Europa: le sfide odierne di un`avventura spirituale Si può leggere la

Europa: le sfide odierne di un’avventura spirituale
Si può leggere la costruzione europea come un’avventura spirituale senza cadere nella
retorica? Uno sguardo onesto sul presente consiglia prudenza. Le pulsioni antieuropeiste hanno
ormai contagiato, a torto o a ragione, fette significative dell’opinione pubblica, sia nei paesi
fondatori, sia in quelli coinvolti in tempi più recenti nel processo di unificazione. Ma al di là della
disillusione odierna, che fa da contrappunto al superficiale entusiasmo con cui le élite europee
salutarono il varo della Convenzione e della moneta unica, la questione è più radicale.
Un’avventura spirituale presuppone l’esistenza di un soggetto – nel nostro caso di un soggetto di
natura collettiva – dotato di una chiara coscienza della propria identità e vocazione storica.
L’Europa è mai stata un tale soggetto?
Lo è stata senz’altro, allorché i padri fondatori gettarono le basi della futura Unione. La
cornice delle loro prime iniziative aveva tratti desolanti: ovunque ferite aperte, nella carne e
nell’anima degli europei. Le rovine morali e materiali del Continente costituivano il funesto lascito
delle fedi totalitarie, che milioni di uomini avevano professato tra le due guerre sedotti dal
perverso carisma di duci e di avanguardie “illuminate”. Al netto dello loro differenze specifiche,
queste fedi condividevano due tesi fondamentali: sul piano filosofico, che l’uomo ha una storia,
non una natura; sul piano politico, che il diritto è figlio della forza, non della verità. I due assiomi si
sostenevano a vicenda: se l’uomo è un essere perfettamente storico, allora non c’è motivo di
distinguere tra il principio del diritto e la nuda forza.
La seconda guerra mondiale rese tragicamente evidenti gli effetti di questa integrale
storicizzazione della condizione umana. La persona, divenuta una quantité négligeable nel gran
teatro del mondo, venne sacrificata sull’altare dei feticci dinanzi ai quali il mainstream della
cultura europea si era nel frattempo inchinato: la civiltà, la razza, la classe, la nazione. Allora la
formula della vita morale coniata da Kant, quale epilogo del lento processo di “rischiaramento”
dello spirito umano (“tratta l’umanità sempre anche come fine e mai soltanto come semplice
mezzo”), venne gettata alle ortiche con sovrana noncuranza. Il volto del diverso – politico, etnico,
religioso – perse rapidamente agli occhi delle masse inquadrate nei rituali totalitari il connotato
dell’umanità e venne trattato di conseguenza. Con il nemico biologico o l’avversario di classe non
erano possibili compromessi: furono infatti utilizzarli come “materiali” inerti al servizio di scopi
superiori, senza che ciò destasse il minimo senso di colpa nei loro aguzzini. Ora, questa dolente
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parabola rivelò agli estimatori dell’illuminismo la precarietà delle sue conquiste morali e li pose
davanti a un bivio: accettare il nichilismo come punto di arrivo della cultura europea, ovvero
recuperare un rapporto positivo con le sue fonti giudaico-cristiane.
Gli artefici della grande riconciliazione post-bellica e i promotori del disegno unitario non
amavano la politique d’abord. Operarono, piuttosto, alla luce di una comprensione del loro tempo
che potremmo definite “metapolitica”. Intendiamo, con ciò, la capacità di rappresentarsi
determinati fatti storici come manifestazioni coerenti di atteggiamenti e scelte di carattere
filosofico. Nel caso specifico, i padri fondatori colsero lucidamente il nesso tra le pratiche di
annientamento, sperimentate su larga scala prima e durante il conflitto, e la negazione del rango
ontologico della persona umana. In altre parole riconobbero il legame non occasionale tra la
catastrofe politico-militare e la catastrofe antropologica e si chiesero in che modo scongiurare il
ripetersi, nel Vecchio Continente, di simili tragedie. La loro risposta ha fornito al disegno europeo
un decisivo fondamento etico: per estirpare il seme della violenza e inaugurare qualcosa di simile
alla “pace perpetua” vagheggiata da Kant occorreva restituire alla persona il primato nella
gerarchia dei valori etico-politici, ossia riconoscere la sua preminenza rispetto ad ogni altro agente
storico. Solo in virtù di un simile riconoscimento i popoli che si erano scontrati come irriducibili
nemici esistenziali avrebbero potuto imboccare la via di un’autentica fraternità e di una pace
duratura.
Non c’è dunque ragione di dubitare: la costruzione di un sodalizio politico tra i popoli
europei è stata, almeno nella sua fase pionieristica, un’autentica avventura spirituale. Poiché i
demiurghi dell'unificazione europea erano prevalentemente dei cristiani, si potrebbe pensare che
le loro anime belle abbiano voluto nobilitare il corso degli eventi al di là dei suoi prosaici obiettivi.
Chi non vuole peccare di idealismo, viceversa, si rifiuterà di sovraccaricare quel processo di valenze
metafisiche: il disegno europeo – per questo tipo di interprete – nacque orientato verso fini
squisitamente terreni e articolato in negoziati estenuanti, prosaici compromessi e tentacolari
burocrazie. E’ questa, peraltro, una visione angusta e poco rispettosa della realtà. Lo sfondo eticoreligioso del progetto di unificazione non può essere derubricato a sovrastruttura di un hard case,
una sorta di melassa “spiritualistica” congeniale ai suoi architetti. Va inquadrato, piuttosto, nel
contesto della ripresa di autorevolezza dell’antropologia cristiana e del diritto naturale che
contraddistinse i primi anni del secondo dopoguerra ben al di là dei confini ecclesiali. Allora il
legame tra la pace e il rispetto della trascendente dignità della persona riapparve nella sua
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stringente evidenza anche a chi si professava “religiosamente stonato”: basti pensare, per
esempio, agli ultimi scritti di Benedetto Croce.
Come spiegare questa koinè culturale, nella quale si ritrovarono spiriti così diversi? Forse
può aiutarci nell’impresa uno dei luoghi più alti della letteratura occidentale:
Zeus a saggezza avvia i mortali,
valida legge avendo fissato:
conoscenza attraverso dolore
(Eschilo, Agamennone, vv. 176 ss).
Il poeta enuncia in questo frammento una teoria della conoscenza sui generis, palesemente
estranea ai canoni della moderna ricerca scientifica, eppure largamente attestata nella coscienza
di quanti ripresero a tessere pazientemente il filo della civiltà europea dopo il suo ennesimo
collasso. In altre parole, la riduzione della vita umana ai suoi antecedenti biologici o sociali e lo
scempio del mondo che ne seguì, finirono per riaccendere nella coscienza comune il senso della
sua trascendenza. L’esperienza dell’umiliazione aveva in grembo i semi di una rinnovata
comprensione dell’umano. Isaiah Berlin ha descritto con impareggiabile lucidità quello che gli
europei riuscirono ad apprendere dalla catastrofe:
La realtà stessa dello choc rivela che esiste una scala di valori in base alla quale la maggioranza
dell’umanità regola di fatto la propria vita, e non meccanicamente o per mera abitudine, ma
come parte di ciò che nei suoi momenti di più lucida autocoscienza considera la natura
essenziale dell’uomo […] Lungi dall’essere stati scalzati dalle guerre e dalla degradazione della
personalità umana cui abbiamo assistito nel nostro tempo, i comuni fondamenti morali e
politici della nostra condotta sono emersi come qualcosa di più largamente e profondamente
radicato di quanto fosse sembrato durante i primi quarant’anni di questo secolo.
(I. Berlin, L’unità dell’Europa, in Il legno storto dell’umanità, Adephi, Milano 1994, p. 285)
Dunque lo choc riportò alla luce lo smisurato valore della persona, calpestato dai
totalitarismi. Da quel momento il singolo essere umano non venne più considerato la parte di un
tutto, la tessera di un complesso mosaico in se stessa priva di consistenza. Questa generale
consapevolezza guidò la redazione delle grandi costituzioni post-belliche (italiana, tedesca, greca,
polacca). Qui la dignità ontologica della persona venne recepita e formalizzata nella categoria dei
diritti fondamentali. Il senso di tale trascrizione giuridica può essere così riassunto: persone si
nasce, non si diventa. Nessuno può dunque arrogarsi il diritto di conferire o negare a un essere
umano la dignità che gli appartiene per natura. Riconoscere la trascendenza della persona è come
ammettere che esiste una sorta di arredo spirituale del mondo, una infrastruttura morale che la
nostra libertà può perfezionare ma non manipolare a suo piacimento.
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Fu questo l’ethos fondativo della costruzione europea. I suoi primi passi avvennero nel
clima di quello che John Rawls avrebbe chiamato un overlapping consensus: le grandi famiglie
culturali, istruite dal devastante lascito delle ideologie totalitarie, si assoggettarono a una fonte di
unità politica capace di purificare il principio della lealtà nazionale dalla sua deriva patologica (il
nazionalismo) e di aprirlo a esperienze di solidarietà più larghe di quella territoriale.
Che ne è stato di questa ispirazione originaria? Potremmo cavarcela dicendo che il
cammino del disegno europeo assomiglia a quello di tante storie d’amore: la fiammata iniziale si è
con il tempo sopita, lo slancio della fase costituente si è perduto nella estenuante ricerca di
compromessi più o meno soddisfacenti tra i diversi interessi nazionali. Questo spiega lo strato più
appariscente della nostra riflessione, che si è impegnata in un cammino a ritroso volto a
recuperare lo spirito dei padri. La memoria della loro visione è oggi particolarmente necessaria, a
fronte delle gravi difficoltà e battute d’arresto che il processo di unificazione sta scontando.
Tuttavia l’anamnesi non può risolversi nell’ingenua rievocazione dei bei tempi andati. L’ethos
fondativo ha subito nel corso del tempo una notevole correzione, di cui bisogna avere la
necessaria contezza.
Il nocciolo della questione è semplice: la visione della persona come realtà trascendente ha
perduto agli occhi dei più l’evidenza di un tempo. La “finestra cognitiva” apertasi all’indomani del
conflitto sembra essersi parzialmente richiusa. In altre parole, man mano che lo choc si è
attenuato, il fondamento etico-politico del processo di unificazione ha subito una torsione ed una
metamorfosi. Allora scettici incalliti come Croce e Berlin non ebbero difficoltà a riconoscere la
natura transistorica della persona, ritenendola un presidio insormontabile della sua dignità. Oggi,
al contrario, la dignità umana che le istituzioni comunitarie difendono e promuovono ad ogni
livello è un principio ampiamente de-ontologicizzato. La differenza tra le due posizioni è
macroscopica. In un caso, la libertà umana è chiamata a misurarsi con un ordine di valori che essa
scopre ma non inventa: dignità significa qui responsabilità per ciò che è buono e vero in se stesso.
Nell’altro, viceversa, la libertà umana è volontà di emancipazione, ribellione alla cieca impronta
del caso che mi ha assegnato, per esempio, una natura psicofisica contraria alle mie più profonde
inclinazioni: qui la dignità si realizza come capacità di plasmare se stessi, come arte del soulmaking.
Quali delle due libertà alimenterà i futuri passi dell’avventura spirituale che chiamiamo
Europa? Ecco il dilemma antropologico davanti al quale oggi ci troviamo. La memoria dell’inizio ci
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ha quanto meno offerto un’alternativa all’ossessione libertaria del nostro tempo, che vorrebbe
persino rendere superflua la nostra scelta.
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