GESÙ, SPOSO DELLA CHIESA
Daniele Fortuna
Ecclesia Mater n. 1/2014 pp. 15-20
«Io sono un frutto della tua passione, sono un germoglio delle piaghe tue. Eccomi a te,
Gesù, povero sposo mio. Voglio morir con te, vittima anch’io d‘amor». Questo è il ritornello
di un canto che ho composto diversi anni fa, assemblando alcune parole di Gemma Galgani
come compendio della sua spiritualità. Gemma è una piccola grande mistica, morta nel
1903, che ha vissuto la sua breve e povera vita totalmente rapita da un amore appassionato e
tenace verso Gesù crocifisso, in una relazione sponsale così intensa e unificante da
manifestarsi anche nel dono delle stimmate1.
Ma com’è possibile che una giovane orfana di Lucca, caduta in miseria e afflitta da
diversi dolori, possa considerarsi sposa di un uomo galileo morto crocifisso quasi duemila
anni prima? Per capirlo dobbiamo considerare quella metafora nuziale utilizzata già
nell’Antico Testamento per indicare il rapporto dell’uomo con Dio. In molti modi, infatti, il
Dio d’Israele ha voluto rivelare la sovrabbondante ricchezza del suo amore: come Creatore
(cf. Gen 1–2,4a), come Padre (cf. Es 4,22-23), come Madre (cf. Is 66,13), come Redentore
(cf. Is 63,16), come Re Pastore (cf. Sal 80,1), come Amico (cf. Gen 18,17) e, infine, anche
come Sposo.
Il primo ad applicare direttamente a Dio la metafora sponsale è stato il profeta Osea. Egli
aveva vissuto una drammatica esperienza coniugale: sua moglie lo aveva abbandonato per
darsi alla prostituzione e andare dietro ai Baal. Osea, tuttavia, riesce a ricondurla in casa,
recupera il suo amore attraverso un tempo di prova e la riabilita nella sua condizione di
moglie. Quindi, come profeta, rilegge la storia dell’Alleanza tra JHWH e il suo popolo
proprio alla luce di questa sua personale esperienza. La conclusione è stupenda: Dio non è
un padrone per Israele, ma un tenerissimo sposo, che si è legato con fedeltà eterna al suo
popolo ed è capace di redimere la sua sposa da qualunque condizione in cui sia caduta, per
restituirle l’originaria verginità dell’amore. Finalmente, con un cuore ormai rinnovato,
Israele potrà «conoscere il Signore» ed anche la terra risponderà con la ricchezza dei suoi
frutti a questa eterna festa di nozze (cf. Os 1–2).
I profeti successivi riprenderanno questo simbolismo nuziale. In Ger 2,2 il Signore, per
squarciare la durezza di cuore del suo popolo infedele, così grida alle orecchie di
Gerusalemme: «Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del
tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto…»; e in Ger 31,3 così aggiunge: «Ti ho
amato di amore eterno, per questo ti attiro a me con affetto [cf. trad. TOB]. Ti edificherò di
nuovo e tu sarai riedificata, vergine d’Israele». Con una lunga allegoria nuziale anche Ez 16
ripercorre tutta la storia d’Israele nelle sue diverse tappe: elezione, peccato, castigo, perdono
gratuito e insperato, che si traduce in un’alleanza eterna.
Ma è con il Libro della Consolazione di Israele (Is 40–55), nell’immediato post-esilio, e
con in Trito-Isaia, nel periodo successivo, che l’amore sponsale di JHWH per il suo popolo si
esprimerà con gli accenti più toccanti. In Is 54 Gerusalemme, dopo aver sperimentato
l’afflizione dell’abbandono, è invitata a esultare con grida di gioia per la nuova fecondità
che le è stata donata, perché suo sposo è il suo Creatore, le cui viscere di misericordia non
potevano dimenticarsi della donna sposata in gioventù. In Is 62 il Signore le dà un nome
1
Cf. GEMMA GALGANI, Gesù solo. Testi scelti a cura di Gabriele Pollice, Città Nuova, Roma 1978.
1
nuovo: «tu sarai chiamata Mio compiacimento e la tua terra Sposata, perché il Signore si
compiacerà di te e la tua terra avrà uno sposo… come gioisce lo sposo per la sposa, così il
tuo Dio gioirà per te».
Nell’AT, dunque, solo JHWH è lo Sposo d’Israele, grazie al legame di Alleanza stipulato
sul monte Sinai e inteso, nella sua intima essenza, come un contratto matrimoniale.
Se ora consideriamo la predicazione di Gesù, possiamo chiederci: questo profeta di
Galilea, nel suo annuncio del Regno, si è limitato a riproporre la metafora di Dio come
Sposo di Israele o ha suggerito anche qualcosa di più? Dall’insieme dei suoi detti, dei suoi
atteggiamenti e delle sue azioni, emerge chiaramente come Gesù sia ben consapevole di
rendere presente il Padre e il suo amore efficace per Israele nel suo stesso ministero
pubblico (cf. Gv 14,6-11). Egli, infatti, non è venuto solo per inaugurare quella visita
escatologica di JHWH tanto attesa, ma ancor di più per impersonarla. Facciamo solo alcuni
esempi.
In Lc 15,11-32, per rispondere ai suoi avversari che lo accusavano di accogliere i
peccatori e concedere loro gratuitamente il perdono, Gesù racconta la cosiddetta parabola
del figliol prodigo. Ma se qui i peccatori corrispondono al figlio minore e gli scribi e i
farisei al fratello maggiore, allora necessariamente Gesù rappresenta il Padre
misericordioso, e quindi Dio stesso2.
In Mt 23,37 Gesù si paragona a una gallina che vorrebbe tenacemente proteggere i figli di
Gerusalemme come pulcini sotto le sue ali. Di fatto, egli si sta identificando con lo stesso
JHWH, che in Is 31,5 applica a sé un paragone simile: «Come gli uccelli che svolazzano, così
il Signore degli eserciti proteggerà Gerusalemme; la proteggerà e la libererà, la risparmierà
e la salverà»3.
In Mc 2,19-20 Gesù, per giustificare il fatto che i suoi discepoli non praticano il digiuno,
dice che gli amici intimi dello sposo non possono digiunare finché lo Sposo è con loro. E,
sebbene né l’AT, né il giudaismo successivo abbiano mai utilizzato la metafora sponsale in
riferimento al Messia, ma solo a Dio, è evidente che ora lo Sposo è lui. Gesù, dunque, non
solo sperimenta in se stesso le viscere di misericordia paterne e materne di JHWH per tutti i
suoi figli, ma anche impersona il Dio d’Israele nel suo amore sponsale per il popolo
dell’Alleanza.
Ma fino a dove si è spinto quest’amore nuziale del Messia Gesù per Israele? La
testimonianza del NT è commossa e unanime: fino alla morte di croce!
I sinottici ce lo rivelano nei racconti della Passione, il cui autentico significato è spiegato
da Gesù stesso quando dona il suo corpo e il suo sangue nei gesti e nelle parole dell’Ultima
cena. Giovanni, che in 3,29 aveva già presentato Gesù come «lo Sposo», nella solenne
introduzione del Libro dell’ora ci dice con parole sublimi che «Gesù… avendo amato i suoi
che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1). Paolo, «conquistato da Gesù Cristo»
(Fil 3,12), lo conosce ormai come «colui che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal
2,20). L’autore di Ef 5,21-33, contemplando come «Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se
stesso per lei», ci indica un suggestivo circolo ermeneutico: da un lato la metafora nuziale è
una via maestra per comprendere il mistero di Cristo, sposo della Chiesa; dall’altro, le stesse
relazioni tra marito e moglie vengono profondamente illuminate e sostanziate dalla
reciprocità d’amore tra Cristo e la sua Chiesa.
2
3
Cf. V. FUSCO, Oltre la parabola. Introduzione alle parabole di Gesù, Borla Roma 2002, p. 161.
Cf. J. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, Paideia, Brescia 19732, p. 206.
2
Giungiamo così all’Apocalisse di Giovanni, un’opera che porta a pieno compimento
l’intera Rivelazione neotestamentaria, tanto che possiamo definirla il Libro della
Consolazione della Chiesa. Ebbene, come ha ben dimostrato Luca Pedroli, il rapporto tra
Cristo e la Chiesa, tra l’escatologia realizzata e quella futura, tra la dimensione teologica e
quella antropologica, viene efficacemente descritto dall’Apocalisse proprio attraverso un
suggestivo percorso che va dal fidanzamento alla nuzialità escatologica4.
Sin dal dialogo liturgico iniziale, infatti, Gesù è definito con un significativo participio
presente come l’amante della Chiesa: «colui che ci ama e ci ha sciolti dai nostri peccati col
suo sangue e ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre» (Ap 1,3). Il
riferimento a Es 19,6 suggerisce che ora è Gesù lo Sposo della Chiesa, grazie alla sua morte
di croce, come JHWH lo è stato per Israele, grazie all’Alleanza sinaitica. Ci dice, inoltre, che
Cristo vuole trasmettere alla sua Chiesa quella dignità sacerdotale e regale che gli è propria
e che si riflette nel suo stesso abito nuziale (cf. Ap 1,13), al fine di poterla presentare
perfetta e splendida al suo Dio e Padre.
Tutto ciò avverrà in pienezza solo quando sarà giunto il tempo delle nozze: allora anche
la Chiesa avrà il suo abito nuziale, come dono di Dio e come frutto delle opere giuste dei
santi (cf. Ap 19,7-8) e sarà finalmente la Sposa (hē gunē) dell’Agnello, avendo ormai
raggiunto una capacità d’amare corrispondente a quella di Cristo Sposo. È quanto viene
descritto nei capitoli 21 e 22 con l’immagine della nuova Gerusalemme. Prima di questa
piena nuzialità, tuttavia, il suo statuto é ancora quello di númphē (= fidanzata: cf. Ap 22,17).
In altre parole, la sua condizione è in qualche modo simile alla fase intermedia del
matrimonio ebraico: stipulato il contratto matrimoniale la donna era già giuridicamente
sposa, ma rimaneva ancora nella sua casa circa un anno per prepararsi adeguatamente alle
nozze. Trascorso questo periodo, lo Sposo accoglieva festosamente la donna nella sua tenda
ed ella diventava a tutti gli effetti la sua Sposa.5. Così Giovanni interpreta il tempo che
intercorre tra la risurrezione di Gesù e la sua ultima venuta.
Ma intanto Cristo che cosa fa? Potremmo dire che il Risorto non si accontenta di
attendere che la fidanzata sia pronta: ancor più di lei, è impaziente di unirsi pienamente alla
sua Sposa; per questo assume anche il ruolo di ninfagogo, cioè di colui che nell’antichità
curava la preparazione della sposa per il giorno delle nozze e la conduceva allo sposo. Già
Ef 5,25-27 ci descrive Gesù così: «Cristo ha amato la Chiesa e ha consegnato se stesso per
lei, per santificarla, dopo averla purificata col lavacro dell’acqua nella parola, al fine di
presentare lui stesso la Chiesa davanti a sé gloriosa, senza macchia o ruga o qualcosa di
simile, ma perché sia santa e irreprensibile».
In modo simile, nelle lettere alle sette Chiese (Ap 2–3) è Gesù Risorto che prende
l’iniziativa: si presenta, dimostra di conoscere in profondità ciascuna di esse, mettendo a
nudo il loro vissuto ecclesiale, parla loro per esortarle, rimproverarle o incoraggiarle, chiede
di essere accolto e ascoltato e infine apre il loro cuore alla speranza, promettendo quella
gioia piena che si compirà solo al tempo delle nozze. In questo modo Gesù purifica la sua
Chiesa e la fa progredire fino a raggiungere il massimo livello dell’amore sponsale. Ugo
Vanni ha intravisto in queste lettere il genere letterario proprio degli innamorati, fatto
4
Cf. L. PEDROLI, Dal fidanzamento alla nuzialità escatologica. La dimensione antropologica del rapporto tra
Cristo e la Chiesa nell’Apocalisse, Cittadella Editrice, Assisi 2007.
5
La descrizione della nuova Gerusalemme come una tenda, nella quale i popoli entreranno per vivere l’Alleanza con
Dio, si collega a questo simbolismo nuziale, ma ormai definitivamente allargato fino ad abbracciare l’intera umanità (cf.
Ap 21,3).
3
persino di rimproveri veementi, ma sempre finalizzati a ricondurre la fidanzata alla
freschezza del suo primo amore (cf. Ap 2,4; 3,15-19).
I capitoli successivi, infine, ci descrivono in un modo simbolico e suggestivo il cammino
di preparazione che la Chiesa è chiamata a percorrere nella storia, per imparare ad amare,
seguendo l’Agnello immolato dovunque va (cf. Ap 14,4), rendendogli testimonianza tra gli
abitanti della terra e conformandosi pienamente a lui, fino al tempo delle nozze
escatologiche.
Ebbene, la Chiesa dell’Apocalisse oggi siamo noi: come dobbiamo vivere dunque questo
tempo di fervida attesa? Riprendendo le parole di Santa Gemma, vorrei suggerire solo tre
punti:
1. Riconoscendo di essere un frutto della sua passione, un germoglio delle sue piaghe.
La Chiesa, infatti, è stata generata dal costato trafitto di Gesù in modo simile ad Eva,
plasmata da una costola di Adamo (cf. Gv 19,34 e Gen 2,21-22). Il cuore di Gesù è l’umile
grembo da cui tutti noi siamo nati, è la mite sorgente da cui attingiamo sempre vita nuova,
se continuiamo a fissare i nostri occhi su di lui, per scrutare le profondità del suo amore (cf.
Mt 11,29 e Ef 3,18-19).
2. Offrendoci a Gesù, nostro sposo, totalmente e senza riserve (eccomi a te). Come il
matrimonio umano non può avvenire senza una reciproca e piena accoglienza dei coniugi
nel dono di sé, così la Chiesa e ciascuno di noi non può raggiungere il livello dell’amore
sponsale con Cristo, finché non gli diciamo, molto più profondamente delle tribù d’Israele
al Messia Davide: «Eccoci, siamo tue ossa e tua carne» (2Sam 5,1; cf. Ef 5,30).
3. Conformandoci sempre più a Lui, che ha salvato il mondo col suo amore crocifisso
quale vittima di espiazione per i nostri peccati (cf. 1Gv 2,2). Alla chiesa di Smirne Gesù
dice: «Diventa fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita» (Ap 2,10). La Sposa di
Cristo, infatti, è chiamata a testimoniare la Parola di Dio nel mondo anche quando tale
testimonianza diventa «martirio». Ma ella sa che questa conformazione alla morte di Gesù
la farà diventare pienamente conforme anche al suo corpo glorioso, quando, a mezzanotte, si
leverà il grido: «Ecco lo sposo: uscite incontro a lui» (cf. Fil 3,10.21 e Mt 25,6).
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