DEFINIZIONE DI PSICOLOGIA SOCIALE La psicologia sociale si occupa dello studio delle modalità e delle motivazioni secondo cui i nostri comportamenti pensieri, sentimenti vengono modellati dall’ambiente sociale. Comunque se si vuole capire come l’ambiente sociale influenzi una persona, risulta più importante capire come essa percepisca o interpreti tale ambiente; gli psicologi sociale attraverso diversi esperimenti cercano di dare risposte a domande quali la causa dell’aggressività, del pregiudizio, dell’attrazione e via dicendo…. La psicologia sociale è una scienza sociale molto affine sia alla sociologia che alla psicologia della personalità ma allo stesso tempo se ne differenzia, in quanto con la prima perché la sociologia non tiene conto dell’aspetto psicologico di un determinato comportamento; con la seconda perché essa si sofferma troppo sui tratti di personalità come spiegazioni del comportamento sociale, invece la p.s. sottolinea come l’influenza sociale possa modificare la personalità di individuo. LA COGNIZIONE SOCIALE Le persone hanno bisogno di conoscere la realtà che le circonda, quindi anche le altre persone, per orientare il proprio comportamento in base all’ambiente in cui vivono. Questo problema ha contraddistinto la psicologia sociale sin dalle origini tanto che uno dei suoi approcci più importanti è proprio la social cognition. Questa corrente affonda le sue radici nella filosofia di Kant, secondo il quale i processi di conoscenza sono soggettivi: è la mente che organizza i dati che raccogliamo attraverso i sensi costruendo una realtà che va al di là dell’informazione data. I principi di base della cognizione sociale sono 2: 1- l’approccio olistico: esso è alla base della psicologia della Gestalt e si contrappone a quello elementari stico secondo il quale l’esperienza percettiva è il frutto dell’analisi dei singoli elementi. 2- una concezione della persona come individuo attivo, in grado di elaborare le informazioni che gli provengono dall’ambiente così da orientare il proprio comportamento sulla base del rapporto tra elementi cognitivi e motivazionali. Secondo LEWIN il campo psicologico di una persona dipende dall’interpretazione soggettiva che la persona costruisce sul proprio ambiente sociale; Questa concezione dell’uomo come individuo attivo ha avuto nel corso degli anni diverse rappresentazioni, quali: -il ricercatore di coerenza -lo scienziato ingenuo -il tattico motivato (fine anni 80) : cioè tutta l’attività di conoscenza è un processo motivato. Il modello attuale è quello del conoscitore motivato: l’individuo ha bisogno di ottenere una risposta chiara e definitiva ad un certo oggetto di conoscenza. ( la motivazione è il motore che guida il comportamento). A COSA SERVE LA CONOSCENZA SOCIALE? L’attività cognitiva è sempre motivata perché le persone hanno la necessità di conoscere la realtà in cui vivono per poterla controllare, prevedere e trasformare. La conoscenza sociale è un’attività motivata frutto dell’azione sociale e guida di essa; c’è infatti un legame fra pensiero e azione, così come sostenne Fiske: THINKING IS FOR DOING, pensare è per agire, quindi la cognizione sociale è al servizio dell’interazione sociale. Gli oggetti della cognizione sociale sono le persone che possono assumere due posizioni sociali fondamentali nel loro mondo sociale: - quella di attori del comportamento sociale; - quella di osservatori del proprio comportamento e di quello degli altri. COME FACCIAMO A CONOSCERE LA REALTA’ SOCIALE La conoscenza si organizza attraverso gli schemi e le categorie sociali. Infatti la conoscenza sulla realtà sociale deriva da due fonti di informazioni: 1- la realtà oggettivamente data (che sta fuori di noi); 2- il nostro modo di percepire la realtà. Il ruolo degli schemi nella ricostruzione della realtà è molto importante: gli schemi, infatti, sono strutture cognitive che contengono informazioni su un particolare oggetto di conoscenza (stimolo). Gli schemi facilitano i processi di conoscenza top-down (dall’alto in basso) cioè basati su concetti, conoscenze e teorie già depositate nella memoria delle persone. I processi di conoscenza di tipo schematico hanno il vantaggio di accorciare il lavoro cognitivo, ma possono originare una serie di errori dovuti al fatto che le persone possono negare l’evidenza della realtà per conservare le proprie opinioni e credenze. I processi top-down si contrappongono a quelli bottom-up (dal basso verso l’alto), i quali sono invece basati sui dati appena raccolti attraverso la percezione, ed hanno lo svantaggio di essere abbastanza dispendiosi sul piano temporale in quanto le persone centrano la loro attenzione su ogni singolo elemento d’informazione attinente l’oggetto da conoscere. Come utilizziamo gli schemi: quando incontriamo un nuovo stimolo di conoscenza dobbiamo prima di tutto riconoscerlo, tramite la classificazione all’interno di una categoria familiare sulla base delle caratteristiche che possiede. In questa fase si possono commettere errori per il fatto che alcune caratteristiche degli oggetti sociali possono essere condivise da esemplari di altre categorie. Perciò la questione fondamentale al riguardo della categorizzazione sociale è quella di identificare dei criteri di classificazione che permettano di percepire le somiglianze fra i membri della stessa categoria sociale e le differenze tra categorie differenti, tenendo conto che esistono attributi comuni a più categorie. Secondo la concezione aristotelica le categorie sono definite da un numero ridotto di criteri necessari e sufficienti, soddisfatti i quali ogni membro ha la piena appartenenza alla categoria in questione. Queste norme si applicano bene ad oggetti con una struttura semplificata mentre invece la realtà sociale risulta più difficile da classificare in basi a criteri così rigidi. Esistono diversi tipi di schemi sociali a seconda del tipo di informazioni contenute in essi (però tutti funzionano allo stesso modo): Gli SCHEMI DI PERSONA contengono le informazioni che ci aiutano a descrivere le persone in base ai loro tratti di personalità (socievole, aggressivo, simpatico) o ad altre caratteristiche che le contraddistinguono (scopi, finalità). L’attivazione di schemi relativi ad una persona facilita il ricordo e la comprensione delle nuove informazioni. Gli SCHEMI DI SE’ sono insiemi di strutture schematiche in cui sono contenute le informazioni che ci contraddistinguono. Il Sé costituisce un filtro di conoscenza per molti altri oggetti sociali, nel senso che siamo particolarmente attenti a quegli aspetti della realtà sociale che rimandano a noi stessi. Gli SCHEMI DI RUOLO sono importanti perché definiscono le aspettative comportamentali in relazione alle posizioni che le persone occupano in una data realtà sociale. I ruoli possono essere: - acquisiti, cioè ottenuti tramite intenzione ed impegno (quelli professionali); - ascritti, cioè acquisiti per nascita o per via automatica (età, appartenenza etnica, genere sessuale) → possono funzionare come stereotipi sociali, delle facilitazioni che però possono condurre ad una serie di errori. Gli SCHEMI DI EVENTI includono le conoscenze relative al modo in cui ci si comporta nelle diverse situazioni sociali, e le aspettative che abbiamo sul modo in cui si comporteranno gli altri (che dipendono dai vari ruoli sociali). Ovviamente i contenuti di alcuni schemi di eventi cambiano in base alle diverse culture, ma il loro funzionamento rimane abbastanza stabile. LE EURISTICHE Le euristiche sono strategie di pensiero semplificate, strategie cognitive che accorciano il tempo dei percorsi cognitivi che permettono di arrivare alla soluzione dei problemi. Presentano il vantaggio di guadagnare tempo e risparmiare energia mentale, ma il rischio è di giungere a giudizi grossolani, poco attendibili o errati. Ce ne sono di diverse: euristica della rappresentatività: riguarda nello specifico quei giudizi in cui le persone devono decidere se un certo esemplare appartiene ad una determinata categoria. euristica della disponibilità: si basa sulla frequenza o probabilità che un evento si verifichi. euristica della simulazione: viene utilizzata nella costruzione di scenari ipotetici, cioè quando immaginiamo come potrebbero evolvere certi eventi o come sarebbero potuti evolvere diversamente da come si sono verificati nella realtà. Ancoraggio e accomodamento Quando le persone si trovano a dover emettere giudizi sulla base di informazioni incerte o ambigue cercano dei punti di riferimento (una conoscenza nota) a cui ancorarsi e accomodare il giudizio sulla base di altre informazioni pertinenti. La base per l’ancoraggio è fornita dall’esperienza personale: infatti, i propri tratti, le proprie credenze e i propri comportamenti rappresentano frequentemente punti di ancoraggio per il giudizio sociale. L’ATTRIBUZIONE CAUSALE Le persone hanno bisogno di trovare un significato per le esperienze che vivono o di cui sono spettatrici, di interpretare e spiegare gli eventi sociali che le circondano. Uno degli scopi fondamentali dei processi di attribuzione causale è dato dal bisogno di spiegare gli eventi sociali al fine di controllare e prevedere il modo in cui si verificano per poter attuare azioni ad essi congruenti. Infatti, se siamo consapevoli del modo in cui le cose accadono possiamo creare le condizioni perché esse accadano o per evitarle. IL GIUDIZIO SOCIALE Le persone, oltre a conoscere il proprio mondo lo valutano per cui gli atteggiamenti, le impressioni che ci si forma circa le altre persone, la reputazione di cui esse godono sono elementi che possono aiutare a capire il giudizio sociale e quindi i comportamenti dell’attore sociale. GLI ATTEGGIAMENTI Il termine atteggiamento è stato utilizzato per la prima volta nella ricerca di due sociologi, Thomas e Znaniecki, nel 1918, i quali lo definirono come un processo della coscienza individuale che determina l’azione. Gli atteggiamenti possono essere inclusi nei valori sociali: infatti, gli atteggiamenti vengono concepiti come relativi ad un singolo oggetto mentre i sistemi di valore sono degli orientamenti verso intere classi di oggetti. Gli atteggiamenti individuali sono spesso organizzati entro un sistema di valori. La prima definizione di atteggiamento (piuttosto generica) fu quella di Gordon Allport, il quale lo considerava uno stato mentale o neurologico di prontezza, organizzata attraverso l’esperienza, che esercita un’influenza sulla risposta dell’individuo nei confronti di ogni oggetto o situazione con cui entra in relazione. Il modello tripartito degli atteggiamenti l’atteggiamento è costituito da 3 componenti diverse: 1- componente cognitiva (le informazioni e le credenze che gli individui possiedono a proposito dell’oggetto a cui si volge l’attenzione); 2- componente affettiva (la reazione emotiva che l’oggetto suscita); 3- componente comportamentale (l’azione di avvicinamento o esitamento rispetto all’oggetto). La componente più studiata è stata sicuramente quella affettiva. Come si formano gli atteggiamenti? 1. Esperienza diretta 2. Osservazione del comportamento altrui (associazione debole) 3. Comunicazione (associazione molto debole) Come si misurano gli atteggiamenti - SCALA LIKERT La misurazione di gran lunga più utilizzata oggi è quella che si serve delle scala Likert : vengono presentate delle affermazioni, ciascuna delle quali è seguita da una risposta a scelta multipla fra opzioni che vanno da “fortemente d’accordo” a “fortemente in disaccordo”; ad ognuna di queste opzioni viene attribuito un codice numerico (da 5 a 1) che consente di effettuare varie operazioni. 1 La mia famiglia dovrebbe eliminare la carne dalla nostra dieta Totale 1 2 3 4 5 6 disaccor do - 7 Pieno accordo METODO DEL DIFFERENZIALE SEMANTICO è costituito da un insieme di coppie di aggettivi opposti separati da (in genere) 7 spazi che rappresentano una gradazione da uno all’altro cosicché si possa scegliere lo spazio che rappresenta meglio la propria valutazione dell’oggetto in questione. Esempio di differenziale semantico - conformismo Come giudica il conformismo? Cerchi di rispondere rapidamente sulla base delle sue impressioni aggettivi che seguono… buono bello Gradevole - immediate, utilizzando gli - - Pregevole - - - - - - - Giusto desiderab ile - - - - - - - cattivo Brutto Sgradev ole Spregev ole Ingiusto indesider abile Queste scale per la misurazione degli atteggiamenti possono essere considerate tecniche indirette in quanto il soggetto riporta il proprio punto di vista rispondendo a delle domande che rimangono totalmente sotto il suo controllo quindi il rischio è quello di raccogliere dati frutto della desiderabilità sociale piuttosto che della realtà del fenomeno. Per queste ragioni a volte gli studiosi impiegano tecniche meno dirette di misurazione, come le reazioni fisiologiche (la risposta elettrogalvanica della pelle o l’attività dei muscoli del viso) che l’oggetto di atteggiamento induce nel soggetto. Questo genere di misure però sono molto intrusive (richiedono molta collaborazione da parte del soggetto) e complicate. Recentemente si ricorre sempre più spesso alla misura del tempo di latenza nell’espressione della risposta stessa perché la velocità di risposta indica un alto livello di accessibilità dell’atteggiamento e anche un forte grado di coinvolgimento del soggetto rispetto alla tematica. Il cambiamento degli atteggiamenti Gli atteggiamenti possono subire cambiamenti nel corso del tempo: - a causa dell’esposizione alla comunicazione persuasiva (un messaggio in cui si sostiene la validità di un’opinione oppure l’opportunità di adottare un certo comportamento, metodo applicato soprattutto nel campo della propaganda politica e della pubblicità); - attraverso processi individuali, come la ripetuta esposizione allo stimolo; Un processo di natura motivazionale che porta al cambiamento è stato individuato da Festinger (1957). La teoria della dissonanza cognitiva (Festinger, 1957) secondo la quale l’individuo ha la necessità di mantenere la coerenza fra le cognizioni che possiede circa se stesso, il proprio comportamento e l’ambiente; se due cognizioni sono attinenti ma non coerenti (es. indossare il casco) la dissonanza che ne deriva provoca disagio emotivo che l’individuo desidera rimuovere e riportare in equilibrio attraverso diverse strategie. La prima strategia utile consiste nel modificare l’elemento dissonante meno resistente (cambiare il comportamento indossando il casco oppure modificare la credenza sulla sua utilità ricorrendo a tutti gli esempi in cui questo non è servito ad evitare disastri. ESPERIMENTO DEI 20 DOLLARI PER UNA MENZOGNA: gli sperimentatori chiedevano ai soggetti sperimentali, che partecipavano uno alla volta, di svolgere un compito molto noioso. In seguito, lo sperimentatore chiedeva a ciascun partecipante di collaborare, riferendo a un altro presunto studente che il compito era molto interessante e stimolante per indurlo a partecipare allo studio. A metà dei partecipanti veniva promessa una ricompensa di 20 dollari per la propria menzogna, mentre all’altra metà veniva promesso 1 dollaro Successivamente chiedevano ai partecipanti di valutare il compito: I partecipanti ricompensati con 20 dollari giudicavano le prove meno interessanti di quelli ricompensati con un dollaro; PERCHÉ? Nell’esperimento chi veniva ricompensato con 20 dollari per aver raccontato una bugia si sentiva meno incoerente, trovandosi in una situazione meno disagevole di chi veniva ricompensato con 1 dollaro; Erano soprattutto questi ultimi a cercare di ridurre il proprio disagio modificando la propria valutazione delle prove. Proviamo dissonanza dopo che abbiamo preso una decisione e la dissonanza funge da motivazione per il cambiamento. RUOLO DEL SENTIMENTO DI LIBERA SCELTA: solo quando l’individuo ha la sensazione di aver attuato liberamente il comportamento l’atteggiamento sarà motivato a modificare quest’ultimo. dissonante con La formazione delle impressioni sulle persone Ipotesi di Ash Solomon Asch afferma che le persone si formano prima un’impressione globale entro la quale fanno poi rientrare le ulteriori informazioni che li descrivono. Concepiamo cioè le persone come unità psicologiche: è questa l’idea alla base del suo modello configurazionale, basato su un approccio di tipo olistico che rimanda all’impostazione gestaltista. Secondo l’effetto primacy, i primi tratti servono a formare la prima impressione ed hanno un effetto molto superiore rispetto a quelli successivi; vengono quindi utilizzati per interpretare i tratti seguenti. Infatti, i tratti negativi non sembrano poi tanto tali quando devono essere interpretati alla luce di una serie di qualità positive gia considerate, e viceversa. Secondo Anderson (1965) invece, l’effetto primacy è dovuto semplicemente ad un calo di attenzione. Per questo propone un modello algebrico secondo il quale l’impressione che ci formiamo di una persona è costituita dalla media ponderata delle informazioni a disposizione su quella persona. Stadi nella formazione delle impressioni secondo Fiske e Neuberg: Formulazione di una impressione a partire dalle appartenenze categoriali evidenti Se questa risulta conforme, il soggetto si fermerà a utilizzare la categorizzazione confermativa Se percepisce incongruenza, procederà alla ricategorizzazione Se nessuna informazione coincide con quelle in suo possesso, procederà a una elaborazione dei singoli elementi informativi su base individuale. LA FORMAZIONE DELLA REPUTAZIONE Le fonti delle informazioni sugli altri, cioè le modalità per conoscere gli altri sono 3: 1- l’osservazione diretta del comportamento 2- l’ascolto di ciò che gli altri vogliono rivelare di sé; 3- la ricezione di informazioni da terzi (che forma la reputazione). Nicholas Emler definisce la reputazione come un giudizio formulato da una comunità su un individuo in particolare. Infatti, perchè un individuo abbia una reputazione sono necessarie 3 condizioni: 1- che faccia parte di una comunità con membri relativamente stabili; 2- che questi parlino fra loro del comportamento e delle qualità altrui; 3- che le persone siano legate tra di loro in una rete di conoscenze anche indirette La reputazione, inoltre, è specifica dei contesti, e questo è dovuto non solo al fatto che ci si comporta in modo diverso a seconda del contesto in cui ci troviamo, ma anche alle aspettative diverse e ai sistemi di norme e valori differenti per ogni gruppo sociale. Il singolo individuo, attraverso i suoi comportamenti, cerca di controllare e in qualche modo gestire la sua reputazione. Ma l’individuo non può controllare interamente l’esito finale di questo processo perché la reputazione, una volta stabilizzatasi, diventa difficilmente modificabile ETICHETTAMENTO È la connotazione negativa della reputazione da parte della comunità ed esprime un giudizio morale, che produce una sorta di circolo vizioso cioè l’individuo finirà per soddisfare le aspettative che gli altri nutrono nei suoi confronti. LE RAPPRESENTAZIONI SOCIALI la Rappresentazione sociale è un modo specifico, particolare di esprimere la conoscenza in una società e nei gruppi che la compongono. Esse possono essere condivise da tutti i membri di un gruppo, un’etnia, una classe sociale o un partito anche se non sono state elaborate dal gruppo stesso. Sono, dunque, “elaborazioni di un oggetto sociale da parte di una comunità che permette ai suoi membri di comportarsi e di comunicare in modo comprensibile” (Moscovici, 1963) A CHE COSA SERVONO LE RAPPRESENTAZIONI SOCIALI Le rappresentazioni sociali sono elementi costituenti dell’ambiente psicologico in cui vivono individui e gruppi che li utilizzano per dare senso comune a fenomeni che appaiono, in un primo momento, come estranei alla mentalità corrente. Per Moscovici, la funzione di tutte le rappresentazioni sociali è prima di tutto quella di rendere familiare ciò che è estraneo, distante rispetto all’esperienza delle persone che costituiscono il gruppo coinvolto nel rapporto con la realtà. Le rappresentazioni sociali sono stabili e allo stesso tempo flessibili. Esse sono: • stabili nel senso che durano nel tempo e sono un riferimento per singoli e gruppi; • flessibili nel senso che sono modificabili e sostituibili da altri modello dopo “revisione e rielaborazione” da parte del gruppo. I due processi da cui prendono origine le rappresentazioni sociali sono: 1. ANCORAGGIO: Questo processo consente di incorporare qualcosa che non ci è familiare e ci crea problemi nella rete di categorie che sono a noi proprie. Il termine equivale a “porre un oggetto sconosciuto in un quadro di riferimento ben noto per poterlo interpretare. È un meccanismo finalizzato alla riduzione della paura verso il non familiare. 2. Oggettivazione: Esso fa entrare la realtà percepibile, concreta, figurata nei concetti e nei fenomeni che non sono familiari; Moscovici definisce “naturalizzazione” il processo che trasforma i concetti in categorie sociali sicure, da concetti astratti a entità obiettive. SISTEMI DI COMUNICAZIONE Moscovici individua 3 modalità di comunicazione: 1. diffusione. Un sistema di comunicazione che non si pone il problema di fornire elementi perché i lettori possano porsi in modo informato e coerente; opinione 2. propagazione. Chi scrive tende a fornire elementi che portino alla formazione di una posizione interessata e critica atteggiamento 3. propaganda. Chi scrive tende a produrre una presa di posizione netta, definitiva, priva di sfumature stereotipo 4. Esiste un ultimo tipo di comunicazione, orientato a stimolare un atteggiamento positivo proposta CAPITOLO 4 – IL SÉ E L’IDENTITÀ L’attore sociale è una persona che entra in contatto con la realtà, se la rappresenta, la conosce, agisce in modi diversi su di essa, riflette su se stessa, si rappresenta i cambiamenti provocati su di sé dall’incontro con la realtà, da come essa si modifica, anche per il suo intervento. L’attore sociale è il protagonista che vive ed opera ad un momento dato nella realtà fisica, psicologica, sociale e culturale. È in grado non solo di conoscere ma anche di riflettere su se stesso e di prendere l’iniziativa nel contesto in cui è inserito. L’attore sociale è quindi quella persona che: - entra in contatto con la realtà; - se la rappresenta; - conosce; - agisce in modi diversi su di essa; - nello stesso tempo riflettendo su se stessa; - rappresentandosi i cambiamenti provocati su di sé dall’incontro con la realtà, dalle rappresentazioni di essa, da come si modifica, anche per il suo intervento. All’interno del Sé bisogna distinguere due componenti: 1- l’Io, che coincide con il soggetto consapevole, capace di conoscere ed intraprendere iniziative nei confronti della realtà esterna, oltre che di riflettere su di sé; 2- il Me è quanto del Sé è conosciuto dall’Io, cioè quello che vedo di me, percepisco di me, il modo in cui mi vedo: include le caratteristiche materiali (il corpo così com’è percepito), quelle sociali (come il soggetto si vede nel rapporto con gli altri) e quelle spirituali (il sapersi capace di pensare e riflettere su di sé). Le relazioni sociali hanno un ruolo importantissimo nella definizione del Sé. Soltanto attraverso l’interazione sociale l’individuo sviluppa la conoscenza di sé e il sentimento della propria identità. L’interazione fra l’Io e il Me (riflesso della società) produce il Sé in quanto non potrebbe esistere un’esperienza di sé semplicemente fornita da se stesso, quindi implica sempre la presenza di un altro. FORME DELLA CONOSCENZA DI SE’ Neisser (1988) uno dei padri fondatori del cognitivismo, presenta una lista di cinque tipi di conoscenza di sé. 1. Il Sé ecologico: riguarda come il Sé è percepito in rapporto all’ambiente fisico. Compare molto precocemente, fin già a partire dai 3 mesi di età. La percezione ecologica di sé è in genere cosciente, essa è definita dall’esistenza di un corpo, anche spesso esso comprende tutto ciò che si muove insieme al corpo. Ha un esistenza oggettiva. 2) Il Sé interpersonale: è il Sé coinvolto in una interazione immediata e non riflessa con un’altra persona.Se le azioni di un’altra persona si incontrano con qualità appropriate dell’azione dell’altro si crea un caso di intersoggettività. E’ definito dall’orientamento e dallo svolgersi dei gesti espressivi dell’altro. 3) Il Sé esteso: è come era il Sé nel passato e come ci aspettiamo sia in futuro, basato quindi su quanto ricordiamo e quanto anticipiamo. L’amnesia è una patologia del Sé esteso. 4) Il Sé privato: verso i 4 anni il bambino diviene consapevole che sua vita mentale è esclusivamente sua. Abbiamo esperienze private (sogni, pensieri,…) che arricchiscono il Sé esteso. 5) Il Sé concettuale: chiamato anche concetto di sé, concerne i ruoli sociali. Esso tende a guidare quello che ciascuno rivela su sé stesso. Si costruisce su idee elaborate nel sociale e comunicate verbalmente. Gli schemi di sé il concetto di sé è costituito da un insieme si schemi si sé, fine di recuperare rapidamente le informazioni dalla memoria grazie alle quali identificare ciò che è e ciò che non è, nonché prevedere ed orientare il proprio comportamento. Gli schemi di sé variano profondamente da persona a persona, possono essere sia positivi che negativi e non sono facilmente modificabili poiché collegati al sentimento d’identità. Discrepanze del Sé Secondo Higgins (1987) l’individuo ha una rappresentazione: - di come è (Sé reale) - di come gli piacerebbe essere (Sé ideale) - di come dovrebbe essere (Sé normativo). Se c’è discrepanza tra Sé reale e Sé ideale scoraggiamento, insoddisfazione. Se c’è discrepanza tra Sé reale e Sé normativo agitazione, paura, ansia. A seconda del tipo di cultura, i giudizi su di sé e sugli altri sono formulati in riferimento a diversi standard: - per le culture individualiste è il raggiungimento del successo personale, quindi esse tendono a valorizzare caratteristiche come l’intelligenza e la competenza personale; le culture individualiste sono per lo più centrate sull’idea dell’indipendenza e dell’autonomia (la timidezza viene vista come un handicap); - per le culture collettiviste è l’appartenenza ad un determinato gruppo (o famiglia) e il posto che questo occupa nel tessuto sociale, cosicché queste valorizzano maggiormente la costanza, la persistenza nel compito, lo sforzo; le culture collettiviste sono più protese verso interdipendenza (è la solitudine ad essere vissuta come un handicap). CAPITOLO 5 Tipologia delle relazioni Kelley propone una definizione di relazione significativa affermando che una relazione è tale se si basa su una forte interdipendenza fra i partner (influenzano i comportamenti reciproci) non solo in qualche ambito ma in molti contesti e per lungo tempo. Le scale di rilevazione dei sentimenti hanno l’obiettivo di quantificare i diversi tipi di sentimenti. Uno dei primi tentativi in questo senso è stato quello di Rubin il quale ha messo a punto due scale: 1- la Liking scale, che si propone di cogliere il grado di piacevolezza attribuito al partner, in termini di affetto e rispetto; 2- la Love scale, che intende mettere in luce tre aspetti: l’attaccamento, il prendersi cura e l’intimità. Una delle classificazioni che ha conosciuto maggiore considerazione è quella chiamata Triangolo dell’amore, formato da tre componenti: 1- intimità (implica la comprensione reciproca, la complicità e il sostegno emotivo); 2- passione (comprende l’attrazione fisica, il desiderio sessuale, la sensazione di essere innamorati); 3- livello di impegno/decisione nei riguardi del partner. Queste tre componenti entrano in varia misura nei vari tipi di relazioni, combinandosi dando origine a 7 classi di sentimenti: 1- attrazione; 2- infatuazione; 3- amore abitudinario; 4- amore romantico; 5- amicizia profonda; 6- amore fatuo; 7- amore completo. Gli stili di relazione sono il prodotto del tipo di legame di attaccamento che i bambini formano con gli adulti (in primo luogo con i genitori). La formazione delle relazioni I fattori che favoriscono la nascita delle relazioni sono: - la prossimità: non si tratta banalmente di un problema di distanza fisica, quanto piuttosto di distanza funzionale, cioè di probabilità di avere contatti. - la percezione di somiglianza, considerato il fattore principale di attrazione (somiglianza di opinioni, non di personalità, che minaccia il senso di unicità dell’individuo!); - l’aspetto fisico, secondo lo stereotipo che associa la bellezza ad altre qualità positive; - la rivelazione di sé, cioè l’apertura all’altro (self-disclosure): infatti, non solo le persone tendono ad aprirsi maggiormente con coloro dai quali sono più attratte, ma questa apertura viene anche recepita dall’altro come segno di apprezzamento. Riguardo alla soddisfazione, la teoria dello scambio di Homans formula un principio applicabile a qualsiasi tipo di relazione sociale: un individuo rimane in una relazione finché il partner gli assicura il massimo dei benefici al minimo costo (si tratta di un modello economico del comportamento umano). Finché è soddisfatto rimane nella relazione, altrimenti ne esce. Le critiche fatte alla teoria dello scambio si riferiscono soprattutto al fatto che un principio economico venga applicato ad un fenomeno così complesso come il mantenimento di una relazione fra persone. La considerazione del ruolo dell’equità fra i benefici propri ed altrui deriva da uno sviluppo della teoria dello scambio e afferma che un individuo valuta soddisfacente una relazione se ricava benefici (di natura simbolica oltre che materiale) pari ai costi che essa comporta: infatti, se in una relazione uno dei due membri riceve più di quanto offre, la stabilità è fortemente a rischio. Il principio dello scambio si applica solo alle relazioni di scambio (di lavoro e fra estranei), mentre nelle relazioni di condivisione (quelle intime) prevale l’interesse per il benessere dell’altro (il prototipo è quello della relazione madre-figlio). Inoltre, il principio dell’equità è tipico delle società individualiste (quelle occidentali) mentre spesso non vale per le società collettiviste (orientali). Queste teorie, per di più, sottovalutano il ruolo delle abitudini consolidate, la resistenza al cambiamento, il senso di incertezza riguardo al futuro e le pressioni sociali e culturali a mantenere relazioni di coppia anche quando queste diventano svantaggiose. LA COMUNICAZIONE La comunicazione è un processo dinamico e circolare che richiede la condivisione di codici astratti (il linguaggio e i significati dei segnali non verbali): non si tratta di un comportamento intenzionale in quanto non si può non comunicare. I sistemi della comunicazione verbale sono: - fonemi; - morfemi; - parole; - frasi, ecc. I sistemi della comunicazione non verbale sono: - segnali paralinguistici (intonazione, volume di voce, vocalizzazioni per la regolazione dell’avvicendarsi dei turni di parola); - le espressioni del volto (tra cui il contatto visivo, cioè gli sguardi), che forniscono anche informazioni sull’attività de decodifica del messaggio da parte dell’ascoltatore; - il comportamento spaziale [posizione del corpo, gesti, la distanza e il contatto fisico fra i parlanti (per il quale vanno distinte le culture da contatto dalle culture di non contatto)]. Le espressioni non verbali variano da persona a persona ma soprattutto da cultura a cultura. LA COMUNICAZIONE COOPERATIVA Partecipare ad una conversazione comporta un’azione cooperativa nella quale gli attori sociali riconoscono almeno uno scopo comune o un insieme di scopi comuni. La conversazione come azione sociale di tipo cooperativo è governata da regole implicitamente riconosciute dai partecipanti. Se uno degli interlocutore viola una di queste massime può venir meno il principio di cooperazione e può quindi esserci l’interruzione dello scambio. CAPITOLO 6 – L’AGGRESSIVITÀ E L’ALTRUISMO GLI ESSERI UMANI SONO “NATURALMENTE” BUONI O CATTIVI? Per Hobbes, le persone sarebbero inclini all’aggressività verso i propri simili, quindi necessitano di istituzioni sociali in grado di reprimere le tendenze antisociali in funzione delle esigenze della convivenza civile. Al contrario, Rousseau sostiene la concezione di una natura fondamentalmente buona, corrotta proprio dalle esigenze della civiltà. Secondo Freud, invece, l’aggressività umana è inevitabile e frutto della tensione fra due istinti primari, quello di autoconservazione (Eros) e quello di autodistruzione (Thanatos), che emana un’energia distruttiva che dev’essere indirizzata verso l’esterno, ad esempio attraverso il comportamento aggressivo. L’approccio etologico condivide con quello freudiano l’idea della naturalità dell’aggressività umana, in quanto funzionale alla conservazione della specie. Perciò dovrebbe essere la società ad indirizzare le energie negative dei singoli verso forme di scaricamento socialmente accettabili (come le competizioni sportive) anche se non sempre dare la possibilità di manifestare comportamenti aggressivi diminuisce la carica di aggressività. E anzi, essere esposti a comportamenti violenti aumenta la probabilità di una risposta di tipo aggressivo da parte dell’individuo. Spiegazioni del comportamento antisociale La frustrazione La frustrazione può essere la causa di un comportamento aggressivo, cioè quando degli ostacoli si frappongono fra l’individuo e il raggiungimento dei suoi fini. Le critiche all’approccio frustrazione-aggressività si appoggia sul fatto che ci sono casi in cui la frustrazione trova sfogo in forme di risposta non aggressive, come il pianto, la fuga, l’apatia. Perciò Berkowitz propone la teoria dell’apprendimento sociale, secondo la quale ogni sentimento negativo può produrre aggressività, ma questa diventa la risposta dominante solo a determinate condizioni. L’imitazione All’inizio del ‘900 la psicologia delle folle introduce l’idea che l’aggressività prenda il via dall’imitazione, all’interno di vasti gruppi sociali: infatti le persone sarebbero facilmente manipolabili da qualcuno dotato di particolare carisma e prestigio. Secondo la teoria dell’apprendimento sociale (formulata negli anni ‘60) l’aggressività sarebbe un comportamento sociale come gli altri, che viene acquisito e mantenuto a determinate condizioni. Le condizioni per l’apprendimento di comportamenti aggressivi sono: - l’esperienza diretta; - l’osservazione di qualcuno che attua un comportamento in una determinata situazione e delle conseguenze che ne ricava C’è sicuramente una relazione fra programmi televisivi a contenuto violento e livello di aggressività manifesto, però non si sa se sono le persone violente a preferire quel tipo di programmi oppure sono i programmi violenti a causare comportamenti imitativi. Le norme sociali anche le norme sociali e l’obbedienza all’autorità hanno dimostrato di svolgere importanti funzioni nell’aggressività L’esperimento di Milgram. (L’esperimento mirava, oggi come allora, a misurare la volontà di un partecipante ad obbedire a un autorità anche qualora questa lo istruisse a fare qualcosa che fosse palesemente in conflitto con la sua coscienza e la sua moralità. Gli studi di Milgram vennero effettuati per rispondere a una domanda precisa: i milioni di persone normalissime che si resero responsabili e complici dell’olocausto, avevano semplicemente obbedito a un ordine? Nel 1961 Stanley Milgram cercò di spiegare questo fenomeno attraverso un esperimento: attraverso i giornali convocò 40 volontari, spiegando che voleva effettuare uno studio sugli effetti della punizione per una prestigiosa università. A questi spiegò che essi svolgevano il ruolo di "maestri" e che erano incaricati di punire gli "allievi"(già in precedenza istruiti dallo sperimentatore).Mise i maestri davanti a dei pulsanti che producevano delle scariche elettriche fino a 450 volt. L'allievo era invece collocato su una sedia nella sala affianco a quella dei maestri. Milgram spiegò che le scariche erano fondamentali per la riuscita dell'esperimento e che se non avessero seguito le sue direttivo l'esperimento non avrebbe avuto senso. Così si videro persone normalissime inviare scariche elettriche anche fino a 300 volt(anche se questo era simulato)e questo perchè i maestri eseguivano tutte le direttive di Milgram. Da questo esperimento si dedusse che persone normali, sotto dei precisi comandi rispetto alle autorità, riescono a compiere atti inumani: basti pensare ai comportamenti all'interno di organizzazioni militari o di polizia. I fattori che ne danno origine sono: -La legittima autorità, cioè che l'esperimento è avvenuto da una persona di una certa autorità e sotto un prestigiosa università. -La distanza dalla vittima, infatti secondo altri esperimenti si constatò che quando il maestro era seduto vicino all'allievo o si trovava nella stessa stanza le scariche diminuivano. -La vicinanza all'autorità: quando lo sperimentatore sedeva accanto al maestro la sottomissione aumentava, se invece lo sperimentatore stava in un'altra stanza o i comandi venivano imposti telefonicamente la sottomissione era di gran lunga inferiore e le scosse diminuivano.) Livelli di spiegazione dei comportamenti pro sociali L’altruismo Così come alcuni etologi hanno sostenuto che l’aggressività è funzionale alla conservazione della specie, altri hanno messo in evidenza che i comportamenti prosociali servono allo stesso scopo (basti pensare alle formiche e alle api, specie nelle quali gli individui sterili spendono la loro vita nell’aiuto e nella protezione di quelli fecondi, oppure agli animali che, avvistando un pericolo, emettono segnali per allertare gli altri individui della stessa specie), cioè alla sopravvivenza degli individui della stessa famiglia. Questa osservazione però non è sufficiente a spiegare i comportamenti altruistici che gli umani attuano a favore di persone non consanguinee. Si potrebbe quindi pensare che l’altruismo sia una dimensione della personalità, anche se in questo caso il fattore più importante sarebbe la percezione della propria efficacia (la credenza di essere in grado di agire positivamente nelle situazioni) ma in realtà questa non è sufficiente a prevedere la messa in atto di comportamenti altruistici. Il ruolo dell’empatia L’empatia è un’attivazione emotiva fatta di compassione, tenerezza, simpatia, da parte di una persona che osservi un’altra in difficoltà, grazie al fatto che l’osservatore assume la prospettiva della persona in difficoltà e prova uno stato emotivo simile al suo. È questa capacità a rendere probabile un intervento di aiuto. Quindi la percezione di somiglianza, o anche di appartenenza allo stesso gruppo, favorisce l’insorgere dell’empatia. Il disagio personale e la reale preoccupazione per la sorte dell’altra persona possono indurre l’individuo ad agire, ma lo stato d’animo negativo può essere rimosso anche attraverso la fuga o l’evitamento della situazione. Quando l’evitamento non è possibile, l’aiuto può anche non essere il frutto di puro altruismo ma essere motivato dalla necessità di rimuovere il disagio personale. È questa la cosiddetta ipotesi del sollievo dallo stato negativo, la quale mette in evidenza che i rapporti prosociali derivano da una motivazione fondamentalmente egoistica: il desiderio di rimuovere l’angoscia che provoca la vista della sofferenza altrui. È per questo che gli individui non intervengono quando la situazione permette vie di fuga, per esempio nel caso in cui gli osservatori siano numerosi (diffusione di responsabilità). Anche in situazioni in cui la fuga è possibile ci sono individui che scelgono di prestare il proprio aiuto, e sono i casi in cui il reale interesse per la sorte dell’altro prevale ed è il prodotto della capacità empatica vera e propria. Infatti, secondo il modello dell’empatia-altruismo, la preoccupazione per le sofferenze altrui è una motivazione sufficiente per spiegare comportamenti prosociali. Le norme sociali -Nelle relazioni interpersonali, quindi, una delle norme principali è quella di reciprocità, secondo la quale bisogna restituire l’aiuto a chi lo ha offerto in passato o potrà farlo in futuro. Questa norma ha carattere universale, nel senso che in tutte le società umane è uno dei criteri fondanti della moralità e della vita collettiva. -Un’altra norma è quella della responsabilità sociale, secondo la quale ci sentiamo in obbligo di agire in favore di chi dipende da noi. Questa regola vige innanzitutto nella famiglia: i membri che non sono in grado di prendersi cura del proprio benessere (bambini, anziani, malati) sono accuditi e assistiti. Ma lo stesso obbligo può essere sentito, in generale, nei confronti dei membri deboli della società (i poveri). -Una norma che, al contrario, prescrive di non intervenire è la norma di protezione della privacy familiare: basta che l’osservatore interpreti un litigio come un conflitto fra coniugi o fidanzati per rendere l’intervento poco probabile. Tre forme di altruismo secondo Moscovici: altruismo partecipativo, cioè i comportamenti che favoriscono la vita collettiva dei membri di una stessa comunità (famiglia, Chiesa, Patria), come il volontariato, i cui benefici si riflettono sull’intera collettività; altruismo fiduciario, è il sacrificio finalizzato a stabilire un legame di fiducia e confidenza con l’altro, ad esempio nelle relazioni di vicinato; altruismo normativo, basato sul principio di responsabilità e solidarietà, è quello garantito dalle istituzioni che ricoprono in modo esplicito la funzione di aiutare le persone in difficoltà, attraverso la cassa integrazione, la pensione sociale, il sussidio di disoccupazione. LA DINAMICA DEL COMPORTAMENTO ALTRUISTICO Mentre offrire il proprio aiuto aumenta la stima di sé, riceverlo genera un senso di debolezza e inferiorità: per questo colui il quale riceve aiuto può tendere a sottostimare l’intervento altrui. Se poi il fatto di ricevere aiuto viene percepito come una minaccia al Sé, il beneficiato può reagire negativamente verso colui che è intervenuto. Una volta definito un evento come un’emergenza, prima di decidere se intervenire o meno si ha una fase di valutazione del costo attribuito all’aiuto, influenzato da fattori relativi al contesto specifico, dall’empatia, dalle norme sociali e dalle tendenze di personalità. Capitolo 7 L’interazione tra i gruppi Il gruppo è un’entità psicologica diversa dalla somma dei suoi componenti. La diversità è dovuta alle relazioni dinamiche fra gli stessi componenti. KURT LEWIN Il concetto di gruppo in sociologia si distingue da quello di: - aggregato (insieme di individui che si trovano nello stesso luogo allo stesso momento senza condividere alcun preciso legame); - categoria sociale (raggruppamento statistico, insieme di individui classificati nella stessa categoria in base ad una particolare caratteristica comune che non interagiscono fra loro, né si ritrovano insieme nello stesso luogo). Infatti, un gruppo sociale è costituito da un certo numero di individui che interagiscono l’uno con l’altro con regolarità: si tratta quindi di una distinta unità con una propria complessiva identità sociale. I membri di un gruppo si aspettano determinate forme di comportamento l’uno dall’altro, non sono richieste invece ai non appartenenti. Riguardo alle dimensioni, i gruppi vanno dalle associazioni intime (famiglia) alle collettività più ampie (circolo sportivo). In sociologia è ancora ampiamente utilizzata (nonostante troppo schematica) la distinzione fra: - gruppi primari, insiemi di persone che interagiscono direttamente e sono legate da vincoli di natura emotiva; - gruppi secondari, formati da persone che hanno rapporti più o meno frequenti ma di tipo prevalentemente impersonale, in quanto determinati principalmente da scopi pratici. Secondo la prospettiva socio-psicologica di Lewin, ogni gruppo è una totalità dinamica diversa dalla somma delle sue parti in quanto si basa sull’interdipendenza (e non sulla somiglianza) dei suoi membri, che condividono uno scopo ed hanno delle attese in comune. Status: è la posizione che occupa un individuo all’interno di un gruppo. Nei gruppi, anche in quelli informali di adolescenti, le differenze di status formano una gerarchia. Le differenze di status possono essere colte anche osservando il comportamento non verbale; infatti, coloro che occupano uno status elevato tendono a: - avere più degli altri una postura eretta; - parlare con voce ferma; - mantenere il contatto visivo. Riguardo al comportamento verbale, invece: - parlano più delle altre; - più probabilmente esprimono critiche, comandi; - interrompono gli altri; - ricevono un maggior numero di comunicazioni da parte degli altri membri del gruppo. Le differenziazioni di status nei gruppi esistono per soddisfare un bisogno di necessità e di ordine. Ruolo: è un insieme di aspettative condivise circa il modo in cui dovrebbe comportarsi un individuo che occupa una determinata posizione nel gruppo. I ruoli permettono che la vita di un gruppo sia più prevedibile e quindi più ordinata; inoltre essi sono funzionali al conseguimento degli scopi di gruppo poiché implicano una divisione del lavoro al suo interno. I ruoli principali in un gruppo sono: - il leader; - il nuovo arrivato; - il capro espiatorio, funzionale alla vita del gruppo poiché permette ai suoi membri di liberarsi di parti negative della propria immagine di sé proiettandole su chi detiene tale ruolo. Le norme di un gruppo non sono vincolanti per tutti i membri allo stesso modo: infatti, coloro i quali godono di uno status elevato sono più vincolati al rispetto delle norme fondamentali per la sopravvivenza del gruppo. Le norme hanno 4 funzioni principali: 1- l’avanzamento del gruppo verso il raggiungimento dei propri obiettivi; 2- il mantenimento del gruppo, la sua sopravvivenza in quanto entità; 3- la costruzione della realtà sociale, condivisa dai vari membri i quali trovano in essa un punto di riferimento in caso di situazioni non familiari; 4- la definizione dei rapporti con l’ambiente sociale, composto di gruppi, organizzazioni, istituzioni (ad esempio definire quali gruppi siano alleati e quali nemici). Le norme di gruppo, una volta formate, sono resistenti al cambiamento, anche se esiste questa possibilità. Il potere nel gruppo Le posizioni dei vari membri possono essere più o meno centrali o periferiche. Il potere è la capacità di influenzare o controllare altre persone. Le fonti di potere particolarmente comuni e importanti sono 5: 1- il potere di ricompensa, che aumenta con l’ampiezza della ricompensa (di tipo materiale o simbolico); può indurre comportamenti di conformismo esteriore ma non adesione autentica; 2- il potere coercitivo, cioè di influire attraverso sanzioni punitive, effettivamente comminate o minacciate; deve essere accompagnato da forze restrittive che limitino la possibilità di fuga; può indurre comportamenti di conformismo esteriore ma non adesione autentica; 3- il potere legittimo, proviene da norme interiorizzate che stabiliscono il diritto legittimo di influenzare in base a certe caratteristiche possedute (anzianità, appartenenza ad una casta, essere maschio o femmina, ecc.) oppure ad una designazione sociale legittima (elezione); 4- il potere d’esempio o potere di riferimento; 5- il potere di competenza, che riguarda la struttura cognitiva. Inoltre, anche il denaro o la capacità di persuasione possono essere fonti di potere. La leadership Anche nei gruppi informali è considerato leader colui che mostra il più elevato livello di influenza. Il ruolo di leader implica anche una maggiore iniziativa, una posizione elevata nella gerarchia di status e centrale nella rete di comunicazioni del gruppo. È dunque l’influenza il tratto distintivo del leader, colui che si distingue dagli altri per le sue caratteristiche o i suoi tratti di personalità, come: - propensione alla responsabilità e all’esecuzione del compito; - forza e tenacia nel perseguire gli obiettivi prescelti; - temerarietà e originalità nell’affrontare e risolvere i problemi; - tendenza a prendere l’iniziativa; - disponibilità ad accettare le conseguenze di decisioni ed azioni; - prontezza nell’assorbire lo stress e capacità di tollerare frustrazioni; - abilità nell’influenzare gli altri; - capacità di strutturare il sistema di interazioni sociali in vista del risultato. Due principali stili di leadership: 1- democratico, rappresentato dal leader socioemozionale; 2- autoritario, rappresentato dal leader centrato sul compito. Un terzo stile di leadership è quello laissez faire. Ognuno di questi stili ha conseguenze diverse sulla produttività e sul morale del gruppo. Esiste una relazione bidirezionale fra leader e membri del gruppo in quanto, se è vero che il leader può influenzare i membri del gruppo, anche questi lo influenzano con le loro aspettative e richieste (esplicite o non). Questo aspetto è stato completamente trascurato dall’ottica tradizionale che vede il leader come unica fonte di influenza. CAPITOLO 8 – LE RELAZIONI FRA I GRUPPI SOCIALI Le persone si pongono in modo diverso di fronte ai membri del proprio gruppo rispetto a quelli degli altri gruppi: infatti, attuano comportamenti di discriminazione positiva nei confronti del gruppo a cui appartengono, a scapito degli altri, e non solo in contesti di competizione, ma anche in situazioni di semplice compresenza. Evoluzione della concettualizzazione di Tajfel Tajfel giunse dunque alla conclusione che la categorizzazione sociale (la percezione di far parte di un gruppo in rapporto con un altro) è sufficiente per produrre una discriminazione intergruppi in cui è favorito il gruppo di appartenenza rispetto all’altro. Tajfel aveva rilevato che nel confronto del proprio gruppo con altri gruppi, si tende a valutare meglio il proprio gruppo di appartenenza: questo è proprio il contrario di quanto sostenuto dalla teoria del confronto sociale di Festinger, secondo la quale, gli individui si confrontano con altri, ma per evitare di mettere a rischio la propria stima di sé, realizzano il confronto con altri appartenenti al proprio gruppo e con abilità non troppo diverse dalle proprie. - Moscovici un gruppo diventa un gruppo nel senso che è percepito come caratterizzato da aspetti comuni e da un destino comune solo se nell’ambiente sono presenti altri gruppi, perciò il confronto sociale a livello individuale consiste nell’avvicinarci a chi ci assomiglia, i confronti sociali fra i gruppi sono volti, invece, a stabilire distinzioni fra il gruppo di appartenenza e gli altri gruppi. Secondo la teoria dell’identità sociale (SIT) di Tajfel, l’identità sociale di un individuo è legata alla conoscenza della sua appartenenza a certi gruppi sociali e all’emozioni e alle valutazioni che gli derivano da tale appartenenza. In pratica, l’identità sociale di un individuo consiste nella sua concezione di sé in quanto membro di un gruppo e spiega i fenomeni di favoritismo per l’ingroup e di discriminazione per l’outgroup. Nella competizione sociale entrano in gioco tre fattori: 1- la categorizzazione sociale, per la quale le differenze fra categorie sono accentuate mentre quelle all’interno della stessa categoria sono ridotte; inoltre, caratteristiche, valori o stereotipi assegnati alla categoria possono essere assegnati anche ai singoli membri del gruppo; 2- l’identificazione sociale, per la quale gli individui si definiscono e sono percepiti dagli altri come membri di una certa categoria sociale; 3- il confronto sociale con altri gruppi, che se positivo, fornisce un contributo importante alla creazione di un’identità sociale positiva. La teoria della categorizzazione del Sé è stata elaborata da un gruppo di studiosi raccolti intorno a John Turner e cerca di chiarire in particolare attraverso quali processi chi è inserito in un insieme di persone giunge a definire e sentire se stesso come appartenente ad una determinata categoria sociale. Il processo di base è quello cognitivo della categorizzazione, che comporta un’accentuazione delle somiglianze intracategoriali e delle differenze intercategoriali. Tutto ciò accentua il carattere prototipico e stereotipico del gruppo: ciò comporta un incremento della somiglianza percepita tra sé e i membri del proprio gruppo, una sorta di omogeneità intragruppo, per la quale un individuo percepisce se stesso più come un esemplare intercambiabile di una categoria sociale che come una persona unica. Interazione sociale e relazioni intergruppi L’impegno a differenziarsi dagli altri sarebbe dunque una caratteristica dei membri dei gruppi dominanti: quindi una forte differenza fra i gruppi corrisponde ad una forte somiglianza interindividuale entro lo stesso gruppo. Quando ci sono conflitti intergruppi la solidarietà intragruppo aumenta perché secondo Freud esiste la necessità di individuare un nemico al di fuori del proprio gruppo perché questo sia libero da conflitti. Ma la competizione fra gruppi non sempre rafforza la solidarietà intragruppo, come avviene in caso di sconfitta. GLI EFFETTI DELLA DISCRIMINAZIONE INTERGRUPPI. STEREOTIPI SOCIALI E PREGIUDIZI Gli stereotipi si distinguono in: - cognitivi, cioè generalizzazioni diventate patrimonio degli individui, in gran parte derivati del processo cognitivo della categorizzazione, la cui funzione principale è quella di semplificare e sistematizzare l'abbondanza e la complessità dell’informazione che l’organismo umano riceve dal suo ambiente; - sociali, trasformazione degli stereotipi cognitivi nel momento in cui vengono condivisi da grandi masse di persone all’interno di gruppi e istituzioni sociali; in definitiva, lo stereotipo sociale è un’immagine mentale semplificata al massimo riguardante (solitamente) una categoria di persone. Gli stereotipi si accompagnano comunemente, ma non necessariamente, al pregiudizio, cioè ad una predisposizione favorevole o sfavorevole verso tutti i membri della categoria in questione. Tutti i processi intergruppi possono dare luogo a stereotipi sociali, simili ai miti sociali, cioè rappresentazioni collettive. Anche se il pregiudizio è qualcosa di concettualmente diverso dallo stereotipo sociale, in quanto è un giudizio dato prima di conoscere a fondo l’oggetto in questione; nonostante possa anche essere positivo, il termine pregiudizio possiede essenzialmente una connotazione negativa. Il pregiudizio è quindi un giudizio negativo a priori, un sentimento di antipatia (verso gruppi etnici, religiosi, professionali) fondato su una generalizzazione falsa e mantenuto a dispetto di eventuali fattori che lo contraddicono (in quanto, in caso contrario, porterebbe una minaccia radicale al sistema di valori a cui il giudizio è ancorato); può essere diretto verso un gruppo nel suo complesso o verso un individuo in quanto membro di quel gruppo. Bauman sostiene la necessità di distinguere il razzismo da altre forme di discriminazione (eterofobia): infatti, perché ci sia razzismo, devono essere presenti, insieme all’atteggiamento discriminatorio, anche una teoria sull’impossibilità di modificare (o correggere) le qualità negative ed una giustificazione in chiave biologica e genetica di tale inferiorità, che viene invocata dai razzisti per considerare e trattare da non uomini gli appartenenti a determinati gruppi umani. CAPITOLO 9 – L’INFLUENZA SOCIALE Attualmente si distingue fra l’influenza esercitata da una maggioranza (numerica o di potere) e quella esercitata da minoranze che adottano stili di comportamento coerenti: la prima genera conformismo, la seconda può innescare processi di innovazione. CONFORMISMO E FORZA DELLA MAGGIORANZA Nelle situazioni individuali il soggetto elabora un proprio campo di giudizio, mentre nella situazione di gruppo i soggetti tendono a convergere nei loro giudizi verso una norma comune principalmente perché colui che diverge si sente incerto ed insicuro, nella posizione deviante. L’influenza sociale è data dalle pressioni esercitate sulle persone per farle agire in modo contrario alle loro convinzioni e ai loro valori. L’individuo o, più generalmente, la minoranza, appare sia come colui che resiste al gruppo, sia come colui che devia. in quanto resiste, l’individuo si sottrae alla pressione sociale quando in essa viene espresso un giudizio che diverge dal suo e contrario a ciò che ognuno vede e pensa; questo individuo giunge così a ridurre l’effetto di conformismo e ad evitare l’errore collettivo; in quanto devia, l’individuo si allontana dai giudizi e dagli scopi del gruppo costituendo un ostacolo all’adattamento del gruppo stesso: gli altri membri del gruppo tendono a far pressione su di lui per riavvicinarlo alla norma comune, o ad escluderlo dal gruppo se la pressione fallisce; può derivare da ciò un eccesso di conformismo. IL MODELLO GENETICO DELL’INFLUENZA SOCIALE Secondo il modello genetico, tutti i membri di un gruppo possono sia subire che portare influenza: è infatti scorretto dare per scontato che l’influenza vada necessariamente dalla maggioranza alla minoranza.