugli dèi : tutti i ragionamenti sulla divinità non sono che vuote
chiacchiere. Egli pensava infatti che la divinità non esistesse e perciò incitava tutti a
rubare, spergiurare, rapinare e a non morire per la patria. Concepì come fini la gioia e il
dolore: l'una posta nella saggezza, l'altro nell'insensatezza. Beni sono la saggezza e la
giustizia, mali i comportamenti contrari, intermedi il piacere e la sofferenza. Rifiutò anche
l'amicizia come insussistente sia per gli insensati che per i saggi: per gli uni, infatti, tolta di
mezzo l'utilità, anche l'amicizia sfuma; i secondi poi sono sufficienti a se stessi,e tali da non
aver bisogno di amici. Diceva anche che è ragionevole che l'uomo di valore non si sacrifichi
per la patria: poiché è sconsiderato buttar via la propria saggezza per l'utilità degli
insensati. La patria è l'universo; è lecito rubare, commettere adulterio e compiere
sacrilegi,ma al momento opportuno: nessuna di queste cose è infatti turpe per natura,una
volta che sia stata rimossa l'opinione che sussiste per accordo degli stolti. Apertamente il
saggio farà uso delle cose da lui bramate,senza alcuna esitazione.
Evemero o Eumero di Messana, vissuto tra il 340 e il 260 a.C. completa la triade dei
primi atei greci. Egli è l'autore della Sacra scrittura o Scritto sacro, scritto verso il 280.
Visse alla corte del re macedone Cassandro (311-297 a.C.). Di lui Cicerone parla in questi
termini: “Eumero, che il nostro Ennio ha copiato e sguito, e che racconta persino ove gli
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Dei son morti e dove s trovano le loro sepolture". Nello Scritto sacro Evemero narra un
viaggio immaginario nell'Arabia e nell'Oceano Indiano. Giunto nell'isola di Panchea, egli
avrebbe trovato là uno stato costruito sulla base di un collettivismo utopico e reso
accettabile dalla assenza di ogni estremismo, fondato su tre classi di persone: sacerdotiartigiani, coltivatori,soldati. Nello stesso luogo, su una colonna del Tempio di Giove
Trifilio, egli avrebbe trovato scritta tutta la storia primitiva del genere umano. Così egli
svelò il concetto che tutti i miti riguardanti gli dèi non sono che storia umana avvolta nel
meraviglioso; che tutti gli dèi e gli eroi non furono che uomini notevoli per forza ed
accortezza a cui, dopo la morte, si tributarono onori divini: lo stesso Zeus aveva fatto
scolpire la colonna a ricordo delle proprie opere.
Non si può concludere una panoramica generale sull'ateismo greco senza ricordare colui il
quale, pur non essendo dichiaratamente ateo (ecco perché non l'abbiamo citato prima),
contribuì più di molti altri alla causa della miscredenza - se non vogliamo parlare di
ateismo -, ed è stato a lungo considerato come un uomo abietto, un edonista sfrenato, un
materialista della peggior risma: si tratta di Epicuro (341- 270 a.C.) Epicuro non ha però
mai negato l'esistenza degli dèi. Infatti egli scrive: “Considera la divinità come un essere
vivente incorruttibile e beato, - secondo attesta la comune nozione del divino,- e non
attribuirle nulla contrario all'immortalità,o discorde dalla beatitudine. Ritieni vero invece
intorno alla divinità, tutto ciò che possa conservarle la beatitudine congiunta a vita
immortale. Perché gli dèi certo esistono: evidente infatti n'è la conoscenza: ma non sono
quali il volgo li crede; perché non li mantiene conformi alla nozione che ne ha. Non è
perciò irreligioso chi gli dèi del volgo rinnega, ma chi le opinioni del volgo applica agli dèi.
Perché non sono prenozioni, ma presunzioni fallaci,le opinioni del volgo sugli dèi".
Epicuro considera quindi gli dèi esistenti, beati, che non si occupano degli affari umani, ma
vivono tranquillamente negli interstitia mundi. Aver negato la provvidenza divina è
bastato per farlo considerare un immorale, un dissoluto. Egli fu contrastato, soprattutto
dai posteri cristiani, poiché la sua filosofia rappresentava un modello in netta antitesi con
le dottrine professate dalla Chiesa. Infatti, alla teoria che il mondo non abbia valore in sé
ma lo debba trovare in un fine che lo trascende, Epicuro oppone il suo materialismo e
meccanicismo; all' idea che la vita degli uomini non sia che una preparazione ad una buona
morte, Epicuro oppone il suo ideale di vita completamente terreno e il non senso del
problema della morte. Per questo egli fu cosi avversato dai Padri: una concezione cosi
fondamentalmente diversa, cosi diametralmente opposta alla cristiana non poteva non
aver sentore di "ateismo", di "eresia" !
Però, guardando un po' più a fondo le cose, Epicuro fu forse ateo? Non lo credo, poiché
negò solo un attributo della divinità - la provvidenza - ma non l’esistenza. La sua filosofia
epochizzava, per cosi dire, cioè metteva da parte gli dèi, ma ciò non vuol dire che li avesse
negati o combattuti. La sua visione del mondo era "laica", "mondana", ma ciò non significa
che fosse "antireligiosa".. Oggi, ancora più di una volta, possiamo affermare serenamente
che Epicuro non fu un ateo, poiché egli potrebbe stringere tranquillamente la mano a
teologi come Bonhoeffer ecc., i quali tentano di liberare la cultura e la religione da influssi
superstiziosi.
Come Epicuro, così Lucrezio nel mondo latino col De rerum natura diffuse l’idea della
divinità che esiste ma non interviene nel mondo.
Esaminiamo infine quali furono le caratteristiche fondamentali dell'ateismo greco. Esso
sembra essere stato vero e proprio ateismo, cioè dichiarazione netta e precisa della assenza
degli dèi (non si può parlare ancora di un unico Dio). In secondo luogo, la dichiarazione di
ateismo fatta da quei pensatori non era passata sotto silenzio, ma essi la difendevano
apertamente e per questo erano costretti a fuggire, a nascondersi per sostenere le proprie
idee. Non possiamo dire molto di più: non
possiamo ad esempio dire se questo primitivo ateismo sia stato una sorta di teologia
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negativa o una critica dell'antropomorfismo religioso; comunque, sembra constatato che,
fin dai primordi greci, l'ateismo fu un fenomeno positivo, e non tanto un antiteismo. Gli
atei greci non si scagliano infatti contro gli dèi, ma vivono la loro vita al di là di
preoccupazioni ultraterrene; anzi, in casi come quello di Teodoro, egli incitava ]e persone a
rubare, a spergiurare, per far vedere quanto fosse convinto che gli dèi non ci fossero. Gli
atei greci, e gli agnostici (Protagora), gli scettici (Sesto Empirico ecc.), insomma la
miscredenza greca forma un quadro in sé completo. Sia l'ateismo che la religione greca
sono fenomeni culturali in essi computi, che non hanno nulla da "invidiare" a nessuno. Del
resto non si può dire che l'ateismo greco fosse stato qualcosa di provvisorio, di superficiale,
di immaturo perché privo, ad esempio, di quella "spiritualità" tipicamente cristiana. Non
bisogna giudicare il greco con lo stesso metro del cristiano e viceversa. Le due civiltà greca e cristiana - sono l'una anteriore all'altra e non possono essere giudicate con lo stesso
metro comune.
NOTE
1) J-P. Sartre,"Attualità di Gide" in Che cos'è la letteratura?,trad.it. Il Saggiatore, Milano,
1966, p.466.
2) S.Tommaso, Summa theologiae, I-II, q. 94, a. 2.
3) M.M-Yvonne, Lettere a un non credente, trad.it. Roma 1973 ,p.1l.
4) Cfr. J.Guitton: “L'ateismo è semplificatore,è vivificatore”, in Perché credo, trad.it. ed.
SEI, Torino 1973, p. 79.
5) T.Hobbes, Appendix ad Leviathan, c.II, ed.Molesworth, rist. Aalen 1961, t. III, p. 548.
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GLI ATEI NELL’ETA’ MODERNA E NELL’ILLUMINISMO
Dopo l’ateismo antico, si verifica uno strano fenomeno: dalla Grecia fino ad arrivare
all'Illuminismo non si hanno casi di ateismo esplicito. Durante il Medioevo e il
Rinascimento abbiamo casi di scetticismo, di materialismo, di panteismo, di naturalismo e
simili, ma nessuno dei pensatori ha mai varcato totalmente la soglia dell'ateismo, se diamo
retta a quanto attestano i loro scritti. Né Vanini, né Bruno, né Spinoza, né Hume, né Bayle
(per citare solo i più famosi) sono atei nel senso vero e proprio del termine ma solo, se
vogliamo, miscredenti. Questo per la semplice ragione che, come scrisse Kant, "nessuno
per il solo fatto che non crede di poter affermare qualche cosa, può essere accusato di
volerla negare" (cfr. Critica della ragion pura, dial. tr., libro 2°, cap. 3°, sez. VII).
Riguardo Vanini, egli disse, prima di morire: “ Solo la Natura è Dio” (cfr. Opere, Lecce
1912, pp CCXXVIII). E' quindi un caso di naturalismo o se volete di panteismo ma non di
ateismo. Ne L'anfiteatro della eterna Provvidenza, Vanini dice che non possiamo sapere
che cosa sia Dio, poiché “se lo sapessi, sarei Dio” ( Opere, cit., p.25) , ma non che non c'è
Dio. Anzi, che vi sia una Provvidenza è dimostrato da molte cose : ad es. dalla creazione del
mondo,dal moto dei cieli, dai miracoli,ecc.(in Opere, cfr. le esercitazioni 4^,5^,8^) . Ne
Dei mirabili arcani della natura regina e dea dei mortali, Vanini ribadisce la sua religione
della natura: “...Ma in quale religione gli antichi filosofi credevano che Dio fosse venerato
con verità e santamente? ... Nella sola religione della Natura: religione della Natura stessa
che è Dio (infatti è principio di movimento) scolpita nel cuore di tutti i mortali"( in Opere,
p. 308).
Giordano Bruno distingue nettamente il campo della scienza da quello della fede; se poi
vogliamo ammettere una causa prima, questa non può essere che "la natura stessa o pur
riluce ne l'ambito e grembo di quella"(Dialoghi italiani, Firenze 1958 ,p.229). La natura è
"Dio che è in tutte le cose"(op.cit., p.274). Bruno ripete spesso la sua idea dominante: Dio è
tutto in tutte le cose, "per quanto si comunica alli effetti della natura,ed è più intimo a
quelli che la natura stessa; di maniera che se lui non è la natura istessa,certo è la natura de
la natura ed è l'anima del mondo,se non è l'anima istessa"(Ibid., p.783). La religiosità
bruniana è cosmica, è amore per l'infinito, per l'universo, per il tutto.
Spinoza ci lasciò nella Epistola LXXIII la sua "confessione di fede". Egli dice che "Dio è,
come si dice, la causa immanente, non già la causa transeunte di tutte le cose. Affermo cioè
con Paolo che tutte le cose sono in Dio e in Dio si muovono"(in Opere scelte, a cura di
A.Deregibus,Milano I970, p.208). Anche questo è un caso di naturalismo o, meglio, di
acosmismo, e non di ateismo.
Hume è dichiaratamente uno scettico. La conclusione della sua indagine sul problema di
Dio è questa: “Tutto è ignoto; un enigma, un inesplicabile mistero.
Dubbio,incertezza,sospensione di giudizio appaiono l'unico risultato della nostra più
accurata indagine a proposito” (cfr. D. Hume, Storia naturale della religione, Laterza, Bari
I970, p. 115). E questo scetticismo, per Hume, non è negazione della religione, anzi "essere
uno scettico filosofico è, per un uomo colto, il primo e più essenziale passo che conduce ad
essere un vero cristiano, un credente"(Dialoghi sulla religione naturale, Laterza, Bari
I963,p.I67).
In ultimo, Bayle è uno dei padri della moderna miscredenza ma non del moderno
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ateismo. Egli si dilunga a dimostrare, in diverse opere, che gli atei non sono persone
amorali e perverse come spesso li si considera. Non è affatto strano che un ateo viva
virtuosamente, quanto è strano che un cristiano compia dei crimini. “ Se noi - dice Bayle vediamo tutti i giorni quest'ultima specie di mostro,perché crediamo che l'altra sia una
cosa impossibile?”. Possiamo benissimo avere l’idea di onestà senza credere affatto in Dio
(Oeuvres diverses,rist. Hildesheim 1966, tomo 3°,cfr. pp. 109 segg.). Riguardo Dio, Bayle
non si sbilancia mai nel sostenere che esiste oppure che non esiste. Si giustifica dicendo:
“1a libertà a questo riguardo è abbastanza grande; e purché un dottore ammetta che questa
esistenza si può provare in altri modi, gli si lascia la libertà di criticare questa o quella
determinata prova" ( cfr. Dictionaire historique et critique , Rotterdam 1740 , tomo 4°,
p.530, tr. it. parziale Dizionario storico-critico, ed. Laterza ). Bayle si mantenne sempre su
posizioni di critica più o meno pacata, affermando il que sais-je ?
Si può definire ateismo moderno l’ateismo proprio del periodo illuministico. Uomini come
Meslier, d’Holbach, Sade hanno portato l’ateismo ad una violenza e radicalità mai viste
prime. Nelle loro tesi atee si intrecciano diversi motivi, dal materialismo al meccanicismo,
dal determinismo al razionalismo, non del tutto nuovi, ma quel che è nuovo è la radicalità
con cui queste affermazioni vengono sostenute. Forse essi sono anche dogmatici ma ciò
rivela come essi vogliano tagliare nettamente i ponti col passato e con tutto quello che ha
sentore di religione.
Il curato Jean Meslier (1664-1729) è uno dei casi più singolari nel panorama della
letteratura atea. Per tutta la vita egli tenne nascosta la sua vera opinione su Dio, libertà e
immortalità, e solo dopo la sua morte si venne a conoscenza di quel che realmente credeva
quel povero prete di campagna. Ne sono testimonianza le tre copie del Testamento che ha
lasciato. Nell’opera egli sostiene a spada tratta che Dio non esiste ed elabora addirittura
otto prove “dell’inconsistenza e della falsità delle religione”. Per dimostrare che ogni
religione è in sé falsa e dannosa. Il suo ateismo nasce dalla insoddisfazione nel vedere tanti
soprusi giustificati dalla religione ed egli vuole appunto liberare i poveri, gli ignoranti dallo
stato di servitù e sottomissione a cui erano soggiogati dalla Chiesa e dallo Stato. Il suo è,
per così dire, un ateismo politico. Non è fine a se stesso, ed è quindi, in un certo senso, già
un superamento dell’ateismo come semplice posizione teoretica.
Nella prima prova Meslier sostiene che le religioni non sono altro che invenzioni umane
dato che tutte si escludono e si combattono l’un l’altra. La seconda prova sostiene che la
fede è fonte di illusioni, di errori, imposture. La fede è una credenza cieca, che obbliga a
credere tutto ciò che viene presentato sotto il nome e l’autorità di Dio. La terza prova nega
la rivelazione divina. Poiché secondo Meslier, non sono state compiute le magnifiche
promesse legate a tali pretese rivelazioni divine. La quarta prova è un ampliamento della
terza: le promesse e profezie dell’Antico Testamento sono tutte false. Esse non si sono
avverate che in senso spirituale e allegorico e quindi ne consegue che sono false. La quinta
prova è dedotta dalle false credenze contenute nella dottrina e morale cristiana. Il
cristianesimo, dice Meslier, obbliga a credere non solo in cose false, ma anche ridicole e
assurde come la Trinità, come la divinità di Gesù, la transustanziazione ecc. e nel
condannare moralmente le passioni della carne e nel fare cose contro natura come amare i
propri nemici. La sesta prova è tratta dagli abusi, vessazioni, tirannie dei potenti che la
religione tollera e autorizza. Meslier enumera sei abusi di cui sarebbe colpevole il
cristianesimo: mantenere la disparità fra le diverse concezioni sociali degli uomini;
tollerare, mantenere e autorizzare che si vi siano diverse categorie sociali che non sono né
utili né necessarie alla società: Meslier si riferisce ovviamente ai “ricchi fannulloni” e agli
ecclesiastici, preti, monaci e monache. Appropriazione individuale che gli uomini fanno dei
beni e delle ricchezze della terra, che dovrebbero invece essere “posseduti da tutti in parti
uguali”. Dominazione tirannica dei poveri, indissolubilità del matrimonio, da cui deriva
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“un’infinità di matrimoni infelici, di famiglie sventurate”. La tirannide dei grandi, dei re e
dei principi che dominano mediante un potere assoluto sul resto degli uomini. La settima
prova è dedotta dalla falsità e dalla credenza nella presunta esistenza degli dèi. Questa
settima prova è quella trattata più ampiamente nel Testamento. L’origine della credenza
negli dèi si trova nel fatto che alcuni uomini sottili e malvagi hanno assunto il nome e la
funzione di Dio e di Signore assoluto per suscitare più timore e rispetto. Egli cerca appiglio
in ogni dove per giungere a dimostrare la sua tesi della inesistenza di Dio. L’ultima prova è
dedotta dalla falsità dell’idea dell’immortalità. L’anima, secondo Meslier, è una parte della
materia più fine e più fluida, rispetto all’altra più corposa di cui sono fatte le membra e le
parti visibili del nostro corpo. Nella conclusione, Meslier riassume l’intento dell’opera
dicendo che “tutto questo ammasso di religioni e di leggi politiche” non è altro che “un
cumulo di misteri di iniquità”. La salvezza degli uomini, e soprattutto dei poveri, dei
derelitti, degli ignoranti è “nelle vostre mani, la vostra liberazione dipenderebbe solo da
voi, se riusciste a mettervi d’accordo”. È la forza stessa della verità che mi ha fatto scrivere
questo Testamento – dice Meslier – e non è che l’odio per l’ingiustizia, per l’impostura, per
la tirannia e per ogni altra iniquità che mi fa parlare così.
Paul-Henri Dietrich d’Holbach (1723-1789) è stato forse l’ateo più famoso
dell’Illuminismo francese. Il suo Sistema della natura fu la bibbia del materialismo ateo
settecentesco. L’opera, in verità, non è affatto originale. In essa d’Holbach riassume tutti
gli argomenti antireligiosi di duemila anni di storia del pensiero. Il suo ateismo però, a
differenza di quello di Meslier, è ancora aristocratico, poiché secondo lui soltanto le
persone che si innalzano al di sopra delle credenze del popolino ottengono la liberazione
dalle credenze religiose.
Nel Sistema della natura, opera prolissa e infarcita di citazioni, d’Holbach tenta di fondare
una completa visione del mondo atea appoggiandosi ad ogni possibile contributo da parte
della filosofia e della scienza. L’unico merito del Sistema della natura è appunto questo:
aver tentato di avanzare una visione del mondo e dell’uomo completamente diversa da
quella religiosa. L’opera è divisa in due parti, intitolate rispettivamente Della natura e Di
Dio. La prima parte è una esposizione delle leggi del moto e della materia, delle cose
viventi e non viventi, in modo tale che esse vengano spiegate e comprese autonomamente,
senza fare ricordo ad un ente trascendente e creatore. La seconda parte, come suggerisce il
titolo, vuole essere una critica radicale al concetto di Dio, alle prove della sua esistenza, alla
Provvidenza, alla religione ecc. un rilievo interessante a questo proposito è notare come
d’Holbach, settant’anni prima circa de L’essenza del Cristianesimo di Feuerbach, affermi
che l’uomo in Dio non vede né può vedere altro che un essere di specie umana, di cui si
sforzerà invano di ingrandirne le proporzioni per farne un essere totalmente spirituale. Si
attribuisce a Dio – dice d’Holbach – l’intelligenza, la saggezza, la bontà, l’onniscienza,
l’onnipotenza perché è lo stesso uomo che è buono, intelligente, saggio ecc.
Ma vediamo più da vicino le argomentazioni holbachiane. Egli ritiene che se non esistesse
affatto il male nel mondo, l’uomo non avrebbe mai immaginato e creato una divinità. Fu
quindi nella “fabbrica della tristezza” che l’uomo infelice formò il fantasma di cui fece il suo
Dio. Con la parola Dio gli uomini hanno designato la causa più nascosta, la causa più
lontana, la causa più sconosciuta degli effetti che essi vedevano. Dal momento in cui gli
uomini persero il filo delle cause, o da quando il loro spirito non poté più seguirne la
concatenazione, essi troncarono la difficoltà terminando le loro ricerche chiamando Dio
l’ultima delle cause, cioè la causa al di là di tutte le cause conoscibili. Fu sulle rovine della
natura che gli uomini costruirono il colosso immaginario della divinità. Per cui, dice
d’Holbach, se l’ignoranza della natura ha fatto nascere gli dèi, la conoscenza della natura è
fatta per distruggerli. La religione – continua d’Holbach – è fondata sul principio assurdo
secondo cui l’uomo è obbligato fermamente a credere ciò che è nella impossibilità totale di
comprendere. Secondo la teologia – egli dice – l’uomo deve essere in una ignoranza
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invincibile riguardo la nozione di Dio. Si assicura che Dio ha creato l’universo per l’uomo,
unico re della natura. Povero monarca!, dice d’Holbach. Basta un granello di sabbia,
qualche umore fuori posto per distruggere l’esistenza del tuo regno, e tu pretendi che un
Dio buono abbia fatto tutto per te! Che cos’è la razza umana in confronto alla Terra? E che
cos’è questa terra in confronto al Sole? Che cos’è questo nostro Sole in confronto a
quell’insieme di soli che, a immense distanze, riempiono la volta del firmamento? O uomo
vano, sta al tuo posto!
D’Holbach analizza quindi le prove dell’esistenza di Dio. La prova più forte che l’idea della
divinità non è fondata che su un errore – egli dice – è che gli uomini sono venuti a poco a
poco perfezionando tutte le scienze che avevano per oggetto qualcosa di reale, meno la
scienza di Dio, che non è stata mai perfezionata: essa è dappertutto allo stesso punto; tutti
gli uomini ignorano ugualmente qual è l’oggetto che adorano, e ciò di cui si sono più
seriamente occupati non fa che oscurare sempre più le primitive idee che gli uomini si
erano formati. Tutti vedono il Sole ma nessuno vede Dio. Ecco la sola differenza fra la
realtà e la chimera: l’una esiste e l’altra no. La teologia è un mondo in cui tutto segue delle
leggi completamente diverse dalle nostre. L’idea di Dio non è che un errore madornale del
genere umano; la nozione di divinità non serve che a corrompere gli uomini; Dio è un
essere superfluo: non è che il caso che ha prodotto l’universo, è da se stesso che esso esiste,
esso c’è necessariamente e da tutta l’eternità. Ed ecco che d’Holbach inizia la polemica, a
quei tempi agli inizi, fra ateismo e morale. A questo proposito d’Holbach dice chiaramente
che voler fondare la morale su una chimera è come fondarla sul nulla. Dire che senza l’idea
di Dio l’uomo non può avere sentimenti morali significa non poter più distinguere il vizio
dalla virtù. Diversamente dalla morale teologica, la morale della natura è chiara ed
evidente anche per quelli che la oltraggiano. La natura – dice d’Holbach – invita l’uomo ad
amarsi, a conservarsi, ad aumentare incessantemente la somma della sua felicità; la natura
dice all’uomo di consultare la sua ragione e di prendere essa come guida; la natura dice
all’uomo di cercare la verità, di essere socievole, di amare i propri simili, di essere giusto; la
natura dice all’uomo: tu sei libero, nessuna potenza sulla terra può legittimamente privarti
dei tuoi diritti. Che cos’è dunque un ateo? La risposta di d’Holbach non si fa attendere: un
ateo è un uomo che distrugge le chimere nocive al genere umano per riportare gli uomini
alla natura, all’esperienza, alla ragione. È un uomo che, avendo meditato sulla materia, la
sua energia,le sue proprietà, non ha bisogno, per spiegare i fenomeni dell’universo e le
operazioni della natura, di immaginare potenze ideali, intelligenze immaginarie, esseri di
ragione che, lungi dal far conoscere meglio questa natura, non fanno che renderla
capricciosa, inesplicabile, in conoscibile, inutile alla felicità umana. Quindi se per ateo si
intende un uomo che nega l’esistenza di una forza inerente alla materia e senza la quale
non si possa concepire la natura, ed a questa forza motrice si dà il nome di Dio, non
esistono affatto atei. Ma se per atei si intendono uomini guidati dall’esperienza e dalla
testimonianza dei sensi, che non vedono nella natura che quel che si trova realmente, essi
vi sono e combattono ogni forma di fanatismo. Per d’Holbach dunque o si è atei oppure si è
pieni di pregiudizi, di falsità, di contraddizioni. Neppure il deismo si salva da questa sorte:
“il deismo – scrive d’Holbach – è un sistema a cui lo spirito umano non arrendersi per
lungo tempo; fondato su una chimera, degenererà presto o tardi in una superstizione
assurda e pericolosa”. Quindi o ateismo cioè verità o niente cioè falsità, ignoranza,
assurdità.
D’Holbach conclude il ciclo del materialismo antico, i cui eroi erano stati Epicuro e
Lucrezio, e prelude al nuovo materialismo, quello ottocentesco. In questo senso il Sistema
della natura è una pietra miliare dell’ateismo, nonostante tutto quello che ha di
dogmatico, pedante, scandaloso.
Nel concludere la nostra panoramica sull’ateismo settecentesco, non possiamo dimenticare
un altro contributo alla causa dell’ateismo che ci viene da un personaggio singolare, il
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famoso marchese de Sade (1740-1814). Pur non essendo un filosofo in senso stretto, de
Sade ci ha lasciato due testi molti interessanti da cui possiamo ricavare il suo pensiero su
Dio e la religione, i quali ci aiutano a riflettere sulle problematiche che conducono
all’ateismo. Nel primo di essi, il Dialogo tra un prete e un moribondo, Sade fa una radicale
confessione di a teismo; nel secondo, cioè in alcune pagine della Storia di Juliette, Sade
mette in bocca ad uno dei personaggi, un certo Saint-Fond, la teoria secondo la quale Dio
esiste ed è il male. L’antitesi è interessante e merita appunto di essere esaminata.
Nel Dialogo Sade narra di un moribondo che, “giunto all’istante fatale”, è visitato da un
prete che gli propone di confessarsi. Il moribondo però, invece di pentirsi e chiedere
perdono dei suoi peccati, inizia a snocciolare uno dopo l’altro tutti gli argomenti e le
critiche per provare che Dio non c’è. Cristo è definito come “il più volgare dei bricconi ed il
più rozzo degli impostori”. I miracoli, le profezie ed i martiri sono tutte sciocchezze e non
dimostrano la verità della religione. Amico mio – conclude il moribondo – un Dio giusto
avrebbe scolpito nel cuore degli uomini così tante opinioni diverse fra le quali mi è
materialmente impossibile operare una scelta? “Va’, predicatore, tu offendi il tuo Dio
presentandomelo in questo modo, lascia che io lo neghi del tutto, perché, se esiste, lo
offendo meno io con la mia incredulità che tu con le tue bestemmie”. Il Dialogo, come è
noto, fu composto nel 1782, e cioè prima delle opere che diedero fama a Sade, ed in esso è
ancora presente un pensiero non del tutto originale, non ancora così estremistico e radicale
come sarà più avanti.
Del tutto originale ed estremistico è invece l’altra opera sadiana citata, la Storia di Juliette
(1797). In essa Sade fa dire a Saint-Fond, uno dei personaggi, che Dio esiste e che l’anima è
immortale però questo Dio non è buono ma è malvagio. Saint-Fond vede dappertutto il
male, il disordine, il delitto, e quindi conclude: “Convinto di tale premessa, io mi dico:
esiste un Dio; una mano qualsiasi ha necessariamente creato tutto quanto vedo, ma essa
l’ha creato soltanto per il male, essa si compiace soltanto del male; il male è la sua essenza,
e tutto quello che essa ci fa commettere è indispensabile ai suoi intenti; non le importa che
io soffra questo male, visto che a lei è necessario… Ora se il male, o almeno ciò che noi
chiamiamo tale, è l’essenza sia del Dio che ha creato tutto, sia degli individui formati a sua
immagine, come non essere certi che le conseguenze del male debbano essere eterne? …
L’essere buono non esiste: colui che chiamate virtuoso non è buono, o se lo è nei vostri
confronti, non lo è certamente nei confronti di Dio, il quale non è altro che male, non vuole
che il male, non pretende che il male. …L’autore dell’universo è il più malvagio, il più
feroce, il più spaventevole di tutti gli esseri. Le sue opere non possono essere altro che il
risultato oppure il movimento della scelleratezza. Senza il massimo moto di malvagità
nulla potrebbe reggersi nell’universo”.
Di fronte a simili parole, è naturale rimanere scandalizzati. Sade mette infatti in bocca a
Clairwil, altro personaggio della Storia di Juliette, le seguenti parole: “Il tuo sistema trae
origine dal profondo orrore che tu hai per Dio”. E Saint-Fond confessa: “è vero, io
l’aborrisco; ma non è l’odio che ho per lui l’origine del mio sistema; esso è il frutto soltanto
della mia saggezza e delle mie meditazioni”.
Che dire dunque dell’ateismo sadiano? Sade si rispecchia più nel moribondo o in SaintFond? Egli ha senz’altro avuto il merito di aver portato all’estremo le tesi atee o, forse è più
corretto, antiteistiche. Nessun scrittore dopo di lui ha mai più sostenuto tesi radicali
quanto quelle del divin marchese. Né Nietzsche nell’Anticristo, né Proudhon sono giunti là
dove è giunto Sade. Infatti che Dio sia il male è rifiutato non solo dai credenti ma anche
dagli stessi atei o miscredenti in generale, i quali piuttosto che ammettere un Dio siffatto lo
negano del tutto, come hanno fatto Juliette e il moribondo. L’importanza dell’ateismo
sadiano è dunque qui, in questa sua radicalità, in questo completo ribaltamento di valore
per quel che riguarda l’essenza di Dio. Egli ha osato sostenere per la prima e ultima volta
nel pensiero occidentale che Dio esiste ed è il male. Certo è una affermazione all’interno di
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un romanzo, quindi c’è da chiedersi se abbia una valenza filosofica autentica, però
l’importante è aver posto la tesi ed è per questo che l’ho citato.
L’ateismo settecentesco è in pratica tutto qui. Tralascio di parlare di Lamettrie e di
Helvetius, di Diderot e di Voltaire, perché seguendo la mia linea interpretativa, essi non si
sono mai dichiarati atei e dunque non vengono qui presi in esame.
L’ateismo illuministico può essere visto come una tappa verso la svolta decisiva che
arriverà con l’ateismo post-hegeliano.
BIBLIOGRAFIA
J. Meslier, Il Testamento, ed. Guaraldi
P.H. D. d’Holbach, Sistema della natura, UTET
Sade, Opere scelte, Feltrinelli, oppure Opere complete, Newton Compton.
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GLI ATEI NELL’OTTOCENTO (1^ PARTE)
L’ateismo post-hegeliano è quello in cui l’ateismo raggiunge forse il suo punto più alto con
le critiche demolitrici dei grandi atei dell’Ottocento. Infatti l’ateismo contemporaneo, in
generale, non potrà che rifarsi a questi maestri per confermare la sua posizione di
negazione della religione.
Dall’Illuminismo in poi l’ateismo sembra acquistare anche una sempre maggiore
importanza “sociologica” perché sembra estendersi a strati via via sempre più ampi della
popolazione. Il che si può spiegare con la graduale laicizzazione o secolarizzazione della
vita, cioè con il diffondersi di un modello di vita che evita di richiamarsi ad una
trascendenza ma affonda le sue radici in una immanenza sempre più completa. Tutto
questo porterà alla diffusione di un ateismo pratico, della indifferenza religiosa, che
sembra essere il segno distintivo dei nostri tempi. Dall’ottocento in poi, non si è avuto il
predominio dell’ateismo teoretico quanto piuttosto una crescente diffusa indifferenza e/o
ignoranza verso i valori religiosi. Almeno, per la precisione, per quel che riguarda il mondo
occidentale: nei paesi islamici è oggi invece in atto una vera e propria rivoluzione culturale
che consiste nella lotta tra il modello occidentale, considerato negativo, e il modello
islamico tradizionale, considerato l’unica risposta in grado di opporsi alla diffusione del
nichilismo occidentale. Ma torniamo all’Ottocento.
Arthur Schopenhauer (1788-1861) è stato definito da Nietzsche “il primo ateo
dichiarato e irremovibile che noi Tedeschi abbiamo avuto”(cfr. La gaia scienza). La sua
critica alla religione non è particolarmente originale ma se non altro egli segna l’inizio vero
e proprio del pensiero post-hegeliano e anti-hegeliano, ed in questo senso procede
cronologicamente persino Feuerbach.
La filosofia moderna – scrive Schopenhauer ne Il mondo come volontà e rappresentazione
– non va a cercare una causa efficiente o una causa finale del mondo intero; non indaga
l’origine e la finalità del mondo, ma solo che cosa sia il mondo. Non possiamo superare il
mondo stesso e, in quanto alla sua spiegazione, essa fa già parte del mondo: è assurdo
cercarla al di fuori di esso. Anzi sono solo “pigrizia e ignoranza” che “dispongono a
richiamarsi troppo presto alle forze originarie”. Del resto, “che l’assunzione di un limite del
mondo nel tempo non sia affatto un pensiero necessario alla ragione, si può perfino
provare anche storicamente, giacché gli hindù non insegnano siffatta cosa neanche nella
religione popolare, e tanto meno nei Veda”. Componente essenziale dell’ateismo
schopenhaueriano è il suo pessimismo. “La vita dei più – egli scrive – non è che una
diuturna battaglia per l’esistenza, con la certezza della sconfitta finale. Ma ciò che li fa
perdurare in questa sì travagliata battaglia non è tanto l’amore per la vita, quanto la paura
della morte, la quale non di meno sta inevitabile sullo sfondo, e può ad ogni minuto
sopravvenire. La vita stessa è un mare pieno di scogli e di vortici, cui l’uomo cerca di
sfuggire per la massima prudenza e cura; pur sapendo, che quand’anche gli riesca con ogni
sforzo e arte, di scamparne, perciò appunto si accosta con ogni suo passo, ed anzi vi drizza
in linea retta il timone, al totale, inevitabile e irreparabile naufragio: la morte. Questo è il
termine ultimo del faticoso viaggio, e per lui peggiore di tutti gli scogli, ai quali è
scampato”.
L’ottimismo, dal punto di vista schopenhaueriano, “sembra non punto un pensare assurdo,
ma anche iniquo davvero, un amaro scherno dei mali senza nome patiti dall’umanità”.
Come credere, dopo tutto ciò, in un Dio creatore e provvidente? È naturale quindi che
Schopenhauer consideri una tale idea inaccettabile. “Per parte mia – egli dice – debbo
confessare che alla mia ragione un tale pensiero è impossibile, e che nelle parole, che lo
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qualificano, io non posso pensare niente di preciso”. Secondo Schopenhauer, l’uomo si crea
a propria immagine demoni, dèi e santi. “A essi devono incessantemente venire tributati
sacrifici, preci, adornamento di templi, voti e conseguenti offerte, pellegrinaggi, saluti,
addobbo delle immagini ecc. Il loro culto si intreccia dappertutto con la realtà, anzi
l’oscura: ogni avvenimento della vita viene preso allora come un effetto dell’azione di
quegli esseri: i rapporti con loro riempiono metà della vita, alimentano diuturnamente la
speranza e diventano spesso, nel fascino dell’illusione, più interessanti dei rapporti con la
vita reale. Sono l’espressione e il sintomo del doppio bisogno, che spinge l’uomo da una
parte verso aiuto e sostegno, dall’altra verso occupazione e passatempo… e questo è il
frutto, tutt’altro che disprezzabile, d’ogni superstizione”. Però tutto questo è inutile: invano
l’uomo chiede aiuto agli dèi, perché rimane implacabilmente in preda al suo destino. Gli
dèi sono quindi superflui e le dottrine religiose sono generalmente “rivestimenti mitici
delle verità impenetrabili dalla rozza mente umana”.
Quel che dà forza ad ogni dottrina religiosa è esclusivamente il suo lato etico. Non certo
direttamente, ma essendo collegato col rimanente dogma mitico, proprio di ciascuna
dottrina religiosa, sembra spiegabile solo per mezzo di quest’ultimo. Da ciò deriva che nei
popoloi monoteisti l’ateismo, ossia l’assenza della religione, è diventato sinonimo di
assenza di ogni moralità.
Schopenhauer non vuole adottare mezze misure. O si crede in Dio o si proclama l’ateismo
assoluto. Il panteismo, dal suo punto di vista, è quindi inaccettabile. “Il panteismo – egli
dice – è un concetto che annulla se stesso, poiché il concetto di Dio presuppone come sua
antitesi essenziale un mondo da lui distinto. Se per contro il mondo stesso deve assumere
la parte di Dio, ci si trova di fronte ad un mondo assoluto privo di Dio: panteismo è dunque
un termine eufemistico, in luogo di ateismo”.
Ammesso comunque un Dio, e cioè un essere personale, individuale, trascendente e
creatore, Schopenhauer dice che “l’ammettere un essere di tale specie come origine della
natura stessa, anzi di ogni esistenza in generale, è un pensiero colossale e sommamente
ardito, di fronte a cui noi rimarremmo meravigliati se lo udissimo per la prima volta, ed
esso non ci fosse divenuto familiare attraverso le impressioni infantili e le ripetizioni
costanti”; inoltre l’ipotesi di un Dio, oltre ad essere inutile nella filosofia, “persino nella
religione esso è assolutamente inessenziale” perché ad esempio il buddismo non lo
contempla affatto. Per Schopenhauer poi, le religioni orientali sono molto superiori al
cristianesimo. Egli è convinto che “in India non potranno mai mettere radici le nostre
religioni: la sapienza originaria dell’umano genere non sarà soppiantata dagli accidenti
successi in Galilea. Viceversa, torna l’indiana sapienza a fluire verso l’Europa, e produrrà
una fondamentale mutazione del nostro sapere e pensare”.
Schopenhauer, si è detto, è il primo tedesco ateo dichiarato. È strano che in Germania solo
nel 1800 si possa parlare di ateismo vero e proprio, mentre ad es. in Francia l’ateismo di
un d’Holbach preceda di circa un secolo (d’altra parte, in Inghilterra non si hanno casi
clamorosi di ateismo dichiarato. C’è oggi l’esempio di Bertrand Russell, ma secondo
quanto egli stesso dichiarò, la sua posizione è quella dell’agnostico e non dell’ateo. Si veda
Perché non sono cristiano, ed. Longanesi).
Anche per Friedrich Nietzsche (1844-1900) l’ateismo è un punto di partenza, qualcosa
di evidente, palpabile. “In me l’ateismo non è né una conseguenza, né tanto meno un fatto
nuovo: esiste in me per istinto. Sono troppo curioso, troppo incredulo, troppo insolente per
accontentarmi di una risposta così grossolana. Dio è una risposta grossolana,
un’indelicatezza verso noi pensatori; anzi, addirittura, non è altro che un grossolano
divieto contro di noi: non dovete pensare”(cfr., Ecce homo).
Fin da La nascita della tragedia Nietzsche concepisce il cristianesimo come moralità
decadente, che nasconde un odio profondo per la vita, poiché tutta la vita non è che un
richiamo all’apparenza, all’arte, all’illusione, alla necessità dell’errore. Il cristianesimo è da
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lui visto come la forma più pericolosa di una “volontà di distruzione”, è il segno di
stanchezza, di impoverimento della vita. Per questo egli si è rivoltato ed ha sostenuto una
visione che ha chiamato dionisiaca. In Umano, troppo umano dichiara esplicitamente:
“Nessuna religione ha mai finora contenuto, né direttamente né indirettamente, né come
dogma né come allegoria, una verità. Poiché ciascuna è nata dalla paura e dal bisogno e si
è insinuata nell’esistenza fondandosi su errori della ragione”. Sulla stessa falsariga, dirà
nell’Anticristo: “Quel che un teologo avverte come vero, non può non esser falso: si ha in
ciò quasi un criterio di verità”.
Ma quali sono le motivazioni che porta Nietzsche per giustificare questo odio verso la
religione in generale e verso la cristiana in particolare ? Ci si aspetterebbe da un filosofo
come lui chissà quali teorie, mentre in realtà egli dice che “vi è un buon gusto anche in
religione; questo buon gusto disse alla fine: ‘basta con questo Dio! Meglio nessun Dio!
Meglio che ciascuno si faccia da solo il proprio destino, meglio essere folli, meglio essere
Dio se stessi!’”. Dobbiamo dunque sbarazzarci di Dio. Ma perché ? Perché “vedeva con
occhi che tutto vedevano, vedeva le profondità e gli abissi dell’uomo, tutte le sue vergogne,
le sue brutture nascoste. Non conosceva pudore la sua pietà; egli si insinuava nei miei
recessi più immondi. Doveva morire, quel troppo curioso, troppo indiscreto, troppo
pietoso. Sempre mi scopriva; dovevo vendicarmi di un tal testimonio, oppure cessare di
vivere. Quel Dio che tutto vedeva, anche l’uomo, quel Dio doveva morire! L’uomo non
sopporta che viva un tal testimonio”. In altre parole, l’uomo deve uccidere Dio perché in
Dio è sintetizzato tutto ciò che è contro la vita e perché Dio è un’idea che “rende storto
tutto quanto è diritto, e fa girare tutto quello che è stabile”.
Se l’uomo ha ucciso Dio, quali sono le conseguenze di una simile azione? In primo luogo
ovviamente spetta agli uomini l’enorme compito di governare la terra senza farla cadere in
rovina. Questo sarà appunto il compito dei “grandi spiriti del secolo prossimo”(cfr.
Umano, troppo umano)
Anzi, “noi filosofi e ‘spiriti liberi’, alla notizia che il vecchio Dio è morto, ci sentiamo come
illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di
meraviglia, di presentimento, d’attesa, - finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero,
anche ammettendo che non è sereno, - finalmente possiamo di nuovo sciogliere le vele alle
nostre navi, muovere incontro ad ogni pericolo; ogni rischio dell’uomo della conoscenza è
di nuovo permesso: il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è
ancora mai stato un mare così ‘aperto’”.
Ma stanno veramente così le cose? Sono cadute forse tutte le illusioni e le falsità? Il
cristianesimo è stato abbattuto ma – ecco il punto – la religione non è stata sconfitta.
Infatti, si badi, per Nietzsche la morte del cristianesimo non significa la morte della
religione, della fede. La filosofia moderna è apertamente anticristiana ma non è in alcun
modo antireligiosa. L’istinto religioso non è stato vinto ma è in “pieno rigoglio” pur
rifiutando “con profonda diffidenza, l’appagamento ateistico”. Nietzsche confessa insomma
di aver dichiarato guerra “all’anemico ideale cristiano (e a tutto quanto è con esso
strettamente apparentato), non nell’intento di distruggerlo, ma solo per por fine alla sua
tirannia e sgombrare il campo per nuovi ideali, per ideali più robusti”.
L’uomo in fondo si è solo illuso di aver ucciso Dio, il Dio cristiano. Ecco l’amara
constatazione di Niezsche: l’uomo ha ucciso Dio ma l’ha ucciso per niente. Quel che lo fa
stupire è che ancora oggi si continui ad essere cristiani, se non di fatto almeno di nome. Più
volte egli si chiede: “Quando in un mattino di domenica sentiamo rimbombare le vecchie
campane, ci chiediamo: ma è mai possibile? Ciò si fa per un ebreo crocefisso duemila anni
fa, che diceva di essere il figlio di Dio… Chi crederebbe che una cosa simile viene ancora
creduta?”.
“il nostro tempo sa…Quel che una volta era soltanto malato, oggi è divenuto indecoroso – è
indecoroso essere oggi cristiani. E qui ha inizio la mia nausea … Anche il prete sa, come lo
sanno tutti, che non esiste più alcun ‘Dio’, alcun ‘peccatore’, alcun ‘redentore’… Tutti i
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concetti della Chiesa sono riconosciuti per quello che sono, come la più maligna
falsificazione di monete che esista, mirante a invilire la natura, i valori della natura… Noi
sappiamo, la nostra coscienza oggi sa… Ognuno lo sa: e ciononostante tutto permane
nell’antico stato … Che specie mai di aborto di falsità deve essere l’uomo moderno, per
non vergognarsi, a onta di tutto ciò, di chiamarsi ancora cristiano!”. Tutto rimane dunque
come prima. Ecco quel che scandalizza Nietzsche: come ci si può proclamare cristiani
ancora oggi? Ed è uno dei motivi per cui il filosofo prova “disgusto” per l’uomo, che ha
potuto inventare e credere a “simili cose”!
Del resto Nietzsche ritiene che i suoi contemporanei non sono ancora pronti al
superamento della fede, alla proclamazione della morte di Dio e alla tra svalutazione di
tutti i valori. “Vengo troppo presto… non è ancora il mio tempo. Questo enorme
avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato alle
orecchie degli uomini”.
Max Stirner (1806-1856) fu un Nietzsche ante litteram per la sua critica non solo a Dio
ma agli idoli, per il suo concetto egoistico dell’amore, per l’esigenza di concretezza, per
l’aver considerato la moralità “fanatica” come la religione, per considerare la verità come
una astrazione ecc.
Stirner inizia la sua opera più famosa, L’unico e la sua proprietà (1845), con la stessa
identica frase con cui la conclude: io ho fondato la mia causa sul nulla. E qual è la sua
causa? “La causa mia non è né il divino né l’umano, non è né il vero, il buono, il giusto, la
libertà e così via, ma soltanto ciò che è mio, e non è una causa universale, bensì unica,
come unico sono io. Nessun’altra cosa mi interessa più di me stesso”. Egli è perciò contro
Dio, contro il divino e contro qualsiasi altro assoluto. Infatti, “che cosa guadagniamo se,
per cambiare, collochiamo in noi il divino che era fuori di noi?”. Per cui “come si può
sperare di allontanare gli uomini da Dio, lasciando loro il divino?”. La religione è il regno
delle essenze, cioè degli spettri, dei fantasmi, come lo è la morale, lo Stato che rendono
schiavo l’uomo e l’uomo, se vuole essere libero, deve liberarsi dal loro giogo. Stirner vuole
distruggere ogni astrazione, ogni universale che si opponga all’Unico. Da questo punto di
vista, pure la verità è criticata: “… la verità è un semplice pensiero, non uno dei tanti, bensì
il pensiero per eccellenza, che sta sopra tutti gli altri, incontestabile, è il pensiero in
persona, che consacra tutti gli altri, è la consacrazione dei pensieri, il pensiero ‘assoluto’,
‘santo’. La verità dura più di tutti gli dèi; perché solo al suo servizio e per amor suo si sono
abbattuti tutti gli dèi e infine Dio stesso. ‘La verità’ sopravvive al crepuscolo degli dèi,
poiché è l’anima immortale di questo caduco mondo divino, è la divinità stessa”. Perciò
“finché tu credi nella verità, non credi in te e sei un servo, un uomo religioso”. Stirner
sembra così un ateo totale, e il suo Unico è apertamente un vangelo anticristiano come lo
sarà Così parlò Zarathustra di Nietzsche.
Stirner continua dicendo: “Se la religione ha enunciato il principio che noi siamo tutti
peccatori, io vi contrappongo l’altro: siamo tutti perfetti! Poiché ad ogni istante noi siamo
tutto ciò che possiamo essere, e non abbiamo mai bisogno di essere di più. Siccome in noi
non ci sono difetti, così anche il peccato non ha alcun senso”. Quindi “non cercate la libertà
che vi fa perdere proprio la vostra personalità nell’ “abnegazione”, ma cercate voi stessi,
diventate egoisti, ognuno di voi diventi un io onnipotente”. Per diventare o meglio, essere
l’Unico, non ci si deve considerare uno strumento dell’idea o vaso di Dio, non si deve
riconoscere alcuna missione, non si deve esistere per contribuire all’evoluzione
dell’umanità, “ma vive per se stesso, senza curarsi se questo sia un bene o un male per
l’umanità”. Per questo “io sono padrone della mia forza, e lo sono quando so d’esser Unico.
Nell’Unico lo stesso possessore ritorna nel suo nulla creatore, da cui è stato generato. Ogni
essere superiore o no, sia Dio, sia l’uomo, indebolisce il sentimento della mia unicità e
impallidisce davanti al sole di questa coscienza. Se pongo in me, l’Unico, la mia causa, essa
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poggia sul creatore caduco e mortale, che consuma se stesso; e posso dire: io ho fondato la
mia causa nel nulla”.
Stirner e il suo Unico poggiano sul nulla. Egli non può sperare nulla da esso. La sola cosa
da fare è amarsi egoisticamente, allontanando da sé ogni legame con le altre cose, siano
esse Dio o lo Stato o gli ideali. Di fronte a questa prospettiva, nessun Dio e nessun assoluto
possono reggere al confronto ed avere un senso, ed il problema di Dio non viene neppure
posto. L’ateismo è perciò per Stirner il punto di partenza e non il punto di arrivo della sua
speculazione. Egli è un uomo che ha portato all’estremo la sua critica alla religione, tanto
da non potersi più chiamare neppure “ateo”, visto che per lui gli atei stessi sono ancora
gente pia.
Mikhail Bakunin (1814-1876) è stato uno dei padri dell’anarchismo. La sua opera più
famosa nell’ambito della critica religiosa è Dio e lo Stato (1871). L’umanità, secondo
Bakunin, non è che lo sviluppo più alto dell’animalità. I nostri antenati furono dotati in
maggior grado degli altri animali di ogni specie di due preziose facoltà: il pensiero ed il
bisogno di ribellarsi. Come si vede, la rivolta è naturale all’uomo, per l’anarchico Bakunin.
È questa rivolta che vincerà gli dèi poiché essi sono contro l’uomo e l’uomo non può che
esser loro contro. La fede non può che essere una credenza cieca, stupida, assurda. I
credenti, dice ancora Bakunin, non possono fare a meno di ripetere con Tertulliano le
“parole che riassumono la quintessenza stessa della teologia: credo quia absurdum”. Ma –
si chiede Bakunin – come è nato il bisogno di credere in Dio? Ed egli risponde dicendo che
l’ignoranza in cui è stato mantenuto il popolo da parte dei governi è la causa principale
della accettazione delle credenze religiose. Infatti l’esistenza piatta e monotona che
conduce il popolino non ha altro sfogo che la taverna o la chiesa. “tutte le religioni con i
loro dèi, i loro semidei e i loro profeti, i loro messia e i loro santi, furono create dalla
fantasia credula degli uomini non ancora giunti al pieno sviluppo e al pieno possesso delle
loro facoltà intellettuali. Il cielo religioso non è altra cosa che uno specchio ove l’uomo
esaltato dalla ignoranza e dalla fede trova la sua propria immagine, ma ingrandita e
rovesciata cioè divinizzata. Secondo Bakunin vi è un’unica alternativa: o Dio o l’uomo, ed
egli sceglie ovviamente il secondo. Infatti, secondo lui, “Dio essendo tutto, il mondo reale e
l’uomo è nulla. Dio essendo la verità, la giustizia, il bene, il bello, la potenza e la vita,
l’uomo è la menzogna, l’iniquità, il male, la bruttezza, l’impotenza e la morte. Dio essendo
il padrone, l’uomo è lo schiavo. …l’idea di Dio implica l’abdicazione della ragione e della
giustizia umana; essa è la negazione più decisiva della libertà umana e ha per scopo la
servitù degli uomini, tanto in teoria che in pratica. …se Dio è, l’uomo è schiavo; ora, l’uomo
può, deve essere libero: dunque Dio non esiste”. Di fronte alla presunta antitesi fra la
libertà umana e l’onnipotenza divina, Bakunin sceglie la libertà di tutti gli uomini anzi,
essa è un modo di “dimostrare” che Dio non esiste e che “se Dio esistesse, bisognerebbe
abolirlo”. L’uomo, dopo aver eliminato Dio, non ha più padroni ultraterreni ma rimane
ancora lo Stato, ugualmente, deve essere abbattuto. Il risultato di tutto ciò sarà la libertà
umana in modo tale che ogni uomo “obbedisca alle leggi naturali perché le ha riconosciute
egli stesso per tali e non perché gli siano state esteriormente imposte da una volontà
estranea, divina e umana, collettiva o individuale qualsiasi”. Questo non vuol dire,
secondo Bakunin, il rifiutare ogni autorità. Piuttosto vuol dire non riconoscere alcuna
autorità infallibile, assoluta, ma accettare liberamente le loro indicazioni, le loro proposte.
Accetto l’autorità – dice Bakunin - che non viene imposta da nessuno, né dagli uomini né
da Dio, altrimenti la respingo “con orrore”. In conclusione, il compito del libertario (così si
definisce Bakunin) è quello di abolire ogni idolo e per farlo non ci si deve arrestare di
fronte a nulla, fosse anche l’onnipotenza divina. Quando l’uomo è libero non teme ostacoli
alla sua libertà: essa fronteggia tutto e tutti.
L’ateismo di Bakunin è un presupposto indispensabile del suo anarchismo. O meglio, si
può dire che l’anarchismo è inevitabilmente ateo, mentre l’ateismo non è detto sia
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anarchismo. Tale precisazione è importante poiché è bene ricordare che l’ateismo può
contenere in sé elementi anarchici, antiteistici, materialistici ecc. ma l’inverso non è valido.
BIBLIOGRAFIA
Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, ed. Mursia, Mondadori ecc.
Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Adelphi
Nietzsche, Opere complete, Adelphi o Newton Compton
Stirner, L’unico e la sua proprietà, Mursia o in AA.VV., Gli anarchici, UTET
Bakunin, Dio e lo Stato, reprint Samonà e Savelli Roma 1971
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GLI ATEI NELL’OTTOCENTO (2^ PARTE)
Ludwig Feuerbach (1804-1872) rappresenta il superamento dell’hegelismo e di quanto
di teologico era ancora esplicito o implicito in esso. Da notare inoltre in Feuerbach il
tentativo di “superamento” dell’ateismo, cercando di arrivare a posizioni che superano le
definizioni di ateo o credente poiché per lui quel che conta non è disputare all’infinito se
Dio esista o non esista, ma capire il senso di una tale ammissione o negazione. Infatti in Su
spiritualismo e materialismo scrive: “Non è compito dei miei scritti sull’immortalità,
sull’essenza della religione ecc. negare l’esistenza della divinità e dell’immortalità – chi può
negare che esistano almeno in libri e immagini, nella fede e nella rappresentazione? –
bensì solo riconoscere il senso e il motivo vero, il testo originale non falsificato della
divinità e dell’immortalità, o, che è tutt’uno, della fede in esse – un riconoscimento
attraverso cui la questione della loro esistenza o non esistenza si risolve da sé”.
L’essenza del cristianesimo(1841) è il capolavoro di Feuerbach ma in esso l’essenza della
religione è vista solo dal punto di vista dell’uomo e di una religione particolare, il
cristianesimo, mentre ne L’essenza della religione si tenta di ricondurre il segreto della
teologia non solo alla antropologia (come nell’opera del 1841) ma anche ad un punto di
vista più ampio, naturalistico o, come egli lo chiama, fisiologico.
Iniziamo quindi da L’essenza del cristianesimo. Feuerbach indica la distinzione tra l’uomo
e gli animali proprio nella religione. Infatti la coscienza che l’uomo ha di sé (e che manca
alle bestie) è coscienza della specie e non solo di sé come individuo. La religione è la
coscienza dell’infinito; essa è dunque la coscienza che l’uomo ha dell’infinità del suo essere.
L’uomo come individuo può riconoscersi limitato ma solo perché ha di fronte a sé come
oggetto la perfezione, l’infinità della specie. Nel rapporto con le cose esteriori la coscienza
che l’uomo ha dell’oggetto si distingue dalla coscienza che l’uomo ha di sé stesso; ma nel
caso dell’oggetto religioso, coscienza e autocoscienza si identificano. La coscienza che
l’uomo ha di Dio è la conoscenza che l’uomo ha di sé. Il non essere consapevole di ciò è
l’essenza della religione. Perciò Feuerbach dice che la religione è la prima, ma indiretta
autocoscienza dell’uomo. Il compito di Feuerbach è, come egli dice, di “mostrare che la
distinzione fra il divino e l’umano è illusoria, cioè che null’altro è se non la distinzione fra
l’essenza dell’umanità e l’uomo individuo e che per conseguenza anche l’oggetto e il
contenuto della religione cristiana sono umani e nient’altro che umani”. L’essere divino
non è che l’essere dell’uomo liberato dai limiti dell’individuo e oggettivato, cioè
contemplato come un altro essere da lui distinto. “L’uomo – questo è il mistero della
religione – proietta il proprio essere fuori di sé e poi si fa oggetto di questo essere
metamorfosato in soggetto, in persona”. Dapprima l’uomo inconsapevolmente e
involontariamente crea Dio secondo la propria immagine, e solo allora Dio a sua volta
consapevolmente e volontariamente torna a creare l’uomo secondo la propria immagine.
Ma perché l’uomo crea Dio? Perché la religione, dice Feuerbach, mira al bene, alla salvezza,
alla beatitudine dell’individuo: Dio è la beatitudine dell’uomo. Però questa beatitudine non
è un bene terreno. La felicità terrena allontana l’uomo da Dio ed è solo l’infelicità, la
sofferenza che riconduce l’uomo a Dio, o meglio, a ciò di cui abbisogna, dove Dio è sentito
come necessità. Nella sofferenza l’uomo si concentra su se stesso poiché il suo unico
interesse è la propria salvezza e la risposta è data da Dio, “questo essere immaginario
rispetto al mondo e alla natura in genere, ma reale per l’uomo”.
Ne L’essenza della religione(1846), Feuerbach fa un passo avanti nella “critica” alla
religione. Egli si rese conto che doveva andare oltre l’antropologia: Dio era nell’opera del
1841 un d desiderio umano, ma questo è vero solo per una religione spiritualista, per una
religione che è giunta ad un alto grado di civiltà; nella realtà, l’uomo si imbatte dapprima
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in una natura non addomesticata, non spirituale, ed è “Dio” per lui ciò che lo fa vivere, ciò
di cui non può fare senza: ecco perché egli parlerà adesso della natura come il vero segreto
per comprendere la religione. L’opera si apre infatti con la dichiarazione che il sentimento
di dipendenza dell’uomo è il fondamento della religione: l’oggetto di questo sentimento di
dipendenza è appunto la natura. Perciò dire che la religione è innata nell’uomo è falso se
per religione si intendono le rappresentazioni del teismo, ma è vero se per religione si
intende il sentimento dell’uomo di non poter esistere senza un ente che sia altro da lui, cioè
di non dovere a se stesso la propria esistenza. Quindi ciò da cui dipende la vita e l’esistenza
dell’uomo è da lui considerato Dio. La credenza che Dio abbia un’esistenza indipendente
da quella dell’uomo ha la sua radice nel fatto che in origine è considerato come Dio l’ente
che esiste fuori dell’uomo, cioè il mondo, la natura. Infatti il concetto di Dio è che egli è
l’esistenza che precede quella dell’uomo, che ne è il presupposto. Ma questa non è che la
natura, la cui esistenza non si appoggia all’esistenza dell’uomo, e tanto meno alle ragioni
dell’intelletto e del cuore umano. Tutte le proprietà di Dio non sono altro che proprietà
astratte della natura. L’atteggiamento che l’uomo ha originariamente verso la natura è di
considerarla come lui stesso è. L’uomo involontariamente fa dell’ente naturale un ente
dell’animo, un ente soggettivo, umano. In un secondo momento, l’uomo ne fa
consapevolmente un oggetto di preghiera e di religione. Nella religione l’uomo ha come
oggetto solamente se stesso, il suo Dio non è che la sua propria essenza. Il presupposto
della religione è il contrasto tra volere e potere, desiderare e ottenere. Nel volere, nel
desiderare, nel rappresentare l’uomo è illimitato, onnipotente, Dio; ma nel potere,
nell’ottenere, nella realtà l’uomo è condizionato, dipendente, limitato. Il fine della religione
è togliere tale contrasto; e l’ente in cui le contraddizioni sono tolte è Dio. Dio è un ente il
cui concetto e rappresentazione non dipende dalla natura, ma dall’uomo, e dall’uomo
religioso. Così Dio c’è solo nella religione e nella fede. Dio, essendo un oggetto solo della
religione, non esprime che l’essenza della religione. Ma che cos’è che fa diventare un
oggetto un oggetto religioso? Secondo Feuerbach, è solo l’immaginazione, la fantasia, il
cuore umano. L’oggetto della religione è oggetto di fede solo perché, essendo oggetto di
religione non ha esistenza reale, ma è in contraddizione con la realtà. Si trova Dio solo
nella fede perché Dio non è altro che l’essenza della fantasia e del cuore umano.
Karl Marx (1818-1883) è uno dei padri dell’ateismo post-hegeliano. L’ateismo è per lui un
punto di partenza, per cui si potrebbe dire che il comunismo marxiano è naturalmente
ateismo e non potrebbe essere diverso. Fin dalla prefazione alla sua tesi di laurea, il
giovane Marx dichiarò il suo intento: “La professione di fede di Prometeo απλω λόγω τους
πάντας εχθαίρω θεούς è la sua professione di fede, la sua sentenza contro tutti gli dèi
celesti e terreni, che non riconoscono l’autocoscienza umana come la divinità più alta.
Nessuno può starle alla pari”.
La critica religiosa marxiana, come vedremo subito, è il presupposto della critica sociale e
politica. Infatti per Marx la filosofia è al servizio della storia: il suo compito è quello di
essere critica, non solo teorica ma soprattutto pratica (ricordiamo la 11^ tesi su Feuerbach)
e pratica rivoluzionaria. Vediamo quindi uno dei testi classici dell’ateismo marxiano, la
Introduzione alla Critica della filosofia del diritto hegeliana del 1843. Conviene riportare
quasi integralmente il famosissimo brano: “Per la Germania la critica della religione è in
sostanza terminata, e la critica della religione è il presupposto di ogni critica. L’esistenza
profana dell’errore è compromessa, da quando è stata confutata per la sua sacra oratio
pro aris et focis. L’uomo, che nella fantastica realtà del cielo, dove cercava un superuomo,
ha trovato soltanto il riflesso di se stesso, non sarà più propenso a trovare solo l’apparenza
di sé, solo il non uomo, là dove cerca e deve cercare la sua vera realtà. Il fondamento della
critica irreligiosa è questo: l’uomo fa la religione, la religione non fa l’uomo. E
precisamente la religione è la coscienza di sé e il sentimento di sé dell’uomo che o non ha
ancora acquistato o ha subito perduto se stesso. Ma l’uomo non è un essere astratto,
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rintanato fuori del mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo, lo Stato, la società. Questo Stato,
questa società, producono la religione, una coscienza del mondo rovesciata, perché essi
sono un mondo rovesciato. La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo
compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point-d’honneur
spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo completamento solenne, la
sua ragione generale di giustificazione e di conforto. È la realizzazione fantastica
dell’essenza umana, perché l’essenza umana non ha vera realtà. La lotta contro la religione
è così mediatamente la lotta contro quel mondo di cui la religione è la quintessenza
spirituale. La miseria religiosa è da una parte l’espressione della miseria reale e dall’altra
la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il cuore
di un mondo spietato, come è lo spirito di una condizione priva di spirito. Essa è l’oppio del
popolo. La vera felicità del popolo esige la eliminazione della religione in quanto illusoria
felicità. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla propria condizione è l’esigenza di
rinunciare ad una condizione che ha bisogno dell’illusione. La critica della religione è così
in germe la critica della valle di lacrime, di cui la religione è il nimbo.[...] La critica della
religione disinganna l’uomo, affinché pensi, agisca, plasmi la sua realtà come un uomo
disincantato, arrivato al possesso del giudizio, affinché si muova intorno a se stesso e
quindi intorno al suo vero sole. La religione è soltanto il sole illusorio, che si muove attorno
all’uomo finché egli non si muove intorno a se stesso. Dunque il compito della storia, dopo
che è scomparso l’al di là della verità, è di stabilire la verità del di qua. Il compito della
filosofia che è al servizio della storia, dopo che è stata smascherata la figura sacra
dell’autoalienazione umana, è in primo luogo di mascherare l’autoalienazione nelle sue
figure profane. La critica del cielo si converte nella critica della terra, la critica della
religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica. [...] La
critica della filosofia speculativa del diritto non si esaurisce in se stessa, ma in compiti, per
la cui soluzione c’è solo un mezzo: la praxis [...] la teoria è capace di impadronirsi delle
masse, non appena dimostra ad hominem ed essa dimostra ad hominem non appena
diviene radicale. Essere radicale è afferrare le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è
l’uomo stesso. La prova evidente del radicalismo della teoria tedesca, e dunque della sua
energia pratica, è il suo partire dalla decisa soppressione positiva della religione. La critica
della religione finisce con la dottrina che l’uomo è l’essere supremo per l’uomo, dunque con
l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere umiliato,
asservito, abbandonato, spregevole, rapporti che non si possono raffigurare meglio che con
l’esclamazione di un francese a proposito di una progettata imposta sui cani: poveri cani!
Vi si vuole trattare come uomini!”.
Secondo Marx, come s’è visto, l’unico modo per abolire la religione è quello di abolire “una
condizione che ha bisogno dell’illusione”, cioè strappare alla radice il bisogno illusorio,
fantastico della religione. Quando l’uomo ha riacquistato coscienza di sé come unico
fondamento di se stesso, allora il bisogno religioso è vinto. Visto che il mondo dell’aldilà
non è che un riflesso dell’aldiqua, il problema è riportare la condizione umana alla sua
situazione reale e non fantastica, come fa la religione. La religione è vista per ciò come uno
sbaglio di prospettiva che l’uomo necessariamente corregge quando raggiunge
l’autocoscienza; inoltre l’ateismo marxiano è programmatico perché la critica contro la
religione è la base di tutte le altre critiche e senza aver prima superato questa, non sono
possibili critiche ulteriori. Marx non è contro la religione in sé, è contro la religione perché
essa vuole una felicità fantastica per il popolo, mentre Marx vuole dare all’uomo una
felicità reale, terrena, concreta; proprio per questo bisogna eliminare il bisogno religioso e
non si ha altra scelta. L’emancipazione dell’uomo dalla religione non può solo avvenire
teoricamente e singolarmente ma deve essere una emancipazione pubblica, politica. E tale
emancipazione può avvenire solo con la soppressione della borghesia e della proprietà
privata. Nei famosi Manoscritti ecomico-filosofici del 1844 Marx scrive: “La religione, la
famiglia, lo Stato, il diritto, la morale, la scienza, l’arte ecc. non sono che modi particolari
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della produzione e cadono sotto la sua legge universale. La soppressione positiva della
proprietà privata, in quanto appropriazione della vita umana, è dunque la soppressione
positiva di ogni estraniazione, e quindi il ritorno dell’uomo, dalla religione, dalla famiglia,
dallo Stato ecc. alla sua esistenza umana, cioè sociale. L’estraniazione religiosa come tale
ha luogo soltanto nella sfera della coscienza dell’interiorità umana; invece l’estraniazione
economica è l’estrazione della vita reale, onde la sua soppressione abbraccia l’uno e
l’altro”. E Marx continua dicendo: “Ma siccome per l’uomo socialista tutta la cosiddetta
storia del mondo non è altro che la generazione dell’uomo mediante il lavoro umano,
null’altro che il divenire dalla natura per l’uomo, egli ha la prova evidente, irresistibile,
della sua nascita mediante se stesso, del processo della sua origine. Dal momento che
l’essenzialità dell’uomo e della natura è diventata praticamente sensibile e visibile, l’uomo
per l’uomo come esistenza della natura, e la natura per l’uomo come esistenza dell’uomo, è
diventato praticamente improponibile il problema di essere estraneo, di un essere
superiore alla natura e all’uomo, dato che questo problema implica l’ammissione
dell’inessenzialità della natura e dell’uomo. L’ateismo, in quanto negazione di questa
inessenzialità, non ha più alcun senso; infatti l’ateismo è, sì, una negazione di Dio e pone
attraverso questa negazione l’esistenza dell’uomo, ma il socialismo in quanto tale non ha
più bisogno di questa mediazione. Esso comincia dalla coscienza teoreticamente e
praticamente sensibile dell’uomo e della natura nella loro essenzialità. Esso è
l’autocoscienza positiva dell’uomo, non più mediata dalla soppressione della religione, allo
stesso modo che la vita reale è la realtà positiva dell’uomo, non più mediata dalla
soppressione della proprietà privata, dal comunismo”.
Marx ha raggiunto con queste parole il culmine del suo ateismo. Il problema di Dio non
può più porsi non tanto perché il concetto di Dio è contraddittorio o in contrasto con la
libertà umana, ma perché lo stesso “ateismo” viene ad essere superato dalla visione
comunistica della realtà. “L’uomo produce l’uomo” e non ha quindi senso cercare al di
fuori di lui un essere estraneo e trascendente poiché non è che uno pseudo-problema.
L’uomo è sensibile, è materiale, la sua storia non può essere che sensibile e materiale come
lo è la nascita e la crescita. Che senso ha, appunto, parlare di religione e di ateismo in
questa prospettiva? Nessuno, poiché lo stesso ateismo è considerato una sorta di critica
incompleta, che fa ancora il gioco della religione. L’unica risposta è comunismo.
Nelle opere successive al 1844, Marx non svilupperà la propria concezione dell’ateismo e
della religione. Ciò sta a dimostrare che per lui l’ateismo era un problema risolto, e quello
che gli interessava era solo più la praxis,la rivoluzione, non la teoria: “la rivoluzione è la
forza motrice della storia, anche della storia della religione, della filosofia e di ogni altra
teoria”.
L’ateismo viene sviluppato da Engels (1820-1895) in senso storico-filologico, indagando
sulla autenticità dei testi biblici. Anch’egli è d’accordo con Marx nel ritenere la religione
una sovrastruttura ed una alienazione ma, a differenza di Marx, Engels di dedica appunto a
illustrare la formazione storica e quindi umana della religione e in particolare del
cristianesimo.
In Bruno Bauer e il cristianesimo primitivo, Engels dice che “di una religione che ha
sottomesso l’impero mondiale romano e ha dominato per 1800 anni sulla parte di gran
lunga più estesa dell’umanità civilizzata, non ci si può sbarazzare definendola
semplicemente un’assurdità messa insieme, a forza di rappezzature, da imbroglioni. Se ne
viene a capo – continua Engels – solo quando si sappia spiegare la sua origine e il suo
sviluppo dalle condizioni storiche sotto le quali è sorta ed è arrivata al potere. E ciò vale
specialmente per il cristianesimo”. Engels sembra dunque voler affrontare il problema
delle origini cristiane in maniera storicamente oggettiva, purtroppo però il suo tentativo
fallisce miseramente quando si leggono le idee engelsiane a riguardo, che non si rivelano
né scientifiche né criticamente fondate. Engels ritiene, come ad es. Bauer, che, dell’intero
26
contenuto dei Vangeli, quasi nulla sia dimostrabile storicamente, così come si può
considerare problematica la stessa esistenza reale di Gesù. Il vero padre del cristianesimo
sarebbe il filosofo ebreo Filone, visto che gli scritti tramandatici sotto tale nome
contengono già tutte le idee essenziali del cristianesimo stesso: l’innata peccaminosità
dell’uomo, il Logos, la penitenza ecc. Engels aggiunge però che il cristianesimo primitivo
non può essere nato esclusivamente dalle idee di Filone ma ha avuto bisogno d’altro. La
conquista romana disgregò le terre sottomesse ponendo al posto della antica struttura di
classe la distinzione fra cittadini romani e cittadini dello Stato; facendo estorsioni in nome
dello Stato romano; giudicando solo col diritto romano e con giudici romani. Tutto questo
ebbe una enorme forza livellatrice, ed alla universale mancanza di diritti e alla disperazione
nella possibilità di una condizione migliore, corrispondeva la generale prostrazione e
demoralizzazione. Non fu una novità quindi che, nelle classi, c’erano un gran numero di
persone che, disperando della liberazione reale, cercavano, per compensazione, una
liberazione spirituale. Ovviamente, la maggior parte di queste persone erano schiavi. In
questo clima si fece avanti il cristianesimo. Esso si rivolgeva a tutti gli uomini, senza alcuna
distinzione e, così facendo, divenne la prima possibile religione mondiale. Inoltre, con il
riconoscimento del peccato come realtà a cui partecipano tutti gli uomini, e con il sacrificio
da parte del figlio di Dio che cancella una volta per tutte i peccati dell’umanità, esso forniva
un modo ovunque comprensibile della liberazione, generalmente desiderata dal mondo
corrotto dell’impero romano. Ed è per questo che, fra tutti i vari fondatori di religioni, solo
il cristianesimo ha avuto un successo così grande fino ad oggi. Ne Il libro della Rivelazione
Engels ribadisce più o meno gli stessi concetti. Il cristianesimo fu creato dalle masse. Esso
nacque “in un modo che ci è completamente ignoto” in Palestina, in un tempo in cui
nascevano a centinaia nuove sette. Si tratta perciò solamente di un fenomeno di
“intersecazione” che si formò spontaneamente per i reciproci attriti delle più progressiste
di queste sette, e che in seguito diventò una dottrina per l’aggiunta delle idee di Filone e,
più tardi, per le forti infiltrazioni stoiche. Secondo Engels, il libro più antico del Nuovo
Testamento è proprio il libro della Rivelazione cioè l’Apocalisse, il quale contiene nel modo
più esatto le credenze del primitivo cristianesimo: in esso, secondo Engels, non si parla né
di peccato originale, né della Trinità, Gesù viene considerato subordinato a Dio; l’unico
punto dogmatico è l’affermazione che i fedeli sono stati salvati dal sacrificio di Cristo e di
tutto questo possiamo essere certi perché l’Apocalisse è l’unico libro del Nuovo Testamento
della cui autenticità non si può dubitare!
In Per la storia del cristianesimo primitivo Engels sostiene che i Vangeli e gli Atti degli
Apostoli sono tarde rielaborazioni di scritti oggi perduti, “il cui debole nucleo storico non è
più oggi riconoscibile tra le incrostazioni leggendarie”; che il cristianesimo non sia stato
importato nel mondo greco-romano dall’esterno ma che sia un prodotto giudaico; infatti
nei primi tempi non si ha a che fare con i cristiani consapevoli, ma con persone che si
dicono giudei, e quindi il cristianesimo del libro della Rivelazione è “infinitamente diverso”
dalla posteriore religione mondiale dogmaticamente fissata nel Concilio di Nicea. Non vi è
ancora nemmeno l’idea della religione dell’amore, dell’”amate i vostri nemici”, ma viene
predicata aperta vendetta contro tutti i persecutori dei cristiani.
Insomma, Engels distrugge il cristianesimo in modo tale che non possiamo seriamente
credervi. La sua non è distruzione, ma ridicola critica delle presunte origini cristiane. Se
Marx pecca di arbitrarietà nel rifiutare la religione, non scende però ad affermazioni
gratuite nella critica dei testi scritturali. Engels è in posizione nettamente inferiore a Marx
per quanto riguarda le argomentazioni con cui difende la propria miscredenza, e questo
viene oggi riconosciuto dagli stessi marxisti, come ad es. Kublanov.
Lenin (1870-1924) completa la triade dell’ateismo marxista. Il suo ateismo è prettamente
politico e non dice nulla di nuovo, tranne il fatto che le sue espressioni sono più polemiche
e accese di quelle di Marx e di Engels. Il suo “merito”, se si può chiamar così, è l’aver
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portato all’estremo la critica marxista della religione parlando di ateismo e materialismo
militante, il che, però, era già implicito negli scritti dei suoi precedessori.
La religione è, secondo Lenin, uno degli aspetti dell’oppressione spirituale che le masse
popolari, schiacciate dall’incessante lavoro a profitto degli altri, dalla miseria e
dall’isolamento, subiscono ovunque. La fede in una vita migliore, in un altro mondo, nasce
inevitabilmente dall’impotenza delle classi sfruttate nella lotta contro gli sfruttatori. La
religione è una sorta di “acquavite spirituale”, in cui gli oppressi annegano la propria
personalità. Però tutto questo non significa, dice Lenin, proclamare l’ateismo. “Perché non
ci proclamiamo atei?”, chiede Lenin. E la sua risposta è la seguente: il nostro programma è
fondato sulla concezione materialistica del mondo, e questo comprende anche la ricerca
delle origini storiche ed economiche dell’oscurantismo religioso. Però – ed è questo il
punto – non si deve porre la questione della religione astrattamente, senza cioè tenere
conto della lotta di classe. “Diffondere la concezione scientifica nel mondo è cosa che
faremo sempre, combattere l’incoerenza di certi cristiani è necessario, ma ciò non significa
che dobbiamo dare alle questioni religiose il primo posto, che ad esse non spetta, né che
possiamo distrarre le forze dalla lotta economica e politica effettivamente rivoluzionaria
per sacrificarle ad opinioni di terz’ordine”. Lenin è, in questo passo, fedele alla più schietta
tradizione marxiana del problema religioso. Nel Sull’atteggiamento del partito operaio di
fronte alla religione, Lenin ripete la stessa idea: il marxismo, che è materialismo, deve
lottare contro la religione. Ma deve lottare in modo tale da poter spiegare
materialisticamente l’origine della fede e della religione. Ed a questo deve aggiungere la
pratica concreta del movimento di classe tendente a far scomparire le radici sociali della
religione. Inoltre la propaganda atea deve essere subordinata al suo compito fondamentale
e cioè allo sviluppo della lotta di classe delle masse sfruttate contro gli sfruttatori. Il
marxista – dice Lenin – deve essere materialista, ma un materialista dialettico, tale cioè
che considera la lotta contro la religione sul terreno della lotta di classe, quindi tenendo
conto della situazione concreta. A questo riguardo, alla domanda se un prete possa o no
fare parte del partito, Lenin risponde categoricamente che “una risposta assolutamente
affermativa è falsa”. Per cui il marxismo è, almeno secondo Lenin, materialismo
programmatico e non si può parlare di intesa fra marxisti e cristiani, essendo gli uni
l’antitesi degli altri. Ancora più chiaramente, nel saggio Sul significato del materialismo
militante, Lenin afferma che il marxismo è ateismo militante. Per essere tale, si deve
condurre una propaganda ed una lotta instancabile per l’ateismo, seguendo attentamente
tutte le pubblicazioni in materia, facendo tradurre o almeno recensire quelle che hanno un
qualche valore. L’essenziale è comunque saper interessare le masse ancora assolutamente
incolte ad un atteggiamento cosciente verso le questioni religiose e ad una critica
illuminata delle religioni. Il marxismo ha, concludendo, cercato di risolvere una volta per
tutte il problema religioso negando alla base il bisogno religioso, separando nettamente
Chiesa e Stato (dichiarando quindi che la religione è un affare privato) e impegnando il
proletariato nella lotta contro le concezioni ideologico-religiose della borghesia. Questo
deve essere fatto in modo “positivo”, non solo di critica negativa ma, come Lenin ha detto
più sopra, con la prassi concreta della lotta di classe. Lenin vuole combattere i “pregiudizi
religiosi” in modo molto cauto perché bisogna abbattere la povertà e l’ignoranza senza
cadere nel fanatismo religioso o antireligioso che avrebbe effetti deleteri e
controproducenti per lo sviluppo del materialismo dialettico.
Ateo dichiarato e senza possibilità di equivoci è Felix Le Dantec (1869-1917). Egli inizia
l’opera L’ateismo affermando: “io sono ateo, come sono bretone, come si è bruni o biondi,
senza averlo voluto”. La dichiarazione diventa subito chiara se si pensa che egli negava la
libertà, come si conveniva nell’Ottocento ad un convinto scienziato monista e positivista.
Egli rigetta Dio perché la sua esistenza non spiega nulla ed è quindi una ipotesi inutile, e
del resto Le Dantec sostiene di non aver mai avuto una simile idea, “considerata come
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comune a tutti gli uomini”. L’operetta non è per nulla originale: monismo, materialismo,
determinismo sono i suoi comuni denominatori, niente affatto insoliti in un’epoca come
l’Ottocento. Quel che è forse diverso dagli altri atei è la dichiarazione che egli fa della
impossibilità di una società formata da tutti atei perché “una tale società – spiega Le
Dantec – finirebbe con un’epidemia di suicidio anestetico” in quanto l’ateo non può avere
sentimenti sociali e morali, essendo un essere completamente determinato e
irresponsabile.
BIBLIOGRAFIA
Feuerbach, Spiritualismo e materialismo, Laterza
Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, Feltrinelli
Feuerbach, L’essenza della religione, Laterza o Newton Compton
Feuerbach, Opere, Laterza
Marx-Engels, Scritti sulla religione, Roma 1973
Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi
Lenin, Sulla religione, Milano s.d.
Le Dantec, L’ateismo, tr.it. Milano 1925.
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GLI ATEI NEL NOVECENTO
Sigmund Freud (1856-1939) non è stato un filosofo di professione ma, nel campo che
qui interessa, è di somma importanza per aver affrontato da una angolazione diversa il
problema della religione. Gli scritti che Freud dedicò più specificamente all’analisi della
religione sono Totem e tabù e L’avvenire di un’illusione. Nel primo di questi descrive nei
seguenti termini la probabile origine della religione: nei tempi antichi vi fu un solo padre
prepotente, geloso, che teneva per sé tutte le femmine e che scacciava i maschi man mano
che crescevano. Un giorno i fratelli scacciati si riunirono, uccisero il padre e lo divorarono.
Il padre violento era stato senza dubbio – dice Freud – il modello nello stesso tempo
invidiato e temuto da ogni membro della schiera dei maschi scacciati. A questo punto, essi
realizzarono, divorando il padre, l’identificazione con lui, e si appropriarono di una parte
della sua forza. Il pasto totemico, in altre parole, non sarebbe altro che la ripetizione e la
commemorazione di questa primitiva azione criminale, la quale segnò l’inizio delle
organizzazioni morali e sociali e della religione. Il totemismo può essere considerato,
secondo Freud, come un primo tentativo di religione. Questo deriva dal tabù che
proteggeva la vita del totem. Infatti la religione totemica nacque probabilmente dal senso
di colpa dei figli, come un tentativo di attenuare questa sensazione e di riconciliarsi quindi
il padre offeso con la cosiddetta “obbedienza retrospettiva”. Nello stesso tempo, la religione
del totem serve a ricordare il trionfo sul padre, la soddisfazione così raggiunta è la causa
della festa in memoriam espressa dal pasto totemico. Garantendosi reciprocamente la vita,
i fratelli affermano che nessuno di loro può venir trattato da un altro fratello come fu
trattato il padre. Al divieto di uccidere il totem si unisce il divieto del fratricidio: “non
ammazzare”. La società poggiava allora sulla correità nel delitto perpetrato insieme, la
religione sulla coscienza del rimorso e della colpa, la moralità sulle necessità proprie di
questa società e sulle pene imposte dal senso di colpa. Come interviene la divinità?, si
chiede ora Freud. Nel frattempo, egli dice, è affiorata, non si sa come, non si sa dove, l’idea
di Dio. La psicoanalisi ci insegna, afferma Freud, che il Dio si configura per ciascuno
secondo l’immagine del padre, che quindi il rapporto personale con il Dio dipende dal
proprio rapporto con il padre carnale e che, in ultima analisi, il Dio non è altro che un
padre a livello superiore. Sarebbe un’ipotesi ovvia – dice Freud – che lo stesso Dio fosse
l’anima totemica e che si fosse sviluppato dall’animale in una fase successiva del
sentimento religioso. Così il totem può essere la prima forma di sostituto paterno, e il Dio
invece una forma successiva, in cui il padre ha riacquistato la sua figura umana.
L’elevazione del padre al Dio era un tentativo di espiazione molto più serio di quanto fosse
stato, in origine, il patto col totem. Nel mito cristiano – spiega Freud – il peccato originale
è indubbiamente un’offesa a Dio padre. Ora, se il Cristo ha liberato gli uomini dal peccato
sacrificando la sua stessa vita, questo “ci costringe” a concludere che questa colpa fu un
assassinio. Infatti, il sacrificio della propria vita conduce alla riconciliazione con Dio padre,
il crimine da espiare non può essere che l’uccisione del padre. In tal modo l’umanità
confessa, nella dottrina cristiana, l’azione colpevole commessa nella notte dei tempi.
Naturalmente questa teoria è possibile solo con l’ipotesi di una psiche collettiva in cui i
processi mentali si compiono come nella vita mentale dell’individuo. In particolare, dice
Freud, facciamo sopravvivere per millenni il senso di colpa provocato da un’azione, e lo
facciamo rimanere operante su generazioni e generazioni che di questa azione non
potevano saper nulla.
In L’avvenire di un’illusione Freud estende la concezione psicoanalitica, limitata nell’opera
precedente alle forme primitive, alle religioni più evolute considerandole da un punto di
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vista generale. L’opera rappresenta, nello stesso tempo, il credo di Freud, un credo laico,
fiducioso nelle possibilità della ragione umana. La vita è dura da sopportare con le
privazioni derivanti dalla civiltà e dalla natura. L’uomo, per proteggersi dalle forze
naturali, le umanizza e dà loro il carattere di padre, ne fa degli dèi. Gli dèi hanno una
triplice funzione: esorcizzare i terrori della natura, riconciliare con la crudeltà del fato,
specialmente quale si manifesta nella morte, risarcire le sofferenze e le sofferenze imposte
all’uomo dalla vita civile in comune. Viene in tal modo costituito un tesoro di
rappresentazioni che proteggono l’uomo contro i pericoli naturali e contro le offese della
vita civile. Si tratta in breve, di questo: la vita in questo mondo mira probabilmente ad un
perfezionamento dell’essere umano. Oggetto di questa elevazione deve essere la parte
spirituale dell’uomo, l’anima che, “lenta e riluttante, nel corso dei tempi, si è separata dal
corpo”. Tutto ciò che accade a questo mondo è sotto gli occhi di una benevola Provvidenza;
la morte stessa non è un annientamento, ma l’inizio di un nuovo modo di esistenza, alla
fine tutto il bene trova la sua ricompensa se non già in questa vita, nelle ulteriori esistenze
che cominciano dopo la morte. “è la saggezza superiore, che governa questo corso di eventi,
l’infinita bontà che in esso si esprime, la giustizia, che in esso si attua, costituiscono gli
attributi degli esseri divini che hanno creato sia noi che l’universo nel suo insieme; o
piuttosto dell’unico essere divino in cui, nella nostra civiltà, si sono condensati tutti gli dèi
del passato”. Ma qual è il significato psicologico delle rappresentazioni religiose? Secondo
Freud, esse sono illusioni, appagamenti dei desideri più antichi, più forti, più pressanti
dell’umanità. Mediante il benigno governo della Provvidenza, l’angoscia di fronte ai
pericoli della vita viene calmata, l’istituzione di un ordine morale universale assicura
l’appagamento dell’esigenza di giustizia, il prolungarsi dell’esistenza terrena mediante una
vita futura istituisce la struttura spazio-temporale dove questi appagamenti di desideri
trovano il proprio compimento. Inoltre vengono sviluppate risposte agli enigmatici
interrogativi che scaturiscono dall’umana brama di sapere, che contribuiscono a dare un
enorme sollievo a tutte le nostre esigenze insoddisfatte. Dicendo che la religione è
un’illusione, specifica Freud, non intendo dire che essa sia necessariamente falsa. Piuttosto
significa che tutte le credenze religiose sono indimostrabili e nessuno può essere costretto
a credere; del resto, come sono indimostrabili, sono anche inconfutabili, e sappiamo
ancora troppo poco a loro riguardo.
Freud non aderisce alla religione non perché è una illusione, ma perché essa non ha
espletato il suo compito. La religione, egli dice, ha reso alla civiltà umana grandi servizi,
ma non è riuscita a rendere felici la maggioranza degli uomini: tuttora vi è un numero
spaventosamente grande di uomini che è insoddisfatto della civiltà e che la sente come un
giogo che occorre scrollarsi di dosso. È quindi dubbio che al tempo dell’illimitato dominio
delle dottrine religiose gli uomini furono nel complesso più felici di oggi; certo, dice Freud,
non furono più morali. Le religioni hanno ormai fatto il loro tempo. Se la religione può
definirsi come la “nevrosi ossessiva universale dell’umanità”, è da prevedere che
l’abbandono della religione deve avere luogo con l’inesorabilità fatale di un processo di
crescita, e che ora troviamo proprio in pieno in questa fase di sviluppo. L’uomo può quindi
fare a meno della religione. Distogliendo in tal modo dall’aldilà le sue speranze e
concentrando sulla vita terrena tutte le forze così rese disponibili, l’uomo probabilmente
riuscirà a rendere sopportabile la vita per tutti e la civiltà non sarà più oppressiva per
nessuno.
Jean-Paul Sartre (1905-1980) è stato forse l’ateo più noto della Francia contemporanea.
Il suo ateismo è sempre stato totale, senza che mai si possa aver assistito ad un declino o
ad una revisione delle sue idee ateistiche. Del resto il suo no all’esistenza di Dio risale
molto indietro nel tempo, come egli stesso ci dice ne Le parole: “Una mattina, nel 1917, a
La Rochelle, aspettavo dei compagni che dovevano accompagnarmi al liceo; erano in
ritardo e presto non seppi più cosa inventarmi per distrarmi: decisi di pensare
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all’Onnipotente. Immediatamente ruzzolò nel cielo e sparì senza dare spiegazioni: non
esiste, mi dissi con uno stupore di cortesia, e credetti risolto il problema. In un certo modo
era risolto, dato che mai, in seguito, ho avuto la minima tentazione di riaprirlo”.
Per Sartre, che Dio non vi sia è una evidenza. Dio è, inoltre, superfluo ed il suo concetto
implica contraddizione. Il problema di Dio però è un problema molto importante, è “un
problema totale, che ciascuno risolve con la sua intera esistenza e la cui singola soluzione
rispecchia l’atteggiamento adottato da ciascuno nei confronti degli altri uomini e di se
stesso”. Anche se “non abbiamo bisogno di Dio, nonostante il fatto che Dio sia morto
“anche nel cuore dei credenti”, Sartre riconosce che “tuttavia l’uomo non è diventato ateo.
Il problema, oggi come ieri, resta immutato; il silenzio del trascendente, congiunto al
perdurare, nell’uomo moderno, dell’esigenza religiosa”. L’ateismo di Sartre è quindi un
ateismo ben conscio del suo ruolo nell’età contemporanea. È un ateismo che, al di là di
alcune affermazioni in apparenza blasfeme, si può definire “provvisorio”, come egli stesso
lo definì una volta. Egli è consapevole che “l’ateismo è un’impresa crudele e di lungo
respiro”, ed è quindi impegnativo dichiararsi atei: lo vedremo tra breve in
L’esistenzialismo è un umanismo.
Analizziamo adesso le ragioni per cui Sartre si proclama ateo. Fin dal suo primo romanzo,
La nausea, è chiaro che la contingenza fondamentale della vita umana e della realtà, è un
ostacolo insormontabile per l’affermazione di un Dio. Come si fa ad affermare Dio, il noncontingente, se tutto è contingente? “La contingenza – dice Sartre – non è una falsa
sembianza, una apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta
gratuità. Tutto è gratuito”. Dio stesso, dirà Sartre ne L’essere e il nulla, “è contingente”.
Ma com’è definito Dio da Sartre? Egli è “l’in-sé-per-sé, cioè l’ideale di una coscienza che
sarebbe fondamento del suo proprio essere-in-sé mediante la pura coscienza che
prenderebbe di se stessa”. L’uomo è, per Sartre, l’essere che progetta di essere Dio. Però,
se il senso del desiderio è in ultima analisi il progetto di essere Dio, il desiderio non è mai
costituito da questo senso, ma invece rappresenta sempre una invenzione particolare dei
suoi fini. In altre parole, la realtà umana è puro sforzo di diventare Dio, ma la sintesi
proposta tra in-sé e per-sé è impossibile. Il concetto di Dio come causa sui comporta in sé
quello di presenza a sé, cioè della decompressione d’essere annullante. Per essere progetto
di fondarsi, dice Sartre, bisognerebbe che l’in-sé fosse originariamente presenza a sé, cioè
fosse già coscienza. Così questo essere causa sui è impossibile e il suo concetto implica
contraddizione. È come se il mondo, l’uomo e l’uomo-nel-mondo, dice Sartre, non
giungessero a realizzare che un Dio mancato. È come se l’in-sé e il per-sé si presentassero
in uno stato di disintegrazione in rapporto ad una sintesi ideale. Non che l’integrazione
abbia mai avuto luogo, ma invece precisamente perché – ecco il punto – essa è sempre
indicata e sempre impossibile. È la continua sconfitta che spiega, secondo Sartre, sia
l’indissolubilità del rapporto fra l’in-sé e il per-sé e sia la loro indipendenza. L’uomo,
conclude Sartre, è una passione inutile. In L’esistenzialismo è un umanismo viene trattato
ancor più chiaramente il problema di Dio. Il concetto di Dio è paragonabile per Sartre a
quello di un artigiano supremo: cioè Dio, quando crea, sa con precisione quello che crea.
Nel secolo XVIII, egli dice, la nozione di Dio viene eliminata, ma non l’idea che l’esistenza
venga dopo l’essenza. Ma, continua Sartre, l’esistenzialismo ateo, “che io rappresento” è
più coerente: se Dio non esiste, esso afferma, c’è almeno un essere in cui l’esistenza
precede l’essenza, un essere che esiste prima di poter essere definito da un concetto cioè
l’uomo. Così non c’è una natura umana poiché non c’è un Dio che la concepisca. Insomma,
Dio non mi ha creato quindi Dio non esiste. Però che Dio non esista non è certamente una
cosa comoda. Infatti, se Dio non c’è, dice Sartre, non ci possono essere valori in un cielo
intelligibile, cioè già dati; non può esserci un bene a priori poiché non c’è coscienza infinita
a pensarlo; non sta scritto da nessuna parte che il bene esiste, dato che siamo su un piano
dove ci sono solamente uomini. Tutto è quindi lecito se Dio non esiste, e di conseguenza
l’uomo è abbandonato a se stesso perché non trova né in sé né fuori di sé possibilità di
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ancorarsi. Così non abbiamo giustificazioni o scuse e la responsabilità della vita del mondo
ricade su di noi. A chi ci rimprovera – afferma Sartre – la gratuità dei valori, rispondo di
essere molto spiacente che sia proprio così, ma siccome ho soppresso Dio Padre è pur
necessario qualcuno per inventare i valori. D’altra parte, dire che noi inventiamo i valori
vuol dire che la vita non ha un senso già dato. Prima che voi viviate la vita non è nulla, ma
sta a voi darle un senso, e il valore non è altro che il senso che scegliete. Così è possibile
creare una comunità umana. L’esistenzialismo, dice ancora Sartre, non è altro che lo sforzo
per dedurre tutte le conseguenze da una posizione atea coerente. L’esistenzialismo non è
ateismo nel senso che si limiti a dimostrare che Dio non esiste, ma preferisce affermare:
anche se Dio esistesse, non cambierebbe nulla. Il problema non è quello della sua
esistenza. Bisogna che l’uomo ritrovi se stesso, fosse anche una prova valida dell’esistenza
di Dio.
Come per Sartre, anche per Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) l’esistenza di Dio è
superflua. “Che ci sia o no un pensiero assoluto – dice Merleau-Ponty in Senso e non senso
– e, in ogni problema pratico, una valutazione assoluta, per giudicare dispongo solo di
opinioni mie che, per quanto severamente le discuta, restano capaci di errori … tanto che
infine la mia fede nell’assoluto, in quel che ha di solido, si riduce alla mia esperienza d’un
accordo con me stesso e con altri. Quando non è inutile, il ricorso ad un fondamento
assoluto distrugge proprio quel che deve fondare. … se invece ho capito che verità e valore
possono essere per me soltanto il risultato delle nostre verificazioni e delle nostre
valutazioni a contatto con il mondo, dinanzi agli altri e in situazione di conoscenza e
d’azione date, che anche queste nozioni perdono ogni senso fuori dalle prospettive umane,
allora il mondo riacquista rilievo, gli atti particolari di verificazione e di valutazione nei
quali riafferro un’esperienza dispersa riassumono importanza decisiva, c’è qualcosa di
irrecusabile nella conoscenza e nell’azione appunto perché non pretendo di trovarvi
l’evidenza assoluta. La coscienza metafisica e morale muore a contatto con l’assoluto
perché è proprio lei, al di là del mondo piatto della coscienza abituata e addormentata, la
viva connessione di me con me e di me con altri”.
Il cristianesimo, dice Merleau-Ponty, rifiuta il Dio dei filosofi ed ammette un Dio che
assume forma umana: in ciò consiste la sua novità rispetto alle altre religioni. La religione
cristiana da questo punto di vista, fa parte della cultura, non è né un dogma né una
credenza, ma un grido, dato che insegna che la colpa dell’uomo è una felix culpa, che il
mondo senza colpa sarebbe meno buono e che la creazione è un bene: in conclusione essa
costituisce la negazione più risoluta di un infinito concepito. Però vi sono nel cristianesimo
anche ambiguità e contraddizioni. Secondo Merleau-Ponty il paradosso del cristianesimo e
del cattolicesimo consiste nel fatto che essi non si attengono mai al Dio esterno e al Dio
interno, ma sono sempre tra l’uno e l’altro. Si tratta di perdere la propria vita, ma
perdendola la si salva. La fede è fiducia, ma il cristiano sa a che cosa si affida: scio cui
credidi. Il cattolicesimo, per Merleau-Ponty, arresta lo sviluppo della religione: la Trinità
non è un movimento dialettico, le tre Persone sono coeterne. Analogamente, la Chiesa non
si fonda nella società degli uomini, ma si incarna in essi in maniera privilegiata.
L’ambiguità politica del cristianesimo, dice Merlau-Ponty, è evidente. Il cattolico, in
quanto cattolico, non ha senso dell’avvenire: deve aspettare che questo avvenire sia passato
per aderirvi. Per fortuna il cattolico, come cittadino, resta sempre libero di cooperare ad
una rivoluzione. Ma egli non ci metterà la parte migliore di sé e, in quanto cattolico, gli è
indifferente.
Nell’opera Elogio della filosofia, MerleaPonty afferma la disparità di vedute tra la filosofia
e la teologia. La filosofia, egli dice, rifiuta sia l’umanesimo prometeico che le opposte
affermazioni della teologia. Essa non dice che sia possibile un superamento finale delle
contraddizioni umane e che l’uomo completo ci attende nell’avvenire: come tutti la filosofia
non sa nulla di ciò. La filosofia afferma – ed è tutt’altra cosa – che il mondo sempre
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comincia, che noi non possiamo giudicare del suo avvenire soltanto in base al suo passato,
che l’idea di un destino che domini le cose non è un’idea ma una vertigine, che i nostri
rapporti con la natura non sono fissati una volta per tutte, che nessuno può sapere ciò che
può fare la libertà; non affida la sua speranza a nessun destino, anche se è favorevole, ma
proprio a ciò che in noi non è destino, alla contingenza della nostra storia: la sua posizione
è proprio la negazione. Si può dire che la filosofia è umanistica? No, se si intende per
“uomo” un principio di spiegazione da sostituire ad altri principi. Non si spiega nulla con
l’uomo, poiché esso non è una forza, ma una debolezza nel cuore dell’essere, non un fattore
cosmologico ma il luogo in cui tutti i fattori cosmologici, in una mutazione che non finisce
mai, mutano senso e diventano storia. L’esistenza dell’uomo, dice ancora Merleau-Ponty, si
estende a troppe cose – per essere precisi, a tutte – per poter diventare essa stessa oggetto
di autocompiacenza e ciò che si ha ragione di considerare come un “fanatismo umanistico”.
Ora, continua Merleau-Ponty, la stessa instabilità che non rende possibile una religione
dell’umanità, è anche quella che toglie i suoi sostegni alla teologia. La teologia, infatti, non
constata la contingenza dell’essere umano se non per farla derivare da un essere
necessario, e cioè non la constata se non per disfarsene: si serve della “meraviglia”
filosofica soltanto per motivare una affermazione che la sopprime. L’idea dell’essere
necessario come quella della materia eterna, al filosofo sembra prosaica in confronto al
sorgere dei fenomeni in ogni piano del mondo ed è questa continua nascita che egli si
preoccupa di descrivere. In questa situazione egli può benissimo comprendere la religione
come l’espressione di un fenomeno fondamentale, ma non è la stessa cosa il porre la
religione e il comprenderla. Si passa dunque solo a lato della filosofia quando la si definisce
come ateismo: è una filosofia vista dal punto di vista teologico. La sua negazione non è che
l’inizio di una attenzione, di una serietà, di un’esperienza, in base alle quali bisogna
giudicarla. La filosofia, che non fissa mai il sacro in un determinato luogo, ma lo vede nella
relazione delle cose e delle parole, sarà sempre esposta a certi attacchi anche se da essi non
potrà mai essere toccata. La filosofia, conclude Merleau-Ponty, si domanda soltanto se il
concetto di Dio come essere necessario non è, inevitabilmente, quello dell’imperatore del
mondo e se, senza quel concetto, il Dio cristiano non cessi di essere l’autore del mondo e se
per caso non è appunto la filosofia che conduce fino alle estreme conseguenze la lotta
contro i falsi dèi che il cristianesimo ha inserito nella storia. Il brano citato ci deve fa
riflettere. Esso non ha nulla in comune con l’ateismo antiteistico, dogmatico dei tempi
passati. È una posizione coerente, ponderata, che non critica negativamente la religione
ma si pone, come egli scrive, su un altro piano e non può essere toccata dalle critiche
teologiche. Egli, piuttosto che scrivere “non c’è Dio”, ha scritto “c’è l’uomo”; invece di dire
“la religione è falsa”, scrive: “essa è un grido, un fenomeno fondamentale”. Il brano citato
dal filosofo francese può essere additato come esempio del nuovo ateismo contemporaneo
o, meglio, della nuova posizione riguardo la religione che, finora, è soltanto all’inizio.
Prima di concludere, è interessante citare un brano riguardante i rapporti fra filosofia e
cristianesimo. “Se la filosofia è un’attività autosufficiente, che comincia e finisce con
l’apprensione del concetto, e la fede un assenso alle cose non viste e date a credere dai testi
rivelati, la differenza che le separa è troppo profonda perché ci possa essere conflitto. Ci
sarà invece conflitto quando l’adeguazione razionale si presenterà come esaustiva. Ma
basta che la filosofia riconosca, al di là dei possibili dèi quali è giudice, un ordine del
mondo attuale i cui particolari dipendono dall’esperienza, e che si assuma il dato della
rivelazione come un’esperienza soprannaturale, perché non ci sia rivalità tra fede e
ragione. Il segreto del loro accordo è nel pensiero infinito, che è il medesimo quando
concepisce il possibile e quando crea il mondo attuale”.
Parlare quindi di “ateismo” di Merleau-Ponty è, per dirla con un termine a lui caro,
ambiguo. C’è in lui, come in tutti i grandi pensatori, l’impossibilità di vedersi ricondotto ad
una particolare definizione, la quale non farebbe che limitarne la prospettiva e falsarne gli
intenti.
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Albert Camus (1913-1960), nei suoi romanzi come nei saggi egli, che filosofo in senso
proprio non è, ha dato la sua risposta al problema di Dio in modo estremamente lucido e
coerente.
Il mito di Sisifo è il saggio in cui Camus analizza più a fondo il problema di Dio. Il
protagonista del saggio è “l’uomo assurdo” cioè l’uomo che, pur essendo cosciente della
assurdità della vita, e anzi proprio per questo, vuol continuare a vivere. Camus inizia
dicendo che “vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello dei suicidio.
Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito
fondamentale della filosofia”. Morire volontariamente, sostiene Camus, presuppone che si
sia riconosciuto la mancanza di ogni profonda ragione di vivere, l’indole insensata della
quotidiana agitazione e l’inutilità della sofferenza. Però non è detto che negare un senso
alla vita conduca forzatamente a dichiarare che non valga la pena di viverla; al contrario,
essa sarà tanto meglio vissuta in quanto non avrà alcun senso: vivere è dar vita all’assurdo;
dargli la vita è innanzi tutto saper guardarlo. La morte e l’assurdo sono i principi, dice
Camus, della sola libertà favorevole. La vita in un universo del genere vuole un’etica della
quantità e non più della qualità, non essendoci scala di valori, una scelta delle preferenze.
Vivere il più possibile: ecco quel che l’uomo assurdo può fare. E vivere il più possibile
significa sentire la propria vita, la propria rivolta e la propria libertà il più intensamente
possibile. In che termine si pone allora il problema di Dio? L’assurdo, dice Camus, cioè lo
stato metafisico dell’uomo cosciente, non conduce a Dio: l’assurdo è il peccato senza Dio.
Così, Camus confessa candidamente: “la percezione di un angelo o di un Dio non ha senso
per me”. L’uomo assurdo, egli dice, è colui che, senza negarlo, nulla fa per l’eterno. “Non so
– scrive Camus – se il mondo abbia un senso che lo trascenda; ma so che io non conosco
questo senso e che, per il momento, mi è impossibile conoscerlo. Che valore ha per me un
significato al di fuori della mia condizione? Io posso comprendere soltanto in termini
umani. Ciò che tocco e che mi resiste, ecco quanto comprendo. E queste due certezze, la
mia brama di assoluto e di unità e l’irriducibilità del mondo a un principio razionale e
ragionevole, so anche che non posso conciliarle. Quale altra verità posso riconoscere senza
mentire, senza far intervenire una speranza che non ho e che non significa nulla entro il
limite della mia condizione?”. “Si tratta di ostinarsi”, dice Camus. Ad un certo punto del
cammino, l’uomo assurdo è incalzato. La storia non è priva né di religioni né di profeti,
anche senza dèi. Gli si chiede di saltare. Tutto quello che può rispondere è che non
comprende bene, perché ciò non è evidente. Egli, appunto, non vuol fare quello che non
capisce. Lo si assicura che è peccato d’orgoglio (ma egli non afferra la nozione di peccato);
che forse, alla fine, c’è l’inferno (ma egli non ha sufficiente immaginazione per raffigurarsi
questo strano avvenire); che perderà la vita immortale (ma questo gli sembra futile). Si
vorrebbe fargli riconoscere la sua colpevolezza ma egli si sente innocente. A dire il vero,
egli non sente che questo: la propria innocenza irreparabile. È questa che gli permette
tutto. Cosicché, ciò che egli richiede da se stesso è solamente vivere con ciò che sa,
adattarsi a ciò che è, e non far intervenire nulla che non sia certo. Gli viene risposto che
niente lo è; ma questa, almeno, è una certezza. È con questa che ha a che fare: egli vuol
sapere se è possibile vivere senza ricorso. Sì – conclude onestamente Camus – l’uomo è
fine a se stesso; ed è anche il suo solo fine. So bene, egli dice, che tutte le chiese sono
contro di noi. Ma io non so che farmene delle idee e dell’eterno. Le verità che sono alla mia
portata, possono essere toccate con mano. Non posso separarmi da loro. “Così, persuaso
della origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera vedere e
che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino”.
Radicale immanenza e umanismo sono le caratteristiche dell’ateismo camusiano. Anzi,
escludere Dio sarebbe per Camus una nuova affermazione e quindi non accetta di “ateo”.
L’uomo di Camus non ha molte certezze, ma un capello di donna ne Lo straniero è
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superiore alla certezza dell’immortalità. Attaccato alle poche certezze terrene, l’uomo può
affrontare l’assurdità della vita.
Anni fa una nuova corrente di pensiero influenzò parecchio la cultura occidentale: si tratta
dello strutturalismo, nato come metodologia in ambito linguistico e letterario e poi
esteso a molti altri campi del sapere, dalla psicoanalisi alla filosofia, all’arte all’esegesi
biblica ecc. Riguardo il tema che qui ci interessa, cioè l’ateismo, a rigore non si dovrebbe
forse neppure parlare di un “ateismo strutturalista” perché tale corrente di pensiero non ha
affrontato se non indirettamente il problema religioso. Tuttavia alcuni pensatori cristiani
come ad es. Paul Blanquart hanno invitato a riflettere sulle conseguenze della metodologia
strutturalista in ambito religioso: “C’è critica più radicale della fede – si chiede appunto
Blanquart – di questo movimento di fondo che trascina il pensiero al di fuori dei luoghi in
cui la questione di Dio si pone?”. Insomma, come potrebbe parlare Dio di sé all’uomo, e
quest’ultimo rispondere nella libertà, quando la realtà della parola, del soggetto umano
sono messe fuori del circuito mentale, e quando il mito non rinvia più ad altro che a se
stesso? Vediamo quindi più da vicini alcuni teorici dello strutturalismo riguardo il
problema religioso.
Claude Lévi-Strauss non è stato un filosofo di professione ma non bisogna
sottovalutare il profondo significato filosofico del suo pensiero che ha aperto nuovi
orizzonti alla ricerca umana. Il problema di Dio però, a quanto egli stesso dice, non ha mai
sfiorato la sua mente se non in modo indiretto. Le religioni sono per Lèv-Strauss
perfettamente spiegabili tenendo conto che l’uomo possiede meccanismi intellettuali,
cerebrali, imperfetti rispetto al ruolo che devono compiere. Di conseguenza, nel suo sforzo
conoscitivo, l’uomo non perviene mai a sintesi totali. Orbene, il sentimento religioso
rappresenta una sorta di crogiuolo virtuale in cui si compirebbe la sintesi ultima: quella di
cui proviamo bisogno ma che non riusciamo mai a portare a termine. La vita religiosa è un
immenso serbatoio di rappresentazioni; ma si tratta di rappresentazioni come le altre e
non hanno alcun carattere specifico. I miti non ci dicono nulla che ci informi
sull’ordinamento dell’universo, sulla natura del reale, sull’origine dell’uomo e sul suo
destino. Non possiamo sperare da essi nessuna concessione metafisica, né essi verranno in
aiuto ad ideologie ormai esaurite. Comunque, se lo strutturalismo, dice Lévi-Strauss, non
annuncia una riconciliazione tra scienza e fede e tanto meno combatte in suo favore, esso si
sente in grado, più del naturalismo e dell’empirismo, di spiegare e giustificare il posto che
il sentimento religioso ha occupato ed occupa tuttora nella storia dell’umanità: “intuizione
confusa” in cui la frattura fra il mondo e lo spirito, la causalità e la finalità corrispondono
non già alla realtà delle cose, ma a un limite verso il quale tende una conoscenza i cui mezzi
intellettuali e spirituali non saranno mai commensurabili alle dimensioni e all’essenza dei
suoi oggetti. Dal punto di vista più teorico, metafisico se vogliamo, alla domanda quale sia
il senso dell’esistenza, Lévi-Strauss risponde che, “a rigore, essa non ne ha alcuno”. Tale
affermazione è basata, egli dice, su considerazioni molto semplici, la prima delle quali è
che l’uomo non è sempre esistito sulla faccia della terra ed è verosimile che egli non
esisterà per sempre. Quindi, tutti i problemi che noi poniamo, un giorno non esisteranno
più perché non esisterà più coscienza per porli. Il problema del senso può essere posto solo
rispetto all’insignificante avvenimento che sarà stato il passaggio dell’uomo nell’universo:
quel che chiamiamo uomo, io, sono solo fantasmi illusori di qualcosa che accade in un
certo luogo, in un certo tempo, e che domani non accadrà più; tutto ciò non ha maggiore
importanza del resto. È una visione del mondo forse pessimistica, ma Lévi-Strauss sembra
accettarla con serenità. Se l’uomo non è sempre esistito sulla faccia della terra, è probabile
che “il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui”. L’uomo è dunque
condannato a morte. Egli deve saperlo e deve anche sapere – dice Lévi-Strauss con accenti
melodrammatici - che un giorno “le sue fatiche, le sue pene, le sue gioie, le sue speranze e
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le sue opere, diverranno come se non fossero mai esistite, non essendoci più alcuna
coscienza per conservare almeno il ricordo di quei moti effimeri”.
Mai forse negazione di Dio è stata così radicale. Il problema di Dio non sussiste perché non
sussiste il problema del senso. I problemi umani sono solo umani e spariranno quando
l’uomo scomparirà. Non si può neppure impostare un discorso trascendente, parlare di
una rivelazione da parte di Dio perché è negata alla radice l’individualità in cui poteva
essere posto il problema di Dio. L’ateismo è concepito da Lévi-Strauss non come un
atteggiamento positivo (altrimenti egli concederebbe più realtà al pensiero religioso di
quanto egli voglia) ma semplicemente l’assenza di certi problemi, di certe domande, di
certi interrogativi.
Michel Foucault (1926-1984) è stato il più recente pensatore che può essere considerato
“ateo” tenendo sempre presente che un tale termine è oggi molto parziale. Mi sembra però
che con la sua insistenza sulla “morte dell’uomo”, conseguenza diretta della “morte di Dio”,
egli sia meno “radicale” di Lévi-Strauss per quanto riguarda il problema di Dio. Ma è pur
vero che i suoi interessi sono molto diversi da Dio, libertà e immortalità. L’interesse
precipuo di Foucault, se diamo retta a Le parole e le cose, è la risposta alla seguente
domanda: “cos’è il linguaggio, come circoscriverlo per farlo apparire in sé e nella sua
pienezza?”. Per cui, se si vuol parlare di “ateismo” in Foucault, è un ateismo del tutto
negativo, come quello di Lévi-Strauss, semplicemente a causa della mera assenza del
problema.
La morte dell’uomo e la morte di Dio non sono asserzioni programmatiche, ma evidenze
indiscutibili, ed è in questo che consiste l’assenza di problematica. Foucault mette subito in
chiaro quanto segue: “Ai nostri giorni, e Nietzsche anche qui indica da lontano il punto
d’inflessione, si afferma non tanto l’assenza o la morte di Dio, quanto la fine dell’uomo […];
si scopre a questo punto che la morte di Dio e l’ultimo uomo strettamente legati: non è
appunto l’ultimo uomo che annuncia di aver ucciso Dio, ponendo in tal modo il proprio
linguaggio, il proprio pensiero, il proprio riso nello spazio del Dio già morto, ma
proponendosi anche come colui che ha ucciso Dio e la cui esistenza include la libertà e la
decisione di tale delitto? Così, l’ultimo uomo è, a un tempo, più vecchio e più giovane della
morte di Dio; avendo ucciso Dio, è lui stesso che deve rispondere della propria finitudine;
ma dal momento che parla, pensa ed esiste entro la morte di Dio, il suo crimine stesso è
destinato a morire; nuovi dèi, identici, già gonfiano l’oceano futuro; l’uomo scomparirà”.
La morte di Dio è, per Foucault, “lo spazio ormai costante della nostra esperienza. La
morte di Dio, togliendo alla nostra esistenza il limite dell’illimitato, la riconduce a
un’esperienza dove niente può più annunciare l’esteriorità dell’essere, a un’esperienza per
conseguenza interiore e sovrana. Ma una tale esperienza, nella quale esplode la morte di
Dio, scopre, come suo segreto e sua luce, la sua propria finitudine, il regno illimitato del
Limite, il vuoto di questa rottura dove essa viene meno ed è manchevole. […] La morte di
Dio non è stata soltanto l’ “avvenimento” che ha suscitato nella forma che noi le
conosciamo l’esperienza contemporanea: essa ne disegna indefinitamente il grande
sostegno scheletrico”.
Ma, se è vero che Dio non c’è, non esiste, che significa “uccidere Dio”? A questa domanda
Foucault risponde dicendo che, probabilmente, vuol dire ucciderlo perché, al tempo stesso,
non esiste e affinché non esista. In altre parole, uccidere Dio per liberare l’esistenza da
questa esistenza che la limita, ma anche per ricondurla al limite che questa esistenza
illimitata cancella; uccidere Dio per ricondurlo a quel nulla che egli è. La morte di Dio, dice
Foucault, non ci restituisce a un mondo limitato e positivo, ma a un mondo che si snoda
nell’esperienza del limite, si fa e si disfà nell’eccesso che lo oltrepassa. Probabilmente, è
proprio questo eccesso che scopre, legati a una stessa esperienza, la sessualità e la morte di
Dio. Un linguaggio rigoroso dice, a partire dalla sessualità, non il segreto naturale
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dell’uomo, ma bensì che l’uomo è senza Dio. Questa è l’ultima parola di Foucault riguardo
il problema di Dio.
Concludo questa rassegna con un’opera che ha fatto parlare molto di sé anche se non
contiene nulla di particolarmente originale. Si tratta del Trattato di ateologia di Michel
Onfray. L’autore è un francese nato nel 1959, ha insegnato per un po’ filosofia al liceo e ha
quindi fondato nel 2002 la Università Popolare di Caen.
“Io non disprezzo i credenti – dice Onfray – ma temo che preferiscano rassicuranti finzioni
infantili alle crudeli certezze degli adulti”, insomma, essi vivono secondo un eterno
infantilismo mentale (Trattato di ateologia, p. 18. D’ora in poi citato con TA). Per cui egli
sente da un lato compassione per le vittime dell’inganno, dall’altro una collera violenza
contro coloro che continuamente le ingannano. Per combattere questo stato di cose, egli
propone la ragione e la riflessione correttamente guidate; l’oscurantismo, che è l’humus
delle religioni - egli dice - si combatte con la tradizione razionalista occidentale, con
l’ateismo insomma, che è salute mentale recuperata (TA, 20). Anzi, più esattamente lo si
combatte con una ateologia (termine mutuato da Bataille), che non è altro che una
ontologia materialista. Bisogna combattere, secondo Onfray, l’idea ebraico-cristiana che la
materia, la realtà e il mondo non esauriscono la totalità (TA,53). Bisogna combattere l’odio
dell’intelligenza, alla quale i monoteisti preferiscono l’obbedienza e la sottomissione; odio
della vita, accompagnato da un’indefettibile passione tanatofila; odio per questo mondo,
incessantemente valorizzato in confronto all’aldilà, unica riserva possibile di senso, di
verità, di certezza e di beatitudine; odio del corpo corruttibile, disprezzato in ogni più
piccolo dettaglio; odio per le donne, infine, per il sesso libero e liberato (TA, 65). La
religione del Dio unico lavora all’odio verso sé, al disprezzo del proprio corpo, al discredito
dell’intelligenza, alla disistima della carne, alla valorizzazione di tutto ciò che nega la
soggettività dischiusa; proiettata contro gli altri, fomenta il disprezzo, la cattiveria,
l’intolleranza che a loro volta producono i razzismi, la xenofobia, il colonialismo, le guerre,
l’ingiustizia sociale (TA, 72-73). Decostruire i monoteismi, demistificare la religione
ebraico-cristiana- ma anche l’islam - , poi smontare la teocrazia, ecco tre cantieri
inaugurali per l’ateologia. In seguito occorrerà lavorare a un nuovo progetto etico per
creare in Occidente le condizioni di una vera morale postcristiana, in cui il corpo cessi di
essere una punizione, la terra una valle di lacrime, la vita una catastrofe, il piacere un
peccato, le donne una maledizione, l’intelligenza una presunzione, la voluttà una
dannazione. A ciò si potrebbe poi aggiungere una politica sedotta meno dalla pulsione di
morte che dalla pulsione di vita (TA, 67). Si deve andare oltre una laicità ancora troppo
impregnata di ciò che essa vorrebbe combattere. Mettendo infatti tutte le religioni e la loro
negazione su un piano di uguaglianza, come invita a fare la laicità oggi trionfante, si avalla
il relativismo: uguaglianza tra pensiero magico e pensiero razionale, tra la favola, il mito e
il discorso argomentato, tra il discorso taumaturgico e il pensiero scientifico. Ma questo
relativismo è – dice Onfray – dannoso. Ormai, col pretesto della laicità, tutti i discorsi si
equivalgono: l’errore e la verità, il vero e il falso, il serio e lo stravagante. Il mito e la favola
pesano quanto la scienza. Il sogno quanto la realtà. Ma non è affatto vero che i discorsi si
equivalgono: quelli della nevrosi, dell’isteria e del misticismo appartengono a un mondo
diverso da quello del positivismo. Nel momento in cui si profila uno scontro decisivo (ma
aggiunge Onfray: forse già perduto…) per difendere i valori dell’Illuminismo contro le
affermazioni magiche, bisogna promuovere una laicità postcristiana, ossia atea, militante e
radicalmente opposta a quella che ci obbliga a scegliere tra la religione ebraico-cristiana
occidentale e l’Islam che la combatte. Ne Bibbia né Corano. Esiste un solo mondo e ogni
offerta di un oltremodo ci fa perdere l’uso e il beneficio del solo mondo esistente. È questo
il vero peccato mortale (TA, 196-198). E con queste parole si conclude l’opera di Onfray.
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BIBLIOGRAFIA MINIMA
Freud, Totem e tabù, Boringhieri
Freud, L’avvenire di un’illusione, Boringhieri
Sartre, Le parole, ed. Il Saggiatore
Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore
Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia
Merleau-Ponty, Senso e non senso, Garzanti
Merleau-Ponty, Elogio della filosofia, Paravia
Merleau-Ponty, Segni, Bompiani
Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani
Camus, Lo straniero, Bompiani
Lévi-Strauss, L’uomo nudo, Il Saggiatore
Lévi-Strauss, Tristi tropici, Il Saggiatore
Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli
Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli
Onfray, Trattato di ateologia, Fazi Editore
Un libretto interessante pubblicato parecchi anni fa che dà una panoramica degli atei
francesi contemporanei è quello a cura di C.Chabanis, Dio esiste? No, rispondono…,
Mondadori Milano 1974, che raccoglie le interviste del giornalista con i maggiori
rappresentanti atei della cultura francese (da Henri Petit a Edgar Morin, da Roger Garaudy
a Lévi Strauss ecc.)
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GLI ATEI DEL NOVECENTO IN TALIA
Pensando alla storia precedente, l’Italia può vantare durante il Medioevo e il Rinascimento
alcuni pensatori chiaramente scettici, materialisti, naturalisti ma mai dichiaratamente atei.
Né Biagio Pelacani da Parma, né Giulio Cesare Vanini, né Giordano Bruno sono atei bensì
anticristiani, panteisti, materialisti.
Biagio Pelacani (metà XIV sec.) fu un seguace del determinismo astrologico e dell’eternità
del mondo; i suoi contributi sono soprattutto dedicati all’ottica. È stato uno “scienziato” e
non si è mai proclamato chiaramente ateo.
Riguardo Vanini (1585-1619), egli disse prima di morire: “Solo la Natura è Dio” (cfr.
Opere, Lecce 1912, pp. CCXXVIII). È quindi un caso di naturalismo e non di ateismo. Ne
L’anfiteatro della eterna provvidenza, Vanini dice che non possiamo sapere che cosa sia
Dio poiché “se lo sapessi sarei Dio” (in Opere, cit., p. 25), ma non dice che non c’è Dio.
Anzi, che vi sia una Provvidenza è dimostrato da molte cose: ad es. dalla creazione del
mondo, dal moto dei cieli, dai miracoli ecc. (cfr. Opere, cit., le esercitazioni nn. 4,5,8). Ne
Dei mirabili arcani della natura regina e dea dei mortali Vanini ribadisce la sua religione
della natura: “Ma in quale religione gli antichi filosofi credevano che Dio fosse venerato
con verità e santamente? …Nella sola religione della Natura: religione della Natura stessa
che è Dio (infatti è principio di movimento) scolpita nel cuore di tutti i mortali” (in Opere,
cit., p. 308).
Giordano Bruno (1548-1600) distingue nettamente l’ambito della scienza da quello della
fede. Se poi vogliamo ammettere una causa prima, questa non può essere che “la natura
stessa o pur riluce ne l’ambito e grembo di quella” (Dialoghi italiani, Firenze 1958, p. 229).
La natura è Dio che è in tutte le cose (Op.cit., p. 274). Bruno ripete spesso la sua idea
dominante: Dio è tutto in tutte le cose, “per quanto si comunica alli effetti della natura, ed
è più intimo a quelli che la natura stessa; di maniera che se lui non è la natura istessa, certo
è la natura de la natura; ed è l’anima del mondo, se non è l’anima istessa”(ibid., p. 783). La
religiosità bruniana è cosmica, è amore per l’infinito, per l’universo, per il tutto. Se
vogliamo, non è certo cristianesimo anzi è violentemente anticlericale ma non per questo è
ateismo dichiarato.
E veniamo al Novecento. Ricordo, en passant, che la filosofia dominante in Italia nella
prima metà del Novecento fu l’idealismo di Croce e di Gentile. Entrambi non assunsero
mai una posizione anticristiana anzi, il loro idealismo fu da essi considerato come una
sorta di baluardo nei confronti della religione. Da interpretare certo “filosoficamente”,
“idealisticamente” ma mai da criticare in senso ateistico. L’esempio più eclatante fu quel
famoso saggio di Croce intitolato Perché non possiamo non dirci “cristiani”, che fece
parecchio scalpore (da notare subito quel cristiani tra virgolette). In esso sostiene che noi
non possiamo non riconoscerci e non dirci cristiani, e che questa denominazione è
semplice osservanza della verità. Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che
l’umanità abbia mai compiuta. Tutte le altre rivoluzioni non sostengono il suo confronto.
Ma non solo: le rivoluzioni e le scoperte che seguirono nei tempi moderni non si possono
pensare senza la rivoluzione cristiana. Questo nuovo atteggiamento morale e questo nuovo
concetto di Dio si presentarono in parte ravvolti in miti (Croce considera tale la
resurrezione ecc.) ma non perciò – dice Croce - non furono sostanzialmente quelli che
abbiamo in breve enunciati e che ognuno sente risuonare dentro di sé quando pronunzia a
sé stesso il nome di “cristiano”. Inoltre il cristianesimo è stato in grado di adattarsi nel
corso dei secoli alle vicende storiche (la chiesa si rinsanguò e si riformò tacitamente più
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volte) e così è riuscito a dominare il corso della storia e a soddisfare le sempre nuove
esigenze e le nuove domande. Poi bisogna riconoscere che la polemica antichiesastica si è
sempre arrestata e ha taciuto nei confronti della figura di Gesù. Potrà aver “sparato a zero”
nei confronti della istituzione ma non così nei confronti di Cristo, “sentendo che l’offesa a
lui sarebbe stata offesa a sé medesima, alle ragioni del suo ideale, al cuore del suo cuore”.
Perciò, conclude Croce, noi, nella vita morale e nel pensiero, ci sentiamo direttamente figli
del cristianesimo. E serbare e riaccendere e alimentare il sentimento cristiano è il nostro
sempre ricorrente bisogno, oggi più che mai pungente e tormentoso, tra dolore e speranza.
E il Dio cristiano è ancora il nostro, e le nostre affinate filosofie lo chiamano lo Spirito, e se
noi non lo adoriamo più come mistero, è perché sappiamo che sempre esso sarà mistero
all’occhio della logica astratta e intellettualistica, ma che limpida verità esso è all’occhio
della logica concreta, che potrà ben dirsi “divina”, intendendola nel senso cristiano come
quella alla quale l’uomo di continuo si eleva, e che, di continuo congiungendolo a Dio, lo fa
veramente uomo.
Queste sono dunque le conclusioni di Croce nei confronti del cristianesimo. Come si vede,
nulla di ateistico anche se il cristianesimo è reinterpretato in senso idealistico.
In Italia, agli inizi del secolo, usciva un’operetta del prof. Giuseppe Rensi (prima
giornalista poi docente universitario a Genova, 1871-1941), scettico e ateo dichiarato, dal
titolo Apologia dell’ateismo. L’Italia, nella sua storia, ha avuto pochissimi miscredenti ed
ancor meno atei dichiarati. Non può neppure essere paragonata, da questo punto di vista,
alla Germania o alla Francia, vere e proprie fucine del pensiero ateistico. Rensi è appunto
uno di quei rarissimi casi di filosofi italiani (e non solo) che si dichiarano apertamente atei
e difendono la loro posizione.
Rensi è sicuro del proprio ateismo: anzi, negare l’ateismo è cadere nell’allucinazione, nella
pazzia. Questo si chiarisce pensando che, se il concetto di essere è definito come “ciò che si
può vedere, toccare, percepire”, allora Dio è relegato ovviamente nella sfera del non-essere,
cioè egli, per definizione, non può esistere. Rensi dice: “O Dio è limitato, circoscritto,
conforme alle condizioni formali dell’esperienza, oggetto fra oggetti, e non è più Dio. O è
infinito ed allora cade fuori dell’Essere, è non-Essere. O Essere e non-Dio, o Dio e nonEssere”. Non ci sono alternative: secondo Rensi, che Dio non sia è una verità sullo stesso
piano di 2+2=4. “Dio non è” è un giudizio analitico – egli dice – come “il corpo è esteso”. Il
predicato “non è” si ricava dal soggetto “Dio” con la stessa certezza e irrecusabilità logica e
quasi tautologica come “esteso” da “corpo”. Questa può essere definita, dice ancora Rensi,
come la prova ontologica dell’inesistenza di Dio. Il concetto di Dio è quindi per Rensi
identico al concetto del non-essere, del nulla. Ma in più, il concetto è in se stesso
contraddittorio ed assurdo. Infatti, dice Rensi, o Dio è fuori del tempo, ed è cosa immobile
e morta, che non fa e non vive; oppure è nel tempo ed allora abbiamo un Dio che cangia. O
morto o cangiante, in entrambi i casi non-Dio. Del resto, chiamare il mondo stesso Dio
come fa il panteismo è una tautologia insignificante; né giova chiamare Dio la forza, la
natura naturans, l’evoluzione creatrice: ciò è soffocare e far sparire Dio in energie
naturali; neppure è valido considerare Dio un essere impersonale: è una parola mal
adoperata, una contradictio in adiectio. Nonostante tutto quel che ha detto,
paradossalmente, Rensi non esclude però l’ateismo dal campo della religione. Vediamo in
che senso: l’ateismo è secondo lui una sorta di religione, anzi la più pura e alta delle
religioni perché l’uomo si sente di fronte al Tutto nella sua immensa grandezza e ciò
esclude ogni egoismo. La religiosità predicata dal Rensi è di tipo cosmico e si può quindi
fare a lui lo stesso rimprovero che egli imputava ai cosiddetti “falsi dèi”: non è una vera
religione. Gli diamo comunque atto della coerenza con cui ha difeso il suo ateismo,
cercando di renderlo puro e totale.
E in tempi più vicini a noi?
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Umberto Eco (1932-viv.) è forse l’intellettuale italiano più famoso, anche all’estero. Da
un cattolicesimo giovanile è passato ad una posizione di sereno ateismo, dichiarato più
volte anche con pungente ironia: “Sì, è vero, non credo più in Dio, ma forse Dio crede
ancora in me. Dunque manteniamo tra noi un certo rapporto” (citato in V. Messori,
Inchiesta sul cristianesimo, p. 35). Però non ama definirsi ateo bensì preferisce agnostico
perché “non si lasciano le sacrestie dei clericali per rifugiarsi in quelle degli atei”. È dunque
un “cane sciolto”e, se proprio vogliamo trovargli una collocazione, egli stesso parla di
“illuminista bizantino”, nel senso che “il semplice illuminista è uno che crede impossibile
trovare una spiegazione globale del mondo. L’illuminista bizantino sarebbe d’accordo, ma
sospetta sempre che forse non è plausibile neppure quello scetticismo: è uno che non
esclude che anche quella rete, quel labirinto che è l’universo dei segni in cui siamo immersi
abbia una nascosta spiegazione”. “Sì, l’aspetto razionale non basta a spiegare la mia storia
– confessa Eco – ma non basta neppure quello biografico. Altri che hanno avuto le mie
vicende, la fede l’hanno conservata”. Eco confessa ancora la “tragicità della scommessa
sull’inesistenza di Dio: chi punta così deve produrre molto più amore del credente, per
giustificare la sua vita e la sua morte”. E comunque – dice ancora Eco – “sono convinto che
alla fine, e anche qui non so come, ce la caveremo”. Se per caso il Cristo come giudice c’è
davvero e vuole imbastirmi un processo, gli dico più o meno le cose che sto dicendo a lei:
ho ragionato così e così e sono arrivato alla conclusione che non avresti dovuto esserci tu
ad aspettarmi. Credo che in questo modo potremmo arrivare a patti ragionevoli. Se invece
ragionevole non è, se è un Dio crudele e vendicativo che ha già deciso in anticipo il mio
destino, allora non voglio avere nulla a che fare con lui. Mi mandi pure all’inferno dove
almeno c’è gente per bene. Ma sono sicuro che, se Dio c’è, c’è il dio di San Tommaso; e con
lui si può ragionare. Abbiamo studiato sugli stessi libri. Siamo entrambi ex-allievi della
stessa università”.
Paolo Flores d’Arcais (!944-viv.) è uno dei pochissimi intellettuali italiani a proclamarsi
ateo. È fondatore e direttore della rivista Micromega, ricercatore presso l’università “La
Sapienza” di Roma, pubblicista; ha partecipato a dibattiti sui rapporti ragione e fede,
laicità ecc. Il più famoso è stato l’incontro moderato da Gad Lerner tra lui e l’allora
cardinale Joseph Ratzinger (ora papa Benedetto XVI) e pubblicato col titolo Dio esiste? .
Altro testo importante, edito da Einaudi, è il suo Etica senza fede. Comincerei proprio da
quest’ultimo.
Già nelle prime righe della prefazione, Flores d’Arcais dichiara: “Carte in tavola. Questo è
un libro ateo…”. L’ateismo è per lui “il sobrio rifiuto di occultare la nostra ineludibile
finitezza dietro l’ipostasi suprema … o dietro il mistero” (cfr. Etica senza fede, Einaudi,
Torino 1992, pp. VI e VII; d’ora in poi citato come ESF). Mentre alienazione è proprio il
rifiuto di accettare la nostra condizione di finitezza (ESF, 236); d’altra parte, non vi è
mistero da svelare: mistero è ormai solo il nome che diamo al sapere che non troviamo il
coraggio di sopportare. Non c’è significato da scoprire negli enti, che con gli accadimenti
esauriscono la realtà; ormai sappiamo la risposta alla domanda sul senso: nulla. (ESF;
229). Di fronte a questa condizione, moltiplichiamo le strategie di fuga: razionalizzazione,
rimozione, consolazione, assoluzione (ESF, 230). Anzi, sembra che oggi abbiano vinto o
continuino a vincere le idolatrie. L’eclisse del sacro, cioè dell’obbedienza all’alterità, non
sarà mai tale fino a che non coinciderà con il tramonto delle ipostasi, cioè di ogni idolatria.
Il ritorno del sacro è la conseguenza della vera drammatica eclissi dei nostri tempi, l’eclissi
della democrazia, e ne rappresenta la forma virtuosa e presentabile di rimozione e
rassegnazione (ESF, 235). Dobbiamo poter lottare per le promesse di libertà e giustizia
della modernità; dobbiamo poter lottare per un’etica della coerenza rispetto alla finitezza
del disincanto (ESF, 237). Ogni concessione alle illibertà e alle illegalità sono distruzione di
democrazia. La cura per la democrazia esige preliminare cura per la critica, e infaticabile
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vigilanza contro l’assedio della sragione dogmatico-fideistica, che dalla sua avrà sempre
potentissime pulsioni (ESF, 238).
Nell’altro testo citato, Dio esiste?, Flores d’Arcais ritiene che il cattolicesimo non si ponga
più il problema della verità dei suoi contenuti. Oggi la Chiesa teme solo lo scetticismo
consumistico, l’ateismo pratico dell’edonismo, l’indifferenza sazia e disperata. E pensa
perciò a convertire a partire da emozioni e bisogni, non da ragioni. Il cattolicesimo crede di
aver fatto definitivamente i conti con l’ateismo solo perché li ha vittoriosamente conclusi
con il comunismo. Ma questo non a niente a che fare con la ragione scientifica moderna,
con pensiero critico del disincanto (Dio esiste?, p. 85; d’ora in poi citato con D). A parte
quello, egli ripete le classiche obiezioni all’esistenza di Dio e alla religione: il male, il
peccato originale, “la fede come dado di senso per il brodo dell’esistenza” (D,95). È Dio che
va provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, poiché il finito c’è. Se poi la religione è
proposta come salvezza, si cade in una religione-psicologia, che dovrebbe consolare ma si
vede subito che sarebbe una risposta utilitaristica e pragmatica, “fin troppo umana”; per
cui una religione del senso (anziché della verità) sarebbe una religione non più di persone
ma di meri consumatori di senso (D, 97). E non ci si rifugi, dice Flores d’Arcais,
nell’obiezione che la religione sarebbe connaturata all’essere umano: visto che l’uomo può
arrivare all’ateismo, allora questa è la definitiva verità dell’Homo sapiens, mentre la
religione costituirebbe solo il residuo più sofisticato del primitivo animismo (D, 101). Egli
conclude dicendo due cose: da una parte, solo a partire da una fede che riconosca l’ateismo
della ragione, e che si proclami e pratichi perciò “quia absurdum”, è possibile un agire
comune fra uomo di fede e uomo del disincanto, e anzi un comune agire evangelico;
dall’altro però – e questo lascia stupefatti dopo tutto quello che Flores d’Arcais ha detto in
precedenza – il praticare la solidarietà effettiva e il primato del tu implica un dovere di
sacrificarsi che riesce in genere solo se si ha fede in un Altro (inteso proprio come Dio
padre); la pietra d’inciampo per l’ateo è l’incapacità della carità (D, 110-111). Quest’ultima
affermazione è molto pesante e rimette in discussione la posizione dell’ateo: egli sarebbe
comunque superato dal punto di vista morale dal credente? La santità è la risposta
all’ateismo?
Cito qui Piergiorgio Odifreddi (1950-viv.), docente universitario di matematica e logica,
autore di libri di divulgazione scientifica e di critica religiosa, perché nei siti web e nei libri
spara a zero contro il cristianesimo e la Chiesa cattolica ma non osa mai proclamare
chiaramente il suo ateismo: ed in effetti si tratta, nel suo caso, di un razionalismo oserei
dire esacerbato!
Per quanto riguarda la figura di Gesù, egli è un seguace della via mitica: non sa se Gesù sia
realmente esistito (quindi conclude che non esiste) ed è dunque spiegabile come un mito.
Ne Il Vangelo secondo la Scienza, ritiene che “non solo non è razionale credere in Dio ma è
razionale non credervi”(d’ora in poi citato come VSS, 189). La credenza nella religione
cattolica è messa in discussione per due sue caratteristiche: la prima è il dogmatismo su cui
si fonda, che la rende incompatibile con la concezione della dignità umana conquistata
politicamente attraverso le rivoluzioni inglese, americana, francese e russa, e teorizzata
filosoficamente da illuminismo, romanticismo, marxismo ed esistenzialismo; la seconda è
l’elenco dei dogmi che determinano la fede cattolica: trinità, duplice natura di Cristo,
purgatorio, transustanziazione, immacolata concezione e assunzione, infallibilità
pontificia. Odifreddi chiede: come si possono credere affermazioni che non si possono
capire? Il cattolicesimo si impicca dunque con la sua stessa corda: escludendo dalla
comunità ecclesiale coloro che non ne accettano tutti i dogmi, si autodefinisce come una
fede in cui nessuno può credere (VSS, 190-191). Alla domanda perché c’è questo universo
invece di un altro? Ovvero perché l’universo è strutturato nella maniera che conosciamo?
La risposta porta solo eventualmente al panteismo: Dio è il programma del mondo, più che
il suo programmatore (VSS, 206-209). Alla fine del percorso, riscopriamo, dice Odifreddi,
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quel che già diceva Pitagora: la vera religione è la matematica, e il resto è superstizione. O,
detto altrimenti, la religione è la matematica dei poveri di spirito. Il che, secondo
Odifreddi, permette di salvare il salvabile, e cioè l’esperienza spirituale, a cui si dovrebbe
ridurre la religione. L’esperienza spirituale è qualcosa che non ha ovviamente nulla di
soprannaturale e che consiste nella percezione del livello dell’intelletto, dell’ordine
implicato, dell’infinito assoluto, dell’atemporalità. Questa è la soluzione proposta da
Odifreddi per fondare una religione veritiera, su corretti fondamenti scientifici e
matematici (VSS, 211-215).
Concludo la rassegna con Giulio Giorello (1945-viv.), che insegna filosofia della scienza
all’Università di Milano, sulla cattedra che fu già di Ludovico Geymonat, suo maestro. Il
suo ateismo è sui generis, ammesso che lo si possa definire ateismo. La sua posizione
rifiuta piuttosto ogni assolutismo, sia da parte religiosa che da parte atea: ecco perché non
vuole essere di nessuna chiesa, sia essa ecclesiastica o scientifica o storica o politica o atea.
Nel suo libro più recente, Di nessuna chiesa. La libertà del laico, Egli critica in primo
luogo il concetto di relativismo, confuso – secondo Giorello – con una sorta di nichilismo o
di appiattimento della verità, mentre il contrario del relativismo è l’assolutismo. “Là dove
abbiamo buone ragioni per credere nella verità di una teoria o nella bontà di una norma,
non possiamo escludere in linea di principio che si possano trovare argomenti per teorie o
norme rivali”. E ciò vale per la scienza, come per il mito e la religione. Dal confronto (e
dallo scontro) ognuno ha da guadagnare; viceversa, far tacere anche uno solo è un danno,
prima che per lui, per il resto della comunità. È superstizione ritenere che per tale
confronto siano necessari un linguaggio e un patrimonio di valori condivisi. E queste non
sono questioni puramente accademiche, bensì riguardano le ragioni del vivere civile e le
stesse condizioni dell’etica. Non riguarda tanto la abusata contrapposizione tra fede e
ragione, quanto quella tra fallibilismo e infallibilismo, tra una verità che non pretende di
salvare neanche se stessa e una verità che promette salvezza a chiunque vi si sottometta,
tra una ragione che misura la propria gratuità e finitezza senza aver nostalgia di un
fondamento e una ragione che nell’imposizione del fondamento trova il proprio sostegno e
la propria giustificazione.
Essere di nessuna chiesa significa tollerare ogni chiesa, riconoscendone il diritto
all’espressione anche nel libero atto di prenderne le distanze. In questo senso,
l’indifferenza è la migliore garanzia di una piena fioritura umana. Sotto questo cielo, la
vera minaccia alla libertà viene non dal Diavolo, ma da terrene misure coercitive in cui si
dispiega la tentazione dell’infallibilità. Con ciò – afferma Giorello – non intendo dire che il
vecchio Dio dei monoteismi sia tramontato: chi è di nessuna chiesa non si ritrova neppure
in una chiesa di atei. Non ho nulla – conclude Giorello – contro l’idea che un qualche Dio
prenda corpo nella storia e partecipi alle vicende degli uomini: sappia solo che può anche
rischiare di prendersi una coscia di toro sul volto, come capitò, stando all’Epopea sumerica
e accadica, alla dea Inanna (Istar), oltraggiata dall’eroe Enkidu, sodale di Gigamesh nella
ribellione: “Se tu aiuti me, io aiuto te. Chi può prevalere su di noi?”.
In un dibattito con Bruno Forte su ragione e fede, Giorello ricordava che già Carlo Maria
Martini, il famoso studioso e arcivescovo di Milano, diceva che il confine tra credente e non
credente non divide esteriormente la popolazione ma passa dentro ciascuno di noi. Se
dunque dentro di sé ogni credente riconosce un non credente e un non credente riconosce
un credente, non c’è ragione per erigere inutili steccati che separino le persone, le quali
invece decidono liberamente di mettersi in relazione pur nelle differenze delle loro
convinzioni. Questo è il nucleo di una genuina società pluralistica.
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BIBLIOGRAFIA
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realtà pubblicato nella rivista La Critica, 20 novembre 1942).
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Flores d’Arcais, Etica laica tra disincanto e rivincita di Dio, ed. Casini
Forte-Giorello, Dove fede e ragione si incontrano? , San Paolo
Giorello, Di nessuna Chiesa. La libertà del laico, Cortina editore
Messori, Inchiesta sul cristianesimo, SEI
Odifreddi, Il Vangelo secondo la scienza, Einaudi
Ratzinger-Flores d’Arcais, Dio esiste?, il fondaco di Micromega,
Rensi, Le aporie della religione, ed. Etna
Rensi, Apologia dell’ateismo, n.ed. La Fiaccola Ragusa 1967
Rensi, Filosofia dell’assurdo, Adelphi
Torno, Senza Dio?, ed. Mondadori
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