capitolo 1

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PONTIFICIA FACOLTÀ TEOLOGICA DELL’ITALIA MERIDIONALE
SEZIONE S. TOMMASO D’AQUINO ~ NAPOLI
SINTESI DI
G. REALE, RADICI CULTURALI E SPIRITUALI
DELL’EUROPA. PER UNA RINASCITA
DELL’“UOMO EUROPEO”, MILANO 2003
SEMINARIO DI FILOSOFIA CONTEMPORANEA
Prof. Antonio ASCIONE
Candidati
Gennaro COPPOLA
Luigi GARGANO
Roberto GRANATINO
Salvatore IACCARINO
Giuseppe PULVIRENTI
Mario ROMANO
Giulio SANTAGATA
Gaetano STAIANO
Salvatore TOSICH
ANNO ACCADEMICO 2008-2009
matr. 01ST08/57
matr. 01ST08/72
matr. 01ST08/41
matr. 01ST08/31
matr. 01ST08/81
matr. 01ST08/29
matr. 01ST08/69
matr. 01ST08/42
INTRODUZIONE
Il libro nasce dalla conferenza tenuta il 20 giugno 2002 nella Sala Protomoteca
in Campidoglio da Giovanni Reale insieme al cardinale Paul Poupard e al filosofo
Vittorio Mathieu, in occasione del Convegno europeo dal titolo “Verso una
Costituzione Europea?”.
Partendo dalla considerazione platonica: «Lo Stato non è se non un’immagine
rispecchiata e ingrandita dell’anima dell’uomo, in quanto lo Stato viene costruito in
primis nell’interiorità dell’uomo, nella sua anima», Giovanni Reale vuole tracciare il
profilo d’identità dell’uomo europeo. La domanda di fondo è: ha ancora senso,
nell’era della globalizzazione, parlare di un uomo europeo? o piuttosto la nuova
Europa si rivelerà un “mosaico” di tessere giustapposte, senza un disegno unitario?
Secondo Reale, non può esistere una Costituzione che non si rivolga a un
soggetto che, al di là delle diversità, possieda una unità spirituale di fondo.
Prima ancora però di parlare del concetto di uomo europeo, bisogna chiarire il
concetto di Europa.
Non si può semplicisticamente identificare l’Europa con un’estensione
territoriale, in quanto la realtà geografica è sempre mutevole. Né la si può
considerare uno Stato con unità politica, messa più volte a repentaglio da conflitti
interni.
Esemplare la definizione di Edgar Morin, secondo il quale l’Europa «è una
nozione dai molti volti, che [...] si è autocostituita in un caos originario in cui si sono
annodate insieme le potenze dell’ordine, del disordine e della organizzazione».
Possiamo pertanto definire l’Europa una realtà metageografica e
metanazionale. Ciò non esclude l’esistenza di un’identità europea, le cui complesse
origini è necessario cercare.
Tre sono le radici culturali e spirituali che hanno costituito l’Europa:
1.
La cultura greca
2.
Il messaggio cristiano
3.
La rivoluzione scientifico-tecnica.
La cultura greca ha il merito di aver creato, dal punto di vista intellettuale una
forma mentis teoretica, da cui sono nate la filosofia e le prime scienze; dal punto di
vista morale e spirituale ha portato alla scoperta della psyche, intesa come capacità
di intendere e di volere.
Predominante è il secondo fondamento: il Cristianesimo, che a dirla con
Benedetto Croce, «è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai
compiuta». Sulla stessa scia lo storico Federico Chabod: «il Cristianesimo ha
modellato il nostro modo di sentire e di pensare in guisa incancellabile».
Appare pertanto singolare l’assoluta mancanza di riferimenti al Cristianesimo
nel preambolo della bozza della Costituzione Europea, pubblicato nel maggio 2003.
Reale addirittura afferma che la mancanza di questo riconoscimento equivale a dire:
«Europa, disconosci te stessa!».
Infatti, il preambolo afferma che l’eredità culturale, religiosa ed umanistica
dell’Europa è stata alimentata innanzitutto dalla civiltà greco-romana e poi dalla
“filosofia dei lumi”.
Due sono le principali obiezioni mosse da Reale: il concetto di “persona” è una
creazione del pensiero ebraico-cristiano. Per i greci, infatti, l’uomo non era la realtà
naturale più importante, essendo la concezione generale ellenica “cosmocentrica” e
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non “antropocentrica”. Con il razionalismo e l’imposizione della “Dea Ragione” si è
passati dal concetto di “persona” a quello di “individuo”, ponendo le basi allo
spietato individualismo della società odierna.
Sorprendentemente mancano nel preambolo anche riferimenti alla “rivoluzione
tecnico-scientifica”, che inizia nel XVI e trova in Galileo Galilei uno dei suoi
emblemi. Hans-Georg Gadamer osserva che «è proprio la scienza a definire l’identità
europea come tale. La scienza ha dato forma all’Europa nel suo divenire storico e
nella sua stessa estensione geografica». Gli sviluppi della scienza e della tecnica
hanno portato però anche a effetti negativi, presentandosi in maniera dogmatica
come unica forma di sapere.
CAPITOLO 1
A PROPOSITO DELL’ “IDEA DI EUROPA”
E DELL’ “UOMO EUROPEO”
Il trattato di Maastricht, la moneta unica e l’approvazione della Costituzione
europea sono stati senza dubbio eventi storici epocali. Tuttavia, la soglia che separa
un’alleanza di stati da una vera unione non è stata ancora varcata e il cammino che
conduce alla formazione di una “nuova Europa” sul piano morale e spirituale appare
ancora lungo e insidioso.
L’adozione dell’euro costituisce un unicum nella storia dei rapporti tra gli Stati.
Infatti, mai prima d’ora era accaduto che un gruppo di Stati rinunciasse alla propria
sovranità monetaria e decidesse di creare una moneta comune. È stato un grande
progresso, ma resta ancora molto da fare. Secondo Carlo Azeglio Ciampi, «è nella
logica del processo di costituzione dell’Europa unita che ogni avanzamento ne esiga
altri: o si avanza, o si mette in pericolo ciò che già si è realizzato. [...] In questo
senso, la creazione dell’euro è, oltre che un punto di arrivo, un punto di partenza».
È necessario allora che siano contrastate le tendenze “riduttivistiche” degli
euro-tecno-burocrati che privilegiano l’economia a scapito dei principi spirituali e
dei valori morali. Come osserva Edgar Morin, «l’Europa oggi, per gli europei
occidentali, è burro eccedente, quote di latte, [...] indici di produzione, tassi
comparati d’inflazione».
La stessa Carta costituzionale rischia di nascere su basi fragilissime se non si
recupereranno alcuni di quei fondamenti culturali e spirituali dai quali l’Europa è
nata. Infatti, una comunità solida nasce e si sviluppa in primo luogo su fondamenti
spirituali, piuttosto che su principi giuridici ed economici: «Mai in nessun luogo i
semplici trattati hanno creato una comunità, al massimo essi la esprimono» (Max
Scheler).
È sempre attuale il messaggio espresso da Platone nella Repubblica: non è la
città (ossia lo Stato) che crea i cittadini, ma viceversa, perché lo Stato non è altro che
una proiezione ingrandita dell’anima del cittadino. L’eccellenza di uno Stato
rispecchia l’eccellenza delle anime dei suoi cittadini, mentre ad anime corrotte
corrispondono Stati corrotti. Ernst Jünger, senza citare Platone, afferma un concetto
sostanzialmente analogo: «È la materia stessa dell’uomo che si rispecchia
nell’immagine del mondo, così come l’ordine interno si manifesta nella pace
esterna».
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Secondo Giovanni Reale, una Costituzione europea redatta da “burocrati” e
“funzionari” prevalentemente su basi giuridiche ed economiche non sarà in grado di
creare il “cittadino europeo”, se non ci sarà chi saprà «ispirarsi anche a un autentico
spirito “politico”, nel senso più alto del “dover essere”, in senso cioè “platonico”».
L’arte della politica, argomenta Platone nel Politico, deve trovare e applicare la
“giusta misura”, procedendo non secondo un criterio aritmetico, ma secondo un
metodo più complesso, che può essere chiamato ontologico e assiologico. Con tale
assunto Platone opera una vera e propria rivoluzione teoretica rispetto al metodo
aritmetico (quantitativo) pitagorico. La misura ontoassiologica implica un rapporto
di valore, in funzione del quale «la stessa realtà è strutturata, ed è in funzione di esso
che gli uomini distinguono ciò che è buono da ciò che è cattivo, ciò che vale da ciò
che non vale, ciò che è conveniente e ciò che è doveroso» (G. Reale).
Secondo Hans-Georg Gadamer, il Politico è a tal proposito addirittura un testo
d’avanguardia, in quanto contiene ciò che sembra mancare a una scienza moderna il
cui criterio di misura è attestato su un livello puramente empirico e matematico. Nel
Politico, tra l’altro, è discussa la questione attualissima circa le qualità che
differenziano un vero statista da un funzionario. Platone distingue due misure: il
metron, “misura”, si ottiene misurando un oggetto dall’esterno; il metrion, “ciò che è
misurato, oppure adeguato”, è invece la misura interiore, insita nella cosa stessa. I
tecnocrati della politica e molti uomini di oggi sembrano ignorare che, oltre a ciò che
viene misurato mediante la sovrapposizione ai fenomeni di un criterio
economicistico, fissato per convenzione, esiste anche ciò che è adeguato in sé, ossia
assiologicamente “conveniente”: i principi spirituali e i valori etici.
Nei capitoli seguenti si considereranno pertanto quei fondamenti culturali e
spirituali a partire dai quali è nata e si è sviluppata l’Europa e che, rispecchiando la
“giusta misura” platonica, potrebbero favorire il rinnovamento dell’ “idea di Europa”
e dell’ “uomo europeo”.
CAPITOLO 2
LA MENTALITÀ SPECULATIVA DELLA GRECIA
COME PRIMO FONDAMENTO DELL’ EUROPA
Punto di partenza dell’autore sono alcune riflessioni di Edgar Morin tratte dal
saggio Pensare l’Europa. Nel ricercare quale sia l’essenza dell’Europa egli cerca di
individuare uno spirito europeo, un quid che possa estrapolarsi e che ne definisca il
suo specifico. Tuttavia, una volta individuata quella che si ritiene essere la qualità più
autentica dello spirito europeo, si deve ammettere che sia tale anche la sua antitesi:
«Così l’Europa è il diritto ma anche la forza, la democrazia e al tempo stesso
l’oppressione». Il campionario di tesi e antitesi potrebbe procedere all’infinito, senza
poter stabilire un perno sul quale possa poggiare l’idea di Europa. Neanche i confini
geografici, mutevoli nel tempo, possono aiutarci, né i suoi climi, né i paesaggi così
diversi tra loro. Eppure, ciò che nello spazio e nel tempo è così discontinuo e
frammentato è diventato un’entità storica. Che cosa dunque identificare come sua
originalità, quale il suo fondamento?
Il primo elemento fondante sembra essere quello razionale sviluppatosi nella
Grecia classica. Secondo Werner Jaeger, i greci pongono un nuovo fondamento nel
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progresso umano per aver creato una specifica mentalità teoretica dalla quale
nascono la filosofia e la scienza nelle sue prime forme. Il prodotto ancorato a questa
novità non è più il mito o la tradizione orale, ma un nuovo modo di pensare per
concetti. Perciò, secondo Edmund Husserl, «l’Europa spirituale ha un luogo di
nascita [...], l’antica Grecia del VII e VI sec. a.C.», un nuovo modo di pensare per
concetti che nel suo sviluppo divenne sempre più sistematico e che i greci
chiamarono “filosofia”, intesa come scienza universale. Husserl procede illustrando
l’evoluzione di questo movimento a partire dalla comunicazione su cui poggerà una
nuova forma di comunità, basata sulla produzione delle idee e sul suo amore per
esse. Ciò innesca un processo di rinnovamento nello spirito delle idee che, partendo
dalla Grecia, attraverserà popoli e secoli creando un nuovo spirito culturale generale.
Ma in che modo ciò è avvenuto e perché in Grecia? La filosofia non era già esistente
nelle più antiche culture dell’estremo Oriente? Gadamer osserva che in realtà sarebbe
arbitrario definire tali culture orientali come filosofie per l’impronta religiosa del
tutto particolare che esse hanno. Ciò che caratterizza la nascita della filosofia è una
rivoluzione culturale che, partendo dai rispettivi circoli presocratici, abbraccia tutti i
livelli sociali e che si basa essenzialmente sul metodo dialettico, codificato da una
nuova terminologia di carattere concettuale creata da Platone. In precedenza la
cultura arcaica era fondata sull’oralità mimetico-poetica dei poemi di Omero ed
Esiodo. Elementi essenziali di questa “enciclopedia tribale” erano l’immagine e il
discorso narrativo. Attraverso la continua ripetizione necessaria per l’apprendimento
mnemonico, avveniva nel soggetto ripetente un’identificazione emotiva con l’oggetto
narrato. Con l’avvento della filosofia e del suo metodo dialettico (cioè operato per
domanda e risposta), il soggetto narrante veniva quasi distolto dalla sua narrazione
mnemonica ed era costretto, per enunciare una risposta, a riflettere autonomamente.
Veniva così a infrangersi quell’identificazione con l’oggetto tipica della tradizione
dell’oralità e dell’immagine, per produrre poi, nel soggetto pensante,
un’autocoscienza. Infatti, il soggetto conoscente viene ora a differenziarsi
dall’oggetto conosciuto e, per esprimere ciò, si sviluppa un nuovo tipo di
terminologia e di sintassi, proprio della dialettica. Della sua genesi se ne occupò
Havelock. Egli annota che il metodo dialettico riferito abitualmente a Socrate era di
carattere generale, non certamente nella forma evoluta presentata da Platone, ma nel
semplice espediente che intendeva fermare la narrazione richiedendo al soggetto
narrante una spiegazione di ciò che intendesse dire. Il soggetto così era costretto ad
abbondonare la forma poetica appresa a memoria senza una sua partecipazione logica
e a dover, con uno stile nuovo, quello della prosa, riformulare quanto detto,
implicando la sua facoltà razionale. La formula poetica veniva così sostituita da un
discorso prosaico forse meno elegante ma più riflessivo. La dialettica diveniva così
«uno strumento per ridestare la coscienza dal suo linguaggio di sogno e a pensare
astrattamente». A questo pensare astratto era poi legato un nuovo vocabolario e una
nuova sintassi atti a formare una nuova matrice culturale, madre della filosofia e
della scienza. In tutto ciò Socrate ebbe un ruolo fondamentale, sempre secondo
Havelock. La sua azione è vista in continuità con tutto il cammino filosofico
precedente, mentre è insostenibile invece l’idea di una rivoluzione culturale da lui
operata (tesi supportata dall’Apologia platonica). Il merito di Socrate è di aver
portato a consapevolezza l’uomo di questo nuovo metodo, utilizzato inconsciamente
già dai presocratici. Tale consapevolezza assunta avrà le sue conseguenze
linguistiche e psicologiche. Il soggetto pensante (psyché) viene a staccarsi dal
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contesto poetico espresso in immagini per formulare concetti sempre più astratti che
divengono il contenuto di questa nuova forma. L’inevitabile successivo sviluppo
vedrà Platone fissare la sua attenzione sulle Forme o Idee. Esse rappresentano una
sorta di necessità storica, le bandiere di questa nuova rivoluzione: perciò Platone
parla di “seconda navigazione”, passaggio dal piano sensibile a quello razionale, che
si impone sul primo e ne diventa addirittura il fondamento. Questo passaggio epocale
si riferisce non solo alla filosofia ma anche all’ambito della tecnologia della
comunicazione e segna il passaggio dalla cultura dell’oralità a quello della scrittura.
È con Platone che nasce la metafisica occidentale, ossia la prima indagine razionale
sull’esistenza di una realtà o di un essere sovrasensibili. Platone stesso afferma che
«vi sono molte più cose di quante la vostra filosofia limitata alla dimensione del
fisico conosca». Nasce qui la distinzione tra materialismo e spiritualismo che
condizionerà l’intero pensiero europeo. Secondo Whitehead, ciò che caratterizzerà la
filosofia europea sarà l’essere «una serie di note a piè di pagina a Platone». Infatti,
attraverso la “seconda navigazione” Platone nel Fedone vuole esplorare una nuova
via, quella che vede nel mondo delle idee, delle forme, la ragione, la causa del
mondo sensibile: «A me sembra che, se c’è qualcos’altro che sia bello, oltre al Bello
in sé, per nessuna ragione sia bello, se non perché partecipa di questo Bello in sé, e
così dico di tutte le altre cose». La causa prima dunque non va ricercata nella
materialità dove avremo solo cause seconde (come ad esempio dei bei colori per un
bel quadro). Infatti, commenta Reale, qui Platone parla del bello in sé e per sé, ossia
«fa riferimento all’Idea e alla forma metasensibile del Bello che si realizza nei
fenomeni sensibili».
Con questa nuova filosofia anche per Platone si rende necessaria una nuova
terminologia che possa esprimerla. Abbiamo così compiuto un altro passo nel campo
della tecnologia delle comunicazioni che ci permette ancor più di poter esprimere
nuovi concetti astratti. Assistiamo così al tramonto dell’egemonia del linguaggio
poetico come strumento di comunicazione. Proprio per questo, secondo Havelock,
Platone sarà il primo a comprendere che ormai il ruolo di Omero come maestro ed
educatore dei greci è del tutto superato. Il nuovo linguaggio prosaico e la nuova
terminologia della “seconda navigazione” platonica costituiscono il traghetto che
conduce a una nuova evoluzione che sarà costitutiva non solo per l’ambito greco ma
per tutta la cultura europea.
CAPITOLO 3
LE PRIME FORME DI SCIENZA DELLA GRECIA
«La filosofia e la scienza sono indicibilmente una sola cosa, ed entrambe sono
una creazione dei Greci», così ebbe a scrivere Hans Georg Gadamer, analizzando il
rapporto fra filosofia e scienza che è alla base del mondo occidentale. Sappiamo,
infatti, che anche altre civiltà, comprese le più arcaiche, sono giunte a elaborare
strategie di conoscenze, ma con uno sviluppo interamente diretto a fini pratici e
strumentali, e quindi in una forma mentis rudimentale, non orientata al pensiero
teorico e alla riflessione su ogni tipo di problema. I Greci hanno prodotto qualcosa
che nessun altro popolo fu in grado di produrre, e che nel corso del tempo è risultato
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essere di una portata rivoluzionaria: il mondo della filosofia. È solo così che si riesce
a comprendere la ragione per cui la civiltà occidentale si sia configurata in modo
molto diverso dalla civiltà orientale, e perché la scienza sia potuta nascere appunto in
Occidente, e non in Oriente, che nella misura in cui ha voluto appropriarsi della
scienza creata in Occidente, ha dovuto fare proprie alcune categorie essenziali del
pensiero europeo e occidentale. Dapprima la scienza risultò mescolata con la
filosofia, poi da una posizione ancillare nei confronti di quest’ultima, passò a
differenziarsi e a raggiungere particolari risultati in alcuni campi quali le scienze
matematiche, la meccanica, l’astronomia, la medicina.
Le scienze matematiche. La parola maqhmatikh/ nasce con Aristotele, che
se ne serve per distinguere questo ambito da quello proprio della fusikh/, cioè lo
studio dei fenomeni naturali. Certamente le prime nozioni aritmetiche e geometriche
furono apprese dai Greci dalla cultura egizia per poi trasformarle. «L’esplicitazione
del momento propriamente teoretico e l’impostazione dei problemi matematicogeometrici in modo speculativo furono acquisizioni non degli Egizi, bensì dei Greci»
(G. Reale). Fu Euclide a gettare le basi in una maniera sistematica, negli Elementi,
della scienza geometrica, dando forma organica alle indagini dei predecessori, che
possiamo individuare nella scuola pitagorica, in Eudosso, in Teeteto. Per lo sviluppo
delle scienze matematiche pensiamo poi ad Archimede di Siracusa, Eratostene ed
Apollonio di Perge. Lo Stagirita fa emergere, più per motivi storico- didascalici, in
diciotto passi delle sue opere, tracce di geometria non euclidea. Platone, poi, era
convinto che le scienze matematiche fossero essenziali per il filosofo. Nella sua
Accademia, infatti, furono per la prima volta studiati a fondo i cinque solidi
geometrici regolari e proprio la tradizione vuole che sul portone della stessa fosse
scritto «Non entri chi non è geometra».
Astronomia e cosmologia. I Greci trassero ispirazione dai Babilonesi e non
dagli Egizi, così come invece era accaduto per le scienze matematiche. L’astronomia
greca si impegnò soprattutto nelle costruzione di modelli matematici in grado di
spiegare i movimenti dei corpi celesti. Alla base dell’astronomia ellenistica si deve
porre la teoria di Eudosso, secondo cui i movimenti dei corpi celesti erano il prodotto
di movimenti circolari di una serie di sfere concentriche. Aristarco di Samo, poi,
operò nella prima metà del III sec. a.C. Sulla sua dottrina eliocentrica (la sfera delle
stelle fisse rimane immobile e la Terra gira sul suo asse intorno al Sole) ci informa
Archimede. La sua teoria fu accolta solo nella metà del II sec. a.C. da Seleuco di
Seleucia. Furono la tradizione scientifica e motivi religiosi a decretare lo scarso
successo dell’ipotesi eliocentrica.
La creazione della medicina. Anche la medicina nasce in quanto scienza in
Grecia, seppure oggi la medicina ellenistica è per noi integralmente perduta. La sua
conoscenza infatti dipende dalle citazioni e dalle parafrasi di autori di età imperiale.
La medicina diviene il grado preliminare della filosofia socratica platonica e
aristotelica, e da pura tecnica artigiana diventa forza culturale, elemento di guida
intellettuale della vita del popolo greco. La Grecia era un pullulare di scuole
mediche, fra cui distinguiamo due rami: i dogmatici, che integravano l’esperienza
con i dati ottenuti dal ragionamento e con la congettura, e gli empirici, che
affermavano che il medico deve occuparsi dei singoli casi evitando di fare deduzioni.
Platone poi affermava che non si può curare una parte del corpo senza curarlo tutto,
così come non si può curare il corpo senza curare l’anima, quindi ciò che può salvare
l’uomo non è la scienza legata ai “particolari”, ma è l’affrontare e cercare di
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comprendere il problema ultimo della vita: cos’è il Bene? «Non è vivere secondo
scienza che permette di agire bene e di essere felici, né vivere secondo tutte le altre
scienze, ma secondo una soltanto, quella del bene e del male» (Platone).
Ecco come il mondo greco ha determinato fortemente la scienza e il mondo
occidentale, così come fu Aristotele a porre una differenziazione fra la metafisica e le
altre scienze; con una sola ultima puntualizzazione, espressa da Heidegger: in genere
un’arte nasce piccola e si sviluppa col tempo; per la filosofia è accaduto il contrario:
è nata grande.
CAPITOLO 4
LA SCOPERTA DELL’UOMO E LA “CURA DELL’ANIMA”
Secondo la tesi sostenuta da uno dei maggiori pensatori cechi del XX secolo,
Jan Patočka, il fondamento spirituale della coscienza europea è stato posto dai Greci
e può essere espresso con la formula “cura dell’anima”. Con quest’ultimo concetto
egli intende la formazione interiore dell’uomo, ossia la formazione di una coscienza
salda e incrollabile, intendendo con ciò non tanto un astratto intellettualismo, quanto
un’aspirazione a incarnare l’eterno nel tempo e nel proprio essere. Tuttavia quando
un uomo per curare l’anima si pone fuori dalla società, fuori dall’atteggiamento della
massa viene considerato un pericolo per la società stessa, come intenderà anche lo
stesso Socrate.
Quest’ultimo si impone come figura emblematica per l’Europa e per il pensiero
occidentale. Infatti Socrate non soccorrendo se stesso, ha portato soccorso agli altri,
lasciando ai posteri il progetto di una comunità in cui possa vivere l’uomo che
pratica la “cura dell’anima”. Le conseguenze di ciò per Patocka sono quelle di
un’Europa, che si basa su fondamenti spirituali e non tanto su concetti geografici e
politici, in cui è nata la filosofia come riflessione. La tesi della “cura dell’anima” si
fonda su un nuovo concetto di uomo, che la tradizione attribuisce a Socrate:
l’essenza dell’uomo coincide con la sua psyche, ossia con la sua intelligenza e con la
capacità di intendere e di volere.
Le caratteristiche e la portata della tesi socratica sono evidenti sia nel
messaggio davanti ai giudici in cui sottolinea l’importanza del prendersi cura non dei
corpi, né delle ricchezze, né di altra cosa prima se non dell’anima, in quanto non
dalle ricchezze nascono le virtù, ma viceversa; sia in Antistene, suo discepolo, che
sosteneva di essere ricco della vera ricchezza, ovvero dei beni dell’anima. Così pure
nell’Alcibiade maggiore di Platone, verrà chiarificata la tesi per la quale l’uomo cura
se stesso solo se cura la propria anima, cioè ciò che è e non ciò che ha e possiede.
Così anche altri filosofi come Democrito e Aristotele, ispirandosi a Socrate, hanno
ribadito tale concetto.
La tesi della “cura dell’anima” non poteva nascere se non in Grecia e con
Socrate, come conseguenza dell’introduzione del concetto di psyche, che ha alle
spalle una lunga preparazione che parte dai primi filosofi fino a trovare
completamento in Socrate. Ancora una volta un passo di Platone, nel Fedro riassume
il problema del pensiero socratico che afferma come punto da cui partire la
conoscenza di se stessi, per poi solo dopo indagare su ciò che è estraneo. Per
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“curare” se stessi occorre “conoscere” se stessi; ora nell’uomo vi sono un corpo e
un’anima e perciò l’uomo è o corpo o anima o l’insieme di corpo e anima. Per
Socrate però è l’anima quella che comanda, mentre il corpo è comandato ed è uno
strumento nelle mani di essa. Questo rappresenta uno dei concetti base della storia
dell’Europa e dell’Occidente. Lo stesso Kierkegaard sosterrà che Socrate a differenza
degli altri filosofi che sosterranno molti pensieri, ne avrà uno solo e assoluto; proprio
da questo seme, come sosterrà Patocka, dalla cura dell’anima è nata l’Europa, che
però è anche morta perché si è lasciata velare dall’oblio.
CAPITOLO 5
DAL COSMOCENTRISMO ALL’ANTROPOCENTRISMO:
IL CONCETTO DI UOMO
Le importanti acquisizioni della cultura greca, discusse nelle pagine precedenti,
comportano già una decisa svolta antropologica. E tuttavia solo col Cristianesimo
tale svolta, giungendo a piena maturazione, determinerà una completa comprensione
della dignità umana. A tal punto che, sotto questi profili, il passaggio ad una visione
antropocentrica potrà dirsi realizzato solo negli autori cristiani.
E ciò appare tanto più vero se si ammette che l’influenza della cultura e del
pensiero pagano, sull’elaborazione dogmatica e concettuale del Cristianesimo, fu
grande e ben difficilmente sopravvalutabile. La differenza, infatti, non è dovuta al
grado di elaborazione filosofica o di capacità teoretica, ma alla posizione
antropologica di fondo che caratterizza la cultura ebraico-cristiana.
Riprendendo il pensiero di Platone, Aristotele, Plotino, e altri autori pagani, con
citazioni ricche e puntuali, Reale mostra come in questa cultura la concezione
dell’uomo, al confronto di quella cristiana, sia ben misera. L’uomo è debole, inerme
di fronte alle forze del cosmo. È piegato da esse. Tali forze ancora nei filosofi
maggiori vengono interpretate come viventi, animate. Sono divinità vere e proprie,
entità di gran lunga superiori all’uomo, per forza e dignità. A tali credenze e
fascinazioni il pensiero pagano non riuscirà mai a sottrarsi completamente.
Ciò impedirà, come Reale sottolinea, quel guadagno, fondamentale, nel seguito
della civilizzazione europea, che è costituito dal concetto di persona. Il quale può
essere pienamente inteso solamente se inquadrato in una corretta prospettiva storica,
riconoscendone pertanto le fondazioni ebraico-cristiane.
In effetti, già nell’Antico Testamento siamo di fronte a un paradigma del tutto
diverso rispetto a quello pagano. Nel racconto della Genesi gli astri non sono che
innocue luminarie del cielo create da Dio e di cui l’uomo non deve temere. Nel
decalogo viene espressamente vietato di adorare altro che l’unico Dio. Con il quale
l’uomo e il popolo ebraico sono chiamati ad entrare in una relazione del tutto
particolare eppure impensabile dal punto di vista ellenico.
Con la “ripresa”, il “superamento” e il “compimento” cristiano delle concezioni
ebraiche, sotto l’influenza delle migliori acquisizioni teoretiche pagane di cui si è
accennato, emergerà esplicitamente il concetto di uomo come persona. Persona come
individualità umana dal valore irripetibile. Capace di rivolgersi a Dio, chiamandolo
Padre.
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A un Dio unico, personale, creatore del mondo, corrisponde un uomo a sua
immagine, unico, irripetibile, libero, responsabile, persona. La cui dignità prescinde
dai meriti e dalla fortuna ed è di valore inestimabile, sacro. E tuttavia senza mai
giungere a una divinizzazione dell’uomo. Che resta manchevole, peccatore. Ognora
bisognoso di aiuto e di sostegno da parte di Dio stesso. Questa dignità trova infatti
ragione e giustificazione nell’amore di Dio che entra in comunione con la sua
creatura coinvolgendola in un progetto di vita eterna.
L’incarnazione di Cristo comporta del resto una sacralità dell’uomo in senso
totale. Ma già in parte anticipata nell’Antico Testamento: «lo hai fatto poco meno
degli angeli» (Sal 8).
Con il concetto di persona anche quello di vita umana viene a essere inteso e
valorizzato in senso assoluto. Trovando in seguito, nel travaglio della storia europea,
la sua garanzia trascritta in convenienti formule di protezione giuridica. Si tratta, in
effetti, di uno dei vertici e dei fondamenti ideali e spirituali dell’Europa.
Al confronto la concezione greca appare ancora cosmocentrica, incapace del
guadagno essenziale di cui si è detto. Le stesse concezioni stoiche, che per certi versi
si avvicinarono a quelle cristiane, sarebbero dovute con ogni probabilità alle origini
semitiche di Zenone e di Crisippo, così come avanzato dagli studi di Max Pohlenz.
Ben si comprendono allora le tesi, del tutto inimmaginabili per l’uomo pagano,
dei padri cappadoci Gregorio di Nazianzo e Gregorio Di Nissa, per i quali è proprio
l’uomo a essere un macrocosmo contenuto in un microcosmo. L’uomo cioè come
qualcosa di ancora più grande del cosmo che apparentemente lo limita e lo contiene.
Perché, citando, con Reale, Nicolas Gomez Davila: «ciò che non è persona in fondo
non è nulla».
Con il Cristianesimo si assiste inoltre a una rivalutazione del corpo, che è
diretta conseguenza dei concetti già esposti. Nel mondo greco la superiorità
dell’anima come sede della vita spirituale dell’uomo corrispondeva a una
svalutazione del corpo in quanto mortale, segnato e confinato in una strutturale
debolezza rispetto alle soverchianti e divine forze del cosmo. Con il Cristianesimo lo
spirito, il Logos, Dio stesso, s’incarna. Il corpo da carcere dell’anima diventa tempio
dello Spirito ed elemento imprescindibile della persona umana.
Nel pensiero di Agostino e di Tommaso tali concezioni ricevono straordinari
ampliamenti e precisazioni. Basti pensare che, per l’Ipponate, la vita dell’anima,
liberata dall’intellettualismo neoplatonico e fondata sulla intentio e sulla voluntas,
diventa interiorità che cerca e trova Dio al centro di se stessa. Per Tommaso, la
persona, in quanto realtà razionale, costituisce ciò che c’è di più perfetto in tutta la
natura. Ribaltando completamente, sul punto, la concezione aristotelica, come Reale
tiene a precisare e documentare con puntuali citazioni.
Questo senso di ammirazione e di meraviglia nei confronti dell’uomo, implicito
nelle citazioni riportate, guida Reale nella ricerca di testimoni del nostro tempo. In
particolare viene ripreso il pensiero di Karol Wojtyla, nella sua opera maggiore:
Persona e atto, dove, nell’ottica di una “fenomenologia realistica”, scrive che l’uomo
nonostante gli immensi sforzi conoscitivi resta sempre un mistero a se stesso e tale
da suscitare un continuo senso di meraviglia. Senza nascondersi però il rischio che
l’uomo contemporaneo corre, di un’assuefazione a se stesso. Di una perdita del senso
del suo stesso mistero, proprio nel momento in cui gli straordinari progressi della
conoscenza tecnica e scientifica mettono a sua disposizione strumenti di eccezionale
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capacità realizzativa. Con il pericolo che «l’uomo perda il posto che gli è proprio in
quel mondo che egli stesso ha configurato».
In effetti, come tutte le grandi acquisizioni, anche quelle riguardanti la persona
umana così come delineate nel saggio, possono essere perdute. I pericoli non
mancano. Individualismo e totalitarismo sono entrambi minacce, anzi negazioni della
persona umana. Wojtyla osserva: «l’individualismo cerca di proteggere il bene
dell’individuo dalla comunità; il totalitarismo [...] di proteggersi dall’individuo in
nome del bene comune inteso in senso specifico».
Non a caso alla base di questi due orientamenti ritroviamo un’identica
concezione: una visione “apersonalistica”, o addirittura “antipersonalistica”,
dell’uomo. E precisamente in quel tratto che definisce la persona umana nella sua
capacità di solidarietà e di partecipazione alla realizzazione del bene comune.
Sul punto vengono proposte le tesi estreme di Edgar Morin, secondo il quale i
processi economico-sociali innescati dalla Rivoluzione industriale, rompendo le
solidarietà della società preindustriali, finiscono per separare e atomizzare gli
individui. Non solo, ma, «diventato religione dell’uomo, l’Umanesimo rompe con il
Cristianesimo che, in quanto religione per l’uomo, non potrebbe fondarsi sull’uomo.
[...] Un’assoluta laicizzazione pone in maniera incosciente l’assoluta divinizzazione
nell’oggetto laicizzato».
In effetti, anche per l’autore, sia pure in maniera affatto diversa, questi rilievi
toccano l’aspetto più grave con cui la civiltà europea dovrà confrontarsi: la perdita
del trascendente. Sia esso religioso o di derivazione filosofica. Riprendendo pensieri
di Morin, Sartre, Nietzsche, Michel Foucault e altri, Reale illustra le inquietanti
derive dei processi in atto, per cui ad esempio la dimenticanza che copre «la sacralità
dell’uomo e del suo corpo», diventa anche l’oblio con cui l’uomo contemporaneo
esorcizza la morte, il dolore e ogni problematica forte, appiattendosi nell’immediato.
In effetti, distrutta ogni sua immagine religiosa o filosofica, l’uomo resta come
«cosa tra le altre cose». «La sola terapia possibile» appare allora «quella basata sul
recupero del senso e del valore dell’uomo come persona», nei modi e con le
implicazioni illustrate, perché «l’Europa sorge con questo concetto, e soltanto a
partire da esso può rinascere».
CAPITOLO 6
IL CRISTIANESIMO COME BASE DELLA SPIRITUALITÀ EUROPEA
Perché abbiamo smarrito in modo impressionante il concetto di uomo come
persona?
Si è giunti a questo punto perché si sono persi i grandi valori. La ragione ha
distrutto a uno a uno tutti i valori: infatti, eliminando Dio si eliminano tutti i valori.
Una volta perduto il Dio-fondamento, il pensiero laicizzato è spinto a
universalizzarsi. Dice Morin: «la ragione si crede pura verità che finisce con
l’autodeificarsi e di conseguenza la ragione diventa folle».
L’io si realizza e si riconosce solo nel rapporto con il “tu”, ogni “io” porta il
segno del “tu”. Il nesso che fortifica l’ “io” con il “tu”, è dato dal rapporto che
l’uomo instaura con Dio! Ma non il Dio dei filosofi. Essi presentano Dio come
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rinchiuso in forme di antropomorfismo. Il Dio aristotelico pensa solo ciò che è
perfetto e non ha diretta comunicazione con l’uomo se non come modello
emblematico di perfezione: egli è amato, ma non ama e non può amare ciò che lo
ama.
Pascal sosteneva che il Dio dei cristiani non è quello dei filosofi e dei dotti, ma
il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; il Dio dei cristiani è un Dio di amore e di
consolazione, è un Dio che riempie l’anima e il cuore di chi lo possiede.
Bernard Groethuisen afferma che «nella filosofia greco-romana della vita,
l’uomo cercava di spiegarsi con il mondo, ma quello restava muto. Adesso l’uomo
parla con Dio e Dio parla all’uomo; in questo dialogo si forma un uomo nuovo e in
questo modo si forma l’uomo come persona». Secondo Kierkegaard, «la ragione per
cui l’uomo si scandalizza del cristianesimo è perché esso è troppo alto, perché la sua
misura non è la misura dell’uomo, perché vuole fare dell’uomo qualcosa di così
straordinario che supera ogni mente umana».
Il Dio dell’Europa è stato il Dio della Bibbia. Il Dio che ha creato il mondo dal
nulla, egli è stato il vero Dio dell’Europa, ma ha perso l’uomo e insieme a esso il
mondo. Il «sarete Dio» del serpente destò nell’uomo il desiderio di soppiantare Dio
nel mondo. Dio avrebbe potuto distruggerlo, ma non l’ha fatto, anzi per riparare a
ciò, gli inviò un Dio come lui. Ormai Dio stesso si offre per colmare questa fame
divina. Cristo è venuto per tutti, ma specialmente per chi ne ha più bisogno. Il più
miserabile di tutti i miserabili è il più certo di essere amato da Dio e tale concezione
è un capovolgimento radicale del pensiero greco. Dio è amore e l’amore si rapporta
inversamente alla grandezza dell’oggetto.
Remi Brague sosteneva che «affinchè l’Europa rimanga se stessa non è
necessario che tutti coloro che la abitano si riconoscano come cristiani. L’Europa
deve restare il luogo in cui si riconosce nel legame intimo dell’uomo con Dio
un’alleanza che arriva fino alle dimensioni più carnali dell’umanità che devono
essere oggetto di un rispetto assoluto; un luogo in cui l’umanità tra gli uomini non
può essere costruita intorno a un’ideologia, ma nei rapporti fra persone e gruppi
concreti.
CAPITOLO 7
LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICO-TECNICA
E LE SUE CONSEGUENZE PERVERSE
Nell’età Moderna l’idea di Europa è essenzialmente connessa con la
rivoluzione scientifica dell’inizio del Seicento. Se da un lato essa segna un ritorno
alla forma mentis di tipo razionalistico del mondo greco antico, dall’altro lato essa è
segnata dall’applicazione sistematica del metodo matematico-sperimentale di matrice
galileiana.
Come ha scritto anche Gadamer, il metodo matematico-sperimentale
rappresentò una vera e propria rivoluzione che caratterizzerà il vero inizio dell’epoca
Moderna. Infatti il sistema tradizionale del sapere (filosofia) viene a dividersi
irreparabilmente in due mondi separati e distinti: uno, quello delle scienze empiriche
o sperimentali (discipline scientifiche), l’altro, quello dell’umana esperienza, che è
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per lo più fondato sulla tradizione linguistica (discipline umanistiche). Frattura
questa che divenne decisiva per la storia successiva dell’Europa e del mondo.
Oggi non si può parlare di Europa senza parlare della scienza, infatti è giusto
partire da un evidente presupposto: è la scienza a definire l’identità europea come
tale, avendo essa dato forma all’Europa fino a diventarne una caratteristica specifica.
Certamente in quest’epoca contemporanea non si può definire la scienza come
un qualcosa che si esaurisce nel contesto europeo, ma si deve constatare come essa
sia un fenomeno globalizzato caratterizzante il nostro mondo contemporaneo. Il
Morin parla di una «mondializzazione della scienza europea» da un lato, e di una
«europeizzazione del mondo» dall’altro, definendola come un processo circolare.
Questa circolarità è data dalla natura stessa della scienza. Scrive Morin: «La scienza
è insieme europea e universale»; è europea perché pone le sue radici storiche e
culturali in questo continente, è universale «nel suo principio fondamentale di
verificazione, che non tiene conto né dell’origine, né della razza, né della cultura, né
del sesso degli osservatori-sperimentatori, ma solamente del rispetto delle regole da
parte di ciascuno e della concordanza dei loro verdetti». Non è affatto pretenzioso
quindi parlare di «merito singolare» dell’Europa per aver partorito un modello
culturale universale che si è dimostrato autonomo ed egemone.
Ricordando ciò che è stato detto precedentemente sul rapporto tra le scienze,
che studiano il particolare, e le filosofie, che vogliono avere una “visione globale”;
oggi osserviamo che il rapporto che si era instaurato fra queste discipline è stato
capovolto. Infatti, qualsiasi affermazione che pretenda di avere un sufficiente grado
di “verità” validamente espressa, deve fare i conti con la necessaria sua verifica
empirica. Detto in altre parole, le scienze e il loro metodo matematico-sperimentale,
nelle loro analisi del fenomeno, hanno acquistato il monopolio della “verità
oggettiva”, diventando gli unici mezzi di produzione di dati che possono essere
fruibili dal punto di vista del progresso del sapere; relegando le «visioni del tutto», la
metafisica, nell’oblio delle «verità opinabili», inutili per il progresso del sapere
dell’uomo in quanto non riproducibili in laboratorio. Non è un caso che oggi molti
parlano di una vera e propria «fine della filosofia», denunciando questa preferenza
come una vera forma di dogmatismo scientifico o scientista. Non poche affermazioni
di questi scientismi implicano quella che molti chiamano una «metafisica nichilista»,
cioè un sapere, una filosofia, che nega ogni riferimento all’ontologia e all’assiologia;
un abbandono dell’Essere e dell’etica della vita.
Trattando le scienze e le tecnologie non si può non menzionare i risvolti
negativi che queste sollevano: Henri de Lubac scrive a proposito: «Non è poi vero,
come pare si voglia dire qualche volta, che l’uomo sia incapace di organizzare la
Terra senza Dio. Ma ciò che è vero è che, senza Dio, egli non può, alla fine dei conti,
organizzarla che contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano».
Il nostro autore è d’accordo con de Lubac sul fatto che l’umanesimo ateo oggi si stia
rivelando come un antiumanesimo, ma aggiunge che non è affatto vero che l’uomo
senza Dio possa costruire un qualche ordine sulla Terra; al contrario, l’uomo senza
Dio sta realizzando una vera disorganizzazione della Terra: «la scienza e la tecnica
senza Dio trasformano la Terra in un pauroso caos e, a un tempo, in un pauroso
carcere, da cui non si vedono vie d’uscita». Risvolti negativi, chiamati
“controprocessi distruttivi”, che stanno rischiando di annullare ciò che di positivo
portano con sé la scienza e la tecnica.
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Un esempio lampante è quello che Morin ci presenta. Lui vede nell’automobile
«il crocevia dei vizi e delle virtù della nostra civiltà»; essa è il tipico prodotto del
capitalismo, emblema della tecnica, fonte di comodità e facilità degli spostamenti
umani, ma al tempo stesso causa di stress e aggressività negli emblematici ingorghi
cittadini di questo scorcio di secolo, circondati dai velenosi gas di scarico che danno
al tutto un atmosfera di inferno dantesco. È famosa la definizione che Spengler dà
dell’uomo contemporaneo: gli uomini sono «gli schiavi, non i signori della macchina
che ora comincia a manifestare il suo occulto potere demonico». Il nostro autore va
oltre affermando che l’uomo contemporaneo, se non vuol irrimediabilmente
diventare schiavo del suo prodotto, deve riscoprire il significato degli antichi
aforismi greci sulla “giusta misura” e sulla capacità di porsi un limite.
La “cultura della scrittura” pone le sue radici già nell’epoca classica: nasce
conseguentemente all’oralità dialettica. Essa poi trova il suo compimento nell’arte
della stampa, cioè nel momento in cui la cultura diviene accessibile a tutti tramite la
nascita della stampa da parte di Gutenberg. Motto di tale cultura diviene quindi: quod
non est in libris, non est.
Oggi con la nascita e l’affermazione dei mezzi multimediali, si delinea sempre
più una “involuzione” culturale, che genera un cambiamento di relazione tra l’uomo
e l’oggetto della comunicazione e tra gli uomini stessi. Questa “involuzione” quindi,
crea un’evidente contrazione, un impoverimento del linguaggio. Il pensiero delle
nuove generazioni diviene sempre più povero di vere e approfondite conoscenze.
Gadamer parla a tal proposito di “computer age”, un’epoca in cui le relazioni tra gli
uomini cambiano radicalmente.
Con grande schiettezza, Paul Virilio aggiunge, tra le conseguenze negative
della crisi della comunicazione, il problema del distacco dell’uomo dalla verità. Il
sapere cibernetico nega ogni realtà oggettiva, smarrendosi in una confusione babelica
di saperi individuali e collettivi. Non a caso, l’uso di internet ha scatenato grandi
problematiche a riguardo. Reale ci presenta due diverse posizioni: quella di
Negroponte, a favore; quella di Stoll, scettica. Secondo Negroponte, internet è un
mezzo utilissimo dato che ci permette di accedere a risorse globali di informazioni in
tempo reale.
Dall’altra parte, Stoll si dimostra del tutto scettico nei confronti di internet: non
permette interazione umana, specialmente nel rapporto maestro-allievo. Scrive: «La
cultura del computer non può e non deve sostituirsi alla cultura della scrittura, ma
deve collaborare con essa, come ancilla e non come domina».
Tra gli effetti collaterali più importanti della tecnologia che oggi si sottolineano
ci sono quelli connessi all’informazione. Si evidenzia infatti il grande potere che ha
la tecnologia della comunicazione sulla formazione dell’opinione pubblica. Senza
giri di parole, si afferma che la posta in gioco è molto alta: la libertà è minacciata dal
potere di manipolazione che questi mezzi di comunicazione hanno sull’opinione
pubblica.
Un esempio su tutti: la televisione. Per dare autorevolezza a queste
affermazioni, Reale cita tre autori: Sartori, Gadamer e Popper.
Giovanni Sartori afferma che la televisione, come strumento di produzione di
opinione, scavalca i soggetti classici della politica (rappresentanti locali, mediatori
tra popolo e partito, tra cittadini e istituzioni), diventando l’unica autorità di
mediazione tra la società civile e individuo, così da avere di fatto il potere di
determinare il palinsesto della pubblica discussione politica. Egli parla al riguardo di
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«autorità dell’immagine» che svuota in sostanza la democrazia in un governo
dell’opinione.
Aggiunge Gadamer che l’opinione pubblica è ormai «guidata» con metodo
scientifico dall’azione manipolante dell’informazione, e mette al primo posto sul
banco degli imputati gli istituti di ricerca e i loro risultati che, pretendendo di essere
“neutri”, finiscono, questi risultati, per essere puntualmente sovrastimati o
minimizzati, diventando un classico esempio di abuso della scienza.
Infine, Popper sottolineando che è proprio della democrazia il controllo sugli
altri poteri, denuncia questo pericolo: «Non ci dovrebbe essere alcun potere politico
incontrollato nella democrazia. Ora è accaduto che questa televisione sia diventata un
potere politico colossale». Popper conclude che lo stesso destino della democrazia è
condizionato dalla possibilità di far tornare questo mezzo di comunicazione
nell’alveo del controllo democratico.
In conclusione, si deve ancora ricordare un altro “effetto collaterale”, ciò che
Reale chiama «oblio della contemplazione», contemplazione intesa però come
inserita nella dimensione della conoscenza. Non a caso Reale ricorda, citando
Gadamer, come il termine “teoria” abbia avuto nel mondo greco antico un significato
diverso rispetto a quello attuale: nell’antichità, oltre a una dimensione conoscitivointellettiva, ci si riferiva anche a una sorta di “partecipazione” con l’oggetto
conosciuto. L’attività teoretica era una “visione” conoscitiva di un quid che non
rimaneva lontano dal soggetto conoscente: quest’ultimo partecipava al conosciuto.
Questa partecipazione si apriva quindi a tutta una serie di conseguenze di carattere
etico, cioè dalla conoscenza derivavano anche conseguenze di carattere praticomorali, sia nei confronti della cosa contemplata, sia nei confronti della vita stessa. È
utile ricordare che oggi questa “partecipazione” è stata totalmente “dimenticata”. Il
sapere teoretico è stato portato nella dimensione dell’auto-coscienza, in un distacco
“neutro” con la cosa conosciuta, una neutralità che intende cogliere l’oggettività del
dato della conoscenza, ma che preclude al logos umano ogni possibilità di
partecipare al Logos universale.
È anche opportuno non rimanere sordi alle voci di denuncia che non pochi
stanno lanciando contro questo «oblio della conoscenza», di questa colpevole
dimenticanza del sapere filosofico, ormai sganciato da ogni riferimento metafisicoontologico.
Sono interessanti al riguardo le tesi presentate da Morin e da Kern, che
affermano e denunciano il pericolo, non solo potenziale, dell’«intelligenza
parcellizzata» di matrice scientifico-settoriale per la conoscenza dell’uomo.
Partendo dalla constatazione che il sapere, ormai autoreferenziale, si è
frantumato in molteplici compartimenti stagni, dando formazione a diverse discipline
che pretendono di essere autonome le une dalle altre, essi sono convinti che l’uomo
contemporaneo, avendo smarrito ogni referente ontologico, è divenuto ormai
incapace di ogni conoscenza dell’oggetto “complesso”. Affermano infatti che si è in
presenza di «forze centrifughe» che spingono l’uomo contemporaneo nel circolo
vizioso di una crescente incomprensione della “multidimensionalità” della realtà.
L’intelligenza umana, frantumato il sapere in un mosaico di competenze settoriali,
privilegia una presunta conoscenza tecnica dell’unidimensionale, e di conseguenza,
distruggendo sul nascere ogni possibilità di cogliere il contesto e il complesso
planetario, chiude se stessa in una gabbia, in una neo-caverna platonica.
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Gli ultimi avvenimenti storici hanno evidenziato l’insufficienza di questo
schematismo concettuale, rendendo necessaria una riformulazione dell’idea di
Europa e dell’uomo europeo, un uomo che recuperando le sue energie spirituali sia
capace di uscire da questa caverna e possa guardare il cielo.
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Riprendendo la questione delle conseguenze “perverse” della scienza e della
tecnica, è ormai chiaro che ci troviamo di fronte ad una situazione drammatica. Qual
è il giusto modo di rapportarsi? Non basta infatti solamente sollevare critiche, né
tanto meno in una maniera passiva, prendere solamente coscienza delle cause, ma
occorre sapere accettare questo dato di fatto in maniera consapevole, con lo spirito di
chi cerca di cambiare e trasformare. Una crisi, quella dell’uomo moderno, che
sembra aumentare sempre più “ciò che ha”, mentre egli regredisce in “ciò che è”.
Questa crisi, che ha i suoi sintomi in una diffusa forma di stanchezza e nichilismo,
colpisce soprattutto i giovani, «anime perse, sbandati, anomici, annoiati» (Sartori),
giovani presi dal demone dell’immediato, scettici e pessimisti. Ma la causa di tutto
ciò non è solamente di chi ne è affetto, ovvero i giovani, che recano in loro, d’altro
canto, le conseguenze della rivoluzione industriale, con la sua pretesa di un
incontrollabile progresso tecnologico ed economico, a cui inversamente corrisponde
un mancato progresso morale dell’uomo. Appare evidente recuperare valori caduti in
oblio, e occorre affacciarsi ad alcuni paesi dell’Est europeo per poter avere prove
eloquenti di questo processo. Basti pensare ad Havel (seguace di colui che venne
definito il “Socrate di Praga”, Patočka) che, nella sua opera di transizione dopo lo
smembramento della Cecoslovacchia, ribadiva che il ruolo dell’Europa è quello di
essere se stessa riportando in vita le sue migliori tradizioni; oppure guardare
all’esempio della Russia dove la cultura è in esplosione con il cercare di tornare alle
radici che sono appunto spiritualità e cultura; in Polonia, ancora, il naufragio del
comunismo è stato vinto grazie al rapporto con altri uomini intesi come “persone”
(Solidarność), partendo appunto dalle proprie origini cristiane.
I punti chiave per la costruzione della “nuova Europa” sono identificabili in
primis in uno stato costituzionale democratico, poi in un’economia efficiente e sforzi
costanti per raggiungere l’equilibrio sociale ed infine, il punto più difficile, negli
sforzi nel creare una cultura politica che sappia affrontare i conflitti in modo
costruttivo. Gli uomini politici, infatti non conoscono l’importanza della cultura, che
unisce e non divide (ed è in tale direzione che dovrebbe muoversi la scuola). Lutzeler
ha posto, poi, l’attenzione sulla insostenibilità della posizione di quelli che
sostengono un’Europa fondata su un assoluto idealismo, ma anche su quelli che ne
parlano in termini empirici, fondando tutto sul primato dell’economia. L’Europa non
può basarsi su logiche puramente capitalistiche, ma porre la propria origine nella
democrazia, di cui essa stessa è la madre; democrazia che rischia il suicidio se non
poggiata su basi meta-politiche, ossia su valori etici che la trascendono, caduti al
giorno d’oggi in oblio. In primo luogo, infatti, sono stati messi da parte i problemi di
fondo della filosofia e della metafisica. Non pochi filosofi oggi si occupano di
questioni di carattere formale, tralasciando ciò che con il metodo e con il linguaggio
si dovrebbe raggiungere, ossia i contenuti. Nel momento in cui la filosofia cerca di
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imitare la scienza, finisce per snaturarsi perdendo così la propria identità. In secondo
luogo, oggi l’uomo tende ad occuparsi più di “cio che ha” e non di “ciò che è”: cura
il proprio corpo ma non la propria anima, dimenticandosi della spiritualità. È
necessario cambiare rotta e ciò non è impossibile. In ultima istanza l’uomo ha perso
il senso della propria sacralità, a tal punto da essere considerato un numero più che
un nome. Sembra un paradosso, ma in un’epoca di globalizzazione e di mezzi di
comunicazione di massa, il vicino non è conosciuto, anzi se ne ignora l’esistenza. La
vicinanza diventa “assenza”. A tal proposito il principio fondativo di una comunità
europea deve essere necessariamente la religione: un singolo europeo può non
credere che la fede cristiana sia vera, ma in ogni caso tutto quello che egli dice e fa
scaturirà da quella parte di cultura cristiana di cui è erede. La cultura europea non
potrebbe sopravvivere alla sparizione completa della fede cristiana. «Se il
cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura» (Reale). È un dato di fatto,
quindi, che la cultura europea ha radici cristiane.
Se da una parte troviamo uno scontro fra cristianesimo e cultura europea
moderna, dall’altra parte la nostra epoca è caratterizzata da scontri di civiltà e culture
che rappresentano la più grave minaccia alla pace mondiale. Usando come mezzo di
paragone la caduta dell’Impero romano, l’uomo odierno dovrebbe evitare di
accogliere le differenze in modo indiscriminato, annullando se stesso ma mediando
sinteticamente differenti culture. «Si possono riconoscere e acquisire vantaggi dalla
“diversità” di varie culture in modo costruttivo solo se non si annulla o non si mette
in “epoche” la propria “identità”, ma la si mantiene in vita e la si rafforza» (G.
Reale). È così che si può costruire una casa europea, opera che tocca fare solo e
solamente all’uomo europeo. Questa casa deve essere aperta al mondo, senza
adattarsi al mondo, deve elaborare punti di vista diversi con “anima europea”, deve
essere costituita da un solido fondamento, che è la propria identità, che così come
guarda al passato, è protesa verso il futuro; un’identità, purtroppo ancora troppo
debole, che rischia di cancellarsi di fronte all’altro: questa non è tolleranza. La
propria identità scrive poi Rufin, è tale nella misura in cui ci sono delle posizioni da
difendere, c’è un confine, un limes che al contempo implica clausura, un raccogliersi
assieme che è anche però un chiudere fuori, un escludere. Che posizione assumere
nei confronti dell’altro, diverso da noi? Sartori distingue fra pluralismo e
multiculturalismo. Il pluralismo comprende e accetta l’alterità, esaltando la propria
identità. Per contro il multiculturalismo esalta la differenza smorzando le identità. La
via che l’Europa deve assumere è quella di una propria identità da mantenere, non
quindi un’apertura indifferente ad ogni diversità, senza porre alcun limes, ma con una
capacità di interpretare le altre culture. Nella situazione problematica in cui ci
troviamo, si può davvero credere che sia possibile realizzare un progetto così
impegnativo come la nuova “idea di Europa” o il nuovo “uomo europeo”? Contro
qualsiasi eurocinismo, occorre non stare fermi, ma incominciare, rischiare,
riprendendo Heidegger. Ciò che cresce e salva nel pericolo è dunque quel Dio che è
un tempo vicino e difficile da afferrare, estremamente vicino proprio nella sua
estrema lontananza. Ormai solo un Dio ci può salvare …
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