DEFINIZIONE DI PSICOLOGIA SOCIALE La psicologia sociale si

DEFINIZIONE DI PSICOLOGIA SOCIALE
La psicologia sociale si occupa dello studio delle modalità e delle motivazioni secondo
cui i nostri comportamenti pensieri, sentimenti vengono modellati dall’ambiente
sociale. Comunque se si vuole capire come l’ambiente sociale influenzi una persona,
risulta più importante capire come essa percepisca o interpreti tale ambiente; gli
psicologi sociale attraverso diversi esperimenti cercano di dare risposte a domande
quali la causa dell’aggressività, del pregiudizio, dell’attrazione e via dicendo….
La psicologia sociale è una scienza sociale molto affine sia alla sociologia che alla
psicologia della personalità ma allo stesso tempo se ne differenzia, in quanto con la
prima perché la sociologia non tiene conto dell’aspetto psicologico di un determinato
comportamento; con la seconda perché essa si sofferma troppo sui tratti di
personalità come spiegazioni del comportamento sociale, invece la p.s. sottolinea
come l’influenza sociale possa modificare la personalità di individuo.
LA COGNIZIONE SOCIALE
Le persone hanno bisogno di conoscere la realtà che le circonda, quindi anche le altre
persone, per orientare il proprio comportamento in base all’ambiente in cui vivono.
Questo problema ha contraddistinto la psicologia sociale sin dalle origini tanto che uno
dei suoi approcci più importanti è proprio la social cognition. Questa corrente
affonda le sue radici nella filosofia di Kant, secondo il quale i processi di conoscenza
sono soggettivi: è la mente che organizza i dati che raccogliamo attraverso i sensi
costruendo una realtà che va al di là dell’informazione data.
I principi di base della cognizione sociale sono 2:
1- l’approccio olistico: esso è alla base della psicologia della Gestalt e si contrappone a
quello elementari stico secondo il quale l’esperienza percettiva è il frutto dell’analisi
dei singoli elementi.
2- una concezione della persona come individuo attivo, in grado di elaborare le
informazioni
che
gli
provengono
dall’ambiente
così
da
orientare
il
proprio
comportamento sulla base del rapporto tra elementi cognitivi e motivazionali.
Secondo LEWIN il campo psicologico di una persona dipende dall’interpretazione
soggettiva che la persona costruisce sul proprio ambiente sociale; Questa concezione
dell’uomo
come
individuo
attivo
ha
avuto
nel
corso
degli
anni
diverse
rappresentazioni, quali:
-il ricercatore di coerenza
-lo scienziato ingenuo
-il tattico motivato (fine anni 80) : cioè tutta l’attività di conoscenza è un processo
motivato.
Il modello attuale è quello del conoscitore motivato: l’individuo ha bisogno di
ottenere una risposta chiara e definitiva ad un certo oggetto di conoscenza. ( la
motivazione è il motore che guida il comportamento).
A COSA SERVE LA CONOSCENZA SOCIALE?
L’attività cognitiva è sempre motivata perché le persone hanno la necessità di
conoscere la realtà in cui vivono per poterla controllare, prevedere e trasformare.
La conoscenza sociale è un’attività motivata frutto dell’azione sociale e guida di essa;
c’è infatti un legame fra pensiero e azione, così come sostenne Fiske: THINKING IS
FOR DOING, pensare è per agire, quindi la cognizione sociale è al servizio
dell’interazione sociale.
Gli oggetti della cognizione sociale sono le persone che possono assumere due
posizioni sociali fondamentali nel loro mondo sociale:
- quella di attori del comportamento sociale;
- quella di osservatori del proprio comportamento e di quello degli altri.
COME FACCIAMO A CONOSCERE LA REALTA’ SOCIALE
La conoscenza si organizza attraverso gli schemi e le categorie sociali.
Infatti la conoscenza sulla realtà sociale deriva da due fonti di informazioni:
1- la realtà oggettivamente data (che sta fuori di noi);
2- il nostro modo di percepire la realtà.
Il ruolo degli schemi nella ricostruzione della realtà è molto importante: gli schemi,
infatti, sono strutture cognitive che contengono informazioni su un particolare oggetto
di conoscenza (stimolo).
Gli schemi facilitano i processi di conoscenza top-down (dall’alto in basso) cioè
basati su concetti, conoscenze e teorie già depositate nella memoria delle persone.
I processi di conoscenza di tipo schematico hanno il vantaggio di accorciare il lavoro
cognitivo, ma possono originare una serie di errori dovuti al fatto che le persone
possono negare l’evidenza della realtà per conservare le proprie opinioni e credenze.
I processi top-down si contrappongono a quelli bottom-up (dal basso verso l’alto), i
quali sono invece basati sui dati appena raccolti attraverso la percezione, ed hanno lo
svantaggio di essere abbastanza dispendiosi sul piano temporale in quanto le persone
centrano la loro attenzione su ogni singolo elemento d’informazione attinente l’oggetto
da conoscere.
Come utilizziamo gli schemi: quando incontriamo un nuovo stimolo di
conoscenza dobbiamo prima di tutto riconoscerlo, tramite la classificazione all’interno
di una categoria familiare sulla base delle caratteristiche che possiede. In questa fase
si possono commettere errori per il fatto che alcune caratteristiche degli oggetti sociali
possono essere condivise da esemplari di altre categorie.
Perciò la questione fondamentale al riguardo della categorizzazione sociale è quella
di identificare dei criteri di classificazione che permettano di percepire le somiglianze
fra i membri della stessa categoria sociale e le differenze tra categorie differenti,
tenendo conto che esistono attributi comuni a più categorie.
Secondo la concezione aristotelica le categorie sono definite da un numero ridotto di
criteri necessari e sufficienti, soddisfatti i quali ogni membro ha la piena appartenenza
alla categoria in questione. Queste norme si applicano bene ad oggetti con una
struttura semplificata mentre invece la realtà sociale risulta più difficile da classificare
in basi a criteri così rigidi.
Esistono diversi tipi di schemi sociali a seconda del tipo di informazioni contenute in
essi (però tutti funzionano allo stesso modo):
 Gli SCHEMI DI PERSONA contengono le informazioni che ci aiutano a descrivere le
persone in base ai loro tratti di personalità (socievole, aggressivo, simpatico) o ad
altre caratteristiche che le contraddistinguono (scopi, finalità). L’attivazione di schemi
relativi ad una persona facilita il ricordo e la comprensione delle nuove informazioni.
 Gli SCHEMI DI SE’ sono insiemi di strutture schematiche in cui sono contenute le
informazioni che ci contraddistinguono. Il Sé costituisce un filtro di conoscenza per
molti altri oggetti sociali, nel senso che siamo particolarmente attenti a quegli aspetti
della realtà sociale che rimandano a noi stessi.
 Gli
SCHEMI
DI
RUOLO
sono
importanti
perché
definiscono
le
aspettative
comportamentali in relazione alle posizioni che le persone occupano in una data realtà
sociale. I ruoli possono essere:
- acquisiti, cioè ottenuti tramite intenzione ed impegno (quelli professionali);
- ascritti, cioè acquisiti per nascita o per via automatica (età, appartenenza etnica,
genere sessuale) → possono funzionare come stereotipi sociali, delle facilitazioni che
però possono condurre ad una serie di errori.
 Gli SCHEMI DI EVENTI includono le conoscenze relative al modo in cui ci si comporta
nelle diverse situazioni sociali, e le aspettative che abbiamo sul modo in cui si
comporteranno gli altri (che dipendono dai vari ruoli sociali).
Ovviamente i contenuti di alcuni schemi di eventi cambiano in base alle diverse
culture, ma il loro funzionamento rimane abbastanza stabile.
LE EURISTICHE
Le euristiche sono strategie di pensiero semplificate, strategie cognitive che
accorciano il tempo dei percorsi cognitivi che permettono di arrivare alla soluzione dei
problemi.
Presentano il vantaggio di guadagnare tempo e risparmiare energia mentale, ma il
rischio è di giungere a giudizi grossolani, poco attendibili o errati.
Ce ne sono di diverse:

euristica della rappresentatività: riguarda nello specifico quei giudizi in cui
le persone devono decidere se un certo esemplare appartiene ad una
determinata categoria.

euristica della disponibilità: si basa sulla frequenza o probabilità che un
evento si verifichi.

euristica della simulazione: viene utilizzata nella costruzione di scenari
ipotetici, cioè quando immaginiamo come potrebbero evolvere certi eventi o
come sarebbero potuti evolvere diversamente da come si sono verificati nella
realtà.
Ancoraggio e accomodamento
Quando le persone si trovano a dover emettere giudizi sulla base di informazioni
incerte o ambigue cercano dei punti di riferimento (una conoscenza nota) a cui
ancorarsi e accomodare il giudizio sulla base di altre informazioni pertinenti.
La base per l’ancoraggio è fornita dall’esperienza personale: infatti, i propri tratti, le
proprie credenze e i propri comportamenti rappresentano frequentemente punti di
ancoraggio per il giudizio sociale.
L’ATTRIBUZIONE CAUSALE
Le persone hanno bisogno di trovare un significato per le esperienze che vivono o di
cui sono spettatrici, di interpretare e spiegare gli eventi sociali che le circondano.
Uno degli scopi fondamentali dei processi di attribuzione causale è dato dal bisogno di
spiegare gli eventi sociali al fine di controllare e prevedere il modo in cui si verificano
per poter attuare azioni ad essi congruenti. Infatti, se siamo consapevoli del modo in
cui le cose accadono possiamo creare le condizioni perché esse accadano o per
evitarle.
IL GIUDIZIO SOCIALE
Le persone, oltre a conoscere il proprio mondo lo valutano per cui gli atteggiamenti, le
impressioni che ci si forma circa le altre persone, la reputazione di cui esse godono
sono elementi che possono aiutare a capire il giudizio sociale e quindi i comportamenti
dell’attore sociale.
GLI ATTEGGIAMENTI
Il termine atteggiamento è stato utilizzato per la prima volta nella ricerca di due
sociologi, Thomas e Znaniecki, nel 1918, i quali lo definirono come un processo
della coscienza individuale che determina l’azione.
Gli atteggiamenti possono essere inclusi nei valori sociali: infatti, gli atteggiamenti
vengono concepiti come relativi ad un singolo oggetto mentre i sistemi di valore sono
degli orientamenti verso intere classi di oggetti.
Gli atteggiamenti individuali sono spesso organizzati entro un sistema di valori.
La prima definizione di atteggiamento (piuttosto generica) fu quella di Gordon
Allport, il quale lo considerava uno stato mentale o neurologico di prontezza,
organizzata
attraverso
l’esperienza,
che
esercita
un’influenza
sulla
risposta
dell’individuo nei confronti di ogni oggetto o situazione con cui entra in relazione.
Il modello tripartito degli atteggiamenti
l’atteggiamento è costituito da 3 componenti diverse:
1- componente cognitiva (le informazioni e le credenze che gli individui possiedono
a proposito dell’oggetto a cui si volge l’attenzione);
2- componente affettiva (la reazione emotiva che l’oggetto suscita);
3- componente comportamentale (l’azione di avvicinamento o esitamento rispetto
all’oggetto).
La componente più studiata è stata sicuramente quella affettiva.
Come si formano gli atteggiamenti?
1. Esperienza diretta
2. Osservazione del comportamento altrui (associazione debole)
3. Comunicazione (associazione molto debole)
Come si misurano gli atteggiamenti
-
SCALA LIKERT
La misurazione di gran lunga più utilizzata oggi è quella che si serve delle scala
Likert : vengono presentate delle affermazioni, ciascuna delle quali è seguita da una
risposta a scelta multipla fra opzioni che vanno da “fortemente d’accordo” a
“fortemente in disaccordo”; ad ognuna di queste opzioni viene attribuito un codice
numerico (da 5 a 1) che consente di effettuare varie operazioni.
1 La mia famiglia dovrebbe eliminare la carne dalla nostra dieta
Totale 1
2
3
4
5
6
disaccor
do
-
7
Pieno
accordo
METODO DEL DIFFERENZIALE SEMANTICO
è costituito da un insieme di coppie di aggettivi opposti separati da (in genere) 7 spazi
che rappresentano una gradazione da uno all’altro cosicché si possa scegliere lo spazio
che rappresenta meglio la propria valutazione dell’oggetto in questione.
Esempio di differenziale semantico - conformismo
Come giudica il conformismo?
Cerchi di rispondere rapidamente sulla base delle sue impressioni
aggettivi che seguono…
buono
bello
Gradevole
-
immediate, utilizzando gli
-
-
Pregevole
-
-
-
-
-
-
-
Giusto
desiderab
ile
-
-
-
-
-
-
-
cattivo
Brutto
Sgradev
ole
Spregev
ole
Ingiusto
indesider
abile
Queste scale per la misurazione degli atteggiamenti possono essere considerate
tecniche indirette in quanto il soggetto riporta il proprio punto di vista rispondendo a
delle domande che rimangono totalmente sotto il suo controllo quindi il rischio è
quello di raccogliere dati frutto della desiderabilità sociale piuttosto che della realtà del
fenomeno. Per queste ragioni a volte gli studiosi impiegano tecniche meno dirette di
misurazione, come le reazioni fisiologiche (la risposta elettrogalvanica della pelle o
l’attività dei muscoli del viso) che l’oggetto di atteggiamento induce nel soggetto.
Questo genere di misure però sono molto intrusive (richiedono molta collaborazione
da parte del soggetto) e complicate. Recentemente si ricorre sempre più spesso alla
misura del tempo di latenza nell’espressione della risposta stessa perché la velocità di
risposta indica un alto livello di accessibilità dell’atteggiamento e anche un forte grado
di coinvolgimento del soggetto rispetto alla tematica.
Il cambiamento degli atteggiamenti
Gli atteggiamenti possono subire cambiamenti nel corso del tempo:
-
a causa dell’esposizione alla comunicazione persuasiva (un messaggio in cui si
sostiene la validità di un’opinione oppure l’opportunità di adottare un certo
comportamento, metodo applicato soprattutto nel campo della propaganda politica
e della pubblicità);
-
attraverso processi individuali, come la ripetuta esposizione allo stimolo;
Un processo di natura motivazionale che porta al cambiamento è stato individuato da
Festinger (1957).
La teoria della dissonanza cognitiva (Festinger, 1957)
secondo la quale l’individuo ha la necessità di mantenere la coerenza fra le cognizioni
che possiede circa se stesso, il proprio comportamento e l’ambiente; se due cognizioni
sono attinenti ma non coerenti (es. indossare il casco) la dissonanza che ne deriva
provoca disagio emotivo che l’individuo desidera rimuovere e riportare in equilibrio
attraverso diverse strategie. La prima strategia utile consiste nel modificare l’elemento
dissonante meno resistente (cambiare il comportamento indossando il casco oppure
modificare la credenza sulla sua utilità ricorrendo a tutti gli esempi in cui questo non è
servito ad evitare disastri.
ESPERIMENTO DEI 20 DOLLARI PER UNA MENZOGNA:

gli sperimentatori chiedevano ai soggetti sperimentali, che partecipavano uno
alla volta, di svolgere un compito molto noioso.

In seguito, lo sperimentatore chiedeva a ciascun partecipante di collaborare,
riferendo a un altro presunto studente che il compito era molto interessante e
stimolante per indurlo a partecipare allo studio.

A metà dei partecipanti veniva promessa una ricompensa di 20 dollari per la
propria menzogna, mentre all’altra metà veniva promesso 1 dollaro

Successivamente
chiedevano
ai
partecipanti
di
valutare
il
compito:
I
partecipanti ricompensati con 20 dollari giudicavano le prove meno interessanti
di quelli ricompensati con un dollaro; PERCHÉ?
Nell’esperimento chi veniva ricompensato con 20 dollari per aver raccontato una
bugia si sentiva meno incoerente, trovandosi in una situazione meno disagevole di
chi veniva ricompensato con 1 dollaro; Erano soprattutto questi ultimi a cercare di
ridurre il proprio disagio modificando la propria valutazione delle prove. Proviamo
dissonanza dopo che abbiamo preso una decisione e la dissonanza funge da
motivazione per il cambiamento.
RUOLO DEL SENTIMENTO DI LIBERA SCELTA: solo quando l’individuo ha la
sensazione
di
aver
attuato
liberamente
il
comportamento
l’atteggiamento sarà motivato a modificare quest’ultimo.
dissonante
con
La formazione delle impressioni sulle persone
Ipotesi di Ash
Solomon Asch afferma che le persone si formano prima un’impressione globale entro
la quale fanno poi rientrare le ulteriori informazioni che li descrivono. Concepiamo cioè
le persone come unità psicologiche: è questa l’idea alla base del suo modello
configurazionale, basato su un approccio di tipo olistico che rimanda all’impostazione
gestaltista.
Secondo l’effetto primacy, i primi tratti servono a formare la prima impressione ed
hanno un effetto molto superiore rispetto a quelli successivi; vengono quindi utilizzati
per interpretare i tratti seguenti. Infatti, i tratti negativi non sembrano poi tanto tali
quando devono essere interpretati alla luce di una serie di qualità positive gia
considerate, e viceversa.
Secondo Anderson (1965) invece, l’effetto primacy è dovuto semplicemente ad un
calo di attenzione. Per questo propone un modello algebrico secondo il quale
l’impressione che ci formiamo di una persona è costituita dalla media ponderata delle
informazioni a disposizione su quella persona.
Stadi nella formazione delle impressioni secondo Fiske e Neuberg:

Formulazione di una impressione a partire dalle appartenenze categoriali
evidenti

Se
questa
risulta
conforme,
il
soggetto
si
fermerà
a
utilizzare
la
categorizzazione confermativa

Se percepisce incongruenza, procederà alla ricategorizzazione

Se nessuna informazione coincide con quelle in suo possesso, procederà a una
elaborazione dei singoli elementi informativi su base individuale.
LA FORMAZIONE DELLA REPUTAZIONE
Le fonti delle informazioni sugli altri, cioè le modalità per conoscere gli altri sono 3:
1- l’osservazione diretta del comportamento
2- l’ascolto di ciò che gli altri vogliono rivelare di sé;
3- la ricezione di informazioni da terzi (che forma la reputazione).
Nicholas Emler definisce la reputazione come un giudizio formulato da una comunità
su un individuo in particolare.
Infatti, perchè un individuo abbia una reputazione sono necessarie 3 condizioni:
1- che faccia parte di una comunità con membri relativamente stabili;
2- che questi parlino fra loro del comportamento e delle qualità altrui;
3- che le persone siano legate tra di loro in una rete di conoscenze anche indirette
La reputazione, inoltre, è specifica dei contesti, e questo è dovuto non solo al fatto
che ci si comporta in modo diverso a seconda del contesto in cui ci troviamo, ma
anche alle aspettative diverse e ai sistemi di norme e valori differenti per ogni gruppo
sociale.
Il singolo individuo, attraverso i suoi comportamenti, cerca di controllare e in qualche
modo gestire la sua reputazione. Ma l’individuo non può controllare interamente l’esito
finale di questo processo perché la reputazione, una volta stabilizzatasi, diventa
difficilmente modificabile
ETICHETTAMENTO È la connotazione negativa
della reputazione da parte della comunità ed esprime un giudizio morale, che produce
una sorta di circolo vizioso cioè l’individuo finirà per soddisfare le aspettative che gli
altri nutrono nei suoi confronti.
LE RAPPRESENTAZIONI SOCIALI
la Rappresentazione sociale è un modo specifico, particolare di esprimere la
conoscenza in una società e nei gruppi che la compongono. Esse possono essere
condivise da tutti i membri di un gruppo, un’etnia, una classe sociale o un partito
anche se non sono state elaborate dal gruppo stesso.
Sono, dunque,
“elaborazioni di un oggetto sociale da parte di una comunità che
permette ai suoi membri di comportarsi e di comunicare in modo comprensibile”
(Moscovici, 1963)
A CHE COSA SERVONO LE RAPPRESENTAZIONI SOCIALI
Le rappresentazioni sociali sono elementi costituenti dell’ambiente psicologico in cui
vivono individui e gruppi che li utilizzano per dare senso comune a fenomeni che
appaiono, in un primo momento, come estranei alla mentalità corrente.
Per Moscovici, la funzione di tutte le rappresentazioni sociali è prima di tutto quella di
rendere familiare ciò che è estraneo, distante rispetto all’esperienza delle persone che
costituiscono il gruppo coinvolto nel rapporto con la realtà.
Le rappresentazioni sociali sono stabili e allo stesso tempo flessibili.
Esse sono:
• stabili nel senso che durano nel tempo e sono un riferimento per singoli e gruppi;
• flessibili nel senso che sono modificabili e sostituibili da altri modello dopo
“revisione e rielaborazione” da parte del gruppo.
I due processi da cui prendono origine le rappresentazioni sociali sono:
1. ANCORAGGIO: Questo processo consente di incorporare qualcosa che non ci è
familiare e ci crea problemi nella rete di categorie che sono a noi proprie. Il
termine equivale a “porre un oggetto sconosciuto in un quadro di riferimento
ben noto per poterlo interpretare. È un meccanismo finalizzato alla riduzione
della paura verso il non familiare.
2. Oggettivazione: Esso fa entrare la realtà percepibile, concreta, figurata nei
concetti
e
nei
fenomeni
che
non
sono
familiari;
Moscovici
definisce
“naturalizzazione” il processo che trasforma i concetti in categorie sociali sicure,
da concetti astratti a entità obiettive.
SISTEMI DI COMUNICAZIONE
Moscovici individua 3 modalità di comunicazione:
1. diffusione. Un sistema di comunicazione che non si pone il problema di fornire
elementi perché i lettori possano porsi in modo informato e coerente; 
opinione
2. propagazione. Chi scrive tende a fornire elementi che portino alla formazione
di una posizione interessata e critica  atteggiamento
3. propaganda. Chi scrive tende a produrre una presa di posizione netta,
definitiva, priva di sfumature  stereotipo
4. Esiste un ultimo tipo di comunicazione, orientato a stimolare un atteggiamento
positivo  proposta
CAPITOLO 4 – IL SÉ E L’IDENTITÀ
L’attore sociale è una persona che entra in contatto con la realtà, se la rappresenta,
la conosce, agisce in modi diversi su di essa, riflette su se stessa, si rappresenta i
cambiamenti provocati su di sé dall’incontro con la realtà, da come essa si modifica,
anche per il suo intervento.
L’attore sociale è il protagonista che vive ed opera ad un momento dato nella realtà
fisica, psicologica, sociale e culturale. È in grado non solo di conoscere ma anche di
riflettere su se stesso e di prendere l’iniziativa nel contesto in cui è inserito.
L’attore sociale è quindi quella persona che:
-
entra in contatto con la realtà;
-
se la rappresenta;
-
conosce;
-
agisce in modi diversi su di essa;
-
nello stesso tempo riflettendo su se stessa;
-
rappresentandosi i cambiamenti provocati su di sé dall’incontro con la realtà, dalle
rappresentazioni di essa, da come si modifica, anche per il suo intervento.
All’interno del Sé bisogna distinguere due componenti:
1- l’Io,
che
coincide
con
il
soggetto
consapevole,
capace
di
conoscere
ed
intraprendere iniziative nei confronti della realtà esterna, oltre che di riflettere su di
sé;
2- il Me è quanto del Sé è conosciuto dall’Io, cioè quello che vedo di me, percepisco
di me, il modo in cui mi vedo: include le caratteristiche materiali (il corpo così
com’è percepito), quelle sociali (come il soggetto si vede nel rapporto con gli altri)
e quelle spirituali (il sapersi capace di pensare e riflettere su di sé).
Le relazioni sociali hanno un ruolo importantissimo nella definizione del Sé. Soltanto
attraverso l’interazione sociale l’individuo sviluppa la conoscenza di sé e il sentimento
della propria identità.
L’interazione fra l’Io e il Me (riflesso della società) produce il Sé in quanto non
potrebbe esistere un’esperienza di sé semplicemente fornita da se stesso, quindi
implica sempre la presenza di un altro.
FORME DELLA CONOSCENZA DI SE’
Neisser (1988) uno dei padri fondatori del cognitivismo, presenta una lista di cinque
tipi di conoscenza di sé.
1. Il Sé ecologico: riguarda come il Sé è percepito in rapporto all’ambiente fisico.
Compare molto precocemente, fin già a partire dai 3 mesi di età. La percezione
ecologica di sé è in genere cosciente, essa è definita dall’esistenza di un corpo,
anche spesso esso comprende tutto ciò che si muove insieme al corpo.
Ha un esistenza oggettiva.
2) Il Sé interpersonale: è il Sé coinvolto in una interazione immediata e non
riflessa con un’altra persona.Se le azioni di un’altra persona si incontrano con
qualità appropriate dell’azione dell’altro si crea un caso di intersoggettività.
E’ definito dall’orientamento e dallo svolgersi dei gesti espressivi dell’altro.
3) Il Sé esteso: è come era il Sé nel passato e come ci aspettiamo sia in futuro,
basato quindi su quanto ricordiamo e quanto anticipiamo. L’amnesia è una
patologia del Sé esteso.
4) Il Sé privato: verso i 4 anni il bambino diviene consapevole che sua vita
mentale è esclusivamente sua. Abbiamo esperienze private (sogni, pensieri,…)
che arricchiscono il Sé esteso.
5) Il Sé concettuale: chiamato anche concetto di sé, concerne i ruoli sociali. Esso
tende a guidare quello che ciascuno rivela su sé stesso. Si costruisce su idee
elaborate nel sociale e comunicate verbalmente.
Gli schemi di sé
il concetto di sé è costituito da un insieme si schemi si sé, fine di recuperare
rapidamente le informazioni dalla memoria grazie alle quali identificare ciò che è e ciò
che non è, nonché prevedere ed orientare il proprio comportamento.
Gli schemi di sé variano profondamente da persona a persona, possono essere sia
positivi che negativi e non sono facilmente modificabili poiché collegati al sentimento
d’identità.
Discrepanze del Sé
Secondo Higgins (1987) l’individuo ha una rappresentazione:
- di come è (Sé reale)
- di come gli piacerebbe essere (Sé ideale)
- di come dovrebbe essere (Sé normativo).
Se c’è discrepanza tra Sé reale e Sé ideale  scoraggiamento, insoddisfazione.
Se c’è discrepanza tra Sé reale e Sé normativo  agitazione, paura, ansia.
A seconda del tipo di cultura, i giudizi su di sé e sugli altri sono formulati in
riferimento a diversi standard:
-
per le culture individualiste è il raggiungimento del successo personale, quindi
esse tendono a valorizzare caratteristiche come l’intelligenza e la competenza
personale;
le
culture
individualiste
sono
per
lo
più
centrate
sull’idea
dell’indipendenza e dell’autonomia (la timidezza viene vista come un handicap);
-
per le culture collettiviste è l’appartenenza ad un determinato gruppo (o
famiglia) e il posto che questo occupa nel tessuto sociale, cosicché queste
valorizzano maggiormente la costanza, la persistenza nel compito, lo sforzo; le
culture collettiviste sono più protese verso interdipendenza (è la solitudine ad
essere vissuta come un handicap).
CAPITOLO 5
Tipologia delle relazioni
Kelley propone una definizione di relazione significativa affermando che una
relazione è tale se si basa su una forte interdipendenza fra i partner (influenzano i
comportamenti reciproci) non solo in qualche ambito ma in molti contesti e per lungo
tempo.
Le scale di rilevazione dei sentimenti hanno l’obiettivo di quantificare i diversi tipi di
sentimenti. Uno dei primi tentativi in questo senso è stato quello di Rubin il quale ha
messo a punto due scale:
1- la Liking scale, che si propone di cogliere il grado di piacevolezza attribuito al
partner, in termini di affetto e rispetto;
2- la Love scale, che intende mettere in luce tre aspetti: l’attaccamento, il prendersi
cura e l’intimità.
Una delle classificazioni che ha conosciuto maggiore considerazione è quella chiamata
Triangolo dell’amore, formato da tre componenti:
1- intimità (implica la comprensione reciproca, la complicità e il sostegno emotivo);
2- passione (comprende l’attrazione fisica, il desiderio sessuale, la sensazione di
essere innamorati);
3- livello di impegno/decisione nei riguardi del partner.
Queste tre componenti entrano in varia misura nei vari tipi di relazioni, combinandosi
dando origine a 7 classi di sentimenti:
1- attrazione;
2- infatuazione;
3- amore abitudinario;
4- amore romantico;
5- amicizia profonda;
6- amore fatuo;
7- amore completo.
Gli stili di relazione sono il prodotto del tipo di legame di attaccamento che i bambini
formano con gli adulti (in primo luogo con i genitori).
La formazione delle relazioni
I fattori che favoriscono la nascita delle relazioni sono:
- la prossimità: non si tratta banalmente di un problema di distanza fisica, quanto
piuttosto di distanza funzionale, cioè di probabilità di avere contatti.
- la percezione di somiglianza, considerato il fattore principale di attrazione
(somiglianza di opinioni, non di personalità, che minaccia il senso di unicità
dell’individuo!);
- l’aspetto fisico, secondo lo stereotipo che associa la bellezza ad altre qualità
positive;
- la rivelazione di sé, cioè l’apertura all’altro (self-disclosure): infatti, non solo le
persone tendono ad aprirsi maggiormente con coloro dai quali sono più attratte, ma
questa apertura viene anche recepita dall’altro come segno di apprezzamento.
Riguardo alla soddisfazione, la teoria dello scambio di Homans formula un principio
applicabile a qualsiasi tipo di relazione sociale: un individuo rimane in una relazione
finché il partner gli assicura il massimo dei benefici al minimo costo (si tratta di un
modello economico del comportamento umano). Finché è soddisfatto rimane nella
relazione, altrimenti ne esce.
Le critiche fatte alla teoria dello scambio si riferiscono soprattutto al fatto che un
principio economico venga applicato ad un fenomeno così complesso come il
mantenimento di una relazione fra persone.
La considerazione del ruolo dell’equità fra i benefici propri ed altrui deriva da uno
sviluppo della teoria dello scambio e afferma che un individuo valuta soddisfacente
una relazione se ricava benefici (di natura simbolica oltre che materiale) pari ai costi
che essa comporta: infatti, se in una relazione uno dei due membri riceve più di
quanto offre, la stabilità è fortemente a rischio.
Il principio dello scambio si applica solo alle relazioni di scambio (di lavoro e fra
estranei), mentre nelle relazioni di condivisione (quelle intime) prevale l’interesse per
il benessere dell’altro (il prototipo è quello della relazione madre-figlio).
Inoltre, il principio dell’equità è tipico delle società individualiste (quelle occidentali)
mentre spesso non vale per le società collettiviste (orientali).
Queste teorie, per di più, sottovalutano il ruolo delle abitudini consolidate, la
resistenza al cambiamento, il senso di incertezza riguardo al futuro e le pressioni
sociali e culturali a mantenere relazioni di coppia anche quando queste diventano
svantaggiose.
LA COMUNICAZIONE
La comunicazione è un processo dinamico e circolare che richiede la condivisione di
codici astratti (il linguaggio e i significati dei segnali non verbali): non si tratta di un
comportamento intenzionale in quanto non si può non comunicare.
I sistemi della comunicazione verbale sono:
- fonemi;
- morfemi;
- parole;
- frasi, ecc.
I sistemi della comunicazione non verbale sono:
- segnali paralinguistici (intonazione, volume di voce, vocalizzazioni per la
regolazione dell’avvicendarsi dei turni di parola);
- le espressioni del volto (tra cui il contatto visivo, cioè gli sguardi), che forniscono
anche informazioni sull’attività de decodifica del messaggio da parte dell’ascoltatore;
- il comportamento spaziale [posizione del corpo, gesti, la distanza e il contatto
fisico fra i parlanti (per il quale vanno distinte le culture da contatto dalle culture di
non contatto)].
Le espressioni non verbali variano da persona a persona ma soprattutto da cultura a
cultura.
LA COMUNICAZIONE COOPERATIVA
Partecipare ad una conversazione comporta un’azione cooperativa nella quale gli attori
sociali riconoscono almeno uno scopo comune o un insieme di scopi comuni.
La conversazione come azione sociale di tipo cooperativo è governata da regole
implicitamente riconosciute dai partecipanti. Se uno degli interlocutore viola una di
queste massime può venir meno il principio di cooperazione e può quindi esserci
l’interruzione dello scambio.
CAPITOLO 6 – L’AGGRESSIVITÀ E L’ALTRUISMO
GLI ESSERI UMANI SONO “NATURALMENTE” BUONI O CATTIVI?
Per Hobbes, le persone sarebbero inclini all’aggressività verso i propri simili, quindi
necessitano di istituzioni sociali in grado di reprimere le tendenze antisociali in
funzione delle esigenze della convivenza civile.
Al contrario, Rousseau sostiene la concezione di una natura fondamentalmente
buona, corrotta proprio dalle esigenze della civiltà.
Secondo Freud, invece, l’aggressività umana è inevitabile e frutto della tensione fra
due istinti primari, quello di autoconservazione (Eros) e quello di autodistruzione
(Thanatos), che emana un’energia distruttiva che dev’essere indirizzata verso
l’esterno, ad esempio attraverso il comportamento aggressivo.
L’approccio etologico
condivide
con
quello
freudiano
l’idea
della
naturalità
dell’aggressività umana, in quanto funzionale alla conservazione della specie.
Perciò dovrebbe essere la società ad indirizzare le energie negative dei singoli verso
forme di scaricamento socialmente accettabili (come le competizioni sportive) anche
se non sempre dare la possibilità di manifestare comportamenti aggressivi diminuisce
la carica di aggressività.
E anzi, essere esposti a comportamenti violenti aumenta la probabilità di una risposta
di tipo aggressivo da parte dell’individuo.
Spiegazioni del comportamento antisociale

La frustrazione
La frustrazione può essere la causa di un comportamento aggressivo, cioè quando
degli ostacoli si frappongono fra l’individuo e il raggiungimento dei suoi fini.
Le critiche all’approccio frustrazione-aggressività si appoggia sul fatto che ci sono casi
in cui la frustrazione trova sfogo in forme di risposta non aggressive, come il pianto, la
fuga, l’apatia.
Perciò Berkowitz propone la teoria dell’apprendimento sociale, secondo la quale
ogni sentimento negativo può produrre aggressività, ma questa diventa la risposta
dominante solo a determinate condizioni.

L’imitazione
All’inizio del ‘900 la psicologia delle folle introduce l’idea che l’aggressività prenda il via
dall’imitazione, all’interno di vasti gruppi sociali: infatti le persone sarebbero
facilmente manipolabili da qualcuno dotato di particolare carisma e prestigio.
Secondo la teoria dell’apprendimento sociale (formulata negli anni ‘60) l’aggressività
sarebbe un comportamento sociale come gli altri, che viene acquisito e mantenuto a
determinate condizioni.
Le condizioni per l’apprendimento di comportamenti aggressivi sono:
-
l’esperienza diretta;
-
l’osservazione di qualcuno che attua un comportamento in una determinata
situazione e delle conseguenze che ne ricava
C’è sicuramente una relazione fra programmi televisivi a contenuto violento e livello di
aggressività manifesto, però non si sa se sono le persone violente a preferire quel
tipo di programmi oppure sono i programmi violenti a causare comportamenti
imitativi.

Le norme sociali
anche le norme sociali e l’obbedienza all’autorità hanno dimostrato di svolgere
importanti funzioni nell’aggressività
L’esperimento di Milgram.
(L’esperimento mirava, oggi come allora, a misurare la volontà di un partecipante ad obbedire
a un autorità anche qualora questa lo istruisse a fare qualcosa che fosse palesemente in
conflitto con la sua coscienza e la sua moralità. Gli studi di Milgram vennero effettuati per
rispondere a una domanda precisa: i milioni di persone normalissime che si resero responsabili
e complici dell’olocausto, avevano semplicemente obbedito a un ordine?
Nel 1961 Stanley Milgram cercò di spiegare questo fenomeno attraverso un esperimento:
attraverso i giornali convocò 40 volontari, spiegando che voleva effettuare uno studio sugli
effetti della punizione per una prestigiosa università. A questi spiegò che essi svolgevano il
ruolo di "maestri" e che erano incaricati di punire gli "allievi"(già in precedenza istruiti dallo
sperimentatore).Mise i maestri davanti a dei pulsanti che producevano delle scariche elettriche
fino a 450 volt. L'allievo era invece collocato su una sedia nella sala affianco a quella dei
maestri. Milgram spiegò che le scariche erano fondamentali per la riuscita dell'esperimento e
che se non avessero seguito le sue direttivo l'esperimento non avrebbe avuto senso. Così si
videro persone normalissime inviare scariche elettriche anche fino a 300 volt(anche se questo
era simulato)e questo perchè i maestri eseguivano tutte le direttive di Milgram. Da questo
esperimento si dedusse che persone normali, sotto dei precisi comandi rispetto alle autorità,
riescono a compiere atti inumani: basti pensare ai comportamenti all'interno di organizzazioni
militari o di polizia.
I fattori che ne danno origine sono:
-La legittima autorità, cioè che l'esperimento è avvenuto da una persona di una certa
autorità e sotto un prestigiosa università.
-La distanza dalla vittima, infatti secondo altri esperimenti si constatò che quando il
maestro era seduto vicino all'allievo o si trovava nella stessa stanza le scariche diminuivano.
-La vicinanza all'autorità: quando lo sperimentatore sedeva accanto al maestro la
sottomissione aumentava, se invece lo sperimentatore stava in un'altra stanza o i comandi
venivano imposti telefonicamente la sottomissione era di gran lunga inferiore e le scosse
diminuivano.)
Livelli di spiegazione dei comportamenti pro sociali

L’altruismo
Così come alcuni etologi hanno sostenuto che l’aggressività è funzionale alla
conservazione della specie, altri hanno messo in evidenza che i comportamenti
prosociali servono allo stesso scopo (basti pensare alle formiche e alle api, specie
nelle quali gli individui sterili spendono la loro vita nell’aiuto e nella protezione di quelli
fecondi, oppure agli animali che, avvistando un pericolo, emettono segnali per
allertare gli altri individui della stessa specie), cioè alla sopravvivenza degli individui
della stessa famiglia. Questa osservazione però non è sufficiente a spiegare i
comportamenti altruistici che gli umani attuano a favore di persone non consanguinee.
Si potrebbe quindi pensare che l’altruismo sia una dimensione della personalità, anche
se in questo caso il fattore più importante sarebbe la percezione della propria efficacia
(la credenza di essere in grado di agire positivamente nelle situazioni) ma in realtà
questa non è sufficiente a prevedere la messa in atto di comportamenti altruistici.

Il ruolo dell’empatia
L’empatia è un’attivazione emotiva fatta di compassione, tenerezza, simpatia, da
parte di una persona che osservi un’altra in difficoltà, grazie al fatto che
l’osservatore assume la prospettiva della persona in difficoltà e prova uno stato
emotivo simile al suo. È questa capacità a rendere probabile un intervento di aiuto.
Quindi la percezione di somiglianza, o anche di appartenenza allo stesso gruppo,
favorisce l’insorgere dell’empatia.
Il disagio personale e la reale preoccupazione per la sorte dell’altra persona possono
indurre l’individuo ad agire, ma lo stato d’animo negativo può essere rimosso anche
attraverso la fuga o l’evitamento della situazione. Quando l’evitamento non è
possibile, l’aiuto può anche non essere il frutto di puro altruismo ma essere motivato
dalla necessità di rimuovere il disagio personale. È questa la cosiddetta ipotesi del
sollievo dallo stato negativo, la quale mette in evidenza che i rapporti prosociali
derivano da una motivazione fondamentalmente egoistica: il desiderio di rimuovere
l’angoscia che provoca la vista della sofferenza altrui. È per questo che gli individui
non intervengono quando la situazione permette vie di fuga, per esempio nel caso in
cui gli osservatori siano numerosi (diffusione di responsabilità).
Anche in situazioni in cui la fuga è possibile ci sono individui che scelgono di prestare il
proprio aiuto, e sono i casi in cui il reale interesse per la sorte dell’altro prevale ed è il
prodotto della capacità empatica vera e propria.
Infatti, secondo il modello dell’empatia-altruismo, la preoccupazione per le sofferenze
altrui è una motivazione sufficiente per spiegare comportamenti prosociali.

Le norme sociali
-Nelle relazioni interpersonali, quindi, una delle norme principali è quella di
reciprocità, secondo la quale bisogna restituire l’aiuto a chi lo ha offerto in passato o
potrà farlo in futuro. Questa norma ha carattere universale, nel senso che in tutte le
società umane è uno dei criteri fondanti della moralità e della vita collettiva.
-Un’altra norma è quella della responsabilità sociale, secondo la quale ci sentiamo
in obbligo di agire in favore di chi dipende da noi. Questa regola vige innanzitutto
nella famiglia: i membri che non sono in grado di prendersi cura del proprio benessere
(bambini, anziani, malati) sono accuditi e assistiti. Ma lo stesso obbligo può essere
sentito, in generale, nei confronti dei membri deboli della società (i poveri).
-Una norma che, al contrario, prescrive di non intervenire è la norma di protezione
della privacy familiare: basta che l’osservatore interpreti un litigio come un conflitto
fra coniugi o fidanzati per rendere l’intervento poco probabile.
Tre forme di altruismo secondo Moscovici:

altruismo partecipativo, cioè i comportamenti che favoriscono la vita
collettiva dei membri di una stessa comunità (famiglia, Chiesa, Patria), come il
volontariato, i cui benefici si riflettono sull’intera collettività;

altruismo fiduciario, è il sacrificio finalizzato a stabilire un legame di fiducia e
confidenza con l’altro, ad esempio nelle relazioni di vicinato;

altruismo normativo, basato sul principio di responsabilità e solidarietà, è
quello garantito dalle istituzioni che ricoprono in modo esplicito la funzione di
aiutare le persone in difficoltà, attraverso la cassa integrazione, la pensione
sociale, il sussidio di disoccupazione.
LA DINAMICA DEL COMPORTAMENTO ALTRUISTICO
Mentre offrire il proprio aiuto aumenta la stima di sé, riceverlo genera un senso di
debolezza e inferiorità: per questo colui il quale riceve aiuto può tendere a
sottostimare l’intervento altrui. Se poi il fatto di ricevere aiuto viene percepito come
una minaccia al Sé, il beneficiato può reagire negativamente verso colui che è
intervenuto.
Una volta definito un evento come un’emergenza, prima di decidere se intervenire o
meno si ha una fase di valutazione del costo attribuito all’aiuto, influenzato da fattori
relativi al contesto specifico, dall’empatia, dalle norme sociali e dalle tendenze di
personalità.
Capitolo 7
L’interazione tra i gruppi
Il gruppo è un’entità psicologica diversa dalla somma dei suoi componenti. La
diversità è dovuta alle relazioni dinamiche fra gli stessi componenti.
KURT LEWIN
Il concetto di gruppo in sociologia si distingue da quello di:
- aggregato (insieme di individui che si trovano nello stesso luogo allo stesso
momento senza condividere alcun preciso legame);
- categoria sociale (raggruppamento statistico, insieme di individui classificati nella
stessa categoria in base ad una particolare caratteristica comune che non
interagiscono fra loro, né si ritrovano insieme nello stesso luogo).
Infatti, un gruppo sociale è costituito da un certo numero di individui che
interagiscono l’uno con l’altro con regolarità: si tratta quindi di una distinta unità con
una propria complessiva identità sociale.
I membri di un gruppo si aspettano determinate forme di comportamento l’uno
dall’altro, non sono richieste invece ai non appartenenti.
Riguardo alle dimensioni, i gruppi vanno dalle associazioni intime (famiglia) alle
collettività più ampie (circolo sportivo).
In sociologia è ancora ampiamente utilizzata (nonostante troppo schematica) la
distinzione fra:
- gruppi primari, insiemi di persone che interagiscono direttamente e sono legate da
vincoli di natura emotiva;
- gruppi secondari, formati da persone che hanno rapporti più o meno frequenti ma
di tipo prevalentemente impersonale, in quanto determinati principalmente da scopi
pratici.
Secondo la prospettiva socio-psicologica di Lewin, ogni gruppo è una totalità
dinamica diversa dalla somma delle sue parti in quanto si basa sull’interdipendenza (e
non sulla somiglianza) dei suoi membri, che condividono uno scopo ed hanno delle
attese in comune.
 Status: è la posizione che occupa un individuo all’interno di un gruppo. Nei
gruppi, anche in quelli informali di adolescenti, le differenze di status formano
una gerarchia.
Le differenze di status possono essere colte anche osservando il comportamento non
verbale; infatti, coloro che occupano uno status elevato tendono a:
-
avere più degli altri una postura eretta;
-
parlare con voce ferma;
-
mantenere il contatto visivo.
Riguardo al comportamento verbale, invece:
-
parlano più delle altre;
-
più probabilmente esprimono critiche, comandi;
-
interrompono gli altri;
-
ricevono un maggior numero di comunicazioni da parte degli altri membri del
gruppo.
Le differenziazioni di status nei gruppi esistono per soddisfare un bisogno di necessità
e di ordine.
 Ruolo: è un insieme di aspettative condivise circa il modo in cui dovrebbe
comportarsi un individuo che occupa una determinata posizione nel gruppo.
I ruoli permettono che la vita di un gruppo sia più prevedibile e quindi più ordinata;
inoltre essi sono funzionali al conseguimento degli scopi di gruppo poiché implicano
una divisione del lavoro al suo interno.
I ruoli principali in un gruppo sono:
- il leader;
- il nuovo arrivato;
- il capro espiatorio, funzionale alla vita del gruppo poiché permette ai suoi membri di
liberarsi di parti negative della propria immagine di sé proiettandole su chi detiene
tale ruolo.
Le norme di un gruppo non sono vincolanti per tutti i membri allo stesso modo:
infatti, coloro i quali godono di uno status elevato sono più vincolati al rispetto delle
norme fondamentali per la sopravvivenza del gruppo.
Le norme hanno 4 funzioni principali:
1- l’avanzamento del gruppo verso il raggiungimento dei propri obiettivi;
2- il mantenimento del gruppo, la sua sopravvivenza in quanto entità;
3- la costruzione della realtà sociale, condivisa dai vari membri i quali trovano in
essa un punto di riferimento in caso di situazioni non familiari;
4- la definizione dei rapporti con l’ambiente sociale, composto di gruppi,
organizzazioni, istituzioni (ad esempio definire quali gruppi siano alleati e quali
nemici).
Le norme di gruppo, una volta formate, sono resistenti al cambiamento, anche se
esiste questa possibilità.
Il potere nel gruppo
Le posizioni dei vari membri possono essere più o meno centrali o periferiche.
Il potere è la capacità di influenzare o controllare altre persone.
Le fonti di potere particolarmente comuni e importanti sono 5:
1- il potere di ricompensa, che aumenta con l’ampiezza della ricompensa (di tipo
materiale o simbolico); può indurre comportamenti di conformismo esteriore
ma non adesione autentica;
2- il potere coercitivo, cioè di influire attraverso sanzioni punitive, effettivamente
comminate o minacciate; deve essere accompagnato da forze restrittive che
limitino la possibilità di fuga; può indurre comportamenti di conformismo
esteriore ma non adesione autentica;
3- il potere legittimo, proviene da norme interiorizzate che stabiliscono il diritto
legittimo di influenzare in base a certe caratteristiche possedute (anzianità,
appartenenza ad una casta, essere maschio o femmina, ecc.) oppure ad una
designazione sociale legittima (elezione);
4- il potere d’esempio o potere di riferimento;
5- il potere di competenza, che riguarda la struttura cognitiva.
Inoltre, anche il denaro o la capacità di persuasione possono essere fonti di potere.
La leadership
Anche nei gruppi informali è considerato leader colui che mostra il più elevato livello di
influenza.
Il ruolo di leader implica anche una maggiore iniziativa, una posizione elevata nella
gerarchia di status e centrale nella rete di comunicazioni del gruppo.
È dunque l’influenza il tratto distintivo del leader, colui che si distingue dagli altri per
le sue caratteristiche o i suoi tratti di personalità, come:
- propensione alla responsabilità e all’esecuzione del compito;
- forza e tenacia nel perseguire gli obiettivi prescelti;
- temerarietà e originalità nell’affrontare e risolvere i problemi;
- tendenza a prendere l’iniziativa;
- disponibilità ad accettare le conseguenze di decisioni ed azioni;
- prontezza nell’assorbire lo stress e capacità di tollerare frustrazioni;
- abilità nell’influenzare gli altri;
- capacità di strutturare il sistema di interazioni sociali in vista del risultato.
Due principali stili di leadership:
1- democratico, rappresentato dal leader socioemozionale;
2- autoritario, rappresentato dal leader centrato sul compito.
Un terzo stile di leadership è quello laissez faire.
Ognuno di questi stili ha conseguenze diverse sulla produttività e sul morale del
gruppo.
Esiste una relazione bidirezionale fra leader e membri del gruppo in quanto, se è vero
che il leader può influenzare i membri del gruppo, anche questi lo influenzano con le
loro aspettative e richieste (esplicite o non).
Questo aspetto è stato completamente trascurato dall’ottica tradizionale che vede il
leader come unica fonte di influenza.
CAPITOLO 8 – LE RELAZIONI FRA I GRUPPI SOCIALI
Le persone si pongono in modo diverso di fronte ai membri del proprio gruppo rispetto
a quelli degli altri gruppi: infatti, attuano comportamenti di discriminazione positiva
nei confronti del gruppo a cui appartengono, a scapito degli altri, e non solo in contesti
di competizione, ma anche in situazioni di semplice compresenza.
Evoluzione della concettualizzazione di Tajfel
Tajfel giunse dunque alla conclusione che la categorizzazione sociale (la percezione di
far parte di un gruppo in rapporto con un altro) è sufficiente per produrre una
discriminazione intergruppi in cui è favorito il gruppo di appartenenza rispetto all’altro.
Tajfel aveva rilevato che nel confronto del proprio gruppo con altri gruppi, si tende a
valutare meglio il proprio gruppo di appartenenza: questo è proprio il contrario di
quanto sostenuto dalla teoria del confronto sociale di Festinger, secondo la quale, gli
individui si confrontano con altri, ma per evitare di mettere a rischio la propria stima
di sé, realizzano il confronto con altri appartenenti al proprio gruppo e con abilità non
troppo diverse dalle proprie.
-
Moscovici un gruppo diventa un gruppo nel senso che è percepito come
caratterizzato da aspetti comuni e da un destino comune solo se nell’ambiente
sono presenti altri gruppi, perciò il confronto sociale a livello individuale
consiste nell’avvicinarci a chi ci assomiglia, i confronti sociali fra i gruppi sono
volti, invece, a stabilire distinzioni fra il gruppo di appartenenza e gli altri
gruppi.
Secondo la teoria dell’identità sociale (SIT) di Tajfel, l’identità sociale di un
individuo è legata alla conoscenza della sua appartenenza a certi gruppi sociali e
all’emozioni e alle valutazioni che gli derivano da tale appartenenza. In pratica,
l’identità sociale di un individuo consiste nella sua concezione di sé in quanto membro
di un gruppo e spiega i fenomeni di favoritismo per l’ingroup e di discriminazione per
l’outgroup.
Nella competizione sociale entrano in gioco tre fattori:
1- la categorizzazione sociale, per la quale le differenze fra categorie sono
accentuate mentre quelle all’interno della stessa categoria sono ridotte; inoltre,
caratteristiche, valori o stereotipi assegnati alla categoria possono essere
assegnati anche ai singoli membri del gruppo;
2- l’identificazione sociale, per la quale gli individui si definiscono e sono
percepiti dagli altri come membri di una certa categoria sociale;
3- il confronto sociale con altri gruppi, che se positivo, fornisce un contributo
importante alla creazione di un’identità sociale positiva.
La teoria della categorizzazione del Sé
è stata elaborata da un gruppo di studiosi raccolti intorno a John Turner e cerca di
chiarire in particolare attraverso quali processi chi è inserito in un insieme di persone
giunge a definire e sentire se stesso come appartenente ad una determinata categoria
sociale.
Il processo di base è quello cognitivo della categorizzazione, che comporta
un’accentuazione delle somiglianze intracategoriali e delle differenze intercategoriali.
Tutto ciò accentua il carattere prototipico e stereotipico del gruppo: ciò comporta un
incremento della somiglianza percepita tra sé e i membri del proprio gruppo, una
sorta di omogeneità intragruppo, per la quale un individuo percepisce se stesso più
come un esemplare intercambiabile di una categoria sociale che come una persona
unica.
Interazione sociale e relazioni intergruppi
L’impegno a differenziarsi dagli altri sarebbe dunque una caratteristica dei membri dei
gruppi dominanti: quindi una forte differenza fra i gruppi corrisponde ad una forte
somiglianza interindividuale entro lo stesso gruppo.
Quando ci sono conflitti intergruppi la solidarietà intragruppo aumenta perché secondo
Freud esiste la necessità di individuare un nemico al di fuori del proprio gruppo perché
questo sia libero da conflitti.
Ma la competizione fra gruppi non sempre rafforza la solidarietà intragruppo, come
avviene in caso di sconfitta.
GLI EFFETTI DELLA DISCRIMINAZIONE INTERGRUPPI. STEREOTIPI SOCIALI
E PREGIUDIZI
Gli stereotipi si distinguono in:
-
cognitivi, cioè generalizzazioni diventate patrimonio degli individui, in gran
parte derivati del processo cognitivo della categorizzazione, la cui funzione
principale
è
quella
di
semplificare
e
sistematizzare
l'abbondanza
e
la
complessità dell’informazione che l’organismo umano riceve dal suo ambiente;
-
sociali, trasformazione degli stereotipi cognitivi nel momento in cui vengono
condivisi da grandi masse di persone all’interno di gruppi e istituzioni sociali; in
definitiva, lo stereotipo sociale è un’immagine mentale semplificata al massimo
riguardante (solitamente) una categoria di persone.
Gli
stereotipi si accompagnano comunemente, ma non necessariamente,
al
pregiudizio, cioè ad una predisposizione favorevole o sfavorevole verso tutti i membri
della categoria in questione.
Tutti i processi intergruppi possono dare luogo a stereotipi sociali, simili ai miti sociali,
cioè rappresentazioni collettive.
Anche se il pregiudizio è qualcosa di concettualmente diverso dallo stereotipo sociale,
in quanto è un giudizio dato prima di conoscere a fondo l’oggetto in questione;
nonostante
possa
anche
essere
positivo,
il
termine
pregiudizio
possiede
essenzialmente una connotazione negativa.
Il pregiudizio è quindi un giudizio negativo a priori, un sentimento di antipatia (verso
gruppi etnici, religiosi, professionali) fondato su una generalizzazione falsa e
mantenuto a dispetto di eventuali fattori che lo contraddicono (in quanto, in caso
contrario, porterebbe una minaccia radicale al sistema di valori a cui il giudizio è
ancorato); può essere diretto verso un gruppo nel suo complesso o verso un individuo
in quanto membro di quel gruppo.
Bauman
sostiene
la
necessità
di distinguere
il razzismo
da
altre
forme
di
discriminazione (eterofobia): infatti, perché ci sia razzismo, devono essere presenti,
insieme all’atteggiamento discriminatorio, anche una teoria sull’impossibilità di
modificare (o correggere) le qualità negative ed una giustificazione in chiave biologica
e genetica di tale inferiorità, che viene invocata dai razzisti per considerare e trattare
da non uomini gli appartenenti a determinati gruppi umani.
CAPITOLO 9 – L’INFLUENZA SOCIALE
Attualmente si distingue fra l’influenza esercitata da una maggioranza (numerica o di
potere) e quella esercitata da minoranze che adottano stili di comportamento
coerenti: la prima genera conformismo, la seconda può innescare processi di
innovazione.
CONFORMISMO E FORZA DELLA MAGGIORANZA
Nelle situazioni individuali il soggetto elabora un proprio campo di giudizio, mentre
nella situazione di gruppo i soggetti tendono a convergere nei loro giudizi verso una
norma comune principalmente perché colui che diverge si sente incerto ed insicuro,
nella posizione deviante.
L’influenza sociale è data dalle pressioni esercitate sulle persone per farle agire in
modo contrario alle loro convinzioni e ai loro valori.
L’individuo o, più generalmente, la minoranza, appare sia come colui che resiste al
gruppo, sia come colui che devia.
 in quanto resiste, l’individuo si sottrae alla pressione sociale quando in essa
viene espresso un giudizio che diverge dal suo e contrario a ciò che ognuno
vede e pensa; questo individuo giunge così a ridurre l’effetto di conformismo e
ad evitare l’errore collettivo;
 in quanto devia, l’individuo si allontana dai giudizi e dagli scopi del gruppo
costituendo un ostacolo all’adattamento del gruppo stesso: gli altri membri del
gruppo tendono a far pressione su di lui per riavvicinarlo alla norma comune, o
ad escluderlo dal gruppo se la pressione fallisce; può derivare da ciò un
eccesso di conformismo.
IL MODELLO GENETICO DELL’INFLUENZA SOCIALE
Secondo il modello genetico, tutti i membri di un gruppo possono sia subire che
portare influenza: è infatti scorretto dare per scontato che l’influenza vada
necessariamente dalla maggioranza alla minoranza.