Kilimanjaro: cronaca della salita all`Uhruru Peak 5.895 m

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84-108 Trek-Raid
30-10-2007
16:42
Pagina 92
SPECIALE TREKKING • SPECIALE TREKKIN
Trek | Tanzania
Testo e foto di
Carlo Zanoni
Kilimanjaro: cronaca della salita
all'Uhruru Peak 5.895 m
on è molta la strada da percorrere per raggiungere il gate di Machame. Da Arusha sono circa 90
chilometri. La campagna scorre veloce dal finestrino. La osservo un po'
frastornato.Non mi spaventa la quota,a 6.000 metri ci sono già stato,so che non ci sono difficoltà tecniche sul percorso.Tuttavia un non so che di evanescente continua a
ronzare nella mente.Il Kilimanjaro è pur sempre una montagna, come tutte del resto, da non sottovalutare.
Occorrono sei giorni e bisogna bene o male salire 4.000
e rotti metri di dislivello per raggiungere la cima.Già il nome, a pronunciarlo, produce un suono altisonante. Provo
a convincermi che Kibo, l'altro nome con cui si usa indicarlo, è più facile, più amichevole, più affettuoso.
Il frastuono della folla di portatori alla disperata ricerca di
un ingaggio che si agitano incessantemente dietro il recinto mi riporta ben presto alla realtà. Osservo con attenzione le varie fasi, la distribuzione dei bagagli, il controllo dei pesi, scatto alcune foto.Alex ci presenta Ally e
Joseph i suoi assistenti.Occorre un'oretta abbondante per
ultimare i preparativi, dopodiché la nostra carovana, noi
sette, la guida, due assistenti, un cuoco e quindici portatori, finalmente, con quel senso di liberazione che la partenza regala sempre,si mette in marcia.Rivedo spesso nella mia mente quella fila di gente dietro la staccionata, i loro volti segnati da una speranza, quella di trovare un ingaggio che laggiù significa sei giorni di cibo assicurato, un
pugno di dollari e magari una piccola mancia.Le regole sono fatte rispettare rigidamente e il carico non può superare i 20 chili a testa compreso il bagaglio personale.An-
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che questa volta sale nell'anima il dilaniante dilemma.
Quanto disumano è utilizzare un essere umano come animale da soma. Poi un po' mi sforzo per convincermi che
forse sarebbe più disumano utilizzare tutta la nostra tecnologia con le superleggere diavolerie che ha saputo produrre,e partire in puro stile alpino caricandosi tutto il necessario sulle proprie spalle. Perlomeno fin tanto che si fa
tutta quella fatica per molto meno di dieci dollari al giorno che sono per molta gente, troppa, una vera chimera.
Occorre uno sforzo supplementare per imporsi che esiste comunque un sistema economico con i propri rapporti e che va misurato con le unità di misura locali. Occorre rimanere lucidi, non ci si può permettere di lasciare troppo spazio alla pietà.
Già, ma più viaggio e più mi rendo conto di quanto poco
valgano un paio di dollari, anche nell'ultimo dei posti su
questa terra.
Quanta umanità nelle parole di Alex,alla fine del trek,rammentando che i portatori si attendono una mancia e che
questa costituisce gran parte del loro guadagno, nell'invitarci a pensare più a loro che a lui e ai suoi assistenti.Abbiamo visto e vissuto le condizioni in cui hanno lavorato.
Abbiamo apprezzato la grande umanità.Abbiamo prelevato dalla cassa comune quindici dollari per ciascuno. Cinque in più rispetto a quanto sembra essere la consuetudine: un'inezia e contemporaneamente un'enormità.
Questa prima tappa ci porterà al Machame Camp poco oltre i 3.000 metri di quota. Il sentiero sale ma dolcemente
attraversando la foresta che è un immane groviglio di rami
e di tronchi curiosamente intricati.Passa a malapena un po'
di luce nemmeno sufficiente per rischiarare gli sgargianti
piccoli fiori dalla livrea color rosa vigoroso e dalla curiosa
forma a chiocciola su cui spicca la punta giallo vivo.
Stiamo attraversando la foresta pluviale che fa da sostegno alla calotta sommitale di questo enorme cupolone che
domina fiero le sconfinate pianure della savana. La denominazione è perfettamente aderente al luogo, e puntuale,
un'oretta circa dopo la partenza, inizia a piovere. Avevo
letto nelle relazioni di intriganti pantani. Forse il sentiero
è stato oggetto di recenti lavori grazie ai quali regge bene,si cammina senza particolari problemi né scivoloni,solo un po' infastiditi dall'incessante scroscio.
E' ormai pomeriggio inoltrato quando sbuchiamo,quasi all'improvviso, nelle radure del campo, fra la boscaglia che
ormai si è fatta molto meno dirompente. Là lontano si intravvede nello spazio lasciato da una provvidenziale quanto effimera schiarita, la sagoma della nostra meta.
Troppo piccola per coglierne qualche dettaglio, giusto la
soddisfazione di aver chiaro in mente in quale direzione
sia. Possiamo così prendere confidenza con i ritmi che
scandiranno le prossime giornate. I portatori sono rapidissimi nel montare le tende e nell'apprendere come funzionano le nostre. Nella più grande, a due spioventi, si sistema un piccolo tavolo e le seggioline pieghevoli.Appena arrivati viene servita una merenda con tè, noccioline
pop-corn. Poi servirà nella notte come dormitorio per i
portatori. Durante le soste si assiepano invece nella tenda cucina: una tre posti ad igloo in cui sono custoditi i viveri e dentro cui,con posture inverosimili,il cuoco si prodiga in veri e propri “miracoli”: pasti con tanto di primo,
secondo e frutta o dessert. Il tempo scorre lento in tenda quando piove, ma la notte regalerà una stellata degna
del più generoso equatore.
Il risveglio sarà all'insegna della speranza. Fuori c'è brina
ma il freddo non è particolarmente intenso, in tenda registro nove gradi. Il cielo sembra promettere bene, contraddetto però dalle nebbie che in basso coprono tutt'intorno le pianure circostanti.Ormai abbiamo già capito come funziona: bisogna partire quanto prima possibile per
cercare di anticipare la pioggia. L'impegno non si lesina
certo, ma servirà a poco. Riusciamo a percorrere a malapena la parte ripida del percorso. Ormai la vegetazione si
è ridotta a qualche cespuglio e non dà più riparo.
L'ultima ora di cammino sarà un dramma.Arriviamo al Shira Camp che è ormai trasformato in un acquitrino. E'
un'impresa montare le tende cercando di fare in modo
che l'interno rimanga asciutto.Pioverà con intensi rovesci
tutto il pomeriggio.A un certo punto la mia tenda si è trasformata in in una diga,siamo praticamente sul letto di un
torrente e siamo costretti a spostarla in tutta fretta mentre lo sconforto si fa sentire.Solo il rito del tè e pop-corn
prima e la cena dopo rappacificano un po' gli animi. Osservo Alex e tutti gli altri ridere e scherzare come se nulla fosse. Chissà quant'è bello il panorama che si dovrebbe
godere da questo spallone a 3800 metri di quota.
Sono due giorni che navighiamo nell'acqua e francamente
ai nostri occhi la cosa pesa non poco. Loro invece sanno
come funziona quassù.
La notte sarà questa volta senza stelle e,al mattino,ci svegliamo con il campo immerso in una fitta nebbia. E pioviggina. Nemmeno qualche timido raggio di sole che sembra filtrare fra le nebbie alla partenza riesce a riscaldare
gli animi. E' solo un'illusione.
Il sentiero sale dolcemente in un paesaggio che è mutato
profondamente e si è fatto desertico. Una nebbia ormai
fittissima e un'intensa pioggerellina accolgono il nostro arrivo al colle della Lawa Tower. Siamo saliti a 4.600 metri
per poi ridiscendere ai 4.000 di Barranco Camp, una tappa di grande importanza per permettere al corpo un'ottimale acclimatazione alla quota.
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Fa troppo freddo e siamo troppo umidi per sostare a lungo. La discesa sul versante opposto è al contrario ripida e
veloce. Incontriamo i primi seneci, curiosi alberi endemici e tipici di questi versanti, simili a palme dal simpatico
pennacchio. La nebbia che li avvolge sfuma e rende evanescente la loro sagoma, li trasforma in solitari guardiani
erranti fra le pietraie scure, giganti custodi dei segreti di
questi pendii.
Le piazzole di Barranco Camp sono fortunatamente pianeggianti. La sottile ghiaia drena bene l'acqua. Oggi anche
se piove non avremo problemi. Possiamo così prenderci
cura, con la necessaria tranquillità, di un portatore che,
non sentendosi bene, dormiva avvolto nelle coperte contro i bordi della tenda mensa, e che quasi sfuggiva alla nostra vista, mentre consumavamo il nostro quotidiano rito
del tè e pop-corn.
Il risveglio, solo un po' più fresco del solito, avviene in un
misto di nebbie e sprazzi di sereno che lasciano comunque intravvedere la calotta sommitale del Kibo proprio
sopra di noi. Il ghiaccio e la neve bianca contrastano fortemente sul nero delle rocce laviche, ricordano un po' il
contrasto di colori dei sorrisi che si ricevono quaggiù.
Uno spettacolo degno di questo nome non può che essere effimero. Così una leggera pioggia scandisce i primi
passi di quest'ultima tappa prima della salita alla vetta. I
passaggi sulle rocce di questo tratto non sono tecnicamente impegnativi ma sicuramente faticosi per chi li deve
superare carico sotto la pioggia. Dobbiamo insistere un
po' per convincere un portatore di un altro gruppo ad accettare un paio di bustine di sali minerali nella speranza
che possano servire ad aiutarlo a superare il momento di
spossatezza e stanchezza che lo ha colpito.
Ormai anche noi ci stiamo abituando a questo carattere
maldestro che il Kibo ha voluto mostrarci fin qui.
Il sentiero sale e scende più volte fino ad abbassarsi ad un
ruscello ultima fonte di acqua prima del campo. Sul lato
opposto il sentiero sale ripido quando, verso quota 4.400
metri, come d'incanto, la pioggia si fa più lieve e le nebbie
iniziano a diradarsi fino la lasciare il posto ad un cielo blu
intenso sul quale spicca la calotta glaciale del Kibo.Tutto
intorno in basso un'enorme mare di nuvole. Lo spettacolo è veramente affascinante. Il morale rinasce.
Forse il Kibo si è impietosito nei nostri confronti ed ha ritenuto sufficiente la penitenza cui ci ha sottoposti. Ha ritenuto espiati i nostri peccati di presunzione.
Le statistiche scientifiche dicono invece che la calotta som-
mitale del Kibo sia una fra le zone più aride della Tanzania, mentre le pendici siano le più bagnate da Giove Pluvio.Chissà quale contrasto di forze è costantemente in atto quassù dove le masse d'aria che attraversano le sterminate pianure si danno appuntamento attratte dalla mole di questo ostacolo che si oppone al loro vagabondare.
Barafu Camp è un nido d'aquila posto proprio di fronte al
fratello minore del Kibo, la frastagliata cresta del Mawenzi. Più sotto si vede nitidamente anche il sentiero della via
di Marangu e il nostro percorso di discesa lungo la via di
Mweka. Siamo a 4.650 metri, c'è vento ma il sole è caldo.
Finalmente possiamo asciugare zaini ed indumenti.
La mente è comunque completamente occupata nella ricerca della necessaria concentrazione. C'è da preparare
preparare zaino e vestiario per la salita alla vetta, c'è da
ascoltare costantemente ogni segnale che ogni parte del
corpo emette: sì è tutto in ordine, non c'è sintomo di mal
di montagna, i muscoli delle gambe reggono bene. E la cima è lì di fronte a noi, 1.400 più in alto, limpida e vicina,
solo appena velata da sottili cirrostrati stirati dal vento.
Puntuale alle 23.30 Oliver passa in tenda per dare la sveglia e porgere un po' di biscotti e del tè. Indossiamo con
cura gli scarponi tenuti con cura nel sacco a pelo e poco
prima di mezzanotte e mezza, in piena notte fonda alla luce dei frontalini lasciamo il campo.
Sopra di noi la volta celeste è un portento di stelle come
non avevo mai visto.Sotto di noi,in lontananza,brillano vivaci le luci di Moshi. Il vento e il freddo si fanno sentire.
Mano a mano che si sale le raffiche si fanno violente e costringono più volte a fermarsi ed accucciarsi. Nel buio e
nel freddo,il gruppo è costretto a dividersi.Siamo in 7 con
tre guide quindi non ci sono problemi, ognuno può proseguire secondo le proprie necessità.Io,Lucia,Giacomo e
Patrizio siamo con Ally,davanti.Detta un passo lento e cadenzato,Ally,“pole pole” come è da giorni che insistono,
lungo il sentiero a stretto zig zag.Il mio fisico lo sento reagire tutto sommato bene.Fa un freddo cane,a Lucia il vento strappa anche il berretto di piuma che la notte inghiotte
in chissà quale anfratto.
I miei occhi non si stancano di compiere un percorso circolare e scaramantico. Uno sguardo in alto alle stelle così vicine e brillanti che ti sembra di poterle toccare con
mano. Uno sguardo giù in basso alle luci di Moshi, più si
rimpiccioliscono più significa che ci stiamo avvicinando alla vetta.Uno sguardo a Ally davanti a me:indossa una giacca a vento di quelle imbottite a sintetico,stile anni '80,pantavento in tela da poncho antipioggia a coprire i pantaloni da jogging, e scarpe da ginnastica. Se ce la fa lui, no, non
esiste, devo farcela anch'io.
Camminiamo all'unisono, lenti ed inflessibili, lungo il canale. Stanno salendo le prime luci dell'alba, quando verso le
cinque e trenta raggiungiamo Stella Point.Il vento e il freddo sono ancora più micidiali, siamo nel bel mezzo dei cirri che ammiravamo ieri sera. Il sole che sta per sorgere
con la sua alba più spettacolare,dietro le sottili nubi è una
enorme palla rossa ma senza forza alcuna.
Vorrei scattare ma mi accorgo che zaini, giacca a vento e
anche macchina fotografica sono completamente gelati.Al
precario riparo di un masso sostiamo per bere un po' di
tè caldo. E' Ally che mi spiega che ce l'abbiamo fatta, Stella Point, karibu fratello, è considerato un punto di arrivo. Bisogna arrivare almeno qui per ottenere il certificato di salita al Kibo.
Sprizza gioia da tutti i pori.
Ce l'ha fatta, è riuscito
a portarci fin
quassù. E' orgoglioso di
noi. Lo
senti
Trek | Tanzania
contento per noi. E ci dice, iniziando a saltellare - “Balla
con me, anche se fa freddo, 'hakuna matata', non lo sentirai più”.
Ci raggiunge nel frattempo anche Antonella accompagnata da Joseph. Ci dicono che Barbara ed Albano hanno dovuto rinunciare e sono rientrati al campo con Alex.
Ormai il sentiero è quasi pianeggiante, e in meno di mezz'ora attraversando un paesaggio surreale brinato raggiungiamo il cartello della vetta vera e propria: “CONGRATULATIONS! YOU ARE NOW AT UHURU PEAK,
TANZANIA, 5895 M. AFRICA'S HIGHEST POINT
WORLD'S HIGHEST FREE STANDING MOUNTAIN”
Balla con me, sì, ce l'abbiamo fatta, anche se ancora non
me ne rendo conto pienamente.
Ora è tutto più facile, c'è solo da scendere.Anche il freddo sembra meno intenso.Ma è solo un'apparenza e me ne
rendo conto ben presto togliendo i guanti per scattare
qualche foto:fortunatamente tenuta sotto la giacca a vento la macchina fotografica ha ripreso a funzionare.
Solo un po' sotto Stella Point il freddo si trasforma in un
piacevole tepore riscaldato sempre più dal sole.
Lungo il ghiaione raggiungiamo dei portatori carichi che
come noi stanno scendendo.“Ma da dove vengono?” Mi
chiedo un po' frastornato. Non mi sarà dato saperlo con
precisione ma siamo ancora in alto,abbondantemente sopra i 5.000 metri.Avranno forse scavalcato anche loro Stella Point?
E' curioso e strano, sono solo le 8 e 30 del mattino e mi
ritrovo sdraiato sotto la tenda riscaldata dal sole.Anche
la più piccola tensione si è ormai assopita, rivedo la salita,
riascolto l'eco del freddo, mi lascio andare in questo vasto mare di emozioni, cerco di assaporare tutto quando
ad occhi chiusi ma senza addormentarmi.
C'è il tempo ancora per un tè, poi via bisogna scendere al
Mweka Camp, 1.400 metri più in basso. Mentre camminiamo, continuamente voltiamo lo sguardo in alto, cercando le tracce del nostro passaggio finchè le nebbie,puntuali ad attenderci alla medesima quota dove ci avevano
lasciati, ci avvolgono nel loro umido mantello.
E' quasi sera quando uno squarcio ci permette di ammirare ancora un'ultima volta la sommità del Kibo. Maestosa e regolare nella sua forma è ormai già lontana ed alta
sopra il campo.
Nuovamente irraggiungibile.Domani è già l'ultimo giorno.
La foresta ci inghiottirà presto con la sua verde coperta.
Piove già dalla notte, ed arriveremo al gate di Mweka bagnati fradici. Ormai lo sappiamo bene, è normale, non ci
arrabbiamo più. In fondo con noi il Kibo è stato generoso. Non sono stati molti quelli che hanno raggiunto la
vetta ieri mattina.
Noi la nostra riuscita la dobbiamo a Alex,a Joseph,ad Ally.
La dobbiamo ad Oliver e agli altri portatori. Provo un po'
di nostalgia ogni qualvolta si affaccia alla mia mente il pensiero che i miei vecchi scarponi vagabondano liberi su quei
sentieri.Chissà se saranno arrivati ancora almeno una volta a Stella Point. “Ma certamente” - mi convinco. Hakuna matata, balla con noi.
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