UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE, GIURIDICHE E STUDI INTERNAZIONALI Corso di Laurea Magistrale in Politica Internazionale e Diplomazia CINQUE FATTORI DI ANALISI DELLA GEOPOLITICA Relatore: Prof. GIORGIO CARNEVALI Laureando: DANILO GIORDANO matricola N. 605079/PID A.A. 2012/2013 1 SOMMARIO Introduzione Pag.3 CAPITOLO I: Il Fattore Statale Pag.7 CAPITOLO II: Il Fattore Energetico Pag.15 CAPITOLO III: Il Fattore Militare Pag.29 CAPITOLO IV: Il Fattore Economico Pag.43 CAPITOLO V: Il Fattore Culturale Pag.59 Conclusioni Pag.81 Bibliografia Pag.105 2 INTRODUZIONE Fornire una definizione univoca di che cosa sia la geopolitica oggi è un’impresa alquanto difficile. Una concezione, a mio avviso, riduttiva della geopolitica la definisce come una disciplina che studia i condizionamenti che fattori geografici quali forma, estensione e posizione del territorio hanno sulla politica degli stati, i quali vengono così assimilati ad organismi attivi in un ambiente internazionale più o meno instabile, in cui ogni attore è costretto a lottare per assicurarsi spazio e risorse, per espandersi ed evitare di declinare o morire. Questa definizione rispecchia una visione vecchia della geopolitica che in passato si è occupata soprattutto di stabilire il ruolo delle grandi potenze in maniera deterministica, valutandolo essenzialmente in chiave di conquiste territoriali. Halford Mackinder, uno dei padri della geopolitica, sosteneva che la nazione che fosse riuscita a conquistare lo HEARTLAND, un’area indefinita dell’Asia centrale, avrebbe avuto il predominio mondiale1. Nicholas J. Spykman adottò la visione di Mackinder, ribaltandone l’assunto principale: chi controlla il RIMLAND, un’area compresa tra l’Heartland e gli oceani, domina l’Eurasia e quindi il mondo2. Il contrammiraglio della Marina USA Alfred T. Mahan, diversamente dai due precedenti, sosteneva che il predominio del mondo dovesse basarsi sul controllo dei mari3. La geopolitica degli ultimi decenni ha smesso di occuparsi solo di conquiste territoriali; i suoi campi di interesse si sono ampliati a tal punto da sconfinare spesso nell’ambito di altre discipline. La geopolitica, oggi, si interessa certamente 1 HALFORD MACKINDER, The geographical pivot of history, The Geographic Journal, vol. XXIII, 1904. 2 NICHOLAS J. SPYKMAN, America’s strategy in world politics: the United States and the balance of power, New York, Harcourt, Brace and Company, 1942. 3 ALFRED THAYER MAHAN, The influence of sea power upon history, 1660-1783, Boston, Little Brown & C., 1890. 3 di fattori geografici come la posizione, il territorio e la sue risorse, ma anche di fattori altri, che vanno dalla finanza al settore degli armamenti, dalle religioni agli accordi commerciali, dalle nuove tecnologie alla demografia: il prefisso geo non viene più inteso come riferito alla geografia, bensì alla portata dell’analisi che adesso è globale. Questa nuova visione più ampia riflette la complessità dell’attuale scenario politico mondiale, caratterizzato dalla variazione continua degli agenti disturbatori di ogni nuovo sistema costituito e dall’emergere di nuovi attori che operano sfruttando al meglio sia il potere conferitogli dalle risorse di cui sono dotati, sia gli spazi lasciati scoperti da una generale “distrazione” delle potenze leader. Di conseguenza la divisione del mondo in paesi ricchi, in via di sviluppo o poveri, peraltro funzionale alla visione delle cosiddette grandi potenze, non funziona più, così come non può funzionare una gestione degli affari del mondo sulla base di una semplice gerarchia statistica. La semplificazione dello scenario geopolitico globale, che si sarebbe dovuta palesare all’indomani della fine della Guerra Fredda, non si è mai realizzata. Gli attacchi al World Trade Center dell’11 settembre 2001 hanno rivelato la presenza dirompente di minacce asimmetriche prima sconosciute e la vulnerabilità di un sistema non governato, fuori controllo, ancora troppo fragile per essere duraturo. Sono cambiati anche gli strumenti di affermazione e di espansione: non più le rotte commerciali marittime o la conquista con le baionette, ma fattori altri quale la costruzione di grandi reti di trasporto dei nuovi tesori (petrolio, gas, acqua), l’acquisizione di grandi giacimenti, nuove forme di espressione identitaria, strumenti economici sempre più pervasivi4. La scoperta di nuovi giacimenti di petrolio o gas e lo sviluppo di capacità estrattive di buon livello hanno cambiato radicalmente l’importanza geopolitica di paesi come Azerbaigian e Kazakhstan; il posizionamento strategico in un’area considerata vitale per gli interessi dei “grandi” ha cambiato la rilevanza geopolitica di altri paesi come Afghanistan e Turkmenistan; una crescita 4 GIANLUCA ANSALONE, I nuovi imperi. La mappa geopolitica del XXI secolo, Venezia, Marsilio editore, 2008, pag. 33. 4 economica rilevante che fa da contraltare alle stagnanti economie delle potenze occidentali ha aumentato il peso politico di paesi come Turchia e Messico; il semplice possesso di armi nucleari ha reso attori primari dello scacchiere mondiale stati relativamente importanti come Corea del Nord e Israele; le cancellerie italiane, francesi e spagnole sono state surclassate, in importanza, da quelle indiane, brasiliane e cinesi; il futuro tecnologico del mondo è possibile vederlo in maniera più evidente a Dubai, Shanghai e Singapore, piuttosto che a Londra o Berlino. Le agitazioni sociali in Cina, il sistema scolastico dell’Arabia Saudita, il vuoto di potere in Afghanistan, le tensioni etniche nelle regioni ricche di petrolio del delta del Niger, la volatilità dell’economia argentina hanno un impatto immediato sulla geopolitica e l’economia mondiale che non ha equivalenti nel passato5. Stato, Energia, Armamenti, Economia e Civiltà saranno, a mio avviso, i campi nei quali si combatterà la sfida di potenza degli imperi del XXI secolo. 5 IAN BREMMER, La curva J. La bussola per capire la politica internazionale, Milano, Università Bocconi editore, 2008, pag. 327-8. 5 6 CAPITOLO I IL FATTORE STATALE Sebbene lo abbia minacciato in più modi, la globalizzazione non ha portato alla fine dello Stato Territoriale nato con la pace di Westfalia e trasformatosi in Stato nazionale con la rivoluzione francese, né ha portato alla nascita di un nuovo soggetto. Caduto il muro di Berlino, molti hanno pensato che gli interessi nazionali fossero un relitto del passato, giurato sul tramonto delle frontiere, postulato la nascita di un’Europa potenza civile, anticipatrice dei destini universali. Vent’anni dopo, invece, i massimi protagonisti della scena mondiale sono ancora stati nazionali, fieri di esserlo, mentre le frontiere proliferano, disegnando dozzine di nuovi stati o staterelli, più patrimoniali che nazionali6. Una multinazionale potrà anche accumulare più ricchezza di uno Stato, ma la mancanza degli attributi statali non le consentirà mai di avere lo stesso potere. Gli stati territoriali restano e resteranno gli attori fondamentali della politica, sia per le questioni interne che per quelle internazionali. Non sono scomparsi né il concetto di interesse nazionale, né quello di stato. La crisi economica mondiale tuttora in corso ha dimostrato, anche ai più scettici, quanto lo stato sia l’unico soggetto in grado di fornire l’equilibrio giusto tra libertà economica e solidarietà sociale e nazionale. La competizione basata sul territorio continua a dominare gli affari internazionali, sia pure in forme che attualmente tendono a essere più civili. La collocazione geografica continua a essere il punto di partenza per definire le priorità esterne di uno stato-nazione, mentre l’estensione del territorio nazionale costituisce uno dei parametri principali di definizione sia del prestigio che della potenza7. Inoltre, il compito principale di ogni stato continua ad essere quello di elaborare la propria visione del futuro in base alla propria identità e ai propri 6 LIMES, C’era una volta Obama, Roma, Gruppo Editoriale l’Espresso, vol.1/2010, pag.21. 7 ZBIGNIEW BRZEZINSKI, La grande scacchiera, Milano, Longanesi & C., 1998, pag.54. 7 interessi, di accrescere la competitività del proprio territorio e attirare la massima quantità possibile dei flussi di ricchezza mondiali8. Sul piano geostrategico, i giocatori attivi sono quegli stati che hanno la capacità e la volontà nazionale di esercitare potere o influenza al di là dei propri confini allo scopo di modificare gli assetti geopolitici esistenti. Il “primato statale” tocca indiscutibilmente agli Stati Uniti d’America. L’esercizio del predominio americano deriva dalla superiore organizzazione, dalla capacità di mobilitare prontamente grandi risorse economiche e tecnologiche, spesso per scopi militari, dal richiamo dello stile di vita americano, dal semplice dinamismo e dall’intrinseca competitività delle elite sociali e politiche9. L’impero degli Stati Uniti conta nel mondo circa 800 basi militari, alleanze multilaterali (NATO) e bilaterali, una posizione dominante all’interno delle istituzioni finanziarie internazionali (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale), nelle banche, nelle multinazionali, nelle società finanziarie e nelle industrie presenti in Asia, America Latina, Europa e altrove, un predominio culturale che ha il suo punto forte nell’industria cinematografica di Hollywood e un mondo accademico che detta i tempi culturali al resto del mondo. È vero che l’America ereditata da Obama nel 2009, dopo la disastrosa esperienza di George W. Bush, non è più l’America che Bill Clinton aveva consegnato nel 2001 proprio a Bush jr.; ma è anche vero che proprio l’elezione del primo presidente di colore della storia americana è stato uno degli avvenimenti televisivi più visti della storia, a ulteriore riprova del forte potere attrattivo che la politica americana ancora esercita. Il potere statale americano dimostra la sua maggiore forza nell’espressione della sua politica estera: di fatto tutto il mondo attende la decisione o il parere americano su qualsiasi tipo di avvenimento. Da Parigi a Berlino, da Mosca a Tel Aviv, da Pechino a Brasilia tutti si chiedono cosa faranno 8 CARLO JEAN, Geopolitica del caos. Attualità e prospettive, Milano, Franco Angeli editore, 2007, pag.32. 9 ZBIGNIEW BRZEZINSKI, op. cit. , pag.20. 8 gli Stati Uniti con quel particolare dittatore, come risolveranno quella particolare situazione di conflitto, come gestiranno quella particolare crisi. Da sceriffi riluttanti, quali erano in passato, gli Stati Uniti si sono trasformati nel tempo non solo in gendarmi del mondo, ma anche in crociati della democrazia, scontrandosi in primo luogo con l’islam, per renderlo omogeneo ai valori americani, modernizzarlo e farlo partecipare alla globalizzazione10. Ma un impero, indebitato fino al collo con i suoi competitori strategici, incapace di risolvere i conflitti in Iraq e Afghanistan e di sbrogliare la complicata situazione nel Grande Medio Oriente, cessa di fatto di essere tale. Gli Stati Uniti hanno paura di una cosa sola: non essere più in grado di fare paura. Ed è la perdita di tale potere la minaccia più concreta alla egemonia americana. L’avversario politico globale degli Stati Uniti, il competitor strategico, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e il susseguente crollo del sistema russo è la Repubblica Popolare Cinese. La Cina non ha sfidato, né adottato il modello statunitense di costruzione di un impero attraverso l’imposizione di un potere militare, né tantomeno si è ispirata agli approcci utilizzati da Giappone e Germania per competere con le potenze imperialiste affermate. La sua crescita dinamica è stimolata dalla competitività economica, sostenuta da uno Stato fortemente centralizzato, con la volontà di trarre spunti, imparare, innovare ed espandersi, internamente e oltreoceano, e da una politica estera alla ricerca di sostegno in giro per il mondo. La sua politica estera ha raggiunto una dimensione globale sviluppandosi, negli anni, su quattro assi principali: miglioramento delle relazioni con i paesi limitrofi al fine di creare un ambiente regionale favorevole; accesso alle risorse naturali nei paesi in via di sviluppo; sostegno alla creazione di un ordine internazionale multipolare; repressione di ogni forma di separatismo (ricongiungimento di Taiwan compreso). Il successo di questa politica è dimostrato dal fatto che a quello che una volta era chiamato Washington Consensus, e cioè la capacità da parte degli USA di influenzare le decisioni altrui 10 CARLO JEAN, Geopolitica del XXI secolo, Bari, Laterza editore, 2004, pag.53. 9 ottenendo sostegno incondizionato in cambio di aiuti economici, si contrappone con sempre maggior forza il Beijing Consensus. Esso è molto più attraente per le classi dirigenti delle autocrazie dei paesi emergenti, specie di quelli produttori di petrolio, poiché non si prefigge di imporre il rispetto dei diritti umani né la democratizzazione, cambiando anche i regimi politici, ma di accettarli per quello che sono e concludere affari con essi. La definitiva affermazione dello stato cinese risulterà impossibile se non avverrà anche un rafforzamento delle dinamiche interne. Il forte dinamismo economico del settore privato a lungo andare sarà incompatibile con la rigida dittatura burocratica comunista che ormai nasconde soltanto interessi costituiti che non hanno più niente a che vedere con l’ideologia. La classe dirigente cinese, chiusa e intollerante, è organizzata secondo criteri gerarchici, e anche se continua a proclamare in modo ritualistico la fedeltà ai dogmi per giustificare il proprio potere, ha cessato di applicarli nella pratica sociale11. I leader cinesi dovranno riuscire nell’impresa di promuovere una transizione lenta e graduale a una forma di autoritarismo temperato, in cui siano tollerate alcune scelte politiche dal basso, e avviare, in seguito, un processo istituzionale che introduca un’autentica forma di pluralismo politico12. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e il “decennio perduto” della presidenza di Boris Eltsin molti avevano considerato la Federazione Russa definitivamente fuori dai giochi per la conquista della supremazia globale. Con l’arrivo di Putin la Russia sta pian piano riconquistando la sua posizione di potere, abbandonando il suo fardello eurasiatico che la costringeva ad essere un impero autoritario. Il processo di trasformazione in Stato-nazione dei frammenti dell’impero è stato comunque difficile ed è tuttora in corso. Vi è, ancora, in Russia, una debole società civile, manca una classe media e la burocrazia è tuttora ancorata al passato; la sua classe dirigente è però completamente europeizzata. L’enorme complessità della situazione interna la obbliga ad essere comunque più 11 ZBIGNIEW BRZEZINSKI, op. cit., pag.215. 12 ZBIGNIEW BRZEZINSKI, ibid., pag.217. 10 autocratica di quanto lo fosse stato negli anni novanta e a tentare di centralizzare l’enorme federazione13. Putin tiene saldamente il potere e gode di un’enorme popolarità tra i russi, anche perché ne ha saputo far rivivere l’orgoglio nazionale, interpretandone i desideri e le speranze. L’attuale Presidente russo sapeva bene che non avrebbe potuto adottare alcuna riforma se non si fosse prima garantito un saldo potere ed è da qui che è derivata la presa di controllo dei mezzi di informazione e il recupero del patrimonio nazionale saccheggiato dagli oligarchi legati alla famiglia Eltsin. L’imposizione della stabilità da parte di Putin, fortemente sostenuta dai maggiori governi europei, suscita spesso reazioni negative e proteste per i metodi violenti e per la pratica, abbastanza comune, di sostituire i vecchi oligarchi con ex-appartenenti al KGB, ma il mondo degli affari ha visto con favore la ritrovata solidità economica. La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha portato alla perdita di importanti territori con conseguenti perdite strategiche: la perdita dei paesi baltici ha limitato l’accesso russo al Mar Baltico attraverso i porti di Riga e Tallin, la perdita dell’Ucraina ha privato la Russia della sua posizione dominante sul Mar Nero attraverso il porto di Odessa, la nascita dei nuovi stati caucasici (Georgia, Armenia ed Azerbaigian) ha accresciuto la possibilità della Turchia di ristabilire la sua antica influenza, mentre la creazione di nuovi stati centroasiatici ha privato la Russia di immense risorse minerali strategicamente importanti. La riaffermazione di una nuova politica estera russa si basa soprattutto sullo sfruttamento della sua posizione strategica, sulla volontà di NATO e UE di volersi allargare ad Est e sulla sempre maggiore richiesta di gas e petrolio da parte dei paesi in via di sviluppo, senza disprezzare l’opzione dell’intervento armato quando le circostanze lo richiedono, come nel caso della Cecenia, dell’Ossezia e dell’Inguscezia. Accanto a questi tre grandi ci sono una serie di paesi che, sfruttando la loro posizione strategica o una congiuntura economica favorevole, stanno cambiando lo schema geopolitico mondiale. Il Brasile è ormai pronto a fare la propria 13 CARLO JEAN, op. cit., pag.164. 11 comparsa nel mondo che conta attraverso l’energia, il commercio ed un’economia in forte crescita; l’India è diventata l’ufficio del mondo e ha nella demografia l’arma assoluta per l’oggi e il domani; le vastissime riserve di gas e di petrolio, le formidabili forze armate e i progressi del programma nucleare fanno dell’Iran una potenza strategica del Golfo Persico; Egitto, Turchia e Arabia Saudita rappresentano i tre vertici di un triangolo strategico impegnato nella stabilizzazione e conquista della fondamentale regione del Medio Oriente e del Nord Africa; Corea del Nord, Pakistan e Afghanistan sono invece ritenuti fondamentali in quanto un loro fallimento è ritenuto pericoloso per zone di grande rilevanza strategica. Da questo elenco appare evidente l’assenza di uno stato europeo geopoliticamente forte. Le difficoltà economiche, i problemi sociali e demografici, la forte dipendenza energetica dall’estero hanno tagliato fuori Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia dalla contesa geopolitica globale. Solo una unione formale di stati, come la UE, può riposizionare l’Europa al centro dello scacchiere geopolitico globale; ma i singoli stati dovrebbero delegare alla UE non soltanto le politiche economiche, ma anche quelle militari ed energetiche. Attualmente l’Unione Europea ha enormi difficoltà: non è né uno stato unitario né una federazione né una confederazione ma solo uno spazio economicamente integrato, con un apparato d’istituzioni politiche comuni solo superficiale, che non inficia la sussistenza dei vecchi Stati nazionali; si è diffuso tra la popolazione e tra molti governi nazionali un certo “euro-scetticismo” e l’allargamento dell’UE verso est negli anni recenti si sta rivelando compromettente per la stabilità e funzionalità della compagine europea. Inoltre, nonostante l’istituzione della PESC e della PESD, l’UE non ha ancora una sua politica estera comune, ma ogni Stato nazionale ne persegue una propria, né un suo strumento o una sua politica militare, ancora ritenuto uno dei fattori essenziali della politica internazionale. La situazione di stallo per l’adesione della Turchia alla UE, adesione che potrebbe creare problemi ma che sicuramente rinvigorirebbe il dibattito culturale europeo, anch’esso in forte declino, ha fatto perdere credibilità alla Unione Europea, 12 nonché la possibilità di ottenere benefici da un’economia, come quella turca, che è in forte crescita. Gli ultimi anni e gli ultimi avvenimenti politico-militari hanno mostrato chiaramente quanto sia diventata debole l’ONU. Quello che doveva diventare il governo mondiale ha perso sempre più credibilità, sotto i colpi degli interventi americani nei Balcani e in Iraq, ma soprattutto a causa della sua sempre maggiore incapacità decisionale dovuta ai troppi schieramenti contrapposti e ad una struttura da rinnovare che o tenga in maggior considerazione le potenze emergenti o sia davvero mondiale e non più sottoposta alla dittatura dei cinque Grandi. Gli ultimi colloqui per una riforma dell’Organizzazione delle Nazioni Unite non hanno dato esiti positivi, stante la contrapposizione tra diversi gruppi: G-4 (Germania, Giappone, Brasile e India) contro Uniting for consensus (Italia, Spagna e Paesi Bassi) contro Coffee Club (Pakistan, Argentina, Messico, Turchia, Canada e Corea del Sud). Laddove l’UE e l’ONU stanno perdendo terreno, la NATO lo sta guadagnando. Dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia e la dissoluzione dell’Unione Sovietica gli americani piuttosto che smantellare la NATO, essendo venuta meno la sua ragion d’essere ufficiale, hanno pensato di preservarla, trasformandola in uno strumento politico addetto alla sicurezza e alla stabilità europea e in uno strumento militare offensivo e non più difensivo. Per non perdere il vizio, la NATO ha esteso i propri confini orientali in Europa a partire dal 1999, con l’ingresso di Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia, e via via inglobando, in un modo o nell’altro, tutti gli ex-membri del Patto di Varsavia, circondando di fatto la nuova Russia. A partire dal vertice di Strasburgo/Kehl del 2009 un gruppo di esperti è stato incaricato di delineare le linee del nuovo concetto strategico NATO, adattandole alle nuove minacce, ma di fatto ricercando nuovi obiettivi strategici per affermare il predominio dell’Occidente (vedi USA) in aree strategicamente rilevanti e fino a quel momento sotto influenza sovietica. L’energia, la sicurezza e l’antiamericanismo sono gli elementi vincolanti della Shanghai Cooperation Organization (SCO), una organizzazione sconosciuta 13 ai più, ma che sta realizzando enormi progressi nella cooperazione internazionale. Nata nel 1996 dalla volontà di cinque paesi, i Cinque di Shanghai (Cina, Russia, Tagikistan, Kazakistan, Kirghizistan) con il proposito di difendere e rafforzare i confini e le frontiere dei paesi membri, nel 2001 l’organizzazione ha inglobato l’Uzbekistan implementando i suoi obiettivi contro il terrorismo e le minacce asimmetriche, ma di fatto svelando che l’obiettivo reale dell’organizzazione è il controllo, sia militare che energetico, di un’area fondamentale per gli sviluppi futuri, l’Asia Centrale. Ogni sua riunione mette in evidenza lo scontro tra due visioni geopolitiche differenti, quella russa e quella cinese: la prima è ansiosa di ripristinare il suo antico splendore, anche militare, la seconda cerca di accaparrarsi quanta più energia possibile per sostenere la sua crescita impetuosa. Anche se fortemente integrate, queste organizzazioni non sono però veri e propri stati, capaci di agire autonomamente sulla scena internazionale, di governare gli stati di eccezione e di imporre interessi e politiche. Derivano sempre da accordi intergovernativi, anche quando sono previsti in esse dei direttori formali. La logica dello stato prevale sempre sulla logica multilateralista e collaborativa, soprattutto nei periodi di crisi quando la difesa del proprio “orticello” resta l’unica arma che i governi sono in grado di proporre ai propri governati per ottenerne la riconoscenza. 14 CAPITOLO II IL FATTORE ENERGETICO In questo difficile scenario geopolitico mondiale, la disponibilità di imponenti arsenali militari passa sempre più spesso in secondo piano rispetto alla possibilità di accedere a riserve di petrolio, gas naturale e altre fonti di energia. Nel vecchio ordine la posizione occupata da un paese nella gerarchia globale era valutata in base al numero di testate nucleari, di navi da guerra e di soldati posseduti. Nel nuovo ordine, la posizione nella classifica è sempre più determinata dalla vastità delle riserve di petrolio e gas naturale o dalla capacità di mobilitare grandi disponibilità economiche per acquisire le risorse energetiche dei paesi che ne hanno in surplus. L’energia costituisce un fattore di condizionamento politico rilevante. Innanzitutto le riserve energetiche dettano i tempi della politica interna dei paesi produttori, che sanno bene come il limite del loro potere è il punto in cui le loro riserve divengono troppo scarse per essere estratte creando un surplus economico, e come la necessità di generare sovra redditi sia un processo che ha il tempo, ristretto, della obsolescenza delle tecnologie di estrazione14. In molti paesi i governi utilizzano le compagnie di stato come strumento di politica estera: si parla di statalismo delle risorse quando uno stato acquisisce una maggiore autorità nei settori dell’energia nazionale, come proprietario di risorse strategiche o come principale attore nell’approvvigionamento, trasporto e distribuzione dei flussi energetici15. Per i paesi privi di risorse energetiche, la ricerca di queste ultime genera una lotta feroce per il controllo o l’acquisizione dei giacimenti strategici di materie prime essenziali, in cui entrano in gioco praticamente ogni mese nuovi partecipanti: Indonesia, Malesia, Corea del sud, Turchia, Sud Africa e altre 14 GIANCARLO ELIA VALORI, Il futuro è già qui, Milano, RCS libri, 2009, pag.14. 15 MICHAEL T. KLARE, Potenze emergenti. Come l’energia ridisegna gli equilibri politici mondiali, Milano, Edizioni Ambiente, 2010, Pag.39. 15 nazioni in rapido sviluppo. Recentemente inoltre si è inserito un altro aspetto della lotta energetica, quello degli stati che ospitano o ospiteranno le pipelines dirette verso i paesi che hanno maggior bisogno di energia. Sono paesi che hanno acquisito importanza in virtù della loro posizione strategica, e che sfruttano questa situazione per imporsi nello scenario globale. Il grande gioco dell’energia che ne consegue, con il suo enorme potenziale di rivalità, alleanze, conflitti, tradimenti e tensioni sarà senza dubbio un elemento essenziale, se non dominante, della politica mondiale di questo secolo. Gli scontri diretti tra superpotenze sono stati finora evitati. Ciononostante, con l’aumentare della necessità di risorse sempre più scarse, la possibilità di innescare un conflitto tra le grandi potenze si profila come uno dei pericoli più gravi che il pianeta potrebbe affrontare. Con il tempo, anche un piccolo incidente potrebbe innescare una reazione a catena di attacchi e contrattacchi che potrebbero sfociare in una guerra globale. I rischi a lungo temine crescono anche perché i principali produttori di energia si servono regolarmente della più pericolosa delle emozioni, il nazionalismo, per legittimare la loro volontà di controllo dei flussi energetici. A questo bisogna aggiungere che i leader della maggior parte dei paesi coinvolti nella gara all’energia considerano la lotta per le riserve di idrocarburi come un conflitto a somma zero, nel quale un guadagno di un paese rappresenta invariabilmente una perdita per gli altri. Questa mentalità implica una totale mancanza di flessibilità nelle situazioni di crisi, mentre la prospettiva nazionalista trasforma la vendita/ricerca delle risorse energetiche in un obbligo sacro a carico dei responsabili di governo. I combustibili fossili rappresentano la fonte principale di energia e normalmente quando si parla di geopolitica dell’energia si fa riferimento al petrolio e al gas naturale, perché sono le fonti che destano maggiori problemi di ordine geopolitico. Come mai il petrolio gioca un ruolo così importante negli affari internazionali? Secondo Michael T. Klare la sua costante disponibilità e abbondanza non sono mai state così essenziali per il buon funzionamento dell’economia globale. L’oro nero, come spesso viene definito, risulta 16 fondamentale per ogni tipo di attività produttiva, per alimentare le città così come i campi da raccolto; inoltre i derivati del petrolio sostengono la struttura portante della globalizzazione: aerei, navi, treni e camion che trasportano le merci da una parte all’altra del pianeta. Aggiunge Klare che la concorrenza per l’energia non è mai stata così intensa: negli ultimi anni, sono entrate nel gioco politico mondiale le economie emergenti di Cina, India e Brasile, la cui crescita necessita di sempre maggiori quantità di energia. Non è affatto certo che l’industria energetica riesca a soddisfare le impetuose esigenze di questi nuovi consumatori, unite a quelle sempre molto elevate delle potenze industriali ormai consolidate. Perfetto corollario di questo teorema è che i timori di un prossimo esaurimento delle riserve petrolifere sono più che elevati e più che giustificati16. Un numero crescente di prove suggerisce che l’era del petrolio facile stia volgendo al termine: ogni nuovo barile di petrolio sarà più difficile da estrarre e più costoso del precedente17. Nel caso dei procedimenti di estrazione del petrolio vale la legge dei guadagni decrescenti: vengono scoperte e sfruttate per prime le risorse petrolifere di più facile accesso e di minor costo unitario di estrazione, in seguito i ritrovamenti di giacimenti saranno via via più rari e costosi fino ad arrivare al punto di non ritorno in cui il costo di produzione supererà il prezzo medio del bene. Quindi le soluzioni per il futuro sono due: o si continua con il livello standard di consumi, cercando di ottimizzare sia le tecniche di estrazione che quelle di utilizzo, oppure si abbandona il petrolio. A tutt’oggi l’asimmetria strutturale delle aree di reperimento del petrolio, che non è distribuito in modo prevedibile, e il trivellamento dei giacimenti che segue un metodo casuale di prova ed errore, non aiutano a raggiungere una diminuzione del prezzo di estrazione18. Esistono altri due fattori che giustificano una visione negativa 16 GIACOMO MANGANO, Lo spettro della fine del petrolio, Affari Internazionali, www.affariinternazionali.it, 18 Ottobre 2010. 17 MICHAEL T. KLARE, op. cit., pagg.25-30. 18 G. ELIA VALORI, op. cit., pagg.29-31. 17 riguardo all’approvvigionamento futuro di petrolio: una riduzione più rapida del previsto della produzione dei giacimenti esistenti e i risultati deludenti nella scoperta di nuovi giacimenti. Una quota altissima dell’attuale produzione mondiale di petrolio proviene da 116 giacimenti giganti. Di questi, tutti tranne quattro sono stati scoperti oltre venticinque anni fa, e molti di loro danno ormai segnali di riduzione della capacità produttiva. I giacimenti di Ghawar in Arabia Saudita, Cantarelli in Messico e Burgan nel Kuwait da soli hanno una produzione complessiva di 8 milioni di barili al giorno, cioè un decimo della produzione mondiale19. Non c’è solo il declino dei giacimenti esistenti, ma anche il fatto che le nuove scoperte avvengono soprattutto in luoghi dove le risorse sono difficili da estrarre oltre che fisicamente anche “politicamente”. La distribuzione dei giacimenti di petrolio nel mondo è l’elemento principale della geopolitica di tale risorsa energetica. Il 57% delle riserve mondiali si trova in Medio Oriente e precisamente in Arabia Saudita (21%), Iran (11%), Iraq (9%), Kuwait (8%), EAU (8%). Al di fuori del Medio Oriente solo Venezuela e Russia possiedono riserve di grandezza comparabile. Il problema politico mediorientale deriva dalla perdurante instabilità della regione; il Golfo Persico, in particolare, è agitato da conflitti etnico-religiosi (presenza di musulmani sciiti e sunniti, di popolazioni arabe e non arabe) ed è stato teatro di guerre rilevanti, in cui si intrecciavano malcelati interessi petroliferi: la guerra Iraq-Iran (1980-88), la prima guerra del golfo (199091) e la seconda guerra del golfo (dal 2003 ad “oggi”). Il Medio Oriente e le sue risorse sono da molto tempo al primo posto negli interessi degli strateghi americani che già nel 1945, con gli accordi firmati a bordo del Quincy tra Roosevelt e il Re d’Arabia Saud, riconoscevano alla zona una importanza capitale per il loro approvvigionamento energetico: importanza che hanno dimostrato intervenendo nell’area ogni volta che la situazione lo richiedeva. 19 MICHAEL T. KLARE, op. cit., pag.51. 18 Ma la notevole turbolenza del golfo persico ha convinto gli stati che più necessitano di risorse, Stati Uniti e Cina in testa, a diversificare geograficamente l’approvvigionamento di idrocarburi. Secondo una valutazione del Department of Energy del gennaio 2007, la regione del Mar Caspio, compreso il mare e gli stati che lo circondano, sarà strategica per i mercati mondiali nel prossimo decennio e avrà tutte le potenzialità per diventare uno dei luoghi principali di esportazione di petrolio e gas. Si prevede che l’area farà registrare un aumento della produzione di petrolio pari a circa il 171% tra il 2005 e il 2030; è una delle poche regioni al mondo che può potenzialmente beneficiare di un incremento di queste dimensioni. Occorre, inoltre, sottolineare che le nazioni della regione sono pronte a esportare il proprio surplus di energia verso i mercati internazionali, e nella maggior parte dei casi manifestano l’intenzione di cooperare con aziende internazionali affinché questo sia possibile, nella speranza di liberarsi dalla morsa sovietica. Tra i paesi dell’area il Kazakhstan è diventato una centrale energetica che tutte le superpotenze cercano di conquistare o controllare, e dove è stato scoperto l’ultimo grande giacimento petrolifero, quello di Kashagan, così come in Uzbekistan i leader cinesi hanno corteggiato a lungo il governo autoritario del paese, assicurandosi lo sfruttamento congiunto dei giacimenti petroliferi intorno a Bukhara. Grazie alla impressionante quantità di materie prime ereditate dall’Unione Sovietica, l’attuale Russia dispone di alcune tra le più grandi riserve mondiali di petrolio, gas, carbone, uranio e altre materie essenziali. Per tutto ciò la Russia potrà continuare a sostenere la propria crescita economica per i prossimi decenni, grazie alla produzione di energia e alle esportazioni. La strategia energetica russa prevede lo sfruttamento delle immense riserve energetiche della Siberia, lo sviluppo di forti alleanze commerciali, l’investimento di capitali e la ripartizione dei rischi tra paesi produttori e consumatori, il controllo del sistema degli oleodotti di tutti i paesi della vecchia URSS. 19 Ma sarà il petrolio africano a costituire una delle chiavi di volta della questione energetica dei prossimi decenni20. Ciò che rende oggi l’Africa così interessante è esattamente quello che l’ha resa così attraente nei secoli precedenti: una grande abbondanza di materie prime essenziali, ospitate in un continente profondamente diviso, debole dal punto di vista politico e quindi eccezionalmente esposto allo sfruttamento internazionale. Poiché oggi ogni singolo barile di petrolio è rilevante, e le principali potenze consumatrici di energia vogliono ridurre la loro dipendenza dal Medio Oriente, l’Africa è ridiventata una fonte importante di materie prime. I motivi del nuovo “scramble for africa” sono innumerevoli. Innanzitutto l’Africa è la regione del pianeta dove la produzione petrolifera è aumentata ai ritmi più sostenuti. In secondo luogo, la produzione petrolifera africana è geograficamente concentrata sulla costa mediterranea e nel golfo di Guinea21, dove al largo delle coste tra Mauritania e Angola sono disponibili grandi riserve di petrolio poco sfruttate22. Le aree marine sono considerate dagli investitori più sicure perché non si trovano nei pressi di comunità locali e di conseguenza ritengono in questo modo di poter evitare i problemi riscontrati sul continente. Inoltre le rotte battute dalle petroliere che vanno dall’Africa occidentale alle coste orientali dell’America non incontrano punti di congestione come il Bosforo in Turchia o lo stretto di Hormuz nel Golfo Persico, e passano attraverso le acque atlantiche controllate dalla Marina statunitense. All’Africa manca, naturalmente, quella strategia di difesa dallo sfruttamento straniero che altre regioni, precedentemente colonizzate, hanno stabilito nel corso del tempo. Hanno pochi professionisti con una preparazione adeguata, e allora questi paesi non hanno altra scelta che affidarsi al supporto tecnico delle corporation straniere. Nella corsa alle risorse africane si è inserita 20 ARRIGO PALLOTTI, La corsa al petrolio in Africa, Cartografare il presente, www.cartografareilpresente.org, 10 ottobre 2007. 21 DANIEL MORRIS, The other Oil-rich Gulf. The National Interest, www.nationalinterest.org, April 25, 2007. 22 GIANLUCA ANSALONE, op. cit., pag.79. 20 prepotentemente anche la Cina23: le sue compagnie si sono rivelate più competitive delle sorelle anglosassoni. Queste ultime sono tutte compagnie private e quindi non prescindono dalla ricerca del profitto, mentre quelle cinesi (SINOPEC, CNOOC e CNPC) sono compagnie statali che fanno i propri conti valutando l’interesse strategico del loro paese e ciò consente di offrire migliori condizioni. Inoltre la Cina non pone le stesse precondizioni degli americani come democrazia, diritti umani e libero mercato: Pechino è pronta a fare affari con tutti, fiduciosa che un rapporto commerciale possa evolversi in amicizia politica e, se ciò non dovesse accadere, che per lo meno ci sarà stato il profitto economico. Sono due visioni strategiche opposte che rispecchiano la profonda differenza tra Cina e USA, poichè nella prima i capitalisti sono soggetti allo stato, nei secondi avviene il contrario24. Diversamente dagli USA, inoltre, il petrolio africano pone la grande sfida strategica di rendere più sicure le rotte marittime che dall’Africa convogliano il petrolio verso la Cina. I cinesi hanno messo in piedi la strategia del filo di perle; una sequenza lineare di infrastrutture navali e militari che dal Mar Cinese Meridionale arriva in Africa a Port Sudan o a Lamu, in Kenya, passando per Cambogia, Thailandia, Myanmar, Bangladesh e Pakistan25. Le paure di un “prossimo” esaurimento del petrolio hanno spronato i paesi ad affidarsi ad altre fonti di energia e il gas naturale rappresenta l’alternativa più interessante al petrolio per diversi motivi. Innanzitutto il suo impiego è ecologicamente più sostenibile, perché rilascia nell’atmosfera quantità di anidride carbonica minori rispetto al petrolio e al carbone, e dopo Kyoto l’attenzione per le questioni relative alla sostenibilità ambientale è molto alta. Come il petrolio anche il gas può essere trasformato in un’ampia gamma di prodotti, tra cui combustibili fossili e fertilizzanti artificiali, così come per produrre elettricità, riscaldamento per case e ambienti lavorativi. Ma forse la ragione principale del suo successo è 23 China’s leader begins Africa tour, BBC News, www.news.bbc.co.uk, January 31, 2007. 24 DANIELE SCALEA, La sfida totale (ebook), Roma, Fuoco Edizioni, 2010, pagg.341-44. 25 DANIELE SCALEA, ibid., pagg.352-3. 21 che si è cominciato a estrarlo dopo il greggio, e pertanto la sua produzione dovrebbe continuare ad aumentare quando avrà inizio la contrazione di quella del petrolio. Anche per il gas naturale ci sarà il “peak point”, cioè il punto in cui verrà raggiunta la massima produzione possibile e da cui ci sarà solo una parabola discendente; ma il peak gas avverrà sicuramente dopo il peak oil. Malgrado ciò il gas naturale presenta diverse problematiche. Innanzitutto, nonostante British Petroleum abbia stimato che il mondo dispone di 181.000 miliardi di metri cubi di gas, la quantità di gas esistente è difficile da determinare per tutta una serie di ragioni, incluso il fatto che i depositi di gas sono spesso mescolati alle riserve di petrolio26. Il petrolio presenta una relativa facilità di trasporto attraverso oleodotti, navi, treni e autocarri; il gas naturale, che è appunto un gas e pertanto molto più voluminoso del petrolio, è difficile da trasportare mediante uno qualunque di questi mezzi, a eccezione dei gasdotti. I giacimenti di gas, inoltre, si concentrano in un gruppo di paesi più ristretto di quelli del petrolio: Russia, Iran e Qatar, da soli, possiedono il 56% delle riserve esistenti al mondo, mentre altri otto paesi, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Stati Uniti, Nigeria, Algeria, Venezuela, Iraq e Kazakhstan dispongono di un ulteriore 21%. Il problema è molto rilevante per paesi come Giappone, Cina, Corea del Sud e Taiwan che necessitano di grandi quantità di gas per sostenere la loro crescita, per i quali l’unica possibilità è ricorrere a metodi complicati e costosi di trasporto e trasformazione. Attualmente gli Stati Uniti sono il principale consumatore di gas naturale del mondo, nel 2005 ne hanno consumato il 22% della produzione mondiale. Il maggior incremento nell’uso di gas naturale è, tuttavia, previsto in Europa e in Asia Orientale, dove vi è la necessità di sostituire sia il carbone nella produzione di elettricità, sia il petrolio, di cui le due aree sono poco dotate, in previsione della sua potenziale scarsità. Ma se in economia il mercato è regolato dall’incontro tra 26 MICHAEL T. KLARE, op. cit., pag.59. 22 domanda e offerta, nel caso del gas, e in parte anche per il petrolio, il mercato è regolato dai paesi che producono questa fondamentale risorsa di energia. A farla da padrone nel mercato del gas è la Russia da cui dipendono energeticamente non solo i paesi sviluppati d’Europa, ma anche le economie in forte ascesa di Cina e India. La Russia è oggi, con il 26 % il primo produttore mondiale di gas, e prevede di quintuplicare nell’arco di vent’anni la produzione. Lo strumento della politica energetica russa è Gazprom, la società a partecipazione statale, proprietaria del 16% delle riserve accertate di gas del mondo, che Vladimir Putin, appena diventato presidente, ha provveduto a rifondare e rinforzare affidandola a uomini fidati, come Alexei Miller e Dmitry Medvedev, l’attuale Primo ministro russo. Putin si è servito di Gazprom come strumento economico, ma anche e soprattutto come strumento geopolitico da usare nei confronti delle repubbliche ribelli ex-URSS. Se inizialmente i prezzi del gas destinato alle repubbliche ex-Urss erano stati praticati a livelli politici, in nome della fratellanza sovietica, la Russia persegue oggi la politica di riportare il livello dei prezzi a quello di mercato, garantendosi, così, il raggiungimento di una florida posizione economica. Durante l’era sovietica, queste nazioni erano integrate nei sistemi di fornitura e trasporto del petrolio e del gas, strutturalmente centralizzati e controllati dalle autorità moscovite. Quando l’URSS si disgregò, le ex repubbliche sperarono di poter fare affidamento sulle stesse fonti di approvvigionamento. Assumendo il mandato, Putin mise subito in chiaro che avrebbero dovuto invece pagare la loro energia in un contesto ormai regolato dalle leggi di mercato. Il 1° gennaio del 2006 Gazprom interruppe all’improvviso il flusso di gas verso l’Ucraina, nel mezzo di un inverno particolarmente rigido, in risposta ad un rifiuto ucraino di riconsiderare un aumento delle tariffe. L’anno dopo, Gazprom decise di chiudere i rubinetti del gas verso Georgia e Bielorussia27, anche loro in forte contrasto con la decisione russa di innalzare le 27 CORRIERE DELLA SERA (online), Guerra del gas, la Russia taglia le forniture alla Bielorussia del 60%, www.corriere.it, 23 giugno 2010. 23 tariffe. Inutile dire che sono state le tre repubbliche ex-URSS a cedere alle richieste di Gazprom. Se pare comunque legittimo l’abbandono di un sistema di prezzi agevolati nei confronti delle repubbliche ex URSS, non c’è un’esatta contropartita quando è la Russia a essere l’acquirente delle riserve energetiche di Turkmenistan o Kazakhstan. A questo punto entra in gioco il secondo strumento di influenza geopolitica russo: il controllo delle infrastrutture di gasdotti e di oleodotti che collegano tutte le repubbliche ex URSS alla Russia sovietica e quest’ultima al resto del mondo, ora sotto il dominio di Trasneft e Gazprom28. Tre sono le future pipelines del progetto russo di controllo dell’energia: Nord Stream, che corre da Vyborg in Russia a Greifswald in Germania, Blue Stream, che unisce Russia e Turchia e South Stream, che partirà dalla Russia per giungere in Italia e in Austria. È il reticolo la figura geometrica che meglio rappresenta le ambizioni imperiali russe e che condiziona la politica nel cortile di casa del territorio dell’ex Unione Sovietica e oltre. Questo reticolo presenta tre livelli di dipendenza geopolitica. Un primo livello è relativo ai paesi produttori di energia che hanno bisogno delle infrastrutture russe, un secondo livello è rappresentato dai paesi di transito di oleodotti e gasdotti gestiti dalla Russia, il terzo livello è costituito dalle aree di destinazione finale verso le quali Mosca adotta un atteggiamento più o meno benevolo sulle tariffe di vendita29. Lo strapotere russo nel settore del gas ha portato i grandi consumatori di gas, Stati Uniti, UE e Cina, a reagire alle pretese egemoniche sovietiche. Se Pechino, forte anche del suo strapotere economico, ha preferito attuare una strategia multilateralista e cooperativa nell’ambito della S.C.O., avallando alcune richieste sovietiche in cambio di favori “energetici”, UE e Stati Uniti hanno cercato, piuttosto, lo “scontro” con il rivale sovietico, provando a sottrarre l’Asia Centrale dall’influenza di Mosca. Contrari a qualunque intervento che potesse 28 GIANLUCA ANSALONE, op. cit., pagg. 155-6. 29 GIANLUCA ANSALONE, ibid., pagg. 161-2. 24 accrescere anche la ricchezza e il potere regionale dell’Iran, gli “occidentali” hanno assunto la guida, la pianificazione e la supervisione della costruzione di alcuni gasdotti quali il Baku-Tbilisi-Erzurum e il Nabucco, progetti lunghi, complessi e costosi che però hanno il vantaggio di non passare né attraverso la Russia né attraverso l’Iran. Il primo collegherebbe i giacimenti dell’Azerbaigian alle coste della Turchia, passando per la Georgia, il tutto scavalcando la Russia ed evitando l’Armenia, paese poco affidabile politicamente; il secondo, una condotta di 3330 km, dovrebbe collegare la Turchia all’Austria, passando per Bulgaria, Ungheria e Romania, distribuendo non solo il gas azero, ma anche quello turkmeno. A Natale del 2009 è nata l’importante OPEC del gas, con sede in Qatar, una versione più aggressiva del predecessore Gas Exporting Countries Forum: si tratta di una nuova struttura di coordinamento e sviluppo del mercato globale del gas. Il GOPEC avrà in Mosca la punta di diamante della cosiddetta trojka del gas formata da Russia, Iran e Qatar, e tra i suoi soci ci sono i maggiori paesi esportatori (Algeria, Bolivia, Brunei, Egitto, Indonesia, Libia, Malesia, Nigeria, Trinidad e Tobago, E.A.U. e Venezuela) meno Iraq e Turkmenistan, anch’essi titolari di importanti riserve di gas. I primi tre paesi quanto a risorse mondiali di gas naturale mirano soprattutto a tutelarsi da azioni speculative esterne, come quelle che hanno colpito più volte il mercato petrolifero, e sganciare il gas dal sistema dei prezzi del petrolio, mantenendone elevate le quotazioni. Accanto a gas e petrolio, la contesa globale si disputerà attorno ad altri minerali strategici quali rame, nichel, uranio, coltan e altri, ma un ruolo forse inaspettatamente importante svolgerà l’acqua. Secondo Yves Lacoste l’espressione geopolitica dell’acqua definisce le rivalità politiche nella ripartizione della portata di fiumi e corsi d’acqua o nello sfruttamento delle risorse idriche; tali rivalità possono svilupparsi fra stati attraversati da uno stesso fiume, ma anche all’interno di un singolo stato, fra regioni o città di grandi dimensioni30. Nel primo 30 YVES LACOSTE, Geopolitica dell’acqua, Milano, Movimenti Cambiamenti, 2002, pag.7. 25 tipo può essere annoverata la contesa fra Israele e il Libano per la gestione delle acque del Litani, e quella fra Israele e l’Autorità Palestinese per lo sfruttamento delle falde acquifere sotterranee, che rappresentano due fattori indissolubilmente legati a tutti gli altri che denotano la “questione mediorientale”. Un esempio di conflitto intestino è in India, dove il fiume Kaveri è al centro di una contesa tra gli stati del Karnataka e del Tamil Nadu, che si contendono l’utilizzo dell’acqua a scopi irrigui: il Tamil Nadu, situato a valle, accusa il Karnataka, a monte, di un prelievo eccessivo. Nel 1924 i due stati si accordarono per la costruzione di una diga che avrebbe dovuto ridistribuire l’acqua, tuttavia il conflitto si riaccese nel 1974 alla conclusione naturale dell’accordo, scatenando disordini ed evacuazioni forzate per 100.000 persone31. Come nel caso delle altre risorse energetiche è la scarsità a rendere l’acqua un bene fortemente conteso: nove paesi, tra cui Brasile, Russia, Cina, India e USA, si dividono il 60% delle risorse idriche naturali del mondo. Lo stress idrico ed ecologico, inoltre, diminuendo la disponibilità della risorsa e producendo squilibrio ecologico, può causare e/o acuire tensioni sociali, conflitti e guerre per il suo controllo. Per questo motivo zone con gravi carenze come il Vicino e il Medio Oriente sono all’origine di situazioni più conflittuali rispetto ai paesi dell’Africa Equatoriale, dove l’acqua è più abbondante32. Il conflitto idrico può rivelarsi anche come un’appendice di una più ampia competizione per il dominio politico, territoriale o culturale. Nel conflitto “culturale” che oppone turchi e curdi, con questi ultimi desiderosi di creare lo stato autonomo del Kurdistan, uno dei punti di forza della Turchia deriva dalla sua posizione geograficamente strategica rispetto ai fiumi Tigri ed Eufrate che nascono a sud-est nell’altopiano del Kurdistan. La volontà turca di impadronirsi dell’acqua dei due fiumi implica la rimozione dell’ostacolo curdo, anche attraverso evacuazioni forzate che finora hanno portato all’esodo di tre milioni di 31 MARGHERITA CIERVO, Geopolitica dell’acqua, Roma, Carocci Editore, 2009, pag.60. 32 JACQUES SIRONNEAU, L’Acqua. Nuovo obiettivo strategico mondiale. Trieste, Asterios Editore, 1997, pag.33. 26 persone33. Secondo alcuni, in Medio Oriente potrebbe scoppiare una vera e propria guerra dell’acqua tra la Turchia e la Siria o l’Iraq a causa di questi due fiumi, così come le dispute idriche potrebbero esacerbare il già aspro conflitto tra India e Pakistan34. Nei paesi del Golfo l’acqua è considerata una risorsa tanto preziosa quanto il petrolio. Nel complesso dei paesi del Golfo, le risorse idriche convenzionali saranno esaurite entro trent’anni, mentre quelle provenienti da costosi impianti di dissalazione sono ormai l’approvvigionamento dominante. La Saline Water Convertion Cooperation è il più grande produttore di acqua dissalata al mondo e gestisce 30 impianti sulle coste del Mar Rosso e del Golfo Persico, con una capacità produttiva di 3,6 milioni di metri cubi giornalieri, mentre si stanno implementando nuovi progetti di impianti di dissalazione e distribuzione dell’acqua. Presentare l’acqua come un fattore che spiegherebbe molti conflitti, però, è errato, perché un’analisi seria non deve dissociare la geopolitica dell’acqua dall’insieme delle tensioni geopolitiche che esistono tra i territori. È indubitabile però che i problemi legati alla scarsità di questa risorsa esistano, e che solo una seria cooperazione a livello regionale e internazionale potrà evitare che essi si aggiungano ad altri motivi di tensione già esistenti. 33 MARGHERITA CIERVO, op. cit., pag.59. 34 LYDIA POLGREEN e SABRINA TAVERNISE, Water dispute increases India-Pakistan tension, The New York Times, www.nytimes.com, July 20, 2010. 27 28 CAPITOLO III IL FATTORE MILITARE In un periodo in cui sempre più studiosi intraprendono vie di studio alternative, a mio avviso, non è ancora possibile derogare da un’analisi del fattore militare, e dello strumento guerra in particolare, per valutare la rilevanza geopolitica di un attore internazionale. La guerra rappresenta ancora un elemento rilevante nel quadro della contesa geopolitica globale e tutte le guerre che l’uomo ha combattuto e che combatte da secoli hanno sempre portato cambiamenti politici e territoriali, spesso frutto di elaborazioni teoriche che molto devono alla geopolitica. Oggi, alla concezione classica della guerra, intesa come mezzo di conquista del potere, di rivendicazioni e dispute territoriali, di liberazione dall’oppressione straniera, è possibile affiancarne una nuova che intende la guerra come una sorta di tasto di reset che ricalibra le gerarchie del potere, secondo schemi prestabiliti e funzionali alla costituzione di un certo ordine. Le recenti guerre americane in Iraq e Afghanistan sono state considerate da molti come lo strumento per la realizzazione di un nuovo e diverso medio oriente che i circoli neoconservatori americani avevano già immaginato e teorizzato da tempo. In virtù di questo, qualsiasi nemico, vicino o lontano, reale o immaginario che sia, serve a giustificare hangar traboccanti di testate atomiche, cacciabombardieri, carri armati, missili balistici e terra-aria. È indubitabile che nel settore militare gli statunitensi abbiano un predominio straripante, nonostante molti analisti, soprattutto europei, tendano a ridimensionare questa supremazia dopo le difficoltà in Iraq e Afghanistan. Ma queste difficoltà non hanno rappresentato, a mio avviso, il fallimento in toto dello strumento militare americano ma soltanto la sconfessione di una singola strategia, messa in campo, peraltro, da una amministrazione politica gretta, ignorante e produttrice di semplificazioni che non aiutano a dar vita ad una conduzione di guerra adeguata. 29 Il predominio militare americano è disarmante e talmente evidente da non poter essere negato neanche dal più acerrimo dei detrattori. Questo predominio si esprime anzitutto attraverso il controllo territoriale, frutto della dislocazione strategica delle basi americane all’estero che mostra la struttura reale dell’impero americano e rappresenta lo scheletro sul quale possono essere modellate le capacità operative dello strumento militare. Attualmente ci sono 737 basi ufficiali americane al mondo che gestiscono circa 2 milioni di soldati35. Le basi americane estere forniscono una serie di benefit al governo americano: garantiscono l’accesso ai mercati energetici, offrono all’esercito la possibilità di schierarsi in profondità e in breve tempo nelle aree strategiche e rappresentano un potente simbolo del potere statunitense. Con l’avvio della cosiddetta guerra globale al terrorismo, dall’autunno del 2001, la penisola del Qatar si è trasformata in un enorme centro armato per le forze USA e GB dirette a colpire sia l’Iraq che l’Afghanistan. La base di Al Udayd è la più grande base aerea della regione e può ospitare fino ad un centinaio di velivoli. Ma il Qatar non è l’unico paese della regione ad ospitare basi americane: Emirati Arabi Uniti, Oman, Bahrain e Kuwait ospitano importanti basi aeree americane per il controllo della regione e delle sue risorse energetiche. Questa logica delle basi americane si ripete in tutto il mondo dove gli americani hanno costituito i loro comandi, per supportare le loro esigenze strategiche. L’ultimo comando creato, a distanza di un quarto di secolo dal precedente, è AFRICOM che il 1 Ottobre 2008 è stato attivato, dopo essere stato costituito come una dipendenza dell’EUCOM. La sua area di responsabilità riguarda 54 nazioni, molto più di ogni altro comando americano. Si aggiunge agli altri comandi: NORTHCOM, EUCOM, PACOM, CENTCOM e SOUTHCOM. Molti sostengono che gli USA siano attratti dal petrolio africano, visto che gli attuali dati sulla produzione e le riserve provate, mostrano che oltre alla regione del Mar Caspio, anche il Golfo di Guinea sembra poter garantire prospettive di 35 JOHNSON CHALMERS, 737 U.S. military bases = global empire, Global Research, www.globalresearch.ca, March 21, 2009 30 crescita elevate. Altri critici sostengono che l’AFRICOM e le altre iniziative NATO rappresentino un’avanzata esponenziale della campagna dell’occidente per riaffermare ed espandere la supremazia globale, puntando ad un continente al crocevia tra nord e sud, est e ovest, tra il mondo sviluppato e non36. Mentre le basi americane in Giappone e Corea del Sud servono di fatto a contrastare l’avanzata cinese e quelle in Europa sono in funzione anti-sovietica, quelle dell’Asia Centrale e dell’Africa sono più funzionali al controllo delle nuove autostrade energetiche. Proprio in Asia Centrale le forze armate statunitensi hanno due importanti basi aeree: Karsi-Chanabad in Uzbekistan e Manas in Kirghizistan, due ex basi sovietiche date in affitto agli USA per appoggiare le operazioni in Afghanistan. Karsi-Chanabad è stata abbandonata nel novembre 2005 su esplicita richiesta del governo uzbeko, dopo il deteriorarsi dei rapporti con Washington, mentre Manas è ancora occupata dagli statunitensi, malgrado non siano mancate le incomprensioni, non ultimo il triplicarsi dell’affitto annuale37. In Asia Centrale è in atto una lotta per la supremazia geopolitica nel Caspio, ed è presente una dimensione militare che non può essere ignorata. Mosca e Washington hanno infatti stipulato accordi militari con gli stati del Caspio, ed entrambi hanno stabilito delle basi militari nella regione: gli Stati Uniti in Afghanistan, Kirghizistan e Uzbekistan; la Russia in Armenia, Azerbaigian, Georgia, Kirghizistan e Tagikistan. I leader delle due superpotenze affermano che queste installazioni rappresentano una reazione a minacce specifiche alla sicurezza, provenienti soprattutto da Al Qaeda, dai talebani e da altri movimenti estremisti. È chiaro però che le basi servono alle due potenze per “sottolineare” la loro presenza nella regione, e lo stesso discorso vale per gli invii di armamenti, le esercitazioni militari e i sistemi di alleanze connessi38. 36 ROZOFF RICK, AFRICOM and America’s global military agenda, Global Research, www.globalresearch.ca, October 27, 2009. 37 DANIELE SCALEA, op. cit., pag.166. 38 MICHAEL T. KLARE, op. cit., pag.145. 31 Il commercio delle armi, legale o illegale che sia, è un altro dei vettori tradizionali e irrinunciabili della proiezione di potenza di un paese. La vendita di armi a un qualsiasi paese rende i sistemi d’arma e le logiche strategiche interoperabili tra venditore e acquirente, quindi diminuisce il potenziale di attacco e interdizione del paese compratore e permette al paese venditore un leverage strategico, militare, economico e geopolitico che sarebbe difficile ottenere con ragioni di scambio diverse da quelle dei sistemi d’arma39. La spesa militare globale si sta rivelando sempre più determinante nelle economie dei paesi più poveri e sempre meno in quelle dei paesi più avanzati. Dal 1998 al 2007 l’aumento della spesa militare è stato del 51% in Africa, e solo del 16% in Europa. Per i paesi poveri, l’espansione della spesa militare permette il controllo della popolazione, il mantenimento delle materie prime presenti nel proprio territorio, l’acquisizione di quelle materie che si trovano nei Paesi vicini e, soprattutto, la gestione di una economia dell’impoverimento progressivo di massa che stronchi sul nascere possibili ribellioni e determini un comportamento parassitario delle elite. Se andiamo a vedere gli interscambi di armi, la logica geopolitica e le previsioni sulle mosse future degli attori globali si fanno più evidenti. Gli USA vendono grosse quantità di armi a Corea del Sud, Israele, Emirati Arabi Uniti e Grecia. In tutti e quattro i casi le vendite sono motivate da considerazioni strategiche: la Corea del Sud rappresenta lo storico asset strategico americano in Asia, con Israele esistono forti legami culturali, gli EAU sono il paese che deve trascinare i moderati nel mondo arabo e la Grecia rappresenta il contraltare all’espansione russa nel Mediterraneo. La Russia vende armi soprattutto a Cina, India, Venezuela e Algeria. Anche in questo caso le logiche strategiche sono stringenti: la Cina per controllarla, almeno finché essa stessa non diventerà un paese produttore, l’India per controbilanciare la potenza cinese, l’Algeria perché paese produttore di petrolio e il Venezuela in chiave anti- 39 G. E. VALORI, op. cit., pag.138. 32 americana40. Dal 2004 ad oggi le vendite di armi russe nell’America Latina sono aumentate del 900%: la Russia, secondo esportatore mondiale di armi al mondo dietro gli USA, è riuscita così a superarli proprio nel loro cortile di casa. Anche nel caso delle vendite di armi vi è una forte connessione con la ricerca di energia; gli Stati Uniti applicano questa politica sin dal 1945, quando Franklin D. Roosevelt promise agli emiri sauditi di aiutarli in cambio dell’accesso privilegiato al petrolio. A ruota gli Stati Uniti sono stati seguiti da Gran Bretagna e Francia e, più recentemente, dalla Cina. I paesi africani sembrano particolarmente sensibili a questa diplomazia delle armi, perché in genere non possiedono né le necessarie capacità per produrle in autonomia, né i mezzi finanziari per acquistarle. I segnali di questa “guerra fredda” strisciante sono evidenti soprattutto in Nigeria, il maggior produttore di petrolio del continente, dove Washington e Pechino hanno ingaggiato una competizione feroce anche per la fornitura di armi e di servizi tecnico-militari. Se l’Africa è ancora in una fase iniziale della militarizzazione della competizione per l’energia, la regione del Caspio, in cui le grandi potenze hanno intensificato il loro coinvolgimento militare, offre un’anticipazione di quelli che potranno essere pericolosi sviluppi futuri: la militarizzazione del bacino del Caspio attraverso armi, consulenti militari, istruttori e tecnici sta fomentando i sospetti e le rivalità che da secoli tormentano la regione. Anche nell’area del Golfo Persico si osserva una rinnovata competizione per le armi, che ha implicazioni ancora più pericolose. La regione rappresentava un punto di confronto strategico tra USA e URSS, ma il collasso dell’Unione Sovietica ha permesso agli Stati Uniti di prendere il sopravvento nella vendita di armi, soprattutto verso Arabia Saudita, Kuwait e Emirati Arabi Uniti. Lo scenario sta nuovamente cambiando, nei primi anni del millennio, dopo che una Russia rinnovata ha cercato di ristabilire la sua presenza nel Golfo, allargando il suo sostegno all’Iran41. 40 G. E. VALORI, op. cit., pag.148-9. 41 MICHAEL T. KLARE, op. cit., pag.218-225. 33 Il progresso tecnologico gioca un ruolo di primo piano nel predominante concetto moderno di guerra. L’accento viene posto oltre che sulla cultura materiale della guerra, anche sulle potenzialità di particolari armi o sistemi di armamenti, nella convinzione che il progresso della società dipenda dal loro miglioramento continuo42. La guerra del golfo ha segnato una vera e propria rivoluzione negli affari militari (RMA), e portato ad una affermazione forte di una dottrina intelligente, attraverso una nuova generazione di sistemi d’arma e i progressi nel campo informatico. L’importanza attribuita all’informazione come strumento essenziale in un conflitto si collega al suo utilizzo per impiegare la forza in maniera selettiva. La rilevazione precisa del bersaglio è diventata essenziale all’efficacia dell’arma43. La volontà statunitense di assicurarsi la supremazia militare ha portato, durante gli anni ‘80, il governo USA ad implementare un progetto di difesa missilistica, il cosiddetto Scudo Stellare, accantonato dopo il ravvicinamento con l’Unione Sovietica di Gorbaciov. Bush junior ha ripreso questo futuristico progetto che aveva il compito di difendere il terreno statunitense da ogni tipo possibile di attacco missilistico, attraverso un sistema di satelliti che rileva il lancio di missili in qualunque parte del globo e che attiva una serie di postazioni missilistiche installate nei territori amici. I primi missili intercettori sono stati installati in Alaska, California e Inghilterra; le successive installazioni erano previste oltre che in Groenlandia, anche in territori ex-Patto di Varsavia come Repubblica Ceca, Polonia, Romania e Bulgaria. Barack Obama ha riconsiderato il progetto iniziale del suo predecessore, dando vita nel 2009 all’European Phased Adaptive Approach (EPAA), un sistema che sarebbe rivolto non contro la Russia, bensì contro Iran e Corea del Nord44. L’idea del presidente è una difesa 42 JEREMY BLACK, Le guerre nel mondo contemporaneo, Bologna, società editrice Il Mulino, 2006, pag.19. 43 JEREMY BLACK, ibid., pagg.195-6. 44 DANIELE SCALEA, op. cit., pag.179. 34 missilistica subito operativa (2011 e non 2018), agile e modellabile (in quanto installata su navi dispiegate nel Mediterraneo e non su postazioni fisse) e meno compromettente sotto l’aspetto delle relazioni con la Russia. Tuttavia le spiegazioni americane non sembrano molto convincenti: Mosca ritiene che il progetto voglia neutralizzare i suoi missili intercontinentali e va considerato che oggi sono 39 i paesi che dispongono di missili balistici con un raggio d’azione superiore ai mille chilometri, di cui 25 sono stati falliti o dittature sanguinarie. Oggi la crescita delle economie di Russia, Cina e India, unita al controllo statale esercitato sul relativo sistema bancario-monetario, ha permesso a questi stati di effettuare grossi investimenti nei settori strategici. Questi investimenti, data l’atmosfera vigente negli affari internazionali, sono destinati ad una massiccia corsa al riarmo e a dotarsi di un deterrente strategico sufficientemente persuasivo. Si assiste così ad un notevole aumento delle spese per la difesa da parte di Pechino e Nuova Delhi. Pechino, ad esempio, sta realizzando una nuova classe di sottomarini lanciamissili balistici a propulsione nucleare SSBN per il lancio di missili a testata nucleare multipla SLBM. Inoltre ha testato nel 2006 un ASBM, Anti-Ship Ballistic Missile, il primo, e per ora unico al mondo, sistema d’arma a lungo raggio in grado di colpire un gruppo di portaerei d’attacco. Prosegue, inoltre, la costruzione della nuova base per missioni spaziali nell’isola di Hainan, ciò mentre la cosmonautica sta colmando, in breve tempo, decenni di ritardo in tale campo45. Nel 1987 la Repubblica Popolare cinese ha ceduto trentasei missili a medio raggio CSS-2 all’Arabia Saudita, che voleva bilanciare l’arsenale missilistico israeliano. Durante gli anni della guerra tra Iraq e Iran, la Cina ha fornito a quest’ultimo paese centinaia di missili anti-nave HY-2 “Silkworm”, cosa che ha fatto anche dopo il conflitto fornendo all’Iran missili antiaerei e altre attrezzature militari. Di fronte alle ristrettezze di bilancio, il Cremlino ha compiuto la scelta di privilegiare l’arsenale nucleare, decisivo per mantenere la parità strategica con gli 45 ALESSANDO LATTANZIO, L’Eurasia contesa (ebook), Roma, Fuoco Edizioni, 2010, Pag.16-7. 35 USA. Finora le forze convenzionali si sono comunque dimostrate all’altezza durante gli interventi in Cecenia e in Ossezia del Sud. Di fronte al rinnovato impegno statunitense per uno scudo strategico antimissile Mosca non si è limitata a fare pressione su Washington e sui paesi interessati per evitarne la costruzione, ma si è anche prodigata per sviluppare armi che ne neutralizzino gli effetti. Il 14 giugno 2002 il Cremlino ha annunciato la fine dello START II: ciò significa che le testate multiple MIRV ricominceranno ad essere utilizzate dagli ICBM russi, ponendo così grossi problemi allo scudo ABM degli USA. L’arsenale strategico si sta ammodernando con l’entrata in servizio di un numero sempre maggiore TOPOL-M, missili intercontinentali progettati proprio per bucare lo scudo americano: sono di difficile individuazione, resistono alle radiazioni, alle esplosioni nucleari oltre 500 metri, ai raggi laser e agli impulsi elettromagnetici46. La partita geopolitica più grossa si gioca sul nucleare, sia nella sfera diplomatica che in quella strategica. L’articolo IX del Trattato di non Proliferazione degli armamenti nucleari, entrato in vigore il 5 marzo del 1970, aveva sancito il diritto a possedere armi nucleari solo per quei paesi che avevano costruito ed esploso ordigni nucleari o simili prima del 1 gennaio 1967. Così solo cinque stati vengono legittimati ad avere tali armamenti: USA, Russia, Cina, Inghilterra e Francia, ossia gli stessi stati che sono membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU. Questa asimmetria geopolitica, prodotto della guerra fredda, ha spinto altri stati a dotarsi dell’arma nucleare. Così abbiamo altri tre paesi effettivamente atomici, India, Pakistan e Israele, e altri due paesi, Iran e Corea del Nord che hanno dato vita a programmi più o meno volti a realizzare una capacità nucleare, ma di cui si sa poco. Le ragioni che possono spingere uno stato a dotarsi dell’arma nucleare possono essere diverse: di deterrenza nucleare (Israele e Pakistan), di emulazione dei cinque del Tnp (India), di prestigio interno (Iran), di contrattazione per ottenere aiuti economici (Corea del Nord)47. Il costo 46 DANIELE SCALEA, op. cit., pagg.280-4. 47 LIMES, La strana guerra, Roma, Gruppo Editoriale L’espresso, Vol. 1/2003, Pag.177. 36 dell’acquisizione dell’arma nucleare è soprattutto politico, dato che essa consente, se la si possiede, una serie di ritorsioni economiche rilevanti per chi entri in questo oligopolio perfetto della bomba nucleare, e determina una scelta strategica molto difficile. A gennaio 2008 gli USA possedevano 3575 testate nucleari, la Russia 3113, la Francia 348, la Gran Bretagna 185, la Cina 161, mentre India, Pakistan, Israele e Corea del Nord non presentano dati ufficiali sull’argomento, e l’Iran a quanto pare si sta attrezzando. La corsa agli armamenti nucleari nel subcontinente indiano è nata con l’indipendenza di India e Pakistan, al punto che la storia stessa dei due stati potrebbe essere tracciata sulla base dei progressi militari da essi di volta in volta compiuti. La corsa all’acquisizione nucleare ha fatto un salto di qualità enorme nel luglio del 1974, quando l’India ha condotto nel deserto del Rajastan il suo primo esperimento nucleare. Il governo pakistano interpretò il test indiano come una dimostrazione di forza, e da allora considerò fondamentale dare il via a un programma nucleare nazionale per far fronte alla minaccia che sentiva gravare sugli importanti centri di Lahore, Karachi e Islamabad. La costruzione di un arsenale nucleare a costo di innumerevoli sacrifici ha dimostrato che è possibile uno sviluppo nucleare interamente musulmano, ed ha rappresentato una rivincita della nazione pakistana nei confronti del più potente e laico vicino indiano. Dietro gli sforzi fatti dai due paesi per assicurarsi arsenali nucleari si nascondono anche fondamentali interessi strategici. Se fino agli anni novanta l’arma nucleare era considerata dal Pakistan esclusivamente come l’ultima risorsa di difesa contro eventuali attacchi dell’India, dopo quella data è diventata l’ombrello sotto il quale proteggere la politica di supporto al movimento indipendentista del Kashmir. In questo modo Islamabad ha costretto Nuova Delhi ad accettare una guerra di bassa densità nel contestato territorio, certa che uno scontro a viso aperto l’avrebbe vista soccombere. L’India, dal canto suo, ha sempre visto il nucleare come uno strumento da opporre in primo luogo alla Cina e solo dopo nei confronti del Pakistan che, invece, era stato il principale motivo dello sviluppo dell’esercito convenzionale. In un certo senso, tra India e Pakistan, si è affermata una variante 37 della Mutual Assured Destruction che durante gli anni della Guerra Fredda aveva evitato che USA e URSS ricorressero alla bomba atomica; in questo caso, però, il rischio sembra molto più reale, sia perché i loro territori sono a stretto contatto e non distanti migliaia di chilometri, sia perché entrambi gli stati hanno la possibilità, colpendo per primi, di distruggere completamente l’arsenale nucleare dell’altro48. La comunità internazionale è meno preoccupata del nucleare indiano di quanto lo sia per quello pakistano: la ragione sta nel fatto che il governo indiano è pienamente democratico e riesce ad esercitare il suo potere su tutto il territorio, mentre lo stato pakistano è da molti considerato un failed state, dove il governo centrale non ha il controllo dei suoi territori periferici e dove il rischio che il nucleare finisca in mani sbagliate è molto alto. Ammesso che l’Iran persegua davvero un programma militare nucleare segreto, in parallelo a quello civile, la sua è certamente la bomba atomica più lenta ed evanescente della storia: all’inizio del 2010 se ne parlava ancora come di una prospettiva futura e non era chiaro cosa Teheran avesse deciso di fare49. L’Agenzia Internazionale dell’energia atomica, l’organismo delle Nazioni Unite che controlla il rispetto del Trattato di non Proliferazione da parte dei paesi firmatari, ha sempre affermato, anche nel suo rapporto del 2011, di temere il programma nucleare militare iraniano ma di non aver prove certe dell’esistenza. Se e quando avrà la bomba, l’Iran sarà sempre, nei confronti di Israele, una piccola potenza nucleare, almeno finché non disporrà di un certo numero di testate e di vettori affidabili oltre che di un adeguato sistema di comando. Tuttavia, è pur vero che l’arma atomica è un incredibile pareggiatore di potenza, e così l’Iran, per avere una sorta di parità strategica con Israele, non ha bisogno di un arsenale paragonabile a quello israeliano. Gli basterà avere una forza piccola ma credibile, comprendente anche una capacità di secondo colpo, cioè la possibilità di colpire 48 FAUSTO ALUNNI, Il triangolo nucleare. India, Pakistan, Afghanistan. Geopolitica di una regione, Roma, Derive Approdi, 2002, pagg.102-5. 49 GIORGIO S. FRANKEL, L’Iran e la bomba, Roma, Derive Approdi, 2010, pag.17. 38 l’avversario dopo aver subito un attacco. Ma realizzare questa capacità non è facile, anche a causa della posizione geografica dell’Iran. È attorniato da potenze nucleari quali Russia, Cina, India, Pakistan e Israele oltre alle armi atomiche americane dislocate nella regione50. Gli Stati Uniti hanno di fatto accerchiato strategicamente l’Iran con le loro forze nel Golfo, in Iraq, in Afghanistan, e con la loro presenza in Asia Centrale. Inoltre, i paesi arabi del Golfo sono largamente superiori all’Iran per quantità, qualità e livello tecnologico dei loro armamenti, potendo acquisire il meglio della produzione occidentale quasi senza limiti, mentre l’Iran incontra grandi difficoltà e limiti ad acquisire armamenti all’estero e i mezzi di cui dispone sono generalmente obsoleti e inadatti a strategie offensive a sostegno del suo presunto espansionismo51. È ormai luogo comune affermare che l’atomica iraniana scatenerà una vera corsa alla bomba nel mondo arabo. In effetti, i paesi del Golfo, la Giordania e l’Egitto sono interessati a varare importanti programmi nel campo dell’energia nucleare a usi civili, ma si muovono molto lentamente per non turbare gli equilibri. La questione iraniana è stata brevemente eclissata, nell’agosto del 2008, dall’improvvisa e breve guerra tra Russia e Georgia, che ha cambiato, in parte, la situazione strategica dell’area del Caspio. Era sì un’altra regione, ma tra il Caspio e il Medio Oriente c’era un collegamento: Israele sosteneva militarmente la Georgia, e secondo notizie non confermate, in cambio, avrebbe avuto la disponibilità di alcune installazioni militari per un eventuale attacco all’Iran52. La posizione ufficiale iraniana in proposito è che tutte le potenze nucleari cercano di intimidire i paesi che non hanno armi nucleari, e che gli Stati Uniti siano il principale colpevole della proliferazione nucleare perché per primi e soli hanno usato la bomba atomica53. 50 GIORGIO S. FRANKEL, op. cit., pag.39. 51 GIORGIO S. FRANKEL, ibid., pag.41. 52 GIORGIO S. FRANKEL, ibid., pagg.68-9. 53 MACFARQUAHR NEIL, Iran angrily defends nuclear program, The New York Times, www.nytimes.com, May 3, 2010. 39 In attesa dell’ipotetica bomba atomica iraniana, Israele è, e resterà, l’unica potenza nucleare del Medio Oriente. Per circa mezzo secolo Israele ha seguito una politica di ambiguità: non dichiarare né smentire di avere l’arma atomica, ma fare tutto il possibile affinché il mondo sia convinto che quest’arma esista54. Grazie al proprio monopolio nucleare nel Medio Oriente, e la capacità di proiettare le proprie forze nucleari ben oltre il Medio Oriente, Israele può agire con un elevato grado di discrezionalità e mantenere il controllo dei territori arabi occupati nel giugno 1967 senza temere le reazioni dei paesi arabi e di altre potenze non mediorientali. Secondo alcune stime, Israele ha intorno alle 200 testate atomiche, altri dicono tra le 200 e le 300, altri ancora parlano di 400. Ma anche se fossero solo un centinaio di testate, la forza nucleare israeliana sarebbe più che formidabile e davvero temibile. Per la proiezione strategica di queste armi Israele possiede una moderna triade strategica formata da missili balistici Jericho, aerei F-151 e F-161, e infine cinque sottomarini classe Dolphin. Israele ha ideato un proprio vettore spaziale leggero, lo Shavit, dal quale è possibile derivare un missile balistico intercontinentale da 5000-7000 km55. Per quanto riguarda la Corea del Nord le notizie che si hanno sono davvero poche e frammentate. Il regime coreano si è trincerato in un mutismo diplomatico che lascia tutti a corto di informazioni e che fa presagire scenari futuri poco favorevoli. Ciò che sappiamo è che il 25 maggio 2009 la Corea del Nord ha compiuto il secondo test nucleare della sua storia e effettuato il lancio di tre missili con una gittata di 130 chilometri, un test atomico più potente di quello dell’ottobre 2006. Il test avrebbe provocato un terremoto artificiale: la magnitudo rilevata è stata di 4,5 gradi e avrebbe avuto una potenza fra i 10 e i 20 kiloton. La morte di Kim il Sung rimescola nuovamente le carte in tavola ponendo nuovi e pressanti interrogativi sul futuro di tutto il Sud-Est asiatico. 54 GIORGIO S. FRANKEL, op. cit., pag.38. 55 GIORGIO S. FRANKEL, ibid., pagg.125-6. 40 Ma ciò che molti governi stanno implementando recentemente è la loro capacità di sferrare attacchi cibernetici e di difendersi da quelli altrui. Con il termine cyber war si intende la capacità di una entità statale, di una organizzazione, ma anche di singoli individui di sferrare attacchi informatici nei confronti di altre entità statali, organizzazioni o individui. La guerra cibernetica rappresenta la nuova frontiera del conflitto data la forte dipendenza dai sistemi informatici da parte di forze armate, pubblica amministrazione, imprese e singoli individui. Presenta numerose variabili che ne amplificano, fino ad un livello non esattamente quantificabile, il potere distruttivo: innanzitutto chiunque può causare danni ingenti, partendo dal pc di casa; è difficile risalire alla provenienza della minaccia; può risultare anche in un semplice furto di informazioni che poi possono risolversi in un vantaggio strategico concreto. Gli attacchi possono avere come scopo l’azione dimostrativa, lo spionaggio, la compromissione di strumenti militari, l’attacco ad infrastrutture critiche di un paese. La paura rappresentata da molti analisti strategici è dovuta al fatto che i grandi Stati sembrano non possedere sufficienti difese informatiche. Alcuni anni fa, durante la presidenza di George Bush, molte banche e aziende di Wall Street furono oscurate, e proprio l’industria finanziaria, che pensava di possedere le migliori difese informatiche, era stata infettata da un virus. Bush chiese allora al Segretario al Tesoro Hank Paulson di esaminare cosa si sarebbe potuto fare per proteggere le infrastrutture americane. Nel 2003 l’amministrazione Bush ha dato vita ad una ufficiale Strategia Nazionale di sicurezza del cyberspazio, ma i risultati non sono andati molto aldilà della retorica. Il 4 luglio 2009 c’è stato un assalto a siti governativi americani, tra cui la Casa Bianca, il New York Stock Exchange e il Nasdaq. Per non parlare del recente scandalo di WIkileaks che ha dimostrato quanto il sistema americano sia vulnerabile. Recentemente è diventato famoso un virus, STUXNET, che si è infiltrato nei computer iraniani che gestivano le centrifughe nucleari, ritardando o addirittura impedendo il lancio del primo reattore islamico di Bushehr, nonostante 41 le smentite del governo iraniano56. Secondo alcuni ci sarebbe il MOSSAD, i servizi segreti israeliani, dietro la realizzazione di questo worm, che rappresenterebbe uno dei primi casi di attacco virtuale organizzato con lo scopo preordinato di fare danni reali. Il cyber terrorismo pone una minaccia tanto grave quanto quella delle armi di distruzione di massa: un attacco su larga scala potrebbe creare un inimmaginabile grado di caos in America e in Europa57. 56 ILAN BERMAN, Adrift in Cyberspace, Forbes.com, October 11, 2010. 57 MORTIMER ZUCKERMAN, How to fight and win the cyberwar, The Wall Street Journal online, www.online.wsj.com, December 6, 2010. 42 CAPITOLO IV IL FATTORE ECONOMICO Per gran parte del periodo post secondo conflitto mondiale, gli schemi di potenza mondiale venivano definiti valutando il numerico dei missili e dei soldati in possesso degli stati; oggi, invece, è molto più usuale mettere a confronto i tassi di crescita delle economie. Le capacità militari degli stati non costituiscono più il principale fattore della loro potenza che attualmente si esercita in una maniera diversa, più evoluta, senza ricorso alla coercizione: l’antagonismo tra le nazioni si esprime principalmente in chiave economica, e la conquista dei mercati e delle nuove tecnologie ha preso il sopravvento sulla conquista dei territori. Per la geoeconomia, termine coniato da Edward Luttwak alla fine degli anni Ottanta per definire la scienza che studia i rapporti tra scelte politiche, sistemi economici e strategie adottate dai vari governi, lo Stato va concepito come "sistema Paese" in competizione con altri sistemi, in un teatro globale caratterizzato anche dall'esistenza di regole non solo oggettive, cioè derivate dai meccanismi propri dell'economia, ma anche soggettive o pattizie, derivanti da accordi multilaterali sulla libertà dei traffici e dei commerci, che non si possono violare impunemente, senza cioè provocare la ritorsione o rappresaglia degli altri Stati che operano nel sistema. Per ottenere la vittoria geoeconomica, secondo lo studioso americano, c’è bisogno di massimizzare l’impiego altamente qualificato nell’industria di punta e nei servizi, sviluppare sempre nuove generazioni di aerei di linea, computer, nanobiotecnologie, strumenti finanziari e tutti i prodotti ad alto valore aggiunto58. Il primato delle strategie geoeconomiche, tra tutti gli strumenti a disposizione degli stati, segna una rottura fondamentale con il passato, che non rappresenta la fine della potenza nazionale, ma semplicemente una nuova 58 EDWARD LUTTWAK, From Geopolitics to Geo-Economics : logic of conflict, grammar of commerce, The National Interest, 1990. 43 valutazione dei fattori che costituiscono la forza di un paese. La contesa geoeconomica è soprattutto una battaglia di cifre, numeri, percentuali e resoconti annuali. È quindi necessario addentrarsi in ambiti che poco c’entrano con la politica in senso stretto, ma che inevitabilmente la condizionano e ne indirizzano le scelte. Sapere che il Brasile nel 2011 è diventata la sesta economia del mondo potrebbe interessare poco, ma una buona posizione nel ranking economico mondiale attira investimenti e predispone favorevolmente l’opinione pubblica nei confronti delle politiche che quel paese vorrà adottare. Il quadro geoeconomico attuale risulta in continuo cambiamento perché oltre al fatto che sempre nuovi attori statali si aggiungono, vi sono alcuni fattori quali gli investimenti esteri diretti, le rimesse economiche o le guerre valutarie che hanno grossa influenza ma che non sono facilmente percepibili e misurabili. Molti dei politici occidentali, degli analisti e commentatori, inclusi i media, non hanno ben compreso la particolarità del problema e tendono ancora a tenere economia e politica separate. Inoltre, le nuove condizioni del contesto e soprattutto la porosità delle frontiere economiche non consentono facili strategie difensive, né tantomeno permettono difese statiche, ma obbligano piuttosto all’offensiva. Se l’attuale situazione geoeconomica può essere dipinta come un triangolo costituito da Stati Uniti, UE e Cina, che hanno deciso congiuntamente di condividere le risorse per risolvere qualsiasi malfunzionamento del sistema, il futuro vedrà sicuramente l’ascesa di nuovi centri economici di potere. Un primo gruppo di paesi è stato riunito sotto l’acronimo BRIC, coniato nel 2001 dal capo economista della Goldman Sachs Jim O’neill, e indica un gruppo di paesi le cui economie stanno crescendo in gran fretta, aumentandone in parallelo l’influenza politica. Le nazioni BRIC, e cioè Brasile, Russia, India e Cina attualmente rappresentano il 15% dell’economia mondiale e possiedono il 42% del totale delle riserve valutarie. Sempre secondo Goldman Sachs entro l’anno 2035 l’insieme delle economie dei BRIC sorpasserà quelle del G8, mentre il totale della loro popolazione supererà la quota del 50% della popolazione mondiale, con un 44 mercato potenziale di consumatori enorme e in continua espansione. Il PIL unificato dei BRIC è pari, attualmente, a circa 15,5 trilioni di dollari, il 12 % di quello mondiale. Durante l’ultimo quinquennio il mercato interno di questi paesi è aumentato del 70% sviluppandosi ad un tasso del 42%. Le economie dei quattro paesi sono, inoltre, efficacemente connesse: infatti, la Russia ha le più grandi riserve di gas naturale e le seconde riserve più grandi di petrolio, mentre Cina e India sono affamate di energia. L’alta capacità high tech e la forza lavoro indiana, oltre alla voluminosa produzione di merci cinese, possono essere complementari all’economia russa e brasiliana59. Come ha semplificato Parag Khanna, si può dire che se la Cina è la fabbrica del mondo, l’India è il suo ufficio, la Russia la stazione di rifornimento, il Brasile la fattoria60. La città russa di Ekaterinburg, il 16 maggio 2009, ha ospitato il primo vertice ufficiale dei BRIC. Il secondo summit tenuto a Brasilia, il 15 aprile 2010, ha evidenziato la volontà da parte dei BRIC di voler costruire un sistema basato sul lavoro e sulla prudenza, che mettesse da parte alcuni dogmi del passato, quali la deregolamentazione del mercato, l’idea di uno stato minimo e la certezza che la tutela dei diritti dei lavoratori sia il metodo migliore per combattere la disoccupazione. I Paesi del BRIC hanno manifestato la volontà di coalizzarsi e sviluppare politiche comuni: si propongono, come fine ultimo, di influenzare le politiche economiche e finanziarie internazionali. Per promuovere lo sviluppo e la crescita economica e combattere la povertà interna hanno prodotto una dichiarazione congiunta nella quale affermano il desiderio di “sviluppare una cooperazione tecnica e finanziaria con il fine di realizzare uno sviluppo sociale ed economico sostenibile61. Al loro terzo summit, tenutosi nell’aprile 2011 nella località di Sanya nel sud della Cina, BRIC è diventato BRICS, con la prima 59 ALESSANDRO LATTANZIO, op. cit., pagg.50-2. 60 PARAG KHANNA, Come si governa il mondo, Roma, Fazi Editore, 2011, pag.198. 61 EMANUELE FRANCIA, Bric solo un acronimo?, Eurasia rivista, www.eurasia-rivista.org, 16 luglio 2010. 45 partecipazione del Sud Africa. Secondo molti analisti i BRICS non rappresenterebbero un vero blocco perché sono troppi gli interessi divergenti, e la volontà da parte di Russia e Cina di volersi porre alla testa di questo gruppo bloccherebbe qualsiasi proposito di politiche comuni. Oltre i BRICs, secondo un’altra analisi pubblicata da Goldman Sachs nel 2005, ci sarebbero gli N-11: i Next-Eleven, i prossimi 11 paesi che avranno tassi di crescita economica elevati e che guadagneranno posizioni nei ranking economici. L’analisi ha promosso Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran, Corea del Sud, Messico, Nigeria, Pakistan, Filippine, Turchia e Vietnam quali futuri attori protagonisti dello spazio economico globale. Gli N-11 potrebbero raggiungere i due terzi del PIL del G8 nel 2050. Hanno la possibilità di crescere ad un ritmo del 4% annuo per i prossimi 20 anni, ma, nonostante questi tassi di crescita, solo Indonesia, Messico e Corea del Sud sembrano poter raggiungere lo status di grandi potenze. Gli N-11 sono alcuni dei paesi in via di sviluppo, con maggior popolazione, al di fuori dei BRIC; il loro contributo sulla percentuale mondiale del PIL è salita al 7%, mentre dal 2000 al 2006 hanno contribuito per il 10% alla crescita mondiale. La multipolarità economica del globo aumenterà notevolmente nel prossimo decennio. Nel momento in cui le economie dell’occidente segnano il passo, Cina, India e Brasile viaggiano a ritmo accelerato. Adesso sono i paesi emergenti a dettare il ritmo dell’economia mondiale e a determinare i prezzi internazionali, con il risultato di una spinta generalizzata ai rincari, del tutto fuori fase, rispetto al cattivo stato di salute delle economie dei paesi ricchi, che rischiano, così, di dover sopportare il doppio peso di uno sviluppo asfittico e di un’inflazione che si accumula. Quasi tutte le materie prime sono in ascesa, a cominciare dal cibo. Una nuova crisi alimentare, come quella del 2007-2008, non è nelle previsioni, perché i magazzini sono relativamente pieni, ma gli effetti sui prezzi sono già evidenti. Mentre i buchi di bilancio delle potenze sviluppate stanno tutti portando il rapporto tra debito pubblico e PIL oltre il 100%, nei paesi emergenti questo rapporto è costantemente attorno al 40-50% del PIL. Questa situazione ottimale 46 dovrebbe permettere ai mercati emergenti di guadagnare ulteriore terreno sulle potenze. Nel 2009 si è assistito ad una decisione epocale, quella di sostituire il G8 con il G20 come principale luogo di incontro dove discutere di cooperazione economica internazionale. Una trasformazione che riflette da una parte il peso crescente che le economie emergenti stanno avendo ma che rappresenta anche l’assunzione di responsabilità delle nuove economie accanto a quelle avanzate per affrontare le sfide globali, riguardo a cambiamenti climatici, crisi finanziarie, riduzione degli squilibri economici, tutela della pace e della sicurezza. Secondo molti analisti economici il Ventunesimo Secolo sarà il Secolo Asiatico, il secolo nel quale Cina e India potranno ottenere grandi risultati. Cina e India sono stati paesi socialisti fino agli anni ’80, quando hanno cominciato una progressiva apertura all’economia di mercato definitivamente realizzatasi nei primi anni ’90, ottenendo però risultati diversi. L’India ha cercato di copiare il modello di sviluppo sovietico, attraverso i piani quinquennali, col risultato particolare di diventare un paese in cui il terziario è il settore più produttivo dell’economia senza passare per una precedente prevalenza del secondario, ovvero l’industria, che solo recentemente ha sopravanzato il settore agricolo in termini di produttività. La Cina ha invece avuto una storia diversa e più tragica, sperimentando clamorosi e drammatici fallimenti, anche attraverso la tragica esperienza del Grande Balzo in Avanti. Negli anni ’90 la crescita del PIL cinese è stata in media del 9,7% annuo, contro il 5,9% dell’India, tra il 2000 e il 2004 la crescita della Cina è stata del 9,4%, mentre quella dell’India del 6,2%, e oggi il prodotto interno cinese cresce d’oltre il 9% all’anno, mentre quello indiano cresce del 7%. Nel 2009 la Cina ha compiuto anche uno storico sorpasso, in termini di PIL, ai danni del rivale giapponese, divenendo la seconda maggiore potenza economica al mondo in termini di prodotto interno lordo, dopo gli USA. L’economia indiana è invece la quarta al mondo in termini di PIL a parità di potere d’acquisto. La Cina possiede 47 inoltre le più grandi riserve auree e di valuta estera: 1955 miliardi di dollari, ben venticinque volte quelle statunitensi62. I leader di entrambi i paesi, che guidano un totale di due miliardi e mezzo di persone, devono mettere da parte le rivalità e usare il business per dare nuovo lustro a due antiche civiltà. L’allargamento dei rapporti economici, come dichiarato in più occasioni dal premier Wen Jiabao, passa soprattutto attraverso gli accordi finanziari sulla rotta Shanghai- Mumbai: China Development Bank andrà a finanziare le indiane ICICI Bank, Essar e IDBI Bank, mentre altri istituti di credito come Bank of China e Industrial and Commercial Bank of China stanno espandendo il loro business in India. Alcuni la chiamano Cindia, altri “Asse AiAi”, per sfruttare una battuta sulle due capitali finanziarie Shanghai e Mumbai, ma al di là delle etichette i numeri non mentono. La delegazione cinese in India guidata da Wen Jiabao ha siglato circa 50 accordi economici per 16 miliardi di dollari, una somma nettamente superiore ai 10 miliardi di contratti strappati dalle aziende americane precedentemente. Le circa 300 società al seguito del premier cinese hanno fatto impallidire anche le recenti visite dei leader europei, quando Nicolas Sarkozy e David Cameron hanno portato a Nuova Delhi rispettivamente una sessantina e una quarantina di imprese. Oggi nelle principali piazze finanziarie internazionali si trattano soprattutto titoli cinesi: il principale fondo pensione del mondo, il principale gruppo bancario e assicurativo, il più ampio spazio di manifattura tradizionale, la più grande compagnia petrolifera in termini di capitalizzazione (escluse le americane) sono Made in China. Pechino con la sua forza di penetrazione economica, sta diventando il nuovo punto di riferimento per i paesi di tutto il mondo, industrializzati, emergenti e sottosviluppati, in cerca di un mercato in cui esportare i propri beni, nei primi due casi, e di un generoso investitore estero, nel terzo caso: la Cina è tutte queste cose messe insieme. È emblematico che proprio nel cortile di casa statunitense, in particolar modo in Argentina e Cile, Pechino abbia sopravanzato gli USA. La 62 DANIELE SCALEA, op. cit., pagg.319-28. 48 Cina è diventata il maggior socio commerciale di Cuba, il secondo di Argentina, Brasile, Cile, Costa Rica, Messico, Perù e il terzo di Uruguay. Nel Venezuela ricco di petrolio e di gas naturale il commercio tra i due paesi è in rapida ascesa: adesso la Cina è il quarto fornitore di beni importati ed il terzo principale mercato d’esportazione. Sebbene le scaramucce tra i due paesi siano continue, Stati uniti e Cina possono essere definiti due alleati necessari: si potrebbe, addirittura, immaginare una futura relationship, certo economica ma probabilmente anche strategica. La loro doppia dipendenza, per la quale l’enorme debito pubblico americano è sostenuto dal credito cinese, il quale a sua volta beneficia del mercato americano, fa sì che si parli di matrimonio d’interesse. Nel 2008 il sovrappiù cinese negli scambi con gli USA è ammontato a ben 268 miliardi di dollari. Pechino ha investito parte di questo sovrappiù di dollari nei titoli di debito pubblico USA, tanto che nel 2009 ne possedeva il 23,35% del debito estero. Pechino avrebbe quindi la capacità di affondare le finanze statunitensi, ma ciò si ripercuoterebbe gravemente sulla Cina stessa, in primis con la perdita di valore di quegli stessi titoli. Larry Summers, consigliere economico di Obama, ha parlato di equilibrio finanziario del terrore, regolato dallo stesso principio della MAD: sia Washington che Pechino hanno la possibilità di sferrare un colpo mortale all’altro, ma ciò si rivelerebbe letale per loro stessi63. Ma la convivenza nasconde profondi dissapori, legati, ad esempio, alla mancata rivalutazione del renmimbi o al sostegno cinese al controverso programma nucleare iraniano e a quello pachistano. In aggiunta a BRICS, N-11, BASIC (Brasile, Sud Africa, India e Cina) anche gli Stati del Golfo sono al centro di un profondo interesse dovuto soprattutto al processo di “ristrutturazione economica” che li ha portati a rinnovare il loro modello economico fortemente dipendente dalle rendite petrolifere ed, in generale, dal settore degli idrocarburi. Ruolo cruciale ha rivestito il Governo, che ha approvato, seppur con sostanziali differenze da stato a stato, 63 DANIELE SCALEA, op. cit., pagg.332-335. 49 piani di investimenti pluriennali mirati a riorientare la spesa pubblica nei cosiddetti settori “non oil” e dare sostegno e stimoli allo sviluppo del settore privato. Dietro le scelte economiche dei governi dei GCC c’è stata, quindi, la volontà di rendere la struttura economica del paese più solida rispetto al passato. Ed è stata proprio la diversificazione economica la chiave per il raggiungimento del tanto desiderato obiettivo; la spiegazione sta nelle caratteristiche del modello economico tradizionale comune ai GCC: un’economia concentrata sullo sfruttamento di una risorsa estremamente volatile come il petrolio o il gas, quindi un’economia fragile ed esposta a rischio di crisi, qualora l’andamento del settore degli idrocarburi non dovesse essere favorevole, come è avvenuto con l’attuale crisi globale. A seguito dei continui flussi migratori e dell’innalzamento del prezzo del greggio, che ha portato nelle tasche dei petrolieri arabi un cospicuo flusso di capitali, l’islamic banking ha dimostrato in questi mesi un’ottima tenuta e si è affermata come terza protagonista nella gestione del denaro. Una “terza via” che ogni anno marcia a ritmi di crescita del 15% in termini di capitali investiti e che, come ha affermato il 14 ottobre Laheem al Nasser, consulente di finanza islamica, è stata toccata solo marginalmente dall’attuale crisi finanziaria. In realtà, il sistema finanziario islamico replica quello occidentale in quasi tutti i suoi aspetti, e questo rende i due approcci alternativi e perfettamente sostituibili. Il rifiorire economico di questi paesi ex-sottosviluppati sta portando problemi culturali. Una nuova classe media si sta affacciando sulla scena mondiale, e determinerà molte delle dinamiche di quello che sarà il commercio internazionale dei prossimi anni. È la classe media dei paesi emergenti, dei paesi asiatici, dei BRIC e, in generale, dei paesi che stanno imboccando sempre più rapidamente la via dello sviluppo. Sarà interessante osservare se, e in che misura, i consumi si localizzeranno diversamente rispetto a quanto osservato in passato. Le popolazioni dei paesi in via di sviluppo si sono contraddistinte per una forte propensione al risparmio che ha permesso loro di investire e di raggiungere elevati tassi di crescita. Ora comincia ad arrivare il momento di raccogliere i frutti di tale 50 crescita, cominciando finalmente a scoprire la "voglia di consumare" fino ad oggi prerogativa di massa delle popolazioni occidentali. Tali paesi hanno subito meno di altri gli effetti negativi della crisi e pertanto l'aumento del reddito procapite determinerà un aumento delle capacità di spesa dei loro cittadini. L'esigenza di compensare il calo della domanda dei paesi maggiormente sviluppati ha determinato una crescente attenzione internazionale verso le politiche di stimolo della domanda interna (soprattutto per quel che riguarda il caso cinese). I Paesi asiatici stanno quindi portando avanti una lenta trasformazione da paesi produttori (a basso costo) a paesi consumatori. Oggi sono le imprese che producono beni di qualità inferiore, e quindi più economici, ad esportare verso i paesi in via di sviluppo. Nel futuro i paesi emergenti saranno mercati di sbocco anche per le imprese che producono beni ad elevato valore aggiunto e aumenteranno quindi sia i margini intensivi (beni venduti a prezzo superiore alla media) che quelli estensivi (un range di qualità di prodotti esportati sempre più ampio). I capitali continueranno a passare dai vecchi centri dell’economia globale, che hanno dato inizio alla globalizzazione dei mercati, ai mercati di frontiera e alle economie emergenti. E questo perché, alla fine del ciclo finanziario, la sostenibilità dei debiti e dei crediti è strutturalmente maggiore nelle economie in cui è maggiore la crescita del valore aggiunto, elemento che è peraltro stato all’origine dello straordinario successo della civiltà della meccanizzazione e della industrializzazione64. È vero che, nello Stato postmoderno e globalizzato i governi possono muovere realisticamente solo la leva fiscale, visto che gli altri elementi di gestione del sistema sono o correlati con gli alleati-concorrenti o con i flussi internazionali65; ma è anche vero che la moneta non ha perso quel forte potere politico che gli stati, in passato, utilizzavano con molta maggiore frequenza. Sin dallo scoppio della crisi finanziaria nel 2008 molte economie hanno dato vita a politiche economiche che direttamente o indirettamente hanno abbassato i 64 G. E. VALORI, op. cit., pag.117. 65 G. E. VALORI, ibid., pag.115. 51 loro tassi di cambio, con lo scopo di incoraggiare le esportazioni, ridurre la disoccupazione o stimolare la domanda interna. Le politiche monetarie messe in campo dopo la crisi hanno creato di fatto, come conseguenza forse non sempre voluta ma comunque ineludibile, un conflitto tra valute, quasi una successione di "svalutazioni competitive" che prevede almeno un perdente, costretto ad apprezzare la propria moneta almeno fino a quando non riesce a spostare il peso su qualcun altro. Il risultato, come negli anni 30, è un continuo disordine. Le tensioni tra gli USA e la Cina sullo yuan, ritenuto da Washington troppo debole per esser vero, sono la punta dell’iceberg di un disagio più generale. Anche l’Unione europea accusa la Cina, ma al tempo stesso teme un dollaro molto debole e quindi molto favorevole alle esportazioni USA. La Germania, traino della UE, non si è certo disperata per la recente parziale discesa dell’euro sull’onda della crisi greca, discesa che ne ha favorito l’export. Ma nel mondo ormai i protagonisti sono molti, ci sono anche i grandi Paesi emergenti. Ed ecco l’arrabbiatura del Brasile, che dalla contemporanea debolezza di euro e dollaro ha ricavato una forte rivalutazione di fatto della sua moneta, il real, tale da creare preoccupazioni per le sue esportazioni. Parlare di guerra può sembrare un'esagerazione, ma sicuramente non è una sciocchezza. La quotazione del dollaro USA, che e’ ancora la moneta di riferimento del commercio mondiale, rappresenta un elemento di incertezza strutturale; una moneta USA debole potrebbe favorire i paesi in via di sviluppo fortemente indebitati in dollari, ma ciò causerebbe forti perdite in quei paesi che hanno asset attivi denominati nella stessa valuta. La decisione della FED di comprare titoli di Stato, per sostenere il fragile recupero dell’economia Usa, ha ricevuto molte critiche dai Paesi emergenti, specie dell’Asia, perché questo provoca un eccesso di liquidità che favorisce bolle speculative e l’inflazione mondiale. Numerosi paesi dell’America Latina e dell’Asia hanno sofferto queste politiche economiche che hanno portato ad un forte apprezzamento delle loro monete. Mentre gli Stati Uniti vengono criticati per l’eccessiva stampa di moneta, la Cina è stata spesso accusata di manipolare deliberatamente il valore della sua 52 moneta per rendere più competitivi i suoi prodotti. Il 19 luglio 2010 la Cina ha deciso, dopo una lunga battaglia verbale con gli USA, di apprezzare la sua moneta, il renmimbi. La decisione sembra dovuta alle pressioni USA, ma i cinesi si rifiutano di ammetterlo e sostengono che l’apprezzamento della loro moneta è dovuto alla volontà di sostenere la crescita interna; nel contempo la Cina ha più volte dichiarato che apprezzerà la sua moneta solo in maniera graduale e secondo i propri tempi. Ben Bernanke, capo della FED, ha affermato che “tenere la valuta cinese troppo bassa è negativo per l’economia Usa, perché danneggia il nostro commercio; è male anche per le altre economie emergenti”. Molti analisti sostengono che lo yuan è sottostimato per una cifra tra il 15 e il 40%. Il ruolo di grande potenza economica assunto dalla Cina, richiede che la sua valuta si sottoponga alle leggi di mercato, ma il governo la tiene sottostimata, in modo da favorire le esportazioni, a danno dell’industria degli altri Paesi. Il 28 settembre 2010 il ministro del tesoro brasiliano, Guido Mantega, ha dichiarato che è in corso una guerra tra valute. Non è insolito che le nazioni intervengano sul valore della propria moneta per aumentare la forza dei propri prodotti all’estero, combattere l’inflazione o la disoccupazione, il problema è che in un’economia globale interconnessa il valore delle valute non aumenta o diminuisce nel vuoto. Quando la Cina abbassa artificialmente lo yuan contro il dollaro statunitense, tiene basso il costo dei prodotti cinesi negli Stati Uniti, sbilanciando il mercato. Questo porta gli Stati Uniti ad abbassare la propria valuta a loro volta. E, ovviamente, dato che i due paesi hanno un solo tasso di cambio, questa gara verso il basso non porta benefici a nessuna delle due parti. Dal punto di vista internazionale, questo ha due principali conseguenze negative: è un deterrente agli investimenti internazionali (rallentando quindi la ripresa economica) e incrina i rapporti politici tra le nazioni, rendendo più arduo il raggiungimento di accordi bilaterali. La guerra delle valute parte però proprio dalle banche centrali, che dopo aver mantenuto in vita il sistema creditizio e produttivo nazionale, influenzano vistosamente i tassi di cambio nei mercati valutari con due strumenti: l’iniezione di liquidità sui mercati (anche attraverso 53 l’acquisto di titoli di stato), e il taglio dei tassi di interesse. Le tensioni sono forti e moltissimi paesi ne stanno facendo le spese perche' non hanno la stessa forza di impatto: l'India ha dichiarato che e' diventata molto dura mantenere la coesione interna al G20, il Brasile (tra i piu' danneggiati) ha deciso perfino di non inviare al summit coreano il suo ministro delle Finanze e il presidente della sua banca centrale. Questa guerra delle valute ha avuto come effetto concreto quello di scalfire il predominio del dollaro a livello mondiale, e non solo a causa dell’Euro. In questo senso la Chiang Mai Iniziative è lo strumento messo in campo da alcuni paesi dell’Est-Asiatico (tra cui Cina, Giappone e Corea del Sud) per formare una rete di cambi fissi tra le relative monete, al fine di evitare ogni possibile minaccia alle loro valute. Col tempo l’iniziativa si è trasformata in un forum con scopi molto più ambiziosi, come quello di rendere multilaterali gli attuali cambi monetari e di costituire un enorme fondo da cui gli stati in crisi possono attingere. Nell’ultima riunione del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc), il 17 dicembre scorso, Arabia Saudita, Kuwait e Qatar (che controllano circa il 45% delle riserve mondiali di petrolio e il 25% di quelle di gas), a cui si è aggiunto il Bahrein, hanno deciso di dare avvio alla prima fase per la costituzione di una unione monetaria che dovrebbe portare in breve tempo all’emissione di una nuova moneta, il Gulf, con l’obiettivo annunciato di sganciarsi definitivamente dall’uso del dollaro per gli scambi petroliferi e costituire una nuova moneta di riserva sotto il loro diretto controllo. Il Gulf si presenterebbe sul mercato con la caratteristica di una moneta di riserva molto più credibile del dollaro (e del suo concorrente euro), in quanto il suo valore sarebbe garantito, anche se indirettamente, dalle riserve energetiche. La proposta cinese di una valuta globale che sostituisca il dollaro come strumento di riserva, lanciata a marzo 2009 prima del G-20 di Londra, conferma la nuova strategia di Pechino. L’idea cinese è stata formulata dal governatore della Banca centrale Zhou Xiaochuan, secondo il quale uno dei modi per evitare turbolenze finanziarie è la creazione di una moneta di riserva slegata da singole 54 nazioni66. La Cina usa la recessione globale per rimettere in discussione vecchie gerarchie e rapporti di forza. Barack Obama ha respinto seccamente l’idea di Pechino e il suo segretario Timothy Geithner ha aggiunto che il dollaro rimarrà a lungo la moneta di riserva dominante. Ma l’iniziativa cinese ha aperto un nuovo fronte nei rapporti bilaterali. Poiché i mercati finanziari sanno perfettamente quanto sia importante la Cina come acquirente di titoli pubblici americani, e quindi quanto sia cruciale la fiducia dei leader asiatici nel dollaro, quell’uscita contiene un’implicita minaccia. Fortemente connessi al fenomeno della crescita dei paesi emergenti e alla nascita di questa nuova classe media sono altri due fenomeni che interagiscono fortemente nello spazio economico globale: i fondi sovrani e le rimesse economiche. I fondi sovrani sono dei fondi di investimento posseduti da paesi con forti attivi delle bilance dei pagamenti, derivanti soprattutto dalla vendita delle materie prime, il cui obiettivo è quello di investire la liquidità generata dal surplus in prodotti finanziari con una logica di lungo periodo. Il termine “fondo sovrano” è stato utilizzato per la prima volta nel 2005 dall'economista Andrew Rozanov in un articolo intitolato Who holds the wealth of nations ? ma la loro storia inizia parecchi anni prima. Il primo fondo sovrano nasce, infatti, in Kuwait nel 1953, e successivamente questo strumento si è diffuso nei Paesi esportatori di petrolio e gas, in particolare dell'area medio orientale, nella quale si trova il 37% dei fondi attualmente esistenti67. Negli anni '70 nascono il fondo sovrano libico e quello di Abu Dhabi, due fra i più grandi al mondo. Nel corso degli ultimi dieci anni i fondi sovrani hanno avuto un vero e proprio boom, crescendo sia in numero che rispetto alla quantità di denaro investito. Particolarmente importanti sono diventati anche i fondi appartenenti all’area asiatica, che sono entrati in competizione per entità 66 FEDERICO RAMPINI, Ma l’asse del secolo si chiama Chimerica, Limes vol.3/2009, EURUSSIA IL NOSTRO FUTURO?. Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2009. 67 IRENE MANERA, Fondi sovrani: minaccia o fonte di stabilità per l’economia mondiale?, Equilibri.net, www.equilibri.net, 25 ottobre 2010. 55 delle transazioni finanziarie con quelli del Medio Oriente. Attualmente esistono circa 40 fondi sovrani, che gestiscono tra i 1900 e i 2900 miliardi di dollari; il fondo sovrano più vasto è la Abu Dhabi Investment Authority che possiede azioni per 627 miliardi di dollari. L’espansione dei fondi è stata favorita non solo dall'aumento del prezzo del petrolio, che ha garantito ai Paesi produttori forti surplus, ma anche dallo sviluppo mondiale dei commerci e dalle progressive liberalizzazioni del mercato finanziario. Il fatto che i fondi siano controllati da entità statali e che le loro attività non siano del tutto trasparenti, genera preoccupazioni in merito alla possibilità che Stati stranieri assumano un ruolo significativo nella gestione di imprese nazionali, fino a condizionare le politiche degli stati interessati: i governi di Singapore, Kuwait e Coea del Sud hanno fornito gran parte dei 21 milioni di dollari necessari a Citigroup e Merril Lynch per risollevarsi dalla crisi del credito americana. Il caso di Unicredit in Italia può essere un esempio dell’ambiguità delle azioni portate avanti da fondi sovrani e governi stranieri. A settembre di quest’anno la Libia si è trovata a possedere una quota in Unicredit quasi dell’8% attraverso due entità distinte: la Banca centrale libica, che detiene il 4,98% dal 2008, e il fondo sovrano della Libia, la Lybian Investment Authority, che ha acquistato il 3 agosto scorso il 2, 98% dell’istituto di credito italiano. Lo statuto della banca vieta che ciascun socio possa avere più del 5% delle quote, ma in questo caso entrambe le entità, essendo proprietà dello Stato libico, avrebbero fatto riferimento alla persona di Gheddafi. La Libia, in conseguenza degli accertamenti svolti dalla Consob si è difesa affermando che le due entità sono di fatto distinte e con autonomia decisionale. La verifica è stata molto complicata dal fatto che il fondo sovrano libico non rende pubblica nessun tipo di informazione relativa alle proprie attività di investimento. Parallelo al fenomeno dei fondi sovrani corre quello delle rimesse economiche. Negli ultimi anni il fenomeno delle rimesse inviate dai migranti nei propri paesi d’origine ha assunto proporzioni inimmaginabili fino al secolo scorso. Come segnalato dalla Banca Mondiale ci sono stati incrementi annui 56 dell’ordine del 10%, tra il 2000 e il 2007. il volume complessivo registrato nel 2007 è stato di 371 miliardi di dollari, di cui oltre 281 indirizzati verso i cosiddetti paesi in via di sviluppo. Tale massa valutaria ha raggiunto dimensioni pari a quelle di altri tradizionali flussi finanziari come gli aiuti internazionali allo sviluppo e gli investimenti esteri diretti, incidendo enormemente sul prodotto interno lordo di molti dei paesi di origine dei migranti. Questi flussi hanno permesso ad un numero crescente di famiglie, nei paesi di origine, di uscire dalla soglia della povertà. Il fenomeno delle rimesse ha dato vita ad un processo di qualificazione e diversificazione: qualificazione perche le rimesse appaiono sempre più orientate a sostenere progetti di sviluppo locale, diversificazione perché non si esplicano più nel semplice trasferimento di soldi ma anche di servizi, beni, tecnologie e know-how. 57 CAPITOLO V IL FATTORE CULTURALE L’approccio culturale alla geopolitica, o geocultura come viene chiamata, sottolinea che le differenze etniche, ideologiche, sociali e addirittura di genere intervengono nell’agone politico tanto quanto il potere militare degli stati. La considerazione dei fattori culturali quali elementi che incidono sulle dinamiche internazionali era stata messa da parte subito dopo la fine della seconda guerra mondiale; la forte identificazione della geopolitica con l’ideologia nazista e, di conseguenza, il senso di colpevolezza che l’occidente ha provato dinanzi agli eccidi perpetrati dai tedeschi ai danni degli ebrei, basati su considerazioni esclusivamente razziali, ha rimosso la problematica delle differenze etniche dalle coscienze dei principali studiosi dell’epoca. La nuova irruzione del fattore culturale nel dibattito politico internazionale è avvenuta a seguito della pubblicazione di un articolo e poi del libro susseguente dello studioso americano Samuel Huntington, che analizzava lo scontro tra civiltà differenti68. La cultura e le identità culturali, secondo Huntington, stanno alla base dei processi di disintegrazione, coesione e conflittualità del mondo post-guerra fredda: le fratture culturali esistenti si trasformeranno, prima o poi, in fratture di tipo geopolitico. Tutto questo deriva, inevitabilmente, da processi storici di lungo corso: era stato l’imperialismo europeo ad alimentare la convinzione che le differenze religiose ed etniche, oltre ad essere naturali, antichissime ed immodificabili, sono anche della massima importanza. La tesi di futuri conflitti mondiali che si verificherebbero lungo le faglie di conflitto etnico-ideologiche ha scosso l’ambiente accademico mondiale, abituato a ragionare essenzialmente in chiave di contrapposizioni territoriali e militari. Ma il dibattito, per quanto proficuo, era limitato inizialmente ai solo ambienti accademici, dove peraltro le 68 SAMUEL HUNTINGTON, The clash of civilization?, New York, Foreign affairs, summer 1993; SAMUEL HUNTINGTON, Lo scontro delle civiltà, Milano, Garzanti editore, 2008. 59 tesi dello Scontro di civiltà ricevevano numerose critiche. Il genocidio del Ruanda, uno degli episodi più cruenti della storia del XX secolo, che ha visto l’etnia Hutu sterminare quella Tutsi, in soli 100 giorni tra l’aprile e il luglio del 1994, provocando tra gli 800.000-1.000.000 morti, aveva al fondo “motivazioni” di tipo etnico. Il conflitto dei Balcani, che mostrava alla base profonde divergenze etnico-culturali, sembrava aver fornito delle inaspettate conferme alle teorie dello studioso americano, nonostante diversi studiosi presentassero sempre nuove obiezioni sulle capacità esplicative e generalizzanti della prospettiva huntingtoniana. Solo dopo l’attacco alle Twin Towers ed al Pentagono, di cui è oramai incontestabile la matrice confessionale che univa gli attentatori, il dibattito sulla politicizzazione della religione ha ripreso un posto centrale sia nella ricerca che nell’agenda politica internazionale: sempre più spesso è stato tracciato un collegamento tra l’azione transnazionale di organizzazioni politiche non statali, con le loro convinzioni religiose, e la contestazione dell’egemonia occidentale. Questa visione troverebbe conferma in una semplice riflessione sulle principali fonti di tensione internazionale attuali: prendendo in considerazione le quattro aree calde da cui si teme possa scaturire un conflitto in futuro, in tre casi risulta evidente una frattura di ordine religioso (Israele-Palestina, Pakistan-India ed Iran), mentre solo uno risulta completamente estraneo a questo genere di dinamiche, presentando una caratterizzazione di ordine ideologico (Corea del Nord). La nascita di questo fenomeno può essere considerato, al tempo stesso, sia come prodotto della trasformazione registrata dalla politica durante l’ultimo decennio della Guerra fredda e nel periodo immediatamente successivo, che come una variabile interveniente in grado di alimentare questo mutamento. Di fatto è accaduto che in molti paesi, soprattutto del mondo in via di sviluppo, dalla fine degli anni’70 i movimenti nazionalistici al potere, a causa della loro corruzione e inefficienza e dell’abbandono delle politiche dirigiste, abbiano perso l’appoggio popolare a favore di movimenti di massa a forte connotazione islamica. Tutto ciò porta a superare gli schemi tradizionali della riflessione sulle relazioni internazionali in quanto non esclude la possibilità che, riattivato il rapporto tra la 60 società politica e i sistemi di pensiero ed i valori di ordine spirituale, il fattore religioso, così come quello etnico o ideologico, possano tornare ad influenzare in misura effettiva le relazioni internazionali uscendo da quella marginalità cui sono stati relegati dal pensiero politico moderno. È evidente che le differenze religiose rappresentano attualmente la principale fonte di conflitto, ma tra i fattori culturali che a mio avviso influenzeranno gli scenari geopolitici futuri ho voluto includere anche altri elementi che rientrano in una definizione allargata di cultura: l’etnia, la demografia, il nazionalismo e i media. Accade spesso che quando un conflitto esplode lo fa per cause non religiose, che poi vengono sottolineate e fomentate dalla religione quando quest’ultima viene buttata sul piatto della bilancia. La religione è un elemento fortemente caratterizzante le civiltà: non a caso, quattro delle cinque religioni più importanti del globo (induismo, cristianesimo, islamismo e confucianesimo) sono alla base di gran parte delle civiltà esistenti nel mondo. Per i “non occidentali” la religione non è più l’oppio dei popoli, ma la vitamina dei deboli: oltre al denaro, al potere e alla parentela è la fede ad affermarsi come fattore di lealtà. L’islam, in particolare, sta crescendo come al tempo della sua grande espansione durante il VII e VIII secolo; il fascino che esercita deriva dal suo essere una causa politica e una molla sociale in paesi come l’Egitto e il Libano, dove i Fratelli Musulmani e Hezbollah sono sia partiti politici che fornitori di welfare. I gruppi islamisti, in Egitto come in altri stati arabi, sono diventati importantissimi dispensatori di quell’assistenza sanitaria e di quell’istruzione che l’incompetenza di tanti autocrati della regione ha sempre trascurato, anche in presenza di una potente crescita demografica69. L’islam potrebbe entrare in ogni conflitto se lo scontro dovesse accentuarsi fino al punto in cui ogni gruppo etnico andasse a pescare in profondità nella sua cultura 69 PARAG KHANNA, I tre imperi. Nuovi equilibri globali nel XXI secolo, Roma, Fazi Editore, 2009, pag.271. 61 fino ad estrarne i simboli della propria legittimità e autenticità culturale per convalidare le proprie rivendicazioni70. L’occidente si è dimostrato particolarmente pronto a pensare all’Islam come ad una fede particolarmente aggressiva e violenta e, per tutta risposta, gli accadimenti della Guerra del Golfo sono stati interpretati nel Medio Oriente, sia a livello popolare che presso l’élite, come un intervento sgradito dell’Occidente nel mondo musulmano. Il jihad proclamato da Al - Qaeda e i suoi adepti è un progetto geopolitico che riguarda, nell’ordine, l’unificazione politico-militare della umma islamica, l’eliminazione fisica e completa di Israele, la distruzione progressiva del potere economico occidentale71. Il jihad di Al - Qaeda è diventato un global player della geopolitica e soprattutto della geoeconomia mondiale, ha la capacità di costringere sia la piazza che i governi islamici, moderati o meno, a scelte radicalmente antioccidentali e di confronto con USA, NATO e UE, può definire azioni di destabilizzazione strutturale dei paesi europei e degli USA72. La realtà è che c’è anche uno scontro all’interno del mondo islamico tra coloro che credono che l’islam sia compatibile con la democrazia e le libertà civili e coloro che vogliono invece ricreare uno stato islamico globale. La Turchia rappresenta la battaglia chiave in questa guerra di ideologie: rappresenta il punto in cui cultura occidentale e cultura islamica si stanno parlando per cercare di trovare un punto d’incontro. Ma il “problema” religioso non è una prerogativa soltanto dell’occidente. La Cina deve fronteggiare il separatismo di Xinjiang e Tibet, due enormi province autonome poste nella metà occidentale del paese. Lo Xinjiang, provincia riconquistata dal governo centrale nel XIII secolo, è costantemente in fermento a causa dell’indipendentismo degli uiguri, popolazione autoctona turcofona e 70 GRAHAM FULLER e IAN LESSER, Geopolitica dell’islam, Roma, Donzelli Editore, 1996, pag.136. 71 G. E. VALORI, op. cit., pag.176. 72 G. E. VALORI, ibid., pag.190. 62 musulmana, e degli Hui, di fatto riconosciuti come un’etnia distinta, ma che sono cinesi han di fede musulmana. Questi indipendentisti hanno compiuto numerosi attentati, tra cui quello nel 2008 a pochi giorni dall’inizio delle Olimpiadi di Pechino. Pechino risponde a questa minaccia con una strategia di lungo termine: la colonizzazione della provincia con immigrati di etnia han. La colonizzazione ha avuto così tanto successo che oggi gli han si apprestano a raggiungere la parità con gli uiguri73. In India i rapporti di potere tra le due comunità, indù e musulmani, sono il cuore vero del conflitto. Lo stato indiano di Jammu-kashmir è l’unico in cui la possibile prospettiva separatista è possibile74. In Pakistan attualmente meno di quattro dozzine di individui di origine punjabi e legati alla città di Lahore concentrano nelle loro mani la totalità del potere politico occupando i 41 posti istituzionali più importanti del paese: nell’eterogeneo panorama etnico pakistano ciò significa l’indiscusso predominio dell’elemento punjabi sugli altri gruppi etnici75. In Europa, in Kosovo, circa 5 mila kosovari di etnia albanese e di religione musulmana hanno più volte protestato contro la decisione delle autorità di governo di vietare alle studentesse di indossare il velo islamico nelle scuole pubbliche. Si considerino le elezioni in Algeria del 1991 e la risposta dell’Occidente ai loro risultati: credendo che un partito islamista dotato di un’ala militare violenta, il FIS, fosse in procinto di riportare una schiacciante vittoria elettorale, l’esercito algerino, con l’appoggio di Francia e USA, annullò il voto. A quel punto gli islamisti dichiararono guerra alle forze di sicurezza del governo algerino, e 150000 persone morirono nel decennale conflitto che ne seguì. Le forze di separazione sembrano venir particolarmente stimolate dalla rinascita del concetto etnico di stato-nazione. L’idea che lo stato debba esercitare la sua autorità su una comunità etnica omogenea tutta riunita all’interno di 73 DANIELE SCALEA. op. cit., pagg.304-6. 74 FULLER e LESSER, op. cit., pagg.139-140. 75 FAUSTO ALUNNI, op. cit., pag.64. 63 frontiere storiche divide i cittadini, sfalda le società, ripropone il problema delle minoranze e dei loro diritti e, al tempo stesso, stimola le rivendicazioni irredentiste come, ad esempio, quelle della Serbia, che, dopo la guerra contro la Croazia, aveva cominciato ad assorbire le regioni popolate da serbi in BosniaErzegovina. La convinzione che l’umanità sia composta da differenti culture, ossia gruppi che condividono un linguaggio, dei simboli, e una narrativa comune riguardo al loro passato, e che questi gruppi debbano avere il proprio stato è stata una delle forze più potenti che abbiano mai agito nel mondo nei secoli passati. Spesso capita che si associno due tipi di conflitti etnici, quello etnico territoriale e quello etnico politico. Se l’oggetto del primo tipo è facilmente identificabile (il territorio, la terra sacra, il focolare, la culla storica) è più difficile definire l’oggetto del secondo tipo di conflitto: consiste nel cambiamento di statuto di un’etnia, solitamente quella minoritaria o fuori dalle leve del potere, in rapporto ad un’altra etnia, in genere quella maggioritaria o al governo. Sarebbe, di fatto, un conflitto senza soluzione perché le due etnie rivendicano un medesimo territorio e i medesimi legami indissolubili, sacri o ancestrali, rispetto al territorio considerato. Allo scopo di raggiungere i propri obiettivi materiali l’elite etnica deve mobilitare le masse; ma poiché queste sono poco interessate ad obiettivi dai quali non possono trarre beneficio, l’elite fa ricorso al nazionalismo e il conflitto di interessi si trasforma di conseguenza in conflitto di valori. Per ottenere ciò, i leader dei movimenti etnico-politici creano l’immagine di un nemico, sul quale fanno ricadere la collera, solitamente una nazione o un’etnia avversaria. Allo stesso modo, gli stati moderni possiedono un forte incentivo a fomentare il nazionalismo, perchè avere una popolazione leale e unita, pronta al sacrificio, aumenta il potere dello stato e così la sua capacità di affrontare le minacce esterne. Nel competitivo mondo della politica internazionale le nazioni hanno incentivi ad ottenere il loro proprio stato e gli stati hanno incentivi a fomentare una comune identità nazionale nelle loro popolazioni. Il malessere generale trova nel nazionalismo e nell’esaltazione appassionata delle virtù relative 64 all’identità un facile mezzo di distrazione e di mobilitazione: l’altro, lo straniero, il meticcio, l’immigrato, è un colpevole già designato. Dietro al discorso nazionalista si avverte spesso il sogno di un paese etnicamente puro. È stato il nazionalismo a cementare gran parte delle potenze europee dell’era moderna, trasformandole da stati dinastici in stati-nazione, ed è stato lo scoppio dell’ideologia nazionalista che ha aiutato a distruggere gli imperi britannico, francese, ottomano, olandese, portoghese, austro-ungarico e russosovietico. È richiamandosi al nazionalismo che i sionisti reclamano uno stato per il popolo ebreo e i palestinesi ne vogliono uno tutto per loro; è attraverso il nazionalismo che i vietnamiti hanno sconfitto sia l’esercito americano che quello francese durante la Guerra Fredda; è grazie al nazionalismo che curdi e ceceni aspirano alla costruzione di uno stato tutto loto; è per il nazionalismo che gli scozzesi richiedono una maggiore autonomia all’interno del Regno Unito. In politica interna il risveglio dei nazionalismi è molto spesso la reazione di gente disperata: operai, tecnici, insegnanti caduti in miseria e declassati, tutti cercano delle spiegazioni semplici al fenomeno incomprensibile della loro disgrazia. Spesso vengono “fomentati” a trovare dei colpevoli: le elite, gli stranieri, le persone di lingua o di religione diversa diventano gli obiettivi verso i quali sfogare le loro frustrazioni76. Ciò che vediamo oggi è una graduale rinazionalizzaione della politica estera europea, sostenuta in parte dalle incompatibili preferenze economiche e in parte dalle risorgenti paure che le identità locali siano minacciate. Mentre i danesi sono preoccupati dall’islam, i catalani chiedono più autonomia, fiamminghi e valloni si scontrano in belgio, i tedeschi rifiutano di salvare i greci, e nessuno vuole i turchi all’interno dell’UE. Le nazioni, poiché operano in un mondo in competizione e pericoloso, cercano di preservare le loro identità e i loro valori culturali. In molti casi, il miglior modo per fare questo è di avere il proprio stato, perchè i gruppi 76 IGNACIO RAMONET, Geopolitica del caos, Trieste, Asterios Editore, 1998, pag.31. 65 etnici o nazionali che perdono il loro stato sono, solitamente, più vulnerabili alla conquista, all’inclusione e all’assimilazione. Secondo Menachem Klein il conflitto che da decenni oppone arabi e israeliani si sarebbe trasformato da conflitto territoriale, cioè per la conquista di un ben specifico territorio, in conflitto etnico. I conflitti etnici hanno regole ben diverse rispetto a quelli in cui si devono stabilire dei confini territoriali. In un conflitto etnico “l’altro” non viene misurato secondo la sua appartenenza nazionale ma secondo la sua appartenenza etnica. Le operazioni messe in campo dagli israeliani mettono in rilievo il salto di qualità del conflitto israelopalestinese, che non è più un conflitto per i confini, bensì un conflitto fra due gruppi etnici che vivono sotto un solo governo: il governo israeliano. Lo stato unico creato da Israele fra il Mediterraneo e il Giordano è un regime basato sull’etnia e la sicurezza, nel cui ambito Israele concede diritti civili e vantaggi alla popolazione ebraica e limita, talvolta nega, i diritti civili ai palestinesi, posti sotto controllo per ragioni di sicurezza nazionale. L’ambito principale in cui questo conflitto si sta svolgendo è la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, dove è concentrata la maggioranza della popolazione palestinese; ma ha anche un suo riflesso all’interno dello stato ebraico. Israele misura il numero degli ebrei e quello degli arabi palestinesi che vivono sotto il suo controllo ed è preoccupato dall’equilibrio demografico che mette in questione il carattere ebraico dello stato. Così è cresciuta sempre più la tensione, nel quadro generale di un conflitto etnico in cui trovano maggiore spazio e fonte di rafforzamento le forza religiose radicali, che vedono nel conflitto con l’altra parte uno scontro etno-religioso77. I ceceni costituiscono l’etnia più attiva e nello stesso tempo più politicizzata del Caucaso settentrionale. A loro avviso lo statuto di repubblica autonoma non rappresentava il livello di sviluppo politico, sociale e culturale cui aspiravano. Le relazioni russo-cecene sono ossessionate da immagini scioviniste e xenofobe, le 77 MENACHEM KLEIN, “Lo Stato unico esiste già e promette nuove guerre” in LIMES vol. 1/2009, Il buio oltre Gaza, pag.41-47. 66 due società si respingono e con l’allontanamento forzato degli stranieri (russi, armeni, ebrei) dalla loro terra, la società cecena si è radicalizzata ancora di più. I partecipanti collaterali al conflitto ceceno sono numerosi: i musulmani della Russia (tatari, baskiri, ecc.), che non intendono deteriorare le loro relazioni con le autorità federali a causa di questo conflitto; le repubbliche ex-sovietiche, che temono il ritorno della Russia (Ucraina e paesi baltici); i paesi dell’est europeo, che si oppongono alla rinascita di una Russia imperialista (Polonia, Rep.Ceca, Ungheria); i paesi dell’Ovest europeo, preoccupati per le violazioni sistematiche dei diritti dell’uomo in Cecenia; gli Stati Uniti, interessati ad essere presenti sulla via del petrolio del Caspio; la Turchia e l’Iran, impegnati a rientrare nelle zone d’influenza e nei loro antichi possedimenti nel Caucaso; altri paesi del Medio Oriente (Arabia Saudita, Bahrein, Qatar, Emirati Arabi Uniti), che sperano di veder trionfare in questa regione la loro forma di islam; l’insieme dell’islam, che si sente solidale con il popolo fratello musulmano; le multinazionali petrolifere, i cui interessi non corrispondono perfettamente a quelli dei paesi occidentali; le potenze regionali, quali l’India e la Cina, preoccupate dai movimenti separatisti musulmani al loro interno; l’Internazionale islamista di Al Qaeda; infine la Georgia, che ha visto propagarsi sul suo territorio il conflitto ceceno. Allo stesso modo, nel Caucaso, l’Armenia seguita a reclamare l’annessione del Nagorno-Karabakh e, nel Mar Nero, la Russia rivendica la restituzione della penisola di Crimea. Il Nagorno Karabakh è uno Stato non riconosciuto a livello internazionale, collocato proprio sul confine tra Azerbaijan e Armenia. L’Armenia sostiene che il Nagorno Karabakh è parte del cosiddetto “impero cristiano”, dal momento che sul suo territorio sono presenti numerose chiese di legno; gli storici azeri, invece, sostengono che quelle chiese sono state costruite dagli albanesi del Caucaso, una popolazione che si suppone sia l’antenata degli azeri. Gli armenicristiani e gli azeri-turchi hanno convissuto a lungo in questo territorio; solo dopo la fine della Seconda guerra mondiale l’Unione Sovietica ha costituito la regione autonoma del Nagorno Karabakh, una regione popolata prevalentemente da armeni. L’intolleranza reciproca di armeni e azeri è rimasta sotto traccia durante 67 tutto il periodo dell’unione Sovietica, ma è poi sfociata nelle violenze della fine degli anni '80 del XX secolo, con l'esito che la comunità azera è fuggita dal Karabakh e dall’Armenia, mentre la comunità armena ha abbandonato altre aree dell’Azerbaijan. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, la popolazione armena della regione ha dichiarato l’indipendenza dall’Azerbaijan e ha fondato la repubblica del Nagorno Karabakh, che non è mai stata riconosciuta a livello internazionale. Tra il 1988 e il 1994 nella regione sono scoppiati conflitti periodici di diversa intensità, vinti prevalentemente dalla parte armena, e a seguito dei quali è iniziata l’occupazione di parti del territorio dell’Azerbaijan, anche oltre i confini del Karabakh, che hanno portato alla creazione di una zona tampone, che univa l’enclave del Karabakh all’Armenia. Nel 1994 le due parti hanno firmato un cessate il fuoco sotto l’egida della Russia, e il Nagorno Karabakh è di fatto rimasto nelle mani degli armeni. Nessun accordo finale è mai stato siglato e durante le periodiche violazioni del cessate il fuoco ci sono state vittime da entrambe le parti. Si stima che nel corso dei 6 anni di conflitto siano stati uccise tra le 20.000 e le 30.000 persone, mentre più di un milione di persone ha dovuto abbandonare le proprie case. Gli azeri fuggiti nel corso del conflitto non sono ancora tornati nei territori dell’Azerbaijan sotto il controllo armeno. Lo stesso vale per gli armeni che hanno lasciato l’Azerbaijan. Gli azeri lamentano la perdita del Nagorno Karabakh, che considerano parte del proprio territorio, ma gli armeni non sono disposti ad alcun compromesso. Russia, Francia e Stati Uniti, riunite nel “Gruppo di Minsk” costituito dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), tentano da tempo di trovare una soluzione per risolvere la questione. Nel 1997, il Gruppo ha presentato alcune proposte di accordo che sono state prese in considerazione all’inizio dei negoziati tra l’Azerbaijan e l’Armenia, ai quali tuttavia non partecipavano i rappresentanti dell’autoproclamata repubblica del Nagorno Karabakh. Nel dicembre 2006, per mezzo di un referendum, il Nagorno Karabakh ha approvato la propria costituzione e ha proclamato l’indipendenza, proclamazione che l’Azerbaijan ha dichiarato illegittima. Tuttavia, da allora ci sono stati diversi tentativi di far 68 proseguire il processo di pace, compresi gli incontri periodici del presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev e del presidente armeno Serzh Sargsyan. Nel novembre del 2008 Aliyev e Sarkisian si sono accordati sull’intensificare gli sforzi per trovare una soluzione politica per il problema del Nagorno Karabakh, e significativi passi avanti sono stati fatti durante gli incontri tra i due capi di stato nel maggio e nel novembre del 2009. In Messico gli amerindi puri rappresentano il 30% della popolazione, ma 9 messicani su 10 hanno almeno una parte di sangue indigeno, come risulta dalla semplice osservazione dei tratti somatici: non a caso l’eredità azteca è tenuta in grande considerazione dalla cultura nazionale. Anche i paesi centramericani sono quasi tutti caratterizzati da un forte miscuglio etnico indio latino (in Honduras l’80% è meticcio e il 10% amerindio) anche se spiccano il Costarica ed il Guatemala per la scarsità di sangue indigeno e per l’abbondanza di comunità autoctone. La seconda maggiore comunità amerindia si trova in Perù : il 45% è amerindio ed il 37% meticcio. La predominanza amerindia ha poi trovato la sua espressione anche in politica, dopo anni di dominio di presidenti bianchi legati all’ideologia liberale: proprio il 28 luglio Ollanta Humala, un amerindio appunto, è stato eletto presidente del Perù. In Venezuela due terzi della popolazione sono meticci, spesso con sangue sia amerindio, sia europeo, sia africano: è il caso del presidente Hugo Chavez. In Ecuador un quarto della popolazione è amerindia ed il 65% è meticcia, proprio come il presidente Rafael Correa78. Altro elemento culturale da tenere in conto è la demografia che è lo scenario di tutti gli scenari futuri: sapere come e con quali dimensioni cambierà la popolazione mondiale determinerà l’efficacia relativa di molti degli scenari che ne derivano. Quello che succede tra due persone nell’intimità della camera da letto è certamente un fatto privato, eppure ha un influsso determinante sul futuro dell’umanità: troppe nascite o troppe poche nascite creano "diseconomie" coinvolgendo il benessere delle generazioni future verso le quali dovrebbe esistere 78 DANIELE SCALEA, op. cit., pagg.419-22. 69 un principio di responsabilità. La collettività può intervenire per modificare, nel rispetto dei diritti individuali e dell'equità, il contesto nel quale avvengono le scelte delle coppie col fine di modificarne comportamenti e aspettative. Il suo effetto non è immediato, ma profondo, e i governi se ne occupano attraverso politiche a favore o contro la natalità, cercando di controllare l’immigrazione, subendo o respingendo la pressione delle religioni. Nel 1972 il Club di Roma, nel suo Rapporto sui limiti allo sviluppo, lanciava un segnale preoccupante: le risorse del pianeta non sarebbero bastate di fronte a una crescita esuberante e incontrollabile della popolazione. Dal 1965 ad oggi la popolazione umana è raddoppiata, passando da 3,3 miliardi a 6,8. Non ci sono mai stati nella storia simili ritmi di crescita. Naturalmente, il numero delle persone è solo una cornice geometrica, sia pure indispensabile, nella quale si colloca una collettività per valutarne il peso in ambiti più vasti: una somma astratta di cultura e idee, capitale umano e capitale fisico, benessere di vita e reddito pro capite, non è fattibile, eppure è quella che conta. Ma tra numero di persone e questa astratta somma o ricchezza esistono, ovviamente, associazioni e interazioni che non possono essere trascurate. Molti sostengono che una diminuzione del numero, in un'Europa quadruplicata negli ultimi duecento anni, può portare dei vantaggi per l'alleggerimento delle tensioni ambientali che ne conseguirebbe, recuperando spazi e qualità della vita oggi perduti per l'eccessiva concentrazione umana. Sarebbe una prospettiva accettabile se la diminuzione avvenisse con un taglio proporzionale per giovani, adulti e vecchi, lasciando inalterata, o quasi, la struttura per età. Ma purtroppo così non è dato che la diminuzione sarà forte per giovani e adulti, mentre per i vecchi ci sarà un cospicuo aumento: se questo avverrà, ne seguirà uno sconquasso nei rapporti numerici, e quindi sociali, economici e culturali tra generazioni. Il rapporto tra anziani (60 e oltre) e giovaniadulti (20-60 anni) passerebbe (per l'intera Europa) dal 35 per cento attuale al 76 per cento del 2050, con conseguenze devastanti sul sistema. Con queste premesse, sembra utile discutere di tre aspetti in particolare: il primo riguarda la crisi dello 70 stato sociale; il secondo, le possibili implicazioni politiche della bassa natalità occidentale; il terzo, le implicazioni sociali della bassa natalità. Le istituzioni nazionali e sovranazionali europee sono sempre più orientate verso controverse riforme di welfare e di tutele corporative, che guardano direttamente all'enorme numero di pensionati, ma che raramente cercano una visione più profonda. Sul piano geoeconomico i trend derivanti dalle dinamiche demografiche negative europee sono facilmente immaginabili: diminuzione degli elementi attivi della popolazione, aumento dei costi dei sistemi pensionistici, progressivo aumento delle tasse per sostenere i nuovi pensionati, impossibilità di sostegno politico a scelte impopolari ma necessarie. Il problema principale è quello del global aging, dell’invecchiamento universale, che colpisce maggiormente il Giappone e l’Europa Occidentale79. Gran parte del sistema sociale e pensionistico si regge su una distribuzione delle classi di età che premia la fase produttiva della vita e rende minoritari i giovani non ancora entrati nel mondo del lavoro e gli anziani che ne sono usciti. L’aumento della vita media nei principali paesi industrializzati genera, naturalmente, un aumento della quota di popolazione anziana, in fase di pensionamento e quindi a carico del sistema pubblico. La crisi dello stato sociale in Europa può definirsi come l'insostenibilità delle regole che presiedono ai trasferimenti di reddito operati dalla mano pubblica, che preleva risorse, per mezzo di imposte, tasse e contributi, dai produttori o percettori di reddito (un aggregato che in larga parte coincide con la popolazione attiva) e le ridistribuisce alla popolazione sotto forma di istruzione, sanità, pensioni, sussidi assistenziali (un aggregato in buona parte costituito da anziani). Sul piano internazionale, l'insostenibilità delle antiche regole del sistema di welfare nei paesi Europei, di cui la depressione demografica è la prima responsabile, è un potente fattore della minore competitività dell'Europa rispetto sia agli Stati Uniti, l'unico grande paese occidentale con una demografia in equilibrio e con un sistema di welfare molto più leggero del nostro e non insidiato 79 G. E. VALORI, op. cit., pagg.45-8. 71 a breve dal rapido invecchiamento, sia ai paesi in via di sviluppo che attualmente hanno meno anziani da curare, per meno tempo, e una maggiore popolazione attiva. I demografi fanno riferimento al tasso di sostituzione, ovvero quel tasso di natalità che permette il mantenimento della popolazione, che è tradizionalmente di 2.1, ovvero due nati per ogni coppia più la percentuale di 0.1 che rimpiazza i nati morti, la mortalità infantile media, la quota di coppie non fertili ecc. La depressione demografica, cioè l'incapacità delle generazioni di "sostituirsi" aritmeticamente l'una all'altra e quindi di determinare una maggiore o minore diminuzione di popolazione, è meno accentuata nell'Europa del Nord, ossia Gran Bretagna, Paesi Scandinavi, Francia, e più acuta in quella centrale e mediterranea, in particolare Germania, Penisola Iberica e Italia. La vecchia Europa sta diventando un continente popolato da anziani, e poiché le logiche demografiche provocano effetti di lunga durata, l’evoluzione dell’Europa avrà sicuramente delle ripercussioni geopolitiche: quelle esterne, che riguardano l’insieme di condizioni che influenzeranno i rapporti dell’Europa con il resto del mondo, e quelle interne, relative cioè ai rapporti tra i vari Stati membri. Se proseguisse il trend di questo periodo in Germania, ad esempio, alla fine del secolo si prevedono 25 milioni di tedeschi anziché gli attuali 80, supportati da circa 250 mila immigrati l'anno che potrebbero garantire una popolazione totale a malapena di 40-50 milioni. Al di fuori del vecchio continente Russia e Giappone presentano fenomeni di declino demografico molto simili all'Europa. La Russia, in particolar modo, sta affrontando una crisi demografica senza precedenti che potrebbe rendere difficile per Mosca implementare le sue agende economiche e diplomatiche in futuro: i dati parlano di una diminuzione di un milione di abitanti per anno, che porterà verso una prossima crisi della "massa critica" demografica in grado di mantenere l'enorme struttura della Federazione. La Russia si trova dinanzi ad un fenomeno unico, un tasso di mortalità molto alto per un paese relativamente sviluppato che si aggiunge ad un tasso di fertilità molto basso, calato drammaticamente dopo la fine dell’era comunista ed ora sotto il livello di sostituzione. Si prevede, per la 72 metà del secolo, una diminuzione di abitanti di circa il 25-30 per cento rispetto agli attuali, e in aggiunta anche una differente ripartizione tra slavi e islamici, questi ultimi in costante aumento. Nel 2050 si prevede inoltre l’esplosione della popolazione dell'India, che raggiungerà 1,5 miliardi di abitanti, sorpassando così la Cina, che sconta le politiche di blocco demografico, ma che si troverà comunque ad affrontare una popolazione di molto superiore al miliardo. L’età media delle aree economicamente più sviluppate del globo è maggiore di 13 anni rispetto a quella riscontrata nelle zone economicamente meno sviluppate, e arriva ad essere addirittura di 20 anni superiore a quella riscontrabile nei paesi agli ultimi posti della classifica mondiale dello sviluppo. Si prevede che in Europa, l’età media passerà da 37.7 anni nel 2003, ai 52.3 anni nel 2050, mentre negli USA aumenterà solo fino a 35.4 anni80. In pieno contrasto con questi dati, in 15 paesi, quasi tutti posti nel territorio africano, nel 2050 la maggioranza della popolazione avrà un’età media di meno di 25 anni. Da tempo è aperto il dibattito sulla dinamica della popolazione nelle società industrializzate, ma solo recentemente la geopolitica ha iniziato ad approfondire il tema in chiave strategica, proiettando gli orizzonti oltre la metà di questo secolo. Le analisi internazionali cercano di scomporre i dati globali, i quali indicano, come è noto, la forte crescita demografica mondiale del Ventesimo secolo (da 1,6 a 6,1 miliardi di persone) e il proseguimento di questo trend anche durante il Ventunesimo secolo, che dovrebbe portare al raggiungimento di una popolazione di nove miliardi. Purtroppo tutti questi dati su scala mondiale hanno una rilevanza statistica ma non strategica, in quanto rappresentano unicamente le medie di variabili assolutamente non omogenee nelle varie regioni del pianeta. Andando nello specifico la popolazione nel bacino del Mediterraneo potrebbe raggiungere nel 2025 i 500-600 milioni di abitanti, quasi il doppio rispetto gli anni Ottanta; ma mentre fino agli anni Cinquanta i due terzi della popolazione erano concentrati nel nord del bacino, dalla Spagna alla Grecia, nel 2025 la situazione si capovolgerà e solo un terzo 80 G. E. VALORI, op. cit., pagg.50-1. 73 degli abitanti occuperà la parte settentrionale, a causa della concomitanza tra crescita zero europea e alto incremento demografico dei Paesi arabi. Le tendenze di fertilità sono alla radice degli scenari geopolitici prospettici dell'intera regione: i livelli sono sotto la soglia di sostituzione della popolazione nel nord (2,1 bambini per donna in età fertile) mentre gli indicatori sono molto alti nell'area mediterranea del sud-est (5 bambini per donna). Sono scenari, quelli che emergono, che danno l'Europa proiettata verso la non competitività geopolitica nell'arco di pochi decenni. Ci addentriamo così in quella che, in termini scientifici possiamo definire legge del numero o in termini meno prosaici, “vendetta della culla”: legge che in soldoni crea una connessione diretta tra il tasso di natalità di uno Stato e la sua capacità di influenza, e quindi una sorta di vendetta politica da parte dei paesi meno sviluppati che sfruttano in chiave politica il loro peso demografico. Da questa equazione ne discende necessariamente che il calo demografico che affligge il continente europeo determina una riduzione delle capacità politiche dell’Europa stessa: è infatti assodato che l’Europa del XXI secolo non potrà rivendicare la stessa importanza nelle istanze internazionali che aveva nel XX secolo. Tra i dieci paesi più popolosi del mondo, nel 1950, ce n’erano quattro europei: Russia (nello spazio dell’attuale Federazione), Germania (unificata), Gran Bretagna e Italia; attualmente solo la Federazione Russa sopravvive tra i primi dieci, ma anche lei uscirà dalla classifica nel 2050. Nel G8 l’Europa da sola vanta ben quattro rappresentanti, ma a ben vedere si tratta di Paesi che contano meno di 100 milioni di abitanti ciascuno; paesi che oltretutto hanno visto il proprio peso demografico diminuire vertiginosamente: il tutto a fronte invece della implacabile ascesa demografica dei paesi meno sviluppati del mondo. Per questa ragione oggi il G8 ha cessato di essere rappresentativo: raccoglie infatti solo il 13.1% della popolazione mondiale; e per questa stessa ragione è stato allargato a G20, aprendosi soprattutto nei confronti di cinque paesi emergenti: Cina, India, Brasile, Messico e Sud Africa. La somma della popolazione di questi cinque paesi emergenti è di 2.792 milioni di abitanti, il 42.2% della popolazione mondiale. Con la sua economia sviluppata 74 l’Europa anche in seno al G20 può comunque contare su una forte presenza, con ben quattro rappresentanti, ma è chiaro che l’allargamento del G8 significa il suo calo relativo d’influenza, riflesso anche della diminuzione nell’evoluzione demografica. Da oggi al 2075, secondo il Demography Watch, la popolazione mondiale dovrebbe aumentare di circa il 50%, e l’aumento sarà concentrato soprattutto in Africa, in Asia e nell’America latina. Le tensioni che questi squilibri demografici provocheranno, le massicce emigrazioni, i nuovi assetti culturali, gli sradicamenti saranno giganteschi. I “latinos” a metà del XXI secolo saranno negli Stati Uniti 140 milioni, cioè il 34% della popolazione. Dato che le riserve del pianeta sono un bene limitato, si dovrà diminuire lo standard di vita dei ricchi e il loro piacere di consumare per elevare il livello sociale dei poveri, si dovrà affrontare un’immigrazione crescente, si dovranno cambiare i sistemi pensionistici e sanitari. Non esiste una necessaria relazione inversa tra nascite e migrazione, nel senso che se sono basse le prime debbono essere alte le seconde, e viceversa. Che il più delle volte questa relazione esista è irrilevante: nello stesso mondo occidentale esistono casi opposti e sorprendenti, come quello degli Stati Uniti, con buona riproduzione biologica e alta riproduzione sociale, e quello del Giappone dove ambedue sono compresse. D'altra parte, ogni società è libera di stabilire il suo "mix" riproduttivo: esistono società completamente sigillate all'immigrazione e altre notevolmente aperte, con costi e benefici per i cittadini e per la collettività di svariata natura e livello. Recenti studi finanziari e demografici hanno rivelato che nel 2030 la maggior parte della classe media mondiale proverrà da Cina e India che rappresenteranno circa il 45% della classe media mondiale. Strettamente connessi con i fattori demografici sono sempre stati altri fenomeni di rilevante importanza geopolitica, in primo luogo l’aumento della tendenza alla conflittualità sia interna che internazionale. Essa è sempre stata più elevata nelle società in cui i giovani sono più numerosi degli anziani. In secondo luogo, l’urbanizzazione, che oggi ha assunto dimensioni incontrollabili, accresce la conflittualità interna, indebolendo le strutture e gli equilibri sociali tradizionali. 75 È sintomatico il fatto che il reclutamento del terrorismo islamico avvenga nei sobborghi delle metropoli e tra gli studenti all’estero. Le conseguenze geopolitiche della demografia e delle religioni sono sempre più attentamente considerate, nei paesi ortodossi e in quelli islamici la religione costituisce una componente essenziale dell’identità o, se si vuole, della civiltà. Tra i nuovi strumenti politici quello dei mezzi di comunicazione di massa appare come uno dei più potenti e dei più temibili. La conquista dell’ascolto di massa su scala mondiale scatena battaglie epiche, tant’è che alcuni gruppi industriali si sono impegnati in una guerra all’ultimo sangue per il controllo dei mezzi multimediali e delle autostrade dell’informazione. I media hanno ormai una copertura globale e agiscono in tempo reale, influiscono sui modi e quindi sui contenuti della politica; le democrazie rappresentative vengono sfidate continuamente dai media, dai sondaggi, oltre che dal mercato globalizzato. Il connubio dell’informatica, delle telecomunicazioni e della televisione ha provocato una vera rivoluzione, che ha portato ad un aumento delle possibilità di comunicazione e lo sviluppo di nuove abitudini81. Per la prima volta nella storia i messaggi audiovisivi sono rivolti di continuo a tutto il mondo attraverso i canali televisivi collegati via satellite. Alcuni gruppi economici, più potenti degli stati, fanno razzia del bene più prezioso delle democrazie, l’informazione, per trasformarla in pensiero unico che sostenga i loro obiettivi e le loro scelte. Viviamo in un mondo dove agli attori tradizionali si sono affiancati una miriade di attori non-tradizionali che diventano sempre più protagonisti delle relazioni internazionali. Ne è un esempio Al-Jazeera, la rete televisiva controllata dall’emiro del Qatar che ha funzionato da amplificatore delle aspirazioni libertarie di tutto il mondo arabo. Le prime trasmissioni di Al-Jazeera risalgono al primo novembre 1996, ma fu solo a partire dal primo gennaio 1999 che la televisione iniziò a trasmettere 24 ore su 24. Primo canale all-news in arabo nel quale il notiziario e l’approfondimento si alternano senza posa 24 ore su 24, Al-Jazeera ha 81 IGNACIO RAMONET, op. cit., pag.13. 76 raggiunto il suo picco di popolarità e gradimento portando nelle case del cittadino argomenti considerati tabù dagli organi di stampa locali. L’emittente è stata molto spesso sotto accusa non solo da parte di governi arabi, i quali ritengono che la rete satellitare sia finanziata da Israele, ma anche da Washington e Tel Aviv che accusano la rete di sobillare il terrorismo e la violenza in Palestina82. Al-Jazeera ha dato ampio spazio ai partiti e ai movimenti di opposizione al regime di Mubarak: dai membri del partito Wafd, ai nasseriani, a personalità dei Fratelli musulmani. Inoltre, la rete qatariota ha trattato con coraggio scomode questioni interne quali la condizione delle minoranze, in special modo dei copti, e il rispetto dei diritti umani, gettando forte discredito sulle politiche dei governi arabi e sulla promozione della democrazia in Egitto. Al-Jazeera, dimostrando una grande capacità di interazione con gli strumenti più amati dalle giovani generazioni arabe ha continuato a diffondere notizie, immagini e video anche attraverso Facebook, Youtube, Twitter e il suo servizio di informazione tramite telefono Al-Jazeera Mobile. Con il blocco di Internet imposto dalle autorità egiziane i canali arabi allnews come Al-Jazeera e Al-Arabiya hanno visto accrescere ulteriormente la loro importanza come fonti di informazione alternative alla televisione di stato egiziana. Anche i tentativi di censura nei confronti dell’emittente araba si sono dimostrati inutili perché Al-Jazeera è riuscita ad accordarsi con altre emittenti arabe per la ritrasmissione delle proprie immagini su NileSat, vanificando gli sforzi delle autorità egiziane83. Sebbene Al-Jazeera non sia stata certamente la causa delle rivoluzioni, essa ha comunque rappresentato un fattore determinante per la loro diffusione, tenuta e riuscita. Attraverso le sue immagini, i giovani egiziani hanno visto i loro coetanei tunisini riuscire in quella che era considerata, sino a pochi mesi prima, un’impresa senza speranza. L’impatto emotivo di questo fatto non può essere sottovalutato. Il fattore Al-Jazeera non è certo estraneo allo scoppio praticamente in contemporanea delle proteste popolari in Giordania, delle 82 LIMES, vol. 1/2003, pag.90. 83 LIMES, vol. 1/2011, pag.199. 77 manifestazioni di giubilo in tutto il mondo arabo, dal Marocco a Gaza o, ancora del diffondersi degli slogan della rivoluzione in Yemen e Bahrein. Il governo del Qatar, finanziatore unico di Al-Jazeera, quindici anni fa espressione di un piccolo stato strategicamente insignificante, è ora uno dei più importanti attori politici regionali. È importante comprendere in che modo tanto l’aiuto che Al-Jazeera ha dato alla piazza egiziana quanto il tornaconto in termini di popolarità globale ottenuto per il network dalla copertura della rivoluzione egiziana, siano oggi funzionali alla diplomazia di Doha. Non possiamo dimenticare l’apporto fondamentale che hanno dato ai giovani del Cairo alcuni strumenti mediatici come Google, Facebook, Youtube e Twitter, che hanno l’invidiabile capacità di aumentare la velocità delle comunicazioni. I social media sono siti dove gli individui si connettono tra di loro per scambiare idee, pensieri, sensazioni. Facebook è in testa alla classifica dei social network più seguiti e, generalmente, nella gran parte dei paesi, è seguito al secondo posto da Twitter e Linkedin. Ma poi ci sono realtà locali come Qzone in Cina, Orkut in Brasile e Odnoklassniki in Russia. Tradizionalmente, tv e stampa erano in grado di dominare l’agenda politica e, in qualche modo, di decidere cosa contava in una elezione. I social media hanno cambiato l’equilibrio, dando più voce alla gente comune che non si fida più dei politici e dei giornalisti come un tempo. Le persone si fidano l’una dell’altra: è questa la genialità del concetto di dare l’amicizia su Facebook o twittare una notizia. I social network consentono un poderoso spostamento di credibilità e titolarità dell’agire politico. In un suo manifesto rivolto agli indignados americani, il neuro linguista George Lakoff indica proprio nella rete la frontiera di questo sforzo di democrazia. Dall’entusiasmo per la primavera araba, con la sua esplosione di tweet e speranze in bilico, la comunicazione politica sa di dover imparare, e molto. Grazie alla crescita, alla velocità e al carattere personale della piattaforma di microblogging, chiunque con un minuto libero e un account di Twitter può accedere e trovarsi a far parte di una battaglia nazionale a suon di messaggi. E i punti di forza di uno strumento come Twitter, la sua volatilità, il vociare ciarliero, la leggerezza, 78 possono trasformarsi in altrettanti handicap per un leader. La rete permette a chiunque lo desideri di accedere, a bassissimo costo e velocemente, a tutte le notizie possibili e immaginabili. Vere o false che siano, si tratta comunque di informazioni non sottoposte a censura, esplicita o tacita. Internet permette, inoltre, di comprare a distanza qualsiasi libro, nuovo o usato, pubblicato in qualsiasi città del mondo, e di riceverlo a casa in meno di una settimana. Il trinomio da considerare è soprattutto facebook-youtube-twitter, ovvero i siti più importanti del web 2.0. Dopo l’invenzione della tv satellitare, questi tre siti rappresentano un mezzo ancora più efficace , rapido e massiccio di mobilitazione, più pervasivo degli sms e soprattutto, non va dimenticato, gratuito. Youtube ha permesso a ogni persona di improvvisarsi giornalista o regista:video di protesta e testimonianza, video artistici o comici. Facebook è stato il megacontenitore multimediale ovvero la piattaforma gratuita in cui le informazioni audiovisive di youtube e dei video personali degli utenti, le informazioni visive delle foto digitali e l’interazione tra utenti dei gruppi hanno potuto incontrarsi in un solo luogo. Dalla notte del 27/28 gennaio all’alba del 2 febbraio, facebook è stato oscurato in Egitto, insieme ad AlJazeera: successivamente sono stati bloccati anche i cellulari e poi l’intera rete di Internet. L’uso rivoluzionario dei social media da parte degli egiziani non è una novità: è ben noto il ruolo svolto dai social network sulle elezioni presidenziali americane del 2008, che hanno reso Barack Obama il primo presidente 2.0. Facebook, in particolare, ha funzionato in Egitto come infrastruttura organizzativa, come strumento di reclutamento di possibili militanti e come piattaforma nella quale i tunisini hanno passato i loro consigli e le loro tecniche agli egiziani. Il social network è servito da fonte di informazione alternativa allo strapotere di tv e carta stampata. Al posto di un’informazione tradizionale passiva, subita e democratica i nuovi media creano un’informazione attiva, partecipata e democratica dove si sceglie cosa vedere e cosa leggere, a cosa aderire e a cosa non aderire, dove alla censura imposta dall’alto si sostituisce l’autocensura e quella del gruppo. È chiaro, però, che non è Facebook ad aver fatto la rivoluzione. Sono state, invece, i milioni di persone che si sono voluti aggregare a questo piccolo 79 gruppo di trascinatori consci e ben organizzati nel quale non mancavano persone che avevano imparato da altre rivoluzioni. Le società informatiche e i loro software occupano ormai un posto centrale nella diplomazia dei diritti umani. Il partito cinese, per chiudere al popolo gli sterminati spazi del cyberspazio, ha allestito la cosiddetta Great Firewall. Fin dall’inizio, l’architettura Internet della Cina è stata concepita per permetterne un controllo capillare: tutto il traffico cinese online passa attraverso soltanto tre hub. Non importa quale ISP l’utente scelga, le e-mail e i file che scarica o invia devono necessariamente passare per uno di quei tre hub. La volontà di controllo del regime cinese ha preso di mira anche i motori di ricerca. Per accedere ad un immenso mercato, diverse imprese statunitensi hanno accettato di sottostare alle richieste cinesi84.Google, Yahoo! e Microsoft hanno ricevuto pesanti critiche in Occidente per essersi piegate alle condizioni imposte dal regime cinese e sono state colte alla sprovvista quando il governo cinese le ha costrette a fornire i dati degli utenti per perseguire i blogger democratici del paese. Ma Google ha poi reagito sfidando apertamente Pechino nel dichiarare la volontà di operare senza restrizioni, pena il ritiro da quel mercato. Google ha annunciato che avrebbe dirottato i suoi utenti cinesi su Hong-Kong dove le restrizioni delle autorità cinesi non avrebbero avuto efficacia. Il conflitto giunge in un momento in cui anche le relazioni tra i due stati non sono delle migliori, a causa dei contrasti sulle valute; entrambi i governi, però, hanno teso a minimizzare l’accaduto. È una battaglia di idee: da una parte Internet che è stato per il mondo occidentale la quintessenza del libero scambio di idee e informazioni, dall’altra il governo cinese che ha dimostrato chiaramente come si possa filtrare e controllare la rete. 84 IAN BREMMER, op. cit., pagg.309-10. 80 CAPITOLO VI CONCLUSIONI Il forte collegamento che la geopolitica ha con il presente, le offre la possibilità di analizzare le criticità formatesi, fornire previsioni sul mondo che verrà, prevedere situazioni future. Gli studiosi di geopolitica utilizzano la tecnica degli scenari per comprendere, sulla base dei fattori rilevanti e delle loro tendenze, in quali direzioni la situazione politica potrebbe evolversi e quali strategie e strumenti politici potrebbero essere impiegati per costruire un futuro più aderente alle proprie visioni. È proprio questo il motivo alla base del successo di questa scienza che rende impossibile ignorarla quando si parla di questioni di politica internazionale. Politici, presidenti, primi ministri del passato hanno basato i loro concetti strategici sulle “analisi” fornite dalla geopolitica. Le ambizioni revisioniste della Germania nazista avevano una base pseudo-scientifica nella geopolitica di Ratzel e di Haushofer, i primi ad introdurre il concetto di “spazio vitale”. La dottrina del containement propugnava la costituzione di una rete di alleanze tutt’intorno all’Unione Sovietica, allo scopo di contenerne l’espansionismo, che riprendeva il concetto di Rimland introdotto da Spykman: questa dottrina ha trovato la sua massima espressione nella costituzione della Nato. Allo stesso tempo, la teoria del domino, che sosteneva come ogni cedimento nelle aree interposte tra i due blocchi potesse provocare il cedimento del sistema di controllo americano del Rimland ha supportato l’impegno americano nel Vietnam e in tutta la Guerra Fredda. La geopolitica attuale è in rapida evoluzione e il mondo del XXI secolo è caratterizzato dall’aumento delle interdipendenze, frutto della globalizzazione e della rivoluzione delle tecnologie dell’informazione, nonché dall’accelerazione dei mutamenti economici, sociali, demografici. Essi determinano l’adeguamento della politica degli Stati alle mutate condizioni dei contesti interno ed internazionale. Con la comparsa dei due colossi asiatici, Cina e India, con la rinascita della Russia e del Giappone e con il diffondersi anche in Occidente del 81 terrorismo transnazionale di matrice islamica, l’equazione geopolitica mondiale è profondamente mutata rispetto alla sua configurazione non solo dell’inizio degli anni novanta, ma anche del periodo immediatamente successivo all’11 settembre 2001. Allora la superiorità militare, economica e culturale degli Stati Uniti sembrava fuori discussione. Oggi, invece, viviamo in una situazione magmatica, viviamo alla giornata con l’incubo di eventuali crisi che potrebbero sfuggire ad ogni controllo, creando un caos generalizzato, anziché un nuovo ordine. Le attuali condizioni del contesto internazionale registrano una diminuzione della cooperazione, un aumento della competizione e una minore efficacia delle regole e istituzioni internazionali. Nel corso degli ultimi due decenni abbiamo assistito a cambiamenti straordinari: la disgregazione dell’Unione Sovietica e la dislocazione del suo “impero”; il rinnovamento e l’espansione della potenza americana; l’estensione planetaria del capitalismo commerciale e la globalizzazione; la ricomparsa della Cina, dell’India e di altri Stati post-coloniali come attori del sistema economico e politico internazionale; la proliferazione di attori non statali che mettono in discussione l’autorità degli Stati nazione; la comparsa di nuove questioni e nuove sfide globali, come il cambiamento climatico; infine, la crisi sistemica dell’economia capitalista mondiale che imperversa tuttora. Il continuo evolversi della situazione politica mondiale ha portato politici e scienziati a teorizzare sempre nuovi scenari, con il rischio di risultare poco coerenti con le proprie scelte. Se il periodo successivo alla conclusione della seconda guerra mondiale era caratterizzato da uno scenario abbastanza semplice, il cosiddetto bipolarismo, basato sull’esistenza di due superpotenze che si contendevano il dominio in ogni parte del mondo, il periodo post-guerra fredda ha presentato una complessità continua di sistema che ha costretto gli studiosi di geopolitica a riformulare continuamente le loro proposizioni. La sconfitta e la successiva disgregazione dell’Unione Sovietica ha portato gli studiosi di geopolitica a sostenere la presenza di un mondo unipolare, cioè con una sola potenza dominante, gli Stati Uniti. 82 Secondo diversi studiosi lo scacchiere politico internazionale è destinato a rimanere, per molto tempo, incontestabilmente unipolare. Gli Stati Uniti sono l’unica superpotenza sopravvissuta a un processo che ha visto ridurre il loro numero da tre a una in meno di un secolo, con il declassamento di Gran Bretagna e Unione Sovietica. La definizione di mondo unipolare si deve a Charles Krauthammer che la esplicita in un suo articolo su Foreign Affairs del 1990. Secondo Krauthammer, agli inizi degli anni ‘90, il mondo post Guerra Fredda è ormai un mondo unipolare, cioè con una sola potenza, gli Stati Uniti, che domina incontrastata il panorama politico mondiale. Non mancano potenze di rilievo come Germania, Giappone, Francia, Inghilterra e la stessa Unione Sovietica per le quali l’autore prevede un futuro alla pari con gli USA. Il predominio americano si basa sul fatto di essere il solo paese con i fattori diplomatici, militari, politici ed economici decisivi in ogni conflitto, in qualsiasi parte del globo. Il momento unipolare sta a significare che con la fine delle tre grandi guerre del XX secolo (I e II guerra mondiale, Guerra Fredda) un nord ideologicamente pacificato ricerca sicurezza e ordine allineando le proprie politiche estere a quelle degli Stati Uniti. C’è una sola potenza in grado di agire in solitaria, ma che in alcuni scenari richiede il supporto delle altre potenze minori. L’America potrà continuare in questa posizione finché sarà sostenuta dalla sua economia, finché i suoi problemi interni non prevarranno, finché i suoi cittadini sosterranno una forte politica estera interventista. L’alternativa a quest’ordine unipolare è il ritorno all’isolazionismo americano che non condurrà ad un mondo multipolare e stabile, bensì al caos generalizzato; l’unica salvezza per Krauthammer sta nella forza e nella volontà americane di imporsi85. In La grande scacchiera, libro pubblicato nel 1989, Zbigniew Brzezinski descrive gli USA come l’unica superpotenza globale e l’Eurasia come il terreno sul quale si giocherà il futuro del mondo, mentre in Europa paesi chiave resteranno Francia e Germania, e in estremo Oriente sarà la Cina a conquistare 85 CHARLES KRAUTHAMMER, The unipolar moment, New York, Foreign Affairs vol.70, 1990. 83 una posizione predominante. Nessuna nazione, al momento, può stare alla pari con gli USA, se si considerano nel complesso quattro dimensioni fondamentali (militare, economica, tecnologica e culturale). Ma non vanno trascurati i rischi di un possibile disordine globale, dovuto alla frantumazione dell’attuale stabilità geopolitica, basata sullo Stato-nazione. Il compito degli USA sarà di tenere sotto controllo l’ascesa di altre potenze regionali e questo comporta, come obiettivo a medio termine, un’azione di effettive alleanze: con un’Europa più unita e meglio definita politicamente, con una Cina predominante nella regione asiatica, con una Russia post-imperialista rivolta verso Occidente e, agli estremi confini meridionali dell’Eurasia, con un’India democratica. Ne consegue che un’Europa più vasta e una NATO allargata gioveranno al perseguimento degli obiettivi a breve e a lungo termine della politica estera americana. Un’intesa strategica fra Stati Uniti e Cina volta a sottrarre zone di rispettivo interesse all’eventuale predominio di altre potenze è pertanto un’esigenza ineludibile. Una fase prolungata di graduale espansione della cooperazione con i più importanti partner euroasiatici può contribuire inoltre a creare le precondizioni di un ammodernamento delle attuali strutture dell’ONU. Nel corso dei prossimi decenni potrebbe prendere corpo una struttura operativa di cooperazione mondiale, basata su molteplici realtà geopolitiche, che gradualmente sostituirebbe l’attuale reggente dei destini del mondo, cui fino ad allora spetterà il compito di assicurare la stabilità e la pace su questa terra86. Secondo Alexander Lomanov, analista della rivista Russia in Global Affairs, gli USA cominciano a preoccuparsi del fatto che l’era del loro incontrastato dominio sia giunta alla fine, a favore di una Cina che nei prossimi anni raggiungerà la prima posizione economica nel mondo: dal 2020 raggiungerà la parità di PIL con gli USA che doppierà invece nel 2050. La Cina potrà acquisire lo status di leader economico globale nonostante possegga ancora un sistema politico basato sul partito unico e l’aderenza ad un socialismo di marca cinese. 86 ZBIGNIEW BRZEZINSKI, La grande scacchiera, Milano, Longanesi & C., 1998. 84 L’entrata della Cina nel sistema economico globale con l’assunzione di regole accettate universalmente potrebbe accelerare anche il processo di riforma interna, con il Giappone che potrebbe fare da tramite. La possibilità di una Cina leader è emersa in maniera così palese che, a differenza del passato, adesso tutti cercano di diventare amici dei cinesi. Il fascino del sistema cinese sembra esercitarsi soprattutto sui paesi dell’Europa dell’Est e sui nuovi membri UE, le cui aziende combattono ormai lotte quotidiane per assicurarsi fette di mercato e sostegno economico cinese. In questo ambito Washington potrebbe riciclarsi mostrandosi come l’unico partner occidentale affidabile esasperando i conflitti e le differenze di vedute con la Cina. Le dispute con la Cina non riguardano solo l’economia: gli USA esasperano la Cina per le mire espansionistiche su Taiwan, la loro mancanza di trasparenza nel processo di ricostruzione delle loro forze armate, così come del supporto fornito a Myanmar e Sudan. Ma aldilà di tutto, secondo Lomanov, la futura stabilità globale può essere assicurata solo da un condominio di potere Sino-Americano87. La lettura geopolitica proposta da Fareed Zakaria nel suo libro L’era postamericana è davvero dirompente sia per i temi proposti che per il linguaggio utilizzato. L’opinione di Zakaria è che viviamo in un sistema internazionale ibrido, più interconnesso, più democratico, più dinamico, molto difficile da definire: l’era post-americana. L’autore di origini indiane afferma che viviamo nel mondo meno rischioso di sempre, eppure siamo pervasi da una sindrome da “paura liquida” che ha risvolti politici drammatici: gli stati, in particolar modo quelli occidentali, compiono scelte politiche che sarebbero state giustificate nel periodo in cui lo stato era una macchina da guerra prestata occasionalmente alla pace, ma che sono totalmente inadeguate se riferite alle esigenze del mondo moderno, dove la competizione economica tra i popoli e le nazioni marginalizza il ruolo dei confronti di tipo strategico–militare. In un mondo economicamente 87 ALEXANDER LOMANOV, Multipolar Hegemony, Moscow, Russia In Global Affairs, vol. n°4, October-December 2008. 85 democratico e con maggiore competitività, nessun attore geopolitico potrà più permettersi investimenti errati, atteggiamenti di superiorità culturale, paternalismi politici o parassitismi geoeconomici; il rischio è la perdita di competitività e di spazi a livello economico e, quindi, il declino geopolitico. L’apertura verso gli altri, all’interno e all’esterno delle società, è, secondo Zakaria, l’arma vincente che può consentire all’Occidente di partecipare alla partita globale con rinnovate possibilità di vittoria: se la posta in palio sono gli spazi economici, la competitività di ogni soggetto geopolitico potrà essere assicurata solo dalle nuove idee, dal coraggio di accettare i fallimenti come nuovi punti di partenza. Per questo motivo, i giovani, le donne, gli immigrati, le forze sociali più qualificate, coraggiose ed entusiaste sono, secondo Zakaria, le armi nucleari del Ventunesimo Secolo: esse sapranno regalare potere a chi saprà includerle e valorizzarle attraverso un idoneo progetto di sviluppo. La geopolitica moderna deve di conseguenza saper stare al passo coi tempi aprendosi alle vere esigenze del mondo moderno, che richiede non solo la comprensione dello scenario globale, ma anche l’elaborazione di strategie d’azione maggiormente condivise e legittimate; la geopolitica deve sapersi dunque “democratizzare” comunicando nel modo più semplice possibile, coinvolgendo nel dibattito geopolitico nazionale, regionale e globale gli uomini e le donne di ogni estrazione sociale. La geopolitica deve saper andare oltre la guerra fredda e oltre le paure liquide, oltre ciò che è stata fino ad ora una “cosa per pochi”88. Richard Haas del Council on Foreign Relations, in un articolo pubblicato su Foreign Affairs, sostiene la tesi che il futuro delle relazioni internazionali è l’assenza di un polo egemone, cioè un mondo dominato non da uno stato o da un’unione formale di stati, ma da una dozzina di attori che posseggono ed esercitano vari livelli di potere. Un numero consistente di questi centri di potere non sono stati-nazione, bensì organizzazioni regionali e globali, milizie locali, e una serie di organizzazioni non governative e corporation. Lo scenario di Haas 88 FAREED ZAKARIA, L’era post-americana, Milano, Rizzoli, 2008. 86 prevede, in aggiunta alle grandi potenze riconosciute dalla storia e dalla situazione attuale, la presenza di numerose potenze regionali (Brasile, Cile, Messico, Sud Africa, Egitto, Iran, Israele, Indonesia, Malesia, Corea del Sud), una serie di organizzazioni globali (FMI, ONU, Banca Mondiale) regionali (Unione Africana, Lega Araba, ASEAN, UE) e funzionali (AIEA, OPEC, SCO, OMS), regioni (California, Uttar Pradesh) e megacittà (New York, San Paolo, Shanghai), multinazionali, media (CNN, Al-Jazeera, BBC), milizie (Hamas, Hezbollah, Talebani), partiti politici, istituzioni religiose, organizzazioni terroristiche e mafiose, ONG. Questo scenario sottolinea come l’unipolarismo americano stia volgendo alla fine, e tre sono le ragioni che confermano questo trend. La prima motivazione è essenzialmente storica: le nazioni si evolvono durante il corso degli anni e riescono ad ottenere l’unione dei fattori umano, tecnologico e finanziario che conducono alla prosperità. La seconda motivazione è tutta interna agli USA e riguarda la loro politica: gli Stati Uniti hanno permesso l’emergere di nuovi centri di potere, confidando nella possibilità di controllarli, ma indebolendo la propria posizione egemonica. La terza ragione riguarda la globalizzazione che ha incrementato il volume, la velocità e l’importanza di ogni tipo di risorsa, indebolendo i controlli statali e rafforzando il potere degli attori non-statali. Secondo Richard Haas in un mondo senza poli sarà molto difficile, quando la situazione lo richiederà, costruire risposte collettive e far sì che queste funzionino, così come saranno aumentati il numero e il tipo delle minacce e delle vulnerabilità che ogni paese dovrà affrontare. Gli USA possono fare degli sforzi per evitare una situazione di instabilità perpetua, attraverso azioni riguardanti l’energia (riduzione dei livelli di consumo), la sicurezza (interna ed esterna , riducendo l’impatto che eventuali attacchi possono avere), il commercio (implementarlo perché diminuisce i potenziali di attrito), gli investimenti (attraverso la creazione di un’Organizzazione Mondiale degli Investimenti), gli armamenti (incrementando la capacità di prevenire gli stati falliti). L’assenza di poli aggreganti sarà molto 87 pericolosa, ma stabilendo un gruppo di governi e organizzazioni che provvedano a creare un multilateralismo cooperativo sarà possibile diminuire la conflittualità89. L’analisi della struttura polare non basta, però, a comprendere le dinamiche della politica internazionale, secondo la tesi esposta con lucidità e forza da Barry Buzan nel suo libro più famoso, Il Gioco delle potenze, la politica mondiale nel XXI secolo. Oltre all’aspetto prettamente materialista dei rapporti di potere, che si esplicitano nella polarità, si deve considerare, secondo Buzan, anche l’aspetto dell’identità, ovvero l’ideologia degli attori della politica internazionale. A seconda dell’affinità ideologica le potenze interagiscono tra di loro come amiche, rivali o nemiche e solo l’implicita assunzione di inimicizia ha reso la struttura bipolare fortemente esplicativa della dinamica innescatasi nel corso della Guerra fredda. Il sistema attuale può essere descritto, in termini di polarità, come 1+4, con quattro grandi potenze (Unione Europea, Cina, Giappone e Russia) che si affiancano all’unica superpotenza esistente. Lo status di superpotenza degli USA gli deriva dalla possibilità, economica e militare, di esercitare la propria influenza in ogni angolo del mondo, dalla volontà politica di farlo e dalla legittimazione da parte degli altri attori internazionali. La grande potenza si distingue dalla superpotenza per il fatto di non avere lo stesso ampio spettro di possibilità (la Russia, per esempio, è temibile militarmente ma non economicamente, mentre per l’Unione Europea vale l’inverso) e per essere attiva non a livello globale ma soltanto sovra regionale. I rapporti di amicizia, rivalità e inimicizia che si instaureranno tra le grandi potenze, e tra queste e la superpotenza, saranno quelli che determineranno la futura struttura polare. Le distanze economiche e soprattutto militari sono, secondo Buzan, tali da rendere del tutto improbabile ogni cambiamento nella gerarchia di potere per i prossimi vent’anni. Dopo di allora, però, lo scenario alternativo considerato più probabile da Buzan non è un ritorno a un mondo bi o tripolare (con Unione Europea e Cina unici candidati realistici alla promozione al rango di superpotenza), bensì un annullamento del 89 RICHARD N. HAAS, The age of Nonpolarity, New York, Foreign Affairs, vol.May/June 2008. 88 numero delle superpotenze, con il declassamento degli stessi Stati Uniti: potrebbero venire meno la volontà politica degli Stati Uniti di esercitare un ruolo globale o mancare la legittimazione a farlo da parte delle grandi potenze. Sostiene Buzan che dalla fine della Guerra fredda, e in modo più marcato con l’amministrazione Bush, gli Stati Uniti sembrano avere abbandonato l’approccio multilaterale che, attraverso la costituzione e l’appoggio a organismi sovranazionali come l’Onu e la Nato, aveva contribuito a creare quell’affinità ideologica dell’Occidente che sosteneva la leadership americana. Il crescente unilateralismo, il manicheismo con cui viene giudicato il comportamento dei partner internazionali e l’ossessione per la sicurezza che porta gli Stati Uniti a sovra reagire a ogni minaccia potrebbero contribuire alla loro delegittimazione, mentre il costo economico e umano di iniziative belliche unilaterali potrebbe spingere l’America a una riconsiderazione del proprio ruolo nel mondo. Le grandi potenze, e in particolare l’Unione Europea, possono influire in modo sostanziale sul dibattito politico americano e sugli atteggiamenti imperialisti della superpotenza: dosando sapientemente lealtà e pressioni, le grandi potenze possono far capire al leader planetario che il mondo è più complesso, e più interessante, di quanto suggerirebbe una semplicistica interpretazione dell’unipolarismo90. Secondo Francis Fukuyama con il 1989 e il crollo del blocco sovietico, la «Storia» è finita91. Ma quella di cui parlava non era, naturalmente, la storia intesa come ininterrotta successione di eventi, scoperte scientifiche e guerre, ma la «Storia» come processo unico e coerente, che tiene conto delle esperienze di tutti i popoli di tutti i tempi. Quando evocava l’immagine della fine della Storia, Fukuyama puntava dunque a mostrare come nel 1989 l’evoluzione ideologica dell’umanità avesse raggiunto il culmine, perché proprio nei giorni della caduta del muro berlinese era venuto meno definitivamente l’ultimo grande avversario 90 BARRY BUZAN, Il Gioco delle potenze, la politica mondiale nel XXI secolo, Milano, Università Bocconi editore, 2006. 91 FRANCIS FUKUYAMA, La fine della Storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992. 89 ideologico del progetto liberaldemocratico: la democrazia liberale aveva conseguito la vittoria definitiva. Fukuyama poteva affermare che la Storia era davvero finita in quei giorni, così come Hegel, in precedenza, aveva sostenuto che la Storia si era conclusa nel 1806, il giorno della battaglia di Jena, quando gli ideali delle rivoluzioni americana e francese avevano definitivamente sconfitto il mondo dell’Antico regime e i suoi principi ideologici. In riferimento a quanto sta succedendo in questi giorni nel mondo arabo, lo studioso nippo-americano ha dichiarato in un’intervista92 che tutti questi sommovimenti sono la miglior conferma della sua tesi. All’epoca della pubblicazione del libro, quando sostenne che la liberaldemocrazia era lo stadio più avanzato nell’evoluzione delle società umane, molti gli fecero notare l’eccezione araba. Gli avvenimenti odierni mostrano che i popoli arabi non sono diversi dagli occidentali, hanno le stesse aspirazioni, la stessa dignità: come già accaduto nel passato, vaste masse si mobilitano perché non tollerano più di vivere sotto il giogo delle dittature. E quel che vogliono non è molto diverso dalla democrazia intesa nel senso occidentale. La tesi dello «scontro delle civiltà», proposta da Samuel Huntington93, è stata spesso intesa come un’alternativa radicale all’idea della «fine della Storia». Secondo Huntington la fine della guerra fredda, non solo non avrebbe portato all'affermazione di un modello unico, ma anzi avrebbe liberato le diverse civiltà dal giogo del bipolarismo politico ed ideologico U.S.A. - U.R.S.S., lasciandole ben più libere di svilupparsi autonomamente con modi e tempi differenti tra loro. Tale situazione non sarebbe caratterizzata da una pacifica convivenza, bensì da un crescente conflitto tra gruppi di diverse civiltà. La stessa modernizzazione, uno dei cavalli di battaglia di Fukuyama nella dimostrazione della fine della storia nel sistema liberaldemocratico occidentale, non può infatti essere letta in modo univoco e, soprattutto, non può essere identificata con un'occidentalizzazione tout court. L'osservazione principale di Huntington è che gli equilibri di potere tra le 92 FRANCIS FUKUYAMA, Avevo ragione io, la storia è finita, “La repubblica”, 30 marzo 2011. 93 SAMUEL HUNTINGTON, op. cit., 2008. 90 diverse civiltà stanno mutando mentre l'influenza relativa dell'occidente è in calo. Le diverse civiltà (Huntington ne enumera nove, di diversa importanza e con differenti rapporti reciproci, cioè Occidentale, Latinoamericana, Africana, Islamica, Sinica, Indù, Ortodossa, Buddista e Giapponese) stanno orientandosi nuovamente sia su basi ideologiche (ed è questo il caso del comunismo di mercato che caratterizza quella Sinica) sia, soprattutto, su basi religiose (come succede per quella Islamica). L'idea di una civiltà che si afferma sulle altre come universale è quindi, secondo Huntington, del tutto sbagliata e frutto di una visione del mondo schematica e ancora legata ai meccanismi della guerra fredda per cui, se prima vi erano due modelli che si fronteggiavano, ora, finito il comunismo, l'intero campo sarebbe rimasto libero per l’affermazione del modello liberaldemocratico occidentale. Nell'analisi di Huntington assumono poi un ruolo fondamentale le vicende degli stati moderni, sempre meno adatti a definire il nuovo assetto mondiale caratterizzato dalla rinascita delle civiltà: se infatti risulta fondamentale la presenza di uno stato guida all'interno di ogni singola civiltà (gli U.S.A. nel caso della civiltà Occidentale o la Cina nel caso di quella Sinica), è anche altrettanto evidente che la divisione in stati ha lasciato il posto ad una divisione per aree culturali con alleanze impensabili fino a qualche decennio fa. A questo proposito sarà fondamentale la matrice religiosa che potrà portare, per esempio, ad un'alleanza cristiana tra l'area Ortodossa, quella Protestante e quella Cattolica. Esemplificativo, secondo Huntington, è poi il caso della civiltà Islamica la quale, benché manchi di uno stato guida, sta riacquistando coscienza di sé grazie alla matrice religiosa che è, pur nelle differenze, comune. Tali complessi meccanismi vanno a delineare, secondo Huntington, una radicale mutazione nei rapporti mondiali a partire dalla questione della guerra; le guerre diverrebbero sempre più guerre di faglia, ossia scontri tra diverse civiltà che tendono a perdurare nel tempo e che non sono caratterizzati da una precisa locazione ma possono esplodere con violenza ovunque si incontrino gruppi appartenenti a civiltà differenti. Secondo Huntington, infatti, spetta ora all'Asia il ruolo che fino al termine della guerra fredda era stato svolto dall'Europa, ma in questa regione più che il Giappone, 91 l'India e le loro rispettive civiltà, potrebbero prevalere la Cina e l'Islam, capaci di riunire potenzialità d'area più prossime a tali civiltà che all'Occidente. La conclusione del libro parte proprio dalle premesse sopra illustrate per dipingere a tinte fosche un terzo millennio caratterizzato da una nuova guerra mondiale in cui saranno le civiltà a scontrarsi e non più gli stati nazionali. La tesi di partenza di Parag Khanna94, studioso indo-americano, è che oggi vi siano tre imperi, ossia tre superpotenze, che detengono congiuntamente la supremazia globale, in maniera competitiva ma non apertamente ostile tra loro. Tali tre superpotenze sarebbero USA, Cina e Unione Europea. A contare sulla scena internazionale non sarebbero più le identità etno-culturali e religiose tratteggiate da Huntington ma i grandi centri di potenza economica, demografica, mediatica e naturalmente militare. Quindi non più le nove civiltà di huntingtoniana memoria, bensì gli Stati Uniti, l’Unione Europea e la Cina, da considerare come entità distinte, i cui interessi e modi di intendere il mondo sono spesso divergenti. I tre Grandi competono fra loro in quello che l’autore definisce un mercato geopolitico globale e già questa enunciazione specifica la valenza e il senso della competizione, che non ha i consueti connotati militari del passato ma è di una tipologia diversa. I tre giganti vengono definiti da Khanna amici-nemici, e non è un termine che si attribuisce a chi è mortalmente ostile, come tutto sommato erano gli avversari delle contrapposizioni all’ultimo sangue del recente passato. Anche se tutti e tre possiedono e padroneggiano i consueti attributi bellici del comando (armi nucleari in testa), la forza militare non è più l’elemento chiave di supremazia: lo è la forza economica, istituzionale e culturale in senso lato, l’autorevolezza e la percezione di solidità, l’abilità nell’irradiare miti e riti, nonché la capacità di attrazione verso il resto del pianeta, soprattutto verso la porzione di quest’ultimo costituita dai cosiddetti paesi del Secondo Mondo, i veri protagonisti del libro non a caso menzionati nel titolo originale inglese del saggio. Si 94 tratta, secondo l’autore, di un PARAG KHANNA, op. cit., 2009. 92 centinaio di stati caratterizzati contemporaneamente dallo sviluppo delle loro capitali e dei maggiori centri, così come dal sottosviluppo delle loro periferie, secondo un mix variabile ma qualitativamente reiterato. Si tratta di nazioni che in parte aspirano a entrare nell’elite globale e in parte rischiano di essere continuamente risucchiate nel girone dei dannati della terra. Khanna ne ha visitati cinquanta e concentra la sua attenzione sui resti dell’impero sovietico e di quello iugoslavo, sull’America Latina ormai affrancata dalla Dottrina Monroe, sulla galassia araba e sui decisivi pesi massimi e medi dell’Asia Pacifico. Per il futuro, Khanna non prevede che la competizione fra i tre imperi si trasformi in una conflittualità di tipo militare o equiparata, che sarebbe impedita dalla globalizzazione e dalla fitta rete di interdipendenze che essa ha creato. Il recente miglioramento delle relazioni fra Cina e Stati Uniti, la più critica fra le combinazioni possibili, sembrerebbe dargli ragione: si è passati dalla competizione strategica dell’ultimo Clinton e primo Bush jr alla partnership strategica evocata da Obama, con allegati l’immenso interscambio fra i due colossi e il loro rapporto simbiotico fra un debitore capace di mandare all’aria la banca creditrice e la banca medesima, che è poi anche il produttore dei beni a basso costo che consentono all’insolvente di non collassare ulteriormente. Siccome fra Europa e Stati Uniti, nonché fra EU e Cina, una conflittualità aperta e violenta è ancora meno verosimile, per le evidenze che tutti sappiamo, si può sommessamente avanzare l’ipotesi che l’epoca storica degli scontri bellici diretti per l’egemonia planetaria sia tramontata, per impraticabilità del campo e indisponibilità dei gladiatori. Nel suo nuovo libro lo studioso indoamericano95 implementa la sua analisi, evidenziando l’esistenza di una megadiplomazia che unisce le risorse dei governi, delle corporation e degli attori civici che affrontano le pressanti sfide globali: nell’analizzare le turbolenze economiche, il terrorismo, gli stati falliti, i diritti umani, la sanità, e l’ambiente Khanna fornisce esempi illuminanti di come questa nuova mega diplomazia agisca e elevi il mondo verso un nuovo Rinascimento. 95 PARAG KHANNA, Come si governa il mondo, Roma, Fazi Editore, 2011. 93 Ian Bremmer sostiene che il prossimo sarà un mondo G-Zero, un mondo in cui nessuno paese singolarmente o un blocco di paesi avrà la forza economica e militare o la volontà politica di imporre la sua agenda internazionale, con il risultato di una maggiore conflittualità nell’agone politico. Non esisterà né un mondo gestito dal G-20, né uno dal futuribile G-2, cioè l’unione di America e Cina, né tantomeno un mondo G-3, cioè Stati Uniti, Unione Europea e Giappone. Oggi gli Stati Uniti mancano delle risorse necessarie per essere il principale fornitore di beni, l’Europa è occupata a salvare l’Eurozona mentre il Giappone sta cercando di uscire da una crisi economica e politica che dura da tempo. Non è nemmeno possibile ottenere risposte credibili da un coinvolgimento diretto delle potenze emergenti di Brasile, India e Cina. Il passaggio storico dal G-7 al G-20 aveva voluto segnare l’inclusione dei paesi emergenti nel consesso economicopolitico mondiale, ma di fatto ha soltanto trasformato il “vecchio” Gruppo dei sette in una continua arena di conflitto. Ma il conflitto generalizzato non è confinato soltanto al G-20: le grandi potenze non hanno ancora raggiunto un accordo sulla non proliferazione nucleare, la crisi ha minato fortemente la cooperazione economica globale, i conflitti commerciali hanno messo l’uno contro l’altro USA, UE, Brasile, Cina e India, esacerbando anche i contrasti sulle valute nazionali. Non c’è più il predominio del Washington Consensus, ma nemmeno il sopravanzare del Beijing Consensus, il quale sembra adatto a soddisfare solo le esigenze cinesi. Tutto questo dimostra, secondo Bremmer, che in un economia globalizzata in cui ogni paese cerca di assicurarsi sicurezza domestica e prosperità, adattandoli alle proprie convenienze politiche, geografiche, economiche, culturali e storiche non esiste il concetto di sicurezza collettiva. Questo spiega perché il protezionismo sia ancora vivo e vegeto, malgrado i propositi di evitare gli errori del passato. Il risultato finale sarà una situazione di conflitto permanente intorno alle principali problematiche e un 94 mondo G-Zero che produrrà più conflittualità piuttosto che qualcosa di simile al sistema creato a Bretton Woods96. Una lettura nuova e interessante è quella di Dominique Moisi secondo cui il mondo a venire sarà sempre più il teatro di uno scontro di emozioni e non di civiltà: l’umanità dovrà fare i conti non solo con le frontiere geografiche e le identità culturali, ma anche e soprattutto con il peso di sentimenti quali la paura, la speranza, l’umiliazione. Saranno le emozioni e non la fredda ragione geopolitica a governare il nostro pianeta, in una specie di revival romantico della politica e della cultura mondiale. Nel saggio Geopolitica delle emozioni, lo studioso francese propone una nuova e inedita chiave di lettura dell’universo in cui viviamo, partendo da una parola chiave, la fiducia: l’assenza di fiducia provoca paura, e quando la fiducia è tradita da leader incapaci e corrotti, allora subentra un senso di umiliazione. L’occidente in crisi è stretto dalla paura, il mondo arabo è sprofondato nell’umiliazione da cui cerca di risollevarsi, l’Asia mostra una incredibile fiducia nel suo futuro. Trattandosi di emozioni qualsiasi schema geopolitico può cambiare alla stessa velocità con cui cambiamo i nostri sentimenti quotidiani e familiari97. Questa differenza di visioni testimonia come ormai siamo entrati in una fase geopolitica in continuo movimento, in cui prevale l’incertezza sui futuri assetti mondiali. Ciò che la realtà rende evidente è che non esiste più un solo impero, quello americano, ma molti imperi che nel XXI si contenderanno le leadership regionali e un posto in prima fila nei consessi che contano. La “grande svolta” si è prodotta nel passaggio da un’architettura mondiale bipolare ad una multipolare, passando per una breve fase unipolare. Si è passati da un modello di unipolarismo targato USA a un modello di “multipolarismo fluido a fattori variabili”, ossia un sistema in cui la prevalenza di un fattore piuttosto che di un altro, in un 96 IAN BREMMER, NOURIEL ROUBINI, A G-Zero World, New York, Foreign Affairs, March/April 2011, pag.2-7. 97 DOMINIQUE MOISI, Geopolitica delle emozioni, Milano, Garzanti edizioni, 2009. 95 determinato lasso di tempo, genera un cambiamento nei poli di riferimento. Questa è l’evoluzione di un mondo che a molti appare fuori controllo, ma che nella competizione tra imperi potrebbe riscoprire un equilibrio duraturo98. L’ascesa di nuovi attori geopolitici, come Cina, India, Brasile, Iran, Sud Africa, Messico e Indonesia dimostra l’esistenza di questo sistema a più poli che non necessariamente devono essere in conflitto, se la comunità internazionale si dimostra in grado di fissare regole di governance flessibili, efficaci e condivise. Esiste anche la prospettiva della creazione di un nuovo direttorio di potenze, improntato all’interesse collettivo, che tenga conto degli squilibri vigenti e si occupi proattivamente e coscienziosamente di moderarne gli effetti negativi99. Se oramai molti studiosi concordano nel sottolineare la decadenza del potere USA anche le prospettive di un nuovo ordine su base UE si stanno lentamente dissolvendo. La Russia, che non si è mai sentita particolarmente a suo agio nei confronti della Nato o dell’allargamento dell’Ue, è abbastanza potente da caldeggiare apertamente la nascita di una nuova organizzazione per la sicurezza a Est. La Turchia, frustrata e delusa dall'ostruzionismo ai negoziati per la sua adesione all'Ue, si sta orientando verso una politica estera indipendente e ambisce a un ruolo di maggior spessore. A ciò si deve aggiungere il fatto che gli Usa, troppo impegnati con Afghanistan, Iran e una Cina in piena ascesa, hanno smesso di essere una potenza europea a tempo pieno. Ecco così delinearsi in lontananza un’Europa multipolare dove Russia, Turchia e una Ue un po’ in affanno stanno tutte quante mettendo a punto “politiche di vicinato” studiate per dominare le rispettive sfere di influenza nei Balcani e in Europa orientale, col proposito velato di estendersi nel Caucaso e nell’Asia centrale. Così come il ventunesimo secolo ha battezzato la nascita dei paesi cosiddetti “BRIC” (Brasile, Russia, India e Cina), il secondo decennio del nuovo millennio potrebbe vedere l'ascesa di nuove potenze regionali. A tale riguardo, il recente 98 GIANLUCA ANSALONE, op. cit., pag.18. 99 GIANLUCA ANSALONE, Ibid., pagg.185-7. 96 tentativo di risolvere la disputa sul nucleare iraniano da parte di Turchia e Brasile, fissa un precedente che aiuta a capire cosa ci riserverà il futuro, e potrebbe perfino segnare un punto di svolta per gli equilibri internazionali. Infatti, nonostante si stia tentando di farla passare come una mossa politica costruttiva, si tratta invece di un atto di sfida alle potenze tradizionali. Sono in molti nei paesi in via di sviluppo a pensare che l'iniziativa turco-brasiliana costituisca un esempio da seguire nella loro marcia verso una maggiore influenza internazionale. Le nuove potenze regionali non sono destinate a rimpiazzare quelle tradizionali nel giro di poco tempo; come dimostrano i BRIC, solitamente si comincia ad esercitare una crescente influenza sul proprio vicinato prima di acquisire un respiro globale. Inoltre, molti di questi paesi potrebbero non avere mai un seggio al Consiglio di Sicurezza dell'ONU, e un maggior coordinamento tra di essi potrà compensare solo in parte questa carenza. La competizione tra queste potenze emergenti potrebbe risultare in un vantaggio per le potenze tradizionali che tenteranno sicuramente di approfittare delle divisioni e dei contrasti per raggiungere i propri scopi. In ultima analisi, il decentramento del potere globale complicherà sempre di più i calcoli: e sebbene un'interazione positiva con i vari “emergenti” non si possa certo dare per scontata, sarà utile e necessario coltivare con cura questi rapporti. In un mondo che si muove così in fretta e in maniera così imprevedibile, un ruolo costruttivo dei paesi emergenti può diventare cruciale all’interno del Consiglio di Sicurezza dell'ONU soprattutto nella gestione di qualche crisi secondaria. Gli USA sono da alcuni anni in fase calante e dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, l’Impero si è impantanato in Iraq e in Afghanistan. Non soltanto il dispiegamento di forze non gli ha permesso di uscire dall’impasse, ma ha anche profondamente intaccato l’immagine dell’America nel mondo. Una delle dimensioni della sostituzione di George W. Bush con Barack Obama è la volontà del popolo americano di voltare questa triste pagina della propria storia e tentare di risalire la china. Se l’esercito americano ha rovesciato senza fatica Saddam Hussein, non è riuscito a “tenere” l’Iraq, e ora si è ritirato dal paese senza avere 97 alcuna certezza sul suo avvenire. L’intervento in Afghanistan ha conosciuto la stessa evoluzione: i Talebani, inizialmente storditi, sono passati con successo all’offensiva. Eliminando il regime baathista iracheno e indebolendo i Talebani afgani, l’America ha significativamente rafforzato l’Iran dei mullah, che difende con sempre maggior forza il proprio diritto all’energia nucleare. Ma ha anche distrutto la coesione occidentale, perché la NATO si è divisa sull’avventura a Bagdad e i suoi membri sono recalcitranti a rafforzare i corpi di spedizione a Kabul. Quello che ne viene fuori è un mondo nel quale il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad visita l’America Latina più spesso dei suoi omologhi statunitensi, la Cina e l’India sono attori globali, Turchia e Brasile s’inseriscono senza remore nel dibattito nucleare e in Medio Oriente nuovi attori emergono. È un mondo più ricco in cui si palesano nuove geometrie del potere e del consenso impensabili sino a pochi anni fa. Nel breve periodo è sicuramente prevedibile uno scontro di potere tra USA e Cina: si oscilla dall’ipotesi di creazione di un G2, un condominio esclusivo che negherebbe ogni forma di multilateralismo, allo scenario opposto di una nuova guerra fredda, o di una guerra commerciale di cui si vedono le prime avvisaglie. Queste ipotesi generano molteplici perplessità e chi crede nel G2 sopravvaluta la capacità di Washington e Pechino di gestire dall’alto i destini di un mondo ormai molto complesso; chi crede nello scenario apertamente conflittuale applica lo schema classico dell’ascesa e declino delle grandi potenze, dimenticando però che la realtà della globalizzazione ha oramai modificato quella dinamica. L’idea di un asse G2 tra USA e Cina è l’ultima equivoca incarnazione del bisogno di un framework globale elementare: un’idea che però ancora ignora il fatto che queste due potenze non riescono ad accordarsi sulla moneta, il clima, la proprietà intellettuale e una miriade di altri problemi, mentre poche nazioni desiderano ancora davvero vedersi dettare l’agenda da Pechino o Washington100. 100 PARAG KHANNA, op. cit., 2011, pag.10 98 Il multipolarismo fluido prevede che i punti di riferimento della situazione geopolitica cambino con frequenza e per questo non è facile avere un quadro chiaro e stabilire chi comanda cosa e dove o cosa aspettarsi da una situazione di crisi o dall’evolversi di un conflitto. Il fallimento del progetto di unificazione del mondo sotto la guida di Washington è coinciso con la ripresa di tutti i particolarismi nazionali, religiosi ed etnici; tutte forze storiche a lungo immobilizzate nell’equilibrio del terrore che ora sgorgano come fiumi in piena a partire dalla fine del millennio101. I recenti avvenimenti nel mondo arabo hanno dimostrato come il popolo non sia affatto scomparso dalla scena politica internazionale. Le proteste in Tunisia, Egitto, Siria, Yemen, Bahrein così come in precedenza le rivoluzioni colorate in Serbia, Georgia e Ucraina hanno mostrato chiaramente che il popolo possiede ancora la capacità di influire sulle decisioni politiche e di imporre i cambiamenti. Se al rinato potere del popolo di dimostrare il proprio disaccordo verso le decisioni politiche o i risultati elettorali aggiungiamo il nascente potere dei social network, veri e propri megafoni delle rivolte, ci accorgiamo di come sia difficile fornire una valutazione corretta di ciò che è avvenuto e come sia altrettanto difficile fornire delle previsioni. Oltre a questi rinascenti aneliti di libertà il mondo arabo presenta una innegabile difficoltà essendo scosso dalle lotte religiose intestine tra sunniti e sciiti per la conquista del potere e dalla presenza, sempre più ingombrante, dei Fratelli Musulmani che rappresentano una quantità sconosciuta nell’equazione di potere del sistema regionale mediorientale. Se poi ritorniamo nello specifico a quanto sta succedendo in Libia ci accorgiamo che il regime di Gheddafi è crollato ormai da tempo, ma non ne è nato uno nuovo; anzi la violenza si è riaccesa e non soltanto nel profondo sud: a Tripoli sono tornate ad esplodere le autobombe, i salafiti hanno dato l’assalto ai siti storici delle confraternite sufi, in Cirenaica i jihadisti si riorganizzano, mentre polizia ed esercito in ricostituzione non sono in grado di affrontare tutte queste minacce. 101 RAMONET, op. cit., pag.18 99 Gli eventi della primavera araba oltre ad una nuova calibrazione delle gerarchie del potere potrebbero portare anche alla costituzione di nuovi stati. La guerra civile siriana potrebbe condurre al distacco delle zona siriane a maggioranza drusa e alauita, quella del clan degli Assad, da tutto il resto del territorio che potrebbe ulteriormente dividersi nei due stati di Aleppo e Damasco. I curdi potrebbero beneficiare delle rivolte in Siria, dove rappresentano la seconda comunità dopo gli arabi, e trovare finalmente sfogo alle loro rivendicazioni di uno stato etnico, il Kurdistan, che comprenderebbe territori di Iran, Iraq, Siria e Turchia. Allo stesso modo le rivendicazioni pashtun e baluchi potrebbero spaccare in due Afghanistan e Pakistan dando vita a Pashtunistan e Baluchistan, gli stati che aspettano da tempo. In Belgio, nel cuore dell’Europa, la mai sanata divisione tra valloni e fiamminghi potrebbe portare a due nuovi stati contrassegnati da lingue diverse, con la città di Bruxelles forse destinata ad un’autonomia che la renderebbe ancor più la capitale d’Europa102. Le mutate condizioni meteorologiche hanno portato alla riscoperta di territori un tempo ritenuti insignificanti, a causa dello sciogliersi dei ghiacci e del rivelarsi di enormi giacimenti di materie prime. Si tratta dell’Artico e della Siberia, un tempo considerati territori maledetti a causa delle estreme condizioni meteorologiche, adesso diventati fonti possibili di profitti. Il bacino artico sta diventando sempre meno terribile da affrontare e ciò pone sul piatto nuove sfide strategiche di alto livello: fa aumentare l' attenzione e l'interesse per nuove rotte marittime, per un più facile accesso alle ingenti riserve petrolifere e di altri minerali racchiusi nel sottosuolo, al patrimonio ittico, alla penetrazione turistica, mentre potrebbe riaccendere contenziosi per la delimitazione dell'artico e per l' utilizzo delle sue risorse. Per quanto riguarda la Siberia sono la demografia e il commercio a giocare contro gli ex-sovietici. Oggi in Siberia ed estremo oriente russo la popolazione è di circa 18 milioni, di cui due sono cinesi; tra cinque anni i 102 PARAG KHANNA e FRANK JACOBS, The new world, The New York Times online, www.nytimes.org, 22 settembre 2012. 100 cinesi saranno oltre sette milioni, andando a costituire la più grande singola etnia della regione. Contestualmente in Cina lavoratori, uomini d’affari e studiosi calcolano con golosità quanto quante poche persone vivano in Siberia e quanto quella immensa regione sia ricchissima di materie prime necessarie alla crescita cinese. Anche le mutate condizioni economiche contribuiscono a rendere fluida la situazione e diversi stati europei si trovano in una condizione economica molto difficile, ai limiti del collasso. La crisi finanziaria ed economica che ha investito gli USA nel 2007-2008 si è propagata in Europa, in particolare nelle aree più deboli del Vecchio Continente. Il successivo attacco all’euro, operato da Wall Street e dalla City con la complicità delle agenzie internazionali di rating ha di fatto destrutturato le economie nazionali e il tessuto sociale di Grecia, Spagna e Italia: le tre nazioni mediterranee si trovano ora nella difficile situazione di dover subire i diktat provenienti da istituzioni sopranazionali quali la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale. Senza contare che il mondo attende con ansia una guerra già dichiarata all’Iran dove in gioco ci sono i flussi energetici dal Golfo Persico per l’Occidente e per l’Asia, la gestione delle armi atomiche, il dominio sulle rotte strategiche tra Oceano Pacifico, Indiano e Mediterraneo, ma soprattutto gli equilibri di potenza nel Grande Medio Oriente mondiale, ossia quel campo di instabilità centrato sull’Iran che si estende tra Suez e Hindu Kush, tra Corno d’Africa e Mare Arabico. Tra le armi a disposizione degli iraniani c’è lo stretto di Hormuz, lo strategico collo di bottiglia che, nel suo punto più stretto, misura appena 4 km di larghezza tra la costa iraniana e quella del’Oman, attraverso il quale passa il 40% del petrolio scambiato nel mondo: provare a chiuderlo provocherebbe un’impennata dei prezzi del petrolio in maniera repentina. Oggi Hormuz è uno dei chokepoints più importanti al mondo, insieme allo stretto di Malacca, di Suez, di Aden, del Bosforo, di Panama e degli stretti danesi: avere sul proprio territorio uno di questi chokepoint rappresenta un’invidiabile ed efficace arma strategica. 101 La nuova era multipolare porta con sé problemi la cui risoluzione richiederà, più di ogni altra cosa, lo sviluppo di paradigmi intellettuali radicalmente nuovi e adattabili alle nuove situazioni che si vanno creando. Tanto per cominciare, l’attuale terminologia post-bellica, che contempla termini quali nemico e alleato, deve essere consegnata alla storia, dato che nel nuovo sistema le alleanze sono destinate a essere molto più ambigue e flessibili rispetto al periodo della guerra fredda. La Cina, ad esempio, sarà anche un avversario di lungo termine dell’America, ma è difficile pensare a un altro paese che sia stato altrettanto utile agli Stati Uniti durante l’attuale crisi economica. La Germania, viceversa, sarà forse un alleato di lungo termine, con cui l’America condivide storia, metodi di lavoro e, non ultimo, alcuni importanti valori; ma ciò non esclude che, a livello politico, si producano tangibili divergenze tra Washington e Berlino e che tali divari continuino a crescere, per effetto delle dinamiche politiche tedesche103. La rapidità con cui alcuni eventi di vasta portata si succedono e la loro intrinseca interdipendenza costituiscono, per varie ragioni, qualcosa di inedito nel contesto delle relazioni internazionali. Secondo molti analisti politici si sta entrando in una sorta di tempesta perfetta, ove il confluire di fattori geopolitici ed economici complessi, potenzialmente destabilizzanti potrebbe generare gravissime conseguenze per gli equilibri internazionali. La crisi sta agendo da acceleratore geopolitico: ha aperto gli occhi ad americani e cinesi sulla mutua distruzione assicurata, ha dimostrato ai russi quanto fragili siano le basi economiche e demografiche delle loro ambizioni geopolitiche e quanto le rigidità del sistema politico pesino sull’efficienza se non sulla legittimazione del potere, ha confermato agli europei che le rivalità fra gli stati nazionali prevalgono regolarmente sui pallidi tentativi di gestione comunitaria. In conclusione, data la difficoltà di stabilire le minacce alla stabilità che questo multipolarismo fluido propone, e data anche la difficoltà nel prevedere la 103 JOHN C. HULSMAN, “La nuova Ostpolitik che allarga l’Atlantico” in LIMES, Eurussia il nostro futuro?, Roma, Gruppo Editoriale l’Espresso, vol.3/2009. 102 prevalenza di un fattore piuttosto che di un altro, resta una sola arma a disposizione dei governanti per evitare il caos generalizzato: la diplomazia. La diplomazia, oggi, è più importante di quanto non sia mai stata. In un’epoca in cui le Grandi Potenze del passato non riescono più ad imporsi al mondo, ma al contrario devono negoziare con tutti; in cui gli eserciti possono vincere le battaglie ma non la guerra; in cui le dimensioni delle sfide globali vanno ben oltre ciò che le nostre attuali istituzioni possono affrontare, la diplomazia deve essere al centro dei nostri interessi, al di sopra di tutto il resto104 ed evitare che la natura umana conduca ad uno scontro dalle proporzioni inimmaginabili e dai danni irrevocabili. 104 PARAG KHANNA, op. cit., 2011, pag.15. 103 104 BIBLIOGRAFIA ALUNNI, Fausto. Il triangolo nucleare. India, Pakistan, Afghanistan. Geopolitica di una regione. Roma, Derive Approdi srl, 2002. ANSALONE, Gianluca. I nuovi imperi. La mappa geopolitica del XXI secolo. Venezia, Marsilio Editori, 2008. ANSALONE, Gianluca. Vent’anni senza muro. Dagli imperi della guerra fredda agli imperi del XXI secolo (ebook). Roma, www.fuoco-edizioni.it, 2010. ARRIGHI, Giovanni e SILVER, Beverly. 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